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TRIMESTRALE / ANNO 10 / # 93 EURO 8
YOUSSEF NABIL GIORGIO ANDREOTTA CALÒ REBECCA WARD ANDREA NACCIARRITI VELASCO VITALI FIJODOR BENZO TANIA BRASSESCO & LAZLO PASSI DANIELE FRANZELLA DAVID GOMMEZ
Poste italiane spa spedizione in a.p. 70% Roma
GUIDO TALARICO EDITORE
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ART I CARE è un progetto di “crowd funding” per sostenere i giovani artisti, il talento e la creatività. Ma anche un’occasione straordinaria per mostrare se stessi: la propria arte, il proprio lavoro, la propria azienda.
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AVE MARIA PIENA DI GRAZIA di GUIDO TALARICO
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ra pro nobis. Donna dell’attesa e madre di speranza. Per questa prima copertina del nuovo Inside Art abbiamo scelto una Madonna contemporanea, la Charlotte Rampling che soltanto gli occhi di Youssef Nabil, delicato e visionario artista egiziano, potevano trasformare in una madre di Gesù che fosse perfetta sintesi di apparenti contraddizioni. Una Madonna figlia di questi tempi che viene da oriente ma è occidentale, che ha un sapore antico ma uno sguardo puntato al futuro, che ha la consapevolezza della tristezza ma la certezza dell’ottimismo. Un ritratto il cui fascino sta nella bellezza dell’immagine ma anche nella sua forza evocativa, nella direzione precisa che alfine indica. Cioè in un futuro da cambiare seguendo indole e principi mariani, il secolo appena cominciato da reinventare al femminile. Di questo c’è bisogno. Perché decadenza e corruttela sono maschi. Perché l’economia, la
CHE CAMBIAMENTO SIA E SIA PROFONDO, RADICALE, DECISIVO. IN QUESTO CONTESTO DA FINE D’EPOCA ANCHE NOI, DOVEROSAMENTE, INNOVIAMO politica e il potere dominati dagli uomini sono al crepuscolo. E dunque Ave Maria, che cambiamento sia e sia profondo, radicale, decisivo. In questo contesto da fine d’epoca anche noi, doverosamente, innoviamo. Ma lo facciamo restando nel solco scavato in questi anni. Fare cultura sostenendo chi vive d’arte. Le nuove leve, i talenti, tutti i protagonisti della filiera. Questa nuova versione di Inside Art si basa sulla scelta di seguire il quotidiano attraverso il nostro sempre più popolato e friccicante sito (www.insideart.eu) e di fare qualità e approfondimento con il trimestrale che avete in mano. Dando sempre e di più spazio ai giovani. Presentandovi ad ogni numero il meglio dei nuovi protagonisti. In questo numero vi presentiamo Youssef Nabil e con lui Giorgio Andreotta Calò, Rebecca Ward, Andrea Nacciarriti, Velasco Vitali, Fijodor Benzo, Tania e Lazlo, Daniele Franzella e David Gommez. Avrete di che scoprire. Artisti eccellenti presentati da grandi nomi del contemporaneo, gente come Ludovico Pratesi, Anna Mattirolo o Alberto Fiz. Ma non solo. Vi faremo scoprire il miracolo di Editalia attraverso le parole del suo amministratore delegato, Marco De Guzzis, l’uomo che ha preso un’azienda pubblica sull’orlo del baratro e l’ha trasformata in un’impresa che produce utili. Avete capito bene: cultura, pubblico, utili! E così nei numeri successivi. Alla scoperta di cose belle e che funzionano. Ave Maria piena di grazia. Perché è anche così che si batte questa orrenda crisi ed è anche così che si dimostra che non tutto è perduto. Amen.
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Editore e direttore Guido Talarico (direttore@guidotalaricoeditore.it) Caporedattore Maurizio Zuccari (m.zuccari@insideitalia.it) Redazione Francesco Angelucci, Giorgia Bernoni Alessandro Caruso, Sophie Cnapelynck, Maria Luisa Prete (redazione@insideitalia.it) Progetto grafico Gaia Toscano (grafica@insideitalia.it) Grafica Francesco Callegher (grafica2@insideitalia.it) Foto & service La presse/Ap, Manuela Giusto, T & P Editori, Millenaria
ANNO 10 # 93 TRIMESTRALE MARZO/MAGGIO 2013
IMAGO ORBIS 10
TRE STORIE VERE di Davide Sollaschi
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YOUSSEF NABIL, IL CACCIATORE D’ISTANTI ETERNI
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GIORGIO ANDREOTTA CALÒ, PRIMA CHE SIA NOTTE
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REBECCA WARD, EQUILIBRI GEOMETRICI
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ANDREA NACCIARRITI, UNA SCOSSA RIFLESSIVA di Ludovico Pratesi
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VELASCO VITALI, LA PITTURA SOSPESA
di Maria Luisa Prete di Anna Mattirolo
di Alberto Fiz
di Deianira Amico
OUTSIDER 62
MR FIJODOR, UN MURALES PER SOGNARE
Amministratore delegato Carlo Taurelli Salimbeni (c.t.salimbeni@guidotalaricoeditore.it)
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TANIA E LAZLO, IN BILICO TRA FALSO E REALE
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DANIELE FRANZELLA, IL SILENZIO DELLO SCULTORE di M. Canorro
Marketing & pubblicità Raffaella Stracqualursi (marketing@guidotalaricoeditore.it) Elena Pagnotta (partner@guidotalaricoeditore.it)
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DAVID GOMMEZ, LA DECLINAZIONE DELLA FORMA
Amministrazione Alessandro Romanelli (amministrazione@guidotalaricoeditore.it) I nostri recapiti via Antonio Vivaldi 9, 00199 Roma Tel. 0039 06 8080099 06 99700377 Fax 0039 06 99700312 www.insideart.eu (segreteria@guidotalaricoeditore.it) Stampa Gescom spa Viterbo Abbonamenti Il costo per 4 numeri è di 32 euro mentre per l’edizione online è di 11 euro e può essere sottoscritto in qualsiasi momento dell’anno. Il costo dei numeri arretrati è di 18 euro. Per informazioni: abbonamenti@guidotalaricoeditore.it Inside Art, Reg. Stampa Trib. Cz n. 152 del 23/03/04, è una testata edita da Guido Talarico Editore srl (presidente Guido Talarico, a.d. Carlo Taurelli Salimbeni, cons. Anne Sophie Cnapelynck). Direttore responsabile e trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano esclusivamente i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati. www.guidotalaricoeditore.it Hanno collaborato Martina Adami, Lori Adragna, Deianira Amico, Maria Letizia Bixio, Massimo Canorro, Bruno Corà, Andrea Dall’Asta, Alberto Fiz, Riccardo Guasco, Ornella Mazzola, Anna Mattirolo, Enrico Migliaccio, Franziska Nori, Ludovico Pratesi, Andrea Rodi, Luca Rossini, Chiara van Oekel Numero chiuso in redazione il 27.02.2013
di Andrea Rodi di Enrico Migliaccio
di F. Angelucci
PORTFOLIO 78
IL BUIO OLTRE LA QUIETE di Luca Rossini
ARGOMENTI 82 84 87 91 94 96
IL FANTASMA DELLA BELLEZZA di Maurizio Zuccari UN’IDEA DI BELLEZZA di Franziska Nori SAVE THE BEAUTY, TARANTO CHIAMA di Lori Adragna LA BELLEZZA SPLENDORE DEL VERO di Andrea Dall’Asta LA VELOCITÀ UCCIDE IL BELLO di Nikola Berdjaec LA FABBRICA DEI MOSTRI di Jean Clair
PERSONAGGI 98 102
CARLO PEPI, L’INTENDITORE CORAGGIOSO di Ornella Mazzola MARCO DE GUZZIS, QUANDO LA QUALITÀ È DI SERIE di A. C.
EVENTI 106 110 116 120
NEVELSON, ASSEMBLAGGI MADE IN USA di Bruno Corà POSTWAR, I MAGNIFICI CINQUE parla Luca Massimo Barbero di F. M. M. PISTOLETTO SI SPECCHIA AL LOUVRE di Francesco Angelucci TAMARA, ICONA INEDITA conversazione con Gioia Mori di Maurizio Zuccari
CARTELLONE 124
GLI EVENTI IN ITALIA E ALL’ESTERO
di Chiara van Oekel
SPAZI 126 130
MACS, DESIGN IN MOVIMENTO di Alessandro Caruso MARRA, UNA GALLERISTA CASA E BOTTEGA di Martina Adami
ARCHITETTURA & DESIGN In copertina: Youssef Nabil Charlotte Rampling, Parigi 2011 cortesia Nathalie Obadia gallery Parigi/Bruxelles A destra: Velasco Vitali, Branco, 2011
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ISOLE D’ITALIA A PARIGI di Maria Letizia Bixio SE LA CRISI MUOVE LE IDEE di Giorgia Bernoni
NUVOLE & PAROLE 142
PER UN SOFFIO LE FARFALLE
di Riccardo Guasco
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Viale Trinità dei Monti, 1 00187 Roma
Informazioni e programma : www.villamedici.it
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UNA LUCE SULNERO
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a mostra dal titolo Soulages XXI secolo, realizzata dall’Accademia di Francia a Roma Villa Medici con il Musée des Beaux-Arts di Lione, evidenzia come questo maestro, ritenuto il maggior rappresentante dell’astrattismo francese e riconosciuto internazionalmente dalla fine degli anni ‘40 in poi, sia oggi un artista pienamente “contemporaneo”. A più di 92 anni, infatti, egli continua ad indagare in profondità le possibilità della pittura astratta, esplorandone le nuove vie con una concezione dell’arte rigorosa che caratterizza la sua intera carriera. Sin dall’inizio della sua attività, Pierre Soulages ha fatto del colore nero il suo segno distintivo che trova il suo apice durante il periodo degli “outrenoirs” iniziato nel 1979. Testimoni significativi delle ricerche di Pierre Soulages, gli oltreneri esprimono l’idea di utilizzare il nero per rivelare la luce. Ma nel lavoro di Pierre Soulages, ancor più del colore, la pittura può essere il modo per valorizzare luce e spazio. In-
L’Accademia di Francia a Roma villa Medici ospita la prima personale in Italia dedicata a Pierre Soulages, il più grande pittore francese vivente. L’esposizione omaggia i lavori recenti di questo artista che ha segnato la storia dell’arte di ANGÈLE PICGIRARD
fatti l’artista utilizza degli strumenti non tradizionali per applicare la materia pittorica: spatole, pistole a spruzzo, pennelli da imbianchino e lame, che gli permettono di strutturare la superficie della tela e produrre così vibrazioni luminose. Dal 1999 in poi, Pierre Soulages intraprende nuove speri-
mentazioni: la presenza del bianco nei dipinti, la sovrapposizione di superfici lisce e in rilievo, il ritmo incalzante di segni isolati e moltiplicati, il collage, e la pittura basata sulle diverse tonalità di nero. Questi sviluppi più recenti del suo lavoro sono messi in luce nella mostra Soulages XXI secolo, in programma a Villa
Medici dal 2 marzo al 16 giugno 2013, presentando una raccolta di opere selezionate, insieme all’artista, dai due curatori Éric de Chassey, direttore dell’Accademia di Francia a Roma, villa Medici, e Sylvie Ramond, conservatrice responsabile del patrimonio artistico e direttore del Musée des Beaux-Arts di Lione. Scrive Éric de Chassey nel catalogo della mostra: “La pittura recente di Pierre Soulages non si è addormentata nel riposo della padronanza, ma continua a frequentare i territori della sperimentazione. Nulla vi è guadagnato una volta per tutte. Ogni pittura è una nuova esperienza”. L’opera di Soulages è presente nelle mostre e nelle collezioni dei più importanti musei del mondo e il suo lavoro lo ha consacrato come il più grande artista francese contemporaneo. È del 2009 l’importante retrospettiva che gli ha dedicato il Centre Pompidou di Parigi esposta poi al Museo Ciudad de Mexico e al Martin Gropius Bau di Berlino (2010).
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TRE STORIE VERE Sguardi da lontano Il punctum come avrebbe detto Roland Barthes, l’ago che punge l’occhio di chi guarda, in questo caso non è celato ma è al centro dello scatto. Il punctum, dicevamo, è un sentimento forse soggettivo, eppure in grado di svelare il mistero di una fotografia. Leggermente sollevato da terra e semi coperto dalla veste, il piede che non poggia sul pavimento è l’onda che invade lo scatto e definisce la composizione. L’immagine è tesa, tirata com’è fra atmosfere orientali e sentimenti occidentali che caratterizzano l’operato della fotografa, divisa lei stessa fra Londra, dove vive e lavora, e Teheran, sua città natia. L’opera è di Mitra Tabrizian che insieme ad altri due autori di forte impegno civile (Zanele Muholi dal Sudafrica e Ahlam Shibli dalla Palestina) espone alla fondazione Fotografia di Modena dal 20 aprile al 23 giugno in una mostra intitolata Tre storie vere. Info: www.fondazionefotografia.it (Davide Sollaschi)
Mitra Tabrizian dalla serie ”Another country” 2010
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IL CACCIATORE DI ISTANTI ETERNI L’artista egiziano Youssef Nabil incanta con le sue opere sospese tra pittura e fotografia Un tentativo, il suo, di arrestare la morte con istantanee dell’esistenza: «Ho iniziato a osservare la mia vita come se fossi al cinema»
di MARIA LUISA PRETE
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Youssef Nabil Self portrait, Essaouira 2011 cortesia Nathalie Obadia gallery Parigi/Bruxelles
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aro Youssef, so che non ci conosciamo, ma abbiamo alcuni sentimenti comuni che ci avvicinano. Quando cammino per le vie della sua città natale, che i turisti attraversano senza mai guardare davvero, sempre in corsa tra il museo e le piramidi, la dimensione romanzesca dell’Egitto moderno mi sembra estremamente toccante e commovente; quella delle prime khedive, del canale di Suez, di Fouad e di Farouk, dei patrioti e degli ufficiali liberi, di Nasser e di Oum Kalsoum riuniti in una prodigiosa sinfonia visiva che il cinema egiziano ha saputo rendere così bene, sin dalla nascita. In occidente, grazie a un pugno di cinefili avventurieri, tra i quali c’ero anch’io, a questo cinema è stato riconosciuto oggi il giusto valore e nomi come Marie Queenie, Asmahan, Leila Mourad, Farid el Atrash o Mohammed Abdel Wahab hanno finalmente raggiunto l’Olimpo della settima arte universale. Lei era ancora un ragazzo quando questi iniziavano a svanire dagli
schermi, ma la televisione, questo lucernario onnipresente e fragile aperto sul passato, le ha permesso di conoscerli e di farsi cullare dai loro canti, le danze e i sentimenti amorosi nel loro universo innocente e incantatore». Così scriveva a Youssef Nabil in una cartolina datata 31 marzo 2009, Frédéric Mitterrand, all’epoca direttore dell’Accademia di Francia a Roma. L’illustre intellettuale francese era stato affascinato dal suggestivo immaginario del cinema egiziano, riportato a nuova vita grazie alle intuizioni di Nabil. È da qui, proprio dalle vecchie pellicole in bianco e nero trasmesse in televisione che inizia tutto. È da qui che nasce la passione per l’arte visiva poi trasformatasi in personale interpretazione della vita, della morte e del mondo. Youssef Nabil, classe 1972, ha sempre osservato la sua vita come fosse al cinema e ha deciso di trasformare questa propensione in pratica artistica. «Sono cresciuto al Cairo – racconta l’artista – come musulmano e la religione islamica parla molto del destino, del fatto che per ognuno di
L’ARTISTA
Yussef Nabil 1972 Nasce al Cairo il 6 novembre
1993-94 Ha lavorato a New York con David La Chapelle
1997-98 Lavora con Mario Testino a Parigi
2003 Ha iniziato a fare autoritratti e lasciato l’Egitto per andare a vivere in Francia
2008 Esce la monografia ”Won’t Let you Die”, (casa editrice Hatje Cantz) con testi di Youssef Nabil e Octavio Zaya. Conversazioni dell’artista con Ghada Amer, Faten Hamama, Shirin Neshat
2010 Ha scritto, prodotto e diretto il suo primo film ”You never left”, un corto di 8 minuti, con Fanny Ardant e Tahar Rahim
A sinistra: Catherine Deneuve, Parigi, 2010 cortesia Nathalie Obadia gallery, Parigi/Bruxelles A destra, “Self portrait with roots”, Los Angeles, 2008 cortesia Nathalie Obadia gallery, Parigi/Bruxelles
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NEI TUOI RITRATTI LE PERSONE CHE FOTOGRAFI SONO PIÙ BELLE. HAI LA CAPACITÀ DI INDIVIDUARE ED ESALTARE UNA BELLEZZA COMUNE, TRASFORMANDO I TUOI SOGGETTI IN DIVI (SHIRIN NESHAT, DAL SITO DELL’ARTISTA)
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”In love” Denver 2012 cortesia Nathalie Obadia gallery, Parigi/Bruxelles
PERSONALI 2012 Youssef Nabil Maison européenne de la photographie Parigi, Francia 2011 ”You never left” Nathalie Obadia gallery Parigi, Francia 2010 ”I live within you” Savannah College of art and design Savannah, Usa 2009 Youssef Nabil Galerist Istanbul, Turchia ”I won’t let you die” Villa Medici Roma, Italia ”I will go to paradise” The third line gallery Dubai, Emirati Arabi Youssef Nabil Volker Diehl gallery Berlino, Germania 2008 Cinema Michael Stevenson gallery, Cape Town Sudafrica
GALLERIA Nathalie Obadia gallery Parigi/Bruxelles www.galerieobadia.com The third line gallery Dubai, Emirati arabi www.thethirdline.com Marco Noire gallery Torino www.noiregallery.com
QUOTAZIONI da 10mila a 50mila dollari
SITO www.youssefnabil.com
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Sotto: ”You never left # XI”, 2010 A destra: ”Self-portrait with Botticelli” Firenze, 2009 cortesia Nathalie Obadia gallery Parigi/Bruxelles
noi ci sia un tempo scritto per venire in questo mondo e un altro per lasciarlo. Per certi versi, quest’idea è sempre rimasta nella mia mente. E ho iniziato a osservare la mia vita come se fossi al cinema, spettatore e testimone del mio film privato. Un film deciso e scritto prima che entrassi in sala, e a me non resta che sedere e guardarlo». L’arte di Nabil è avvolta dalla magia del cinema, ne restituisce la dimensione fantasmagorica, ma con una vena di drammaticità sempre sottesa: l’immagine che restituisce, quella sequenza di vita impressa nelle sue opere, si rivela come il tentativo di catturare un attimo per renderlo eterno, lasciare un’istantanea che riesca a sopravvivere alla fine. Si tratta, soprattutto, di immortalare la bellezza e il sogno, dai divi del cinema alle grandi icone, da se stessi ai miti della modernità. Ha fotografato diversi artisti come Tracey Emin, Gilbert & George, Nan Goldin, Marina Abramović, Louise Bourgeois e Shirin Neshat, cantanti quali Alicia Keys, Sting e Natacha Atlas e diversi attori: Omar Sharif, Faten Hamama, Rossy de Palma, Charlotte Rampling, Fanny Ardant e Catherine Deneuve. Nell’Olimpo delle certezze occidentali, si insinua la caducità e il destino, la fragilità e le paure: demoni dell’esistenza umana, ingentiliti ma non sconfitti dal gesto artistico. «All’inizio – spiega – l’idea che stavo guardando vecchi film con attori che nella maggior parte dei casi erano già morti era molto strana e mi ha fatto pensare tanto alla vita e a cosa lasciamo dopo la morte. Ricordo il momento in cui per la prima volta ho capito il concetto di morte. Avevo quattro o cinque anni e stavo guardando un vecchio film egiziano alla tv quando chiesi a mia madre chi fossero gli attori e dove si trovassero in quel momento. “La maggior parte è morta”, mi
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SONO CONVINTO CHE ATTRAVERSO IL SUO LAVORO NABIL ABBIA CAPITO CHE NELL’EPOCA DEL CROLLO DEI MITI, DEL QUARTO D’ORA DI CELEBRITÀ, DELLE MERCI E DELL’OBSOLESCENZA, ANCHE L’ETERNITÀ PUÒ AVER BISOGNO DI UNA QUALCHE FORMA DI RESTAURO, DI ESSERE COLORATA A MANO (OCTAVIO ZAYA, DAL SITO DELL’ARTISTA)
BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Non lo sapevo nello specifico. Sapevo solo che volevo lavorare nel mondo delle arti visive». Come sei diventato un artista? «Quando avevo 19 anni scrivevo brevi sceneggiature tratte da film e mi piaceva fotografare i miei amici di scuola che le interpretavano. Nel 1992 ho deciso di fare la prima serie di foto, ho chiamato un’amica e insieme siamo andati nella zona vecchia del Cairo. Mi ricordo che mi sono divertito tanto a dirigerla, ho capito che potevo raccontare una storia. Dopo questa esperienza ho capito che era il tipo di lavoro che avrei voluto fare». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Farei qualcosa per aiutare la gente». Hobby, passioni? «Leggere e guardare film, ne guardo uno ogni giorno». Come definiresti la tua arte? «La mia arte viene da un’esperienza molto personale, dei vecchi film egiziani che guardavo sempre quando ero bambino. La mia passione per il cinema mi ha portato alla fotografia, facevo foto dei miei amici in bianco e nero con uno stile che ricorda i vecchi film. Dopo ho deciso di farle a colori ma usando sempre la stessa tecnica». Come definiresti la tua vita? «Indipendentemente dal paese in cui mi trovo, mi sento sempre uno straniero. Anche quando vivevo in Egitto sapevo che un giorno sarei partito. Guardo sempre la mia vita in questa prospettiva: restare in un posto per un periodo di tempo e poi ripartire. Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? Sì, anche in un bicchiere d’acqua. Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? N. r. Cosa trovi interessante oggi? «Che possiamo comunicare più velocemente di prima, internet è una fantastica scoperta e molto interessante da esplorare». Cosa non sopporti di questo tempo? «La violenza e la rabbia che la televisione trasmette continuamente. Sembra che la gente non riesca a imparare dalla storia, ci sono tante cose ingiuste e questioni irrisolte nel mondo».
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”Say Goodbye” autoritratto, Alexandria 2009 cortesia Nathalie Obadia gallery Parigi/Bruxelles
rispose. Fu una scoperta sconvolgente per me a quell’età. Io adoravo tutte quelle belle persone morte! In qualche modo questo episodio mi ha segnato, perché ho sempre voluto incontrare gli attori che amo prima della loro o della mia morte». La messa in scena della realtà, attraverso la costruzione dei suoi lavori, può servire a capire meglio il mondo. «Per me è sempre così – spiega l’artista – visto che, come i film anche la vita finisce. Se pensi alla vita come al cinema, vivere diventa come guardare il proprio film personale, le cose assumono un’altra prospettiva, perché sai che la vita un giorno finirà, che niente è veramente reale o è per sempre, così apprezzi di più il tempo che vivi e la presenza delle persone che ami. Ti rendi conto che qualunque cosa fai o vedi, potrebbe essere fatta o vista per l’ultima volta. Non sappiamo quando tutto questo finirà, non sappiamo quando moriremo». Questa filosofia di vita viene trasfusa in immagini glamour e intense, all’interno delle quali la fotografia incontra la pittura: «Innanzitutto – dice Nabil – scatto le foto usando la pellicola in bianco e nero, poi stampo in bianco e nero, quindi passo a mano il colore sulla stampa, utilizzando acquarello, olio e pastelli». Le immagini oscillano tra realtà e fin-
LA MEMORIA APPARE COME TRATTO FONDAMENTALE DEL LAVORO DI NABIL, UNA MEMORIA CHE SEMBRA FUNZIONARE COME QUEI VETRI COLORATI CHE FILTRANO LA LUCE DALLE FINESTRE O DALLE LAMPADE NELLE MOSCHEE E TINTEGGIANO I LORO INTERNI DI UN’IRREALTÀ FANTASMAGORICA (PIER LUIGI TAZZI, DAL SITO DELL’ARTISTA)
zione, ricche di fascino e grande sensualità. Caratteristica apprezzata in Occidente, meno nei paesi arabi. «Quando ho iniziato a esporre – rivela Nabil in una conversazione con Shirin Neshat del 2008 – ho avvertito l’esigenza di lasciare l’Egitto. Tra le ragioni più importanti che mi hanno spinto a farlo c’era il bisogno di andare in un luogo in cui mi sarei sentito più libero. Nelle mie fotografie c’è sempre una connotazione sessuale e la cosa non incontrava il favore di tutti. Me ne rendevo conto nelle occasioni più diverse, soprattutto quando ho iniziato a esporre i miei lavori, e mi sono reso conto che in Egitto convivono due mondi, quello moderno in cui sono cresciuto e l’altro molto conservatore che purtroppo ha il predominio». Nell’ultimo periodo, il paese ha attraversato momenti difficili: una rivoluzione ancora in atto che ne cambierà i destini. E l’arte potrebbe partecipare al processo di cambiamento. «Sicuramente ha un ruolo importante – rivela Nabil – anche per questo dobbiamo continuare a concepire l’arte libera da qualsiasi compromesso. Alcuni vogliono imporre all’Egitto una cultura che non è la nostra, noi invece abbiamo bisogno di essere più attaccati alla nostra vera identità e sentirci sempre liberi».
