INSIDEART
TRIMESTRALE/ANNO 10 / # 95 EURO 8
ANNALÙ MICHELA BERNASCONI NICOLA COSTANTINO PIERPAOLO FERRARI THE FRAMERS ZHANG HUAN AGOSTINO IACURCI JACOPO MANDICH MOIO & SIVELLI PIETRO NICOLAUCICH LEONARDO PERUGINI IMRAN QURESHI LAURA STANCANELLI
Poste italiane spa spedizione in a.p. 70% Roma
GUIDO TALARICO EDITORE
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# 95
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SICUT ERAT IN PRINCIPIO ET SEMPER di GUIDO TALARICO
Maurizio Cat telan. Le ggo nelle prime righe della sua bi ografia su W ikipedia: “Con Paola Manfr in e Dominique Gonz a le z - F o e r s t e r e d i t a la r i v i s t a P e r ma n e nt fo o d e , c o n Massimiliano Gioni e Ali Subtonick la r ivista d’arte Char ley. C o ll a b o r a s a lt u a r i a m e n t e co n l a r i v i s t a d ’ a r t e c o n t e m p o r a n e a F l a s h A r t . N e l s e t t e mb r e 2 0 10 h a i d e a t o c o l f o t o g r a f o P i e r p a o l o F e r r a r i u n a lt r o p r o g e t t o e d i t o r i a le T o i l e t P a p er” . Pensavo fosse un artista (pensionato ma pur sempre un artista) invece, a leggere la celebre enciclopedia online, scopro che è un giornalista. Abbiamo dedicato la copertina a Cattelan e un ampio servizio al suo amico fotografo di moda Pierpaolo Ferrari proprio a voler sottolineare due elementi che sembrano diventati una costante nell’arte, nella comunicazione, nella società: il valore delle immagini e la ricerca della doppiezza. Piacciono le immagini, siano esse foto, video o performance, per la loro forza, per la loro immediatezza, per la loro facilità. Ma poi per elevarle bisogna renderle indefinite. La sublimazione dello stato di confine come motivo d’attrazione intellettuale. L’allusione che soppianta la definizione. La filosofia del paso doble. Ti colpisco facendoti vedere una cosa, ma ne decomprimo il significato per lasciarti maggiore libertà d’analisi. Essere quello che non siamo, vedere quello che non è. Giochi vecchi come il cucco, ma declinati secondo linguaggi e gusti contemporanei. Una sperimentazione continua, legittima, affascinante foriera di rare eccellenze e di molte mediocrità. “Sicut erat in principio, nuc et semper”. Ecco perché tocca saper guardare bene prima di recitare Gloria al Padre.
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Editore e direttore Guido Talarico (direttore@guidotalaricoeditore.it) Caporedattore Maurizio Zuccari (m.zuccari@insideitalia.it) Redazione Francesco Angelucci, Giorgia Bernoni Fabrizia Carabelli, Alessandro Caruso, Sophie Cnapelynck, Monica Matera, Maria Luisa Prete, (redazione@insideitalia.it) Progetto grafico Gaia Toscano (grafica@insideitalia.it) Grafica Giuseppe Marino (grafica2@insideitalia.it) Foto & service La presse/Ap, Manuela Giusto, T&P Editori, Millenaria
IMAGO ORBIS 10
JOSÉ CUEVAS, IL FASCINO DEL MEDIO di Francesco Angelucci
INSIDER 12
ANNALÙ, ARCHITETTURE LIQUIDE E DI PASSO
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NICOLA COSTANTINO: UNA, NESSUNA, CENTOMILA di Fabrizia Carabelli
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ZHANG HUAN, SPIRITUALITÀ FATTA MATERIA di Olivia Turchi
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MOIO & SIVELLI, DOPPIO ATTACCO ALLA VISIONE di Chiara Pirozzi
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PAESAGGI INASPETTATI di Alessandro Demma
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IMRAN QURESHI, LA BELLEZZA DEI SENTIMENTI
di Maurizio Zuccari
di Sara Rella
OUTSIDER
Product Manager Carlo Taurelli Salimbeni (c.t.salimbeni@guidotalaricoeditore.it)
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MICHELA BERNASCONI, UNO SCATTO SUL BIANCO di Maria Luisa Prete
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AGOSTINO IACURCI, SULLA TELA DEGLI SPAZI URBANI
Marketing & pubblicità Raffaella Stracqualursi (marketing@guidotalaricoeditore.it) Elena Pagnotta (partner@guidotalaricoeditore.it)
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JACOPO MANDICH, L’ANIMA DEL MONDO IN UN CEPPO DI LEGNO
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LAURA STANCANELLI, CONFESSIONI SONORE IN CALCE E CEMENTO di Alberto Fiz
Amministrazione Alessandro Romanelli (amministrazione@guidotalaricoeditore.it) I nostri recapiti via Antonio Vivaldi 9, 00199 Roma Tel. 0039 06 8080099, 06 99700377 Fax 0039 06 99700312 www.insideart.eu (segreteria@guidotalaricoeditore.it) Stampa Gescom spa, Viterbo
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IL DRAGO GHIGNA MA È SOLTANTO UN PUNTO DEBOLE di Leonardo Perugini
EVENTI 82 84 86 88
Distribuzione libreria Joo Distrubuzione, Via F. Argelati, 35 - 20143 Milano
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Inside Art, Reg. Stampa Trib. Cz n. 152 del 23/03/04, è una testata edita da Editoriale Dets srl (amministratore unico Guido Talarico). Direttore responsabile e trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano esclusivamente i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati.
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LA DECIMA SFIDA DI ARTELIBRO parla Ricardo Franco Levi di Davide Sollaschi QUANDO L’ARTE GIRA SU DISCO di Giorgio Maffei SENTI COME DIPINGO di Francesco Angelucci WALTER CHAPPELL, LE IMMAGINI DI UN HIPPIE di Filippo Maggia PHOTOQUAI, UNIVERSI UMANI LUNGO LA SENNA di Frank Kalero SALONICCO, ALBA MEDITERRANEA colloquio con Adelina von Furstenberg di Maria L. Bixio
CARTELLONE 100
LE MOSTRE IN ITALIA E ALL’ESTERO
di Monica Matera
ARGOMENTI 106 108 110
Hanno collaborato Deianira Amico, Maria Letizia Bixio, Alessia Carlino, Alessandro Demma, Alberto Fiz, Flaminio Gualdoni, Giorgio Maffei, Filippo Maggia, Ornella Mazzola, Luca Montuori, Leonardo Perugini, Chiara Pirozzi, Sara Rella, Domenico Scudero, Olivia Turchi
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In copertina: Pierpaolo Ferrari Ritratto di Maurizio Cattelan, 2007
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AVANGUARDIE INFINITE DELL’OVEST SFINITO di Maurizio Zuccari UN LENINISMO IN SALSA BORGHESE di Flaminio Gualdoni IPERPOSTMODERN.2: L’ETERNITÀ È UN CLIC di Domenico Scudero LA MODERNITÀ DELLA PREISTORIA di John Bowlt, Nicoletta Misler, Evgenia Petrova UNA FIN DE SIÈCLE COME NUOVA ERA di Vivien Greene
PERSONAGGI 124
PIERPAOLO FERRARI, IL COMUNICATORE CREATIVO di Deianira Amico LUCIANO BENETTON, COLLEZIONE DA TOUR di Ornella Mazzola
A destra:
Pietro Nicolaucich Balene, 2012 Numero chiuso in redazione il 31.7.2013
ci trovi nei bookshop dei musei, negli spazi d’arte e nelle migliori edicole e librerie di tutta Italia www.insideart.eu oltre 10mila liker seguici su
di M. Zuccari
PORTFOLIO
Distribuzione edicola Reds scarl, Via Bastioni Michelangelo, 5A 00192 Roma - Tel. 06-39745482
Abbonamenti Il costo per 4 numeri è di 32 euro mentre per l’edizione online è di 11 euro e può essere sottoscritto in qualsiasi momento dell’anno. Il costo dei numeri arretrati è di 18 euro. Per informazioni: abbonamenti@guidotalaricoeditore.it
di Alessia Carlino
SPAZI 128
MUSA, I SENTIERI DEL MARMO
di Alessandro Caruso
ARCHITETTURA & DESIGN 132 138
FRAC, TURBOLENZE FRANCESI di Monica Matera NUOVI SGUARDI SULLA CITTÀ di Luca Montuori
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NUVOLE & PAROLE 142
PIETRO NICOLAUCICH CHINA E ACQUERELLO IN BOLLE DI SAPONE di Francesco Angelucci
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IL FASCINO DEL MEDIO José Cuevas a Torino L’uomo medio è un tipo di essere umano fatto di corsa senza stare a guardare i puntini sulle i. José Luis Cuevas è un fotografo a cui non va giù che possiamo essere tutti uguali. Cuevas sa che dove si spacca la maglia dell’omologazione si spalanca l’unicità. Insomma, è uno di quelli che per mestiere guarda i puntini sulle i. Prende la macchinetta, un telo nero come sfondo e scende per le strade del Messico. «Ah, como en la polìcia» gli dicono i personaggi quando chiede di mettersi in posa di profilo. Lui non risponde e sotto al solleone cerca di arrivare ai minimi termini di paragone, di giungere all’unicità. La foto allora è il risultato di una lotta che non accetta rese o accordi ma contano solo i morti o i vivi sul campo. L’uomo medio o el hombre promedio, come direbbe Cuevas, esiste ma la speranza è tutta in quella cravatta: è una questione di particolari, di puntini che saltano. L’astro nascente della fotografia latinoamericana è in mostra dal 2 ottobre al 10 novembre a Torino nello spazio We made for love. In esposizione due progetti: Nueva era e La apestosa. Info: www.wemadeforlove.com; www.joseluiscuevas.net (Francesco Angelucci)
Sopra: José Luis Cuevas Encapuchado, s. d. dalla serie Nueva era A destra: s. t., s. d. della serie El hombre promedio
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a cura di MONICA MATERA
GENOVA Edvard Munch Edvard Munch è il titolo della mostra ospitata all’interno delle sale del Palazzo ducale di Genova dal 4 ottobre al 2 marzo 2014. Un’importante retrospettiva curata da Marc Restellini per festeggiare il 150esimo anniversario della nascita del grande artista norvegese. Un percorso espositivo che con oltre 120 opere attraversa l’evoluzione artistica di Munch, testimoniando il passaggio dal naturalismo di stampo impressionistico a una pittura nuova e audace che contribuisce in maniera determinante a sconvolgere tutta l’arte del XX secolo. In anteprima assoluta per l’Europa, Warhol after Munch, una mostra nella mostra, una serie di opere realizzate da Andy Warhol e ispirate alla produzione dell’artista norvegese. Info: www.palazzoducale.genova.it
LISBONA Close closer Dal 12 settembre al 15 dicembre arriva la terza edizione della triennale di architettura di Lisbona diretta da Beatrice Galilee. Close, Closer è un’occasione per approfondire in maniera critica la pluralità della pratica spaziale contemporanea. José Esparza, Mariana Pestana e Liam Young sono i tre curatori della triennale che presenta un programma di eventi e mostre per pensare l’architettura come campo allargato dove oltre ai professionisti, anche artisti, scienziati, sociologi, antropologi e disegnatori sono chiamati ad intervenire. (Nella foto in alto, Bart Hess). Info: www.trienaldelisboa.com
TORINO Soft pictures Alighiero Boetti, Mike Kelley, Goshka Macuga (nella foto in alto) e Francesco Vezzoli sono tra gli artisti internazionali che compaiono nella collettiva Soft Pictures curata da Irene Calderoni dal 22 ottobre al 23 marzo 2014 alla fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Tema della mostra l’uso del tessuto nell’arte contemporanea, materiale dalle molteplici valenze storiche, politiche e sociali ripreso per creare immagini simboliche. Nell’era digitale, la scelta del tessuto e delle antiche tecniche diviene un gesto forte per riflettere sui concetti di tradizione, memoria e folklore, ricchezze di un’intera cultura. Info: www.fsrr.org
ROVERETO Antonello da Messina NEW YORK A queer history of fashion Al museo dell’Istituto tecnologico della moda di New York, A queer history of fashion, la prima mostra museale dedicata allo storia della moda queer: una rassegna per indagare l’enorme contribuito dato dalla Lgbtq (lesbico-gay-bisessuale-transgender-queer). Dal 13 settembre al 4 gennaio 2014, l’esposizione curata Fred Dennis e Valerie Steele, presenta 100 modelli per un arco temporale che dalla sottocultura gay emergente del XVIII secolo arriva all’alta moda del XXI secolo. Info: www. fitnyc .edu
Nuovi percorsi di interpretazione critica per la mostra dedicata al grande pittore del ‘400 curata da Ferdinando Bologna e Federico De Melis. Antonella da Messina, dal 5 ottobre al 12 gennaio 2014 al Mart di Rovereto, si caratterizza per l’eccezionalità delle opere esposte tra le quali Ritratto d’uomo, Salvator Mundi e Madonna Benson e per l’inedita ampiezza cronologica dei confronti con i maestri a lui contemporanei. Un’occasione per indagare nel dettaglio l’interprete di quell’incontro-scontro creativo tra civiltà fiamminga e italiana. Info: www.m art.tn. it
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MILANO Pollock e gli irascibili Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning (in foto) e Franz Kline arrivano al palazzo Reale di Milano dal 24 settembre al 16 febbraio 2014 con Pollock e gli irascibili. Straordinaria la presenza di Number 27 di Pollock che spicca tra le oltre 60 opere curate da Carter Foster in collaborazione con Luca Beatrice. Questi 18 artisti detti gli irascibili, per aver protestato contro il Metropolitan museum of art di New York, sono i protagonisti di un’esposizione che racconta di sperimentazione e rottura col passato attraverso tele che diventano campo di libertà e azione individuale. Info: www.comune.milano.it/palazzoreale
ROMA Tutte le strade portano a Roma
ISTANBUL Kalliopi Lemos Io sono io, tra i mondi e tra le ombre. La personale dell’artista greca Kalliopi Lemos curata da Beral Madra nasce in parallelo alle 13esima Biennnale di Istanbul. Un’istallazione composta da sette sculture metà donna metà animale a rappresentare le molteplici difficoltà che le donne di tutto il mondo sono costrette ad affrontare. Metafore della solitudine dopo la violazione, invitano a riflettere sulle ingiustizie che il mondo femminile subisce ancora oggi. La mostra, ospitata dall’11 settembre al 10 novembre nel liceo femminile Balat Ioakimion, presenta anche un’istallazione sonora creata per evocare l’atmosfera scolastica. Info: www.kalliopilemos.com
Dal 20 ottobre al 24 novembre il Museo nazionale d’arte orientale Giuseppe Tucci di Roma ospita, nella cornice di palazzo Brancaccio, la mostra Tutte le strade portano a Roma. Con questa esposizione, curata da Li Xiangyang (in alto una delle sue opere), Zhou Zhiwei, Maria Luisa Giorni e Roberto Ciarla, l’Istituto di scultura e pittura a olio di Shanghai raggiunge per la prima volta l’Italia come tappa iniziale del tour europeo. Venti artisti contemporanei cinesi a confronto con le collezioni archeologiche e di arti asiatiche del museo romano per un dialogo tra Oriente e Occidente, arte antica e arte contemporanea. Info: www.museorientale.beniculturali.it
REGGIO EMILIA L’enigma di Escher Dal 19 ottobre al 23 febbraio 2014, palazzo Magnani di Reggio Emilia presenta L’enigma di Escher , dedicata a Maurits Cornelis Escher, genio del ‘900. Incisioni, disegni, documenti, filmati, interviste per raccontare mondi impossibili e ricerche sullo spazio reale e virtuale approdati a capolavori come Tre sfere I (1945), Mani che disegnano (1948), Relatività (1953), Convesso e concavo (1955) e Nastro di Möbius II (1963). Un ciclo di conferenze e un’antologica di 130 opere che confrontano Escher con altri grandi autori curata da un comitato scientifico coordinato da Piergiorgio Odifreddi. Info: www.palazzomagnani.it
LONDRA Australia Il legame profondo con il paesaggio traspare dalle oltre 200 opere ( nella foto in alto Sidney Nolan) di Australia, la rassegna d’arte australiana che la Royal Academy of art di Londra presenta dal 21 settembre all’8 dicembre. Dalle più insigni collezioni pubbliche australiane: dipinti, disegni, fotografie, acquerelli e opere multimediali, molte delle quali mai viste in Europa, in un excursus che dal 1800 arriva ai nostri giorni. La mostra è curata da Kathleen Soriano, Ron Radford e Anne Gray. Info: www.royalacademy.org.uk
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ARCHITETTURE LIQUIDEEDIPASSO Sono quelle a cui dà vita Annalù Dalla casa della nonna in riva al Piave, dove abita, racconta di sé e delle metamorfosi a cui dà vita con le sue creazioni, impasto di elementi primari: acqua, terra, fuoco e aria. Figure di vento e sabbia, come me, dice alla vigilia di grandi mostre in Italia e in Cina
di MAURIZIO ZUCCARI
F
Annalù, Sedna, 2011 Le foto del servizio se non diversamente specificato sono di Matteo Boem
orme di vento e cenere. Architetture di foglie e farfalle. Metamorfosi impasto di resina, d’aria. È questo a cui dà vita Annalù, nome d’arte di Annaluigia Boeretto. D’acqua, pure, di pianura o d’altrove poco importa, per lei che, nipote d’una barcarola del Piave, abita la casa della nonna paterna sul grande fiume. Portatore di storie, di memorie (come l’acqua in sé, direbbero taluni) che Annalù traduce in un’idea di bellezza, eleganza e leggerezza capace d’allumare questo tempo di bujori. Natura, magia di cose che fluttuano, mutano, rilucono. Abbagliano come l’onda che scorre lenta in un giorno di buona verso il mare da cui è attratta, come la donna che si racconta lungo le rive “dea Piave”, al femminile, pure lei. «Sono una donna di mare, lo sono sempre stata. Ogni tanto mi sogno con una piccola barca di carta, con remi di vetro e una improbabile vela di radici e foglie intrecciate. La casa che ho restaurato piano piano negli anni risale ai primi del ‘900; inizialmente in legno, è stata ricostruita negli anni ‘50 ma la struttura palafittata è quella di allora. Era della mia nonna paterna, Anna, e di mio padre. Lei era una traghettatrice. Custodiva
il Passo di Passarella traghettando la gente da una sponda all’altra, di giorno e di notte. Un lavoro duro, fatto solo con i remi. Testimone di vicissitudini grandi e piccole sviluppate lungo il suo corso, storie di vite e di morti per sbadataggine o disperazione. Storie non troppo lontane se si ha il tempo di ricordarle e trascriverle. Ci sono dei racconti pazzeschi che ho conservato e catalogato in un libro che raccoglie le interviste a mia nonna e mio padre. Racconti straordinari del tempo di guerra, quando nonna nascondeva i partigiani nella barca e li trasportava da una sponda all’altra; racconti paurosi quando usciva di notte per fermare i ladri di barche e li spaventava con un fucile di legno costruito da lei, tanto – diceva – al buio non si vedeva se era vero o finto; racconti divertenti di chiacchiere e risate durante i bagni nel fiume. Da sempre la mia famiglia combatte con le maree, i problemi delle frane dell’argine diventano sempre più seri e difficili da gestire ma nonostante le fatiche amo profondamente questo luogo di memorie, di respiri e di profumi: per me è una fonte di ispirazione continua e nonostante sia spesso in giro e riconosca come casa molti luoghi, ha un valore speciale».
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ANNALÙ ASSEMBLA A VOLTE MATERIALI STRANI, APPARENTEMENTE INCONGRUENTI, CHE NON VORREBBERO PROPRIO SAPERNE DI STARE INSIEME. OSSIMORO DI MATERIALI. RESINE, CORTECCE. LANA DI VETRO. STRANI INCONTRI. FORME BIZZARRE. ARCHITETTURE DELL’IMMAGINARIO ALESSANDRO RIVA
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L’ARTISTA
ANNALÙ
1976 Annalù (Annaluigia Boeretto) nasce a San Donà di Piave (Venezia), dove vive e lavora, il 4 gennaio
HO SEMPRE AMATO PIÙ IL VUOTO CHE IL PIENO. QUESTO È STATO IL COLLANTE COMUNE NEL CORSO DEGLI ANNI NEL MIO LAVORO: I MIEI MONDI SI SMATERIALIZZANO IN UNIVERSI IMMATERIALI E LEGGERI, IN IMPRONTE E MEMORIE
1999 Partecipa a Percorsi d’arte alla Gam di Bologna, dopo l’accademia di Belle arti a Venezia
2001 Prima presenza alla Biennale di Venezia, dove torna nel 2011 nell’ambito della kermesse per il 150° anniversario dell’unità d’talia, a cura di Vittorio Sgarbi, a Villa Contarini (Pd)
2008 Vince il premio Stonefly Cammina con l’arte e quattro premi speciali per la scultura ad Arte laguna
2013
Architetture dell’immaginario, ha definito le tue opere un critico. Raccontaci queste metamorfosi, impasto di molte cose. «Sono una visionaria. Ho sempre avuto grande difficoltà a identificarmi all’interno di una categoria: mi considero prevalentemente una scultrice ma amo e utilizzo il colore, il disegno-progetto e sconfino nel design e nella performance. Credo nel linguaggio che crea nuove forme mediante una simbiosi forte tra tecnica e contenuto. Da bambina costruivo architetture immaginarie con bastoncini, foglie, sassi e cercavo i “mattoni” più assurdi per le mie tante case. Poi mi facevo piccola piccola e immaginavo di entrare dentro le mie costruzioni ed inventavo un sacco di storie. Da grande ho continuato a fare cosi: la stessa serietà che mettevo da bambina la metto ora in queste nuove composizioni e costruzioni tridimensionali. La stessa gioia nel fare che avevo allora esiste tutt’ora nel mio lavoro. Quanto più riesco a giocare intensamente tanto più il lavoro funziona. Poesia, memoria, preziosa architettura dell’immaginario; tutto questo nella mia parola chiave: rêverie. Fan-
tasticheria, immaginazione, abbandono al flusso del sogno a occhi aperti che prescinde dal caos, elude la realtà, fugge la folla e nell’assolo creativo si sublima dal nulla in una realtà di forme, come fosse a contatto con la pietra filosofale. Procedo in questo modo, semplicemente, cercando di creare nuove forme e spostare almeno il mio confine del noto dentro l’ignoto, attraverso i contenuti. Il concetto di metamorfosi è un’altra costante nel mio lavoro e come hai notato è un impasto di molte cose. M’interessa il momento del passaggio tra uno stato e l’altro, fra realtà differenti, con un atteggiamento molto vicino alla scienza alchemica. È il momento di transizione che mi interessa, è proprio quel momento che cerco di bloccare nel tempo e nello spazio attraverso la resina, creando quello che chiamo equilibrio dinamico. L’operazione che svolgo non è così lontana dalle alchemiche stregonerie o dalla trasmutazione di una materia in un’altra. I miei “splash d’acqua”, le mie architetture liquide, le farfalle bruciate dentro la resina raccontano un tempo espanso in cui la forma ha il valore di un mandala.
Dopo Arte fiera a Bologna, chiude l’anno con due esposizioni in Cina: a settembre alla Red Elation Gallery di Hong Kong e a dicembre al Museo di arte contemporanea di Canton
In alto: Annalù abbracciata all’opera Su Nar, 2007 foto dell’artista A sinistra: Libro Selene, 2013
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PERSONALI 2013 Omnis ars naturae imitatio est Galleria Gagliardi, San Gimignano (Siena) a cura di Stefano Gagliardi 2012 De rerum natura Galleria Gagliardi, San Gimignano (Siena) a cura di Isabella Del Guerra Come la nave galleggia sull’acqua così la terra Castellano arte contemporanea Castelfranco Veneto, a cura di Carolina Lio Taking flight Flagship store, San Francisco a cura di Jon Leafstead Annalù Laber showroom, Pesaro a cura di Daniela Del Moro 2011 Le voyage imaginaire Wannabee Gallery, Milano, a cura di Ivan Quaroni Incontro Open space Lavinia Turra show room, Milano 2010 Rêverie Galleria Forni, Bologna, a cura di Daniela Del Moro L’historie de l’eau Zaion Gallery, Biella, a cura di Alessandro Riva Il filo del pensiero: l’arte sotto il segno della bellezza Palazzo del governo, Siracusa a cura di Daniela Del Moro Aqua Wannabee Gallery, Milano, a cura di A. Riva Aqua Gaming Hall, Jesolo (Ve), a cura di Alessandro Riva Annalù Boeretto Chris Trueman – Hogan Brown, Dac Gallery Los Angeles, a cura di Samir Chala Annalù Bontempi Design showroom Los Angeles, a cura di Samir Chala 2009 Considera desidera Chiesa di San Salvador, Venezia a cura di Gallerie Melori & Rosenberg Tracce a alate Spazio Juliet, Casier (Treviso) a cura di Boris Brollo
ANNALÙ APPARTIENE A QUEL GENERE DI ARTISTI PER I QUALI IL DOMINIO DELLA MATERIA, DELLA CHIMICA, DELLE SOSTANZE FISICHE, È PARTE INTEGRANTE DI UN PIÙ AMPIO PROCESSO DI ESPLORAZIONE, CHE COINVOLGE CERTAMENTE L’ARTE, MA ANCHE LE DIMENSIONI PIÙ IMPALPABILI DELLO SPIRITO. NON È, QUINDI, UN’ARTISTA DI MIMESI, DI RICALCO, MA PIUTTOSTO UNA DISCEPOLA DELLA METAMORFOSI, INTENTA A PENETRARE I MISTERI DELLA CREAZIONE IVAN QUARONI
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Oricalco, 2013
Opere Annalù Modern Living, Los Angeles a cura di Samir Chala Fluttuazioni Galleria Forni, Ragusa a cura di Paola Forni 2008 Blooming on the loom Spazio Revel quartiere Isola, Milano a cura di Wannabee Gallery e Arte pensiero Sui passi alati di Hermes Zaion Gallery, Biella, a cura di Igor Zanti Tales from flying oceans Venice design art gallery San Samuele, Venezia a cura di Daniele Sorrentino Phada Murgania: ascension Ex chiesetta di Sant’Antonio, Treviso a cura di Carlo Sala 2007 Sky the limit Galleria Polin, Treviso, a cura di Carlo Sala Atmosphere Galleria civica comunale, San Donà di Piave (Venezia), a cura di Daniela Del Moro 2006 Hyperballad Venice design art gallery San Samuele, Venezia a cura di Daniele Sorrentino 2005 Architetture dell’immaginario Paparazzi Art Gallery, Fabbrica Eos, Milano a cura di Lucia Majer
NELLE OPERE DI ANNALÙ È SEMPRE PRESENTE UN SENSO DI PASSAGGIO, DI EVOLUZIONE, UNA SORTA DI VIAGGIO FRA STATI DIVERSI, FRA REALTÀ DIFFERENTI, UNO SPIRITO DI RICERCA CHE CONDIVIDE ALCUNI ASPETTI TIPICI DELLA SCIENZA ALCHEMICA. IL LAVORO DI ANNALÙ SI PONE IN QUELL’ISTANTE DI TRANSIZIONE FRA PITTURA E SCULTURA, IN UN TERRENO IBRIDO CHE PERÒ CONCEDE ALL’ARTISTA DI SPERIMENTARE DIFFERENTI POSSIBILITÀ ESPRESSIVE IGOR ZANTI
I can fly Galleria Radar, Venezia Mestre a cura di Lucia Majer 1999 L’Immagine della parola Galleria Round midnight, Venezia a cura di Lucia Majer
QUOTAZIONI da 500 a 20mila euro
GALLERIE Galleria Gagliardi, San Gimignano (Siena) www.galleriagagliardi.com Galleria Forni, Bologna www.galleriaforni.com Red Elation Gallery, Hong Kong www.redelation.com
SITO www.annaluboeretto.com
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Sestante, 2013 Nella pagina a fianco: Black fluid, 2007 A pagina 20: Codex, Liquor vitae, 2013 (particolare)
Ho quindi una percezione del tempo molto dilatata, perché nei miei tanti tentativi di fermare nella resina il suo scorrere cerco di porre l’attenzione fra ciò che è e ciò che non potrebbe essere: una foglia può non morire se cristallizzata nella sua forma. In questo senso il tempo diventa memoria all’interno del lavoro. C’è poi la questione della leggerezza che va molto oltre l’utilizzo di simboli come la farfalla. Come dice Alda Merini: “Pensate che da un’umile farfalla può uscire un angelo fiorito. È questo che vi sfugge: l’anima e l’attimo della creazione”. Ho sempre amato più il vuoto che il pieno. Questo è sempre stato il collante comune nel corso degli anni all’interno del mio lavoro: i miei mondi si smaterializzano in universi immateriali e leggeri, in impronte e memorie». Cosa ti comunicano i diversi elementi e cosa vuoi dire con essi, con la loro fusione? «Evocare e utilizzare gli elementi naturali è come usare i mattoni per costruire un’architettura: per me è naturale farlo. Il mio vuole essere un lavoro intensamente lirico ed evocativo. Come dicevo, le mie creazioni sono forme metamorfiche, architetture immaginarie realizzate mediante l’assemblaggio e l’alchimia di resine sintetiche, carte e materiali sottratti alla natura come cortecce e radici. Utilizzo in prevalenza la vetroresina, da sempre per me la sfida è stata quella di combinare una materia così poco emozionale con un linguaggio espressivo che vuole essere pregno di meraviglia, freschezza e poesia. Ogni opera è il capitolo di una storia,
una finestra su mondi nascosti. Osservo. Ascolto. Rifletto. Rielaboro. Ogni materiale corrisponde a un messaggio preciso. È cosi che l’opera diventa il non luogo che crea cattedrali d’acqua come in Valdrada, del 2010; il non oceano di sottovesti-meduse in Meduse, 2004-2010; esoteriche spirali di farfalle nelle opere sul mondo delle farfalle-anima che si sgretolano in metamorfosi; un limbo che genera libri di ghiaccio nei libri d’artista del 2010-2013 e giochi d’infanzia. Sempre sotto l’egida dei quattro elementi naturali: acqua, fuoco, terra e aria. Utilizzo la resina come fosse acqua, la cenere per parlare del fuoco e delle combustioni, i cementi, le radici, le cortecce per parlare della terra, e uso simboli della leggerezza come farfalle, pinne, piume, per raccontare l’aria e il respiro delle cose. Fondere insieme gli elementi significa diventare demiurgo di mondi altri». I tuoi lavori sono carichi di riferimenti alla letteratura, alla poesia. Che relazione vedi tra queste e la scultura, le arti in genere? «M’interesso al mondo antico perché ci sono miti e cosmologie da riscoprire, così come saggezze da ritrovare. Sono un’anima inquieta: amo lo studio, la profondità, la storia e la filosofia ma soprattutto mi piace confrontarmi con il passato in modo riflessivo. Ogni volta che m’imbatto nelle leggende di mondi passati il lavoro scatta perché immediatamente nella mia mente si scatenano una serie di link visivi, associazioni di idee che sono linfa per l’opera. A
volte invece avviene il contrario: scopro che un mio lavoro potrebbe essere associato a poesie che leggo successivamente. Allora collego le due cose, le faccio vibrare insieme perché si esaltino a vicenda. E così avviene. Per me il legame tra letteratura, poesia e scultura è lo stesso che esiste tra forma e contenuto. Fondamentali entrambi». La figura umana nei tuoi lavori, soprattutto recenti, è praticamente assente. Come mai? «Non parlo della carne, parlo di respiri. Non racconto della carne ma della spiritualità. Questo è il motivo fondamentale. In un momento in cui l’uso del corpo è abusato, il mio lavoro può sembrare fuori dal tempo… Ma io voglio il cuore del tempo. Forse il mio unico lavoro dove compare per intero il corpo umano, o meglio l’impronta di esso, è un lavoro di molti anni fa: Messaggio ricevuto, del 2001; una grande carta-lenzuolo in resina estratta da una enorme busta come letto matrimoniale. In esso si svela il calco del mio corpo rannicchiato in posizione fetale e l’unico elemento anatomico definito era la mia mano che chiude l’orecchio. Da allora nel mio lavoro il corpo si è annullato sempre di più. Peter Pan, doppia sedia sospesa di buste di lettere in carta del 2001; Hermes, l’altalena di piume del 2004 e La sostenibile leggerezza dell’essere, una panchina di foglie e resina, del 2003-2004 sono fatte per portare corpi ma sono esse stesse corpi in levitazione. Così Su Nar, l’uovo di piume utilizzato nella performance del 2007, capovolge il senso per un controsenso
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Sognavo di fare l’inventrice». Come sei diventata un’artista? «Continuando a sognare e a credere intensamente di voler realizzare le mie fantasie con una tenacia che mi è sempre stata rimproverata in famiglia ma senza la quale non avrei realizzato parte dei miei sogni. Questo prima di tutto, poi ho cercato gli strumenti: l’accademia è stata uno di questi». Cosa vorresti essere se non fossi un’artista? «Una burattinaia». Hobby, passioni? «In realtà tutto combacia e si sovrappone al fare arte: la musica è lo stato d’animo, il buon vino e il cibo ricercato sono il tempo del relax e la riflessione, il nuoto e il diving sono meditazione e sospensione del sé». Come definiresti la tua arte? «Poesia, memoria, preziosa architettura dell’immaginario. Tutto questo nella mia parola chiave: rêverie». Come definiresti la tua vita? «La tensione di rendere la mia arte una cifra stilistica identificativa del mio essere». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «In questo periodo di relativismo estremo, il nichilismo si insinua beffardo in tutti i campi della vita scoraggiando le persone che non hanno strutture atte ad affrontarlo, quindi è giusto chiedersi se davvero esistono valori che resistono al passare dei secoli, oppure tutto cambia? In questo senso penso che tutto sia relativo, instabile come i miei tanti mandala di farfalle eppure nello stesso tempo ritengo che la coerenza sia un valore importante. Anche se l’amato Wilde sosteneva che la coerenza fosse ”l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione”, penso che essa non sia sinonimo di rigidità quanto piuttosto di costanza. Ritengo ci siano dei valori fondamentali per la sopravvivenza della civiltà così come la conosciamo noi e dell’arte nello stesso tempo: l’onestà intellettuale, il rispetto». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Nella vita mio padre e mio marito. In arte ho avuto molti ”maestri”, a cominciare dagli artigiani che mi hanno insegnato a lavorare il legno, il ferro, il cemento, fino ad arrivare ad artisti come Friedrich e Turner per le atmosfere, Moreau per il simbolismo, Anish Kapoor per l’unione tra scultura, genio e ingegneria, Mona Hatoum per l’acutezza e sensibilità, Gaudì per l’aspetto ludico e cromatico. In realtà però il vero maestro cui mi ispiro continuamente è la natura; può sembrare banale ma il micro e il macrocosmo per me sono degli insegnanti enormi. Abbiamo tutto sotto gli occhi: basta vederlo». Cosa trovi interessante oggi? «L’informazione, la cultura, il loro correre veloci attraverso il web. Ogni volta che si legge un libro nuovo, che si impara ad avere più confidenza con l’arte, si arricchisce la propria visione con punti di vista innovativi. Basta solamente aprire il dizionario e imparare un termine nuovo per cambiare la visione delle cose. Più si impara, più si è consapevoli di sé e della propria presenza sulla terra. E, come diceva Aristotele, ”gli uomini colti differiscono dagli incolti quanto i vivi dai morti”». Cosa non sopporti di questo tempo? «Il conformismo globalizzato che ci circonda, un sintomo del declino civile: quando tutti la pensiamo allo stesso modo in realtà significa che abbiamo smesso di pensare. È la certezza che la società civile ha ceduto alla brutalità del pensiero massificato, al richiamo subdolo dei falsi idoli creati per poterci gestire e controllare meglio».