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PRIMA CHE SIA NOTTE Giorgio Andreotta Calò ci permette di sospendere la consuetudine (di un oggetto, della visione, di un luogo) e di stimolare il muscolo dell’immaginazione: di azionare le immagini che ci offre L’artista ci chiama a fare esperienza, ci spinge a sentire a vedere, a toccare, ad ascoltare di ANNA MATTIROLO
Prima che sia notte, 2011-2012 particolare dell’installazione Collezione museo Maxxi Roma foto Giorgio Andreotta Calò
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L’ARTISTA
Giorgio Andreotta Calò 1979 Nasce a Venezia il 27 giugno
2003-2004 Vince una borsa di studio al Khb Kunsthochschule di Berlino
2005 Conclude gli studi all’accademia di Belle arti di Venezia
2006 Corso avanzato in arti visuali alla fondazione Antonio Ratti visiting professor Marjetica Potrc
2009-2010 Artista in residenza alla Rijksakademie di Amsterdam
2012 Vince il Premio Italia arte contemporanea al Maxxi, Roma
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no spazio completamente buio, disorientante, avvolgente ma anche inquietante nel momento in cui si varca la soglia della grande camera oscura. Prima che sia notte vince l’edizione 2012 del Premio Italia “per la sintesi che la sua opera provoca tra esperienza individuale, il legame con lo spazio architettonico e quello urbano. L’opera riattiva la relazione del museo con la città e, nel caso del Maxxi in particolare, assorbe l’immagine della città al suo interno come metafora del rapporto speculare e di responsabilità tra l’istituzione e il paese”. Quante discussioni, quanti confronti, quante riflessioni e scommesse con Giorgio Andreotta Calò mentre via via andava definendo l’idea del suo progetto per la galleria 5 del Maxxi: la più difficile, uno spazio anomalo al quale si accede dopo un percorso nel vuoto, che trascina a una prima a curva, poi a una salita, dopo aver attraversato un taglio nel pavimento a 20 metri da terra, fino a spingere verso la grande vetrata affacciata sulla piazza del
museo con una vista sull’area urbana sottostante. Difficile inserirsi in quello spazio senza avere la tentazione di contrastarlo, di difendersi, di costruirsi un proprio ambito nel quale presentarsi. Giorgio arrivava al museo – non so più neanche quanti sopralluoghi abbia fatto – silenzioso e prolisso al tempo stesso, teso ma deciso a cominciare proprio da lì. Aveva subito capito che l’immensa vetrata della galleria che al terzo piano dell’edificio si apre sull’esterno, proiettando idealmente la linea del disegno architettonico nel paesaggio del quartiere Flaminio, era la chiave per stravolgere, di fatto, la percezione di quello spazio tanto luminoso quanto attraente e invitante da cui gli stessi visitatori parevano, a ogni sopralluogo, sempre conquistati. Ecco che l’artista crea da quell’immagine – il colpo d’occhio sul quartiere ma anche lo spettatore che dall’interno viene proiettato fuori – la sua visione da “esperire”, così Il panorama, l’immagine dell’esterno, dall’interno silenziosa, ovattata, sospesa nel vuoto, viene afferrata e trascinata nel museo. Giorgio
In alto: un ritratto dell’artista Volver, 2008-2009 barca, acqua foto di documentazione cortesia Galleria Zero…, Milano
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GLI ELEMENTI CHE CARATTERIZZANO IL LAVORO DI GIORGIO ANDREOTTA CALÒ SONO MOLTI E COMPLESSI È TUTTAVIA POSSIBILE INDIVIDUARE DUE TEMI FORTI CHE POSSONO COSTITUIRSI COME ADEGUATE CHIAVI INTERPRETATIVE ESSENZIALI ALLA COMPRENSIONE: LA PROCESSUALITÀ (DEL MATERIALE E DELL’ESPERIENZA) E LA DINAMICA DELLA TRASFORMAZIONE FLUIDA E CONTINUA NEL TEMPO (Mara aMbrožič)
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PERSONALI 2012 Premio Italia Museo Maxxi, Roma Silenzi in cui le cose si abbandonano Msu, Museum for contemporary art curata da Alessio Fransoni e Ilari Valbonesi Temporaneo Fondazione Nomas Roma 2011 Biennale di Venezia Illuminazioni curata da Bice Curiger giardino di Carlo Scarpa Padiglione centrale Giardini 2010 Personale Biennale internazionale di scultura di Carrara chiesa di Santa Maria delle lacrime, Carrara ”Present future” Artissima 17 Torino Scolpire il tempo Wilfried Lenz gallery Rotterdam Open studio 2010 Rijksakademie Amsterdam Manumento ai caduti Piazza Liber Paradisus nuova sede del comune di Bologna
GALLERIA
Museo Maxxi, Roma particolare della vetrata della galleria 5 con riflessa l’immagine del quartiere Flaminio foto Simone Settimo
Galleria Zero..., Milano via Tadino 20 Milano www.galleriazero.it
QUOTAZIONI n. d.
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con Prima che sia notte crea una sorta di osmosi, come l’ha definita lui stesso, “capace di far penetrare attraverso un piccolo foro un panorama muto e statico che entra letteralmente nel museo anche se in forma di labile traccia: precaria e mutevole presenza visibile con una definizione che varia nel corso del movimento del sole ma percettibile solo dall’alba al tramonto. L’intervento è legato ad un’esistenza naturale, al movimento ciclico del sole, alla luce del giorno. L’immagine all’interno della stanza sarà percepibile solo dall’alba al tramonto. Poi scomparirà completamente. Ogni giorno si rigenera all’interno di quel luogo. Ogni giorno muore per rinascere”. Giorgio Andreotta Calò al Maxxi si è dunque concentrato sul luogo nella duplice accezione di spazio architettonico (del museo) e paesaggio, concependo un’istallazione che le riunisce entrambe utilizzando i principi della camera oscura. Il pubblico entra in una stanza, luogo nel luogo della sala museale e, seguendo la linea di un corrimano, si trova in uno spazio insieme contenuto e sconfinato, totalmente buio e silenzioso
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BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Non ricordo». Come sei diventato un artista? «Mio padre è medico». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Va bene così». Hobby, passioni? «Sono due cose diverse». Come definiresti la tua arte? «Non la definirei». Come definiresti la tua vita? «È un po’ la stessa domanda di prima». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «La morte». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Non sono un buon allievo». Cosa trovi interessante oggi? «Il silenzio». Cosa non sopporti di questo tempo? «Sopporto».
A fianco: Prima che sia notte particolare dell’installlazione 2011-2012 collezione museo Maxxi, Roma foto Giorgio Andreotta Calò In alto a sinistra: Dal tramonto all’alba intervento luminoso sulla torre del Parlamento Sarajevo, 7 febbraio 2006 foto Giorgio Andreotta Calò
Senza titolo, 2010 installazione Rijksakademie van Beeldende Kunsten, Amsterdam
nel quale, solo con il tempo necessario, ci si abitua e si ricomincia a vedere. Ciò che i nostri occhi piano piano percepiscono è l’immagine del panorama esterno ottenuta tramite un sistema stetoscopico e moltiplicata dall’acqua che, con un gioco di riflessi, capovolge l’immagine. Attento com’è al rapporto tangibile tra spettatore e spazio, Giorgio mette dunque il pubblico all’interno di una scatola nera, lo obbliga a un tempo lento e alla perdita dello stessa percezione dello spazio, riuscendo perfino a negare l’indiscutibile, l’architettura di Hadid. Il rapporto tra contesto architettonico e contesto urbano si risolve così in un’esperienza fisica che si decide con l’atto del vedere attraverso l’acqua, elemento particolarmente congeniale all’artista, e si inserisce con perfetta coerenza nel suo percorso di ricerca. Giorgio nasce a Venezia, città che rimane iscritta nel suo patrimonio costitutivo di artista. Luogo raccolto e spazio segnato dall’incrocio tra presente e passato che sembra riaffiorare in molti suoi lavori, se non altro come memoria di un tempo e di un’atmosfera. In ciò l’associazione all’acqua, elemento ricorrente
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Scolpire il tempo 2010-2011 collezione Stefano e Raffaella Sciarretta Roma fotografia scattata alla fonderia Stijlaart di Tiel Olanda foto Giorgio Andreotta Calò Sotto: Monumento ai caduti 30 gennaio 2010 intervento alla nuova sede del comune di Bologna foto Roberto Rossi
nella sua ricerca, può forse parere banale ma è certa. L’acqua diventa, assieme al tempo, materia sostanziale del suo lavoro: l’acqua è capace di modificarsi e di modificare e permette, nel riflesso, prospettive nuove sulla realtà, mentre il tempo è l’essenza stessa del cambiamento. I due elementi uniti si ritrovano combinati in quelle forme e installazioni che costituiscono la sua ricerca e l’essenza del suo orientamento documentaristico-onirico nel trattare la contemporaneità. I luoghi, gli spazi e gli oggetti vengono così trasfigurati stimolando l’immaginario dell’osservatore che spesso, per esperire deve entrare o attraversare, o attendere e, in queste azioni, trova una nuova modalità del quotidiano che contribuisce a reinventare con il proprio corpo e con la propria immaginazione. Giorgio ci permette sostanzialmente di sospendere la consuetudine (di un oggetto, della visione, di un luogo) e stimolare il muscolo dell’immaginazione: di azionare le immagini che ci offre. E questo accade ed è accaduto al Maxxi, come nello spazio di meditazione e contemplazione di Osservatorio (2007), e ancora in Dal tramonto all’alba (2006) dove non l’acqua, ma la luce, aveva avuto la funzione di risvegliare un luogo: la torre del Parlamento di Sarajevo. Gli esempi della validità e della coerenza della ricerca di Giorgio sono molteplici: ho citato con orgoglio l’ultima istallazione al Maxxi e sono tornata indietro verso le prime promettenti esperienze, ma potrei citare in quest’ottica ogni suo lavoro, certamente Volver (2008), che combina oggetto, architettura e azione; Scolpire il tempo (2010), la formalizzazione in bronzo del momento ultimo del processo di erosione del legno nella laguna veneziana; Senza titolo (2010) in cui l’artista allaga il suo studio ispirandosi alla condizione depressa della posizione geografica del luogo, sotto, appunto il livello del mare. Giorgio Andreotta Calò ha avviato un percorso maturo e coerente con queste cifre che costituiscono, ad oggi, la base della sua ricerca: l’intervento sul luogo, attentamente valutato anche in base al contesto urbano e geografico, la rigenerazione della sua identità, anche attraverso l’acqua e il tempo e il coinvolgimento dello spettatore, il nostro coinvolgimento, visto che l’artista ci chiama a fare esperienza, ci spinge a sentire, a vedere, a toccare, ad ascoltare, in quella chiave di conoscenza che è, a mio avviso, responsabilità principale dell’arte contemporanea.
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Rebecca Ward “Split end”, 2012 Post-op, Mixed greens, New York cortesia dell’artista, Ronchini gallery & Artnesia foto Etienne Frossard
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EQUILIBRI GEOMETRICI L’artista texana Rebecca Ward gioca con le linee e i colori per dar vita a installazioni architettoniche sempre in dialogo con lo spazio espositivo La sua è un’arte in bilico tra sovversione e immaginazione Tra i suoi maestri Daniel Buren e Maurizio Cattelan di ALBERTO FIZ
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ebecca Ward, artista texana classe 1984, ama i colori e le geometrie. Armata di nastro isolante riesce a dar vita a creazioni che sono innanzitutto architettoniche, perché dipendono dallo spazio in cui si trova ad agire. Giovane, ma già apprezzata tanto da essere entrata nella rosa di artisti che ha inaugurato lo spazio di Maurizio Cattelan a New York, la Ward ha in programma una mostra nella sede londinese della Ronchini e, in estate, sarà al fianco delle opere di Piero Dorazio per l’opening della galleria di Matteo Boetti, figlio di Alighiero, a Todi. Un grande talento che cercheremo di conoscere meglio rivolgendole alcune domande sulla sua opera e sulla sua cifra stilistica. Rebecca, il tuo lavoro si concentra sulla ridefinizione comprensiva dello spazio. Qual è il tuo rapporto con l’architettura? «Quello che mi interessa maggiormente è l’espansione al di sopra delle esistenti strutture architettoniche. Lo spazio architettonico è come una tela bianca tridimensionale. Le travi e le colonne di una stanza sono per me come il telaio di
un dipinto. Questi sistemi di supporto e i loro movimenti lineari sono l’ispirazione per il mio lavoro. Anche nella stanza più semplice, dove c’è abbondanza di linee parallele e perpendicolari, immagino che queste linee si estendano all’interno del mio spazio fisico, trasformandosi successivamente in una complessa entità tridimensionale». Qual è la reazione che normalmente ti aspetti da chi osserva il tuo lavoro? «Non mi aspetto mai alcuna reazione perché ognuno risponde al mio lavoro in modo differente. Alcune persone amano gli impressionisti, altri preferiscono le arti performative e ad altri ancora non amano affatto l’arte. Così la reazione è generalmente soggettiva. Anche quando un’opera ha delle intenzioni molto specifiche, la diversa percezione della stessa può cambiarne totalmente il significato». Quando hai usato per la prima volta il nastro adesivo nelle tue installazioni? «Informalmente nel 2003 nel dormitorio universitario. Formalmente nel 2005 durante il corso di installazione all’università del Texas ad Austin». Quanto pensi che abbia influito nella tua
L’ARTISTA
1984 Nasce il 13 aprile a Waco, in Texas
2006 Si laurea all’Università del Texas a Austin
2007-08 Nominata miglior artista di Austin dal Critics Table
2011 Partecipa alla mostra inaugurale della galleria di Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni Family business a New York
2012 Consegue il diploma post-universitario di Belle arti alla School of visual arts di New York
A sinistra: Rebecca Ward A destra: “The heretic”, 2012 cortesia dell’artista, Artnesia e Ronchini gallery
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PERSONALI 2011 ”Thickly-sliced” Cam Raleigh Raleigh, Usa 2009 ”Cmyk” Milk gallery Istanbul, Turchia ”Information is incidental” Charlotte Street foundation Kansas City, Usa 2007 Rebecca Ward Finesilver gallery Houston, Usa ”Tape 10” Lawndale art center Houston, Usa 2006 Rebecca Ward+Kurt Mueller The donkey show Austin, Usa
GALLERIA Ronchini gallery Londra/Terni www.ronchinigallery.com
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SITO www.rebeccasward.com
Installazione da Stella Mc Cartney New York 2012 cortesia dell’artista, Artnesia e Ronchini gallery
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A destra: “Monster”, 2012 Sotto: Installazione da Stella Mc Cartney New York, cortesia dell’artista Ronchini gallery & Artnesia
BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Quando ero piccola, ero infatuata del film del 1979 ”The black stallon”. Amavo i cavalli e volevo diventare un fantino, in uniforme rosa, naturalmente. Non so come mai la mia mente abbia elaborato un sogno simile. Forse è qualcosa che realizzerò più avanti, nel corso degli anni». Come sei diventata un’artista? «Casualmente. E dopo ho intrapreso gli studi artistici all’università del Texas, Austin e alla School of visual arts di New York». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Probabilmente uno chef. Adoro cucinare. E del resto gli chef sono artisti nel loro campo». Hobby, passioni? «Abitando in una città come New York, sento spesso il bisogno di evadere e andare in campagna. Amo stare immersa nella natura e passeggiare sulle colline. Adoro viaggiare e conoscere nuovi posti. Mi piacerebbe girare il mondo per cui il mio unico problema adesso è restringere un po’ il campo delle mete che mi piacerebbe visitare. Per cui ho sempre fissa una mappa nella mia cucina per tenere a mente questo obiettivo tra le mie priorità». Come definiresti la tua arte? «Ho da molto tempo un’affinità con il minimalismo e l’astrazione. Non posso fare a meno di rappresentare nel mio lavoro l’influenza delle emblematice strisce di Buren. Comunque sto cercando di riversare nei miei quadri altre referenze e combinarle entro i duri confini dell’astrazione. Mi piace osservare come un paesaggio astratto può entrare in collisione con le linee come avveniva in
Frank Stella nel 1967». Come definiresti la tua vita? «Un tipo alla moda di Brooklyn che mantiene salde le proprie radici selvagge da texana». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «Ritengo che l’arte sia essenzialmente una ricerca sulla libertà e questo la rende necessaria per abbracciare ogni genere di sperimentazione quotidiana. Devo molto al percorso fatto dall’Arte povera. Il loro metodo di rivalutare gli scarti e utilizzare materiali non convenzionali è una grande ispirazione per me. Questa forma di riciclaggio nell’arte dimostra che l’uso dei materiali può anche trasmettere un messagio politico e sociale, specialmente nell’era in cui il consumo e lo spreco sono enormi problematiche globali». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Ho avuto una maestra fenomenale in Texas, Margo Sawyer. Lei ha dato avvio al mio lavoro e mi ha procurato molte opportunità. Il resto lo ha fatto la mia famiglia che mi ha sempre ricordato chi sono e da dove vengo». Cosa trovi interessante oggi? «I social media, perché sono una strana bestia. Rappresentano un cambiamento rapido su come percepiamo l’arte, come guardiamo le immagini e come trattiamo le cose. E anche di come ci approcciamo alle persone e promuoviamo la nostra arte. Oggi un’immagine deve catturare immediatamente la tua attenzione per avere successo. Per questo credo che i social media abbiano cambiato il modo stesso in cui l’arte viene fatta». Cosa non sopporti di questo tempo? «Le notizie della Fox, il cattivo caffè, lo scioglimento dei ghiacciai e andare di fretta».
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crescita la neoavanguardia di Daniel Buren che usa le strisce dal 1965? «Buren è stato un ispiratore per molti artisti come me perché ha rappresentato un cambiamento di prospettiva nell’arte passando dall’investigazione materiale alla cri-
tica istituzionale. Le sue teorie situazioniste riflettono il contesto nel quale la sua arte è stata prodotta. Quando ho visto l’opera di Buren “Les deux plateaux” mi sono subito sentita in sintonia con essa. Il fatto che qualcosa di così semplice e lineare potesse cau-
sare un così grande sconvolgimento è esattamente il motivo per il quale ha avuto così tanto successo. Le sue erano geniali suggestioni in contrasto con le strisce moderniste che caratterizzano l’architettura barocca del Palais royal. Artisti come Buren sono così
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LE MOSTRE La Ronchini gallery di Londra ospita la prima personale della giovane artista statunitense Rebecca Ward in Inghilterra. Dal 12 aprile al 18 maggio, l’esposizione propone sia installazioni che quadri: esclusivamente lavori realizzati per l’occasione che continuano l’esplorazione dell’artista sul colore e sullo spazio. In estate il lavoro della Ward sarà affiancato a quello dell’artista italiano Piero Dorazio in una doppia personale all’interno dell’atelier di Alighiero Boetti, a Todi, trasformato in spazio espositivo dal figlio Matteo. Info: www. ronchinigallery. co m
“False prophet”, 2012 cortesia dell’artista Artnesia e Ronchini gallery
importanti per il vocabolario visuale di ognuno di noi da diventare parte della nostra quotidianità, senza esserne pienamente consci. Le strisce sono state sempre importanti per me. Studiando attentamente Buren e il suo lavoro ne ho capito il perché». Qual è il ruolo del colore nel tuo lavoro? «Il colore è una bestia strana. Nella mia vita quotidiana rispondo piacevolmente ai colori. Alcune combinazioni le uso spesso come fossero il risultato di racconti o memorie sepolti nel profondo del mio subconscio. Mi sono prefissata di usare il colore in una maniera sinestetica, facendo emergere di volta in volta un numero di scenari che designeranno le scelte della sequenza cromatica. Sto anche cercando di assecondare la nostra comprensione culturale e mitologica del colore. L’assenza di un colore si sente in maniera diversa che in un arcobaleno, per esempio». Qual è il rapporto tra le tue installazioni e i
tuoi dipinti? «Installazioni e dipinti sono il risultato di processi diversi: riguardano la costruzione o la decostruzione di un oggetto. Le installazioni hanno una diretta relazione fisica con l’architettura circostante mentre i dipinti necessitano di una loro relazione con la cornice». Qual è il futuro di un’opera d’arte? «Beh, niente è per sempre». Come sei finita nella galleria di Maurizio Cattelan a Chelsea? «Marilyn Minter è stata una magnifica insegnante durante i miei studi alla School of visual arts di New York. È stata scelta da Maurizio perché aveva studenti talentuosi e le chiese di curare la mostra inaugurale della Family business. Lei scelse me, insieme ad altri giovani artisti provenienti dalla scuola, che avessero in comune uno stile da poter presentare in una collettiva». Guardando il tuo sito, si nota che il famoso
dito medio di Cattelan appare subito nella tua “library”. Ti piace questo lavoro? «Sì, Cattelan è un maestro della sovversione». Nei prossimi mesi sarai in Italia con un maestro storico dell’arte astratta, Piero Dorazio, con cui il tuo lavoro ha una forte relazione. Cosa hai in comune con lui? «Con Dorazio (scomparso nel 2005, ndr) condividiamo un profondo interesse per il colore, le linee, il materiale e l’architettura. Le sue pitture profondamente lineari creano un meraviglioso spazio architettonico all’interno di una superficie a due dimensioni. Entrambi abbiamo il desiderio, attraverso il nostro lavoro, di creare spazi immaginari. Le mie opere esplorano situazioni geometriche e complessità ampliando semplici figure, scenari e linee esattamente come faceva Dorazio. Entrambi condividiamo l’idea che la pittura astratta possa cambiare il mondo».
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SOSTENIAMO I GIOVANI ARTISTI
VI edizione
PREMIO ARTI V VISIVE
PITTURA FOTOGRAFIA INSTALLAZIO INSTALLAZIONE VIDEO SCULTURA a breve il bando sarà sc scaricabile dai siti www.insideart.eu www.talentprize.it
seguici su
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UNA SCOSSA RIFLESSIVA Andrea Nacciarriti nel suo progetto compie un’analisi sulle relazioni che sottendono i rapporti tra arte e società , spazio espositivo e territorio, e su quanto sia possibile muovere critiche e produrre reazioni ai fatti
di LUDOVICO PRATESI
Andrea Nac ciarriti T102, 2013 cortesia Franco Soffiantino contemporary art productions foto Giovanni Ghiandoni
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“S
ono decine le navi mercantili, affondate o naufragate misteriosamente durante gli ultimi trent’anni nel mare Mediterraneo: dall’Aso andata a picco nel 1979 vicino Locri, in Calabria, alla Rigel affondata al largo di Reggio Calabria nel 1987, alla Marco Polo inabissata nel Canale di Sicilia nel 1993, oltre a decine di incidenti avvenuti in anni più recenti, le navi sarebbero state usate per sbarazzarsi di tonnellate di rifiuti tossici, chimici e radioattivi”. È questo il fulcro nonché l’incipit della ricerca condotta da Andrea Nacciarriti (Ostra Vetere, Ancona, 1976) che ha portato alla realizzazione della mostra “And the ship sails on” alla fondazione Pescheria di Pesaro. Il progetto è un corpus site specific e installativo a cui l’artista lavora da tempo e che si pone come perfetta integrazione tra attività sociale,
ricerca artistica, indagine di cronaca e approfondimento etico. “And the ship sails on” è sostanzialmente una denuncia filtrata e contemporaneamente enfatizzata dall’uso del linguaggio dell’arte, attraverso cui Nacciarriti ha inteso dare un ulteriore risuono al libro di Riccardo Bocca, intitolato Le navi della vergogna, che l’artista pone come suo personale momento di presa d’atto del delicato argomento. Il testo del giornalista dell’Espresso traccia un link di indagine attraverso documenti delle autorità giudiziarie a livello internazionale, tra esponenti della criminalità organizzata dei rifiuti velenosi, e la crescita apparentemente ingiustificata delle malattie mortali, proprio in quei territori dove le navi tossiche si scoprono inabissate o spiaggiate. Attraverso l’uso di materiali dissimili, che vanno dal marmo al video, dall’acqua al cemento, fino alle tracce audio, l’artista crea per la
L’ARTISTA
1976 Andrea Nacciarriti nasce a Ostra Vetere (Ancona) il 2 giugno
2005 Èstato tra gli artisti selezionati per ”Untitled” all’ex Faema di Milano e tra i partecipanti del corso superiore di arte visiva della fondazione Ratti di Como con Alfredo Jaar.
2010 Vince un programma residenza d’artista di tre mesi a Ekenäs, in Finlandia, al pro Artibus. vincitore del Terna prize 03, trascorre tre mesi alla Red gate gallery di Pechino.
2011 Ha vinto il 49esimo premio Suzzara, curato da Emma Zanella e Alessandro Castiglioni, e il premio Celeste nella sezione installazioni
2012 È tra i finalisti del Talent Prize
A sinistra: Andrea Nacciarriti A pagina 44: Shahinaz, Yvonne A, Voriais Sporadais, 2013 foto Giovanni Ghiandoni
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IMPIETOSO E CARICO DI DEBOLEZZA UMANA IL PERCORSO DI AND THE SHIP SAILS ON CI RICONDUCE AL LATO TORBIDO DELL'ITALIA E ALLA DIFFICOLTÀ DI RIGENERARSI PER I RICATTI DI UN RECENTE PASSATO (RICCARDO BOCCA, CATALOGO DELLA MOSTRA SILVANA EDITORIALE, 2013)
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PERSONALI 2012 ”Me sunbathing in Beijing March 17 th 2012” a cura di Cecilia Freschini Zajia lab, Beijing project space, Beijing, Cina 2011 ”No one knew what anyone else was doing” a cura di Vincent Verlè Cab, Grenoble, Francia 19.08 a cura di Marinella Paderni Studio G7, Bologna ”Once upon a time” a cura di Ettore Favini Crac liceo artistico Bruno Munari, Cremona ”Keep the lights on” Pro Artibus foundation, Ekenäs in Raseborg Finlandia 2010 ”Crystallize” Franco Soffiantino, Torino 2007 ”Sleepingtime” Franco Soffiantino, Torino ”Panopticon” a cura di Marinella Paderni Enrico Fornello, Prato 2002 ”La maison de l’homme" (inabitare) a cura di Rosanna Chiessi e Andrea Sassi Atelier 25 gallery Reggio Emilia
GALLERIA Franco Soffiantino Contemporary art productions Via Rossini 23, Torino www.francosoffiantino.it
QUOTAZIONI da 5.000 a 25mila euro Bellu lavuru, 2012 cortesia Franco Soffiantino contemporary art productions
SITO www.andreanacciarriti.net
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Botta e risposta L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Ho avuto un immaginario visivo ampissimo di professioni da bambino. Nei miei sogni sono stato anche un pittore come Mark rothko». Come sei diventato un artista? «artisti si diventa? Ho imparato a esternare una sensibilità strutturata a ciò che mi fa riflettere come la superficialità». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Non credo ci sia una professione in particolare. avrei pensato alla realizzazione delle coreografie per la Fossa dei Leoni se non si fosse sciolta nel 2005. Mi piacerebbe partecipare alle ricerche che da anni stanno effettuando al bacino del lago Vostok. il titolare di una sala da barba a palermo. Gestire un’enoteca di vini italiani all’estero con eleonora». Hobby, passioni? «Le tifoserie. il calcio un gradino sotto assieme alla boxe». Come definiresti la tua arte? «poetica.insieme linguistico di intenti». Come definiresti la tua vita? «Come un ambiente esterno riscaldato». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «Credo ci siano delle pressioni/passioni etiche fondamentali per vivere e fare arte». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «solo ora capisco quanto mio padre sia stato il Maestro. Ci sono poi alcuni grandi uomini che probabilmente gli
assomigliano: Vladimir Vladimirovich Majakovskij per il temperamento, Yasujirō ozu per lucidità e precisione, Franco Baresi per l’umiltà (anche se mio padre era interista), Gianni Brera per l’ironia, il lavoro di Hans Haacke al padiglione tedesco della Biennale di Venezia del 1993, una forza incredibile. a Chang per il coraggio sfrontato, il Guy Debord sofferente di in girum imus nocte et consumimur igni, Gino Bartali perché non si è mai arreso, anche se, con Fausto Coppi c’era poco da fare». Cosa trovi interessante oggi? «i racconti di guerra in abidjan di Yves, mio allievo quattordicenne. La storia di samia Yusuf omar, l’atleta somala di pechino 2008 morta su un barcone per raggiungere l’italia. il sommerso. L’adattabilità al quotidiano. ”something on the way”, performance di alessandro rolandi e Megumi shimizu». Cosa non sopporti di questo tempo? «La mancanza di lealtà sociale e lavorativa.Le anguste e sovraccariche celle italiche e l’intero impianto penitenziario rapinatore perseverante della dignità umana. il populismo dilagante. Delegare parametri di responsabilità. La mondanità e il presenzialismo come criterio di affermazione. Mi colpì molto l’immagine che diede Not Vital di ai Wei Wei quando lo incontrai, disse scherzando: ”Lui vuol fare proprio il King Kong dell’arte contemporanea”. insopportabile King Kong!».
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A sinistra: 8’40’’ [everything in its right place...], 2012 Drawing # 000000008 [lampi sull’Eni], 2011 foto Fulvio Richetto cortesia Franco Soffiantino contemporary art productions
LA MOSTRA And the ship sails on La fondazione Pescheria di Pesaro ospita ”And the ship sails on”, personale di Andrea Nacciarriti, a cura di Ludovico Pratesi. Il progetto è ispirato a una serie di vicende di cronaca relative alle navi che scaricano rifiuti tossici nel Mediterraneo, ed è frutto di una ricerca che l’artista conduce da diversi anni. Fino al 7 aprile, fondazione Pescheria-Centro arti visive, corso XI Settembre 184, Pesaro. Info: www.centroartivisivepescheria.it
sua mostra personale un nesso concettuale e fisico tra lo spazio espositivo e i propri lavori, conducendo allo scambio osmotico tra interno ed esterno, tra materia creativa e testimonianza di cronaca. Lo spazio suggestivo dell’ex pescheria, in una città di mare e di turismo come Pesaro, si presenta come un luogo in doppia connessione con il progetto artistico, nel quale le idee di coscienza personale, di responsabilità collettiva e di omertà sui fatti sono strettamente legate al senso d’amore e d’appartenenza verso un territorio che si considera d’origine. Andrea Nacciarriti con il progetto “And the ship sails on” fotografa in maniera lucida e pertinente l’errata consuetudine da parte delle società contemporanea di giungere fin troppo sbadatamente all’interpretazione delle informazioni provenienti dall’esterno, senza cioè attivare alcun giudizio o valutazione sulle modalità con cui tali notizie vengono selezionate, confezionate e infine veicolate dai mezzi di comunicazione. L’artista produce dunque una doppia critica sia nei confronti del sistema mass mediatico, che deliberatamente nega la conoscenza dei fatti al grande pubblico attraverso l’omissione delle informazioni ritenute scottanti, sia verso la collettività stessa, incapace di assumersi la responsabilità di reagire, ma soprattutto disinteressata a comprendere realmente ciò che accade poco distante dai propri occhi.
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Il progetto di Nacciarriti intende dunque scuotere le coscienze e attivare un processo di presa d’atto degli eventi legati indissolubilmente alla vita e al futuro di tutti noi. L’arte di Nacciarriti è figlia del nostro presente e della cronaca, si tratta di un’arte che rifugge dall’autoreferenzialità e dall’autorialità per farsi discorso corale e denuncia sociale. Temi come lo smaltimento dei rifiuti tossici e le relazioni con la ‘ndrangheta e le ecomafie, il racconto dell’abbissamento delle navi Cunski e Ro-Ro al largo delle coste di Amantea e Cetraro in Calabria da parte del pentito Francesco Fonti, della Jolly rosso, le morti sospette di testimoni, l’incremento dei tumori nelle zone adiacenti Marina di Lesina, sul mar Adriatico, dov’è rimasta spiaggiata per decenni la nave Eden V, rappresentano l’oggetto più che mai tangibile della ricerca di Nacciarriti, ma descrivono soprattutto il punto di partenza per indagare l’animo umano e il perché si resti spesso imperturbati di fronte alla tragicità di fatti che giustificherebbero, viceversa, una nostra ribellione. La mostra si completa, inoltre, con la trascrizione in catalogo di una conversazione avvenuta attraverso Skype tra l’artista e Gianfranco Posa, presidente del Comitato civico Natale De Grazia, grazie al quale Nacciarriti prosegue la ricerca, riuscendo a ottenere, ad esempio, l’acqua del fiume Oliva, presente simbolicamente e materialmente in mostra. La possibilità che quell’acqua sia contaminata è plausibile, le analisi effettuate dall’Ispra nel 2010 raccontano di tracce di arsenico e
cesio 137 (riscontrati con valori fino a 10 volte superiori alla norma), cromo, nickel, antimonio, zinco e cobalto, ma anche idrocarburi, cadmio, cromo esavalente e rame, tutte sostanze osservate in quantità tre volte superiore ai limiti di legge nel sottosuolo dell’intera zona, e che non hanno risparmiato nemmeno le falde acquifere del fiume. Il progetto di Andrea Nacciarriti esposto alla fondazione Pescheria, come spesso accede per i lavori dell’artista, tende verso l’apprendimento dei fatti di cronaca, mediante l’esperienza emozionale, derivante non solo dalla visione dell’opera artistica ma anche attraverso lo stimolo alla curiosità. “And the ship sails on” si pone dunque come obiettivo di smuovere alla conoscenza, al fine di scuotere alla riflessione e alla crescita morale, confrontandosi a viso aperto con tematiche umilianti per chi, messo al corrente senza sottintesi, si ritrova a persistere nell’agire nell’omertà. Andrea Nacciarriti nel suo progetto compie anche un’analisi sulle relazioni che sottendono i rapporti tra arte e società, spazio espositivo e territorio, e su quanto attraverso questi sia possibile concretamente stimolare le coscienze, muovere critiche e produrre reazioni ai fatti. Momento consuntivo della mostra è allora l’esposizione di un tronco d’albero, ritrovato dall’artista sulle coste di fronte la sua città natale, sull’Adriatico, splendidamente levigato dal mare e dal vento, aspramente indurito dalle tempeste e dalla tragicità degli eventi contemporanei.
drawing # 000000004 [grafit], 2011 cortesia Franco Soffiantino contemporary art productions foto Laurent Salino
UNA RICERCA, DI TIPO INDIZIARIO E INVESTIGATIVO CHE SI AVVALE DI INFORMAZIONI, REPERTI, DOCUMENTI D’ARCHIVIO ACCESSIBILI SUL WEB, CHE NACCIARRITI REIMPIEGA NELL’INVENZIONE DI UNA CONTRONARRAZIONE DELLA STORIA CHE SI BASA SUL MODELLO DELL’ESTETICA RELAZIONALE. (MARINELLA PADERNI, CATALOGO DELLA MOSTRA 18.09, 2011)
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LA PITTURA SOSPESA Velasco Vitali riesce a cogliere nello stesso tempo la frammentarietà e la continuità del reale. E spiega: «Instabilità e utopia sono gli elementi tematici che hanno costretto e ampliato la mia visione del mondo includendo abitanti e abitato, uomini, cani e città» di DEIANIRA AMICO
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e città, gli alberi, i cani. Nei disegni e dipinti di Velasco Vitali si coglie il senso della frammentazione e nello stesso tempo della continuità della sua pratica artistica. Il più piccolo disegno contiene il quadro e l’opera compiuta è frammentaria. Disegni tele e sculture partecipano della stessa narrazione, opere compiute e allo stesso tempo parti di una progettualità che si completa nel luogo specifico dove incontra lo spettatore. Foresta rossa. Qual è il punto di partenza e la morfologia di questo nuovo viaggio? «C’è una costante che da anni si ripete sempre uguale nella mia ricerca sulla pittura: trovare un punto per metterla a rischio. L’incipit è sempre di natura narrativa e lo scopo è quello di obbligare me e chi guarda il quadro a un preciso riferimento col reale. Instabilità e utopia sono gli elementi tematici che hanno costretto e ampliato la mia visione del mondo includendo abitanti e abitato, uomini, cani e città. Un branco di cani è un miscuglio di vite che abita nello stesso luogo,
è un meticciato di razze. Di queste vicende mi sono immaginato narrazioni compiute, fantasiose e distanti dalla realtà. La scoperta delle città fantasma è stato il punto di coincidenza fra immaginazione e dato reale, è stata ancora una volta la conferma che la realtà supera di gran lunga qualsiasi immaginazione. Ad ogni elemento del branco ho assegnato il nome di una città fantasma, un luogo che ha una corrispondenza precisa con la geografia del mondo e una storia di vita compiuta. Quello che ha fatto Calvino in letteratura con le città invisibili me lo sono ritrovato nella realtà come un nuovo libro aperto sui sogni, le utopie e le follie dell’uomo. Da lì ha avuto inizio Foresta rossa, da uno dei simboli della crescita e della distruzione più potenti della nostra contemporaneità: l’energia nucleare e la natura. Foresta rossa è la macchia di bosco che avvolge la città di Pripjat vicino alla centrale di Cernobyl. L’ho considerato il simbolo più forte per iniziare un itinerario, uno spazio aperto per la mia pittura che necessita di un nuovo tempo sospeso».
L’ARTISTA
1960 Velasco Vitali nasce a Bellano (Lecco) il 25 agosto 1960
1984 L’inizio è segnato dall’incontro con Giovanni Testori e la partecipazione alla mostra Artisti e scrittori alla Rotonda della Besana di Milano
2004 Electa pubblica Velasco 20, monografia sui primi vent’anni di lavoro con un contributo di Giulio Giorello. Extramoenia (2004-2005) è un’esposizione voluta dalla regione Sicilia, allestita a Palermo e a Milano
2005 Entra a far parte della collezione del Macro
2007 Inizia la collaborazione con il Corriere della sera
2010 A cura di Fernando Mazzocca e Francesco Poli è Sbarco, lavoro allestito in piazza Duomo e nel complesso di Sant’Agostino a Pietrasanta e a Milano in piazza Duca D’Aosta e palazzo Reale
2011 È invitato al Padiglione Italia della Biennale di Venezia, presenta l’installazione Branco a Bruxelles, e pubblica Apriti Cielo, volume edito da Skira che raccoglie acquerelli sul tema del sacro Alle pagine 52-53: Velasco Vitali foto Carlo Borlenghi A sinistra: Kalyazin, 2010 A destra: Pripjat, 2012
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L’ARTE DI VELASCO VITALI RAPPRESENTA UNA DELICATA ALCHIMIA DI MILLE QUESITI, È L’APPRODO DEL DUBBIO LA CURIOSITÀ DELLA RICERCA, L’EMOZIONE DELLA SORPRESA (DANILO ECCHER, DAL CATALOGO DELLA MOSTRA LATO4, 2008)
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QUEI CIELI, NELLA SUA PITTURA, CERCANDO IL PROPRIO COLORE, SONO DIVENTATI QUASI NERI SPESSI, CINEREI COME SE L’ABBAGLIO DEL SOLE RIFLESSO DAI CAMPI DAI PAESI, DALLE CITTÀ, LI AVESSE ACCECATI (FERDINANDO SCIANNA, DAL CATALOGO DELLA MOSTRA ISOLITUDINE, 2001)
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PERSONALI 2012 Foresta rossa a cura di Luca Molinari Isola Madre, Verbania 2011 Fragilità del sacro A cura di Elisabetta Sgarbi Studio d’arte Zanetti Bagolino (Brescia) Sbarco Lkff, art & sculpture projects, Bruxelles 2010 Sbarco a cura di Francesco Poli e Fernando Mazzocca piazza del Duomo e complesso di Sant’Agostino Pietrasanta (Lucca) Sbarco a Milano a cura Francesco Poli e Fernando Mazzocca Palazzo Reale e piazza Duca d’Aosta, Milano 2009 Pausa Galleria La Subbia Pietrasanta (Lucca)
GALLERIE Antonia Jannone Corso Garibaldi 125 Milano www.antoniajannone.it Project B Via Pietro Maroncelli 7 Milano www.projectb.eu Lkff, art & sculpture projects (Bruxelles) www.lkff-sculptures.com
QUOTAZIONI sculture dai 15mila ai 30mila euro dipinti dai 12mila ai 24mila euro disegni a partire da 2.000 euro
SITO Marsiglia, 2004
www.velascovitali.com
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LA MOSTRA Foresta rossa Fondazione Corrente, istituzione storica milanese fondata nel 1978 da Ernesto Treccani, ospita fino al 19 aprile Foresta rossa, città abbandonata, a cura di Deianira Amico e Jacopo Muzio, la prima tappa del progetto Foresta rossa, a cura di Luca Molinari, che sarà installata sull’Isola Madre a Stresa (16 marzo-21 ottobre) e alla Triennale di Milano (luglioagosto 2013). In linea con la sua vocazione, la fondazione espone il percorso ideativo e le riflessioni alla base del progetto Foresta rossa. Attraverso l’allestimento che si snoda tra la biblioteca e la storica sala espositiva al piano sottostante, si osservano dipinti, bozzetti e disegni preparatori che riassumono e illustrano il percorso progettuale e tematico delle successive installazioni di Foresta rossa: quella sul lago Maggiore, dedicata alle opere scultoree, e quella in Triennale a Milano, in cui saranno esposti dipinti e disegni. Info: www.fondazionecorrente.org
Dalle città contemporanee a quelle abbandonate. Dai luoghi reali, vissuti, al sogno e la fantasia. Perché collezionare questa mappatura di città scomparse? «Sono come le liste di Umberto Eco, un lungo elenco preciso che a gradini conduce verso lo sconosciuto. Mi pare che lui facesse riferimento per contrasto alla vertigine provocata dalla sequenza incessante dell’elenco. Scoprire immagini di nuovi mondi e attingere a nuove fonti è una necessità per rendere la pittura meno impura. Sono cosciente che è una lingua che può parlare anche solo a se stessa, può essere anche una tensione unica e assoluta che accarezza il reale senza coinvolgerlo, alla quale non servono compromessi cronachistici per giustificare la propria natura. È il più antico degli artifici virtuali eppure l’ho sempre immaginata come luogo della fuga, uno spazio mentale dove potessero convivere il nulla e il reale». Quell’albero rosso, simile anche a una
A destra: San Zhi, 2012 Sotto: “Skyfaces” (dettaglio) 2008 A sinistra: California, 2010
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SE GUARDO AL LAVORO DI VELASCO VITALI, VEDO SOPRATTUTTO UN INQUIETO ASCOLTATORE DELLE REALTÀ CHE VIVIAMO E CHE SEMBRIAMO NON GUARDARE PIÙ CON ATTENZIONE E AMORE (LUCA MOLINARI, DAL CATALOGO DELLA MOSTRA FORESTA ROSSA, 2012)
BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Zorro». Come sei diventato un artista? «Era il piano B». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Libero professionista». Hobby, passioni? «Disegno, musica e ginnastica (e applicazioni tecniche)». Come definiresti la tua arte? «Arte?» Come definiresti la tua vita? «Strapaesana». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «Sì, anche in un bicchiere d’acqua». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Pietro Luridiana, Michele Ghelarducci e Pierfrancesco Ferrucci». Cosa trovi interessante oggi? «6 febbraio 2013: i limoni di Calabria». Cosa non sopporti di questo tempo? «Lo scirocco».
radice, è delle stesse proporzioni dell’essere umano. Ha cinque rami, come le dita di una mano, che sono rivolti verso l’alto, come le mani di quegli uomini ricurvi rifugiati sotto una piroga nella tua mostra a Pietrasanta. Quanto c’è, in quest’albero, del tuo vissuto personale? «Ritorna come una costante nella mia memoria anche se l’ho sempre temuto per la sua forte evidenza simbolica. In moltissime forme vegetali vi è qualcosa di antropomorfo, ma in realtà io tendo ad adeguarle a un’immagine più neutra e sganciata da riferimenti simbolici. La patina arrugginita fa riferimento all’evoluzione naturale della materia e lo mette in relazione col titolo dell’intero ciclo». Le sculture condividono con le tele una forte plasticità e matericità. Alle pennellate dense sembrano corrispondere le suture del ferro e la pastosità del catrame. Qual è il tuo rapporto con la materia?
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QUANDO È IN STUDIO VELASCO DIPINGE CON MUSCOLI E VENE TIRATE. DIPINGERE PER LUI È UNA SPECIE DI COMBATTIMENTO. SI AVVICINA E SI ALLONTANA DALLA TELA. LA APPENDE, LA CAPOVOLGE, LA DISTENDE PER TERRA. HA UNA STRAORDINARIA VELOCITÀ DI ESECUZIONE, ANCHE SE IL SUO DIPINGERE È VIRTUALMENTE INFINITO (PINO CORRIAS, DAL CATALOGO DELLA MOSTRA EXTRAMOENIA, 2004)
“Maunsell sea forts”, 2012
«La specificità organica della materia possiede già un potenziale di significato ed è per questa banale ma profonda ragione che molte sculture in terracotta di artisti del novecento tradotte in bronzo restano insignificanti, come depotenziate della loro forza comunicativa. Ho sempre considerato la materia un valore assoluto dal quale non si può non prescindere e che dev’essere assimilato, compreso e restituito all’opera come sostanziale per il fine espressivo. Il mio approccio alla scultura è nato dalla necessità di liberare il quadro da elementi che non potevano più essere contenuti nella “cornice”, oltre che da un infantile desiderio di toccare e modellare. Osservare lo sviluppo scellerato di tante città del sud Italia, mi ha spinto a guardare alla pratica anarchica
dell’abusivismo da una diversa angolazione fino a considerarla come una forma di positiva creatività se applicata alla pratica all’arte. Un’idea a sostegno di una pratica abusiva della scultura modellata con la stessa materia povera e improvvisata di cui erano edificate le case: ferro, rete metallica, cemento, sabbia, catrame, piombo». In tutta la storia dell’arte scegli due opere, quali? «Mi verrebbe da dire Las Meninas e La fine di Dio, ma sostituisco alla seconda la Carta di Venezia di Jacopo de Barbari. Un folle e maniacale lavoro al quale partecipò anche Albrecht Dürer per incidere nel legno di bosso la brulicante mappatura della più straordinaria metropoli d’acqua quale fu Venezia, an-
negata in un abisso di intaglio xilografico». Riguardo a Sbarco e Branco sono affiorati spesso riferimenti al tema dell’immigrazione. Credi che l’arte abbia delle responsabilità? «Vorrei ritornare al tema dell’instabilità e sottolineare che questo è stato il motivo che ha dato origine a quelle due sculture. In fondo anche gli alberi e la foresta fanno riferimento al dualismo irrisolto fra uomo e natura. Penso che l’arte non debba servirsi della cronaca per lanciare appelli o denunce, ha piuttosto un compito etico diverso, quello di muovere e spostare lo sguardo, destabilizzare e rapire, facendo leva su un carattere specifico che gli è proprio: la fascinazione, che resta un valore fortemente positivo».
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MR FIJODOR UN MURALES PER SOGNARE Viene dalla street art Fijodor Benzo, il torinese d’adozione che da poco sperimenta anche la pittura su tela Un’intervista al creativo che porta freschezza nella tradizione con una ventata di pop e colore
di ANDREA RODI
C’
è voluto del tempo perché la Street art venisse definitivamente sdoganata ma ora, nelle grandi città come Torino la scena urbana è vivace e apprezzata. Qui capita di imbattersi in murales che rivitalizzano intere facciate grigie, come quelle di palazzo Nuovo, sede dell’università, realizzate nel 2010 in occasione del festival d’arte urbana Picturi0n. «Quella prima edizione è stata importante – spiega Fijodor Benzo, in arte Mr Fijodor, artista e anima dell’associazione il Cerchio e le gocce, che del Picturin è la principale promotrice – abbiamo portato a Torino dei nomi importanti, anche dall’estero». Eppure, uno dei lavori che rimane più impresso l’ha ideato lui,
Mr Fijodor, “Batman the crack side” 2012 a destra: Omini con la testa esplosa 2012
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SULLE TELE APPAIONO SAMPIETRINI E MOLOTOV CHE DEVONO MOLTO A MORANDI. VOLEVO RAPPRESENTARE I MOTI DI RIVOLTA ATTRAVERSO UNA FORMA STATICA
LA MOSTRA Da Stroke a Icone Prossimamente Fijodor Benzo espone una collezione di suoi lavori allo studio D’Ars di via Sant’Agnese 12 a Milano, con la curatela di Daniele Decia; e alla fiera itinerante Stroke, tra Monaco di Baviera e Berlino. Il 30 marzo è ospite a Pisa, nel Csoa Rebeldia, dove realizza un intervento insieme agli artisti 2501, Etnik, Macs e Corn 79. Tra fine maggio e giugno dipinge a Modena, in occasione di un evento per commemorare il primo anniversario del terremoto. L’evento è coordinato da Pietro Rivasi della galleria d406, già organizzatore e direttore artistico del festival d’arte urbana Icone.
torinese d’adozione dal 2004. “Culture colors life” è un esempio delle capacità dell’artista, che coniuga una figurazione ironica e onirica, debitrice dei fumetti e dei cartoni animati, a una spiccata sensibilità cromatica. Se l’arte urbana non è più ghettizzata è merito di artisti come lui che vivono i muri come un luogo di sperimentazione. «Rispetto a prima – fa sapere Benzo – si sono capite meglio le potenzialità dell’arte urbana e si sono sviluppate le capacità per rendere dei prodotti che fossero interessanti sulle grandi dimensioni. Sono aumentati il confronto e la competizione, così gli artisti hanno dovuto sviluppare delle tecniche nuove per emergere». L’arte di Mr Fijodor, però, va oltre il
November 2012
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L’ARTISTA Fijodor Benzo nasce a Imperia il 7 novembre del 1979. Studia belle arti a Cuneo e Valencia e nel 2004 si trasferisce a Torino. Realizza graffiti sin dal 1994. Pochi anni più tardi comincia la collaborazione con l’artista torinese Corn 79, con il quale dà vita all’associazione Il cerchio e le gocce, attiva nella promozione della rivitalizzazione urbana attraverso l’arte. Tra i suoi interventi artistici: la decorazione dell’ente organizzatore delle Olimpiadi invernali 2006; gli uffici del politecnico di Torino; il Museo del giocattolo di Bra e la stazione ferroviaria di Moncalieri per Rfi. Le sue opere sono in vendita a partire da mille euro. Info: www.mrfijodor.it
Murales per Muridamare a Imperia 2011 sopra: Fijodor Benzo
muro. «Ultimamente – confessa – amo di più i miei lavori su tela. Sto lavorando con le ossidazioni e i giochi di trasparenze. Prima lavoro sul fondo astratto, poi nascono le figure, spesso ricorrenti, come gli elefantini rosa, che rappresentano la capacità di trasformare i difetti in punti di forza, oltre che la parte psichedelica e onirica». Questo è solo uno degli aspetti di gioiosa rivoluzione che traspare dalle sue opere. «Ora sto lavorando a una serie sulle rivolte popolari, trattandole sotto forma di natura morta. Sulle tele appaiono sampietrini e molotov che, esteticamente, devono molto a Morandi. Ho voluto rappresentare – conclude – qualcosa di dinamico come i moti di rivolta, attraverso una forma che fosse molto statica, come, appunto, la natura morta».