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superiore. Negli ultimi anni ho usato porzioni del mio corpo, piedi e mani come memorie di gesti: Flyingfeet, piedi in cemento e ferro, 2008; No frontier, braccia in resina trasparente che accarezzano un muro invisibile, 2009; E lucean le stelle, braccia in ceramica sintetica che lanciano verso l’alto 300 pianeti; Sedna, piedi trasparenti che si sciolgono come ghiaccio, 2011; Un salto nel blu, piede in resina che salta dentro una pozzanghera, 2012». Il rapporto con il sacro e la natura: molto traspare dalle tue opere, il resto diccelo. «In passato ogni sapere, ogni disciplina si univa alle altre per la ricerca di una conoscenza del mondo semplice e profonda. La mia ricerca in chiave contemporanea va verso questa direzione: si tratta di una riflessione sul mondo e su un senso di sacralità che è intrinseco alle cose. La materia che uso diventa semplicemente uno strumento per dare forma a questa visione. Come gli antichi mi servo di simboli: cerchi, quadrati, farfalle, alberi, libri, navi; parlo attraverso di essi perché ritengo siano il cuore della vita immaginativa, sintetizzano in un’espressione forze fisiche ed energetiche sia in conflitto che armonizzate. Al di là dei significati dell’opera mi piace pensare che il potere del simbolo in fondo sia così forte da parlare direttamente al cuore di chi lo sa ricevere». Decliniamo Annalù al futuro. Dove sarai in autunno, quali le mostre in programma? «Fino al 21 settembre è in corso una personale alla Galleria Gagliardi di San Gimignano, dove i miei lavori sono in esposizione permanente: Omnis ars imitatio naturae est, curata da Stefano Gagliardi e inaugurata il 24 agosto. Ci sono circa venti opere recenti dove ho sviluppato un
lavoro sui codici naturali e sul mandala. Il 28 settembre inauguro una bipersonale con Jessica Fong a Hong Kong nella Red Elation gallery, curata da Carolina Lio. Il progetto Legendary nature unisce le mie sculture al lavoro della famosa designer di gioielli di Hong Kong. La mostra consiste in un percorso in cui vengono mostrate le ultime creazioni di entrambe e dove le nostre visioni prendono forma e aprono un dialogo sui temi comuni delle nostre ispirazioni e ricerche: leggende, mitologia, natura e spiritualità. Sono tornata da poco dalla Cina dove ho lavorato per quaranta giorni: sono stati giorni intensi, un’esperienza che mi ha segnata nel profondo sia umanamente sia artisticamente. Credo che piano piano il respiro orientale uscirà anche nei nuovi pezzi. Un progetto importante, a cui tengo moltissimo e mi vedrà impegnata a dicembre, sarà Opera, curato sempre da Carolina Lio, nel Museo d’arte contemporanea di Canton, ancora in Cina. Prevede l’esposizione di una selezione di artisti italiani che lavorano sulla figurazione e probabilmente la mostra diventerà itinerante per una anno nei musei principali della Cina. Presenterò cinque opere inedite, di cui una monumentale. Si tratterà di una grande installazione, un inno di energia vitale in quanto un’enorme freccia dorata proveniente dall’alto trafigge una pila di libri giganti, con pagine d’acqua in resina che esplodono al suo passaggio. Attraverso la citazione dei libri proibiti segnati con una freccia rivolta verso il basso la forza dell’amore trapassa il raziocinio, l’energia scuote le regole, il trascendente si sottomette all’irrazionalità. Una versione ridotta dell’opera Sagitta verrà presentata in anteprima a ottobre nella collettiva Eros a Villa
Olmo, a Como, curata da Mini Artextil. Ci sono poi una serie di progetti museali dove vorrei presentare in maniera ampia un lavoro sui codici a cui ho cominciato a lavorare dall’anno scorso con la Galleria Gagliardi. Il mio progetto Codex vuole porre enfasi sulla trasmissione della conoscenza e la sua classificazione attraverso una lettura poetica che prevede il contrasto tra luce e ombra, tra libri sacri e libri posti all’indice. Un labirinto dove ogni elemento della scrittura: la carta, il manoscritto, la decorazione, la pergamena, confluisce in un unico corpo di opere come in una biblioteca di visioni e paesaggi immaginari, attraverso l’uso di materiali che evocano i quattro elementi naturali. Stiamo ancora valutando gli spazi pubblici che accoglieranno le varie tappe del progetto. A fine anno uscirà poi la mia monografia sui vent’anni di lavoro: 1994-2014. Si tratta di un catalogo dove raccoglierò tutto il mio lavoro. L’inizio del 2014 prevede nuove collaborazioni, una mostra a Nizza e infine un grande lavoro per la chiesa del lido di Jesolo vicino Venezia. È la prima volta che mi cimento in un discorso di questo tipo che apparentemente sembra essere molto lontano dal mio lavoro. Due anni fa, però, ho voluto accettare la sfida e ho partecipato alla selezione per due grandi sculture: Vergine capitana da mar e Crocifissione, da mettersi rispettivamente sul campanile e sull’altare maggiore della nuova chiesa dedicata appunto alla Madonna “capitana da mar”. I miei bozzetti hanno passato la selezione e per marzo realizzerò in bronzo la Vergine di tre metri e il Cristo “lifesize” in resina. Sono molto contenta del risultato, perché entrambe le sculture sacre sono “Annalù”: sono figure fatte di vento, sabbia, acqua…».
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UNA NESSUNA E CENTOMILA Attrazione e repulsione, identità e alterità: ecco alcune delle dicotomie attorno alle quali ruota l’arte di Nicola Costantino. Alla Biennale di Venezia l’artista argentina si misura con la figura di Eva Perón, parte della memoria storica sua e del paese di FABRIZIA CARABELLI
S
ilvana Costantino all’anagrafe, Nicoletta per amici e familiari e Nicola per il mondo dell’arte. Particolare che si attaglia perfettamente alla personalità di un’artista che mette al centro del proprio lavoro la questione dell’identità e della riproduzione del corpo, inteso come soggetto e allo stesso tempo oggetto di rappresentazione. Artigiana, scultrice, fotografa, performer, videoartista, Nicola coniuga l’uso di differenti media per indagare il corpo, a volte inteso come oggetto di seduzione, altre volte come materiale di scarto o come cadavere vilipeso. Per un lato inquietante e per l’altro fortemente estetica, l’arte di Nicola ci lascia sedotti dalle ossessioni che fa trasparire, producendo con ogni opera un nuovo effetto di straniamento. Le radici dei suoi interessi si possono ricercare nelle sue origini. Nata nel 1964 da genitori italiani, il padre chirurgo e la madre imprenditrice nel settore dell’abbigliamento, da loro ha ereditato la minuzia e la cura per i dettagli, la dimestichezza nel lavorare ogni sorta di materiale, dal silicone, al metallo, al poliuretano espanso. Bustini di pelle umana, scarpe fatte di capezzoli, pellicce di capelli trasmettono una seduzione visiva e tattile pari a quella di alcune opere di Sylvie Fleury e un’ambiguità che riporta alla mente l’universo surrealista di Meret Oppenheim. Dopo aver frequentato la Escuela de artes plasticas dell’università di Rosario, si iscrive a un corso per apprendere i procedimenti di tassidermia e mummificazione
dei corpi. È così che Nicola inizia ad appassionarsi all’anatomia del corpo umano e animale e alla lavorazione della carne, quest’ultima intesa non solo quale prodotto di consumo argentino associato ai pasti come momenti di relazionalità, ma anche come simbolo di ricchezza e di esportazione nel mercato internazionale. Se negli anni ‘60 César comprimeva carcasse d’auto e materiali di scarto in cubi, nel ‘97 Nicola crea sculture in metallo che riproducono pelli di maiale accartocciate in forma sferica che chiama chanchobolas. I suoi prodotti diventano simulacri del consumo, feticci di una religione del macabro e del repellente di cui tutti siamo implacabili denigratori ma nel profondo anche fedelissimi seguaci. Tuttavia, pur sottendendo un significato politico piuttosto deciso, le opere di Nicola non diventano mai simbolo di propaganda o di condanna morale, neanche quando comincia a mettere in gioco se stessa e la propria immagine: «Tutti i miei lavori nascono da una postura politica, però terminano come prodotti estetici». S’immagina un’autofiction della propria vita alla maniera di Sophie Calle, omaggia le opere del passato, da Velázquez a Man Ray, facendosi fotografare nelle pose delle loro protagoniste, appropriandosene e reinterpretandole in chiave personale e talvolta autocitazionista. Il suo doppio, triplo, quadruplo sembrano essere necessari per darle essenza vitale, tanto da condurla alla fabbricazione di un fantoccio-clone di se stessa nel video Trailer che termina, tuttavia, con l’inevitabile
Nicola Costantino Nicola Narcisa evocando a Caravaggio 2009
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Eva la fuerza Biennale di Venezia, 2013 A fianco: Blanco y negro segun Man Ray, 2006 e l’artista in un Autoretrato del 2008
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L’ARTISTA
Nicola Costantino
1964 Nasce il 17 novembre a Rosario, provincia di Santa Fe, Argentina
omicidio wildiano dell’artista nei confronti del suo doppio. Incarnarsi nelle persone, nelle immagini a Nicola non basta, arriva anche a desiderare di penetrare negli oggetti, producendo nel 2004 Savon de corps, un sapone di lusso ricavato dal grasso aspirato dalle proprie cosce che, oltre a costituire una riflessione sulle strumentalizzazioni prodotte dai media e dal mercato, segna anche la separazione fisica tra anima e corpo. Quest’ultimo difatti può, secondo Nicola, essere oggettivato e modificato secondo il proprio arbitrio e può essere (perché no?) anche venduto. Un po’ diva, un po’ sorcière, nel suo ultimo progetto Rapsodia inconclusa presentato alla Biennale di Venezia, forse il più poetico di tutti, Nicola diventa Eva Perón e reinterpreta i suoi sogni, la sua forza e le lacrime che il popolo versò per lei. Una rilettura femminile e profondamente intima, in cui l’artista mette lo spettatore nella condizione di silenzioso voyeur, che accompagna Evita nei suoi momenti più privati, cogliendone le paure e le fragilità di donna comune. Quest’anno hai partecipato alla 55° Biennale di Venezia con una serie di lavori su Eva Perón. Le opere, oltre a costituire una rilettura intima del personaggio in chiave femminile, sono cariche di una forte valenza storica, legata al tuo passato e alla tua terra. Qual è la ragione che ti ha spinto a scegliere questo personaggio? In che modo nel tuo immaginario personale ricorre la figura della Perón? Quanto conta per te la ri-
cerca della complessità psicologica del soggetto che interpreti? «Concepisco l’opera partendo dalla performance, per poi svilupparne gli aspetti teatrali e cinematografici. L’opera è la mia interpretazione del personaggio. Passo un certo tempo a immedesimarmi nel soggetto che devo sviluppare, ideando la scenografia, l’abbigliamento e la comunicazione, che avviene attraverso le immagini e i gesti, mai con la parola. Ho utilizzato l’elemento storico in relazione al mito, quello emozionale in relazione alla mia infanzia, servendomi di quei ricordi, di quelle immagini e storie che da piccola ho ascoltato mille volte. Tuttavia il motivo che più mi ha spinto a occuparmi di Eva Perón è stata la considerazione che l’arte contemporanea non si è mai occupata del suo personaggio utilizzando il proprio linguaggio. O quanto meno non l’ha fatto per esporre una problematica che le è molto pertinente, quella della rappresentazione: un gran tema dell’arte contemporanea e un problema complesso nella figura di Eva. Difatti quest’ultima è sempre stata rappresentata per semplificazioni, perché si sono occupate di lei la politica e lo spettacolo e mai l’arte». Nel tuo ultimo lavoro, come in altri, ricorre il tema del doppio, di un’autoreferenzialità delle immagini, espressa ogni volta attraverso modalità differenti. Da cosa deriva la necessità di sdoppiarti? È un modo per tradurre visivamente le sfaccettature che albergano la tua psiche? O è l’espediente per
1994 Dopo aver frequentato la Escuela de artes plásticas dell’università di Rosario partecipa al workshop Barracas della fondazione Antorchas
1998 Espone alla Biennale di San Paolo che le apre la strada verso esposizioni e biennali internazionali
2000 Jeffrey Deitch invita l’artista a esporre nella sua galleria di Soho la sua serie Peletería humana
2006 Incontra Gabriel Valansi e comincia a occuparsi di fotografia
2010 Presenta Trailer, la sua prima produzione cinematografica
2013 Viene selezionata per rappresentare l’Argentina alla 55° Biennale di Venezia con un’opera su Eva Perón
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HA LAVORATO PER ANNI SULL'OSSESSIONE DEL CORPO METTENDO IN CAMPO IL SUO: HA STRAPPATO VIA IL CUORE DI UN ANIMALE VIVO, HA CUCITO SCARPE E BORSE FATTE COL CALCO DELLA PELLE UMANA, SI È DISTESA SUL PIATTO DELL'ULTIMA CENA, DANDOSI IN PASTO AI CANNIBALI DELL'ARTE CONCITA DE GREGORIO
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PERSONALI 2013 Eva – Argentina Una metafora contemporanea Rapsodia inconclusa 55° Biennale di Venezia Padiglione Argentina Venezia 2012 Alteridad Ecu, spazio culturale universitario, Rosario Nave culturale, Mendoza 2011 Monographic exibition Hubertus exhibitions Daros Latinamerica Zurigo 2010 Trailer video e installazione Fondazione Ypf Buenos Aires 2009 Autorretratos fotografias e instalación Palacio Duhau Park Hyatt, Buenos Aires 2008 La cena Ruth Benzacar Art Gallery, Buenos Aires
GALLERIA Galería Roldan Buenos Aires www.subastasroldan.com.ar
QUOTAZIONI Da 20mila a 80mila dollari
SITO www.nicolacostantino.com.ar
Eva la palabra Biennale di Venezia, 2013
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A fianco: Eva, el espejo Biennale di Venezia 2013 A destra: Eva, los sueños Biennale di Venezia 2013
mettere in scena contemporaneamente due realtà parallele, presente e passato? «Ho lavorato con l’idea della molteplicità e delle distinte, e tuttavia simultanee, stratificazioni temporali, come il passato che vive negli specchi. Ho anche giocato con il rapporto tra finzione e realtà, dato che in alcuni momenti rappresento la fiction di Eva e in altri invece sono Nicola, come nell’opera Eva lo specchio. Eva si faceva amare per tutto ciò che non era: non era educata, non era bella e non era presidentessa. Anche Eva quindi costruiva finzioni». Attraverso l’atto performativo, le fotografie e le installazioni, cerchi spesso di colmare un’assenza con una rievocazione, un’eco della sua presenza. Basti pensare alle macchine ortopediche per animali, in cui ricrei meccanicamente il movimento dei vitelli. Cosa rappresenta questo desiderio di riprodurre l’essenza delle cose in loro assenza ? «Il vestito – macchina così come le macchine per animali sono messe in moto da un’energia molto forte, come quella di Eva e lo sguardo intenso sull’oggetto in movimento ci fa vedere quello che non c’è. Improvvisamente, la fonte di energia delle macchine diventa il nostro sguardo ed è lì che iniziamo a vedere la vita, l’essenza delle
cose assenti, che sono per me un omaggio al genio di Leonardo, il quale, nonostante la sua genialità, costruiva macchine ridicole perché lo divertivano. Questo è continuato fino a che non è apparsa la “scatola nera” e in quel momento abbiamo smesso di divertirci, siamo rimasti fuori gioco. Con i computer abbiamo smesso di creare». Si può rintracciare nelle tue opere una forte inclinazione al citazionismo, che conferisce loro una riconoscibilità iconografica immediata. Qual è il processo concettuale di riappropriazione o postproduzione (per usare un concetto di Nicolas Bourriaud) delle immagini che utilizzi? Le opere che selezioni dal repertorio della tua memoria artistica affiorano casualmente nei tuoi lavori o fanno parte di un progetto mirato? «Ogni scelta delle opere che cito è paradigmatica. Prima c’è un momento di riflessione e in seguito la scelta si impone naturalmente. Penso l’opera tenendo in conto dell’informazione che lo spettatore ne trae, ciò che tutti conosciamo e quello che ci fa rievocare. Anche le foto sono state pensate per formare una sola opera: mostrare tutte e 35 le fotografie insieme. Per me è importante, comunque, che si tratti di un’opera che ha inaugurato nell’arte una nuova forma di vedere la realtà, come Las meninas di Velázquez. Se devo pensare a
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Scultrice». Come sei diventata un’artista? «Lavorando nella fabbrica d’abbigliamento di mia madre». Cosa vorresti essere se non fossi un’artista? «Chef». Hobby, passioni? «La cucina». Come definiresti la tua arte? «Radicale». Come definiresti la tua vita? «La definirei molto interessante!». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «Ci sono cose che non cambiano, però i valori non sono eterni». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Ne cerco sempre di nuovi». Cosa trovi interessante oggi? «Le vie alternative dell’arte». Cosa non sopporti di questo tempo? «La mancanza di impegno e la mancanza di creatività».
un’opera pittorica, penso a Las meninas, se devo fare riferimento a un personaggio storico femminile, penso a Eva. Eva segnò un cambiamento, l’operato di Eva si distinse come solo si distingue l’operato di un genio: allo stesso tempo originale e modello esemplare. Il tema nuovo intorno a cui ruotava quell’operato dal punto di vista storico era l’estetizzazione della politica». Hai sempre un intenso rapporto diretto con i materiali che utilizzi. In un momento storico in cui si può parlare ancora di predominanza dell’attitudine, dell’idea sulla forma, si assiste a una progressiva inversione di tendenza da parte di alcuni artisti che rivalutano la potenza del contatto diretto con la materia. Quanto è rilevante per te questo contatto e che grado di priorità gli attribuisci nel tuo processo creativo? «Concetto versus materia è un antico dibattito. Se io possiedo un abecedario di tecniche, le posso combinare per ottenere diversi oggetti e immagini. Però la tecnica che utilizzo è sempre in funzione dell’idea. Concordo sul fatto che idea e concetto debbano avere più peso gravitazionale rispetto alla manifattura dell’opera, però per me è molto importante la forma in cui essa è prodotta, la sua qualità e materialità. Se queste ultime richiedono un grande sforzo, questo sforzo non si deve notare».
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Osservando le tue chanchobolas o la tua collezione Peletería humana, si percepisce una critica al consumo di massa e un atteggiamento di difesa ambientalista. C’è una valenza politica nella produzione di questi oggetti? Come si può interpretare, peraltro, alla luce di questa prospettiva critica, la scelta di utilizzare le stesse immagini per lo spot della Coca Cola light? «Una delle caratteristiche essenziali della mia opera è l’ambiguità, quando si osserva una mia opera, ciò che suscita è una sensazione di disagio. Io sono cosciente di questo e, anzi, cerco di generare tale sentimento, però non sono responsabile dell’interpretazione che ognuno può dare. Non faccio critica morale, questo è appurato. Ho un’idea differente sulla moralità che possono trasmettere le opere. Mi è sembrata un’opportunità stupenda quella di avere una diffusione di massa. L’artista è chiamato ad ampliare il campo visivo, non a giudicare ciò che sta bene o male. In ogni caso il lavoro di un artista è sempre il benvenuto». In un’intervista concessa a Julio Sanchez per Adn dichiari di non essere interessata a dare un’impronta femminista alle tue opere; parli piuttosto di uno sguardo femminile. Che cosa intendi con questa espressione? «Mi interessa riflettere sulla vita della donna prima della rivoluzione sessuale degli anni ‘60, quella della mascherata della femminilità, com’era intesa da Joan Rivière. Un’epoca in cui la donna doveva seguire l’ideale domestico che, per coloro che come me sono stati cresciuti negli anni
‘60, è molto difficile da immaginare come realtà. Eva senza essere femminista è stata un genio innato. La parola femminista parla di una posizione, preferisco l’aggettivo femminile». La scelta di utilizzare spesso materiali seducenti e immagini accattivanti sul piano estetico può essere considerata espressione di un certo approccio narcisistico rivolto al femminile? «Non è né autoreferenziale, né narcisista. Lavoro in un’ottica performativa e il corpo e l’interpretazione li considero la mia materia». C’è in alcune tue performance una grande potenza scenografica che sembra ispirarsi ad alcuni film del noir americano, penso in particolare al tuo Trailer. In che maniera incidono sulle tue opere le suggestioni provenienti dalle atmosfere del set cinematografico ? «Trailer è un’opera assolutamente marcata dal film noir : l’illuminazione, le scene, il linguaggio cinematografico pieno di simbologia, pieno di rimandi ai film noir. La scena del taxi difatti fu filmata con la retroproiezione, esattamente come fece Hitchcock». Cosa ti ha portato la tua esperienza alla Biennale di Venezia e cosa hai in programma per i tuoi futuri lavori? Ho iniziato un intenso lavoro per realizzare un documentario e sto cominciando a pensare alla mia nuova opera. Il documentario, difatti, mi servirà proprio a riflettere su di essa».
NEL MIO LAVORO PRESTO SPECIALE ATTENZIONE AL CONSUMISMO E A COME QUEST’OSSESSIONE PER IL CONSUMO IN UNA CERTA MISURA CI DISTRUGGE MI INTERESSA OSSERVARE QUESTO NUOVO FASCISMO CHE VIVIAMO, CHE RIDUCE L’ESSERE UMANO A STATUTO D’OGGETTO
Sopra: Corset de tetillas masculinas, 1999 In alto: Nicola e il suo doppio - Taller, 2010
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A sinistra: Zhang Huan Long Island Buddha 2011 A destra: Three heads six arms Forte Belvedere, 2013 foto Guido Cozzi
SPIRITUALITÀ FATTA MATERIA Dalla Cina Zhang Huan arriva a Firenze con il suo scavo nelle pieghe dell’anima alla ricerca di una fede che metta in armonia il passato e il presente e addolcisca il dialogo dell’Oriente con l’Occidente di OLIVIA TURCHI*
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Cowskin Buddha face, 2007 A destra: L’artista in posa davanti a Free tiger returns to the mountains, 2010
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L’ARTISTA
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osso riassumere la mia arte con poche parole. Mi chiamo Zhang Huan, il 23 gennaio 1965 sono nato nella piccola città di Anyang, nello Henan, in Cina. Questo è fondamentale per capire la mia arte. Su queste parole dovrò lavorare per tutta la mia vita e forse questo tempo non mi basterà. Non sono Leonardo, non sono Michelangelo, non sono Picasso. Io sono Zhang Huan. Non sono uno straniero, ma sono un cinese. Sono nato in questa epoca, non in quella antica, e neanche nella futura, perciò devo riferirmi a questa epoca. Il luogo in cui sono nato è stato determinante per la mia formazione. Mi sono imbevuto della sua cultura e a questo ambiente devo riferirmi. Infine il mio carattere: io sono io, io sono diverso dagli altri. Dunque l’epoca, il luogo di nascita, il mio carattere, sono i tre fattori della mia arte. Un artista deve sapere chi è, chi sono i suoi antenati, da dove proviene. Ciò che non conosce di se stesso, non può capire, lo deve scoprire attraverso la sua ricerca personale». Queste affermazioni di Zhang Huan raccolte durante il soggiorno fiorentino dell’artista, in occasione della mostra L’anima
e la materia, donano una nuova luce alla sua opera che non a caso parte dall’analisi del sé. I suoi primi lavori dell’inizio degli anni Novanta, a seguito degli studi alla Central academy of fine arts di Pechino, si concretizzano infatti in una serie di performance in cui il proprio corpo viene eletto quale mezzo primario di espressione artistica. Oggetto e strumento della sua poetica, il corpo è come una tela sulla quale “disegnare”. Inanimato, inerme, spesso avvilito dall’arte stessa e dalla violenza che esprime, il corpo dell’artista diviene il mezzo per incontrare il pubblico, per colpirlo, scioccarlo attraverso opere come 12M2 (1994), in cui l’artista resta accovacciato per ore in un bagno pubblico, ricoperto di olio di pesce, miele e mosche, oppure 25 mm Threading steel (1995), in cui si sdraia nudo di fronte a una macchina filettatrice accesa, lasciando che le scintille lo colpiscano. La sua storia personale, la storia della sua epoca, dei suoi luoghi, lo stimola, gli impone di creare e il processo creativo fuoriesce con dolore, attraverso sofferenza e violenza inaudita. Nel 1998 abbandona Pechino e il gruppo dell’East Village, per farsi largo nel panorama artistico internazionale. Il trasferimento a New York coincide con il passaggio ad atti
ZHANG HUAN
1965 Nasce il 23 gennaio a Anyang (Cina)
1990 Si diploma all’Accademia di belle arti di Pechino
1998 Si trasferisce a New York dove risiede per otto anni
2009 È il direttore artistico per l’opera Semele di Haendel al Théâtre de la Monnaie, Bruxelles
2010 Partecipa alla Biennale di Shanghai
2013 Espone la personale Looking East, facing West: the world of Zhang Huan al Frederik Meijer Gardens & Sculpture Park, nel Michigan
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PERSONALI 2013 Looking East, facing West: the world of Zhang Huan Frederik Meijer Gardens & Sculpture Park Michigan 2012 Zhang Huan: The mountain is still a mountain White Cube Londra 2011 Zhang Huan: Aura of disappearance Pace Gallery Hong Kong 2010 Zhang Huan: Ashman Pac Milano 2009 Zhang Huan Memory doors Haunch of Venison Zurigo
GALLERIA Art Pace gallery New York www.pacegallery.com Ropac, Parigi www.ropac.net White Cube, Londra www.whitecube.com
QUOTAZIONI n. d.
SIT0 www.zhanghuan.com
A destra: Three heads six arms, 2011
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DAL PUNTO DI VISTA DELL’ESTETICA VINCERE L’INERZIA DELLA MATERIA RAPPRESENTA L’ATTO FISICO CON CUI L’ARTISTA LIBERA DALL’INTERNO DEL MASSO LA FIGURA IDEALE. ASSIEME ALLE RAPPRESENTAZIONI DI BUDDHA, ZHANG HUAN PRESENTA ANCHE UN’OPERA INEDITA CHE, NEL MARMO TRATTO DALLE CAVE DEL POLVACCIO, RAFFIGURA L’EFFIGE PER NOI ESOTICA DI CONFUCIO SERGIO RISALITI
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performativi nei quali coinvolge uomini e donne, dando vita a vere e proprie rappresentazioni teatrali. Vorrebbe avvicinarsi il più possibile alla nuova società con cui si confronta, ma teme di perdervisi all’interno. Allo stesso tempo è consapevole che se non riesce ad avvicinarsi sufficientemente a essa, non sarà in grado di comprenderne a fondo i principi. Il disagio è tangibile ma sfocia in creatività. A questa indagine si unisce uno scavo più intimo nelle pieghe della propria anima, che si offre all’artista come chiave di volta per cogliere le intricate connessioni tra passato e presente, indispensabili per la comprensione della nostra contemporaneità. Sperimentando nuovi linguaggi, laddove all’uso del corpo si affiancano la riscoperta di pratiche pittoriche e l’introduzione della scultura, Zhang Huan rielabora nell’esperienza newyorkese la propria poetica proponendo meditate riflessioni sull’eterna dialettica tra il suo luogo di nascita, l’Oriente, e la sua nuova dimora, l’Occidente, lasciando emergere un confronto che affonda le sue radici nel remoto passato delle civiltà. È in questo ininterrotto tendersi tra i poli opposti delle coordinate sulle quali si è sviluppata la storia dell’umanità – conservazione e rinnovamento, Oriente e Occidente, memoria e attualità – che si colloca la cifra più segreta della sua arte.