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IN BILICO TRA FALSO E REALE Intervista al duo Tania Brassesco e Lazlo Passi, compagni nella vita e nell’arte. Le loro opere fondono performance, scenografia e installazione per dar vita a fotografie che camminano sul filo di un rasoio, fra mortale e immortale fra credibile e surreale capaci di catapultare lo spettatore in un’altra dimensione di ENRICO MIGLIACCIO
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ania Brassesco e Lazlo Passi Norberto sono giovani artisti italiani ai vertici della fotografia contemporanea. All’estero affiancati a grandi maestri internazionali in fondazioni, musei e gallerie. Nel Belpaese percepiscono, talvolta, un pregiudizio legato alla giovane età ma è qui che hanno iniziato e confidano, in futuro, di poter realizzare importanti collaborazioni e grandi lavori. Come è nata la vostra unione e cosa rende forte il legame? «Interessi in comune, empatia e ottima sintonia. Abbiamo entrambi la passione per l’arte nelle sue innumerevoli forme, gusti affini e la voglia di esprimerci attraverso il nostro immaginario. Essere una coppia nel lavoro, così come nella vita, ha
sicuramente rafforzato il nostro legame e ci rende ogni giorno più uniti». Tania, cosa vedi in lui? «In lui vedo un’estensione di me. È la persona con la quale condivido ogni istante e pensiero, che accompagna e che arricchisce ogni aspetto della mia vita. Lui è anche la mia parte più razionale, quello coi piedi per terra, il che è un bene perché riusciamo a compensarci». Lazlo, cosa vedi in lei? «Una compagna in grado di capirmi e di darmi sempre nuovi stimoli. Una ragazza forte e determinata capace di spronarmi a dare il massimo anche nelle situazioni più complicate. Ormai è una parte di me stesso senza la quale avrei molte difficoltà ad andare avanti, sia in ambito artistico sia nella vita personale».
Come la fotografia contemporanea rende unica un’opera? «La fotografia ha la capacità di essere un mezzo molto diretto, riesce a comunicare in modo intimo ed empatico con l’osservatore. Quello che ci affascina dell’arte fotografica è la bellezza di poter lavorare sul filo del rasoio, quella linea fina e sfumata fra reale e irreale, fra mortale e immortale. Questo, ci dà la libertà di utilizzare la sensazione di realtà, caratteristica intrinseca della fotografia, lasciandoci immergere però al contempo in un mondo non reale e immaginario, in un’altra dimensione tempo-luogo». Quali sono le difficoltà che riscontrate nel vostro lavoro? «Le grandi difficoltà sono legate a questioni di tempo, spazi e budget. Per dar vita
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LA MOSTRA ”Under influences” a Parigi Tania e Lazlo sono gli artisti più giovani in ”Under influences”, fondazione Antoine de Galbert, Parigi, fino al 19 maggio. Una collettiva con 90 artisti internazionali come Jean-Michel Basquiat, Yayoi Kusama, Damien Hirst, Nan Goldin, Irving Penn, Francis Picabia, Takashi Murakami. Tra gli ultimi riconoscimenti nel 2012: Federculture, International photography awards, premio Combat e Mitteleuropa concept. Hanno esposto alla galleria Movimento arte contemporanea di Milano con Eterea, galleria Triphé a Cortona con ”More than photography” e Camera 21 a Roma in ”Dreams of decadence”.
alle nostre opere abbiamo bisogno di grandi spazi dove poter costruire le ambientazioni e di molto tempo per poterle realizzare in ogni minimo particolare. Questo comporta chiaramente anche investimenti economici. Siamo in attesa di incontrare persone che credano nel nostro lavoro e abbiano voglia di sostenerlo aiutandoci attraverso sponsorizzazioni e collaborazioni a realizzare i nostri progetti più importanti e impegnativi». In cosa si diversifica la vostra arte e cosa volete trasmettere? «Le nostre opere sono il risultato di una fusione tra fotografia, scenografia, installazione e “performance” immortalate infine dalla macchina fotografica. In modo analogo alla realizzazione di una scena di un film, o anche all’approccio pittorico, ci piace essere i completi artefici dell’immagine nel suo insieme. Per far questo costruiamo da zero dei set all’interno dei
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COSTRUIAMO DA ZERO DEI SET ALL’INTERNO DEI QUALI RAPPRESENTIAMO LE SCENE IMMAGINATE, OCCUPANDOCI DI OGNI ASPETTO IDEATIVO E PRODUTTIVO Tania e Lazlo, “Sleeping beauty”, 2011 “Young decadent”, 2010, remake di “Young Decadent (after the ball)” - Ramon Casas, 1899 a destra: il duo Tania Brassesco e Lazlo Passi a pagina 67: Nuda veritas, 2010, remake di Nuda veritas, Gustav Klimt, 1899
GLI ARTISTI Tania Brassesco (Venezia 15 marzo 1986) si forma all’accademia di Belle arti della Serenissima. Lazlo Passi Norberto (Verona 9 ottobre 1984) studia arti Visive allo Iuav. Esperienze professionali nell’ambito della pittura, scenografia, video e fotografia costruiscono le basi per renderli autonomi nella realizzazione di lavori legati al mondo della ”staged photography”: creazione dei set, interpretazione dei personaggi, illuminazione, scatti e post-produzione. Nella primavera 2013 entreranno a far parte della collezione permanente del Muscarelle museum of art in Virginia, Usa. Vivono e lavorano a Venezia. Le loro quotazioni variano dai 1.000 ai 3.000 euro. Info: www.tanialazlo.com
quali rappresentiamo le scene da immaginate occupandoci di ogni aspetto ideativo e produttivo fino all’interpretazione dei personaggi. Siamo affascinati da determinate atmosfere ed emozioni. Cerchiamo di esprimerci attraverso l’immagine fotografica perché amiamo questo mezzo che ci dà la possibilità di astrarre il soggetto da un tempo e luogo precisi confinandolo in un’altra dimensione». Quali sono i vostri prossimi progetti, cosa avete in cantiere? «Abbiamo voglia di sperimentare anche altri mezzi espressivi come il video e l’installazione usandoli sempre come supporto alla nostra ricerca artistica fotografica. Inizieremo anche a inserire nelle nostre foto nuovi personaggi ed abbiamo in mente nuove serie da realizzare parallelamente allo sviluppo di quelle esistenti».
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IL SILENZIO DELLO SCULTORE L’arte intesa come il fare eredità di una famiglia d’artigiani Daniele Franzella è di poche parole preferisce far parlare le opere. Sperimentatore di tecniche e materiali rimane attaccato alla terra d’origine: la Sicilia che esprime nei suoi lavori a un livello inconscio di MASSIMO CANORRO
È
indubbio che il suo rapporto con l’arte viaggi senza freno a mano, in un crescendo continuo di curiosità mista a consapevolezza dei propri mezzi, ma lo scultore siciliano Daniele Franzella è tutto fuorché una persona desiderosa di apparire. Si intuisce fin dalle prime battute, quando manifesta la sua ansia da prestazione per l’intervista. «Non nascondo un po’ di timore – esordisce – essendo particolarmente schivo preferisco che a parlare siano soprattutto i miei lavori». Tema ricorrente per (quasi) tutti gli artisti ma non banale se ascritto alla personalità di Franzella, di stanza a Palermo – dove vive e lavora – con la moglie e i due figli. Una famiglia unita, la sua. Come quella d’origine dell’artista, i
cui genitori artigiani gli hanno trasmesso fin da piccolo «la passione del lavoro all’interno di un laboratorio, la dimestichezza con l’utilizzo di strumenti e materiali da plasmare. Mamma e papà sono sempre stati dalla mia parte – dice – così come i parenti e gli amici più stretti che ancora oggi scelgo di coccolarmi». Docente di scultura e tecniche della scultura all’accademia di Belle arti di Palermo, dove lui stesso ha studiato, «sono state due – confessa – in particolare le mie figure di riferimento lì: Giuseppe Agnello e Salvatore Rizzuti». Franzella è particolarmente legato alle origini. «La Sicilia la porto dentro ma la scelta di rappresentarla in qualche modo attraverso le mie opere è del tutto inconscia.
Certo, rispetto a dieci anni fa sono più consapevole ma non avverto alcuna missione da portare a termine. Lavoro, e questo conta. Qualsiasi smania di visibilità la lascio volentieri ad altri». Difficile non credergli. L’artista palermitano pesa le parole come se avesse un bilancino. Non spreca alcun vocabolo. «Siete interessati al mio percorso formativo in accademia? Allora vi dico che tra il 2000 e il 2005 ho vissuto in una sorta di limbo, alla ricerca di me stesso». Si è trovato. Basti pensare che proprio nove anni fa, l’artista ha creato il primo dei suoi famosi astucci. «L’abito della sposa – dice – un vero e proprio ritratto di mia moglie in resina, fibra di vetro e tessuto» che ha esposto nella mostra Il cantico dei cantici, curata da Giovanni Bonanno
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MOSTRA Bis in Sicilia Sono due le personali che nelle prossime settimane ruoteranno attorno ai lavori di Daniele Franzella. Per entrambe, siciliane, l’allestimento è previsto ad aprile. La prima, in agenda è nell’Ente mostra di Marsala (provincia di Trapani) e vede l’esposizione degli astucci e delle terrecotte di Franzella a cura di Sergio Troisi. In parallelo, alla Zelle arte contemporanea di Palermo, va in scena una rassegna dove sono protagoniste le serie di chierichetti e sportivi, curata questa da Federico Lupo.
nel palazzo Branciforti a Palermo. «Un lavoro attraverso il quale ho voluto raccontare un amore diverso all’interno della coppia, riflettendo soprattutto sulla mia dimensione. Da lì si è sbloccato qualcosa, si è aperto un varco». La serie è proseguita. Nel 2008 è stata la volta dell’opera Senza titolo con astuccio, dove una gamba tagliata e inserita nel fodero «rappresenta il desiderio di conservazione, di cristallizzare nel tempo forme e dettagli», precisa Franzella, rammentando l’utilizzo, da lì, dei tubi in pvc per l’affascinante lavoro Dittico in rosso e blu (2011). «Si tratta di un materiale utilizzato per costruire grondaie. A me è venuto spon-
taneo pensarlo come una serie di arterie, un rimando a qualcosa di corporeo». Una sorta di realtà animale già presente in alcuni lavori di sette anni fa: Foeniculum cor dulce, Allium testis e Penitus officinalis. Ma a destare curiosità sono anche le opere in resina o terracotta policroma, come Oggi sono io (2006), Pensiero stupendo (2007), Bianco di fondo (2009), fino ad arrivare alle inquietanti creazioni “4/quarti”, Kruppa e Abab – realizzate tra il 2010 e il 2012 – dove emerge l’amore di Franzella nei confronti di quelle terrecotte «che proprio non riesco a togliermi dalle mani», ammette. Sicurezza labile, questa, considerando
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ALCUNI NEI MIEI LAVORI VEDONO SOLO IL CINISMO E NON L’IRONIA, DUE ESTREMI FACILI DA ACCOPPIARE IL MIO INTENTO È QUELLO DI RIMANERE IN BILICO TRA LA BANALITÀ E LA POESIA
A pagina 71: Daniele Franzella, Kruppa, 2012 sotto: L’abito della sposa, 2006 a destra: Daniele Franzella a sinistra: Pensiero stupendo, 2008
L’ARTISTA Daniele Franzella nasce a Palermo il 15 giugno 1978. Nel 2001 si diploma in scultura all’accademia di Belle arti del capoluogo siciliano, dove oggi insegna scultura e tecniche della scultura. Tra le sue esposizioni Già e non ancora nella Chiesa di San Lio (biennale di Venezia, 2005), Beverli ils (2007) nella galleria Zelle arte contemporanea di Palermo e Dry as dust (2009) alla galleria Gate 21 di Catania, entrambe curate da Federico Lupo. Tra le mostre del 2012, Scultura, variazioni sul tema nella cornice di villa Aurea (valle dei Templi) e Amici miei nello spazio palermitano Cannatella. Le sue opere sono quotate dai 1.500 agli 8.000 euro.
che a destabilizzarlo è la classica domanda sulle influenze artistiche. «Sono impreparato – afferma – perché ho un elenco pressoché infinito. Come scultore amo Eduardo Chillida, ampliando il discorso alla letteratura apprezzo Chuck Palahniuk, Luigi Pirandello, Italo Svevo ed Eugenio Montale. Nel cinema? David Lynch e Tim Burton». Cineasti, entrambi, che sono portatori sani di un lato oscuro. Ne ha uno anche Franzella? «Direi di no. Sono piuttosto pragmatico e mi piace il confronto con gli artisti. Come noterai sono stato al centro di numerose collettive e di poche personali. Questo spiega molto».
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LA DECLINAZIONE DELLA FORMA David Gommez, in residenza all’atelier Wicar di Roma intraprende uno studio sui segni Una continua variazione sul tema dalla scultura alla stampa con un unico punto di partenza: il disegno. Le sue tecniche, le sue idee ispirate al contatto diretto con la città eterna di FRANCESCO ANGELUCCI
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a attaccato un foglio al muro, David Gommez, prima che entrassimo nell’atelier Wicar. «Sotto al foglio e sopra al muro c’è l’inchiostro – dice – inchiostro giallo». Ci chiede se gli facciamo una foto mentre toglie il foglio dalla parete. È per il suo blog, specifica. Ecco, in quel gesto di svelamento c’è tutto il suo amore per Roma. Ci prepara un caffè (stretto per noi, lungo per lui). «Roma è grande – confessa – ma ho vissuto a Parigi e so come ci si muove in una metropoli». La luce che dai grandi vetri dello studio passa sulle tende, bagna le stampe appese ad asciugare come i panni appena usciti da un centrifuga. L’odore d’inchiostro sostituisce quello di bucato. Profumo duro come il francese di Lille, come l’accento di David: «A Roma ho
potuto vedere dal vivo le opere che ho sempre studiato in fotografia e sono rimasto colpito dal velo che avvolge Cristo nelle deposizioni. Il panno nasconde una parte del corpo e ne lascia visibile un’altra. È un gioco di svelamenti che mi ha interessato». L’artista stacca dalla parete il suo foglio e libera una nicchia. Il giallo steso sull’intonaco bianco si è trasferito sulla carta lasciando in negativo la forma dell’arco. Poi prende l’opera e l’attacca al filo per farla asciugare. «Il giallo non mi è mai piaciuto – confessa – è stato sempre un colore che mi ha fatto soffrire. Solo ultimamente ho deciso di vincere questo blocco. Non riesco però ancora a sopportare il marrone, mi fa star male». Il cammino artistico di Gommez è infatti partito da un severo bicromatismo: bianco e nero. Il resto era solo forma. In principio
c’era solo quella, direbbe qualcuno, non sapendo quanto questo è vero per l’artista. «Ho iniziato con dei segni che si ripetevano, segni semplici che sommati e moltiplicati definivano forme più complesse. Tutto parte dal disegno, dalla definizione di una figura originaria». È forse questo a unire le varie tecniche che il francese sperimenta. Partito da disegni su carta o tela ha conquistato la terza dimensione con la scultura. «In realtà ricreo quell’insieme di linee che ho sempre realizzato con la matita, ricostruisco quei segni con il legno. Il principio è identico: forme complesse definite da forme basilari». E da qui il passo verso un’idea primitiva di xilografia è breve. La tecnica del legno infatti permette a David di non privarsi della componente tridimensionale realizzando delle matrici e contemporaneamente di non
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David Gommez nell’atelier Wicar subito dopo aver staccato il foglio da stampa dalla parete foto Manuela Giusto
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IN REALTÀ RICREO QUELL ‘INSIEME DI LINEE CHE HO SEMPRE REALIZZATO CON LA MATITA, RICOSTRUISCO QUEI SEGNI CON IL LEGNO, IL PRINCIPO È IDENTICO: FORME COMPLESSE DEFINITE DA FORME BASILARI
L’ARTISTA David Gommez è nato il 16 settembre del 1970 a Lille dove vive e lavora. Dopo aver frequentato l’accademia di Belle arti comincia a esporre in collettive e personali. La sua poetica è una ricerca continua delle forme che vengono trattate con varie tecniche, dalla stampa alla scultura. In soggiorno per tre mesi, da gennaio a fine marzo, nell’atelier Wicar di Roma, Gommez ha esposto un’opera a palazzo Farnese l’otto marzo nella giornata dedicata alle donne. Il lavoro è una struttura tridimensionale composta da tre stampe: è possibile entrare nell’opera osservando il recto e il verso di ogni foglio.
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rinunciare al colore e a una superficie bidimensionale dove stenderlo. «Funziona così – spiega mentre si appresta a realizzare una stampa – questa forma in legno che ho costruito la ricopro di inchiostro tipografico e l’appoggio sulla carta». L’artista spinge la matrice contro la superficie, qualche minuto e poi le separa. Sulla carta rimane l’inevitabile segno del contatto. È partendo da questo principio che Gommez ha declinato la tecnica eliminando la matrice. «Il mio intento era uscire dai rigidi confini del quadro per questo ho cominciato a lavorare sui muri o per terra. Ora, stendo l’inchiostro sul pavimento e sulla carta rimangono le imperfezioni del terreno come, in questo caso, lo spazio vuoto fra le mattonelle che definisce un pattern visivo sfumato e poco rigido. Per far aderire meglio la stampa al supporto coloro, spingendo, la parte bianca rivolta verso di me, usando le matite come fossero un rullo o una pressa». Così, le opere del francese hanno un recto e un verso che dialogano fra loro. «Spesso per uno stesso foglio faccio più stampe con colori diversi e per ogni colore che cambio sul pavimento ne scelgo un altro da mettere dietro. Guardare solo una faccia del lavoro significa vedere una cosa a metà. Il risultato finale è simile al tessuto, come quello della deposizione». Il cerchio si chiude. Usciamo e lasciamo David come l’abbiamo trovato: fra le sue opere ad asciugare al sole.
In senso anti-orario David Gommez s. t. 2013 recto s. t. 2013 verso particolare dell’atelier Wicar s. t. 2013 verso foto Manuela Giusto
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Luca Rossini Fuori da ogni luogo, 2012 Sotto: l’autore Nelle pagine seguenti: alcuni scatti della serie “Momentary suspended”
L’ARTISTA Tra tecnica e sogno Luca Rossini è nato il 12 febbraio 1979 a Roma, dove vive e lavora, da padre neuroscienziato e madre architetto. Si avvicina alla fotografia con un corso e comincia a sperimentare con una camera oscura incastrata nel bagno di casa. A queste prove si aggiungono le conoscenze apprese all’università con gli studi di ingegneria. Nonostante il lavoro di Rossini sia una continua ricerca di immagini oniriche e sospese dalla realtà, la tecnica per il fotografo rimane un punto fondamentale, è nell’equilibrio delle due parti il carattere distintivo del suo operato. Fra i suoi maestri considera autori sempre in bilico fra reale e surreale come Federico Fellini, David Lynch e David Cronenberg. Lavora per l’Espresso e Vogue. Info: www.lucarossini.it
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IL BUIO OLTRE LA QUIETE In “Momentary suspended” Luca Rossini blocca il momento prima di una catastrofe: i suoi notturni rimangono sospesi sull’orlo del collasso di LUCA ROSSINI
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redo che il mio modo di fotografare sia il risultato di un incontro fra ispirazione e improvvisazione. La fotografia per me non si risolve nel documentare la realtà di quello che mi circonda ma nell’atto di operare una sospensione, di tradurre questa attesa in un‘immagine onirica. La mia visione del mondo ha molto a che fare con questo senso di lievitazione, con la coscienza della dimensione enigmatica del reale. Non è quindi un caso se ad affascinarmi maggiormente sono gli sguardi di alcuni artisti che si muovono nel solco del sogno e dell’inconoscibilità. Penso soprattutto a David Lynch, David Cronenberg, Federico Fellini e alla loro capacità di veicolare quel forte senso di straniamento che nasce dalla sensazione di non essere pienamente nello stato di veglia. Agli albori delle mie conoscenze tecniche circoscritte allo scatto e la stampa, un breve corso di fotografia che feci al liceo e alla micro camera oscura che installai nel bagno di casa. Queste conoscenze si sono poi rafforzate durante gli studi di ingegneria, permettendomi oggi di comprendere e programmare con facilità la catena di eventi ottici, elettronici, informatici attraverso cui l’immagine viene catturata e ricostruita. Sono convinto che la mia assoluta razionalità nel controllo della tecnica e del mezzo non sia affatto in contraddizione con la mia fascinazione verso l’enigmaticità profonda del reale. Al contrario, credo che proprio dall’equilibrio delle due componenti nasca la mia estetica e la mia pratica fotografica. Sono attratto dal potere intrinseco dell'immagine fotografica di sospen-
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dere un taglio di realtà, non esclusivamente congelandone il tempo e lo spazio, ma sopratutto e letteralmente sospendendo contemporaneamente le leggi fisiche e sociali che rendono la realtà ciò a cui noi siamo inevitabilmente abituati. Vivendo in uno speciale limbo sospeso di opportunità, proprio a causa dell’assenza di regole, l’immagine fotografica sembra avere il potere di scegliere se restare immobile per sempre o invece evolversi inaspettatamente verso una nuova dimensione. Trovo, insomma, che le fotografie siano per loro natura metafisiche e potenzialmente psichedeliche. Nella serie “Momentary suspended” cerco proprio di catturare i tagli spazio temporali nei quali la sensazione di sospensione, pivot dell’intera poetica, sconfini dalla fotografia stessa per investire im-
provvisamente i soggetti ritratti. Ogni secondo di esistenza è infatti ugualmente sospeso in un equilibrio instabile tra profonde trasformazioni e psichedelia. Apparentemente immobili, queste fotografie mostrano un mondo quieto costantemente sull’orlo di un collasso strutturale. La scelta di ambientare tutti i lavori di questa serie in paesaggi o situazioni notturne viene dal desiderio di accostare le mie produzioni ai Notturni musicali del Diciottesimo secolo, che si ricercavano, appunto, composizioni quiete, espressive, emotivamente cariche e liriche. La serie “Momentary suspended”, da un punto di vista tecnico, è stata interamente prodotta con la mirrorless Sony nex 7 equipaggiata con la lente voigtlander colorskopar 35mm f2.5. Su sensore aps c, il 35mm si comporta da fo-
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cale normale e restituisce un aspetto naturale alla scena, non espande né contrae il campo di vista e non ne distorce le prospettive. Questa scelta tecnica è fondamentale per rendere più esplicita, più evidente quella che credo sia una certa dimensione pittorica delle immagini che intendo produrre in questo momento. La nitidezza e la precisione fondano gli altri due cardini sui quali si basa l’intera estetica della serie, che è oggetto, in primavera, della mia prima personale prodotta da Seven o’clock, un nuovo spazio che intende operare nel campo dell’arte contemporanea, sia in ambito romano e nazionale che in ambito internazionale. L’evento è l’occasione per tirare le somme di un percorso articolato e complesso che mi ha visto impegnato per oltre un anno.
LA MOSTRA Momentary suspended Venti fotografie di grande formato compongono e riepilogano l’immaginario estetico e poetico di Luca Rossini nella sua prima personale, fra visioni notturne e sospensioni liriche. ”Momentary suspended”, a cura di Sofia Francesca Miccichè, dal 5 al 7 aprile, Officina 468, via della Lega lombarda 44, Roma. Info: www.sevenoclock.it
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IL FANTASMA di MAURIZIO ZUCCARI
Espunto da decenni dalla tavola imbandita dal fare artistico e dalla critica figlia di un tempo ignavo, relegato nei sottoscala, il bello in arte torna a far parlare di sé, è di nuovo materia di dibattito tra gli addetti ai lavori, oggetto di mostre e progetti di rinascita civile
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agita, in campo artistico, una presenza scomoda, da qualche tempo. Espunta da decenni dalla tavola imbandita dal fare artistico e dalla critica figlia di un tempo ignavo, relegata nei sottoscala tra le chincaglierie del passato, la bellezza torna a far parlare di sé. Sia pure come figura cadaverica o fantasmatica, il bello in arte è di nuovo materia di dibattito tra gli addetti ai lavori, oggetto di mostre e progetti. A dare intellettualmente la stura, coi suoi modi affettati e un po’ di puzza sotto al naso, come gli conviene, Jean Clair – un estratto dall’ultimo suo libro, inedito in Italia, è alle pagine seguenti – che nel denunciare l’inverno della nostra cultura ha sollevato gli strali dei corifèi del sistema, pensatori assai più “a la page”
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L’OPERA D’ARTE SI FA RICONOSCERE PER QUELLO CHE È, COSÌ COME LA BELLEZZA. L’OPERA D’ARTE È, E BASTA. COSÌ COME LA BELLEZZA È. L’ARTE NON HA BISOGNO DI SPECIALISTI PER ESSERE CAPITA (VITTORIO SGARBI, L’ARTE È CONTEMPORANEA, BOMPIANI, 2012)
Vanessa Beecroft 2010-2011 cortesia Galleria Lia Rumma Milano/Napoli
DELLA BELLEZZA d’un accademico di Francia. È singolare la faccenda della bellezza. Spazzata dall’orizzonte ottico dell’arte contemporanea proprio quando la società liftata dei consumi fa del bel vivere la sua ragion d’essere, dell’estetizzazione del quotidiano l’unica forma di vita auspicabile. Mentre, di pari passo, orinatoi e merde d’autore mettevano in crisi paradigmi di bellezza mutuati dagli ideali della classicità, canoni sui quali si sono esercitati per secoli menti e gusti degli esteti. Da qui alla fuga nell’orrido, alla fascinazione del truculento e dell’insulso il passo è stato più corto della gamba e segna, forse apoditticamente e forse no, la crisi di questa civiltà, per dirla ancora come il filosofo francese. Ora, non è chi non veda come un ritorno al passato sia antistorico, impossibile prima che inutile ri-
vangare canoni estetici figli d’un tempo altro dal nostro. Ma delle due l’una. O perseveriamo nel considerare capolavori coltelli senza lama a cui manca il manico, vale a dire opere prive di valore estetico e monche di contenuto, gongolando nel vedere siffatta arte certificare al meglio la contemporaneità, ballando bellamente a fil di baratro. Oppure smettiamo di spacciare per avanguardiste idee stravecchie e torniamo a immaginare un’arte non disgiunta da un senso estetico, non deprivata di capacità tecnica. Un’arte che non trovi spazio solo nelle fumisterie di asettiche sale museali, ma ritrovi il piacere d’essere ammirata, goduta, compresa dai più. Magari comprata, che sarebbe anche un bel modo per far fronte alla crisi. Solo così il fantasma della bellezza potrà avere di nuovo un corpo.
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UN’IDEA DI BELLEZZA
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Andreas Gefeller “Poles 07 from The Japan series" 2010 A sinistra: Andreas Gefeller “Poles 31 from The Japan series" 2010
di FRANZISKA NORI
Il bello continua a destare sospetto intellettuale e a costituire una sorta di tabù per curatori e artisti. Di fronte a ciò nasce spontaneo l’interrogativo sulla valenza di questo concetto nella società
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el corso degli ultimi anni, confrontandomi con gli artisti più diversi, mi ha sorpreso constatare con quale inaspettata frequenza ricorresse il termine “bellezza”, a volte espresso quasi con pudore, altre ricordato con un senso di nostalgia, altre ancora addirittura rivendicato come un atto di sfida, quasi blasfemo. Provando a mettere a fuoco questo tema, è nato un progetto espositivo che costituisce una riflessione consapevolmente arbitraria su un termine così carico di storia e di diverse accezioni culturali, tale da far suscitare immediate e accese reazioni. Il bello continua a destare sospetto intellettuale e a costituire una sorta di tabù per curatori e artisti. Di fronte a ciò nasce spontaneo l’interrogativo sulla valenza di questo concetto nella società contemporanea, se esso possa ancora costituire un valore per la produzione artistica e quale possa essere una definizione condivisibile di bellezza, esprimendo forse un sentimento diffuso e comune: la ricerca di cosa rimane di vero quando tutte le norme
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la mostra Un’idea di bellezza Un’idea di bellezza, che inaugura il̀ 28 marzo al Centro di cultura contemporanea strozzina di palazzo strozzi a Firenze, propone un percorso di ricerca tra le opere di otto artisti contemporanei di provenienza internazionale – Vanessa Beecroft, Chiara Camoni, andreas Gefeller, alicja Kwade, Jean luc mylayne, Isabel rocamora, anri sala, Wilhelm sasnal – per ripensare oggi l’esperienza della bellezza dal punto di vista degli artisti, in dialogo con la sensibilità dei visitatori, attualizzando domande di carattere universale. abbiamo ancora bisogno della bellezza? Costituisce un valore, un obiettivo o uno strumento per gli artisti contemporanei? la mostra crea una riflessione in chiave contemporanea su uno dei temi dominanti di tutta la storia dell’arte, affrontando non solo la necessità della bellezza, ma anche la sua funzione, il valore e la finalità. riscoprire un’idea di bellezza oggi significa impostare un’esperienza diversa della realtà. accompagna la mostra un catalogo bilingue pubblicato da mandragora, con contributi di Franziska Nori (direttrice Ccc strozzina), Elaine scarry, James Hillman e Gianluca Garelli. Fino al 29 luglio, Centro di cultura contemporanea strozzina, fondazione palazzo strozzi, piazza strozzi, Firenze. Info: 0552645155; www.strozzina.org
Wilhelm Sasnal “Untitled” (Kacper & Anka) 2009 foto Sadie Coles
e strutture consolidate falliscono. Quella nostalgia per qualcosa che si può definire come un avvenimento interiore, un sentimento di raccoglimento, di intimità e di unità con se stessi. Questo tipo di esperienza non si basa sulla relazione con qualcosa dotato di una esplicita e dichiarata bellezza esteriore, bensì trova il suo fondamento nello sguardo nei confronti di una forma anche comune e ordinaria ma che, vissuta nella brevità di un attimo, perdura e lascia una traccia in chi la prova. La mostra non ha l’ambizione di trattare esaustivamente il tema della bellezza, ma di fornire l’occasione per una riflessione grazie allo sguardo e le opere di otto artisti: Vanessa Beecroft, Chiara Camoni, Andreas Gefeller, Alicja Kwade, Jean-Luc Mylayne, Isabel Rocamora, Anri Sala e Wilhelm Sasnal. “Un’idea”, non “l’idea”, di bellezza, appunto. Parlare di bellezza significa parlare del soggetto che esperisce un evento e che esprime un giudizio. La sfida della mostra sta nello
È POSSIBILE CHE ANCHE OPERE A CUI, SENZA ALCUNA FORMAZIONE CULTURALE, NON AVREMMO DATO IMPORTANZA, DIVENTINO SIGNIFICATIVE E CI SEMBRINO BELLE DOPO UNA FREQUENTAZIONE CON I NUOVI LINGUAGGI DELL’ARTE (ANGELA VETTESE, MA QUESTO È UN QUADRO? CAROCCI, 2006)
smentire un egoismo della bellezza, una chiusura del soggetto su se stesso. Le opere di questi otto artisti entrano in dialogo per la forza di un confronto tra diversi linguaggi e approcci estetici, più che sulla base di corrispondenze o similitudini formali. Partendo dalla specificità degli spazi della Strozzina, la mostra sviluppa ed esalta un confronto tra otto diverse posizioni, otto “mitologie individuali”, espressioni di differenti attitudini, modi di vedere, intendere e vivere la vita. I visitatori saranno così chiamati non al confronto con singole opere ma con diverse proposte esistenziali. Esperire la bellezza diviene un modo per permettere una corresponsione con il mondo, una connessione nuova tra l’io e la realtà. Affinare i propri sensi, mettersi in ascolto di mezzi toni, sfumature, momenti a cui normalmente non siamo in grado o non vogliamo prestare attenzione. Significa cercare uno sguardo nuovo sulla realtà.
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SAVE THE BEAUTY TARANTO CHIAMA “La bellezza salverà il mondo” scriveva Dostoevskij a metà Ottocento. Nel porto pugliese un progetto dedicato all’arte contemporanea intende ripartire proprio da questa idea per superare i guasti prodotti dall’Ilva e da Riva, per la rinascita culturale della città Chiamando in causa il resto dell’Italia di LORI ADRAGNA
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a bellezza salverà il mondo” scriveva Fëdor Michajlovič Dostoevskij a metà Ottocento. Per lo scrittore russo essa è “il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il più alto che mai possa essere”. La dimensione estetica, di fatto, si rivela essenziale, poiché l’arte può raggiungere il cuore degli uomini con immediatezza. Oggi, più che mai, si avverte la necessità di riappropriarsi delle Teorie del Bello, smarrite in un fare quotidiano prettamente utilitaristico. Un bene poco tangibile, la bellezza, ma che ha capacità di donare benefici psicologici inestimabili, basti pensare a come la funzione creativa elevi l’uomo ad un’immagine di sé con un senso definito, un indirizzo e uno scopo concreto: la realizzazione di un’opera. Da questa riflessione trae spunto “Save the beauty”, Taranto chiama Italia, Italia risponde, progetto artistico sperimentale che Angelo Raffaele Villani, architetto e titolare di Rossocontemporaneo, ha ideato per il 2013. L’intero programma nasce come
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IL PROGETTO Save the beauty Il programma si articola in sei appuntamenti principali (mostre collettive o personali, affiancate da una serie di eventi collaterali). Gli artisti, selezionati tra i nomi più noti e di spessore, spaziano da quelli storicizzati, alle più giovani e promettenti realtà nazionali. Il primo appuntamento, il Taranto day del 2123 marzo, vede il coinvolgimento sinergico del mondo della cultura: gallerie e spazi per l’arte che inaugurano eventi in contemporanea nazionale. A gestire le diverse fasi del progetto che si presenta come un work in progress, un’equipe tecnicoscientifica per il coordinamento, un gruppo di lavoro multidisciplinare composto da professionisti provenienti dai differenti settori della creatività e del mondo dell’arte contemporanea, in particolare critici d’arte, curatori, giornalisti, psicologi, creativi, operatori diversi. Tra i sostenitori dell’iniziativa, istituzioni locali quali l’università degli studi di Bari, l’ordine degli architetti della provincia di Taranto, l’Osservatorio jonico delle professioni, l’Istituto superiore di studi musicali Giovanni Paisiello, l’Istituto internazionale per la cultura della pace e il nuovo sviluppo e in particolare il presidente Martino Carrieri, candidato al premio Nobel per la pace 2013. E ancora: il Mudi, Museo diocesano della provincia di Taranto, il Marta, Museo archeologico di Taranto, il teatro Tatà. Oltre una ventina, al momento, i membri del comitato scientifico e curatoriale, tanto in Puglia che nelle altre regioni: Marinilde Giannandrea, Lia De Venere, Simona Caramia, Carmelo Cipriani, Roberto Lacarbonara, Lorenzo Madaro e Dores Sacquegna, Ilaria Miccoli, Ketty Monelli e Cecilia Pavone. Antonio Arevalo, Martina Cavallarin, Alice Zannoni e Simona Gavioli, Lori Adragna, Manuela De Leonardis, Barbara Collevecchio, Antonio Zimarino, Janus, Maria Cristina Strati, Andrea Lacarpia, Claudio Musso, Davide Walter Pairone, Loredana Barillaro ed Erica Olmetto. Inside Art è media partner dell’iniziativa. Info: rossocontemporaneo.wordpress.com
Qui e nella pagina precedente: l’Ilva sullo sfondo di Taranto A fianco: la locandina dell’iniziativa di Rossocontemporaneo
una vera e propria sfida, non convenzionale e atipica, giocata sulle argomentazioni della bellezza, della consapevolezza e della partecipazione attiva della cultura e del mondo dell’arte contemporanea. Nasce come risposta al rischio di svilimento del territorio nazionale «schiacciato verso il basso da un sistema politico non lungimirante e poco attento ai valori culturali e alle potenzialità di un settore che in Italia dovrebbe essere trainante per la creazione di ricchezza – spiega Villani – una sfida che parte da un territorio martoriato e vessato per opera di chi ha deciso di immolare sull’altare della produzione dell’acciaio e dell’interesse privatistico della grande industria, Riva e Ilva, la salute e la vita stessa
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L’ITALIA È UNA REPUBBLICA FONDATA SUL BELLO SI POTREBBE (ANZI SI DEVE) DIRE: L’ITALIA È BELLA, LO DICONO TUTTI, E GLI ITALIANI SONO BELLI, LO SANNO TUTTI. MA LA DIFESA A OLTRANZA DEL BELLO NON SARÀ LA CAUSA DI TANTO BRUTTO CHE CI CIRCONDA? (FRANCESCO BONAMI, DOPOTUTTO NON È BRUTTO, MONDADORI, 2009)
di un’intera provincia: Taranto». Un tempo l’antica Tapaz era la culla della civiltà Magnogreca in Italia. Oggi, percepita soprattutto come luogo di morte e contaminazione, è dilaniata dalle insicurezze sul futuro. Con la volontà di ribaltarne l’immagine negativa, si auspica il rilancio del capoluogo ionico come fulcro di un nuovo Rinascimento culturale, sulla scia di realtà sperimentate nei distretti culturali tipo Austin, Linz, Liverpool, Stoccolma. Si tratta di un modello possibile e vincente di sviluppo autosostenibile – chiarisce l’artefice del progetto – che si caratterizza per l’intersezione tra sviluppo economico e sociale e l’ambiente, producendo beni basati sulle conoscenze esistenti e le
tradizioni locali, dove i fattori di vantaggio competitivo sono la creatività e la produzione intellettuale, la cosiddetta economia dell’intangibile». Questo nuovo “Laboratorio Taranto” promuove tra l’altro, la creazione di un centro fieristico per l’arte contemporanea, in grado di produrre benefici immateriali, morali e di qualità della vita, e materiali, avviando i presupposti per una crescita socioeconomica legata all’incremento di strutture ricettive, artigianato, ristorazione e turismo. «Confidiamo molto in questo progetto – conclude Villani – consapevoli che la sua riuscita dipenderà dalle interazioni e collaborazioni locali e nazionali e dalla sinergia di politiche pubbliche e iniziativa privata».
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4 numeri 25 euro invece di 32 euro
INSIDEART diventa trimestrale lo puoi trovare nei bookshop dei principali musei negli spazi d’arte e nelle migliori librerie di tutta Italia
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GUARDIAMO SEMPRE AL FUTURO FESTEGGIAMO I SUCCESSI DEI GIOVANI TALENTI DIAMO PESO ALLA CULTURA MANEGGIAMO MATERIALE ALTAMENTE CREATIVO
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Pablo Picasso “Les demoiselles d’Avignon” 1907
LA BELLEZZA SPLENDOREDELVERO di ANDREA DALL’ASTA SJ
Se oggi non possiamo più parlare di bellezza in termini di armonia e di misura, come aveva insegnato il mondo greco, possiamo tuttavia interpretarla come “senso” che dischiude le dimensioni più intime e profonde dell’uomo
i parla spesso oggi di esodo della bellezza. In realtà si sottolinea una frattura radicale rispetto all’antichità. Si ha una consapevolezza nuova del fatto che la realtà è segnata dalla contraddizione, dalla dispersione, dal male, dalla frammentazione. L’estetica contemporanea pone al centro della sua riflessione la lacerazione, il dolore, la sofferenza. Il dramma tra uomo e uomo, tra sé e se stessi. Una vera e propria rivoluzione rispetto al passato. Cambiano le categorie per pensare la bellezza. Come nelle Demoiselles d’Avignon di Picasso, in cui è introdotto il diverso, l’ambiguo, il brutto. La bellezza classica è messa in discussione. Il ‘900 si apre col Grido di Munch, la messa a nudo del dramma dell’uomo con l’Interpretazione dei sogni di Freud che rivela un mondo sotterraneo, messo in luce dai sogni dell’inconscio. Nietzsche proclama la morte di Dio, per tanti secoli compagno privilegiato di vita dell’uomo che ora si ritrova solo con se stesso.
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L’ARTE È UNA RICERCA, UN ANELITO, UNA LABORIOSA TRASFORMAZIONE CHE METTE IN CAUSA L’UOMO E LE SUE CAPACITÀ PER LEGGERE ED ESPRIMERE LA BELLEZZA. LA BELLEZZA È UNA REALTÀ, UNA PRESENZA, UNA PROIEZIONE INSITA E NECESSARIA DELLA CREAZIONE (CARLO MARIA MARTINI LA BELLEZZA CHE SALVA ANCORA EDITRICE, 2002)
Tutto il secolo sarà poi costellato da eventi di una drammaticità inaudita: dalla strage degli Armeni, alla Shoa. Cosa si intende per bellezza in questo contesto? Nel mondo antico, il legame tra bellezza e divino è centrale. È sufficiente pensare a Platone, al Convito, in cui la sfera estetica e quella etica sono strettamente unite, indissociabili. È la kalokagathìa, il bello e buono allo stesso tempo. La bellezza ha un fondamento ontologico, è l’espressione visibile del bene e il bene è la condizione metafisica della bellezza. Il bello è il termine ultimo del desiderio, dell’eros, il cui momento conclusivo è la bellezza in sé che si rende visibile attraverso i principi di armonia, euritmia e proporzione. Il bello è l’integro, “ciò che sta in piedi”, “ciò che è in forma”. Si manifesta nella perfezione formale ed è inseparabile dalla verità e dalla bontà. Il rimando
è di carattere cosmologico. Pensiamo solo al Timeo di Platone, in cui il paradigma eterno determina la bellezza e la bontà del mondo sensibile. All’interno di una mimesi cosmica, il paradigma diventa principio, legge della natura a cui si converte ogni aspetto della vita intellettuale, morale ed estetica. La bellezza è lo splendore del vero. Tutto nel mondo sensibile è mimesi, trascendenza nell’immanenza, affiorare del principio alla superficie del mondo. La bellezza si rivela come attraverso una danza nel firmamento celeste, la danza delle stelle. L’ordine cosmico diventa il modello della bellezza, della verità e della bontà in tutta la tradizione occidentale. Questa idea della bellezza come possibilità di risalita verso l’assoluto costituisce un aspetto fondamentale, con il quale la teo-
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Andreas Gefeller “Untitled (grape plantation) from The Japan series” 2010
logia cristiana ha compreso il significato più profondo dell’immagine, punto di unione tra finito e infinito, contingente ed eterno, immanente e trascendente. L’arte consente di andare al di là della provvisorietà umana. È la soglia che apre al divino. Se nel 1964 Paolo VI, nel celebre discorso nella cappella Sistina, affermava la necessità di ricucire il rapporto tra la Chiesa e gli artisti, Giovanni Paolo II, nella Lettera agli artisti del 1999, sottolinea come la dimensione estetica permetta quello slancio che già i greci chiamavano théia aisthesis, la percezione del divino: “L’arte, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha una profonda affinità col mondo della fede; sicché, persino nella condizioni di maggior distacco dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di appello al mistero”. Anche per Benedetto XVI l’arte costituisce
una strada che, grazie alla bellezza, conduce al di fuori di se stessi, permettendo all’uomo di cogliere il tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Se Dio vive al cuore del mondo, la bellezza comunica all’uomo una “scossa” che, come un dardo che ferisce, lo “risveglia”, aprendogli gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’altezza cristallina dei cieli. E se oggi non possiamo più parlare di bellezza in termini di armonia e di misura, come aveva insegnato il mondo greco, possiamo tuttavia interpretarla come “senso” che dischiude le dimensioni più intime e profonde dell’uomo, quella verità che parla del dramma umano nella storia. E la bellezza diventa quella strada che ci introduce nei sentieri del destino dell’uomo. Nella vita stessa di un Dio che si incarna nella storia.
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LA VELOCITÀ UCCIDE IL BELLO Il vecchio ideale della bellezza classica è tramontato per sempre e l’arte non potrà più tornare alle sue forme Un doppio saggio anticipatore della crisi contemporanea di NIKOLAJ BERDJAEV*
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Pablo Picasso La regina Isabeau 1909
ungo la sua storia l’arte ha dovuto attraversare numerosi momenti di crisi. Dall’antichità al medioevo, dal medioevo al rinascimento, crisi profonde hanno segnato questi passaggi epocali. La crisi che l’arte vive oggi, però, non può essere considerata una crisi come tante altre. Si tratta di una crisi globale che porta alla luce profonde trasformazioni dei fondamenti millenari dell’arte. Il vecchio ideale di bellezza classica è tramontato per sempre e siamo coscienti che l’arte non potrà più tornare alle sue forme: l’arte, oggi, cerca convulsamente di uscire dai propri confini. Vengono violati i limiti che separano una forma d’arte dall’altra e l’arte in generale da ciò che arte non è, da ciò che sta prima o dopo di essa. Mai il problema del rapporto fra l’arte e la vita, fra la creatività e l’essere, si è rivelato tanto acuto come oggi; mai si è cercato di passare dalla creazione delle opere d’arte alla creazione della vita stessa, della vita nuova, con questa convinzione. Si sperimenta l’impotenza dell’atto creativo dell’uomo, la distanza tra il compito creativo e la sua realizzazione. Il nostro tempo conosce un eccezionale slancio creativo e una fragilità creativa altrettanto straordinaria. L’uomo dell’ultima ora vuole realizzare con la sua creatività ciò che non è mai esistito prima d’ora e nella sua frenesia oltrepassa ogni limite e ogni confine. Ma questo ultimo uomo non è più capace di creare le opere perfette e bellissime che l’uomo più umile riuscì a realizzare in passato. […] Stiamo sperimentando la fine del rinascimento, stiamo superando gli ultimi sprazzi di un’epoca che ha liberato le forze umane, il cui gioco spumeggiante ha generato la bellezza. Oggi questo libero gioco delle forze umane, da rinascimento che era è diventato degenerazione, non crea più la bellezza. E si sente prepotentemente che le forze creative dell’uomo necessitano di un nuovo orientamento. L’uomo è diventato troppo libero, troppo devastato dalla sua vuota libertà, troppo sfinito da questa lunga epoca di crisi. Così l’uomo ha cominciato a sentire nostalgia di organicità, di sintesi, di centro religioso, di un mistero. […] Che cosa è accaduto nel mondo? Quale fatto dell’esistenza ha generato questa nuova percezione della vita? C’è stato un momento fatale nella storia dell’uomo, a partire dal quale hanno iniziato a disgregarsi tutte le cristallizzazioni, tutte le stabilità della vita. Il ritmo della vita è andato accelerando all’infinito e il turbine, sollevato da questo moto frenetico, ha trascinato con sé l’uomo e le sue opere. Sarebbe miope non vedere il mutamento che si è compiuto nella vita dell’umanità: in un decennio si sono avvicendati cambiamenti che prima sarebbero accaduti in qualche secolo. A partire da questo momento critico, da questo avvenimento rivoluzionario, qualcosa si è radicalmente incrinato nell’antica bellezza della vita e dell’arte. * estratto da Il cadavere della bellezza, cortesia Medusa
IL LIBRO
Sergej Bulgakov Nikolaj Berdjaev Il cadavere della bellezza Medusa 141 pagine 15 euro Nella collana Wunderkammer, due saggi di Sergej Bulgakov e Nikolaj Berdiaev, scritti all’apice della Grande guerra, focalizzano la figura di Picasso e anticipano la critica della modernità e la crisi dell’arte e della bellezza, inserendosi sulla scia che da Sedlmayr arriva a Clair.
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LA FABBRICA DEI MOSTRI Dominata dalla voglia di stupire e scioccare, zeppa di essere deformi, l’arte moderna sembra votarsi alla bruttezza, chi oserebbe parlare ancora di bellezza? Puntando tutto sul trasporto e il ritorno al furore dionisiaco, essa riflette i sintomi di una società in crisi, ai bordi della sua scomparsa. L’ennesima critica alla modernità nell’ultima opera di Jean Clair, inedita in Italia, qui in anteprima di JEAN CLAIR*
utto accade come se, una volta esaurite le sue risorse, Gaia facesse oggi la sua muta e, nelle pieghe della pelle stanca lasciasse apparire le sue forme arcaiche, i suoi modelli più antichi, le immagini di creature deformi che credevamo estinte. Questi prototipi di mostruosità sono ancora vivi e vegeti e conservano un’ostinata resistenza al tempo. Al di là dei secoli e della loro origine, è una stessa follia ad averli creati, una medesima angoscia. Ma la conoscenza ha sostituito la curiosità, e l’oggetto di curiosità o spavento, il mostro, è diventato oggetto d’esperienza mentre nell’arte – nell’arte moderna – si è trasformato in oggetto da ammirare e commerciare o comunque un feticcio che genera sorpresa e stupore. La nascita e la permanenza di creature mostruose ed esseri fiabeschi, di corpi distorti e membra tagliate che sembrano continuare a vivere, questa teratalogia che attraversa la nuova anatomia dell’arte sarà più imperiosa nella nostra epoca, si è detto, di quanto non fosse tra l’autunno del medioevo e l’aurora del rinascimento, nella luce crepuscolare, fra il
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IL LIBRO
Jean Clair Hubris Gallimard 189 pagine 28,50 euro La fabbrica dei mostri nell’arte moderna: come e perché la laidezza ha vinto sulla bellezza, nel pensiero dell’accademico di Francia tra le voci fuori dal coro della modernità.