La crescita personale e artistica di Zhang Huan prende forma allontanandosi gradualmente dal sé per esprimere quello stesso sé attraverso altro. Ed ecco che il corpo, seppure sempre presente, diviene la forma d’ispirazione per modellare la scultura, come accade in Peace no. 1 e Peace no. 2, entrambe del 2001, dove il modello in bronzo dorato viene usato come martello per battere su una campana sulla quale sono incisi i nomi degli antenati dell’artista. L’installazione dichiara la sua volontà di straniero in terra straniera di rivolgersi consapevolmente alla storia e alla cultura del suo paese e di tornare a riflettere sulle radici culturali cinesi. La ricerca profonda sulla propria condizione lavorativa a New York, così come sull’eredità familiare, rigenera il linguaggio espressivo dell’artista e rappresenta il primo passaggio di quella intensa rivisitazione del Buddhismo alla luce della contemporaneità attuata da Zhang Huan nella pratica successiva. È così che, quasi a significare la chiusura di un cerchio, l’artista nel 2005 ritorna in patria, scegliendo Shanghai, nuova capitale dell’arte mondiale e metropoli moderna nella quale innovazione e tradizione si fondono in maniera stimolante e feconda, per proseguire nella sua instancabile indagine. In opposizione rispetto ai difficili e contrastati esordi,
LA MOSTRA L’anima e la materia Zhang Huan arriva in Italia, a Palazzo Vecchio e al Forte Belvedere di Firenze, con L’anima e la materia. Un percorso espositivo tra la tradizione fiorentina e la sperimentazione, un’indagine che si dipana tra realtà terrena e spiritualità. Curata da Olivia Turchi, la mostra vede mega opere dell’artista cinese esposte fino al 13 ottobre. Info: museicivicifiorentini.comune.fi.it
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Volevo fare parte dell’esercito di liberazione, ma già a quattordici anni desideravo diventare un pittore». Come sei diventato un artista? «Alle elementari e alle medie i miei risultati scolastici erano scadenti in tutte le materie mentre ero molto apprezzato dal mio insegnante di arte, il quale mi ha aiutato ad avere fiducia in me stesso. Da quel momento in poi la mia strada è stata tracciata». Cosa vorresti essere se non fossi un’artista? «Se adesso avessi vent’anni sarei un leader fuori dal comune in un villaggio povero. Partendo da questa unità di base, proseguirei a liberare da tribolazioni e arretratezza un villaggio, una provincia, una regione e poi magari perfino un’intera nazione, recando pace sincera e prosperità a tutte le persone in modo che possano condurre una vita dignitosa e felice». Hobby, passioni? «Sport e collezionismo». Come definiresti la tua arte? «Sono un artista della realtà». Come definiresti la tua vita? «Sono ingordo di lavoro. Mi dimentico della solitudine e perfino della morte quando sono impegnato». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «No, tutto è momentaneo e transitorio». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «La natura e la storia». Cosa trovi interessante oggi? «Non invecchiare». Cosa non sopporti di questo tempo? «La natura brutale dell’umanità».
A sinistra: Ash Buddha, palazzo Vecchio, 2013 Nella pagina a fianco, in alto, a sinistra: Ash Jesus, palazzo Vecchio, 2011 In basso: Florence Buddha, palazzo Vecchio, 2013 (particolare) le tre foto sono di Guido Cozzi A pagina 40: 65 Kg, 1994
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Zhang Huan fonda una bottega nella quale lavorano scultori, intagliatori, falegnami, saldatori, forgiatori di rame, pittori, artisti multimediali, raccoglitori e setacciatori di cenere: una vera e propria officina creativa nella quale prendono forma le più recenti opere dell’artista cinese, ancora una volta impegnato in una riscrittura degli stilemi della propria comunicazione espressiva che procede di pari passo con l’esplorazione del suo ricchissimo universo interiore. Abbandonate le performance dal forte impatto emotivo, Zhang Huan si rivolge ormai completamente a una pratica tesa al recupero delle proprie radici e della propria storia. In questo contesto la riscoperta del Buddhismo influisce potentemente sulla sua interiorità: diventa Jushi (monaco laico) e sceglie sempre più spesso Buddha come soggetto di rappresentazione. La sua vita e la sua arte subiscono un cambiamento profondo e radicale. L’artista è ora in grado di riflettere sull’essenza della vita in relazione alla divinità, in una prospettiva più ampia che investe non solo l’esperienza del singolo, ma il destino dell’intera umanità. Il rientro in Cina segna anche un rinnovato interesse per
le tecniche artistiche della tradizione cinese dall’intaglio, alla calligrafia, alla forgiatura affidandosi nel processo creativo agli abili artigiani che lo affiancano nel suo studio. Tra le imponenti installazioni in bronzo o in rame battuto, le Memory doors – porte lignee recuperate da antiche case di campagna sulle quali interviene con la tecnica dell’intaglio – o l’utilizzo di pelli animali per la realizzazione delle Cowskins, è senza dubbio la cenere a segnalarsi come materiale imprescindibile nelle esperienze più rappresentative dell’ultima stagione dell’artista. Ricavata dagli incensi bruciati dai fedeli in segno di preghiera nei templi Buddhisti della regione di Shanghai, la cenere è l’elemento chiave per Zhang Huan del delicato passaggio che in ogni opera d’arte si compie dallo spirito alla materia: «La cenere dell’incenso rappresenta una memoria collettiva – dichiara l’artista – raccoglie l’anima e le speranze delle persone». I suoi Ash painting e soprattutto le Ash sculpture si propongono, attraverso l’uso di un materiale poliedrico che acquisisce il potere di veicolare le speranze degli uomini e dei loro desideri, come gli esempi più significa-
tivi di questa coraggiosa e complessa esperienza artistica capace di dar vita ad opere che, nella loro intima fragilità e nella loro palpabile deperibilità, permettono all’artista di rivelare l’inevitabile transitorietà della vita e l’infinita ricchezza dell’esistenza attraverso un’indagine e un confronto tra Oriente ed Occidente, spiritualità e memoria, storia e sperimentazione. Confucio, Buddha, Gesù insieme ai grandi personaggi del passato, l’uomo comune e la natura sono i protagonisti di una ricerca e di un percorso che, in una sperimentale convivenza con l’antico e nel doppio contesto museale di Palazzo Vecchio e del Forte di Belvedere, oggi divengono la testimonianza dell’incontro e del confronto tra epoche, culture, credi e religioni che forse, con il passare del tempo, hanno finito – attraverso il processo creativo di Zhang Huan – per avvicinarsi sempre di più offrendoci una nuova occasione per una riflessione sull’operato artistico quale prezioso mezzo di comunicazione universale. *critica d’arte, curatrice della mostra L’anima e la materia
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Moio & Sivelli Timeless, 2008 installazione permanente stazione metropolitana di Margellina-Napoli
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DOPPIO ATTACCO ALLA VISIONE Moio & Sivelli si servono dell’inganno visivo per stimolare l’attenzione dell’osservatore, per condurre i sensi verso la percezione reale di ciò che l’immagine regala Questo attraverso la performance lo stop-motion e la fotografia con sarcasmo e sensualità di CHIARA PIROZZI
D
alla performance allo stop-motion passando per la fotografia, sono queste le armi utilizzate da Moio & Sivelli per condurre un attacco alla disattenzione della visione, ben oltre le apparenze retiniche. Il duo si serve dell’inganno visivo per stimolare l’attenzione dell’osservatore, per condurre i sensi verso la percezione reale di ciò che l’immagine regala. Mediante l’uso del silicone steso sulla superficie video o fotografica, le installazioni di Moio & Sivelli tendono alla consapevole lettura dell’immagine, non senza il sottile uso del sarcasmo e della sensualità. Come ha inizio la vostra liaison professionale? «Tutto ha avuto inizio per magia ad Amalfi. Da piccoli c’incontravamo in estate, per qualche anno ci siamo persi di vista per poi ritrovarci. Ci siamo laureati all’accademia di Belle arti di Napoli e siamo stati in Erasmus a Granada per un anno. Da quest’esperienza è iniziato l’amore per il viaggio, la curiosità e il rischio di confrontarsi col resto del mondo,
superando limiti. Ci siamo trasferiti a Londra per circa quattro anni ed è stato fondamentale per la nostra formazione. Qui abbiamo cominciato le prime sperimentazioni con il video e le foto tratti da performance dal sapore di candid camera, poi abbiamo deciso di ritornare in patria, rimettendoci in gioco». Indagate le reazioni umane di fronte a contingenze assurde, ricreate con l’uso garbato dell’ironia e dell’erotismo. Cosa spiazza il pubblico? «A partire dalla performance Whatever you like! del 2004, ambientata negli Antichi arsenali di Amalfi, in cui la performer con un vassoio di babà forza o nega l’assaggio del dolce ai presenti, per proseguire con 21 Woodgrange avenue del 2004 e Hampstead park: it’s done, actually! del 2005, realizzate a Londra, in cui azioni ordinarie diventano paradossali grazie all’intromissione della nudità, indaghiamo gli effetti sociali nel momento in cui l’individuo è posto di fronte a eventi illogici. Se riesci a persuadere lo spettatore trasportandolo nel tuo mondo, il gioco è fatto. A quel punto si può svelare il
trucco. Il pubblico sentendosi “raggirato” è spesso ignaro, disorientato e spiazzato, divenendo parte integrante dell’opera». Qual è il medium a voi più congeniale? «Le performance sono spesso tradotte in video e foto, come accade per Ensnaring (2005) e Bridge (2011). In quest’ultimo la mano destra del primo individuo taglia l’unghia del pollice sinistro dell’altro a zig zag creando un ponte tra i tagli, riflettendo sul completamento mediante le differenze. Alcune performance sono registrate come documentazione, altre sono ibride e vicine alla videoarte. La fotografia è essenziale perché ci permette di creare filmati in animazione come lo stopmotion. Dopo la performance Nached lunch, al museo Madre di Napoli nel 2010, l’interesse si sposta dalla relazione alla percezione. Nelle videoinstallazioni Panta rei e Italienische reise (2012) il fruitore è spronato a uno sforzo d’attenzione per comprendere l’immagine». Da dove nascono questi lavori? «Raccontare con una sola immagine o con il video una performance è una sintesi del discorso e l’attenzione si focalizza
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GLI ARTISTI
LUIGI MOIO
1975 Nasce a Napoli il 21 agosto
1996 Progetto Erasmus Facultad de Bellas artes Granada, Spagna
1998 Diploma in decorazione Accademia di Belle arti, Napoli
LUCA SIVELLI
1974 Nasce a Napoli il 18 ottobre
1996 Progetto Erasmus Facultad de Bellas artes Granada, Spagna
1998 Diploma in decorazione Accademia di Belle arti, Napoli
2003 su un solo particolare in movimento, da individuare aguzzando la vista, poiché l’immagine non è più nitida a causa del silicone steso. Il silicone è stato adoperato sin dalle prime sperimentazioni, dagli oggetti alle foto, per arrivare ai monitor totalmente insiliconati. Il silicone è sia una forma stilistica, sia un materiale capace di inglobare tutto, rendendolo algido come un’icona atemporale, è il tentativo di oggettualizzare l’effimero. I lavori citati nascono da un’analisi del territorio con una funzione sociale, il che rende tutto più recettivo ai sensi. È una sorta di educazione all’immagine che aiuta a essere più attenti nella vita». Lavorate tra Napoli e Londra, che valori assumono l’identità nel territorio d’origine e il viaggio come meta d’appartenenza? «Il territorio d’origine è fondamentale per l’ispirazione, come accade per la pizza inserita nella performance 21 Woodgrange
avenue, o il caffè con la moka in Hampstead park: it’s done actually. Questi sono simboli della nostra cultura, come le dinamiche di adescamento o persuasione rivolte all’avventore che spesso resta un’ignara vittima delle performance architettate da noi. Il nostro viaggiare-vagare rappresenta la ricerca del luogo ideale per proseguire nel lavoro». Che progetti avete in cantiere? «Abbiamo terminato un workshop sulle tecniche di animazione: Emotion-stop motion, a breve ne inizieremo un altro. Aspettiamo l’esito del concorso bandito dall’Art hotel Gran Paradiso di Sorrento per l’acquisizione di un lavoro site-specific, oltre ad altri concorsi per premi e residenze ai quali abbiamo partecipato, ma siamo scaramantici in questo. Un nuovo viaggio-lavoro poi non guasterebbe».
Prima performance in coppia dal titolo Whatever you like! agli antichi arsenali della repubblica di Amalfi
2005 Prima personale alla Blindarte contemporanea di Napoli
2012 Vincono il premio speciale insideart.eu per il Talent prize con l’opera Italienische reise
In alto: Cappella privata video still, 2007 A sinistra: Luigi Moio e Luca Sivelli
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SICURAMENTE LAVORARE IN DUE PONE IL CONFRONTO COME ESIGENZA COSTANTE E, SICURAMENTE, LA RELAZIONE ASSUME VALORE ONTOLOGICO DA SUBITO L'ATTEGGIAMENTO PERCETTIVO, CON O SENZA UN RACCONTO, RIESCE A ESSERE LA CHIAVE PER APRIRE LA PORTA DI UNO SPAZIO COMUNE DOVE OGNUNO RITROVA, SE VUOLE, SE PUÒ UNA PARTE DI VISSUTO. I LINGUAGGI SONO MOLTEPLICI, DAL SEGNO GRAFICO O MATERICO ALLE INSTALLAZIONI AL VIDEO E ALLA FOTOGRAFIA
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PERSONALI 2012 Panta rei curata da Chiara Pirozzi Dino Morra arte contemporanea, Napoli 2010 Naked lunch Spot 4 curata da Adriana Rispoli e Eugenio Viola museo Madre, Napoli 2007 Still life in it! Blindarte contemporanea, Napoli 2005 Ensnaring Blindarte contemporanea, Napoli
GALLERIA Dino Morra arte contemporanea Vico Belledonne a Chiaia 6, Napoli www.dinomorraartecontemporanea.eu
QUOTAZIONI da 2.500 a 12mila euro
SITO moiosivelli.blogspot.it
Untitled, 2010 video still
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PASSAGGI INASPETTATI
L’opera del duo campano assume una condizione straniante, un valore percettivo precario, labile che mette in scena un teatro plurisensoriale fatto d’immagini e materia. Un viaggio fra labirinti di segni e simboli che animano l’universo della vita in un esercizio sempre in bilico fra realtà e finzione di ALESSANDRO DEMMA
L
e opere di Moio & Sivelli si muovono su sentieri incerti, instabili, su superfici precarie dove scorre il tempo, la realtà, l’indecisione dell’esistenza. Le riflessioni attuate dal duo napoletano viaggiano su frequenze intermittenti, mettendo in scena un cortocircuito visivo e di senso che disorienta, spiazza lo spettatore. È proprio sul rapporto con lo spettatore e la sua visione che si gioca il finale di partita fondamentale di Moio & Sivelli. Il confronto tra uno spazio e una situazione reale con l’impercettibile smarrimento che una realtà “altra”, o una circostanza banale mette in discussione, in crisi. Una percezione straniante e ambigua che costringe l’osservatore a uno sforzo fisico e mentale, a un’attenzione che genera uno stato di attrazione significativo. Le loro opere diventano il luogo per provare nuovi transiti e passaggi insospettati, superfici dove si affacciano, incerte e sospese, immagini che, una volta generate, si presentano in
una condizione di ambiguità. Attraverso l’uso del video e della fotografia, di tecniche come lo stop-motion, e di materiali come il silicone, l’opera assume una condizione straniante, un valore percettivo precario, labile che mette in scena un teatro “plurisensoriale” fatto d’immagini e materia. Quello di Moio & Sivelli sembra essere un viaggio fra labirinti d’immagini, di segni e simboli che animano l’universo della vita, un mondo in cui, passo dopo passo, in un esercizio sempre in bilico fra realtà e finzione, viene rappresentata, usando un’espressione cara a Baudrillard, la verità alterata. Le opere sono concepite come trappole visive in cui l’apparenza gioca un ruolo fondamentale, un’apparenza non intesa in maniera frivola, ma come passione della deviazione e seduzione dei significati. Da Roundabout a Naked lunch, ai più recenti Panta rei e Italienische reise, Moio & Sivelli hanno costruito un universo immaginifico concreto
e al contempo illusorio, una rappresentazione di verità manipolate e ricodificate. Nonostante la fascinazione, l’impatto estetico-sensoriale dilatato, le opere del duo napoletano non sono mai impulsive, non sono il frutto di una bizzarra ispirazione, ma il risultato di un’intensa riflessione. Pur essendo sempre sorprendenti e impreviste, non sono mai la conseguenza di uno stile precostituito, ma di un confronto con le atmosfere del reale e dell’immaginario, del banale e del fantastico. Moio & Sivelli spingono il loro sguardo su aspetti della realtà indagando la possibilità di rendere visibile ciò che si nasconde nelle pieghe del reale, attraverso le sperimentazioni di meccanismi fisici e mentali. Le luci e i movimenti, il tempo e lo spazio diventano l’alfabeto visuale col quale costruire il loro racconto, una “giostra” dove scorre il ritmo degli eventi. È quello che avviene in Roundabout, video presentato per la prima volta nel 2006 e inserito nel 2012 nel progetto The one
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PSICOPATOLOGI DELLA QUOTIDIANITÀ E ANTROPOLOGI DELLA CREATIVITÀ MOIO & SIVELLI EVIDENZIANO E ACCENTUANO CON I PROPRI STRUMENTI COMUNICATIVI IL TESSUTO (INSTABILE) DELLA REALTÀ PRODUCENDO IPOTESI LINGUISTICHE CHE SI SBARAZZANO DI OGNI ARCHETIPO MANIERATO PER AZIONARE UN PROCESSO INVESTIGATIVO ATTO A SPINGERE LA LEVA DELLA CREAZIONE SUL FILO DELL’IRONIA E DEL GIOCO
A sinistra: Naked lunch performance, museo Madre 2010, Napoli
ANTONELLO TOLVE
Sopra: Ensnaring 3, 2005 Sotto: Italienische reise, 2012
minutes a Shanghai nella sezione di videoartisti italiani selezionati dall’Igav (Istituto Garuzzo per le arti visive), in cui, all’interno di un gioco ottico e sonoro che ricorda una giostra da luna-park, una rotonda smista-traffico di Ponticelli viene rappresentata in alcuni momenti di routine che si svolgono attorno a essa. Un gioco d’immagini ironico e iconico che mette in evidenza uno spaccato di vita comune alterandone la percezione e il significato. L’universo realizzato da Moio & Sivelli è un luogo mai concluso di un processo alle immagini, uno spazio teorico e fisico, in cui le immagini possono assumere un nuovo significato, nuova voce e nuova attualità. Un universo che è giocato sul concetto di simulazione e che mette in causa la differenza tra il vero e il falso, tra il reale e l’immaginario, sviluppando situazioni che creano effetti di visione che affascinano, seducono, inquietano, attraggono gli occhi dello spettatore e li incatenano all’opera.
LA MOSTRA L’arte del presente Il 5 ottobre, in occasione della Giornata del contemporaneo Amaci, a Castel Sant’Elmo si inaugura la mostra Na.to. L’arte del presente, il presente dell’arte, curata da Alessandro Demma. L’esposizione presenta il lavoro di 14 artisti tra cui Moio & Sivelli. Un’intrigante panoramica di esperienze differenti per linguaggi, tecniche, materiali, arricchita dalla presenza di quattordici critici invitati a ripensare il lavoro di ogni artista presente in mostra. Una riflessione su un mondo e un sistema, in rapido mutamento, per catturare – con le parole di Charles Baudelaire – ”il transitorio”, ”il fuggitivo”, ”il contingente”: la qualità che più caratterizza il vivere contemporaneo. Fino al 14 ottobre, info: www.na-to.it
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande
A fianco: Hampstead park table service, 2005 cortesia Dino Morra arte contemporanea
Sotto: Classroom#1 video still, 2008
Cosa sognavate di diventare da grandi? «Chirurghi». Come siete diventati artisti? «Con un parto naturale». Cosa vorreste essere se non foste artisti? «Avventurieri». Hobby, passioni? «Viaggiare». Come definireste la vostra arte? «Allertante! In ogni caso ci riesce difficile definire in senso generico ma potremmo dare un aggettivo a ogni lavoro. Sarebbe divertente!». Come definireste la vostra vita? «Come il gioco dell’oca!». Ci sono valori eterni nell’arte o nella vita? «Certo! L’onestà intellettuale è valida in entrambi i casi». Chi sono i vostri maestri nell’arte o nella vita? «Nell’arte sicuramente la vita, nella vita sicuramente l’arte... Vale a dire che l’esperienza quotidiana, la moltitudine di persone incontrate, incrociate o con cui si condivide un pezzo di vita, gli amici e gli amori, tutti sono maestri se si ha atteggiamento e attitudine di discepolanza». Cosa trovate interessante oggi? «La diversa percezione della distanza. Crediamo sia un discorso di percezione e per questo ci affascina ancora di più». Cosa non sopportate di questo tempo? «Il falso moralismo e la mistificazione continua».
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LA BELLEZZA DEI SENTIMENTI Imran Qureshi viene dal Pakistan A settembre al Macro, nelle sue opere racconta la gente e le tradizioni della propria terra con un linguaggio innovativo intriso di profonde emozioni: «Per me dipingere è come comunicare nella mia lingua» di SARA RELLA
Sopra: Imran Qureshi Opening word of this new scripture, 2013 A sinistra: Blessings upon the land of my love, 2011
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I
mran Qureshi è lo straordinario interprete di un’estetica che racchiude la sapienza e il sublime della tradizione artistica della sua terra. Attraverso una raffinata grammatica di segni misurati e di tracce istintive, Qureshi vuole comunicare con lo spettatore, trasmettere la tensione vitale che intercorre tra le polarità della natura e della sua distruzione, esprimendosi in una lingua nuova, la sua lingua madre, arricchita di un lessico personale e attuale. Lo sguardo dell’osservatore è catturato nella seduzione del gioco, di respingimenti e di inviti, che emana dai colori evocativi e dalle forme ricercate delle sue opere. La tua ricerca estetica coniuga il rigore e la raffinatezza delle miniature delle corti Moghul con un linguaggio contemporaneo. Cosa c’è all’origine di questa intuizione creativa? «C’è un punto di partenza concettuale e un punto di partenza formale alla base del mio linguaggio. Mi sono rivolto alla tradizione osservandola sotto una luce nuova, distinta dalle altre forme d’arte: è stato come vedere cose differenti in una prospettiva completamente diversa. La tradizione a cui mi ispiro
riflette i costumi della gente di questa terra. Analogamente, quando lavoro a un’ opera, l’intero procedimento creativo è strettamente legato ai vari aspetti della società e della cultura in cui vivo. Per me dipingere secondo questo procedimento equivale a comunicare nella lingua madre anziché in una lingua straniera, potrei sintetizzare così il concetto che descrive la mia scelta. È anche il concetto che esprime al meglio l’elemento che ha esercitato un grande fascino su di me, che mi ha attratto, facendo in modo che mi sentissi a mio agio in questa tradizione artistica e la portassi nel mondo dell’arte contemporanea». Come sono accolti in Pakistan i tuoi lavori? «All’inizio la vera sorpresa è stata per chi pensava alle miniature come a una forma artistica ormai decaduta, o per quanti ritenevano che le miniature non potessero essere creative o innovative e si limitassero a essere delle riproduzioni di temi tradizionali del passato. Quando, per la prima volta, si sono trovati di fronte ai miei lavori sono rimasti realmente stupiti. All’epoca, in Pakistan, c’erano diverse scuole che si occupavano di miniatura e parallelamente si era acceso nel paese un fervido dibattito
L’ARTISTA Imran Qureshi 1972 Nasce il 31 marzo a Hiderabad, Pakistan
1993 Consegue la laurea di primo livello in Belle arti al National college of arts di Lahore, Pakistan
1994 Inizia la sua attività d’insegnamento al dipartimento di Belle arti del national college of arts di Lahore
2011 È vincitore, con il progetto site specific Blessings upon the land of my love, della decima Biennale internazionale di Sharjah, Emirati Arabi Uniti
2013 Viene eletto artista dell’anno dalla Deutsche Bank In seguito al riconoscimento espone in una personale alla Deutsche Kusthalle di Berlino, nuovo spazio espositivo di Deutsche Bank. The roof garden commission è la prima opera site specific che viene dipinta sul tetto del Metropolitan Museum of Art di New York. Partecipa alla 55esima Biennale di Venezia
A sinistra: Self-portrait, 2009 A destra: Imran Qureshi nel suo studio Berlino, 2013
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LA SUA PRATICA ARTISTICA OSCILLA TRA LA DISCIPLINA E LA RIELABORAZIONE DELLA MINIATURA E LA MISURA ESTESA DEGLI SPAZI ARCHITETTONICI. I SUOI LAVORI SONO MERAVIGLIOSAMENTE COMPLESSI E ALLO STESSO TEMPO APPAIONO SEMPLICI: TENGONO CONTO DELLE SFORTUNATE REALTÀ DELLE IDEOLOGIE POLITICHE MENTRE RIVELANO L’ABILITÀ DI DIPINGERE E DARE COLORE PER TRATTEGGIARE E STIMOLARE ATTIVAMENTE UN SENSO DI RIGENERAZIONE SHEENA WAGSTAFF
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A fianco: They shimmer still, 2013 A sinistra: Give & take, 2013
PERSONALI 2013 Imran Qureshi Museo d’arte contemporanea, Roma The roof garden commission: Imran Qureshi’s miniature paintings Metropolitan museum of art New York Artist of the year Deutsche Bank kunsthalle Berlino And they still seek the traces of blood... Zahoor Al Akhlaq gallery National college of arts, Lahore 2010 All are the colour of my heart Chawkandi Art, Karachi All are the colour of my heart Rohtas 2, Lahore Pao gallery, Hong Kong art center Hong Kong 2007 Encounters: Imran Qureshi Modern art, Oxford Encounters: Imran Qureshi Canvas Art gallery, Karachi 2006 Imran Qureshi Anant Art gallery New Delhi 2004 Imran Qureshi Corvi-Mora Londra 2002 Imran Qureshi Chawkandi Art gallery Karachi
OLTRE I MONDI DELL'ARTE INTESA COME PSICOPATOLOGIA, CI SONO NON POCHE SORPRESE SERENDIPICHE. IMRAN QURESHI, AD ESEMPIO, HA REINVENTATO LE MINIATURE MOGHUL SOTITUENDO LE SCENE DELLA VITA DI CORTE E I RITRATTI, CON IMMAGINI DELLA VITA QUOTIDIANA IN PAKISTAN, ESEGUENDO ANCORA LE FIGURE CON UNA CURA SQUISITA UTILIZZANDO LA GOUACHE TRADIZIONALE E LA TECNICA DELLA DORATURA RODERICK CONWAY MORRIS
1996 Imran Qureshi Rohtas gallery Islamabad 1995 Imran Qureshi Alliance Française gallery Lahore
GALLERIA Corvi-Mora, Londra www.corvi-mora.com
QUOTAZIONI n. d.
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Sognavo di diventare un artista. Non avevo ancora ben chiaro se pittore o altro. C’è stato un periodo in cui dipingevo e pensavo che sarei potuto diventare uno scenografo per la televisione. In ogni caso desideravo fare qualcosa di molto creativo». Come sei diventato un’artista? «Ero sempre impegnato in attività artistiche, sin dall’infanzia; nella mia famiglia tutti sapevano che sarei diventato un artista, mi hanno incoraggiato e dato dei consigli. Mio padre in particolare ha supportato l’idea che intraprendessi degli studi al college di Lahore, la scuola d’arte di maggior prestigio nell’Asia del Sud». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Se non fossi un artista credo che sarei un artista. Non ho mai pensato a un’alternativa». Hobby, passioni? «Mi piace molto viaggiare. Amo andare al cinema, fare vita sociale e, anche se non sono un assiduo frequentatore, mi piace allenarmi in palestra». Come definiresti la tua arte? «Per me fare arte è trasferire i sentimenti che nutro, rispetto a ciò che mi circonda, in creazione. Espressione di sentimenti, la definirei così». Come definiresti la tua vita? «Non ho mai pensato potessi arrivare dove mi trovo ora. Nella mia vita non ho rincorso sogni. Ho fiducia nell’impegno verso i propri obiettivi… Il successo è qualcosa di diverso». Ci sono valori eterni nell’arte o nella vita? «Credo nell’onestà verso se stessi. Credo che se sei sincero con te stesso raggiungerai dei traguardi nella tua vita». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «La mia famiglia e i miei insegnanti». Cosa trovi interessante oggi? «La nuova generazione di artisti, ce ne sono molti, giovanissimi e davvero bravi». Cosa non sopporti di questo tempo? «L’instabilità».
Sopra: Bleed, 2013 A destra: Artist of the year 2013 veduta dell’installazione Deutsche Bank kunsthalle, Berlino
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sul revival di questa particolare forma d’arte. Il confronto era acceso ed era alimentato da diverse interpretazioni: molti apprezzavano il mio lavoro, altri richiamavano l’attenzione sulla tradizione cercando di definirla. In ogni caso quello che si era venuto a creare era un dialogo davvero molto interessante». Dalle tue creazioni più recenti emerge un senso di crudeltà unito a bellezza e armonia, che ruolo hanno queste nel tuo lavoro?
«Nella mia ricerca artistica ho sempre voluto stabilire un dialogo tra un modo di fare arte istintivo e libero e una cura attenta delle immagini. Anche nei lavori degli esordi era presente questa attitudine ma in maniera decisamente diversa. In quei lavori amavo disegnare figure delicatissime su superfici scabre, era presente una componente astratta che accompagnava forme lievi e curatissime: assecondavo la mia creatività più istintiva e, allo stesso tempo, lavoravo su immagini belle ed estrema-
mente rifinite. Sono sempre stato interessato a questo dialogo, è una costante che si ripete continuamente nel mio lavoro: l’idea del dialogo che avviene tra la vita e la distruzione della natura o della vita stessa. Puoi osservare la stessa dinamica nei miei lavori più recenti, come nell’istallazione And how many rains must fall before the stains are washed clean realizzata per il Metropolitan museum di New York. Quando questa si offre al tuo sguardo, sulle prime si ha l’impressione di vedere
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LE MOSTRE Imran Qureshi Artist of the year Il Macro ospita dal 25 settembre al 17 novembre la prima personale in un’istituzione pubblica italiana di Imran Qureshi, vincitore dell’edizione 2013 del premio Deutsche Bank. La mostra, con un allestimento ripensato per gli spazi del museo capitolino, vede esposte circa 35 opere e un intervento site specific in cui l’artista esce dalla tela per affrontare e invadere lo spazio espositivo. Qureshi è attualmente in mostra alla 55esima esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia nell’ambito del Palazzo enciclopedico (1 giugno – 24 novembre 2013) e al Metropolitan museum of art, New York (fino al 14 novembre 2013). Info: www. museoma cro. org
A fianco: Blessings upon the land of my love, 2011
solo sangue ovunque, poi si realizza chedalle macchie emerge altro che cattura la tua attenzione: ciò che è respingente allo stesso tempo ti attrae, lo trovi repellente eppure avverti il suo invito a entrare nell’opera; ti avvicini dunque, per essere spinto indietro nuovamente. Si crea, così, una sorta di tensione. Queste due polarità che interagiscono tra loro sono da sempre al centro del mio lavoro». Qual è il fine della tua arte? «Quando cerco di stabilire un dialogo con il pubblico e riesco a far passare ciò che voglio comunicare attraverso la mia opera, raggiungo lo scopo del mio fare arte e questo accade. Accade sempre, credo. Prendiamo l’esempio della mia installazione Blessing upon the land of my love per la Biennale di Sharjah del 2011: c’erano persone provenienti da altre culture, da società e da contesti molto distanti tra loro,
l’installazione ha toccato tutti. Ciascuno ha risposto alla visione dell’opera in modo personale, ci sono state risposte diverse su piani diversi, qualcuno è stato toccato a un livello più intimo, molti altri hanno messo in relazione l’opera a una dimensione sociale, legata maggiormente a temi d’attualità. Ognuno ha vissuto l’esperienza del messaggio trasmesso dal mio lavoro. Credo, inoltre, che laddove un’opera non abbia nulla da comunicare al pubblico, questa sia semplicemente inutile». Dopo la Deutsche bank kunsthalle di Berlino e il Metropolitan museum di New York, il Macro di Roma ospita una tua personale. Come nasce questa iniziativa? «La mostra è uno degli eventi seguiti al premio Artist of the year 2013, per il quale sono stato selezionato dalla Deutsche Bank. L’iniziativa è parte del premio stesso: una cosa straordinaria se consideriamo
che, quando si riceve un premio, nella maggioranza dei casi ci si limita al riconoscimento e, spesso, non c’è un seguito. In questo caso, invece, alla premiazione sono seguite una grande personale e un’importante pubblicazione. In questa mostra in particolare, i miei lavori vengono presentati suddivisi in tre categorie. Sono solito dividere la mia produzione in tre gruppi principali: i dipinti che si ispirano alle miniature tradizionali, le istallazioni site specific e i dipinti su tela o carta. Questi ultimi sono i più astratti, si rifanno al concetto di miniatura superandolo. Questa mostra illustra, quindi, i tre aspetti del mio lavoro offrendone una visone globale e comprensiva. È per il pubblico un’occasione per conoscere meglio la mia pratica artistica: come mi confronto con la tradizione cui appartengo e come la elaboro portandola nell’arte contemporanea».