A sinistra: Salvador Dalì Premonizione della guerra civile, 1936 Nella pagina a fianco: Ron Mueck, “Big man”, 2000
cane e il lupo, fra l’addomesticato e il selvaggio, questo improvviso pullulare di creature composite, non più nate dalla sola fantasia dell’artista, ma dall’immaginazione problematica di una società intera che ha abbandonato la fede, la ragione e l’ideale e che ha sentito la necessità di trovare un figura visibile, e di conseguenza sopportabile, delle sue paure e dei suoi terrori: dei “mostri”, in effetti, degni di essere “mostrati”, disegnati, incisi, stampati, diffusi come in un altro momento i “grylles” presso Bosch, Bruegel, Grunewald, il licantropo o il ciclope presso gli antichi o ancora la moltiplicazione dei Leviatani nelle apocalissi, divoranti gli uomini a bocca spalancata. Queste immagini di lupi mannari, di ventri animati provenienti dalla bocca dell’inferno, erano nate nel medioevo, dall’interpretazione libera degli scritti biblici o dai racconti di viaggio fantastici di paesi lontani, se non immaginari. E così l’omuncolo, il gigante e l’acefalo che incontriamo in abbondanza nell’arte contemporanea, sono immagini create a partire da una lettura fantasiosa di opere di volgarizzazione della scienza del tempo, di romanzi rosa, dell’onda montante del-
l’occultismo e dei primi scritti di ciò che ancora non si chiama fantascienza. [...] Piuttosto che la bellezza, dunque, e piuttosto che l’immortalità apollinea degli antichi che non aspiravano alle scienze della biologia e della genetica, l’arte e la poesia di oggi, nelle loro componenti moderne, mirano a una sorta di ritorno al furore dionisiaco. Si preferiscono i titani scatenati agli dei troppo tanquilli. E, al posto della “nobile semplicità e quieta grandezza” che Winckelmann credeva di vedere nelle effigi antiche, il moderno cerca “un ritorno alla primitiva teogonia titanica della violenza”, come aveva scritto il giovane autore della Nascita della tragedia. Nella vita quotidiana, si ricerca l’essere perfetto delle riviste e dei film: rifatto, muscoloso, siliconato, immagine di un semidio giovanile promesso a un’esistenza senza limiti. Nell’arte, invece, si affermano le forme più aggressive e repellenti ma allo stesso tempo effimere, votate, secondo il volere del loro creatore, a un’autodistruzione. A un uomo che si sogna ormai perfetto e immortale si risponde con un’arte venuta male e caduca. Mai, in ogni caso, lo scarto fra la figura umana
e la sua rappresentazione è mai stato così profondo.[...] L’hubris, la dismisura, l’abbandono all’orgoglio, alle anomalie sessuali, alle pulsioni criminali, a tutto quello che l’età classica in Francia chiamava trasporto, nella Grecia classica era una colpa gigante, un crimine di cui le creature mostruose potevano offrire un’illustrazione. La pulsione è la dissipazione istantanea, sotterranea e imprevedibile, di un’energia vitale che Freud chiamava libido, orientata verso uno scopo diverso da quello per cui è nata. Il trasporto nella lingua francese del XVII secolo è letteralmente una metafora che mistifica l’oggetto e di conseguenza le misure per compararlo. Questo scarto è l’hubris: esso è punito dalla vendetta, nemesi, che porta la distruzione. La presenza nell’arte contemporanea, sotto forme biologiche assai più singolari che quelle dei mostri dei tempi passati, quali il gigante, l’omuncolo e l’acefalo, sono manifestazioni dell’hubris della modernità e, come in ogni momento di rottura che abbiamo evocato, sintomi di una società in crisi, probabilmente ai bordi della scomparsa. * estratto da Hubris, cortesia Gallimard
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L’INTENDITORE CORAGGIOSO Sardo di nascita ma toscano d’adozione, Carlo Pepi, oltre a essere un esperto, è un grande collezionista d’arte con un’indole audace contro i falsi d’autore di ORNELLA MAZZOLA
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Amedeo Modigliani Testa di Cariatide, 1912 Pepi è tra i massimi esperti mondiali dell’artista livornese
e Dante Alighieri avesse conosciuto Carlo Pepi di sicuro gli avrebbe dato un’amichevole pacca sulla spalla. La “toscanità”, l’amore per l’arte, la dirittura morale, le prese di posizione nette e coraggiose che si pagano, sono tutti elementi che li accomunano. A Dante piacevano i militanti e Pepi ha trascorso una vita a combattere contro l’establishment accademico e la lobby dei falsari d’arte, subendo campagne denigratorie e processi. Nemo propheta in patria, si sa. Mentre fioccano le polemiche con nomi noti come Federico Zeri e Vittorio Sgarbi, proprio da illustri esperti stranieri arrivano conferme alle sue contestatissime valutazioni. A Carlo Pepi non piace definirsi critico d’arte, piuttosto “intenditore d’arte”, un titolo che sente di non dover condividere con nessuno in Italia: «Tutti sono critici, ma l’occhio è un dono di natura», afferma con orgoglio. Fu un occhio audacemente controcorrente quello che gli consentì di levare la sua voce isolata in occasione della clamorosa beffa delle teste di Modigliani nel 1984, una delle più imbarazzanti figuracce per il mondo della critica d’arte nostrana. Pepi per primo bollò i ritrovamenti come falsi, esattamente come, con buona pace di quanti non volevano più esporsi, individuò come autentici i reperti rinvenuti nel 1991. Non sono certo i titoli a fare gli esperti e l’acume di questo agguerrito intenditore non nasce da un percorso di studi, ma da una formazione autodidatta, un’esperienza maturata attraverso il collezionismo e una sensibilità spiccata per l’arte. Può la sindrome di Stendhal colpire un bambino di appena sei anni? Secondo quanto racconta Carlo sembrerebbe proprio di sì: a quella età fu letteralmente folgorato dal Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh, che restava a fissare per ore. Si appassionò così al disegno e all’arte, trovando, anni più tardi, un grande stimolo nelle lezioni del suo professore di disegno all’Istituto tecnico per geometri. Appena potrà permetterselo, in un’epoca in cui ancora il collezionismo d’arte non aveva preso
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IL COLLEZIONISTA Smascheratore di falsari Carlo Pepi (Nuoro, 15 settembre 1937), è sardo di nascita ma toscano di adozione. Da anni risiede a Crespina, in provincia di Pisa, città della sua formazione. Si laurea in Economia e commercio all’università di Pisa, affiancando all’attività di consulente aziendale quella di collezionista e studioso d’arte, nonché smascheratore di falsari. Nasce così il sodalizio con il critico James Beck, che gli affida la direzione della sezione falsi e contraffazioni di Art watch, la sua associazione a tutela dell’arte. Pepi è stato anche il fondatore della Casa natale Modigliani. Da questo incarico si dimette nel 1990, per il suo dissenso sui criteri di attribuzione delle opere dell’artista livornese. Personaggio scomodo per la sua competenza, Pepi ha subito persecuzioni giudiziarie ma ha visto sempre riconosciuta la veridicità delle sue perizie.
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In alto: Amedeo Modigliani Donna seduta, 1916 alla pagina a fianco, dall’alto: Giovanni Fattori Soldato a cavallo, 1895 Giovanni Fattori, Astrazione, s. d.
piede in Italia, inizierà ad acquistare qualche pezzo, specialmente disegni, «economicamente accessibili, perché non interessavano a nessuno», confessa. Furono i macchiaioli a colpirlo, per l’assoluta essenzialità delle loro opere, il loro antirealismo fuori dalle mode: «L’arte è esperienza pura, contenitore di uno spirito ribelle che necessita di liberare il proprio messaggio altro. Forme nuove lasciano al passato regole e schemi che viziano nel vecchio». Tra le opere predilette della sua vastissima collezione figurano infatti, accanto al disegno di Modigliani, Donna seduta, un pastello di Silvestro Lega, dal titolo Paola Bandini che legge, e le opere astratte di Giovanni Fattori. Del primo condividerà la scelta di risiedere a Crespina, la cui chiesa l’artista aveva ritratto in un celebre quadro, altro gioiello della collezione Pepi, purtroppo rubato. Del secondo acquisterà circa seicento disegni. Questo può suggerire un’idea delle proporzioni: su due sedi, la casa museo di Crespina e la Civica pina-
coteca Modigliani a Follonica, circa ventimila opere di duemila artisti. Si spazia da macchiaioli e post macchiaioli ai maestri del Novecento, tra cui spicca appunto Amedeo Modigliani. Grande attenzione è riservata al filone delle avanguardie livornesi, con numerosi artisti meno conosciuti ma estremamente innovativi, come Renato Natali, Mario Nigro, Ferdinando Chevrier, Renato Lacquaniti, fondatore negli anni Sessanta del gruppo Atoma insieme a Giorgio Batoli, Renato Spagnoli e Mario Lido Graziosi. Figura interessante anche quella di Marcello Landi, membro del movimento dell’Era atomica (Eaismo) e firmatario dell’omonimo Manifesto nel 1948. Un ben di Dio che non poteva essere esente da furti. Su ben cinquecento opere trafugate ne sono state recuperate solo 185. Non sarà certo questo però a fiaccare lo spirito dell’indomito collezionista e intenditore: dopo le sue peripezie può a buon diritto dire di essere, proprio come Dante, “ben tetragono ai colpi di ventura”.
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QUANDO LA QUALITÀ È DI SERIE I multipli d’arte sono la nuova frontiera di Editalia e il suo ad Marco De Guzzis punta su questa tendenza in un mercato che in Italia stenta a decollare. Dove sta scritto che le opere moltiplicate abbiano meno dignità? Il valore sta nella tecnica di ALESSANDRO CARUSO
L
a vecchiaia non è uno stato anagrafico ma una condizione. Tipica di chi non trova più l’entusiasmo di affrontare le sfide del presente e di pensare al futuro. E per Editalia questo rischio è scongiurato. Proprio in occasione del sessantesimo anno dalla sua fondazione, la casa editrice ha rilanciato dal 2012 la posta in gioco e dopo aver rappresentato, come continua a fare con stile, l’eccellenza nell’editoria d’arte nonché il punto di riferimento per l’artigianato artistico, ha riportato in auge il mercato dei multipli d’arte. Si tratta di opere realizzate in serie limitate di repliche, opportunamente certificate, quindi con marchio di originalità e qualità. Un’iniziativa che si sposa perfettamente con l’obiettivo di ritornare a comu-
nicare la bellezza, abbattendo tutti gli ostacoli sociali e materiali che ne restringono la platea dei collezionisti. Il multiplo rappresenta proprio la materializzazione di un principio: sdoganare il collezionismo da una concezione elitaria e farlo diventare un esercizio più apertamente democratico. Riscoprire il valore dell’opera non più nella sua unicità ma pensare alla sua divulgazione e ripetizione come a un valore aggiunto, che ne amplifichi il messaggio. Questa è la filosofia del multiplo d’arte. Editalia, con il suo amministratore delegato Marco De Guzzis, l’ha intuita, condivisa e cavalcata e ha scelto di proiettare anche il mercato dell’arte italiana, al pari di quello di quello internazionale, verso questa tendenza che sta producendo fermento e attenzioni. Alcuni tra i più affer-
mati maestri del panorama artistico contemporaneo sono stati coinvolti affinché si possano confrontare con il multiplo e lo rendano il luogo dove sintetizzare idealmente la propria ricerca. Parliamo di nomi del calibro di Carla Accardi, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, a cui seguono altri, anche più giovani ed emergenti, che stanno sposando questo progetto. Il ruolo di Editalia è quello di committente e, al tempo stesso, produttore. Ma soprattutto di garanzia. A tutela della firma d’autore, infatti, l’azienda ha sperimentato un innovativo sistema per la tracciabilità delle opere d’arte e la loro riconducibilità alla paternità dell’artista: le opere sono certificate mediante un doppio ologramma realizzato dall’Istituto poligrafico e zecca dello stato. In ciascuna opera, prodotta in
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Carla Accardi, Mistero in-forme cartone sagomato e colorato a mano: la lavorazione del multiplo nel laboratorio Bulla
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IL MANAGER Marco De Guzzis Nato a Roma il 27 dicembre del 1963, Marco De Guzzis dopo la laurea in Economia e commercio ha lavorato in De Agostini e nel gruppo Toro in area manager, direttore di divisione e infine come direttore pianificazione e marketing strategico. Ha ricoperto l’incarico di direttore operativo in Poste Assicura. È stato consigliere della sezione comunicazione all’Unione industriali di Roma ed è attualmente membro del forum di Symbola, fondazione per le qualità Italiane. Dal dicembre 2004 è amministratore delegato di Editalia, azienda attiva, dal 1952, nel settore dell’editoria di pregio, con particolare riguardo ai libri d’artista. L’azienda rivolge le sue capacità creative ai collezionisti privati e al mondo delle aziende, realizzando progetti di comunicazione su misura attraverso i linguaggi dell’arte.
Sopra: Marco De Guzzis, ad Editalia Nella pagina a fianco e in basso due multipli Editalia: Mimmo Paladino, Stupor mundi Federico II Sotto: Jannis Kounellis, Senza titolo
tiratura limitata, è inserito, infatti, uno dei due ologrammi con un codice univoco. Quanto alla committenza, Editalia ha optato per la continuità con la sua storia e ha pensato di privilegiare l’incontro tra la contemporaneità e le tecniche di antica tradizione, come l’incisione, la xilografia, la litografia, la serigrafia. Il risultato è di assoluto spessore artistico e le attenzioni sempre crescenti da parte del pubblico lo dimostrano. Editalia, per chiudere il ciclo della perfezione, ha pensato anche di testimoniare tutto questo cammino. Ogni multiplo è accompagnato, infatti, da un volume monografico che parla dell’autore, della sua ricerca e delle tecniche di lavorazione utilizzate. «Stiamo percependo nel pubblico dei potenziali collezionisti un grande e crescente interesse per questo progetto – dichiara De Guzzis – e soprattutto riscontriamo una forte passione nel cercare di capire le tecniche che uniscono l’artista e l’artigiano. Quanto al mercato, in Italia non siamo al livello di Gran Bretagna e Germania, dove la diffusione dell’arte moltiplicata è certamente più in voga. L nostra azienda però sta diventando pioniera di una nuova tendenza che sta attecchendo anche qui. Lo dimostrano tanti dettagli - conclude De Guzzis – come ad esempio l’interessamento del Sole 24 Ore, che ha deciso di dedicare un ampio spazio ai multipli d’arte nell’edizione 2013 del suo summit annuale su arte e cultura, in programma a fine marzo, invitando proprio Editalia per discutere di questo astro nascente del fare italiano».
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ASSEMBLAGGI MADE IN USA Alla fondazione Roma una retrospettiva su Louise Nevelson racconta la memoria della forma: settanta opere documentano al massimo livello la ricerca e gli esiti dell’artista statunitense, tra i maggiori della scultura Usa e internazionale dal dopoguerra alla fine del XX secolo di BRUNO CORÀ
A
ll’età di nove anni, Louise Nevelson, alla domanda rivoltale dalla bibliotecaria della cittadina del Mayne, Rockland, dove la famiglia di origine ebraica era emigrata provenendo da Kiev in Ucraina, risponde: «I’m going to be an artist». E poi aggiunge: «I want to be a sculptor, I don’t want color to help me». Rassegnando dunque già, in età adolescente, ogni destino da pittore. Con questa determinazione Louise Nevelson inizia il suo lungo cammino, pieno di depressioni, incidenti di vita e difficoltà professionali, durato quasi novant’anni. La sua esperienza non è solo quella di una personalità artistica che deve confliggere con un establishment marcatamente controllato dalla cultura maschile, che poco
spazio riserva in quegli anni alle donne che intraprendono la strada dell’arte, ma anche quella di una identità che scava in sé, passando attraverso studi di disegno e pittura, di calcografia, di canto, di danza, di teatro, di teosofia e altre discipline, oltreché di frequenze universitarie in corsi regolari di arte alla Student arts league di New York, per confermare un’autorivelazione. Del suo lungo tirocinio, fatto anche di viaggi in Europa, nell’America centrale e in Messico, nella mostra alla fondazione Roma museo di palazzo Sciarra, a Roma, sono presenti le tappe essenziali con numerose opere che ne documentano al massimo livello la ricerca e gli esiti tra i maggiori della scultura americana e internazionale dal dopoguerra alla fine del XX secolo.
Mediante un tracciato che in parte osserva la cronologia del suo lavoro e in parte sottolinea i più significativi conseguimenti linguistici con gruppi di opere che ne rendono palesi le qualità, dunque evidenziando anche le tipologie emblematiche dell’arte della Nevelson, l’excursus plastico si snoda nelle sale di palazzo Sciarra riservando all’osservatore più di una sorpresa. Rispetto alla mostra del 1994, infatti, ultima rassegna di un certo spessore tenutasi sull’opera dell’artista al Palazzo delle Esposizioni di Roma a cura di Germano Celant, in questa rentrée romana ci sono alcuni cicli di opere allora assenti. Come ad esempio i disegni degli anni Trenta e le terrecotte degli stessi anni che non si erano potute vedere nemmeno nella mostra curata da Enrico Mascelloni
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Louise Nevelson “Dark sound�, 1968 cortesia fondazione Marconi, Milano copyright Gianni Ummarino
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A fianco: “Dawn’s host”, 1959 cortesia fondazione Marconi, Milano A destra: Senza titolo, 1976-1978 cortesia Art 2Day Ltd
la MOSTRa Louise Nevelson Si apre al pubblico dal 16 aprile al 21 luglio a palazzo Sciarra, sede del museo fondazione Roma, la mostra louise Nevelson. l’esposizione, realizzata con il patrocinio dell’ambasciata Usa e in collaborazione con le fondazioni Nevelson di Philadelphia e Marconi di Milano, annovera oltre 70 opere della scultrice statunitense di origine ucraina louise Berliawsky Nevelson (PereyaslavKiev, 1899; New York, 1988). la retrospettiva, a cura di Bruno Corà, illustra il contributo dell’artista allo sviluppo dell’arte plastica del secolo scorso, dove la sua opera occupa un posto di rilievo. la Nevelson, emigrata con la famiglia negli Stati Uniti nel 1905, a Rockland nel Maine, insieme a louise Bourgeois ha segnato infatti in maniera indelebile la scultura statunitense del XX secolo. Collocandosi tra le esperienze che, dopo le avanguardie storiche futuriste e dada, hanno fatto uso di materiali di recupero e del frammento con intenti compositivi. Una pratica, questa dell’assemblaggio, dell’impiego di oggetti nell’opera d’arte, utilizzata tra gli altri con esiti di elevata qualità linguistica da Picasso, Duchamp, Schwitters e altri, che ha esercitato una sensibile influenza sull’attività della giovane artista sin dai suoi esordi. Museo fondazione Roma, palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22, Roma. Info: 06697645599; www.fondazioneromamuseo.it
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e Marinella Caputo al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza nel 1997, nel quale infatti furono esposti gessi, terrecotte e piccole fusioni tra il 1945 e il 1955 (in tutto undici opere). Inoltre, in questa mostra retrospettiva che conta oltre 70 opere, sono presenti anche i collages di legno policromo degli anni Ottanta e alcune opere calcografiche a testimonianza dell’interesse della Nevelson, sin dagli anni di frequentazione dell’Atelier 17 di Stanley Hayter a New York (1947), per la stampa d’arte. I momenti più incisivi dell’attuale retrospettiva romana, tuttavia, sono quelli in cui i “muri” monocromi dipinti neri, gremiti di assemblages di frammenti lignei neri si susseguono con coerente e assidua cadenza, segnando gli anni Cinquanta e Sessanta, cedendo il passo a complessi plastici completamente monocromi bianchi (1959), alcuni dei quali già esposti nella mostra “Sixteen americans” (1959) al Moma di New York in quell’impressionante “Dawn’s wedding feast” (1959), primo tra i grandi “environment” concepiti anche successivamente dalla Nevel-
son, e infine, ai lavori dipinti in oro. Con la loro apparizione la mostra offre il momento più solenne della scultura della Nevelson insieme ad alcuni ritratti fotografici e filmati che descrivono gli aspetti caratteriali e del glamour inconfondibile dell’artista. La scultura della Nevelson, profondamente motivata dal vissuto urbano di una città come New York, riecheggia tuttavia anche più vaste sonorità mnemoniche, di culture sedimentate e appartenenti tanto al mondo occidentale quanto a quello meso-americano dal quale l’artista fu sempre attratta, anche a causa di un sodalizio con Frida Khalo, conosciuta insieme a Diego Rivera a New York negli anni Trenta. Alcune significative sculture degli anni Sessanta-Settanta, infine, pongono in risalto anche i legami di concezione spaziale tra la Nevelson e alcuni minimalisti più giovani di lei, come Sol Le Witt e Donald Judd e ne sono la riprova opere in mostra come “Ancient secret II”, 1964, e “Homage to the universe”, 1968, un autentico “environment” dalla considerevole estensione di oltre nove metri.
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I MAGNIFICI
CINQUE Fontana, Dorazio, Castellani, Scheggi, Aricò: alla collezione Guggenheim di Venezia i protagonisti italiani del dopoguerra che piacciono agli americani di FRANCESCO MARIA MANFRONI
SCHEGGE DI SCHEGGI, AFFONDI DI ARICÒ. E POI LE MEMBRANE MULTICOLOR DI DORAZIO, TAGLI & BUCHI DI FONTANA, CASTELLANI SEMPREVERDE, L’UNICO VIVENTE TRA GLI AUTORI CHE HANNO SEGNATO UN’EPOCA, ORA INSIEME A PALAZZO VENIER. PER UN’ANTOLOGICA CHE FA RIVIVERE GLI INTRAMONTABILI ANNI SESSANTA: POSTWAR. A RACCONTARLA IL SUO CURATORE, LUCA MASSIMO BARBERO. «L’idea è quella di chiamare Postwar, in maniera un po’ provocatoria, gli anni ‘60, cioè di dichiarare che tutto quello che pensiamo essere iniziato con gli sconvolgimenti anche politici e sociali degli anni ’60 sia invece nato già a partire dal dopoguerra, dagli anni ‘40 e maturato negli anni ‘50: quindi è uno spostamento di prospettiva. Dall’altra parte c’è la volontà di far riscoprire, in un museo internazionale con una sede italiana e un pubblico composto al 70% da visitatori stranieri, un passato recente, molto prossimo direi, che anche gli italiani, a parte alcuni, forse non conoscono così bene. Quindi il secondo obiettivo di Postwar è di ripresentare grandi protagonisti di quegli anni, ognuno in modo diverso, partendo da quello che consideriamo il capostipite di un certo tipo di dopoguerra, Lucio Fontana. Quindi il cambio di cronologia, il ribaltamento del luogo comune di un dopoguerra italiano poco originale ma soprattutto la grande attualità di ricerche che ci permette di riscoprire la centralità degli anni ‘60 italiani non solo localmente ma anche internazionalmente». Lucio Fontana, Piero Dorazio, Enrico Castellani, Paolo Scheggi, Rodolfo Aricò sono i cinque protagonisti della collettiva. Che ruolo hanno giocato nel particolare frangente storico degli anni Sessanta, caratterizzati da grandi stravolgimenti sociali, politici e culturali che hanno avuto ricadute importanti nella sfera creativa nazionale. Come hanno reagito questi artisti, quale contributo hanno dato al cambiamento in atto? «La mostra è una dimostrazione curatoriale di scelta di un certo tipo di silenzio, o meglio di una partecipazione politica e sociale dell’artista non narrativa. Intendo dire che mentre l’Italia per anni ha cresciuto i suoi campioni figurativi, alimentando una sorta di
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LA MOSTRA Postwar, protagonisti italiani Cinque protagonisti del dopoguerra: Lucio Fontana (1899-1968), Piero Dorazio (1927-2005), Enrico Castellani (1930), Paolo Scheggi (1940-1971), Rodolfo Aricò (19302002), sono in mostra a Venezia a Postwar, protagonisti italiani, alla Collezione Peggy Guggenheim, fino al 15 aprile. Un percorso espositivo a cura di Luca Massimo Barbero che rilegge l’arte italiana a partire dal superamento dell’Informale. Gli artisti presenti, utilizzando il linguaggio pittorico degli anni Sessanta, hanno portato agli occhi del pubblico internazionale la scena artistica italiana, il suo nuovo modo di dipingere con l’utilizzo della forza cromatica e della simbologia del monocromo come elementi visivi e concettuali. L’esposizione intende riscoprire e approfondire in particolare l’opera di Scheggi e Aricò e si sviluppa cronologicamente sala per sala presentando al pubblico la sperimentazione di ogni autore e dimostrando come, a partire da Fontana, le generazioni successive abbiano raggiunto un linguaggio pittorico personale, tra gli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo. Palazzo Venier dei leoni, 701 Dorsoduro, Venezia. Info: 0412405411; www.guggenheim-venice.it
dipendenza dell’arte dai suoi avvenimenti, qui abbiamo una nuovissima generazione, a parte Fontana, di artisti che hanno talvolta fatto militanza politica, come Castellani o Dorazio, ma nella loro opera non traspare il racconto o l’illustrazione del loro impegno, bensì è nel modo del loro lavoro che si ha la reazione, forse, a quello che stava succedendo internazionalmente e ancora di più in Italia. Quindi questa forma di non figuratività, di monocromia o pittura astratta di Dorazio, Scheggi, Aricò è la più forte presa di posizione rispetto a quello che accadeva nell’arte contemporanea e nella politica italiana ed europea dell’epoca e rappresenta uno dei livelli di lettura e di scoperta della mostra». Si comincia con Fontana, il capostipite di un nuovo modo di fare pittura. Come ha sconvolto l’arte italiana e perché l’influenza sulle successive generazioni è determinante? «Fontana è una sorta di leggenda italiana che non è cambiata molto nel tempo. Ritorna in Italia a 47 anni ed è già un maestro, fonda lo spazialismo, coinvolge gruppi straordinari di artisti, ma pur essendo un maestro la critica e il pubblico non lo istituzionalizzano, non lo riconoscono subito. Paradossalmente, saranno i giovani della fine degli anni ‘50, inizio anni ’60, a riconoscerlo come un grande maestro. I primi Buchi di Fontana sono del ‘49, il termine Concetto spaziale è del ’46, i cosiddetti “ragazzi”, mi riferisco a Manzoni, Klein, al Gruppo Zero, ad alcuni autori giapponesi, lo scoprono dopo e lo riconoscono come capostipite nel ’59, quando aveva già sesant’anni. È da considerarsi realmente d’avanguardia: il gesto, il buco, il taglio di Fontana sono stati, per l’arte internazionale e non solo per quella italiana, un nuovo punto di partenza nel dopoguerra, appunto Postwar. Quindi la mostra è costruita sull’idea di un Fontana che
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trancia il XX secolo in due parti assolutamente distinte: la parte che si libera dal ’46 in poi, dalla nascita dello spazialismo e del Manifesto Blanco, concede libertà ai giovani sperimentatori come Scheggi, Castellani e Aricò. Dorazio, invece, si rifà al futurismo, a Balla in particolare, e rappresenta la generazione più astratta. Fontana è il momento tranciante del XX secolo nell’arte internazionale». Simbologia e forza cromatica vengono utilizzati da ogni autore in maniera specifica: quali sono i punti di contatto tra i maestri selezionati? «La mostra è costruita con una fluidità originale, con una continuità distinta, passando di sala in sala, da Fontana ad Aricò. L’allestimento non è costituito solo da sale monografiche, ma vuole presentare appunto come una continuità questa ricerca tutta italiana. C’è una sorta di vocazione della pittura di Dorazio al rilievo, all’intreccio luminoso e cromatico e poi via via c’è il senso di volume, spessore, oggetto e ritmo ottico in tutti, da Castellani a Scheggi fino ad Aricò. Stiamo parlando di quella meravigliosa ambiguità dell’opera italiana che sta tra la scultura e la pittura e interagisce sempre con l’ambiente. Si scopre una linea di tendenza che non è mai stata un movimento, ma una tendenza di ricerca che è una delle caratteristiche italiane più originali e che ultimamente sta finalmente rappresentando al meglio l’avanguardia dell’arte italiana all’estero». Quegli anni, quei maestri, hanno portato l’arte italiana all’attenzione del mondo, in particolare Usa. Le ragioni di quel successo, paragoni con l’oggi. «Le ragioni del successo risiedono nel fatto che finalmente tutti i grandi sforzi dell’arte italiana degli anni ’50, penso all’importanza di autori come Burri e Fontana, ma anche più giovani come Vedova o Dorazio, sono serviti per farci rimanere e ben vedere nel novero
Da sinistra: Rodolfo Aricò Struttura rossa, 1967 cortesia A arte Studio Invernizzi, Milano foto Bruno Bani Paolo Scheggi, Intersuperficie curva dal giallo, 1969 collezione Franca e Cosima Scheggi Enrico Castellani Superficie angolare rossa, 1961 collezione dell’artista, Milano A pagina 110: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1951 fondazione Solomon R. Guggenheim, Venezia collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof
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Piero Dorazio Unitas, 1965 collezione Peggy Guggenheim, Venezia copyright Piero Dorazio by Siae 2013
delle ricerche d’avanguardia del dopoguerra. Gli anni ‘60, grazie alle esperienze fontaniane, alle nostre gallerie e alla promozione della nostra arte, sono quelli della Nouvelle vague italiana. Grazie ad autori come ad esempio Antonioni, Visconti, Pasolini e Moravia viviamo un momento di grande visibilità all’estero e una capacità di promozione del nostro prodotto culturale e artistico molto più ampia, viviamo un momento di straordinaria felicità inventiva in tutte le arti. Però non è questa l’arte popolare dell’Italia, non bisogna confondere il successo all’estero di artisti come Castellani, Scheggi e Manzoni con un successo popolare. Il mondo del contemporaneo era minimo in Italia ed era profondamente deriso. Saremo sdoganati da pochi, rarissimi galleristi in Italia, ma da molti musei all’estero. Ma non dimentichiamoci che alla fine degli anni ‘50, l’Italia aveva comunque delle gallerie molto curiose che hanno permesso di sdoganare per esempio il nouveau realisme dei francesi. Quindi c’era un ambiente più carbonaro, più ridotto, meno apparentemente esteso, di interesse per l’arte contemporanea rispetto a quello attuale, ma c’era una connessione molto più stretta e uno scambio molto più reciproco tra artisti e galleristi. Mi sembra di vedere oggi un grande fermento di giovani artisti, una grande importazione di nomi stranieri, ma molta meno esportazione dei nostri talenti. Essendoci meno pressione da parte del mercato c’era uno scambio più facile, più artigianale che permetteva una maggiore rilassatezza e la possibilità di ospitare i propri sodali e amici in strutture che non impegnavano troppo economicamente. C’era anche una maggiore curiosità nei confronti di una nazione che all’epoca era indicata come uno dei vulcani della creatività. C’era un pubblico molto più ristretto, ma che poteva investire molto più serenamente sulla cultura italiana, soprattutto cercava di esportarla. L’idea della mostra, quindi, è far vedere a un pubblico italiano e internazionale come la via italiana all’avanguardia non passa esclusivamente attraverso il figurativo ma come sia passata anche da questo campo monocromatico che ha generato quella quiete meravigliosa che diventerà l’arte concettuale italiana».
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ARTE GIOVANE A MILANO
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una delle più giovani fiere milanesi dedicate all’arte contemporanea, ma sicuramente la più avanguardistica con oltre 150 artisti provenienti da tutto il mondo. Arte accessibile Milano ritorna dal 12 al 14 aprile nella sua “casa” di via Monte Rosa 91 a Milano nella sede del Sole 24 Ore con un’interessante selezione di artisti emergenti come Silvia Viganò e Monica Marioni. Accanto a loro nomi pesanti fra cui Ferdinando Scianna e Pastorello. Moltissime le novità in programma: un’asta di beneficenza, tour enogastronomici, laboratori didattici per gli artisti del futuro, un concorso di fotografia culturale “Back stage”, e per la prima volta una sezione dedicata all’Art design. L’opera più curiosa? Sicuramente l’Eko500 di Gianni De Paoli, ovvero la mitica Fiat 500 ricoperta con 650 chili di squame di salmone norvegese.
Arte accessibile Milano ospiterà una selezione di 150 artisti emergenti. Tante le novità, tra aste, laboratori e una sezione dedicata all’Art design
AAM – ARTE ACCESSIBILE MILANO 2013 12–14 aprile 2013 Spazio Eventiquattro Gruppo 24 Ore e PwC Experience via Monte Rosa 91, Milano
Orari apertura al pubblico con ingresso libero previa iscrizione al sito www.arteaccessibile.com
Sopra: Gianni De Paoli Eko500, 2013 A sinistra: Monica Marioni, “Come on! (detail)”, 2012
Venerdì 12 aprile 19.00-24.00; Sabato 13 aprile 12.00-22.00; Domenica 14 aprile 11.00-20.00
Informazioni al pubblico: info@arteaccessibile.com www.arteaccessibile.com
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PISTOLETTO SI SPECCHIA AL LOUVRE Il più grande museo del mondo ospita una mostra sull’artista di Biella, dai primi lavori al Terzo paradiso Opere contemporanee a contatto diretto con l’antico di FRANCESCO ANGELUCCI
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Michelangelo Pistoletto Amare le differenze, 2010 Parigi
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un gioco di riflessi quello che mette in scena il Louvre con la mostra dedicata a Michelangelo Pistoletto. Gli specchi dell’artista diventano metafora del legame che stringe l’arte presente con la creatività antica. Le opere del passato si riflettono in quelle contemporanee che a loro volta sono un riflesso nato da, per e grazie a loro. Il filo che lega il passato al presente è chiaro ma fragile, basta insomma che un visitatore si frapponga fra l’antica sapienza e la vertigine contemporanea, utilizzando lo specchio semplicemente come tale. A vincere è la tautologia che lascia a terra, schiacciata, la poesia. Del resto è un rischio da correre perché nulla può l’artista di fronte all’interpretazione del pubblico. Per capire bene cosa si sta muovendo al Louvre abbiamo intervistato la commissaria dell’esposizione dedicata a Pistoletto, Pauline Guelaud. Michelangelo Pistoletto al Louvre, perché? «Pistoletto è sicuramente uno degli artisti più importanti dell’arte contemporanea, con la sua carriera trentennale ha lanciato uno sguardo trasversale sulle arti. Il suo passaggio dalla bidimensionalità, con la pittura, alla terza dimensione, con la produzione degli specchi, per approdare alla fotografia, ha coperto tutto l’universo dell’arte del Ventesimo secolo. È questo quello che interessa al Louvre: la capacità di passare da una forma espressiva all’altra senza mai cadere nel banale o nello scontato. È interessante il fatto che Pistoletto abbia realizzato opere con una profonda risonanza nell’arte contemporanea. In ogni caso abbiamo già trattato artisti italiani al Louvre come Giuseppe Penone o, qualche anno fa, Claudio Parmiggiani in occasione di un incontro sulla scultura, ora, per esempio, stiamo lavorando con Giulio Paolini. Diciamo che abbiamo un’attenzione particolare per questi artisti italiani che vengono da un’atmosfera vivace quale è stata l’arte povera. Siamo comunque aperti a tutto ciò che ha lasciato un segno nella storia dell’arte a prescindere dalla nazionalità e dal gruppo o movimento di appartenenza». Che cosa dobbiamo aspettarci dalla mostra? «Il titolo dell’esposizione è “Année 01, le paradis sur terre”. Il nome fa riferimento a un’opera di Pistoletto: Il paradiso terrestre, appunto, che nell’intenzione dell’artista rappresenta una nuova era ed è entrato nel manifesto poetico del creativo. Il 21 dicembre del 2012 è stata fatta proprio al Louvre una catena umana di volontari davanti alla corte di Napoleone che ricalcava il disegno dell’infinito com-
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Sopra: “Rebirthday”, palazzo Bembo, Venezia in basso: Terzo paradiso, Louvre, 2013 a destra: Terzo paradiso, la catena umana Louvre, 2012
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posto da tre cerchi che rappresentano il terzo paradiso. La mostra è pensata come un percorso che presenta il lavoro di Pistoletto, dalle opere storiche ai lavori recenti mostrati dalla sala dei sette camini fino alla corte Marley passando per la sezione medievale. Il grande obelisco inoltre sarà sormontato dal simbolo della rinascita del Terzo paradiso». Perché chiedere agli artisti contemporanei di intervenire al Louvre? «Molto semplicemente perché gli artisti fanno parte della storia del museo. Bisogna, infatti, sapere che il palazzo del Louvre è diventato un museo ospitando maestri contemporanei, dell’epoca inoltre al centro del museo c’era l’accademia di Belle arti, non era raro vedere degli artisti lavorare nelle sale e copiare le opere esposte. Gli artisti, insomma, sono sempre stati parte integrante del museo, solo nell’ultimo secolo la struttura ha perso questa vocazione. Il lavoro di Marie-Laure Bernadac è proprio quello di richiamare questa memoria al presente grazie a una programmazione dedicata all’arte contemporanea, anche per portare un nuovo sguardo sulla collezione permanente del museo». Qual è lo stato dell’arte contemporanea francese? «Il nostro giudizio in merito non può che essere incompleto, siamo un museo che tratta principalmente arte antica. Sarebbe meglio chiedere a chi ha veramente la passione per il contemporaneo. Le nostre non sono che esposizioni temporanee e daremo un giudizio distorto sul clima culturale odierno. In ogni caso l’arte contemporanea francese non è affatto male, c’è molto movimento, ci sono molti artisti giovani e istituzioni che presentano ottime programmazioni». Cosa pensa delle idee di Jean Clair sulle esposizioni d’arte contemporanea nei musei storici, visti da lui come una delle ragioni della decadenza culturale odierna? «Jean Clair ha fatto delle belle esposizioni anche se è un critico un po’ severo. Ormai molti musei, diciamo antichi, ospitano temporanee d’arte contemporanea. Certo, la cornice del Louvre è un discorso a parte proprio per la sua storia. In ogni caso, bisogna sempre riflettere attentamente sull’artista da portare e sulla sua poetica. Abbiamo avuto, per esempio, una mostra sull’arte russa che metteva in parallelo la creatività orientale con quella occidentale, entrambe si presentavano come due discorsi separati che avevano a ben guardare dei punti in comune. È necessaria comunque una coerenza d’insieme attraverso la programmazione della struttura».
LA MOSTRA Année 01 le paradis sur terre Dal 25 aprile al 3 settembre il museo del Louvre ospita una mostra dedicata a Michelangelo Pistoletto curata da Marie-Laure Bernadac. L’artista piemontese presenta gran parte del suo percorso, dagli inizi agli ultimi lavori. Si passa così dalle opere pittoriche agli specchi, dalle fotografie alle sculture fino ad arrivare al Terzo paradiso. Il simbolo dell’infinito con i suoi tre cerchi è entrato nella poetica dell’autore che dopo averlo presentato ed esposto nelle istituzioni e nei musei del Belpaese lo esporta Oltralpe. I lavori di Pistoletto si ritrovano, dunque, a quattro occhi con la collezione permanente del museo in un gioco di specchi, è proprio il caso di dirlo, dove il presente guarda al passato e il passato si rivede nel contemporaneo. La mostra si intitola ”Année 01, le paradis sur terre” a rimarcare la necessità (la speranza?) dell’artista in una nuova era, in una metamorfosi culturale e sociale del mondo contemporaneo. Info: www. louvre.fr
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TAMARA ICONA INEDITA
Dopo Milano e Roma, Tamara de Lempicka sbarca a Parigi per la nona mostra in nove anni che si annuncia però un evento tutt’altro che di routine A spiegarci perché la stessa curatrice di MAURIZIO ZUCCARI
Tamara de Lempicka “Les deux fillettes aux rubans”, 1925 collezione George e Vivian Dean
uando un curatore s’innamora di un’artista, la passione spesso conduce a seguirne i percorsi come un’ombra, fino a eviscerarne ogni aspetto, anche inedito, laddove non si pensava potessero più essercene. È il caso di Gioia Mori con Tamara de Lempicka. Quella che vedremo alla Pinacoteca di Parigi non è una mostra come le altre, come l’artista esposta non fu niente di meno di un’icona per lungo periodo, e il perché è la stessa Mori a spiegarlo. «Questa – racconta – è la nona mostra su Tamara de Lempicka in nove anni, e personalmente sono responsabile di quelle allestite a Milano nel 2006, a Roma nel 2011, e ora a Parigi. Ognuna di queste mostre è stata per me l’occasione di presentare un avanzamento degli studi che ormai conduco sulla Lempicka da oltre vent’anni. A Milano, l’esposizione era incentrata sul rapporto con l’arte italiana intorno al 1925, anno della sua prima personale tenuta appunto a Milano. A Roma, ho proposto il confronto con i connazionali polacchi e, soprattutto, è stata l’occasione per presentare tre dipinti che erano considerati perduti, Maternité del 1922, Sa tristesse del 1923 e Vieillard del 1928, rintracciati attraverso una ricerca che ha avuto tutte le caratteristiche di un’indagine poliziesca. In questa occasione, alla Pinacothèque de Paris sono presentati un corpus di 18 disegni inediti e ben 5 dipinti inediti, risalenti agli anni 1923-1925, ritrovati in Francia. Si tratta di opere con soggetti diversi: due nature morte, uno studio di nudo femminile, un interno – a questo punto, il più antico che si conosca della Lempicka, risalendo gli altri agli anni Quaranta – e un interessante nudo maschile del 1923-1924, soggetto rarissimo nel catalogo dell’artista: finora si conosceva
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“L’echarpe bleue”, 1930 collezione privata In basso: “Rue dans la nuit” 1922-1923 circa collezione Richard e Anne Paddy
LA MOSTRA Tamara de Lempicka Tamara de Lempicka: una donna, un mito.Il racconto di una eccezionale esperienza di vita e artistica è svolto a cura di Gioia Mori nella mostra alla Pinacoteca di Parigi attraverso i dipinti dell’artista, documenti e foto d’epoca, film e ricostruzioni, molti dei quali inediti. Il percorso espositivo inizia al suo arrivo nella capitale francese nel 1918, da benestante esule russa in fuga dalla rivoluzione bolscevica, per concludersi a New York, negli anni Cinquanta, ancora fuoriuscita di rango: una sofisticata baronessa che vive di ricordi e del successo che l’ha resa famosa in mezzo mondo. Dal 18 aprile all’8 settembre, Pinacoteca di Parigi, place de la Madeleine 28. Info: (00)33142680201; www.pinacotheque.com
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solo quello di Adamo in coppia con Eva, del 1931 circa. Quindi, a Parigi ci sono novità importanti dal punto di vista degli inediti, e poi nuovi apporti dal punto di vista documentario, che allargano la dimensione internazionale della Lempicka, peraltro già notevole. Tutto questo materiale contribuisce a una lettura del “fenomeno” Lempicka più corretta, a una valutazione più precisa della reale portata della sua ricerca artistica negli anni parigini, e soprattutto a capire che l’attribuzione in anni recenti dell’appellativo di “icona del déco” in realtà altro non è che la restituzione di un titolo che l’artista si era già guadagnata in tempi lontani. Il movimento déco fu internazionale, moderno e decorativo per definizione, vocazione e diffusione, e Tamara de Lempicka ne è divenuta l’emblema perché lei stessa fu internazionale, moderna e decorativa. A Tamara de Lempicka spetta la definizione di internazionale, per ragioni biografiche e artistiche. Il suo nome travalica presto Parigi e, dalle mie ultime ricerche, emerge il fatto che già nel 1923 ne scrivono a Londra, Madrid, Varsavia; nel 1925 si occupano di lei la stampa ceca, statunitense e italiana; nel 1927 la sua fama raggiunge la Germania, attraverso le copertine di Die dame, e il Belgio, dove espone a Ostenda alla Galerie d’art moderne di Félix Labisse in una prestigiosa collettiva accanto a Vlaminck, Chagall, Lhote, Miró, Ensor, Ernst; nel 1928 il suo nome compare già in un libro, Die frau als Künstlerin, un antesignano studio di Hildebrandt dedicato alle artiste donne, e nello stesso anno di lei si parla in una rivista cubana; e, attraverso la stampa coloniale, il suo nome arriva fino in Africa. Insomma, fu già all’epoca un fenomeno globale, come d’altronde sarà la diffusione del linguaggio déco. Poi, alla Lempicka spetta la definizione di moderna, affetta come fu da quella sindrome che Boccioni aveva battezzato “modernolatrie”, e lei declina in modo personale, tenendo sempre sotto controllo l’attualità, riuscendo a trasporre nelle sue immagini il mood dell’epoca. E infine, possiamo definirla decorativa, perché adottò e interpretò l’immagine della donna moderna, emancipata, indipendente, trasgressiva, ma sempre incanalata nei binari dello stile, concedendosi il lusso di vivere nell’eleganza dei modi. Nel suo percorso artistico ha interpretato tre decadi: quella dell’illusione, gli anni vitalistici del primo dopoguerra, quella della crisi, la grande depressione degli anni Trenta, quindi la decade della guerra, vissuta da esule di lusso negli Usa. Uno degli elementi che ne decretano il successo oggi è
proprio il fatto che attraverso i suoi dipinti è possibile leggere lo Zeitgeist: e dunque, gli anni Venti, il gioioso cosmopolitismo parigino, l’euforia di un’epoca che usciva dalla guerra, l’idolatria della modernità, l’adesione ai media di massima diffusione – il cinema, la grafica pubblicitaria, la moda, la fotografia –, la disinibizione dei costumi emergono in tutti i suoi ritratti, volti di uomini e donne che provengono da ogni angolo del mondo, femmes-garçonnes, atteggiamenti prelevati da inquadrature cinematografiche, donne vestite all’ultima moda. Negli anni Trenta, nel momento in cui l’Europa vive la grande crisi economica e sociale cambiano i soggetti dei suoi dipinti, diventano predominanti i soggetti religiosi, i ritratti di mendicanti, di rifugiati; poi, negli anni Quaranta, quando è negli Stati Uniti, c’è una dimensione più riflessiva, un ritorno al mestiere, allo studio della storia dell’arte e a una riproposizione di modelli antichi. Vive una vita da esule di lusso, prima a Parigi, poi negli Stati Uniti. Però non la definirei girovaga ma cosmopolita. Lo era esistenzialmente, vivendo la difficile condizione di esule russa di origine polacca, sposata dai primi anni Trenta a un ceco, emigrata in America. Poliglotta, abituata a usare nella conversazione termini di lingue diverse, “parla” con la stessa disinvoltura un esperanto artistico, mischiando linguaggi figurativi di varie correnti e radici, cubismo russo-francese e “ritorno all’ordine” franco-italiano, arte del museo e fotografia di moda, luci caravaggesche e spot da teatro di posa,“preleva” dall’antico e anche dal manifesto pubblicitario. La sua internazionalità non fu solo esistenziale e di critica, fu anche un’internazionalità di linguaggi figurativi. Era un’artista molto colta, al corrente delle contemporanee ricerche europee e americane, con una solida preparazione, una conoscenza viva del manierismo fiorentino, dell’Ottocento italiano, dell’arte fiamminga del Seicento. E la sua vita poi fu un’opera d’arte, applicò un’estrema cura nell’approntare e nel diffondere un’immagine di sé amplificata, non legata solo ai suoi successi artistici: insomma, Tamara de Lempicka era un “brand” di eleganza sofisticata e moderna, un prodotto costituito dai dipinti ma anche dall’artista. E la Lempicka capì, in anticipo sui tempi, l’importanza della pubblicità ed ebbe l’intuizione di mischiare l’alto e il basso, la storia dell’arte e la cultura popolare. In un certo senso anticipò l’artista moderno, in primis il fenomeno Warhol che non a caso l’adorava».
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A cura di Chiara van Oekel
ROMA Tiziano Il Concerto e la bella di palazzo Pitti, la Flora degli Uffizi, la Pala Gozzi di Ancona, il Ritratto di Paolo III senza camauro e la Danae di Capodimonte, l’Uomo con il guanto del Louvre, il Carlo V con il cane e l’Autoritratto del Prado sono solo alcune delle opere più conosciute di Tiziano esposte alle Scuderie del Quirinale a Roma, fino al 16 giugno, nella rassegna a cura di Giovanni Carlo Federico Villa. Un’esposizione attenta a narrarne non solo la fondamentale dimensione di pittore religioso, ma anche la complessa attività di ritrattista della nobiltà del tempo. Info: www.scuderiequirinale.it
NEW YORK Shadow and light ”Shadow and light” è la mostra dedicata al fotografo Bill Brandt. Il titolo sottolinea l’abilità del creativo di giocare con gli effetti di luce e ombra trasformando così il banale in un mondo nuovo e bizzarro. Le sue foto sono un’esplorazione della società, del paesaggio e della letteratura inglese. Lavori fondamentali per comprendere la storia della fotografia e della vita in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale e gli anni immediatamente successivi. La mostra è curata da Sarah Hermanson Meister. Fino al 19 agosto. Moma, New York. Info: www.moma.org
FIRENZE “The Dalí universe” PARIGI The political line Il Museo d’arte moderna di Parigi, con la partecipazione dello spazio Centquatre, dedica la retrospettiva ”The political line”, all’icona della pop art statunitense degli anni ‘80, Keith Haring. L’espozione permette di capire l’importanza del suo lavoro e la natura profondamente politica delle sue opere. I suoi ”subway drawings”, infatti, insieme ai dipinti, disegni e sculture trasmettevano messaggi di giustizia sociale, libertà e cambiamento. Fino al 18 agosto. Mam, Parigi. Info: www.mam.paris.fr
Più di 100 opere del maestro del surrealismo in un’esposizione unica, in programma fino al 25 maggio a palazzo Medici Riccardi: ”The Dalí universe a Firenze”, a cura di Beniamino Levi. La mostra interamente dedicata a Salvador Dalí è un’occasione davvero speciale, che permette al pubblico di avvicinarsi agli aspetti meno noti del lavoro del grande artista, scoprendo collezioni ancora poco conosciute, un’ampia selezione di opere rare tra cui sculture in bronzo, oggetti in vetro, collages e raccolte grafiche che illustrano i grandi temi della letteratura. Info: www.thedaliuniverse.com
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MILANO Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti «Queste opere non sono state mostrate al pubblico da più di settantʼanni, e oggi ricompaiono come per magia, come uscite da un altro mondo». Così Marc Restellini, curatore della mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti presenta l’esposizione in programma a palazzo Reale di Milano fino al 20 aprile. Più di 120 le opere in mostra per ricostruire il percorso di artisti che vissero in un periodo affascinante della storia dellʼarte a Montparnasse agli inizi del ʻ900: Amedeo Modigliani, Chaïm Soutine, Maurice Utrillo, Suzanne Valadon, Moïse Kisling e molti altri. Info: www.mostramodigliani.it
LONDRA Ruins in reverse La Tate modern e il Mali, Museo d’arte di Lima, propongono una mostra che è parte integrante del ”Project space”, un programma dedicato agli artisti emergenti promosso dalla stessa Tate modern. La mostra ”Ruins in reverse”, questo il titolo, esplora la tradizionale divisione tra monumenti storici e rovine urbane. Gli artisti Rä di Martino, Pablo Hare, José Carlos Martinat, Haroon Mirza, Eliana Otta e Amalia Pica si sono riuniti per indagare sull’idea contemporanea di archeologia, tra finzione e realtà. Fino al 24 giugno. Tate modern, Londra. Info: www.tate.org.uk
CAPENA La Transavanguardia tra Lüpertz e Paladino La Transavanguardia tra Lüpertz e Paladino, all’Art forum Würth Capena (Roma), riunisce circa 60 lavori di Mimmo Paladino e Markus Lüpertz, due dei maggiori rappresentanti del movimento. Teorizzata da Achille Bonito Oliva, la Transavanguardia è stata presentata ufficialmente alla Biennale di Venezia nel 1980 come un movimento di reazione a una crisi che non investiva solo l’arte, ma anche la sfera economica e culturale del mondo occidentale. Testo critico della mostra a cura di Achille Bonito Oliva. Fino al 15 febbraio 2014. Info: www.artforumwuerth.it
BUENOS AIRES Historias en los márgenes ”Historias en los márgenes” è la prima retrospettiva in America latina di Varejão Adriana. L’artista utilizza varie tecniche come la pittura, la scultura, il disegno e la fotografia. Le opere fanno riferimento alla storia del Brasile, al folklore, alle tradizioni spirituali e alla trasformazione dell’identità culturale del paese, passato attraverso il colonialismo. È curata da Adriano Pedrosa. Fino al 20 giugno. Malba, Buenos Aires. Info: www.malba.org.ar
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MACS, DESIGN IN MOVIMENTO
di ALESSANDRO CARUSO
Il Mazda Con-temporary space sorge a Milano per importare in Italia le linee del Kodo design, la filosofia progettuale diretta a rappresentare l’imminenza del movimento. In questo spazio espositivo convivono opere d’arte, automobili, architettura e design, in uno stile armonico all’insegna della dinamicità E la meccanica diventa arte
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uando la potenza della meccanica industriale giapponese incontra la delicatezza e la cura del genio italiano nel design ecco che l’estro prende forma, le linee si muovono e la geometria diventa arte. Un esempio perfetto di questo binomio da dicembre è in via Tortona a Milano, nel cuore pulsante del design d’avanguardia made in Italy, dove stile, inventiva e dinamicità sono la benzina dell’architettura creativa. È proprio qui che da Hiroshima la Mazda, casa automobilistica del Sol levante, è arrivata per investire e dare vita al Macs (Mazda Con-temporary space), un nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea, all’insegna di un concetto nuovo di integrazione tra cultura e mondo industriale, in cui alberga la multidisciplinarietà e si muove un perfetto e armonico equilibrio tra le varie scienze e arti espressione
della razionalità umana. Il progetto, voluto e promosso da Mazda motor Italia e realizzato da Alessandro Luzzi Workshop, sarà teatro, fino ad aprile, di una serie di appuntamenti con mostre d’arte contemporanea, grazie alle quali i curatori Fortunato D’Amico e Barbara Carbone hanno assecondato la fame d’arte della Mazda, allestendo un percorso di quattro esposizioni, da gennaio ad aprile, in cui i vari linguaggi progettuali si fondono, dando origine a un movimento scandito dai ritmi degli eventi naturali e artificiali. Il ciclo di mostre, proprio per questo, è stato battezzato “Il movimento delle arti”. Il movimento, in effetti, è la peculiarità più distintiva del Macs. Uno spazio la cui struttura è la materializzazione del Kodo design, una filosofia progettuale diretta a rappresentare l’imminenza del movimento stesso. «Generare linee che diano la sensazione della velocità, dell’attimo esatta-
mente precedente allo scatto – racconta Roberto Pietrantonio, communication and events manager di Mazda motor Italia – questa è l’essenza del Kodo design, che ha ispirato la progettazione del Macs, dove la padrona di casa è la nuova Mazda 6, l’ultima ammiraglia della casa giapponese». L’esperimento del Macs rivela come il design dell’automobile e la progettazione creativa possano perfettamente comunicare un valore artistico. Dove sta scritto, infatti, che l’arte non può essere espressa anche attraverso la meccanica? «L’Italia ha una grande tradizione, ormai perduta, nella ricerca del bello anche in ciò che è utile – spiega D’Amico – il nostro obiettivo è quello di ripristinare questo connubio e proporre l’idea per cui il design del progetto di una macchina non sia solo un momento di creatività fine a se stessa ma uno spunto per conciliare arte e cultura creativa e farne prodotto».