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HOW MUCH? AND WHAT ? La collettiva dell’associazione Anonimartisti si interroga sulla nostra alimentazione
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uando si parla di alimentazione, le parole qualità e quantità sono spesso intrinseche, così come cibo e salute. Di cosa abbiamo realmente bisogno per sostenerci? Cosa ci serve davvero, eliminando gli sprechi? Sono questi alcuni interrogativi che si pongono i 15 artisti dell’associazione culturale Anonimartisti, dal 18 al 20 ottobre, con l’evento artistico, patrocinato dall’Assessorato Moda Eventi Expo della Provincia di Milano, dall’Assessorato alla Cultura di Regione Lombardia, dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, oltre che dall’ente EXPO e Cia Lombardia. Gli artisti si confronteranno partendo dalla definizione di concetti come quantità e qualità. Quantità/How much, proprietà di tutto ciò che può essere misurato, definito nelle sue dimensioni, numero, mole. L’ammontare di una risorsa. Quantità di cibo come disponibilità e specchio del benessere di una società. Poco per tanti, tanto per pochi. Qualità/What, caratteristiche intrinseche di una cosa, che ne determina le peculiarità, la distingue dalle altre e risponde alle aspettative dell’utilizzatore. Qualità per l’industria del cibo è la standardizzazione del prodotto che deve essere sempre uguale a se stesso. Non solo arte. In linea con il concept del progetto, le
Palazzo Isimbardi Corso Monforte, 35 20122, Milano Info e programma: www.anonimartisti.it
Sopra: Black Maui s.d. Sopra, a sinistra: Lele De Bonis s.d.
aziende agricole coinvolte, promuoveranno i loro prodotti provenienti da un ciclo produttivo sostenibile. Per un connubio tra arte e cibo che, da sempre, influenza le attività umane. Inoltre, performance live degli artisti, musica dal vivo dal rock al jazz e dj set a cura di Radio Ilr Chill & Groove. Gli Anonimartisti: Gianluca Quaglia, Matteo Suffritti, B-Maui, Lele De Bonis, Linda Ferrari/Drunkenrabbit, Francesca Lolli, Alessandro Minoggi, Marcella Savino, Mimiartdesign, Strangeman, Alan Zeni, Manu Zuccarotta, Mattia Barf Carne, Lisa Alonzo, E123.
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UNO SCATTO SUL BIANCO Michela Bernasconi realizza progetti che spaziano dalla mitologia al paesaggio contemporaneo: «Penso che la fotografia non sia mai stata, neanche nel passato una prova di autenticità, c’è sempre una chiave di lettura che viene fornita dal fotografo» di MARIA LUISA PRETE
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i vuole passione, molta pazienza, sciroppo di lampone e un filo di incoscienza. Ci vuole farina del proprio sacco, sensualità latina e un minimo distacco”, diceva una bellissima canzone di Ornella Vanoni. E sembra essere proprio questa la ricetta di Michela Bernasconi. Classe 1983, la giovane fotografa milanese stupisce per la grazia studiata nei dettagli, la visione che prende corpo trasformando ogni scatto in una storia, il brio e l’ironia che non guastano mai, e poi la tecnica – certo sorretta dalla tecnologia – ma comunque rilevante. La giovane autrice si racconta con l’entusiasmo di chi si affaccia pieno di speranze al mondo dell’arte. I tuoi sono scatti pensati, curati in ogni particolare. Come nasce l’idea?
«Dipende molto dal progetto. La serie Uscite dall’ombra, che rappresenta le donne di Ulisse come apparirebbero con un metro di valutazione contemporaneo, ha comportato una lunga ricerca e preparazione prima degli scatti. Ogni immagine è stata pensata nel dettaglio, perché ogni dettaglio doveva raccontare la personalità della protagonista e la sua storia con l’eroe. In altri casi lavoro in modo più istintivo e febbrile. Spesso l’immagine finale nasce durante il percorso e differisce totalmente da quella embrionale da cui ero partita. Metropolis, che a prima vista sembra una catalogazione dei grattacieli milanesi, ha avuto una fase molto istintiva nella sua creazione. Amo moltissimo riprendere vecchi scatti e stravolgerli rispetto agli originali, un lab-
oratorio in continua evoluzione». Le serie sono diverse, si va dall’architettura alla mitologia, dal bianco e nero al colore, dal paesaggio all’autoritratto. Cosa implica la scelta di un tema e come viene sviluppato? «La nascita di un progetto è un qualcosa che avviene in modo indefinito: un libro, un film o un luogo possono essere degli ottimi spunti per un progetto che nasce come un flash, un’immagine che appare nella mente. Quello che avviene dopo, invece, è un processo molto lento di continuo ripensamento intorno all’immagine finale fino ad arrivare alla produzione che rimane l'ultima fase e che arriva magari a distanza di mesi dall’idea iniziale». Ogni immagine racconta una storia: cosa le lega?
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«Mi piace, quando lavoro a un’idea, analizzare aspetti diversi del progetto. Per esempio la serie Legami è stata una sorta di terapia, il tentativo di mettere ordine in me stessa: ogni immagine, infatti, rappresenta una particolare nevrosi, una problematica irrisolta. La paura di alcuni legami, la consapevolezza che il continuo bisogno di connessione col mondo in realtà è più un isolamento che un’apertura. La costrizione a un certo tipo di bellezza cui spesso noi donne ci leghiamo. La paura, in alcuni casi, di crescere e di evolversi che ci copre come un velo. Sono tutti particolari aspetti di me stessa che non volevo e non voglio tuttora accettare, ecco il perché in ogni immagine mantengo gli occhi chiusi». Come definiresti il tuo stile? «Mi piace l’idea di poter spaziare attraverso diversi temi senza dovermi per forza identificare in un genere in particolare. Al di là della scelta del soggetto c’è
il desiderio di rendere la mia visione della realtà, della donna e del mondo che mi circonda». La fotografia, oltrepassando i confini tecnologici, dove porta? Come può la manipolazione influire sulla resa finale? Quanto rimane di autentico? «Penso che la fotografia non sia mai stata, neanche nel passato, una prova di autenticità, c’è sempre una chiave di lettura che viene fornita dal fotografo, che valuta la scena al posto dello spettatore e non restituisce la totalità di quello che avviene: la scelta di un’inquadratura, di un soggetto, è precisa, ben ponderata ed esclude a priori una parte di realtà presente nel momento dello scatto. Trovo che il concetto di realtà sia estremamente soggettivo. Ho una formazione pittorica e quindi la mia idea di immagine nasce da una tela bianca su cui inserire degli elementi. Nella pittura nessuno si stupisce più se degli uomini con la bombetta pi-
ovono dal cielo; in fotografia, al contrario l’uso della manipolazione digitale, porta spesso a discussioni intorno al suo presunto ruolo di registrazione della realtà». Sei molto giovane, pensi di poter esplorare altri linguaggi artistici o di non tradire mai la fotografia? «La fotografia è un bellissimo mezzo ma è per l’appunto solo un mezzo. Tanto di quello che c’è all’interno delle mie immagini deriva da direzioni diverse: dalla pittura, all’incisione, al cinema. Non escludo affatto di indagare mezzi diversi dalla fotografia in futuro». Progetti e sogni da realizzare. «Sto lavorando a un progetto sul ruolo dello specchio nell’indagine dell’io. Come uno strumento che dovrebbe solo restituire un’immagine riflessa abbia delle implicazioni molto più profonde nella conoscenza di noi stessi, soprattutto per quel che riguarda il mondo femminile».
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A destra: Michela Bernasconi Connessione, 2011 Sotto: Mesange, s. d. A sinistra: Nausicaa, 2010 dalla serie Uscite dall’ombra A pagina 63: Autoritratto, 2010
TROVO CHE IL CONCETTO DI REALTÀ SIA ESTREMAMENTE SOGGETTIVO HO UNA FORMAZIONE PITTORICA E QUINDI LA MIA IDEA DI IMMAGINE NASCE DA UNA TELA BIANCA SU CUI INSERIRE DEGLI ELEMENTI
L’ARTISTA E LA MOSTRA Fotografia & scrittura Michela Bernasconi nasce a Milano il 5 luglio 1983. Dopo la laurea in pittura conseguita all’accademia di Belle arti di Brera, decide di dedicarsi esclusivamente alla fotografia, pur non abbandonando l’interesse per le sue origini pittoriche. Frequenta così l’Istituto italiano di fotografia del capoluogo lombardo, dove vive e lavora. La prossima esposizione in programma è inserita in Fotograficamente, una rassegna di mostre, conversazioni, letture portfolio e workshop che intende indagare sul rapporto tra fotografia e narrazione. Oltre alla personale del fotoreporter Uliano Lucas, Racconti di fotogiornalismo, la Bernasconi partecipa con il progetto Uscite dall’ombra alla collettiva Fotografia & scrittura che inaugura il 21 settembre alla fondazione Bottari Lattes di Monforte d'Alba (fino al 17 novembre, info: www.fondazionebottarilattes.it). Info: www.michelabernasconi.com
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SULLA TELA DEGLI SPAZI URBANI Agostino Iacurci, illustratore e street artist, si ispira all’espressionista tedesco di Otto Dix e George Grosz: «Ritengo il mio lavoro piú vicino al muralismo e il discorso sull’istituzionalizzazione mi interessa relativamente Credo che il fenomeno abbia in qualche modo messo in luce un bisogno di arte da parte di un nuovo pubblico che prima stentava a trovare riferimenti» di ALESSIA CARLINO
«N
on ho mai voluto un nome d’arte per un discorso di onestà, lavoro spesso a contatto con le persone e nello spazio pubblico e devo assumermi, a maggior ragione, le mie responsabilità». Agostino Iacurci è un artista cresciuto in seno all’attività di illustratore, un linguaggio che ha reso proprio anche attraverso i suoi interventi urbani dove ha iniziato a farsi notare nel panorama artistico internazionale. Un vocabolario che lui stesso definisce accessibile e sintetico improntato su tutto quello che lo circonda. Le sue opere, presenti nelle città di tutto il mondo, sono monumentali illustrazioni che colgono le radici, in certe immagini, del realismo espressionista tedesco della prima metà del Novecento. L’attività di questo artista originario di Foggia non può essere incasellata in una semplice definizione che afferisce al feno-
meno della street art, i suoi mondi pittorici sono espressioni consapevoli di un’estetica onirica che affascina lo spettatore e arricchisce il tessuto urbano in maniera tangibile e concreta. «Parto da un percorso personale – racconta – iniziato nel ‘98, a 11 anni, con i graffiti, e proseguito con la passione per i fumetti underground. A causa di questi primi amori, a 18 anni, ho deciso che volevo fare dell’arte un lavoro e ho iniziato a interessarmi all’illustrazione. Venendo dalla provincia, ho sempre visto l’arte contemporanea come qualcosa di distante, slegato dalla realtà e di totalmente irraggiungibile, nell’illustrazione, invece, c’era qualcosa di più familiare e concreto, l’accesso ai libri è frequente nella mia vita ed è stato per me un modo per provare a fare arte e per avere in mano un mestiere. Mi sono trasferito a Roma per studiare e a un certo punto ho capito che quello che realmente mi interessava era costruire un
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A sinistra: Agostino Iacurci The dialogue Oberkampf, Parigi, s. d. Sotto: Pietro non torna indietro via Lavizzari, Lugano, s. d.
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LA MOSTRA Back 2 back to Biennale Agostino Iacurci è a Venezia fino al 24 novembre a palazzo Ca’ Bonvicini per l’evento Back 2 back to Biennale, a cura di Francesco Elisei e Fabio Anselmi. Per la prima volta alla Biennale un contest sul mondo del writing europeo. Info: www.bb2biennale.com
linguaggio autonomo che potesse parlare di qualcosa che mi riguardasse da vicino, restituire la visione che ho della realtà. Sin da piccolo ero affascinato dall’operare nello spazio pubblico cittadino, così, dopo un paio d’anni d’interruzione, sono tornato a fare murales. Grazie all’incontro con Simone Pallotta ho cominciato a fare lavori piú grandi e su commissione, questo mi ha permesso di ragionare sul mio lavoro e sul contesto in cui andavo a intervenire. Nel 2006/7, anno in cui ho reintrapreso questo percorso, si ragionava sui cambiamenti stilistici che si stavano affacciando in questa scena, penso ad esempio al dibattito sull’utilizzo degli stencil e dei pennelli piuttosto che gli spray, il dibattito arte-vandalismo, graffiti-street art». Cercare nel fenomeno dell’arte urbana le radici dell’immaginario di Iacurci è un processo complesso, come complicato diviene incasellare le diverse matrici espressive nate in seno a questa corrente artistica. «Quella degli street artist – spiega l’artista – è diventata una famiglia molto grande, tanto che tale definizione non riesce più a contenere le molteplici forme di espressione che si sviluppano in questo contesto. Ritengo il mio lavoro piú vicino al muralismo, quindi il discorso sul-
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A sinistra: Il Civitavecchio Civitavecchia progetto a cura di Walls
L’ ARTISTA Agostino Iacurci nasce a Foggia il 21 marzo 1986. Cresciuto in seno all’ambiente dei graffiti, a 18 anni decide di trasferirsi a Roma dove inizia la sua attività di illustratore. Dal 2006 prosegue il suo percorso creativo grazie alle prime commissioni pubbliche appropriandosi degli spazi urbani attraverso un linguaggio semplice e incisivo. Le opere di Iacurci oggi sono presenti in molti paesi europei ma anche in Giappone, Stati Uniti, Corea, Taiwan e Russia. Recentemente ha partecipato a uno degli eventi collaterali della Biennale di Venezia affermandosi come uno degli street artist italiani più interessanti del panorama internazionale. Info: www.agostinoiacurci.com
Nel box: Auto stalk, Zagabria A destra: Agostino Iacurci
l’istituzionalizzazione mi interessa relativamente. Credo che il fenomeno street art abbia in qualche modo messo in luce un bisogno di arte da parte di un nuovo pubblico che prima stentava a trovare riferimenti. Sta diventando un dato di fatto la percezione dello spazio urbano come un luogo in più dove poter lavorare, prima questa possibilità era un’esperienza limitata a un certo numero di persone che aveva intrapreso un percorso nato nel grembo dei graffiti. Oggi anche un artista proveniente da una formazione di stampo accademico valuta la possibilità di operare in un ambiente esterno che è sicuramente un luogo accessibile a tutti. Io vivo quella che viene chiamata street art come un circuito di artisti e appassionati che hanno una comune attenzione verso lo spazio urbano. Spesso e volentieri dietro un grande progetto ci sono piccoli gruppi di appassionati e volontari, a volte anche una sola persona». Esiste un fattore fondamentale nell’operare in strada: ogni artista deve confrontarsi inevitabilmente con la transitorietà di un’opera, con gli effetti degradanti di un ambiente esterno esposto a qualsiasi tipo di deperimento. «Il mio approccio generale – dice Iacurci – è sempre stato ca-
ratterizzato da una componente effimera e transitoria con cui facevo i conti. Non ho mai avuto, specie in quella fase iniziale, la pretesa che le mie opere venissero conservate, perché non attribuivo ai miei interventi un valore artistico, mi sembrava presuntuoso preoccuparmi della salvaguardia dei miei lavori. La bellezza di quegli interventi risiedeva proprio nel fatto che fossero transitori, che rappresentassero la risposta a un’urgenza di comunicare piuttosto che a una visione oculata e a lungo termine. Oggi, sempre più spesso, mi sto ponendo il problema, soprattutto da quando ho cominciato a lavorare su superfici monumentali. L’intervento assume impatto diverso su grande dimensione e mi capita di lavorare in contesti complessi, come centri storici o zone fortemente popolate, in cui non è sufficiente pensare che qualsiasi cosa si faccia sia sempre meglio del muro grigio. In generale credo che ogni opera abbia una sua natura specifica, ma nel momento in cui si pone all’interno di percorsi di riqualificazione, valorizzazione o musealizzazione della città penso sia un atto di responsabilità porsi il problema riguardante la conservazione».All’età di 16 anni Iacurci scopre il realismo espressionista tedesco di
Otto Dix e George Grosz, lo stile sintetico di questi autori influenzerà profondamente il suo universo visivo. «Quel tipo di universo iconografico credo sia un linguaggio fortemente espressivo, ma allo stesso tempo profondamente radicato nell’attualitá. Durante gli studi di illustrazione, mi ha colpito anche la figura di Munari per la libertà con cui attraversava le discipline, mantenendo una grande accessibilità e allo stesso tempo una profonda acutezza e ironia». Iacurci recentemente si è trasferito in Germania per lavoro e le sue opere sono presenti in diverse città europee, eppure nel nostro paese esiste una forte spinta propulsiva che sta facendo fiorire in molti contesti nazionali fenomeni di espressioni urbane. «Sono convinto – conclude – che l’Italia è un avamposto per quanto riguarda questo fenomeno, molti dei festival stranieri in cui sono stato, sono nati su dichiarata inspirazione del Fame festival di Grottaglie. Il nostro paese può vantare una bella tradizione di progetti che sono riusciti a porre attenzione verso questa corrente espressiva. Come dicevo, anche all’estero spesso i progetti sono fatti con budget minimi e almeno in questo, fare le cose anche con niente, siamo maestri».
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L’ANIMA DEL MONDO IN UN CEPPO DI LEGNO Col suo fare da bonario Mangiafuoco Jacopo Mandich impasta tronchi, ferro e pietra fino a dare corpo a una nuova essenza, anima alla materia Dialogo con l’artista che a settembre inizia alle Scuderie del Quirinale un viaggio che lo porterà in Qatar, Dubai, Monaco e poi chissà
di MAURIZIO ZUCCARI
I
l totem all’ingresso è una muta presenza guardiana di legno e ferro. Ceppi, metalli, pietre: ecco l’impasto materico con cui Jacopo Mandich libera le sue pulsioni, trasforma le proprie ansie in emozioni, a beneficio d’ognuno. Alla faccia del readymade duchampiano e di tanta fuffa che va per la maggiore, Jacopo si sporca le mani e si straccia la vita per tirare fuori da materiali che più grezzi non si può, raccolti in mezzo alla strada, qualcosa che è, letteralmente, un’opera d’arte. Ridà vita alla materia, Mandich. Di più: insuffla nelle cose, morte ancor prima d’essere consunte dal consumo sfrenato, un’anima. Nel suo laboratorio improvvisato ai margini dello Strike, centro sociale capitolino, mezza bottega di robivecchi e mezza fucina alchemica, a tratti s’intoppa e prende tempo, mentre racconta le sue sculture. Non così le creature a cui dà nuova vita in un vecchio corpo, riesumato tra gli scarti. Siano Sopravviventi, giocosi alter ego della propria furia creatrice-distruttrice, della sua personale resistenza all’oggi, oppure oggetti di design
destinati ad arredare le dimore di un mondo altro o ad abbellire gli spazi pubblici, le sue creazioni urlano una perizia tecnica distante dalle mode, un impasto d’etica e filosofia che ha radici più fonde degli alberi riusati a mo’ d’arredo urbano. È giovane, Jacopo, molta strada ha nei suoi sandali, per dirla come il Bartali di Paolo Conte. Assai più promette di farne, se saprà evitare le sirene che potrebbero ridurre la sua arte ad artigianato di lusso, senza lasciar offuscare la sua alterità dalle luci che s’affacciano all’orizzonte, né frenare dal timore di cambiare. È ancora giovane, ma le sue mani plasmano l’anima del mondo. Creando a tratti una materia altra, non più legno né ferro, non vetro né pietra: altro da sé, come altro da quel che era diventa l’oggetto cui dà forma. Dal suo antro emerge come un bonario Mangiafuoco, più che da serafico Geppetto, a dire le ragioni del suo fare, i suoi neo Pinocchi. «Lavoro con la materia riciclata per una ragione etica e perché è quella che mi posso permettere. Ferro, vetro, legno, pietra: ricerco l’armonia degli elementi in tutto. È
una non scelta, ho trovato il mio percorso utilizzando quello che trovo: un pezzo di materia che cerco di riportare allo stato primordiale. La venatura nel legno, la crepa nella pietra, sono suggestioni nelle quali mi perdo, piene di significati. Il legno racchiude l’aspetto più carnale, etereo ed effimero dell’essere umano, oltre che della natura. Un tronco in sezione con le sue macchie è la rappresentazione di un’esistenza, è la storia di un individuo. La pietra è, fra i vari materiali, quello con cui ho minore confidenza. Sento che sto scalpellando i millenni, come essenza la trovo più prepotente, la sua forza espressiva è devastante, comunica con la stessa vitalità del legno ma in un’ottica planetaria di vita plurimillenaria. Non è più il battito di una vita ma di un pianeta, è il pezzo di pelle di un corpo celeste e quando ci entri in contatto è difficile da gestire come potere evocativo. Ho un legame profondo anche col metallo, l’angelo custode dell’umanità e il suo demone: con esso si costruiscono armi e trattori, permette una sopravvivenza non so se ancora sostenibile».
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Jacopo Mandich Uragano, 2012 A sinistra: il totem di legno e ferro davanti all’officina dell’artista al centro sociale Strike di Portonaccio a Roma foto Manuela Giusto
LE MOSTRE Genius & creativity e Faber Genius & creativity. Genio e creatività, è il titolo della collettiva al via a fine settembre alle Scuderie del Quirinale, alla quale partecipa Jacopo Mandich con alcune opere. L’esposizione, curata da Clémence Soulat e Nezha Kandoussi della galleria Dezin’In, sarà a ottobre in Qatar e a Dubai e a novembre a Monaco di Baviera. Info: dezin-in.com/it. Mandich è anche tra i protagonisti (con Alessandro Kokocinski, Valerio Giacone, Sebastiano Sanguigni, Carlo Roselli, Francesco Corica) della collettiva che inaugura il 14 settembre nella neonata galleria d’arte Faber di Cristian Porretta, a via dei Banchi Vecchi 31, ancora a Roma, erede della galleria Spazio 120 di via Giulia. Info: www.galleriadartefaber.com
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Questo è quello che i materiali dicono a te, ma tu con loro cosa vuoi dire al mondo? «Non ho una direzione unica. Mi muovo su diversi binari, anche sul grottesco, sul caricaturale, per rappresentare l’energia degli elementi. I sopravviventi sono una piccola riflessione ironica ispirata all’atmosfera surreale, onirica di Bosch. Sono creature prodotte per gioco, rinate da poco. La mia ottica di sopravvivenza in questo momento è difficile, I sopravviventi sono figli della mia frustrazione, di questa voglia di mangiare il mondo, un conflitto aperto. Ogni personaggio ha un suo ruolo, ma non un nome: questo, per esempio, è un benzinaio. Poi c’è un discorso più articolato sull’interiore umano, sulla nostra evoluzione. Le sculture sono momenti di crescita per me, con cui cerco di rappresentare anche momenti della vita. L’Uragano, che sarà in mostra a settembre alle Scuderie del Quirinale, può essere concepito come l’individuo che distrugge la struttura che non gli appartiene, e nel far questo incorpora il metallo, il rapporto con la società. Anche i Keloidi alchemici lunari, queste sfere in legno e ferro, sottendono la trasformazione del piombo interiore in oro, rappresentano la conflittualità di un individuo, la composizione dei suoi diversi elementi, le strane aberrazioni che prende la nostra anima. Il rapporto cruento e invasivo che in qualche modo si armo-
nizza, come un individuo trova un equilibrio e alla fine esiste, semplicemente. In Senza titolo, invece, non c’è sintonia o equilibrio ma rifiuto: l’esplosione in un istante, una fiammata di paglia, evanescente». Il tuo rapporto con la materia non prescinde dall’etica e dalla filosofia. «Mi piace rievocare sia l’energia imprigionata nell’oggetto, la storia del suo vissuto, sia la sua trasformazione, come la perdita d’identità dell’individuo nella morte e il suo ritorno nel magma del flusso-materia come oggetto. La caffettiera che si scioglie e riprende un’altra forma razionale, identificabile. Il percorso è questo. Soprattutto agli inizi senti la pressione del consumo, sei timido verso l’utilizzo di materie costate molto al pianeta, dunque quello che fai deve avere la sua importanza. Tento di non essere un peso planetario. Lavorando con i materiali riciclati ci si rende conto della massa di roba che la società butta via, della mole di rifiuti domestici che a livello scultoreo sono piuttosto complessi da gestire. Certo, con cinquanta frigoriferi tiri fuori una buona installazione, anche se come scultura non è il massimo. Ma grazie al recupero ho preso coscienza delle montagne di scarti che produciamo, costituite il più delle volte da cose ancora funzionanti. Il messaggio politico non è centrale, più che sul controllo esterno della società mi concentro sul
fatto che la percezione umana è limitata a una sola dimensione del nostro spettro potenziale. Comunicare un’emozione attraverso la materia è appunto un tentativo di scardinare l’aspetto percettivo di chi guarda. La rottura della mia e dell’altrui percezione, il collasso della realtà: è questo che ricerco con più foga. Penso che la mente sia un labirintico dittatore, paghiamo le conseguenze di una realtà cerebrale distaccata dalla nostra umanità, dal senso della vita, direi. Dovremmo cercare di essere in ascolto ma la mente per difesa atavica ha creato una serie di strutture, ormai inutili e debilitanti anche per l’organismo pianeta. Non è solo il buco dell’ozono o l’essere travolti dai rifiuti, è proprio mondezza interiore quella che creiamo: una quantità di rifiuti spirituali frutto del vizio, dell’abuso, dell’assurdo, dell’ingiustizia. Già l’uso sfrenato della tecnologia, del semplice frigo, fa sì che l’oggetto non finisca la sua vita quando non funziona più, ma perché si deve cambiare». La morte programmata degli oggetti. «Esatto. Questo meccanismo mentale rappresenta la mondezza interiore che applichiamo dappertutto. Non cerchiamo più niente, o meglio anche troppe cose ma sempre più in superficie, senza mai scavare, analizzare la rottura. Di conseguenza davanti a ogni manifestazione di dissenso dell’inconscio si tira dritto il prima possi-
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L’ARTISTA Jacopo Mandich è nato a Roma il 30 marzo 1979. Frequenta il liceo artistico sperimentale Alessandro Caravillani e l’accademia di Belle arti capitolina. «Lì – dice – ho avuto una preparazione molto teorica: cartoncino, gesso, creta, rapporto con la materia pressoché inesistente, molto frustrante, una serie di votacci». Approda nel 2003 al centro sociale Strike di Portonaccio, dove inizia a collaborare con l’associazione culturale L’occhio del riciclone nell’organizzazione di laboratori artigianali con materiali riciclati. Nel 2006 la sua prima doppia personale ad Arcevia e Milano, dopo aver vinto il premio Mannucci. È del 2010 una collettiva ai Mercati di Traiano, a Roma, e all’Architect’s gallery di Londra. Varie le sue personali nella capitale, dove è presente nel catalogo della Dezin’In gallery e della galleria Faber.
bile per non essere debilitati. Fuori dal percorso produci consuma crepa non puoi stare, quindi non devi pensare. Questa è la mondezza interiore. La realtà è fatta di molte cose, ma che si perda qualsiasi tipo di stimolo d’indagine sull’esistenza è un’assurdità, dal mio punto di vista. Anche a livello sociale mi pare importante, in questo momento. Poi, magari, crescendo si pensano altre cose. Il mio modo di comunicare francamente è un po’ anacronistico rispetto a quello, che so, di un writer ma credo in una realtà che non è arcadica, il semplice ritorno ai campi. Credo che le persone abbiano bisogno di fermarsi. Faccio parte di quelli che hanno bisogno di attenzione e voglia da parte dell’osservatore per veicolare il proprio contenuto». Come sei arrivato a plasmare la materia, piuttosto che darti ad altre forme d’arte? «Mi piace pensare che ci siano anche aspetti trascendenti, avrei potuto essere tante altre cose ma ho incontrato la materia e in questa ho riscontrato tanti aspetti del mio carattere, un amore fanciullesco. Mi piace lavorarla, mi è sempre capitato di rimanere in adorazione della materia in quanto tale. Questa, come l’individuo, è dotata di un corpo astrale, oltre quello etereo e fisico, a metà tra i primi due. Se poi è trasformabile, può interagire con la tua volontà inconscia, con un corpo eterico unico, fino a realizzare una terza materia che non è data
solo dalla compenetrazione di due materiali, non saprei. Ma credo nella trasmissione dell’energia eterica attraverso la meccanica. Occorre una lunga fase di ripulitura della materia, devi accarezzarla magari con otto carte diverse, neanche fosse la donna più desiderabile del pianeta. Comunque ci sono una serie di flussi di pensiero quando operi, e questo trasmette energia all’oggetto, se non altro la volontà di esistere. È una magia che a volte si compie quando l’oggetto acquista una sua identità, diventa un nuovo individuo. Le mie opere sono l’immagine del conflitto, dell’energia di base a cui non ho ancora dato un indirizzo, oltre tutto questo fremere. Sono anch’io alla ricerca di un’armonia, ma temo che la stabilità coincida con la staticità. Forse non sono ancora maturo per la prima, visto che non riesco a concepirla al di fuori della seconda. Però, sì, la serenità è un grande obiettivo e l’opera compiuta è una liberazione che fa restare nel pezzo la mia carica emotiva. Un bagaglio in meno dentro, uno in più fuori. Spero di non essere troppo personale, di lasciare spazio agli altri per identificarsi con il mio lavoro».