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LO SPAZIO Design da vivere Il Mazda Con-temporary space sorge a Milano, in via Tortona 9. In questi 200 metri quadri di spazio aperto al pubblico si tengono anche workshop e incontri con i maggiori esponenti del design dell'architettura, della fotografia della musica, in un crescendo di eventi e appuntamenti che culminano ad aprile con la più importante manifestazione internazionale legata al settore, la Design week, durante la quale Mazda riserverà al pubblico di ogni paese la presentazione della nuova Mazda6 con tecnologia Skyactiv. Ingresso libero Orari: dal martedì al sabato ore 15.30-19.30. Chiuso la domenica e il lunedì. Info: www.mazdamacs.it
Dalla facciata esterna del Macs, fino alla ricerca dei particolari nella progettazione degli interni, infatti, viene proposto uno stile elegante e dinamico, in perfetta armonia con il Kodo design: «Negli esterni abbiamo pensato di recuperare i tratti tipici e distintivi della casa automobilistica, ripetendo le sue linee sinuose ed eleganti – racconta Pietrantonio – mentre negli interni abbiamo voluto trasmettere un mood più accattivante usando non le forme ma con i colori. Tonalità scure e notturne, per dare risalto al rosso “anima” della nuova Mazda 6, che padroneggia nel area in cui sono esposte anche le opere degli artisti». Tutto questo è funzionale a una nuova strategia di comunicazione, perfettamente in linea con la creatività tipica dell’estro italiano: investire sul brand per affascinare il pubblico. E in linea con questo obiettivo al Macs viene proposta anche un’esposizione di opere d’arte contemporanea: «Il Macs si propone di diventare un laboratorio dedicato alla presentazione dei linguaggi progettuali – continua D’Amico – ospitare le ricerche più interessanti della creatività, finalizzata allo sviluppo armonico della società in tutti i suoi aspetti». E coerentemente con questa ricerca le mostre che sono state programmate da gennaio ad aprile si declinano in quattro momenti: rilevare il movimento, co-
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In prima pagina: gli interni del Mazda Con-temporary space, a Milano A sinistra: facciata esterna del Macs A fianco: una sala interna In basso: In primo piano la nuova Mazda 6 Foto: Marco Curatolo Sebastian Rimondi Copyright Mazda Motor Italia
struire il modello, progettare l’habitat e comunicare il movimento. Il primo appuntamento, a gennaio, ha visto come protagonisti i fotografi Rosetta Messori e Roberto Rosso nella loro mostra Il movimento e l’apparenza. La seconda tappa è stata la mostra L’invenzione e il modello, fino al 22 febbraio, con Piero Fogliati e Leonardo Mosso. Terzo momento, dal 27 febbraio fino al 9 marzo, dedicato a Progettare l’habitat: Giulio Ceppi e Massimo Facchinetti portano in mostra il design e l’architettura quali veri costruttori dell’habitat. Ultimo step è quello con Be on the move, comunicare il movimento del corpo e della mente, pensieri e gesti che caratterizzano il movimento degli esseri umani vengono interpretati da Silvia Rastelli e Laura Zeni e dai fotografi Lorenza Daverio e Norman Douglas Pensa. I giapponesi, raccontano dal Macs, sono stati entusiasti di questo progetto e hanno accordato i primi sei mesi ai creativi italiani per questo nuovo modo di comunicare e raccontare i modelli automobilistici iper questo nuovo modo di puntare sull’arte per proporre modelli automobilistici. Ma a giudicare dal successo che l’iniziativa sta avendo, rivelano i promotori dell’iniziativa, c’è da augurarsi che il Macs possa continuare la sua ricerca ancora per molto tempo.
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LA GALLERISTA CASA E BOTTEGA Anna Marra trasforma la sua abitazione in una galleria d’arte contemporanea Il nuovo spazio a Roma è un crocevia per artisti italiani e stranieri di MARTINA ADAMI
inamica, intraprendente e coraggiosa la giovane gallerista Anna Marra, facendo tesoro dell’esperienza di co-direzione dell’associazione culturale Mara Coccia, ha deciso di mettersi in proprio per continuare a supportare e promuovere l’arte contemporanea. Il nuovo spazio sorge alle spalle dei resti del Portico d’Ottavia, tra i vicoli stretti e ingarbugliati, nel cuore dell’antico quartiere ebraico di Roma. L’abbiamo incontrata appena un giorno prima dell’inaugurazione della prima mostra dedicata all’artista e regista Giovanni Albanese. Da gentili padrone di casa, Anna Marra e la sua assistente mostrano il nuovo spazio che si compone di due sale su diversi livelli e un piccolo cortile sul retro, tra i suggestivi dedali degli antichi palazzi, anch’esso dedicato all’esposizione. Un doppio portone in legno chiaro rende riconoscibile la galleria. Una stonatura? Sembra, ma non è così. E Anna Marra chiarisce questa scelta: «L’arte è un prodotto speciale, non un capo d’abbigliamento da esporre in vetrina. I tagli sul portone d’ingresso li ho fatti appositamente per permettere a chi passa di sbirciare ma l’idea di fondo è quella di fare un lavoro di
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LA MOSTRA Giovanni Albanese La galleria Anna Marra contemporanea ha inaugurato il 31 gennaio con gli assemblaggi di Giovanni Albanese. La mostra, a cura di Achille Bonito Oliva è visibile fino al 30 marzo. Proseguendo sul tema del metallo e con l’obiettivo di diversificare la proposta tramite diverse generazioni, linguaggi e livelli di notorietà, la stagione prosegue con Veronica Botticelli, da aprile a maggio, a cura di Giorgia Calò. La pittura dell’artista, su tela come su lamiera, instaura un dialogo poetico con ricordi, tracce e passaggi della vita.
LA GALLERISTA E LA SEDE Anna Marra (1966) è laureata in economia e commercio e lavora da anni in Antitrust. Dopo l’esperienza di codirezione dell’associazione Mara Coccia decide di proseguire nel sostegno e nella promozione di artisti italiani e stranieri, trasformando in spazio espositivo il piano terra della sua abitazione. La superficie di 60 mq con una prima sala di 20 mq, un disimpegno di 10 mq dal quale si accede alla seconda sala di 30 mq. All’esterno un cortile di 20 mq. Via San’Angelo in Pescheria , 32, 00186 Roma. www.annamarracontemporanea.it.
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A sinistra: la gallerista Anna Marra foto Sebastiano Luciano Sopra: il cortile della galleria foto Manuela Giusto A pagina 131: L’interno con in primo piano Caimano, 2011 un’opera di Giovanni Albanese foto Sebastiano Luciano
promozione dell’artista e della sua opera. Dunque un operazione che non ha bisogno di una vetrina». Anna Marra contemporanea non è concepito come mero spazio espositivo ma è, prima di tutto, un’associazione culturale. Un luogo accogliente, predisposto a ospitare «eventi con l’artista o con critici e curatori – spiega la gallerista – per dare vita a momenti di approfondimento e avvicinare il pubblico, in maniera anche più informale, all’arte contemporanea. Durante gli anni passati al fianco di Mara Coccia, ho potuto notare quanto le persone che iniziano ad avvicinarsi all’arte contemporanea siano spaventate e si sentano in difficoltà nel fare una domanda. Ritengo che la possibilità di incontrare l’artista al di là del vernissage, in un contesto domestico come questo, dia la possibilità di un migliore confronto e approfondimento». Dalle parole della gallerista si capisce quanto l’esperienza al fianco di una promoter dell’arte come Mara Coccia abbia rappresentato un’esperienza fondamentale e altamente formativa: «Mara Coccia mi ha insegnato tutto: da come ideare e pensare una mostra, al senso da darle. Lei mi ha aperto gli studi degli artisti e mi ha insegnato a rapportarmi con loro. Quello che sono ora lo devo a lei. Quello che ci unisce è un’affinità elettiva». Per quanto riguarda le scelte degli artisti un’attenzione particolare sarà dedicata alla scultura e alla valorizzazione di artisti romani. Spiega
Marra: «Sarò attenta alla promozione degli artisti italiani della mia generazione perché ritengo debbano fare il salto. L’intenzione è di farlo in collaborazione con altre realtà e attivando scambi con gallerie o istituzioni culturali provenienti dall’estero, aprire la galleria anche all’ingresso di artisti stranieri». Ampi sono dunque gli obbiettivi e le prospettive della gallerista: «Mi concentrerò per fare uscire l’arte italiana dal provincialismo che caratterizza il settore in questo momento nel nostro paese. Credo che l’unione faccia la forza e che solo in questo senso si possa operare per fronteggiare l’attuale momento critico. Ritengo sia una via giusta quella di puntare insieme su alcuni artisti in maniera mirata, tramite progetti condivisi, per concentrare le attenzioni in modo ordinato. Nonostante venga da un settore dove la concorrenza ha sicuramente un valore positivo per il mercato, ritengo che in alcuni momenti non ce ne sia la necessità. L’arte non ha un mercato come gli altri, non essendo un prodotto come gli altri. L’arte è portatrice di un forte bagaglio culturale; è questa la forza dei nostri artisti. È su questo aspetto che bisogna puntare per portare all’estero questa realtà e, per farlo, credo sia giusto collaborare». In conclusione, la galleria Anna Marra contemporanea possiede tutte le carte in regola per divenire un luogo mobile, aperto alle relazioni e alla produzione di una buona cultura.
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ISOLED’ITALIA di MARIA LETIZIA BIXIO
All’Istituto nazionale di cultura nella capitale francese il genio italiano rivive in una mostra che suggerisce un nuovo rapporto tra architettura e paesaggio i giovani architetti dello studio Startt debuttano con le loro strutture mobili con la benedizione di Pippo Ciorra
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iovani architetti italiani all’estero, un’ottima premessa per tratteggiare le idee e i progetti che la realtà romana del gruppo Startt ha saputo concentrare nella realizzazione della mostra “Future”: architecture e(s)t aysage” (Architettura e/è paesaggio) nell’Istituto italiano di cultura a Parigi. Erano diversi anni che nella capitale francese, e non solo, mancavano occasioni per dare spazio a un’esposizione monografica dedicata a un emergente studio di architetti italiani, forse perché i nomi cui è dato il privilegio di sconfinare sono da tempo sempre i soliti, pochi e noti. La mostra curata dal senior curator architecture del Maxxi, Pippo Ciorra, vede raccolti disegni, foto e plastici, che segnano
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APARIGI una storia recente, quella dei progetti firmati da Simone Capra, Claudio Castaldo, Francesco Colangeli e Dario Scaravelli, che dal 2008 formano Startt (studio di Architettura e trasformazioni territoriali). L’obiettivo dell’esposizione, saldamente sostenuta dalla direttrice dell’istituto Marina Valensise, che aveva scelto e coinvolto gli Startt nel programma delle promesse dell’arte, è quello di far comprendere al pubblico la dinamicità del metodo adottato dal promettente gruppo romano. Già nei primi anni di attività, infatti, la qualità del lavoro non ha fatto mancare ai progettisti premi significativi, come il New italian blood e lo Young architects program Maxxi 2011, in collaborazione con il Moma di New York. Grazie a questo riconoscimento, il gruppo ha po-
tuto consolidare la sua immagine nel panorama internazionale, attraverso le opere del progetto Whatami, realizzato per l’area esterna del discusso edificio di Zaha Hadid, finalmente rischiarato da cielo, terra e papaveri rossi. L’arcipelago immaginario composto di isole mobili disposte lungo il piazzale esterno del museo svela il segreto racchiuso nel nome del progetto: “What am I” è infatti il nome del primo puzzle inventato nel ‘700. L’allestimento della mostra parigina si presenta come un’ulteriore evoluzione del lavoro sulle isole mobili, lo spettatore viene traghettato in una metanarrazione, condotta da strumenti mutuati dal cinema, dalla fotografia e dal “landscape design”. Come spiega Pippo Ciorra «è soprattutto il sistema di allestimento da
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LO STUDIO STARTT Gli architetti Simone Capra, nato a Roma nel 1978 si è laureato con lode all’ università Roma Tre nel 2004 Ha collaborato con Torres-Tur y Martinez-Lapeña, B720, 2TR ed è dottore di ricerca all’università Iuav di Venezia. Claudio Castaldo è nato a Latina nel 1978, si è laureato all’ università Roma Tre nel 2006 È esperto nell’utilizzo dei sistemi informatici e insegna all’Istituto europeo di design Francesco Colangeli è nato a Roma nel 1982, laureato con lode all’università Roma Tre nel 2010 collabora con Stefano Cordeschi e Pierre Louis Faloci Architecte Dario Scaravelli è nato a La Spezia nel 1981, si è laureato nel 2007 Oggi vive e lavora tra Italia e Cile info: www.startt.it
loro ideato – valido per questa mostra ma anche per le successive – che merita attenzione e conferma che su di loro vale la pena insistere. Il sistema di isole mobili, ricomponibili in varie forme nella sequenza di tavoli e teche necessari a un’esposizione, conferma la capacità degli Startt di maneggiare con leggerezza e cura materiali delicati e sensibili come la citazione, la musealità, lo sfioramento dell’arte, la capacità di negoziare tra pensiero e materiale». Così la mostra dal provocatorio titolo Future: architecture e(s)t paysage diviene spunto per una riflessione di più ampio respiro sul territorio, riflesso o effetto della città architettonica in esso stabilita e sul ruolo degli architetti. Come spiega Simone Capra, fondatore di Startt: «Su questa linea
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LA MOSTRA Fino al 26 aprile La mostra Future: architecture e(s)t paysage è stata inaugurata il 27 febbraio ed è visitabile fino al 26 aprile all’hôtel de Galliffet al 73 di rue de Grenelle. Gli orari di apertura sono da lunedì a venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18. Il palazzo Galliffet resterà aperto durante alcune serate che verranno indicate nel sito internet dell’Istituto di cultura italiano a Parigi. Info: www.iicparigi.esteri.it
A sinistra: “Astrapae”, percepire il paesaggio vista degli interni Nelle pagine precedenti: Cesare Querci “Whatami”, premio Yap Maxxi 2011 cortesia fondazione Maxxi
Sopra e a sinistra: “Kaleidoscope il caleidoscopio di Semper” Edificio come trama urbana Studio Delle Corti/Canon à lumière
di pensiero, espressa nel bellissimo saggio Critica della ragion cartografica, del geografo Franco Farinelli, il paesaggio è la parte visibile di un territorio, sul quale insiste un determinato assetto di poteri. L’architettura in questo senso è ricondotta al suo ruolo di parte della società, alle relazioni vicine e lontane con gli uomini che la abitano» e, conclude volitivo, rispondendo all’incerto quesito su come immaginare una migliore architettura per il domani «crediamo che dopo la stagione dell’architettura come oggetto di firma – si pensi al termine abusato di archistar – ci sia bisogno di tornare a centrare l’obiettivo sul progetto e non sul progettista; da qui anche la scelta di chiamarci con una sigla che in qualche maniera tenesse in secondo piano i nostri nomi».
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SE LA CRISI MUOVE LE IDEE Nell’epoca della recessione i comunicatori possono spegnersi o innescare un vortice di idee indagare le relazioni tra l’incertezza economica e le arti, la moda, la tecnologia, la musica, l’impegno sociale, il futuro. Solo così l’austerità può trasformarsi in vena creativa. L’Art directors club italiano lo spiega in un libro di GIORGIA BERNONI
È
possibile che in un periodo segnato dall’austerità, in campo economico così come in quello culturale e mediatico, possano nascere idee comunque fertili e innovative, creative quindi, capaci di farsi portavoce di stimoli piuttosto che di stereotipi? Si pone questa domanda il massiccio volume L’austerità creativa nella comunicazione di oggi, edito da Skira: una summa pensata e voluta dall’Art directors club italiano che cerca, attraverso l’intervento tematico di diciotto autori, di indagare da differenti punti di vista le relazioni tra l’austerità economica e i media, le arti e la tecnologia. Come scrive Massimo Guastini, presidente dell’Art directors, nella prefazione, “scopo del volume è fornire dei modelli virtuosi di comunicazione,
mostrare che un altro mondo è possibile. A cominciare dalla pubblicità. Correndo ai ripari da quel tipo di comunicazione che gli psicologi sociali definiscono inquinamento cognitivo”. L’Art directors club italiano è una libera associazione che accoglie e mette in relazione le figure chiave della creatività pubblicitaria italiana: art director, copywriter, fotografi, illustratori e altri operatori. Ogni anno, attraverso i suoi premi, l’associazione regola gli standard creativi e qualitativi della comunicazione con l’obiettivo di puntare ai massimi livelli creativi. “L’estetica – scrive ancora Guastini – come la creatività vera, è sempre etica. Può essere qualcosa di diverso. Può dire la verità. Anzi deve dire la verità. La buona e vera pubblicità non offende, non inganna, non prevarica e
non impone”. Quello che lamenta Guastini è la mancanza, che ha dilagato con il passare degli ultimi anni, di qualità dei contenuti veicolati attraverso i messaggi pubblicitari, attribuendo la responsabilità al fatto che oggi “un’attenzione alla qualità e alla consistenza dei contenuti sembra scomparsa, come se la comunicazione di massa in Italia debba essere per forza arretrata”. Antidoto a questa disaffezione può essere una maggiore consapevolezza sul fatto che la comunicazione commerciale “diffonde modi di essere e gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo”, un accorgimento che negli anni sembra essere scomparso. Anzi, quello che i creativi italiani oggi definiscono efficace non è reputato tale da chi investe nella comunicazione:
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“Winkler+Noah” Campagna per il lancio di ”Ritual”, mensile di musica e cultura dark
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In queste pagine: Marianna Fulvi racconto per immagini ispirato al detto Meglio un uovo oggi che una gallina domani per Dpi magazine
AAVV L’austerità creativa Skira 328 pagine 65 euro Annamaria Testa, Till Neuburg, Pasquale Barbella, Alice Jasmine Crippa e Stefano Torregrossa sono solo alcune tra le firme che compaiono nel volume, diviso per capitoli tematici e accompagnato da un vasto repertorio iconografico, L’austerità creativa. Ciascun intervento presenta un personale punto di vista e, affrontando una tematica che incrocia la comunicazione con i diversi campi della società, fornisce al lettore un excursus sull’importanza dell’innovazione e della ricerca nel mondo attuale della pubblicità. Ogni campagna presentata è corredata da una ricca scheda informativa che riporta tutti i crediti: agenzia, direttore creativo, cliente, etc. Il volume è edito da Skira nella collana Design e arti applicate. Info: www.skira.net
non c’è più identità di vedute tra creatori di contenuti e aziende mancando tra i due interlocutori un dialogo diretto e, paradossalmente, proprio la comunicazione. Le cause si possono dividere principalmente in due categorie: in Italia le aziende investono solo soldi veri su campagne poco originali e spesso anche poco intelligenti e, soprattutto, non ci sono più grandi agenzie fondate e guidate da creativi. “Negli ultimi anni – precisa Guastini – anche tra i creatori di contenuti spesso manca una visione comune di cosa rende bella ed efficace una campagna. È fondamentale che committenti e pubblicitari tornino a dialogare per-
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ché un sistema di pubblicità privo di etica diventi di rilevanza sociale. Piaccia o meno, l’immaginario collettivo si nutre più di comunicazione pubblicitaria che di arte”. Se n’era accorto già Bill Bernbach, alcuni decenni fa, quando spiegava: «Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino». L’urgenza alla coesione per Guastini è tale da aver redatto, insieme ad Annamaria Testa e Pasquale Barbella, il Manifesto deontologico dell’Adci, un programma definito “un’assunzione di responsabilità doverosa” che consta di otto punti: onestà, bellezza, appropriatezza, rispetto, correttezza, stereotipi, intelligenza, pudore. Otto chiari appelli perché il desiderio dei soci è quello di portare un contributo positivo alla crescita, non solo materiale ma anche culturale del paese. Nel volume, accanto ai testi critici, vengono presentate delle campagne di comunicazione che, in tempi relativamente recenti, si sono distinte per la potenza dei messaggi. Non mancano esempi virtuosi di figure emblematiche prese dal mondo dell’arte contemporanea: la complice capacità affabulatoria di Philippe Daverio e l’estro sfuggente dello street artist Blu. Crisi o non crisi, austerità o non, resta comunque invariato un assunto di fondo: come amava dire Emanuele Pirella, icona della pubblicità italiana «lo scopo della pubblicità creativa non è vendere ma farsi comprare».
Dall’alto: Alessandro Della Fontana campagna per Mediaset executive creative director: Giovanni Porro art director: Antonio Campolo
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È DIFFICILE ESSERE FACILI. PER SEMPLIFICARE BISOGNA TOGLIERE, E PER TOGLIERE BISOGNA SAPERE COSA TOGLIERE, COME FA LO SCULTORE QUANDO A COLPI DI SCALPELLO TOGLIE DAL MASSO DI PIETRA TUTTO QUEL MATERIALE CHE C’È IN PIÙ DELLA SCULTURA CHE VUOLE FARE. TEORICAMENTE OGNI MASSO DI PIETRA PUÒ AVERE AL SUO INTERNO UNA SCULTURA BELLISSIMA, COME SI FA A SAPERE DOVE CI SI DEVE FERMARE PER TOGLIERE, SENZA ROVINARE LA SCULTURA? (...) TOGLIERE INVECE CHE AGGIUNGERE VUOL DIRE RICONOSCERE L’ESSENZA DELLE COSE E COMUNICARLE NELLA LORO ESSENZIALITÀ (BRUNO MUNARI)
Riccardo Guasco, Per un soffio le farfalle, 2010, con un pensiero di Bruno Munari Guasco ”Rik” (Alessandria, 1975), fumettista, illustratore e pittore, vive a Casale Monferrato dove insegna grafica e informatica. A lui sarà dedicato uno dei prossimi servizi su Inside Art
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la storia della lira
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foto Vincent Cunillère
soulages XXI secolo
dal 2 marzo al 16 giugno 2013 da martedì a domenica 10.45-13.00 / 14.00-19.00 [lunedì chiuso] Accademia di Francia a Roma – Villa Medici viale Trinità dei Monti, 1 – 00187 Roma info [+ 39] 06 67 61 1 – www.villamedici.it mostra organizzata in collaborazione con il Musée des Beaux-Arts di Lione