Sopra: l’artista Sotto: Senza titolo, 2008 A sinistra: I sopravviventi, 2012-13 con il benzinaio in primo piano foto Manuela Giusto
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CONFESSIONI SONORE IN CALCE E CEMENTO Laura Stancanelli lavora a stretto contatto con i materiali che utilizza. Coinvolge lo spettatore con installazioni, performance e video, creando ambienti spaziali votati al sociale. La sua Listening room introduce un nuovo tipo di relazionalità, fatta di segreti e sussurri, in attesa di qualcuno che protenda l’orecchio per restare in ascolto
di ALBE RTO FIZ*
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ai giovani provenienti da tutto il mondo, Laura Stancanelli era soprannominata la ragazza operaia: «Io, alla sera, ero la più sporca di tutti. Avevo gesso sui vestiti e persino nei capelli, mentre gli altri, quasi tutti, lavoravano col digitale e sembravano usciti da una sala sterilizzata». L’artista, nata a Catania nel 1982 ma calabrese d’adozione, non teme di sporcarsi le mani e reagisce con ironia e determinazione a un sistema sin troppo asettico e perbenista dove il confronto con la materia si è fatto raro. Il soggiorno nella prestigiosa sede dell’Art Omi, che si trova nell’Hudson River Valley nello Stato di New York, se l’è conquistato
aggiudicandosi la borsa di studio 2013 (dietro di lei si sono piazzati Silvia Pujia e Sebastiano Dammone Sessa) promossa, per il terzo anno consecutivo, dalla Provincia di Catanzaro, il museo Marca di Catanzaro e la Dena foundation for contemporary art diretta dalla collezionista Giuliana Setari. A convincere la giuria, è stata la sua Listening room, la stanza di ascolto, diventata, per motivi di praticità, un muro di ascolto. Perdere qualche parete non è un gran male per un lavoro che ha trovato proprio all’Art Omi la possibilità di essere realizzato. Ma il muro di Laura Stancanelli è una struttura assai particolare che sta a metà strada tra gli Spazicemento di Giuseppe Uncini e le
performance del pluripremiato Tino Sehgal, vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Si tratta di un muro che respira attraverso i suoi fori dove sono contenuti suoni, parole, rumori, incertezze, confessioni intime o semplici banalità. «L’ambiente che ho costruito contiene le tracce della nostra fragilità», afferma l’artista che durante le settimane del soggiorno alternava la cazzuola con il registratore in un lavoro che prevedeva da un lato la costruzione del muro con calce e cemento e dall’altro la raccolta delle testimonianze dei 30 artisti (oltre a lei) presenti all’Art Omi. Ciascuno di loro, infatti, ha lasciato la propria testimonianza parlando di sé, del lavoro, delle ansie o dei figli.
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Ne è emerso un racconto di 30 minuti che si può udire solo avvicinando l’orecchio ai vari interstizi del muro, una struttura che si dispone per essere ascoltata, quasi volesse raccontare i propri segreti. Ma chi ascolta può lasciare una confessione? «Per ora – dichiara l’artista – non è possibile ma sto già pensando ad una nuova versione interattiva dell’opera dove chi si avvicina potrà incidere la propria voce sui mattoni». Una citazione forse inconscia del Muro del Pianto che a Gerusalemme, da migliaia di anni, ascolta le preghiere degli ebrei che nascondono tra le pietre gli scritti con i loro più reconditi segreti. «Il nostro approccio con l’esistenza
avviene prima attraverso l’udito e poi attraverso la vista», ricorda Laura Stancanelli che cerca un posto in quella vasta indagine connessa con l’architettura del suono che spazia da Vito Acconci all’inglese Haroon Mirza. Il suo muro, del resto, è un primo approdo giunto dopo anni d’indagine sul sociale e di ascolto dove gli emarginati hanno potuto esorcizzare i loro problemi grazie alla creatività. Qualche anno fa, per esempio, i membri di una comunità di tossicodipendenti e alcolisti con sede a Lamezia Terme sono diventati i protagonisti di un film che faceva il verso al Frankenstein Junior di Mel Brooks. Laura Stancanelli ha condotto l’operazione
da regista in un remake di secondo grado (già il film di Mel Brooks era un remake) dove lo scopo finale era che i malati si liberassero del mostro che li possedeva. Lei, partita dalla scenografia, non ha mai considerato l’arte fine a se stessa, ma ne ha fatto uno strumento di carattere relazionale, in grado di coinvolgere il territorio. Non a caso, ispirandosi a Michelangelo, ha realizzato Senza pietà, una scultura fatta di spazzatura dove si denunciava il degrado dell’ambiente. Talvolta, per farsi sentire, è necessario urlare. * critico e curatore, direttore del Marca
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IL NOSTRO APPROCCIO CON L’ESISTENZA AVVIENE PRIMA ATTRAVERSO L’UDITO E POI ATTRAVERSO LA VISTA. L’AMBIENTE CHE HO COSTRUITO CONTIENE LE TRACCE DELLA NOSTRA FRAGILITÀ A pagina 71: Listening room, 2013 (particolare) A sinistra e a destra: l’artista al lavoro e in un momento di relax Sotto: gli artisti dell’ Art Omi residency, 2013
L’ARTISTA Laura Stancanelli nasce a Catania il 9 giugno 1982, vive e lavora a Catanzaro e Bologna. Si laurea nel 2013 alI’accademia di Belle arti di Catanzaro, nella scuola di scultura. Nell’ambito della sua ricerca artistica sperimenta linguaggi differenti: dall'installazione, alla performance, al video. A questi ultimi aggiunge una passione per la scenografia, che la spinge ad avere un’attenzione costante verso la composizione spaziale. Coinvolge lo spettatore in esperienze estetiche di tipo relazionale, all’interno di ambienti sociali nei quali, dal punto di vista formale, combina elementi plastici per lo più modulari. Listening room è un'installazione ambientale costituita da pannelli modulari con pareti forate, nelle quali sono stati impiantati sistemi audio che riproducono testimonianze di 30 artisti, precedentemente raccolte. È la vincitrice dell’International artists residency 2013 al Marca di Catanzaro.
LA MAIL* Ciao Serena, mi spiace non averti aggiornato di frequente sul lavoro e sull’esperienza in generale, ma avevi proprio ragione: il tutto era far passare le prime due settimane, che sono state veramente dure, sia per la lingua che per il lavoro, ma poi liscia come l’olio, anche tutti gli artisti mi hanno fatto riconoscere che nel tempo ho migliorato tanto il mio inglese, ma soprattutto già verso la fine della seconda settimana capivo tutti con le loro differenti cadenze. Location perfetta, immersi nella natura, lontani dal caos cittadino, le migliori condizioni per non avere distrazioni e pensare, agire e discutere solo di arte; si lavorava tutto il giorno e si era liberi di ritornare a lavorare la
sera dopo cena (e a me piace molto lavorare con il fresco...). Molto interessante l’aspetto multidisciplinare dei vari linguaggi artistici: disegno, pittura, scultura, installazioni, performance, video e predominanza del digitale... Favoloso anche l'aspetto multiculturale che si viveva: persone da più o meno tutto il mondo, culture diverse e anche nei lavori si percepiva questa diversità e allo stesso tempo il desiderio da parte di tutti di conoscere l'altro e la propria realtà. Io con il mio progetto ho accolto alla grande quest'ultimo aspetto, poiché per l’audio della parete ho realizzato le registrazioni con le voci delle persone ed ho chiesto ad ogni persona di differente lingua di parlarmi nella propria lingua originale, ed è stato incredibilmente affascinante. È stato un gran
piacere ricevere consigli, critiche e anche complimenti da artisti, critici e curatori, e molti mi hanno lasciato anche i loro contatti e io i miei. Veramente un grande insegnamento di confronto e di consapevolezza questa esperienza. Per quanto riguarda il lavoro, ho concluso tutto prima dell’Open day, anche se ho avuto qualche problema con l'audio che saltava spesso poiché il file era troppo pesante... Ma tutto ok; poi parleremo meglio e ti farò sentire tutto. Ora posso proprio dire che questa esperienza mi ha portato a riflettere bene che devo lavorare molto se ho deciso di percorrere questa strada. Un caro saluto e a presto, Laura. *Laura Stancanelli alla critica d’arte Serena Carbone il 20 luglio 2013 al suo ritorno dall’Art Omi
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IL DRAGO GHIGNA MA È SOLTANTO UN PUNTO DEBOLE Un capodanno dai volti seri, senza colori, in bianco e nero È quello cinese a Prato raccontato da Leonardo Perugini dove maschere e paure smettono di essere altro da noi
di LEONARDO PERUGINI
Prato,17 febbraio 2013. Domenica mattina. Prato è la città dei tessuti. La toscana cinese. È una città che per una mattina di metà inverno diviene teatro di uno spettacolo inusuale, colorato, esotico, in cui si alternano tinte sgargianti e facce serissime.
Leonardo Perugini Capodanno cinese a Prato, 2013
Un momento importante per una comunità profondamente radicata nel tessuto sociale eppure ancora distante, separata da quella italiana. I cinesi si muovono accanto a noi, ma non “insieme” a noi. Frequentano le stesse strade, gli stessi luoghi, eppure continuano a vivere all’interno della loro comunità. Prato è la città italiana con la maggior concentrazione di abitanti cinesi e negli ospedali ogni tanto si vedono delle scritte nei loro ideogrammi. Sono una folla di cittadini malvisti perché sono entrati prepotentemente in concorrenza nel mercato dei tessuti, che era l’orgoglio e il motore economico di Prato. Ne hanno sconvolto l’equilibrio e l’economia. In qualche modo quindi la cultura cinese per la città di Prato rappresenta la paura, sia per la fine di un’era sia per l’inizio di un’altra, completamente nuova. Ed è proprio questo l’aspetto su cui ho cercato di concentrarmi lavorando a questo reportage sul capodanno cinese, spogliandolo dei suoi sgargianti colori e inquadrando ogni soggetto in modo da enfatizzare le sue fattezze grottesche e misteriose, che in questi scatti appaiono ben più inquietanti di quanto non siano in realtà. Il colore predominante infatti è il nero, in un evento invece ricco di tinte vibranti e accese.
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Un capodanno di volti seri, che avanzano in gruppo e vivono la loro festa con passione, orgoglio e serietà. E il mio sguardo è quello di un fotografo che di tutto questo ne sa poco più di quanto potrebbe saperne un milanese, immagino. Ecco quindi che ciò che mi ha colpito in un evento simile sono i tessuti, i colori, i ghigni dei draghi che svettano oltre i visi concentrati dei cinesi in festa. Osservo le loro coreografie, le stoffe, le bandiere, i movimenti. La folla. Una folla che un po’ ricorda i personaggi grotteschi e spaventosi di Tim Burton, ai quali ci si affeziona non appena si riesce a scorgere il loro lato più vulnerabile e umano. Questi visi infatti sorridono soltanto nell’intimità, quando si ritrovano soli davanti all’obiettivo e d’un tratto
si spogliano delle loro maschere, della spaventosa proiezione delle nostre paure. Cessano di essere una massa oscura e spaventosa, l’emblema della Cina che presto conquisterà il mondo e che ha già preso possesso di Prato. Li scruto da vicino e d’un tratto, oltre i draghi e i loro volti seri, scopro un’empatia inaspettata. Scatto dopo scatto, vibrando tra il bianco e nero si fa strada il colore, che penetra oltre il grigio per trapelare sui volti delle persone, sui visi di quegli stranieri umanizzati, del nuovo che avanza, dell’altro che non è affatto altro da noi, ma soltanto un’altra faccia della medesima realtà. Come dice Valeriu Butulescu in uno dei suoi aforismi: “Non sono i nostri nemici che ci spaventano, ma i nostri punti deboli”.
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IL FOTOGRAFO Leonardo Perugini, un amore per la Leica A destra: Leonardo Perugini in uno scatto di Mirko Turatti Sopra: immagini dalla serie Capodanno cinese a Prato, 2013
Leonardo Perugini nasce a Firenze il 7 luglio 1979. Frequenta l’Istituto d’arte di Sesto Fiorentino mentre gioca a calcio e si appassiona all’informatica. La fotografia arriva più tardi, intorno ai 26 anni. È una passione che cresce giorno dopo giorno, libro dopo libro, scatto dopo scatto. La prima macchina è una Bessa R3A, poi arriva l’Hasselblad e infine l’amore per la Leica. Tra pellicola e digitale, nei ritagli di tempo e sviluppando le pellicole in una camera oscura nel bagno di casa, Leonardo cattura gli attimi in cui scorge ciò che gli piace della vita. Attualmente collabora con Mirko Turatti all’Spb studio. Info: www.spbstudio.it
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LA DECIMA SFIDA DI ARTELIBRO Il festival di Bologna compie dieci anni. Nonostante il mercato dell’editoria artistica risenta della crisi, la rassegna sfoggia il trionfo della qualità contro lo spauracchio della grande distribuzione online. Ce ne parla il suo ideatore e direttore Ricardo Franco Levi di DAVIDE SOLLASCHI
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rtelibro a Bologna con la sua decima edizione si conquista lo status di festival epico. Si accasciano tra i mille rivoli della crisi le altre manifestazioni letterarie, i più fortunati fanno l’ennesimo buco alla cintura, mentre la rassegna bolognese resiste indomita. In un un mercato di nicchia, quello del libro d’arte, il festival è riuscito a farsi strada e con il tempo l’evento ha conquistato il credito del pubblico, dal semplice curioso al professionista. Un decennio controvento è un grosso traguardo, allora abbiamo sentito il direttore del festival, Ricardo Franco Levi, per capire cosa dobbiamo aspettarci da quest’edizione speciale. Dieci anni, ottimo traguardo per una manifestazione che punta a un mercato definito in crisi. Che formule propone il festival per fronteggiare le difficoltà? «Quello dei dieci anni che Artelibro ta-
glierà in settembre è davvero un bel traguardo. E lo posso dire con tutta tranquillità, in quanto il merito è interamente ed esclusivamente di coloro che hanno guidato e organizzato Artelibro prima di me, prima tra tutti Giovanna Pesci Enriques. Io sono stato chiamato a prendere da lei il testimone della presidenza solo pochi mesi fa. Quanto alla crisi del mercato del libro d’artista e, più in generale, del libro d’arte nessuno la può negare. Ma è un momento di difficoltà che tocca tutta l’economia italiana e sarebbe stato ben difficile che il mondo a cui si rivolge Artelibro ne restasse indenne. Detto questo, confido che anche quest’anno la rassegna, con la sua formula originale che mette insieme una mostra mercato che ha nel libro antico il suo elemento di maggior peso e un festival, anzi una festa, che coinvolge l’intera città di Bologna con le sue tantissime istituzioni culturali, registrerà alla
fine un buon successo. E, se sarà così, potremo dirci di avere portato il nostro contributo alla ripresa». Musica per gli occhi. Collezionismo all’Opera: ci racconta da dove nasce questo titolo della rassegna? «La risposta è molto semplice. Cercando un tema per l’edizione di quest’anno, il doppio centenario di Verdi e Wagner ha portato in modo del tutto naturale a concentrare la nostra curiosità e la nostra attenzione sui legami tra libro, arte e musica. La difficoltà, semmai, è stata nello scegliere tra l’infinito materiale che l’incontro tra questi tre mondi poteva offrire. La risposta la darà il pubblico ma io confido che le scelte fatte si dimostreranno felici». Seconda edizione per Fruit: focus on contemporary art. Che ne pensa di questa scena self publishing tornata alla ribalta anche grazie alla rete? «È senz’altro vero che oggi la rete offra
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Massimo Listri La biblioteca Angelica, Biblioteche, 2012 Il progetto è esposto ad Artelibro 2013 dal 10 al 24 settembre
grandi potenzialità di comunicazione e visibilità anche alle piccole realtà editoriali e agli artisti editori self publishing. Ed è vero anche che alcune di queste realtà sfruttano la tecnologia del digitale per realizzare, ad esempio, app ed ebook facilmente acquistabili in rete, ma nel caso specifico la rassegna Fruit: focus on contemporary art, ideata dall’associazione culturale Crudo con il sostegno di Artelibro, si concentra sulle edizioni cartacee con una forte componente artigianale, realizzate attraverso le più svariate tecniche di stampa, dalla fotocopia al ciclostile, dalla stampa tipografica alla serigrafia: sono pubblicazioni d’arte e d’artista, cataloghi o magazine sperimentali sia dal punto di vista stilistico che concettuale ma allo stesso tempo caratterizzate da un costo contenuto. Il carattere sperimentale è dato soprattutto dall’ambito dell’autoproduzione, indipendente dalle leggi di mercato e legata a un
universo ancora in fase di definizione». Nella manifestazione troviamo un’opera site specific di Lorenzo Perrone dal titolo Come musica, cosa dobbiamo aspettarci? «Artelibro ospita per il terzo anno consecutivo l’artista milanese che da oltre venti anni realizza i suoi libri bianchi, spesso a partire da volumi reali sui quali infierisce con acqua e colla, gesso e vernice bianca, spogliandoli del loro contenuto e ottenendo così una scultura materica. La scultura presentata ad Artelibro dal titolo Come musica, realizzata per la sua decima edizione, è in bronzo bianco e raffigura un grande libro sulle cui pagine si appoggia un archetto musicale. Sarà installata all’ingresso di Palazzo Re Enzo, sede principale del festival. Come scrive la curatrice Eli Sassoli, l’opera rappresenta “musica non scritta su pagine senza parole per lasciare il nostro pensiero libero di volare ed i nostri sensi aperti al sentire”».
La mostra La tipografia musicale riassume la relazione fra arte, musica e libro. È stata ricostruita per questo una sala stampa gregoriana attiva. Il progetto è accattivante. Come viene rappresentata questa singolare intuizione? «La mostra è a cura dell’editore Tallone ed è allestita con il materiale tipografico del suo atelier, che utilizza ancora oggi per realizzare pubblicazioni a carattere musicale. L’esposizione sarà articolata in una sequenza espositiva di bulini, matrici, unzoni e attrezzi atti alla fondita e all’incisione dei caratteri da testo e musicali, utilizzati nelle composizioni a corpo minuto e rigo unito per i liber usualis e a rigo separato, in caratteri monumentali e policromi, per gli antifonari, fusi a Parigi da Deberny e Peignot nel XIX secolo secondo il sistema del maestro Theophile Beaudoire e sotto la direzione, estetica e filologica, dei reverendi padri di Solesmes».
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QUANDO L’ARTE GIRA SU DISCO di GIORGIO MAFFEI *
Sono passati oltre quarant’anni dalla prima mostra internazionale di dischi d’artista. Lavori composti attraverso uno dei tanti strumenti a disposizione degli artisti per esprimere la loro personale visione dell’invenzione creativa. Generati con la stessa logica di un dipinto, una scultura, un video, un libro, un’installazione. Cambia il mezzo espressivo, ma non l’esigenza principale di costruire arte. Il disco d’artista non è la spiegazione o la documentazione di un’opera d’arte sonora. Il disco è l’opera. Da allora si sono moltiplicati gli studi critici e gli interessi, anche collezionisti, verso un medium artistico che ancora oggi suscita, insieme ad una vivace curiosità, una certa diffidenza e una palese difficoltà di interpretazione. Il progetto di mostra Records by artists (1960-1990), che inaugura in occasione di Artelibro festival del libro d’arte e il relativo catalogo prova, dopo i pochissimi tentativi pionieristici degli ultimi anni, a dare struttura e sistematicità a quella particolare nicchia dell’universo disco che, in mancanza di una definizione più precisa ed efficace chiamiamo disco d’artista, cercando di definire, attraverso la pratica classificatoria tipica del catalogue raisonné, la natura stessa dell’oggetto della ricerca. Audio registrati su dischi in vinile che contengono musica, rumore, suono concreto, poesia, registrazione di performance, reperto sonoro o manipolazione di suoni naturali. Lavori spesso non dissimili dalla pratica compositiva a cui ci ha abituati la musica contemporanea, ma con la precisa determinazione a uscire dall’ambito ristretto della sua disciplina per entrare nel più vasto territorio dell’arte. Il percorso culturale parte fin dalle avanguardie storiche. Basti citare gli sperimentatori di linguaggi che pervadono l’inizio secolo tra futurismo, dada e surrealismo. Manipolatori di suoni che inseguono pervicacemente le vie nuove della rivoluzione e dell’abbattimento della tradizione dell’ascolto. Poi la valanga degli innovatori del secondo dopoguerra, a partire da Jean Dubuffet e Yves Klein che, parallelamente ad analoghe ricerche dei musicisti, azzerano il piano sonoro avvicinandolo al sublime livello del silenzio. La strada è aperta per ripensare la natura stessa del fatto sonoro e il disco si dispone, con la sua adatta tecnologia, a farsi interprete e memoria degli avvenimenti. Si cimenteranno quasi tutti gli artisti tra gli anni Sessanta e Ottanta sino alla contemporaneità che non ha certo dimenticato questo mezzo espressivo. Indifferente alle poetiche – ci lavorano gli artisti pop, concettuali, fluxus, minimal e i poeti concreti e visuali – il disco riscrive una storia parallela dell’arte che permette la ricostruzione dei passaggi storici e il susseguirsi delle possibilità espressive nella seconda metà del Novecento. È rappresentato un vasto panorama internazionale di autori specialisti di lavori artistici sonori, ma soprattutto di artisti tout court che anche solo occasionalmente hanno lavorato con questa materia. Alcuni del tutto sconosciuti alle consorterie nell’ambito musicale, ma solide eccellenze nel panorama dell’arte visuale e viceversa musicisti di formazione sperimentale. Le opere discografiche sono organizzate secondo il criterio autoriale e poi in diversi capitoli che evidenziano le diverse pratiche editoriali collettive e cogenerative: collection, compilation, magazine in cui il lavoro record poteva essere allegato o appendice d'artista. * Curatore di Records by artists (1960-1990)
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A destra: Arianna Fantin Testo cucito, 2010 Sotto: Esfihas André Drokan, 2012
MUSICA PER GLI OCCHI Quest’anno cade il centenario di Wagner e Verdi, così Artelibro dedica alle sette note il suo decennale diretto da Ricardo Franco Levi. Musica per gli occhi è il tema. Editoria, arte e musica sono protagonisti del festival dal 19 al 22 settembre. Il calendario spazia dalle produzioni autopubblicate di riviste con Fruits e arriva fino alla mostra dedicata al Lennon grafico. Poi l’evento di Giorgio Maffei, Records by artist in cui la pittura dialoga con la musica, o ancora Alberto Casiraghy, con 10mila pubblicazioni, piccole opere d’arte. Il tutto condito da dibattiti e tavole rotonde che animano la rassegna. Info: www. art elibro. it
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SENTI COME DIPINGO Incidono dischi cercando di dare musicalità ai capolavori degli artisti Hanno studiato la Persistenza della memoria di Dalì prima di comporre Orologi molli e il cd che porta il loro nome Sono i Framers, suonano jazz, hanno uno studio di registrazione tappezzato di opere e stanno convincendo il pubblico di FRANCESCO ANGELUCCI
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hil dice che non è stato per niente facile non perdere il filo. Si chiama Phil Mer, e insieme ad Andrea Lombardini è uno dei membri dei Framers, duo musicale che ha tappezzato il proprio studio di registrazione di opere d’arte. The Framers è anche il nome del loro primo album, nonché titolo emblematico di un ambizioso progetto: mettere in musica i capolavori degli artisti. I Framers fanno una musica simile al jazz, molto libera, nella quale i tempi rallentano e poi accelerano improvvisamente, come in Orologi molli, brano del cd che hanno composto dopo aver studiato la Persistenza della memoria di Dalì. In quest’ultimo la batteria, suonata da Phil, e il basso, suonato da Andrea, a un certo punto rallentano improvvisamente il ritmo. Gli artisti ammettono che è stato molto impegnativo per i musicisti che li seguivano con gli strumenti cercare di star dietro ai loro arrangiamenti senza perdersi. Non che fosse tutto improvvisato, ma gli assoli, gli accenti, non si possono prevedere se si fa jazz. «La cosa più importante – spiega il batterista – era non dimenticarsi l’opera di riferimento, non farsi prendere dall’improvvisazione. Per questo, anche il fonico sul mixer aveva una riproduzione del quadro che
suonavamo». Secondo Phil ciò è molto importante se si cerca di unire musica e opere d’arte. «Se senti che la tua musica ha bisogno di un’immagine precisa – dice – e non di qualcosa di vago, cerchi una sensazione definita o un determinato capolavoro. E allora stai lì e provi a rifare il quadro, a ricostruire atmosfere che sono note e si attaccano sulle linee in maniera impressionistica, senza una teoria di ferro alla Kandinsky, come triangolo acuto uguale giallo, uguale suono squillante». Come nel caso della cover di Sunday morning dei Velvet Underground, con Malika Ayane, in cui Phil e Andrea hanno cercato di mettere in piedi un’atmosfera paranoica e scura, degna del testo che cantava Nico. Grazie alla peculiarità dei Framers di portarsi in giro le loro opere anche ai concerti, Phil sostiene che il pubblico ha cominciato ad avvicinarsi al jazz. Difatti gli spettatori non assistono più inermi e partecipano emotivamente alla composizione. Phil aggiunge che in questo modo la gente comincia a interagire e può andare a sentire un loro concerto sia l’amante del jazz che l’appassionato di storia dell’arte. In questo modo, quando li ascolti dal vivo, finisci per scoprire che anche gli altri pezzi dei Framers non sono mica male.
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INSIDEART Musica da vedere Le nuove tendenze della grafica e dell’illustrazione d’arte legata alle produzioni musicali emergenti: questo è il tema dell’incontro che Inside Art organizza ad Artelibro, dal titolo Senti come dipingo, per presentare il numero di settembre, con la videoproiezione del progetto The Framers. Intervengono Phil Mer & Andrea Lombardini e Pietro Nicolaucich. Modera Maurizio Zuccari, caporedattore della rivista. Venerdì 20 settembre h 16-17, sala del Capitano, Bologna. Info: family.a uand.co m
I Framers Andrea Lombardini (a sinistra) e Phil Mer (a destra) foto Elisa Caldana
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LE IMMAGINI DI UN HIPPIE A Modena una grande retrospettiva dedicata al fotografo statunitense Walter Chappel: un pioniere, lontano dalle logiche del mercato e capace di investire tutta la propria energia nella ricerca di forme espressive inedite di FILIPPO MAGGIA*
“CIÒ CHE VEDEVO MANIFESTE IN WALTER ERANO QUALITÀ ESSENZIALI: FEDE, SPERANZA E AMORE”. LE PAROLE DI LINDA PIEDRA, ULTIMA COMPAGNA DI WALTER CHAPPELL, CHE LO ASSISTETTE FINO ALLA MORTE, L’8 AGOSTO DEL 2000, A SANTA FE, SEMBRANO CONDENSARE IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI UN MAESTRO DELLA FOTOGRAFIA AMERICANA CHE SEPPE LASCIARE NON SOLO UNO STRAORDINARIO PATRIMONIO DI IMMAGINI MA ANCHE UNA PROFONDA EREDITÀ DI AFFETTI.
Walter Chappell Senza titolo, 1968
La sua famiglia, composta da tre mogli, altrettante importanti compagne e sette figli, di cui una acquisita, era sparpagliata tra Atlantico e Pacifico: una compagine che a noi può apparire quanto meno insolita e in cui Chappell seppe invece vivere intensamente. Per comprendere la statura umana e artistica del fotografo americano non si può prescindere da considerazioni sulla sua biografia, complicatissima e avventurosa. Nato nel 1925 a Portland, in Oregon, Chappell conobbe Minor White nel ‘42, durante un’escursione sciistica e strinse con lui una profonda amicizia, destinata a durare per oltre trent’anni. Poi, a un certo punto della sua vita, anziché intraprendere una sicura carriera presso un’importante istituzione quale ai tempi era la George Eastman House, come collaboratore di Beaumont Newhall e curatore del dipartimento stampe ed esposizioni, scelse la ricerca, artistica come di vita: la ricerca di un’esperienza che di giorno in giorno l’avrebbe avvicinato sempre di più a quella essenzialità di equilibri tra forma e contenuto che nelle sue fotografie immediatamente si manifesta, tanto bella, forte, trasparente, quanto cruda ed esplicita. In questo cammino la famiglia è sempre stata con lui, non solo condividendone stile di vita e necessità creative, quanto nel partecipare alla creazione,
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ogni giorno, di nuove visioni di un mondo che nell’uomo si riflette, ma che non sempre è percepibile. I rapporti umani sviluppati da Chappell con i tanti artisti con cui ha collaborato e vissuto, gli amici e i familiari, al pari della sua ostinata indagine creativa, hanno sempre avuto la precedenza rispetto a esigenze più pragmatiche quali il commercio e la vendita delle fotografie, la pubblicazione di libri o cataloghi. Per quanto di questo fosse consapevole, mostre e libri non furono mai una sua reale ossessione. Walter Chappell ha attraversato tre quarti di secolo senza mai cambiare atteggiamento nei confronti della vita: la sua fede nel mondo, verso tutte le creature del pianeta, l’ha sempre sostenuto e favorito nell’intraprendere senza sosta nuove strade, avventure, imprese più o meno rilevanti. Nell’articolo commemorativo apparso sul Los Angeles Times alla sua morte, viene definito come un “dissidente e pioniere nel mondo della fotografia”, affermazione condivisibile se vogliamo intendere con dissidente qualcuno che assume per scelta un ruolo riparato, lontano dal palcoscenico, e che, in quanto pioniere, investe tutta la propria energia nella ricerca di forme di espressione inedite, con la consapevolezza che queste possano risultare incomprensibili, finanche inaccettabili. Si è più volte dibattuto dell’audacia del suo lavoro, riferendosi in particolare ai nudi definiti scandalosi, provocatori, e infine anticipatori di quanto, nel giro di un paio di decenni scarsi, avremmo visto nelle sale dei musei. Chappell è stato tutto questo, ma prima di tutto, è stato uno spirito libero. *critico d’arte, curatore della mostra
Sopra: The offering, 1978
Nella pagina a fianco, in alto: Pregnant arch, 1963 A destra: Senza titolo, 1973
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LA MOSTRA Walter Chappel, Eternal impermanence Inaugura il 13 settembre, negli spazi espositivi dell’ex ospedale Sant’Agostino di Modena, Walter Chappell, eternal impermanence, una retrospettiva dedicata ad uno dei protagonisti più controversi della fotografia statunitense del XX secolo. La visione unica di Chappell, capace di trascendere il tempo e i soggetti ritratti, è presentata in anteprima mondiale attraverso un’ampia ricognizione: oltre 150 fotografie vintage, realizzate tra gli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta, e la maquette originale di World of Flesh, libro rifiutato da vari editori americani – e dunque mai pubblicato – perché ritenuto all’epoca troppo esplicito nella sua celebrazione della vita e della natura. La mostra è a cura di Filippo Maggia. Il pensiero e la visione del mondo di Walter Chappell (1925-2000) muovono dalle ricerche spirituali e intimiste sviluppate tra gli anni Cinquanta e Settanta
da artisti come Minor White, di cui Chappell fu allievo, e Paul Caponigro, per poi approdare a un territorio personalissimo, in cui la fotografia diventa la narrazione di un’esperienza di vita a stretto contatto con la natura e il mondo, intesi come campo d’azione e specialmente d’interazione. Prototipo dell’artista hippie, Chappell ha sempre rifiutato il concetto di arte come business, tenendosi lontano da gallerie e circuiti commerciali. Ha condotto un’esistenza appartata, bohèmienne e primitiva, all’insegna della celebrazione dell’amore come energia che regola il cosmo e della vita come flusso ciclico, nella sua fattoria di Velarde, nel New Mexico, costante approdo di artisti e figli dei fiori. Dal 13 settembre al 2 febbraio 2014. Info: www.fondazionefotografia.it
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UNIVERSI UMANI LUNGO LA SENNA Parigi, al via la quarta edizione della rassegna Photoquai In mostra 40 autori provenienti da 28 paesi diversi alla biennale di fotografia del Museo del quai Branly di FRANK KALERO*
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Tarek Al-Ghoussein Selected works, 2013
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uando sono consapevole di essere fotografato – scrive Roland Barthes – mi trasformo in un’immagine”. Per me queste parole evocano l’inafferrabile e gratificante scambio che si verifica ogni qualvolta gli sguardi si incontrano. C’è l’occhio di chi è catturato nel suo ambiente, del fotografo che ferma quel momento e l’unione dei due in quello dell’osservatore esterno. Ecco il motivo per il quale ho scelto di incentrare questa quarta edizione di Photoquai sulle persone, sviluppando il focus non tanto come un tema fisso ma più come un filo conduttore. Ho chiesto a otto curatori dell’Asia, dell’America Latina, di Australia e Africa, di presentarmi fotografi ancora sconosciuti in Europa. Circa duecento artisti raggruppati in quaranta reportage, dove ciascuno porta un’eco del nostro mondo, una riflessione sul contatto umano e su momenti condivisi senza alcuna restrizione. Ogni gruppo di immagini sembra trasmettere lo stesso messaggio, quasi in forma di appello: Guardami. In mostra i più svariati punti di vista raccolti da ogni angolo della terra: persone che vengono viste e coloro che le vedono, il mondo reale osservato senza alcuna sorta di esoterismo, pregiudizio o divisioni etniche. Oggi i confini tra vita pubblica e privata si stanno sgretolando, come si azzerano anche le distanze fra le persone. Le immagini digitali trasmesse e pubblicate nella rete, in particolare nei social network sono scambiate e condivise in tempo reale a una folle velocità. Questa onnipresenza può spaventare ma contemporaneamente ci rimanda a una descrizione narrativa dell’esistenza dove contesti e ambienti possono essere compresi molto più facilmente che in passato grazie alla comunicazione globale. Presentate come un muro di immagini lungo la Senna, subito fuori il Museo du quai Branly e nei suoi giardini, questo tipo di realtà contemporanea offre l’occhio a una moltitudine d’identità. Sta allo spettatore (un passante, un fotoamatore o un semplice curioso) fermarsi e osservare. Leggere il nostro pianeta attraverso le persone che si sono lasciate guardare può portare a una consapevolezza condivisa che unisce il fotografo, i protagonisti dello scatto e l’osservatore. Questa visione multiforme ha tutta la potenza di una conversazione dove l’empatia e l’arte si fanno sorgenti di uno scambio conoscitivo. Donne saudite coprono i loro volti a Londra, cattolici che svolgono funzioni religiose nei centri commerciali filippini fanno parte di un’infinità di storie diverse, totalmente indipendenti, eppure in ogni caso legate alle speranze, ai paradossi, al dolore e alla saggezza di persone che vivono un ambiente. Non esistono confini qui, le immagini fanno pare di una geografia umana costruita da gente che volontariamente ha offerto un proprio spezzato di vita quotidiana per entrare in una narrazione più grande che mostra, piuttosto che dimostrare, e afferma ma senza pretese di definizione. La fotografia così ferma le nuvole nel loro corso, offre una pausa in una metafora temporale. Con un singolo, minuscolo dettaglio, un pezzo di carta per terra, un cane randagio, può trasformare una descrizione in un simbolo. Con un ritratto, una silhouette per esempio, può rilevare un altro mondo, racchiudere tutta una società, presentare l’uomo come misura di tutte le cose e l’umanità come la vera scala dell’universo. Questo è il significato di Photoquai, assorbire, interpretare e condividere. Non sono un teorico, sono più un uomo assetato di dialogo. Per frantumare le frontiere, sia letteralmente che figurativamente, moltiplico spontaneamente il mio uso globalizzato dell’immagine. Ho iniziato con riviste e documentari [Ojodepez a Madrid, Il mondo secondo Berlino, Punctum a Nuova Delphi] e adesso sono diventato direttore artistico di questo festival. Per me la fotografia è un trampolino di lancio per il dialogo, chiedo l’impegno costante degli altri senza scopo se non la celebrazione della vita. *direttore artistico della rassegna estratto dal catalogo, cortesia dell’autore
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LA RASSEGNA Regarde moi È alla quarta edizione la manifestazione parigina Photoquai che si propone il coraggioso scopo di raccogliere le migliori immagini del mondo chiamando a raccolta più di quaranta selezionatisimi fotografi, di 28 paesi differenti. La biennale, con la direzione artistica di Frank Kalero, è ospitata negli spazi del mueso del quai Branly, a Parigi. Per l’edizione di quest’anno il tema scelto è Regarde moi, dove il denominatore comune è la presenza costante dell’essere umano, in primo piano anche di fronte a paesaggi e architetture. Per la sua quarta edizione, la biennale di fotografia approda sulle rive della Senna e nel giardino del Museo del quai Branly, per due mesi, per presentare le opere inedite di 40 fotografi rigorosamente non europei. Dal 17 settembre al 17 novembre, Museo del quai di Branly, Info: www.quaibranly.fr; www.photoquai.fr A sinistra: Gustavo Lacerda, Albinos, 2013 In basso: Amit Madheshiya, At a tent near you, s. d. Nella pagina a fianco: Nyaba Leon Ouedraogo The phantoms of Congo river
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NUOVA ALBA
Quarta edizione della Biennale di Salonicco. La curatrice Adelina von Fürstenberg: «Un tempo gli artisti anticipavano la realtà, oggi la inseguono per commentarla» di MARIA LETIZIA BIXIO
U
n passaggio di consegne tra Paolo Colombo, Mahita El Bacha Urieta, Marina Fokidis e la presidente di Art for the world, Adelina von Fürstenberg nominata curatrice della nuova edizione della Biennale di Salonicco, in apertura il 18 settembre. Non casuale la scelta della von Fürstenberg, da anni impegnata attraverso la nota ong ginevrina, nella realizzazione di importanti progetti che, attraverso il linguaggio universale dell’arte, riescano a portare all’attenzione del mondo temi e problemi quali il multiculturalismo, la tolleranza, la solidarietà, la fame, la guerra, l’inquinamento. Con il titolo scelto per la mostra principale della Biennale, Everywhere but now, l’accento va sulla stretta relazione tra lo spazio (everywhere), connotato dalle differenti matrici culturali dei vari paesi affacciati sull’area mediterranea, e il tempo (now), dove il presente appare carico di complessità storiche tuttora attuali. La curatrice ha voluto in tale contesto mirare una riflessione sul ruolo e l’importanza del Mediterraneo. «Non è certo solo la culla dell’antichità, né tanto meno lo specchio del cielo blu», dichiara decisa la von Fürstenberg, discostandosi da precedenti esposizioni e lavori dedicati al Mediterraneo in generale. L’intento, infatti, è quello di portare alla luce l’importante scenario sviluppatosi attorno alle acque mediterranee, che, oltre a fungere
da vero e proprio ponte tra culture diverse, è teatro di conflitti tra i più intensi al mondo. «Ci sono popoli con diverse religioni, storie e usi, che vivono in perenne continuità tra antico e presente, ad accomunarli, quella matrice, mediterranea per l’appunto, che li vede tutti uniti in una comune realtà: il legame con il mare. Ho invitato artisti non solo mediterranei a lavorare sul tema, poiché ritengo che oggi la realtà contemporanea, sia molto più forte dell’arte. Un tempo, gli artisti anticipavano la realtà, oggi invece la rincorrono per commentarla». In tal senso la cronaca, il presente, la realtà, il now, contaminano lo spazio, vicino o lontano che sia, l’everywhere. Dunque, venticinque sono i paesi coinvolti e più di cinquanta gli artisti in mostra. Non più confini per il Mediterraneo, quando esso sconfina nell’Atlantico o nel Pacifico, andando a chiamare voci dal Brasile, da Cuba, per poi spostarsi dall’Iran, all’India abbracciando via via gran parte d’Europa. Spiega ancora la curatrice: «Il Mediterraneo è luogo d’incontro geografico e storico tra benessere e povertà, instabilità politica e insicurezza, gli artisti invitati, con le loro opere, realizzate con pittura, scultura, fotografia, video installazione e performance, recuperano le loro radici confrontandole con la realtà in cui vivono». Alla domanda se tra le opere in mostra vi si possa trovare un messaggio positivo per il domani, la von Fürstenberg, spiega come la riflessione d’insieme esula dalla drammaticità
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MEDITERRANEA
LA CURATRICE Impegnata sul tema dei diritti umani Adelina von Fürstenberg, cittadina svizzera di origine armena, nata a Istanbul nel 1944, ha svolto i suoi studi alla facoltà di scienze politiche dell’università di Ginevra. Dopo un corso d’arte contemporanea al Stedelijk museum di Amsterdam e al Museo d’arte e di storia di Ginevra, ha fondato nel 1974, e diretto fino al 1989, il Centro d’arte contemporanea di Ginevra, dove negli anni ‘80 esporranno artisti come Christian Boltanski, Daniel Buren, Francesco Clemente, Andy Warhol, Sol Le Witt, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto. Ha organizzato molte collettive, tra le quali Promenades (1985), nel parco Lullin a Gentod. Nel 1993 ha ricevuto alla 45esima Biennale di Venezia il premio per la direzione (‘89-‘94) della sua scuola di curatori d’arte del Centre national d’art contemporain Le magasin, dove, in quello stesso periodo ha curato importanti personali di artisti quali Gino de Dominicis e Alighiero Boetti. Nel 1995, ha fondato Art for the world, ong associata al dipartimento di pubblica informazione dell’Onu. Da allora la dirige invitando artisti di diverse origini, creando progetti e producendo cortometraggi e video su temi legati ai diritti umani.
In alto: Claire Fontaine Pigs, 2011 Nel box: Adelina von Fürstenberg Nella pagina a fianco: Marta Dell’Angelo La prua, 2009
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della primavera araba, della crisi e delle questioni medio-orientali, lasciando che un battito pulsante, magari dal ritmo rap, coinvolga il pubblico rivolto a un domani più consapevole. Passando agli italiani in mostra, la curatrice introduce l’emblematico lavoro di Marta dell’Angelo, dal titolo La prua, «una costruzione piramidale di corpi ne segna l’impegno reale e non politico del corpo stesso», neo Zattera della Medusa, per un domani al femminile. Con Priscilla Tea, invece, si enfatizza l’aspetto meditativo-contemplativo del mare, attraverso un linguaggio minimalista, fatto di luci e colore; il video di Adrian Paci, artista albanese, naturalizzato italiano, The column, vuole ricucire i ricordi di una Grecia arcaica con la contemporanea, operando un’insolita deframmentazione del classico. Tra gli altri italiani anche David Casini, con la sua Illogica abitudine, ricrea in miniatura paesaggi e reperti archeologici di una società contemporanea e Liliana Moro con Underdog, opera dove feroci cani in bronzo si azzannano l’un l’altro. Infine, la performance Circus di Marcello Maloberti che dà inizio alla serata d’apertura. Ed è proprio al ritmo di musiche contemporanee che una miriade di specchi sospesi inizia a roteare incessantemente sotto un grande ombrellone, riflettendo i tanti volti di un pubblico di genti straniere, metafora forse, delle tante commistioni antropologico-sociali di una nuova alba mediterranea.
L’evento Everywhere but now everywhere but now , a cura di Adelina von Fürstenberg, mostra centrale della quarta edizione della Biennale di Salonicco, il cui allestimento è curato dall’architetto Uliva velo, inaugura il 18 settembre, in programma fino al 31 gennaio 2014. In contemporanea le mostre del Movimento dei cinque musei di Salonicco, dislocate nei musei e nei palazzi storici della città, tra cui l’Alatza Imaret, il Geni tzami e lo State museum of contemporary art, il Museo archeologico, il Museo della cultura bizantina, il Museo macedone d’arte contemporanea e il Padiglione 6 della Fiera internazionale di Salonicco. Previsti una serie di eventi ed esposizioni collaterali, presentati durante i mesi successivi dalla direttrice della Biennale, Katerina Koskina. tra gli oltre 50 artisti provenienti da 25 paesi del mondo: Marina Abramović, Ghada Amer, David Casini, Claire Fontane, Marta Dell’Angelo, Iseult Labote, Marcello Maloberti, Miltos Manetas, Liliana Moro, Adrian Paci, Rosana Palazyan, Maria Papadimitriou, Dan & Lia Perjovschi, Paris Petridis, Ivan Petrović, veronica Smirnoff, Priscilla tea. Info: www.tessalonikibiennale.gr
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Ghada Amer The blue bra girls, 2012 Nella pagina a fianco: Marcello Maloberti Circus Palermo, 2007
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IL CATALOGO Una filosofia che si è fatta libro Un contenitore di interventi, opere e stimoli artistici in linea con la filosofia di Digital Life: il coraggio di creare usando le nuove tecnologie. Questa antologia è raccolta nel catalogo 2012 di Digital Life, edito da Guido Talarico editore (189 pagg. 25 euro) e realizzato da Inside Art. Dalla fotografia al video, dal web al palcoscenico fino alle installazioni nel museo, la Fondazione Romaeuropa ha seguito con grande interesse le opere proposte dai registi, dai musicisti, dai coreografi e il loro rapporto con i nuovi strumenti tecnologici. Il risultato di questa ricerca è racchiuso nel catalogo di Digital Life, con gli interventi di Franco Bernabè, Jean Paul Cournier, Maria Grazia Mattei, Javier Panera Cuevas, Monique Veaute, Bartolomeo Pietromarchi, Richard Castelli, Anna Lea Antolini, Daniele Spanò e Carla Subrizi. Disponibile nei bookshop dei principali musei, all’Opificio Telecom Italia e al teatro Palladium.
Digital Life, Liquid Landscapes Dal 10 ottobre al 1 dicembre al Macro, Maxxi e Opificio Telecom Italia Info: www.romaeuropa.net
Sopra: The wind, Du Zhenjun, 2010
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DIGITAL LIFE L’ ARTE 2.0 SI FA IN 4
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è il paesaggio con i suoi mutamenti, il filo conduttore di questa quarta edizione di Digital Life, dal 10 ottobre al 1 dicembre. È uno sguardo, quello degli artisti che si rivolgono alle nuove tecnologie, sensibile e critico al rapporto individuocomunità e territorio. L’utilizzo della tecnologia diviene quindi una possibilità di estendere e amplificare le capacità sensoriali ed emotive, ovvero della percezione, con il fine di una comprensione più profonda e intima delle cose. Installazioni, video art, sculture cinetiche, sound art, forme espressive diverse, ma con un fine condiviso: la ricerca di nuove possibilità linguistiche e poetiche per un’indagine più profonda dei fenomeni indagati e un dialogo nuovo e ritrovato tra l'individuo e l'ambiente. Un paesaggio liquido di cui si fa l’esperienza non solo attraverso la visione, ma una serie di dati elaborati digitalmente che costantemente si sommano a quelli ottenuti dall'esperienza cognitiva. Le connessioni satellitari, lo streaming real time di immagini e informazioni o la tecnologia della realtà aumentata, rivoluzionano principi fondamentali legati al rapporto dell'essere umano e il suo contesto sociale e territoriale. Il paesaggio reale si so-
Lo sguardo critico e sensibile degli artisti che si rivolgono alle nuove tecnologie Parte il festival della contemporaneità tra il Macro, il Maxxi e l’Opificio Telecom Il filo conduttore della quarta edizione è il paesaggio con i suoi mutamenti di MONIQUE VEAUTE E DANIELE SPANÒ*
vrappone a quello virtuale, il paesaggio concreto si estende, si moltiplica, si amplifica attraverso i device degli utenti individui che lo vivono o navigano. Una realtà, non solo aumentata, ma estesa e fluida dove la rielaborazione delle immagini e dei suoni divengono parte integrante di un paesaggio complesso ottenuto dalla stratificazione dei linguaggi e degli stati emotivi. Novità di quest’edizione di Digital Life 2013 Liquid Landscapes è la partnership con il centro di produzione artistica Le Fresnoy Studio National Des Arts Contemporains che sarà presente in mostra con una fitta rappresentanza di artisti prodotti dal centro negli ultimi anni sia nel campo delle installazioni multimediali che della video arte. Tra i lavori in mostra, oltre a un’ampia rasse-
gna di opere internazionali, nuove produzioni di giovani artisti italiani, che sono già punti di riferimento nel panorama internazionale. Le location per questa quarta edizione di Digital Life Liquid Landscapes, saranno il Macro di Testaccio il Maxxi e l’Opificio Telecom Italia. Nei due padiglioni del Macro due approcci diversi sul tema del paesaggio. The world you know – Carlos Franklin e Roque Rivas, Aurelien Vernhes e Lermusiaux Du Zhenjun, Devis Venturelli, Zhenchen Liu Ryoichi, Laurent Mareschal, Michale Boganim, Alexander Maubert, Marco Maria Giuseppe Scifo, Robin Rimbaud – una serie di opere che si relazionano fortemente con il tema della città e i suoi mutamenti. Uno studio del territorio che parte dall’analisi e dallo studio sul
campo grazie all’utilizzo di apparecchiature non convenzionali, trasformate o reinventate, che permettono un’esperienza percettiva estesa dei fenomeni indagati. Ecco che strumenti come le videocamere che permettono la registrazione a 360 gradi o la creazione di macchinari cinetici autosufficienti, restituiscono un’idea di spazio o paesaggio completamente nuovo e misterioso. The World You Own – Pietro Carlo Bernardini, Mihai Grecu, Roberto Pugliese, Donato Piccolo, Quiet Ensemble, Momoko, Paul Thorel – opere che restituiscono un'idea completamente nuova di paesaggio, generato e ridisegnato attraverso l’uso della tecnologia, o lo studio di fenomeni fisici che lo modificano. Paesaggi visionari e profetici propongono risvolti possibili, non sempre auspicabili, di un futuro dove la completa assenza dell’individuo è il denominatore comune. Al Maxxi, la sala Gian Ferrari sarà invece dedicata alla nuova produzione di Daniele Puppi, dove l’artista friulano proporrà una nuova opera della serie Cinema Rianimato. All’Opificio Telecom Italia, invece, una serie di incontri e approfondimenti con gli artisti di Digital Life. *Presidente e consulente artistico Fondazione Romaeuropa
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Patrick Faigenbaum Dal 4 ottobre 2013 al 19 gennaio 2014 Villa Medici, viale Trinità dei Monti, 1 00187 Roma Incontro con Patrick Faigenbaum Jeff Wall, Jean-François Chevrier ed Éric de Chassey al Macro il 4 ottobre alle ore 18. Info: www.villamedici.it
Sopra: Patrick Faigenbaum Cité de La Mina, Barcelone, 1999 Collezione della Galerie de France
Nella pagina a fianco: Patrick Faigenbaum Famille Frescobaldi, Florence 1984-2010
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FOTO D’AUTORE A VILLA MEDICI
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onsiderato uno dei protagonisti della fotografia contemporanea, Patrick Faigenbaum torna a Villa Medici per la prima retrospettiva che gli viene dedicata in Italia. Il suo è un atteso ritorno, l’artista parigino è stato infatti borsista dell’Accademia di Francia a Roma dal 1985 al 1987, mentre lavorava alla serie dei ritratti di famiglie aristocratiche italiane che l’ha fatto conoscere a livello internazionale. La mostra, dal 4 ottobre 2013 al 19 gennaio 2014, è curata dal fotografo canadese Jeff Wall e dal critico e storico dell’arte Jean-François Chevrier, il più attento studioso dell’opera di Faigenbaum, che ha collaborato alla pubblicazione di tutti i suoi libri. Presentata in Canada nella primavera 2013 alla Vancouver Art Gallery, l’esposizione inaugura a Roma in concomitanza con la dodicesima edizione di
Il fotografo Patrick Faigenbaum all’Accademia di Francia a Roma per la prima retrospettiva a lui dedicata in Italia. L’atteso ritorno del fotografo parigino, ex borsista di ALESSANDRA MONTECCHI
Fotografia - Festival Internazionale di Roma, in un allestimento pensato appositamente per gli spazi delle Grandes Galeries di Villa Medici. Nel corso degli ultimi venticinque anni Patrick Faigenbaum ha attraversato l’Europa – Parigi e le sue periferie, Praga, Brema, Barcellona, Roma, il villaggio sardo di Santu Lussurgiu, le campagne francesi di Tulle... – realizzando ritratti di persone e luoghi in cui si sedimenta la memoria: i soggetti non sono colti nella fugacità di un istante
o in un’eternità sospesa, ma portano in sé le tracce del trascorrere del tempo, delle trasformazioni e del proprio passato. La formazione pittorica ha segnato profondamente la pratica e l’approccio alla fotografia di Faigenbaum, dando vita a un dialogo tra i due linguaggi che costituisce uno dei caratteri distintivi della sua opera, profondamente legata alla tradizione pitturale ma al contempo influenzata dalla storia della fotografia nordamericana, da
Walker Evans a Jeff Wall, da William Eugene Smith a Richard Avedon. La mostra ripercorre quarant’anni di carriera del fotografo attraverso un centinaio di opere: ritratti intimi, paesaggi rurali e periferie urbane, nature morte. Un corpus di immagini che traccia una cartografia dell’Europa dove le profondità della storia sono indissolubilmente legate al presente, una narrazione complessa e molteplice che rivela alcuni aspetti fondamentali dell’identità nazionale e di classe dei soggetti ritratti. Proprio per la sua capacità di esplorare le stratificazioni del tempo mostrando come esse si combinano in un’immagine unica e molteplice, a giugno Patrick Faigenbaum ha ricevuto il premio della Fondation Henri Cartier-Bresson, che gli permetterà di realizzare il progetto Kolkata dedicato alla città di Calcutta.
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AVANGUARDIEINFINITE DELL’OVEST SFINITO In un mondo che s’è mosso anni luce da Duchamp, Warhol & Manzoni gli avanguardisti doc restano articoli da esibire alle mostre, rispolverare ogni poco, non la retroguardia d’un tempo che fu. Ma oggi che l’innovazione dura lo spazio di un like, l’ultramoderno dov’è? di MAURIZIO ZUCCARI
A destra: Marcel Duchamp davanti alla sua Bicycle wheel (Ruota di bicicletta), 1913 in uno scatto anonimo del ‘63
uchamp, 1917; Manzoni, 1961. In questa cruna passa il filo sottile dell’avanguardia, il cammello della novità che ha tracimato il ‘900 per riproporsi, come i peperoni della sera, ben oltre il cinquantennio d’esplosione, derisione e condivisione. Tanto l’inventore del readymade (che poi voleva dire e dice ancora l’arte del fai da te) che s’ingegnò a rovesciare un pisciatojo o una ruota di bicicletta e dichiararli arte, quanto il figlio d’un conte capace d’inscatolare la propria merda per venderla – letteralmente – a peso d’oro, sono giustamente famosi per aver dato al mondo il nulla, se non la capacità di rovesciare le proprie categorie mentali, consegnando alla storia opere fatte del vuoto in cui si dibatteva il Novecento. Poi sarebbe arrivato Warhol a completare l’opera, moltiplicando genialate e denari con le sue iconcine pop, mostrando urbi et orbi che quel niente valeva – davvero – tanto oro quanto pesava. Dalla nascita del “daddy dandy” Marcel alla morte dell’arcidandy Andy passano cent’anni esatti (1887-1987), e nessuno è andato oltre il punto segnato da Warhol: è lui, ancora, il limite inviolato dalla rêverie (connerie, direbbe Jean Clair) internazionale, dall’iconismo padre & figlio della società dell’avanspettacolo. Certo, molti hanno tentato di divorare i padri, fare un balzello più in là di loro, ma l’americano figlio d’immigrati ruteni resta l’ultima icona incarnata, e questo la dice lunga sul vuoto che ha lasciato davanti a sé, oltre che alle proprie spalle. Forse è per questo che in un tempo che si è mosso anni luce da quel mezzo secolo, lorsignori avanguardisti sono ancora considerati tali, articoli da esibire all’ultima mostra, rispolverati ogni poco, non la retroguardia d’un tempo che fu. Oggi che l’avanguardia s’è fatta più leggera di sempre e l’innovazione dura lo spazio d’un like, ha ancora senso parlarne? E l’ultramoderno cos’è, dov’è in un mondo accartocciato su se stesso? Forse negli editoriali di certi freepress dedicati alle avanguardie – appunto – e ai talenti creativi che postulano lo sbarco in Cina per perorare il gusto del made in Italy e non fare la fine dei sorci in trappola a casa nostra? O nelle facezie di qualche tardo epigono degli avanguardisti doc che non s’è accorto che sul niente su cui s’è schiantato l’Occidente, con le altrui risorse, lampeggia la scritta gameover di una macchinetta mangiasoldi? L’odore del sugo di roba nuova sa d’acido come quello del mare su certe spiagge, ma con buona pace d’apocalittici e iperintegrati spunterà sempre su un muro, da un sottoscala, qualcuno capace di friggere sorci verdi alla fermata dell’ovvio, del già visto. E in questa certezza azzardiamo una speranza: e se il nuovo sortisse dalle fauci del ritorno all’antico? Se in tempi di bujori come questi la luce venisse dal ritorno al saper fare, al dire cose dotate di senso? Come le avanguardie russe che si fecero affascinare dagli idoli di pietra per narrare i tempi nuovi, aspettiamo una Kamennaja baba che ci sbarazzi dai feticci dell’oggi. Con buona pace dell’avanguardia d’antan.
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LA MOSTRA Marcel Duchamp Readymade in Italy, anche Nel centenario del primo readymade di Marcel Duchamp (Ruota di bicicletta, 1913), la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma mette in mostra il lascito di Arturo Schwarz (che di Duchamp ricreò le opere storiche andate perse durante le due guerre mondiali). Dal titolo assai schwarziano: Marcel Duchamp, readymade in Italy, anche racconta il passaggio in Italia nel 1964 e 1965 dell’artista francese ma naturalizzato statunitense. Il percorso si focalizza sull’esposizione a Milano alla galleriaSchwarz, nel ‘64, e a Roma allo spazio Gavina di via Condotti, nel ‘65, con l’allestimento di Carlo Scarpa. A cura di Stefano Cecchetto, Giovanna Coltelli, Marcella Cossu, catalogo Electa. Info: www.gnam.beniculturali.it
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UN LENINISMO IN SALSA BORGHESE Il trucco dell’avanguardia: cosa è vivo e cosa no di un movimento che ha conquistato il mondo Parafrasando Piero Manzoni, Flaminio Gualdoni assicura: «Non si tratta di pensare diversamente le stesse cose bisogna pensare cose nuove» di MAURIZIO ZUCCARI
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redici anni fa Flaminio Gualdoni dava alle stampe per Neri Pozza Il trucco dell’avanguardia. Un saggio col quale uno tra i non molti maître a penser dell’arte contemporanea toglieva dal cilindro della (pseudo) avanguardia qualcuno dei suoi coniglietti. A distanza di anni luce da allora, abbiamo chiesto al critico d’arte, docente a Brera, cosa è vivo di quel testo, di un movimento che ancora calca le scene da dominatore ma trova pochi eredi e molti emuli. Intanto i trucchi si sono moltiplicati. Cosa intendevi con quel titolo? «Il trucco consiste, in sostanza, nel proclamarsi maggioranza culturale da parte di una minoranza, spesso esigua, in una sorta di leninismo in salsa borghese che ha fatto molti danni all’avanguardia stessa, quella sana intendo. Non a caso apro il libro con la citazione di André Malraux per cui “dans toute minorité intelligente il y a une majorité d’imbéciles”. Questa è stata l’incrostazione di stereotipi che ha condizionato, comunque, anche la ricezione di gente come Picasso e Duchamp, le cui figure sono state più strumentalizzate che ca-
pite: io ce l’ho con questa idea d’avanguardia, con il saprofitismo intellettuale dei troppi imbecilli che pretendono di decidere cosa sia avanguardia e cosa no. Ciò che tra la fine dell’‘800 e i primi del ‘900 si manifestava come necessità di pochi è diventato una sorta di senso di superiorità che un mondo autocircoscritto ha manifestato nei confronti della società culturale “ordinaria”, semplicemente disconoscendola. Il passaggio a un senso di esclusività da vecchio circolo della caccia ha fatto il resto, per cui chi è stato ammesso è fico, chi è escluso non è neppure oggetto di considerazione. Ridicolo, e devo dire un po’ stucchevole, ormai molto piccolo borghese». Nell’occasione stilavi un vademecum per l’aspirante artista d’avanguardia che volesse farsi icona. È ancora valido? «Fondamentale è, proprio come per le signorine di buona famiglia, frequentare la cerchia giusta e ignorare – o fingere di ignorare – tutto il resto, sinché non si fa parte stabilmente di quell’arredamento mondano: il lavoro verrà, basta orecchiare con un minimo di sensibilità. Così il più è fatto. Ultimamente vedo che aiuta molto ignorare in assoluto, nel senso che sottrarsi all’imbarazzo del pensiero ha aiutato più d’uno. È preferibile “fare” l’artista che tentare di essere artista: funziona molto l’aria di degnazione pensosa un po’ da stitico, usare
un gergo pieno di espressioni come “studio visit” e “site specific”, fare viaggi solitari alle Far Oer o in Lituania o in Mongolia riportandone esperienze di vita “fondamentali”, storcere la bocca con sottile e trattenuto disgusto quando si parla di artisti ormai démodé come Kounellis o Paladino. Da un giovane fighetto che ha già il suo piccolo strapuntino di notorietà ho sentito dire: “Ah sì la Abramovic, poveretta…”, appena dopo che mi aveva inflitto un video di un quarto d’ora completamente dilettantesco». Dalle avanguardie parigine alle italiane, passando per le russe. Qual è stato il loro segno peculiare, il portato durevole? «Per dirlo in forma di slogan, l’avanguardia parigina pone genialmente la questione del perché dell’arte, e la russa del per chi. L’avanguardia italiana, quella storica intendo, a mio avviso si mette nella posizione di non negare mai il passato, ma di filtrarlo continuamente e delucidarlo, senza complessi, sino a farne il nuovo: da Boccioni sino a Fontana, e dopo ancora con autori come un Fabro, un Paolini, eccetera». Il sistema dell’arte gioca col concetto di avanguardia da oltre un secolo, al punto che ormai si potrebbe parlare di retroguardia. Come mai tanta perseveranza per qualcosa che per sua natura dovrebbe essere fugace? E il nuovo dov’è, cos’è oggi?
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È UN PERIODO SENZA GIGANTI, CON FIGURE MOLTO IMPIEGATIZIE CHE IL SISTEMA DELL’ARTE TENDE A PRIVILEGIARE. L’ULTIMO ARTISTA CHE MI ABBIA PROVOCATO DEI PENSIERI È CATTELAN PERCHÉ IL SUO TERRITORIO D’AZIONE È IL SISTEMA STESSO DELL’ARTE CON I SUOI DINTORNI MEDIATICI E BUROCRATICI
Maurizio Cattelan Love, 2010 foto Zio Paolino (Flickr) In basso, a destra: Piero Manzoni Merda d’artista, 1961 A sinistra: Andy Warhol Campbells’ soup, 1962 In alto: l’artista in uno scatto del 1986 di Robert Mapplethorpe
«Uno dei grandi fenomeni del ‘900, che inizia già con i mercanti di fine ‘800, è l’istituzionalizzazione chic dell’avanguardia. Non a caso i grandi sarti sono da subito della partita. Si tratta di avanguardia del gusto, non di avanguardia del pensiero, naturalmente: quella che non distingue tra gente volenterosa o furbetta come Le Fauconnier e Van Dongen e geni veri come Picasso e Matisse, quella che si fa piacere anche Sert e Dufy, per dire. Dopo, dalla fondazione del Moma in poi, l’avanguardia diventa una faccenda sempre più d’economia, il progetto lucido di ampliare la base del consenso culturale per tradurlo in un mercato che da élitario si faccia pienamente neoborghese, parvenus compresi. Adesso il meccanismo si è semplificato: Hirst non costa molto perché è riconosciuto importante, è importante perché costa molto. Da qui in poi, la logica è quella di tutti i prodotti del gusto di lusso, con i cambi di collezione ogni poco. Con tanto di modernariato annesso, come dimostrano le “riscoperte” che passano in iniziative come “Back to the future” e affini, nella varie fiere. Scordavo, a proposito del vademecum del giovane artista: mai farsi venire in mente opere non economicamente amministrabili, perché non se le filerebbe nessuno». Da Duchamp a Manzoni, fino a Warhol ul-
tima star. Oggi che vedi, polvere di stelle, pulviscolo o qualche nova si profila all’orizzonte? «È un periodo senza giganti, con figure molto impiegatizie che il sistema amministrativo dell’arte tende a privilegiare. L’ultimo artista che mi abbia provocato dei pensieri è Cattelan, perché il suo territorio d’azione è il sistema stesso dell’arte con i suoi dintorni mediatici e burocratici: per intenderci, genio non è inventare la manona con il medio alzato, e lui lo sa benissimo, è riuscire a collocarla in modo permanente davanti alla Borsa di Milano, con tutti gli imbarazzi e gli sproloqui che ciò ha provocato e provoca. Ma è uno nato nel 1960, ormai non è proprio un giovane rampante. Quello che mi incuriosisce molto sono quel po’ di talenti che si agitano nel web – dico gente come Jaromil o Gazira Babeli – e da lì tendono a non uscire, perché trovano il sistema artistico ordinario una faccenda da mutandari ricchi e da pescecani russi, e non gli interessa. Un po’ utopico, ma perché no?». Oggi più che allora si ventila per l’avanguardia un destino succube al sistema della moda. Moriremo tutti stilisti? «A chi sta bene, il destino può essere al più fare gli impiegati di concetto dello stile, che ormai è quello dei sarti e non lo stile di cui abbiamo strologato per secoli. Prima un
sarto era importante se era amico di un artista, oggi l’artista esiste se il mondo fashion lo omologa. Per come la vedo io, non è vietato starne fuori, anche se la giornalista anoressica di Vogue non parlerà mai di te». La crisi costringe a rivedere molte categorie di pensiero, oltre che pratiche di vita. Vedi il ritorno a un’arte vitale, “necessaria”, al saper fare al posto del tardo concettualismo ancora imperante o andremo avanti così, preda del marketing? «La crisi riguarda quasi esclusivamente quelli che non comprano le installazioni e le opere del grande mercato. Io sono un po’ all’antica, in effetti sono anche un po’ antico anagraficamente, e resto convinto che questa è una tipica stagione che fa ricchi i più ricchi, e più poveri i poveri. Il sistema è questa roba qui, quindi non mi aspetto niente». Buon ultimo: l’avanguardia presuppone una direzione di marcia: ci sarà ancora spazio per questa se nessuno sembra più sapere dove andare? «Vorrei parafrasare il mio vecchio amore Manzoni: non si tratta di pensare diversamente le stesse cose, bisogna pensare nuove cose».
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IPERPOSTMODERN.2 di DOMENICO SCUDERO
L’avanguardia? È come il Mare d’inverno cantato da Ruggeri, un concetto che il pensiero non considera, è poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera. Sono passati più di vent’anni da quando lavoravo al mio libro sull’avanguardia –Avanguardia nel presente, Lithos, ndr – sulla sua trasformazione concettuale, traendo spunto dalla chiusa del testo Conceptual art di Ermanno Migliorini, insuperato ancorché inesplicabilmente insuperabile. Sembra un secolo, probabilmente lo è. Quei primi anni Novanta erano già assai ostici nei confronti di un qualsiasi ragionamento che non fosse brutalmente, ruvidamente, proteso alla proclamazione del potere dei soldi e del mercato. Altro che avanguardia, dicevano i tamburini dell’epoca, irridendo storia e passato: esiste un solo qui ed ora e si chiama potere dei soldi. La grancassa ridanciana di un’identità artistica ancora autocompiaciuta della sua “evocativa” grandeur culturale non era consapevole, sino al passaggio cruciale del 1995, dello tsunami elettronico che avrebbe devastato simili convinzioni. Ma poi è arrivata la piena del digitale e ha spazzato via tutto. E adesso cosa rimane di questo concetto di avanguardia? Di sicuro alcuni temi che ancora si dibattono e che vedono come protagonisti i soliti Rosalind Krauss, Peter Bürger, Benjamin Buchloh, Hal Foster. Sono oramai icone metodologiche piuttosto che personaggi reali della recente storia dell’arte contemporanea. Ma l’identità stessa della cultura artistica ha vissuto una pittoresca superfetazione di tecniche e tematiche teoriche protese all’istituzionalizzazione della cultura dell’avanguardia e nulla meglio dei nomi altisonanti sopra citati garantisce una visione correttamente accademica. L’ironia della sorte per la Teoria dell’avanguardia è che sia diventata materia talmente accademica da ispirare cattedre e istituti d’arte, i quali, manco a dirlo, possono essere tutto ma non avanguardia. Che il termine sia obsoleto, nessuno se ne meraviglia. Tuttavia esiste anche una rivisitazione del tema in chiave totemicamente tecnologica. Perché la nostra realtà non può scherzare con la tecnologia, la sacralità, semmai ne esista una nei tempi odierni, si nasconde nella memoria cristallina di un processore d’ultimo modello e nelle nuove piattaforme di socializzazione che la rete permette. Una sacralità che in alcuni casi è anche casualmente l’avanguardia del contemporaneo, ma che nelle sue energiche sembianze e nei suoi repentini cambi di rotta, fra Rhizome, Marc Tribe & Reena Jana, Crumb e New media art ha perduto ogni significato e ha smarrito il senso della storia. D’altra parte che il problema del contemporaneo sia oramai la storia appare chiaro anche ai profani, perennemente connessi e rintracciabili da complessi algoritmi e sistemi di localizzazione terrestre, ma non rubricati fra i primi dieci link nelle ricerche di google. Coloro i quali si erano disciplinatamente sistemati al centro del contemporaneo, in quella che si sarebbe potuta definire l’avanguardia nel presente, costoro hanno digerito la plumbea verità di quanto sia volubile la storia del digitale e di quanto facile sia per chiunque finire cancellato, annullato, mai esistito. Di fatto è proprio su questo che si discute il senso di una ipotetica avanguardia non più nel presente, ma nel turbinio di un istante. Un’avanguardia che attraversa il mondo con una casualità non prevedibile e che simile a un tornado risucchia e illumina nel suo cono spietato ogni cosa per poi lasciarla ricadere nel nulla. Quando siamo in quell’istante volatile, strappati dalla gravità dell’anonimato, brillanti nella forza del cono di luce della storia digitale, crediamo di essere noi stessi l’avanguardia. Ma la storia tornado dopo averci risucchiato dentro il suo cono di luce ci rigetta violentemente nell’ombra e poi dimentica, distrugge, desertifica. Allora l’arte e gli artisti, i critici, i curatori, riflettono sulla storia di un’avanguardia dell’iperpostmodern.2 che con la forza dell’uragano li ha prima inorgogliti e poi schiacciati nell’ombra. E tutti diranno di quell’attimo che era l’avanguardia, erano loro, siamo noi l’avanguardia, forse sì. Ma anche no.
Robert Crumb disegno sulla copertina di Io e le donne, 2002 (ed. Mare Nero)
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L’ETERNITÀ È UN CLIC CHI SI ERA DISCIPLINATAMENTE SISTEMATO AL CENTRO DEL CONTEMPORANEO, IN QUELLA CHE SI SAREBBE POTUTA DIRE L’AVANGUARDIA NEL PRESENTE, HA DIGERITO LA PLUMBEA VERITÀ DI QUANTO SIA VOLUBILE LA STORIA DEL DIGITALE E DI QUANTO FACILE SIA PER CHIUNQUE FINIRE CANCELLATO, MAI ESISTITO
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LA MODERNITÀ DELLA PREISTORIA A Palazzo Strozzi, a Firenze, un’esposizione fa il punto sugli influssi della Siberia e dell’Oriente sugli artisti dell’impero russo che sta per essere travolto dalla Rivoluzione Quando Malevic, Kandinsky e Gončarova si lasciarono affascinare dalla Kamennaja baba, l’idolo guardiano di pietra del Neolitico
di JOHN BOWLT, NICOLETTA MISLER, EVGENIA PETROVA*
a mostra L’avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente intende dimostrare che l’arte russa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è stata forgiata dall’estensione dei suoi confini esterni e nei suoi confini interiori, e vuole insieme indicare che, sino a un certo punto, le sue specifiche qualità traevano sostanza dal confronto con il “proprio” Oriente (Siberia, Mongolia) e con l’Estremo Oriente (Persia, India, Cina, Giappone, Siam) piuttosto che con l’Occidente. Così dichiarava Natal’ja Gončarova: «Le nostre aspirazioni sono rivolte all’Oriente e noi dirigiamo la nostra attenzione verso l’arte nazionale». A simbolo del crogiuolo di impulsi che il nuovo secolo aveva generato, nel quale trovano alimento anche le più radicali espressioni dell’avanguardia russa, in apertura della mostra sono presentate tra le opere più significative: Cerchio nero di Malevič, Il vuoto di Gončarova e Macchia nera di Kandinsky, che sintetizzano perfettamente il disagio apocalittico della fine del millennio e la specifica percezione spaziale, “territoriale”, dell’artista russo. Il “buco nero” che questi tre artisti hanno interpretato, quasi in sintonia, esprime in forma astratta
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la paura inconscia e insieme la forte attrazione per gli spazi sterminati e sconosciuti dell’Impero russo. Per sintetizzare questo sfondo complesso e vitale per l’auto-identificazione della cultura russa dell’inizio del Novecento viene preso in considerazione il viaggio, che lo zarevič “di tutte le Russie” Nikolaj intraprese il 26 ottobre 1890 imbarcandosi a Trieste verso l’Oriente (dove avrebbe visitato Grecia, Egitto, India, Cina, Giappone, Cambogia, Siam e altri paesi) per ritornare dieci mesi dopo (il 4 agosto 1891) a San Pietroburgo seguendo un percorso a ritroso sulla terraferma e attraversando le distese siberiane allo scopo di familiarizzarsi con le diverse popolazioni appartenenti al suo futuro Impero. L’intera mostra segue questo circolare percorso metaforico, analizzando l’influenza dell’Estremo Oriente sulla cultura figurativa russa e il modo in cui l’Oriente ritorna, incontrandosi con le culture autoctone dell’impero, assimilandone le caratteristiche o venendone assimilato. L’avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente intende tracciare una nuova topografia dell’arte russa durante il periodo del simbolismo e dell’avanguardia, ponendola all’interno di un più ampio contesto storico-
geografico da un lato, e presentandone la pluralità delle fonti, delle influenze e delle relazioni dall’altro. L’opposizione tra fuoco e ghiaccio, base concettuale di questa mostra, ci parla di alterità: di come gli artisti russi si siano rapportati agli “altri”, agli esotici stranieri (“inostrancy”) venuti da molto lontano (i giapponesi, i cinesi, i tibetani che vivevano o che passavano da San Pietroburgo), ma anche alle popolazioni “altre” sul proprio territorio (“inorodcy”): dai calmucchi buddhisti alle minoranze animiste della Siberia. Era anche il legame organico che connetteva gli oggetti al territorio a sfidare l’immaginazione di questi artisti, come le cosiddette kamennye baby, antichissimi idoli di pietra (femminili nella tradizione popolare), guardiani delle sepolture a tumulo, che vegliavano sulle vaste estensioni spaziali e che gli artisti dell’avanguardia amavano e collezionavano. Per questo motivo una kamennaja baba è stata scelta come emblema della mostra, a segnalare gli aspetti più arcaici delle culture preistoriche primitive sul territorio dell’impero russo. *curatori di Fuoco e ghiaccio, estratto dal catalogo della mostra, cortesia degli autori e Skira
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la mostra/2 Secondo anno, arte delle avanguardie del XIX e XX secolo Dal 7 settembre al 17 novembre riapre a lugano lo spazio ”-1”, dedicato alla collezione d’arte contemporanea di Giancarlo e Danna olgiati, con 30 opere che vanno a integrare il corpus in
mostra durante il primo anno di attività. Il titolo dell’esposizione, secondo anno, sottolinea l’importanza della ricorrenza: l’anno scorso, infatti, la collezione veniva concessa in deposito al co-
mune, in previsione dell’apertura del lac (lugano arte e cultura), il centro culturale cittadino. accanto alle opere dedicate all’avanguadia futurista, tra cui 1.200 libri, sono esposti, tra gli altri:
massimo Bartolini, Huma Bhabha, Domenico Bianchi, Pierpaolo Calzolari, Gino De Dominicis, antony Gormley, mark Grotjahn. lungolago riva Caccia 1, lugano. Info: 0041(0)588667214
la mostra/1 Fuoco e ghiaccio L’avanguardia russa Dal 27 settembre al 19 gennaio 2014, Palazzo strozzi, a Firenze, è sede della mostra Fuoco e ghiaccio, l’avanguardia russa, la siberia e l’oriente. Kandinsky, malevič, Filonov, Gončarova. la prima mostra internazionale a riconoscere l’importanza fondamentale delle fonti orientali ed eurasiatiche nel modernismo russo, sollecitando il visitatore a seguire i protagonisti dell’avanguardia nella scoperta di nuove fonti d’ispirazione. le figure in pietra del Neolitico (Kammennaja baba), i rituali sciamanici siberiani, le stampe popolari cinesi, le incisioni giapponesi, le teorie teosofiche e la filosofia indiana, sono alcuni degli elementi che hanno ispirato i nuovi artisti e scrittori russi nello sviluppare le loro idee estetiche e teoretiche, poco prima della rivoluzione d’ottobre del 1917. l’esposizione, a cura di John Bowlt, Nicoletta misler ed Evgenia Petrova, intende evocare questa attrazione e paura, allo stesso tempo, della cultura russa per l’esotico, ma anche per l’ignoto, per l’altro, che poteva essere lo spirito della taiga, dei deserti e della steppa, o l’incontro con la cultura orientale: un aspetto che si rivela fondamentale nel modernismo russo sia nell’arte che in letteratura. Catalogo skira. Info: www.palazzostrozzi.org
A sinistra: Kazimir Malevič, Testa, 1928-29 A sinistra: Natal’ja Gončarova, Kamennaja baba, 1908 Sopra, nel box: Mark Grotjahn, Untitled (full color butterfly 41.13), 2010
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UNA FIN DE SIÈCLE COME NUOVA ERA Alla fine dell’800 emerge a Parigi una serie di movimenti: neoimpressionisti, simbolisti e Nabis. Profeti dei tempi nuovi, delle trasformazioni sociali e dei travagli dell’anima che sfoceranno nella Prima guerra mondiale, con loro il fantastico entra nei paesaggi intimi e nei quadretti di vita borghese. Alla Guggenheim collection di Venezia una grande mostra rievoca la loro epoca
di VIVIEN GREENE*
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a Parigi fin de siècle è teatro di scompigli politici e trasformazioni culturali. Nascono correnti artistiche tra loro correlate, filosofie insurrezioniste, i primi accenni di attività di gruppi politici di sinistra e anche le conseguenti reazioni conservatrici. Gli impressionisti, coloro che avevano, con le loro idee radicali, sconcertato sia i critici sia il pubblico alcuni decenni prima, hanno oramai trovato riconoscimento. Emerge una nuova generazione di artisti che comprende i neoimpressionisti, i Nabis e i simbolisti. I soggetti sono i medesimi dei loro predecessori – i paesaggi, la città moderna, le attività con cui le persone trascorrono il tempo libero – a cui si aggiungono, però, scene introspettive e visioni fantastiche. Ma le modalità con le quali questi temi conosciuti vengono trattati mutano in stile e in tenore: l’ambizione dell’avanguardia di catturare in maniera del tutto spontanea i momenti fuggevoli della vita contemporanea cedono il passo alla ricerca di opere abilmente e attenta-
mente costruite, che siano antinaturalistiche in forma ed esecuzione e che facciano affiorare nell’osservatore emozioni, sensazioni e mutamenti psichici. Le forme di espressione di questi gruppi, a prescindere dai rispettivi punti di vista o forme di espressione, talvolta contraddittori, variano da tecniche di matrice scientifica con contenuti adeguatamente allineati alla sensibilità sociale, a immaginari allusivi e mistici, nonostante l'obiettivo comune sia un’arte di risonanza universale. [...] Al culmine della crisi economica, nella seconda metà degli anni Ottanta, i neoimpressionisti – molti dei quali coinvolti in politica – cominciano ad articolare le proprie idee dissenzienti grazie alla pittura, alle incisioni, alla stampa. In quest’ultima categoria si annovera L’Art moderne, del critico e gallerista, nonché sostenitore dei neoimpressionisti, Félix Fénéon, oltre alle riviste anarchiche La Révolte e Le Temps nouveau. I neoimpressionisti debuttano come gruppo a Parigi, nel 1886, all’Ottava mostra impressionista, dove l’opera cen-
trale è il quadro epico di Georges Seurat, Un dimanche après-midi sur l’île de la Grande Jatte (Una domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte, 1884), che raffigura un momento di distrazione degli abitanti di Parigi lungo la Senna. Seurat muore ancora giovane e il suo ruolo di caposcuola del movimento viene assunto da Paul Signac. Ai maggiori esponenti del neoimpressionismo – Henri-Edmond Cross, Maximilien Luce, Seurat, Signac – si affianca, per alcuni anni, l’ex impressionista Camille Pissarro. Sono pittori innovativi che guardano alle teorie scientifiche sul colore e sulla percezione per creare effetti ottici nelle loro tele puntiniste, orchestrando i colori complementari e le forme fluide in composizioni unitarie. Le loro scene utopiche, che spesso raffigurano nelle loro opere, rispecchiano contenuti ideologici e teorie pittoriche, ma anche nei casi in cui non sono guidati da obiettivi prettamente politici, le loro interpretazioni luminose della città, dei sobborghi, della campagna, riflettono luoghi idealizzati di armonia.
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LA MOSTRA/3 Le avanguardie parigine fin de siècle La Parigi di fine Ottocento subisce varie trasformazioni che si riflettono nell’arte. Nascono alcuni movimenti: neoimpressionisti, Nabis e simbolisti vedono il mondo in modo diverso dai loro predecessori e ci si avvia verso la crisi di valori che porterà allo scoppio della Grande guerra. Questo si evince nella mostra Le avanguardie parigine fin de siècle: Signac, Bonnard, Redon e i loro contemporanei, a cura di Vivien Greene, curatrice del Guggenheim museum di New York. La rassegna si sofferma su alcuni protagonisti di quest’epoca: Paul Signac, Maximilien Luce, Maurice Denis, Pierre Bonnard, Félix Vallotton e Odilon Redon. Dal 23 settembre al 6 gennaio 2014, Peggy Guggenheim collection, palazzo Venier dei leoni 701, Dorsoduro, Venezia. Info: www.guggenheim-venice.it
A destra: Pierre Bonnard Manifesto per La revue blanche, 1894 A sinistra: Théo van Rysselberghe Le moulin du Kalf a Knokke, 1894
Altri artisti, di solito associati ai simbolisti o al gruppo dei Nabis, reagiscono con maggior precisione al malessere della vita contemporanea. Non credono più né alla scienza né alla ragione, che non hanno saputo alleviare i fermenti sociali, le città affollate o l’ambiente inquinato, e si rivolgono alla religione, alla spiritualità, a temi ultraterreni e di riflessione intima. Il vocabolario delle arti decorative, nutrito dai motivi organici e dalle forme arabescate dell’art nouveau, permeano le tendenze e gli “ismi” postimpressionisti dell’ultimo decennio del secolo. Questi impulsi all’apparenza disparati rispondono, insieme, al desiderio originato dal lato oscuro della modernità: la ricerca del trascendentale. Nello stesso periodo in cui si viene a formare il neoimpressionismo, si raccoglie anche un altro gruppo di artisti, ampiamente ispirati dal paesaggio di Paul Sérusier noto come Le talisman, l’Aven au bois d’amour (1888), e che si definiscono i Nabis, dalla parola ebraica che significa
profeti. Formano un gruppo che ricorda una setta o una società religiosa, in quanto a formazione e filosofia fondante, secondo la quale l’arte è un mezzo per superare la materia verso una dimensione numinosa. I legami che li uniscono sono flessibili e la loro arte è influenzata dal sintetismo di Paul Gauguin e dalle stampe giapponesi, con le loro composizioni scorciate e bidimensionali. Le loro opere supereranno man mano le piccole dimensioni, gli interni di ambito psicologico, le scene intime della vita quotidiana femminile per arrivare alle dimensioni degli affreschi con opere decorative. I Nabis rinunciano al cavalletto e impiegano varie tecniche, dalle stampe alle illustrazioni per le riviste, inclusa La Revue blanche, di cui è comproprietario il loro mecenate Thadée Natanson. Si tratta di un gruppo eterogeneo che comprende, oltre ai più noti esponenti, Pierre Bonnard e Édouard Vuillard, anche il cattolico conservatore Maurice Denis, nelle cui opere trovano eco opinioni appartenenti alla destra, e l’artista svizzero Félix Vallotton, che rimane ai
margini del gruppo e nelle cui numerose stampe offre una critica aspra ai problemi sociali dell’epoca. [...] Le numerose sfaccettature di un periodo di instabilità e inquietudine si rispecchiano nel novero di movimenti che vanno a definire il momento fin de siècle e le cui agende artistiche talvolta coesistono, oppure si contrappongono o sovrappongono, in quanto ad approcci e obiettivi. Nel complesso i linguaggi di questo decennio burrascoso mappano un terreno complesso di teorie filosofiche ed estetiche divergenti e tracciano, più o meno direttamente, gli eventi culturali e storici destabilizzanti della Terza repubblica a cavallo di due secoli, un periodo che sarà testimone della frammentazione totale delle forme e dell’astrazione totale nell’arte, oltre all’aggravarsi dei problemi sociali e dei tumulti politici che sfoceranno nella Prima guerra mondiale. *curatrice della mostra, estratto dal catalogo, cortesia Guggenheim collection e dell’autrice
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Pierpaolo Ferrari ritratto di Massimiliano Gioni 2013 A sinistra: Lea T per Visionaire book, 2011
IL CREATORE D’IMMAGINI Pierpaolo Ferrari, comunicatore e fotografo, insieme a Maurizio Cattelan ha fondato la rivista Toilet Paper I suoi scatti sono sempre alla ricerca di situazioni divertenti e originali nell’apparente rinuncia alla realtà di DEIANIRA AMICO
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Ritratto di Maurizio Cattelan, 2005 A destra: Ritratto di Pierpaolo Ferrari foto di Matteo Ferrari, 2013
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orse Pierpaolo Ferrari è un buon comunicatore. Oppure è anche un bravo fotografo. Classe 1971, moda e pubblicità sono il suo pane quotidiano: da anni milita tra le pagine dell’Uomo Vogue, Wallpaper, W e Tar. Ha raggiunto il pubblico dell’arte contemporanea fondando, con Maurizio Cattelan, la rivista di sole immagini il cui nome è già un programma: Toilet Paper. Questo è il suo cȏté culturale, non si può certo dire che sia un “non allineato”. Arte e pubblicità si sono già contaminate esplicitamente nel lavoro di un maestro come Oliviero Toscani che ha rivoluzionato le campagne commerciali creando icone moderne, a volte debitrici di fatti d’attualità, a volte caratterizzate dal gusto per la pura provocazione. Un fotografo che forse, nonostante si sia costruito il personaggio che si ama o si odia, è riuscito a esprimere un’idea di comunicazione come forma di azione cul-
turale. Pierpaolo Ferrari non nega né conferma la lezione di Toscani, ma una diversità di fondo è intuibile: alla base del suo lavoro sembra esserci il principio di creare immagini per il gusto di creare immagini. Toilet Paper ne è il risultato più evidente: l’immagine come rappresentazione di se stessa possiede una vita indipendente proprio come le associazioni di idee nel flusso del pensiero. Nell’apparente rinuncia alla realtà risiede il principio estetico di arte per arte. Non c’è dubbio che Ferrari sia entrato nella “factory” di Cattelan grazie alla passione-ossessione condivisa non solo di creare immagini, ma di nutrirsene in maniera più o meno manifesta, come dimostrano certi meccanismi citazionisti di gusto dada che caratterizzano le opere di Cattelan come gli scatti di Ferrari, sempre alla ricerca di situazioni divertenti e originali, un po’ alla Philippe Halsman, il grande fotografo che immortalò Dalì. Certo siamo di
fronte a un interprete dello sguardo della nostra epoca, consapevole di quanto il pubblico e gli artisti stessi siano spesso sedotti più da una bella inquadratura fotografica che dai contenuti che l’opera veicola. Cattelan e Ferrari condividono questo obiettivo, che ben sottolineava Domenico Quaranta in un suo saggio apparso sulle pagine di Flash Art: produrre lavori che siano in grado di “diventare immagini”, fissarsi nell’immaginario collettivo, essere riprodotti e distribuiti nei più differenti circuiti comunicativi, poiché la capacità mediatica è parte della riuscita stessa dell’operazione artistica. Nei lavori di Ferrari l’arte di saper comporre un’immagine emerge anche nei ritratti di attori hollywoodiani, artisti e designer: tutto è carnevale, l’individuo una maschera della commedia dell’arte. Anche Ferrari partecipa alla messa in scena, è burattinaio e burattino al tempo stesso quando nel suo autoritratto mette in bella mostra il celebre Mike, un
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IL CREATIVO Pierpaolo Ferrari Pierpaolo Ferrari è nato a Milano il 2 settembre 1971. All’inizio della sua carriera si confronta col mondo della fotografia pubblicitaria milanese e nel 2007 inizia una fruttuosa collaborazione con L’Uomo Vogue di Franca Sozzani. Il suo interesse per l’arte e l’editoria si esplicita nel 2006, quando con Federico Pepe fonda a Milano Le Dictateur, uno spazio editoriale ed espositivo che nel 2010 è stato invitato alla Tate modern gallery di Londra a prendere parte all’esposizione No Soul For Sale. Nel 2009 fonda con Maurizio Cattelan Toilet Paper magazine. Tra i progetti futuri la nuova campagna pubblicitaria dei Fratelli Rossetti per l’Inverno 2014, in cui non mancherà lo sguardo ironico tipico del fotografo, nel segno di un’immagine ai confini con il surrealismo. Info: www.pierpaolo ferrari.c om
LA NOSTRA VERA FORZA È AVERE OTTENUTO IL LASCIAPASSARE DI POTER DIRE E FARE TUTTO QUELLO CHE VOGLIAMO SENZA LIMITAZIONI ANZI, DA NOI CI SI ASPETTA L’INASPETTATO NON ABBIAMO L’ANSIA DI ESSERE RICONOSCIUTI COME PRODOTTO ARTISTICO Linsday Wixson for Cr Fashion Book styled by Carine Roitfeld, 2012
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pollo che rimase in vita per diciotto mesi dopo essere stato decapitato e diventato famoso negli anni Quaranta, quando la sua storia venne ripresa da diversi giornali di reportage. È forse il pollo l’ingrediente, manifesto, del successo alla Cattelan? L’arte è comunicazione e strategia dell’inaspettato. Ferrari, il pubblico la conosce come fotografo di moda. Quanto ha influito la sua città, Milano, con la sua professione? «Se vuoi confrontarti con la moda e sei italiano il punto di partenza è Milano. Per me è sempre rimasta la città di riferimento e quel compromesso per una vita più a misura d’uomo ma allo stesso tempo affacciata sul resto del mondo. Milano è bellissima, piccola e molto divertente». Quanto si sente fotografo e quanto artista? «Mi sento un produttore di immagini e un comunicatore». Lei è ideatore, con Cattelan, della rivista Toilet Paper. Come nasce questa amicizia e quanto ha contribuito lui alla sua affermazione e lei alla costruzione dell’icona Cattelan?
«Toilet Paper arriva in un momento di mia maturità e, da parte di Maurizio, di desiderio di esplorare nuove forme di espressione come in questo caso la fotografia. Con Maurizio ci siamo conosciuti all’inizio del 2000, anche se non ci crederete, dal dentista. Pensava che io fossi uno skater famoso. Maurizio ha guadagnato una Ferrari, io un grande pilota». Le immagini di Toilet paper sono realizzate in studio. Come nascono i suoi scatti? «Realizziamo immagini che ricalcano fortemente l’estetica e la tecnica della fotografia pubblicitaria, non è un’immagine stile reportage, ma necessita della ricostruzione di luoghi che sublimino la realtà. C’è una grande preparazione in fase progettuale, coadiuvata da un team di scenografi, stylist, casting director, eccetera. Facciamo molta attenzione alla fase di preparazione ma siamo anche aperti alla sperimentazione durante la fase di scatto». Dalla pubblicità all’arte il passo è breve e Toilet paper gioca consapevolmente su questo confine. Quanto è debitore della lezione di Oliviero Toscani?
«La nostra vera forza è avere ottenuto il lasciapassare di poter dire e fare tutto quello che vogliamo senza limitazioni, anzi, da noi ci si aspetta l’inaspettato. Non abbiamo l’ansia di essere riconosciuti come prodotto artistico, ci interessa maggiormente che le nostre immagini possano essere diffuse attraverso più canali possibili, tra cui arte e moda, pubblicità, musica, cinema, cultura e sottocultura». Quali sono gli ingredienti di successo che pubblicità e arte condividono e quale invece il discrimine? «Mi sono sempre domandato se la pubblicità possa essere considerata una forma d’arte. Penso che sia un’arte la capacità di convincere qualcuno a comprare una cosa. In entrambe l’ingrediente vincente è il connubio fra estetica e strategia». Qual è la sua opinione sul sistema dell’arte contemporanea? Quali sono gli artisti che ama? «Amo il lavoro di tantissimi artisti perché sono sempre affascinato dalla creatività e dall’estetica. Amo Roberto Cuoghi, Urs Fisher, Jeff Koons, Larry Sultan e Buddy Valastro e il lavoro di curatori come Massimiliano Gioni».
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Un surfista professionista». Come sei diventato un artista? «Diventare artisti è un po’ come fare la maionese, non sai mai se ha funzionato finché non è già troppo tardi». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Un delfino». Hobby, passioni? «Il mio hobby preferito è il mio lavoro, tutte le altre passioni che ho finiscono per rientrarci curiosamente dentro». Come definiresti la tua arte? «Arte del saper fare». Come definiresti la tua vita? «Turbinosa ». Ci sono valori eterni nell’arte o nella vita? «Credo più nelle attitudini che nei valori». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Bruce Lee e Maurizio, in ordine di importanza». Cosa trovi interessante oggi? «La rete». Cosa non sopporti di questo tempo? «Che non basta mai».
Linda Evangelista for W magazine, 2009 A sinistra: Toilet Paper Issue 7, 2013
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LUCIANO BENETTON COLLEZIONEDATOUR
L’imprenditore veneto viaggia alla ricerca di capolavori: «Un tentativo per comprendere i cambiamenti del mondo partito dall’interesse anche professionale per il colore». La sua passione in mostra a Venezia di ORNELLA MAZZOLA
Hema Upadhyay Discussion, 2013 (fronte) A destra: Luciano Benetton davanti alla sua collezione
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C’
è chi viaggiando colleziona cartoline e chi, come Luciano Benetton, riprende e supera l’idea della cartolina facendo appositamente realizzare in ogni angolo del mondo, opere di formato “tascabile”. Un’operazione che nasce senza fini di lucro, da una vivace curiosità intellettuale, perché «il viaggio e l’arte sono entrambe una forma di conoscenza», come afferma il collezionista globetrotter. Queste due passioni si saldano nel 2013, quando Benetton in occasione dei suoi viaggi inizia a commissionare opere in miniatura che danno origine alla collezione, suddivisa in cinque sezioni. Prende corpo così Imago mundi, «un racconto del mondo e un viaggio nell’arte in cui non si favoriscono in alcun modo scuole, tendenze o mode ma, semmai, i nuovi orizzonti e la convivenza dei linguaggi espressivi» e dunque «un progetto democratico e globale». Un’operazione basata su una riformulazione in senso positivo del concetto fondante della cultura statuni-
tense, quello di frontiera: la chiave di lettura più moderna è ornita dall’antropologo francese Marc Augé, per il quale “la frontiera segnala a uno stesso tempo la presenza altrui e la possibilità di ricongiungersi”. È così che vanno intesi i confini geografici nel mastodontico mappamondo dell’arte creato da Luciano Benetton, dove gli stessi autori non sono rigidamente confinati nell’abito degli addetti ai lavori. La sfida del piccolo formato è stata infatti raccolta da pittori ma anche registi, videomakers, stilisti, designer, musicisti e fumettisti. Lo slogan del marchio, “United colors of Benetton”, può risultare una metafora valida in tutti i sensi. È lo stesso imprenditore a raccontare la collezione e le suggestioni che racchiude. Benetton, come è nata la sua passione per il collezionismo d’arte? «Devo premettere che la mia passione per l’arte precede l’attività di collezionista. In generale, mi interessa l’opera e l’artista che l’ha realizzata: mi piace provare a capire cosa ci stia dietro, leggerne l’intento
IL COLLEZIONISTA Dal tessile al senato Luciano Benetton, nato a Treviso il 13 maggio 1935 da Leone e Rosa Carniato, ha fondato nel 1965 insieme ai fratelli Giuliana, Gilberto e Carlo la Benetton group, presente oggi in 120 paesi del mondo con 6.500 punti vendita. È membro del consiglio di amministrazione di Edizioni srl, la finanziaria di famiglia, nonché presidente della fondazione Benetton studi e ricerche, nata nel 1987 per finanziare progetti culturali legati alla terra d’origine. È stato senatore della repubblica dal 1992 al 1994, eletto nelle file del partito Repubblicano italiano. È padre di cinque figli: Mauro, Alessandro, Rossella e Rocco, nati dal suo matrimonio con Maria Teresa Maestri, e di Brando, nato dalla sua relazione con l'imprenditrice Marina Salomon. La sua passione per l’arte ha costruito nel tempo il progetto Imago mundi, evento collaterale della Biennale di Venezia.
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LA RASSEGNA Imago mundi «Una mappatura il più possibile ampia della situazione delle culture umane a inizio del terzo millennio». Così lo storico dell’arte Luigi Cerantola definisce il progetto Imago mundi, che debutta come evento collaterale della Biennale di Venezia con cinque collezioni inedite di artisti sia emergenti che affermati, provenienti da diverse aree geografiche: Australia, Corea, India, Giappone e Stati Uniti. Rispettivi curatori John Ioannou, Youngloo Koo, Neeraj Ajmani, Tsugu Tamenaga e Diego Cortez. In tanta varietà ciò che accomuna tutte le opere – circa 200 per ogni collezione – è il formato cartolina, 10 x 12. Intanto, è in fieri il prossimo tassello del mosaico, l’arte africana. Fino al 27 ottobre, fondazione Querini Stampalia, Castello 5252 (Santa Maria Formosa), Venezia. Info: www.querinistampalia. it
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Da sinistra: Keizaburo Okamura Zou, 13 2 (fronte e retro) e Buhm Hong Gemini, 2013 (fronte e retro)
Sotto: Hema Upadhyay Discussion, 2013 (retro)
PITTORI COME KLEE E KANDINSKJI SONO STATI UN’IMPORTANTE FONTE DI ISPIRAZIONE: I LORO QUADRI HANNO FORTEMENTE INFLUENZATO IL MIO LAVORO INSEGNANDOMI MOLTO SUL RAPPORTO TRA COLORE E FORMA PER LA MIA COLLEZIONE SCELGO SOPRATTUTTO CIÒ CHE PUÒ RIEMPIRE DI BELLEZZA E ISPIRAZIONE LA MIA VITA
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espressivo. Ancora prima, credo che tutto sia partito dall’interesse, anche professionale, per il colore, che in buona parte determina il gioco dell’abbigliamento, ad esempio trasformando la necessità di vestirsi in un momento di gratificazione: in sintesi, è la base della moda. Fin dai primi anni di attività, ho imparato che bisognava proporre non solo colori ma anche, e soprattutto, accordi di colore: cioè la possibilità di accostarli con armonia. Pittori come Klee e Kandinskji, in questo senso, sono stati un’importante fonte di ispirazione: i loro quadri hanno fortemente influenzato il mio lavoro, insegnandomi molto sul rapporto tra colore e forma e alimentato la mia passione per l’arte». In ciò che ha collezionato negli anni ci sono opere particolarmente importanti per lei, non tanto per il valore commerciale, ma affettivo? «Posso dirle che nel corso del tempo la passione per l’arte e il collezionismo sono diventati sempre più totalizzanti. Oggi scelgo soprattutto ciò che può riempire di bellezza e ispirazione la mia vita. Ho una
particolare predilezione per il futurismo italiano, che colleziono da anni. Mi piace tutto ciò che è avanguardia – colore e movimento, bellezza e anticipazione, idea di contaminazione tra le arti – e, quindi, visione di futuro». Quanto è rilevante per il collezionista instaurare un rapporto personale con gli artisti? «Mi interessa molto conoscere gli artisti, visitare i loro atelier: mi piace provare a capire da dove parta la scintilla che anima il loro lavoro. L’ho sempre fatto durante i miei viaggi e, dato che per limiti di tempo non sempre è possibile farlo direttamente, ho cercato di ampliare le mie conoscenze anche attraverso Imago mundi. Intorno all’idea di partenza ho visto crescere l’entusiasmo, il mio come quello degli autori, emergenti o affermati che fossero, e dei curatori. Ho trovato una sorta di affinità elettiva in artisti tanto diversi tra loro quanto lontani da me, da farmi capire veramente come l’arte sia un linguaggio universale, che non conosce confini geografici o umani».
Nell’ambito del progetto Imago mundi quali sono state aree capaci di esercitare su di lei le suggestioni più forti? «Ciò che maggiormente mi interessa di Imago mundi è cercare di comprendere il cambiamento del mondo anche attraverso l’arte, con l’obiettivo di realizzare una mappatura, il più possibile ampia, della situazione delle culture umane all’inizio del terzo millennio. Detto questo, è impossibile non citare gli artisti aborigeni che hanno il potere visivo di trasportarci in una dimensione sorprendente quanto misteriosa. E poi sono attratto dai paesi che emergono dalla nuova geografia economica, sociale e artistica del mondo. È il caso della Mongolia, di realtà complicate come l’Afganistan e la Corea del Nord, in cui stiamo lavorando per il futuro. Ma anche di tante nazioni dell’Africa, dove oggi è possibile toccare con mano espressioni artistiche differenti ma che sembrano non aver perso quell’energia e quella forza ancestrale capaci di influenzare, all’inizio del Novecento, molte delle nostre avanguardie».
PER SAPERNE DI PIÙ I cataloghi Ogni collezione del progetto Imago mundi ha un catalogo con i dipinti fotografati fronte e retro. I cataloghi hanno formato 20 x 20 cm, una foliazione di oltre 600 pagine e sono pubblicati da Fabbrica (a sinistra quattro dei volumi). Questi i titoli: Australia: Painting the dreaming; Corea: Greetings from South Korea; India: Flowering cultures; Giappone: Contemporary Japanese artists; Stati Uniti: Organix, contemporary artists from the Usa. Prima del debutto veneziano la Luciano Benetton collection aveva raccolto altre quattro collezioni e realizzato i relativi cataloghi, tra questi Made in China (nel box in alto, edito da Skira nel 2012).
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I SENTIERI DEL MARMO Il Musa di Pietrasanta raccoglie l’eredità della tradizione marmorea della Versilia Da Michelangelo a Botero, ecco esposta la storia delle maestranze in versione 2.0 di ALESSANDRO CARUSO
A sinistra: L’ingresso del Musa a Pietrasanta (Lu)
uando Michelangelo, su invito del pontefice Leone X, nel 1518 si rivolse ai fornitori e alle maestranze di Pietrasanta per procurarsi il marmo necessario a completare alcune importanti opere a Roma e a Firenze pose le basi per consolidare uno straordinario sodalizio tra l’arte, l’artigianato artistico e l’imprenditoria su cui regge l’economia versiliese da secoli. Non a caso Leone X era un Medici, un casato che ha contribuito molto a potenziare la tradizione marmorea di queste terre. Il capitanato di Pietrasanta divenne nel tempo crocevia di artisti provenienti da tutto il mondo, attirati non solo dalla qualità dei celebri marmi di Carrara e dall’esperienza dell’artigianato locale ma anche dal fascino della contiguità con un valore inestimabile dato dalla storia a questa “pietra splendente”, come la denominavano i greci. Ancora oggi questo ridente borgo d’arte, incastonato tra le pendici delle preziose Alpi Apuane e le immense coste versiliesi, gode di un’eredità intellettuale scolpita nel passato, modellata non solo dalle contaminazioni michelangiolesche, ma anche dai contributi dei contemporanei Jean Michel Folon, Fernando Botero, Hans Arp e Francesco Messina. Per celebrare questa peculiarità dal 2012 è nato il Museo virtuale della scultura e architettura di Pietrasanta.
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LA MOSTRA Artigiani del marmo La memoria della pietra, dal 7 settembre al 6 ottobre, è il progetto a cura di Cesare Monti. Un omaggio a Pietrasanta e ai suoi lavoratori. Nella mostra tutte le maestranze locali, marmisti, mosaicisti, lavoratori della creta, del bronzo e del ferro vengono presentate al visitatore attraverso una raccolta di documenti originali: 56 videointerviste, 10 ritratti fotografici e 18 proiezioni poetiche in cui l’arte filtra dalle parole stesse dei protagonisti. La mostra prende la forma di un’inedita e innovativa visual art. Per realizzarla il curatore Cesare Monti ha lavorato in sinergia con un gruppo di venti giovani, tutti provenienti dal territorio versiliese, dando vita a un vero laboratorio che ha permesso a tutti, intervistati e intervistanti, di confrontarsi col passato e di riappropriarsi delle radici culturali. Info: www. musa pietrasanta. it
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A sinistra: interni del Musa Nella pagina a fianco: Allestimento interno con maxischermi e proiezioni video In basso: una videoproiezione della mostra La memoria della pietra
Uno spazio voluto e promosso dalla Camera di commercio di Lucca, dalla regione Toscana e dalla fondazione Cassa di risparmio di Lucca per immortalare il mondo del marmo, dalle imprese che lo lavorano agli artisti che ne hanno fatto un fulcro della loro opera. Il linguaggio scelto per comunicare questo messaggio è assolutamente in contrasto con la matericità dell’oggetto ispiratore. È il linguaggio virtuale: «Il Musa – dice Massimo Marsili, coordinatore del progetto – offre contenuti online, offline e molti prodotti video per entrare in un involucro visivo tutto dedicato al marmo». L’approccio a questo nuovo concept si intuisce subito dall’allestimento delle sale interne: arredamento minimal, tonalità scure che fanno da cornice ai sei touchscreen, che consentono la fruizione dei contenuti visivi, e otto grandissimi schermi su cui vengono proiettati programmi con il modernissimo software Pandora, che permette la trasmissione in contemporanea di prodotti diversi. Con questo sistema altamente tecnologico
il visitatore può sentire parlare gli artisti e gli artigiani che hanno fatto la storia di Pietrasanta, può osservare i video del processo di estrazione e lavorazione del marmo, ascoltarne i suoni e fare dei tour virtuali tra le cave. «L’idea che ha ispirato questa realizzazione dall’alto valore artistico è stata quella di promuovere la nostra imprenditorìa locale del marmo puntando sulla cultura e sulla storia – racconta Marsili – due strumenti che suggestionano e stimolano più di qualunque altro escamotage promozionale. Questo è il territorio di Michelangelo, questo è il marmo delle Alpi Apuane, sono due ottime occasioni per veicolare il nostro prodotto e aumentarne il prestigio agli occhi del mondo». Il Musa dopo tre anni di lavori per la sua inaugurazione, avvenuta nel 2012, ha cominciato a diventare la sala di rappresentanza delle maestranze versiliesi. La gente ne ha apprezzato la sfida e soprattutto l’offerta artistica, articolata in una serie di progetti espositivi. Come la rassegna Leggera materia, il primo ciclo di mo-
stre, video e seminari il cui ultimo appuntamento inizia dal 7 settembre e dura fino al 6 ottobre, dal titolo La memoria della pietra, curato da Cesare Monti. Marmisti, mosaicisti, lavoratori della creta, del bronzo e del ferro, vengono presentati con interviste, ritratti fotografici e video proiezioni poetiche, in cui le parole dei protagonisti diventano esse stesse opere d’arte. «Il progetto – spiega Monti – è legato al rapporto tra territorio e artigiani. La scoperta straordinaria è che questa terra, con i lavoratori della pietra e le loro uniche capacità è considerabile di più come la terra degli artigiani che la terra degli artisti». Impresa, arte e cultura sono raccontati al Musa come storie di uomini che vivono in simbiosi con il proprio territorio da secoli. Questo concetto, tanto autentico quanto naturale, ha trovato a Pietrasanta il modo in cui essere declinato con il supporto del web e della tecnologia, a dimostrare la contemporaneità della storia, l'eternità della qualità e l'immanenza della tradizione.
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FRANCESI
Il Frac inaugura a Orléans Les Turbolences: il progetto dall’architettura futuristica che reinterpreta gli spazi di Archilab, la manifestazione internazionale dedicata all’architettura sperimentale. Modello di diffusione per la produzione artistica contemporanea diviene crocevia di architetti, designer e artisti di MONICA MATERA
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Orléans il Frac, Fondo regionale per l’arte contemporanea, festeggia il suo trentesimo compleanno inaugurando a settembre il nuovo spazio Les Turbolences. Reinterpretando la sede della manifestazione Archilab, lo spazio viene dedicato allo sviluppo di un programma espositivo e culturale giocato sull’interdisciplinarietà tra arte, architettura e design. Luogo di ricerca e sperimentazione artistica e architettonica, il Frac Centre, capoluogo dell’omonima regione e del Loiret, si è distinto in questi anni dagli altri 22 Frac francesi per l’attenzione al tema della creatività grazie a uno sguardo trasversale nel panorama artistico contemporaneo. Un
A
obiettivo raggiunto anche grazie allo sviluppo di una rete territoriale che si appoggia su collaboratori, strutture scolastiche e prestiti di opere d’arte a livello mondiale. Un’intervista a Marie-Ange Brayer, diretttrice del Frac Centre dal 1996, ci permette di conoscere meglio questa realtà contemporanea d’avanguardia in costante evoluzione. La sede che ospita il Frac Centre nasce come prigione nel XVIII secolo. Riconvertito in ospizio, nel 1837 è divenuto deposito militare. Tra il 1999 e il 2006 la sede ha ospitato l’evento internazionale Archilab, dedicato all’architettura di ricerca, per essere scelto nel 2006 per il nuovo centro Frac. Qual è la logica che sottende al Frac e
in che modo, in quanto luogo di sperimentazione artistica e architettonica, si differenzia dagli altri 22 Frac della piattaforma? «Fra tutti, il Frac center è l’unico a possedere una collezione fortemente orientata verso la creatività. All’inizio degli anni ‘90, sotto la guida di Frédéric Migayrou, il centro fonda la sua collezione sul rapporto fra arte e architettura. Quest’ultima è da intendersi come una disciplina altamente creativa. Da una ventina d’anni, il centro acquisisce progetti architettonici, modelli o disegni, ma anche opere di artisti collegati in qualche modo all’architettura. La collezione comprende quasi 600 opere, 800 modelinni e più di 15mila disegni e numerosi fondi. In tutto, 160 architetti e un centinaio
d’artisti rappresentati. La collezione rappresenta un patrimonio unico, soprattutto per quel che riguarda l’architettura sperimentale degli ultimi sessant’anni, fortementente collegata alla pratica artistica. Così, la raccolta regala uno sguardo trasversale sull’arte e l’architettura che si dividono il dominio dell’estetica odierna». A settembre il Frac Centre compie il suo trentesimo anniversario, sancito dalla nuova costruzione Les Turbulences, realizzata dallo studio Jakob + Mac Farlane. Da dove trae ispirazione questo progetto? E in che modo dialoga con l’edificio preesistente? Tracci un bilancio di questo trentennio. «Nel 2013, i 23 Frac festeggiano il trentesimo compleanno dalla loro fondazione, av-
venuta nel 1983 per volere dell’allora ministro della cultura, Jack Lang. L’anniversario è coronato da molti eventi, come un’esposizione all’Abattoirs di Tolosa che riunisce in un solo luogo l’insieme degli sguardi, delle trasformazioni e delle creazioni di cui il Frac in questi anni è stato promotore. Dopo un trentennio, infatti, si è raggiunta una certa maturità. In alcune regioni sono lo strumento più efficace per la diffusione dell’arte contemporanea e le loro collezioni permettono di sensibilizzare all’arte a ogni livello. È con questo successo che si è passato il testimone alle nuove generazioni. Sette regioni si sono impegnate in una nuova avventura, scegliendo una squadra adatta alla loro azione. Il centro compie un
lavoro reale di interazione con i vari attori culturali delle regioni. In trent’anni è riuscito a sviluppare una rete sul territorio che si appoggia su collaboratori e strutture scolastiche, sulla costruzione d’ateliers e un numero importante di prestiti d’opere d’arte sia a livello nazionale che internazionale. Fino a quel momento, il centro non aveva una sede adatta alla sua missione. Grazie alla nuova struttura di Turbolences anche il pubblico ha accesso alla collezione permanente, alle numerose esposizioni temporanee e a un ricco programma culturale interdisciplinare. Una sala conferenza, uno studio pedagogico, il Microlab, e le nuove attività culturali contribuiscono all’allargamento del pubblico. La struttura si innalza
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LO SPAZIO Nuove funzioni in 3.000 mq Diluito su uno spazio di 3.000 mq, il Frac Centre dispone di una galleria permanente di 370 mq, sale per esposizioni temporanee di circa 1.000 mq, un laboratorio pedagogico, un centro di documentazione, un giardino di 400 mq. Les Turbolences, spazio di accoglienza al pubblico di 370 mq, ha una caffetteria, una libreria e un auditorium. Inoltre, il Frac Centre ospita una collezione di opere provenienti da strutture esterne. Il centro è dotato anche di un laboratorio di ricerca sperimentale transdisciplinare. Frac Centre, 88 rue du Colombier, Orléans. Info: www.frac-centre.fr
A sinistra: Cmmnwlth, Seltanica series Seltanica lights, 2011 foto Paul Barbera A destra: Achim Menges, Icd/Itke università di Stoccarda Research pavilion, 2011 Alle pagine 134 e 135, a sinistra: Servo Los Angeles/Stoccolma Aqueotrope vivarium, 2012 A destra: Steven Ma/Xuberance Taiwan tower, 2010 Alle pagine 132 e 133: Les Turbulences, 2013 Frac Centre Jakob + Mac Farlane foto Nicolas Borel
su un ex sito militare che ha accolto la manifestazione internazionale Archilab fra il 1999 e il 2006. Il recupero e l’estensione di questo antico edificio sono stati realizzati da Jakob + Mac Farlane in collaborazione con gli artisti Electronic Shadow (Naziha Mestaoui e Yacine Aït Kaci). Gli architetti hanno messo l’accento su una forte presenza plastica in termini anche di presenza urbana. Le tre ali dell’ex area militare inquadrano un tribunale da dove emerge una struttura dinamica, scomposta da tre escrescenze di vetro e acciacio chiamata, appunto, Turbolences. Queste sono il prodotto di un lavoro digitale di deformazione della trama sulle strutture preesistenti. L’estensione a opera degli architetti interagisce con il paesaggio urbano, riavvivato dalla luce proveniente dal Turbolences, noto, oramai, attraverso
le foto del duo d’artisti Electronic Shadow. La struttura leggera e prefabbricata di questa escrescenza è la zona d’accoglienza. Una sala proiezioni studiata per 40 persone, zona ristorazione, caffetteria e una libreria completano lo spazio. Il Turbolences accoglie senza distinzone gli eventi del centro e quelli dei partner del Frac e quindi performance, esposizioni, serate private, solo per citare qualche appuntamento. I visitatori accederanno, poi, a 1.500 metri quadrati d’esposizione temporanea e collezioni permanenti. Il Turbolences accoglie anche uno spazio pedagogico chiamato Microlab, aperto agli studenti, come a tutto il pubblico, per un’iniziazione ludica all’arte». Il Frac Centre, luogo di sperimentazione artistica e architettonica, vuole fornire uno strumento prezioso per lo sviluppo di un
programma culturale interdisciplinare incentrato sui rapporti tra arte, architettura e design. In che modo intendete intrecciare le ricerche su questi tre fronti? «La collezione si focalizza su dei momenti rivoluzionari che hanno segnato la storia dell’architettura, a essere precisi l’architettura radicale europea che nel corso degli anni ‘60 ha allargato l’area d’interesse ai confini con le arti plastiche. Generalmente, sono le innovazioni storiche quelle che preferiamo. Il nostro ventaglio d’interesse parte dagli anni ‘50 e arriva alle sperimentazioni digitali che affondano il colpo nella profonda trasformazione dell’idea progettuale e della sua realizzazione. Sappiamo che sarà sempre più difficile trovare opere che hanno rivoluzionato la storia, ma è ancora possibile acquistare dei modellini e dei disegni
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realizzati fra gli anni ‘50 e ‘60. D’altro canto se il primo a tirarsi indietro è il centro, molti dei progetti andranno perduti, scomparendo nel nulla. Attraverso un lavoro di monitoraggio continuo, il centro è arrivato a stabilire stretti legami con la nascente scena architettonica. Questa propensione passa attraverso la collaborazione con le scuole più all’avanguardia, delle quali siamo partner. La collezione, inoltre, permette di incoraggiare la giovane creazione attraverso il sostegno alla produzione». La manifestazione Archilab viene fondata nel 1999. Nel 2004 diventa una Biennale. Perché questo cambiamento? Quali sono i temi affrontati negli anni e i programmi? «Creata nel 1999, per iniziativa della città di Orleans, e cofondata dalla sottoscritta e da Frédéric Migayrou, Archilab si impone
subito come un punto di riferimento per le giovani generazioni d’architetti orientati verso la ricerca e la sperimentazione. Archilab, laboratorio internazionale d’architettura, diventa così una piattaforma senza eguali, beneficiando da subito di un largo consenso nazionale e internzionale. Le sue prime edizioni, nel 1999 e 2000, sono state le testimoni delle nascenti tecnologie digitali. Ci si interrogava sulla pratica dell’architetto e l’allargamento del suo campo d’azione, con nuove sfide urbane in un mondo globalizzato e in continuo mutamento. Attaverso le otto edizioni sono stati toccati temi come l’architettura giapponese nel 2006 e la città europea nel 2008. Archilab, così, è in grado di registrare le trasformazioni concettuali e pratiche nel campo dell’architettura, affermandosi come laboratorio interna-
zionale prospettico. Accanto alla collezione d’architettura sperimentale del centro, Archilab presenta a ogni edizione una trentina di architetti. Il passaggio alla biennale è stato dettato dall’ambizione della manifestazione, che necessita di due anni di preparazione, di ideazione e produzione fra ogni appuntamento. Per il futuro intendiamo essere uno strumento di sviluppo culturale legato strettamente al territorio, anche grazie al lavoro con le università e i poli d’eccellenza, come la Cosmetic valley nella nostra regione. Si tratta di lavorare a stretto contatto con le scuole d’architettura francesi ed estere per sviluppare workshop e residenze, con lo scopo di fare di Archilab, più che un luogo d’esposizione, un punto di riferimento e una vera e propria leva per la ricerca, sia sul piano territoriale che internazionale».
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NUOVI SGUARDI SULLA CITTÀ Alla Casa dell’architettura di Roma la seconda edizione della Biennale dello spazio pubblico. Quattro progetti innovativi dedicati ai possibili approcci sul tema dello spazio per affrontare i problemi di crescita urbana imposti dalla città contemporanea di LUCA MONTUORI* A sinistra: Spazio pubblico 2.0 progetto vincitore
L
a Casa dell’architettura, per la seconda edizione della Biennale dello spazio pubblico, ha voluto raccogliere una selezione di idee e progetti innovativi che riflettessero appunto sul tema dello spazio pubblico nella città contemporanea offrendo spunti originali per un rinnovamento dello sguardo sui problemi che i processi di crescita delle città hanno portato. Il dato di partenza di questa scelta riguarda proprio la considerazione che la crescita urbana abbia da tempo reso vana qualsiasi definizione tradizionale di spazio pubblico riferita a un’idea di città fatta di parti riconoscibili e quindi definibili. Per questo, non è utilizzando immagini e parole ormai appartenenti a una condizione storicizzata che possiamo guardare a quanto succede oggi. Infatti, lo spazio pubblico non può essere ricondotto a definizioni univoche, non può essere descritto né semplicemente attraverso attributi fisici o formali; la sua definizione coinvolge aspetti materiali e immateriali dello spazio, di cui ci si può occupare da punti di vista disciplinari diversi. Da qui la scelta di mettere in mostra sguardi diversi selezionati in base a una proposta curatoriale. Per individuare alcuni temi possibili e indagare aspetti anche lontani dagli ambiti più strettamente legati all’architettura, il comitato scientifico della Casa dell’architettura ha scelto la formula della selezione di idee che coniugassero scelte di contenuti e di modalità di esposizione portate da gruppi preferibilmente interdisciplinari. L’esito della selezione ha portato a scegliere quattro proposte, sulle 30 pervenute, con cui realizzare un ciclo di mostre, che rappresentano quattro diversi possibili approcci al tema Quale spazio pubblico?Idee per nuove forme. Il progetto vin-
citore è stato elaborato da un gruppo composto da Esau Acosta Perez, Mauro Gil Fournier, Miguel Jainicke Esquerra, Gianpiero Venturini, Greta Mozzachiodi, Marzia Bergo. Il titolo della loro mostra, che ha inaugurato la Biennale, è Spazio pubblico 2.0 con allestimento originale di Estudio Sic e Itinerant Office. I temi proposti sono elaborati a partire dalle analisi svolte con la piattaforma collaborativa Vic (Vivero de iniciativas ciudadanas), nata nel 2008 a Madrid. I 3 successivi progetti segnalati sono Where you been? curato da Gabriele Salvia, Marco Didonato, Adriano Colasanti, Giulia Poma Murialdo e Leonardo Pace per riflettere sulla natura e sul possibile destino dei vuoti urbani attraverso scritti e immagini che propongono interventi minimi e non definitivi che offrano straniate letture della realtà. Il progetto del collettivo Orizzontale urban (re)act (formato da Jacopo Ammendola, Juan lopez Cano, Margherita Manfra, Roberto Pantaleoni, Stefano Ragazzo, Lev Sordi, Cora Presezzi, Fabio Ragazzo) che propone una riflessione sul tema dell’autocostruzione e sui processi di riattivazione degli scarti urbani. Ed infine, il gruppo T-Spoon (Nina Artioli, Alessandra Glorialanza, Eliana Saracino con Angelo Romano e Maria Cristina Argento) con il progetto Cityhound, ha realizzato un social network per la trasformazione temporanea di spazi sottoutilizzati, che mette in comunicazione i proprietari degli spazi (privati o pubbliche amministrazioni) e i soggetti che hanno bisogno di uno spazio per realizzare un’idea. *architetto, membro del comitato tecnico scientifico della Casa dell’architettura
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CHINA E ACQUERELLO IN BOLLE DI SAPONE Pietro Nicolaucich illustra piccoli mondi fantasiosi ispirandosi alla letteratura e al maestro Hugo Pratt Il disegno come strumento per domare l’indomabile ordinare ed esorcizzare ciò che è più grande di noi di FRANCESCO ANGELUCCI
n’illustrazione di Pietro Nicolaucich ha il peso specifico di una bolla di sapone e se questa racchiude un sospiro, come voleva Trilussa, quelle del disegnatore costruiscono un mondo. Ambigue, che sembrano fondate su depressioni effimere, le tavole sono definite per la maggior parte da china e acquerello, la linea nera e impalpabile definisce una forma che si lascia decorare da tonalità mai pesanti, ma sempre sospese. Parlare esplicitamente di atmosfere oniriche sarebbe un errore e porterebbe alla rinuncia di un dato di partenza che fonda le sue radici nel reale: l’incapacità di comprendere ciò che è più grande di noi. «Sono un montanaro in tutto e per tutto – confessa l’illustratore – il mare mi piace solo da un punto di vista letterario, immaginario ma non mi appartiene come realtà. Fra i due a pensarci bene non c’è tutta questa differenza sono entrambi paesaggi giganti che non riusciamo a contenere». Eccoli, allora, i marinai, le balene, le onde e le navi o le colline, gli alberi e le sciarpe di un universo che sembra ricacciare fuori un tipo di sublime tutto kantiano che affascina e allontana catturando l’attenzione umana. Il disegno così diventa per Nicolaucich «l’unico modo per dominare l’indomabile, rappresentare significa ordinare e in qualche modo esorcizzare questo senso d’infinito». Alla base delle tavole c’è uno scontro di ispirazioni che passano dai suoi scrittori preferiti: Buzzati, un impensabile Queneau, Verne, Conrad, Melville fino ad arrivare a influenze dirette della sua infanzia che si rintracciano proprio in questo stile di confine fra il pugno e la carezza. E poi ovvio, la base, il monumento della nona arte: Hugo Pratt e il suo Corto Maltese «Con una linea – spiega l’autore – ti fa capire che quello è un orizzonte e non è una linea e il suo modo di raccontare, credo sia uno dei narratori più grandi in assoluto, sicuramente una fantasia incredibile ed esatta per la scelta dei nomi dei personaggi, sempre perfetti e mai banali». Cita ancora la Disney, quella delle origini, e il suo capolavoro d’animazione Pinocchio. Insomma, eccole qui queste tavole che sono solo mondi di bolle di sapone sparate verso l’atmosfera.
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Pietro Nicolaucich Varazze, 2011 A sinistra: Lucca junior, 2011 A pagina 142: Ark, 2012 In basso: una foto dell’artista
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PIETRO NICOLAUCICH Disegni come versi Il liceo artistico a Tarvisio, nel Friuli Venezia Giulia, non c’era. Pietro Nicolaucich (18 marzo 1984) però ha sempre disegnato, fin da piccolo. È proprio dall’infanzia che si porta dietro alcune delle sue ispirazioni più ricorrenti come il mare, la montagna e gli animali. Deciso a saltare un percorso artistico prestabilito, Pietro si iscrive alla facoltà di letteratura e si scopre sensibile anche alla scrittura, prima in versi poi in prosa, per bambini e non, ma l’illustrazione è il suo mestiere. Nicolaucich ha lavorato per multinazionali come Audi, Sisley, Benetton ed Etnis, e gruppi indipendenti della scena italiana come gli Amari, Sad Side Project e Dente. Dalla fusione delle sue due anime (narrativa e figurativa) sono nati i racconti Ossi di nebbia. Info: www.pietronicolaucich.com (F. A.)
MATURARE VERSO L'INFANZIA È IL TITOLO CHE DI SOLITO UTILIZZO NELLE MIE ESPOSIZIONI: LE MIE OPERE MOSTRANO PICCOLI MONDI LEGATI A UN IMMAGINARIO FANTASTICO IN CUI OCEANI E MONTAGNE SONO LEGATI A DOPPIO FILO. DUE OPPOSTI CHE SI APPARTENGONO SOTTO IL SEGNO DI CIÒ CHE CI PERTURBA E CHE NON RIUSCIAMO A COMPRENDERE PIENAMENTE IN QUANTO PIÙ GRANDE DI NOI LA FASCINAZIONE DI CIÒ CHE È TROPPO IMMENSO PER POTER ESSERE CONTENUTO NELLA NOSTRA RAGIONE, PUÒ TROVARE TALVOLTA IN UNO SGUARDO INFANTILE LA SOLUZIONE AL SUO MISTERO E LA MISURA DEL SUO ABISSO
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