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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”
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CIVILTÀ URBANA E COMMITTENZE ARTISTICHE AL TEMPO DEL MAESTRO DI OFFIDA (SECOLI XIV-XV) Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno
(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-3 dicembre 2011)
a cura di
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SILVIA MADDALO e ISA LORI SANFILIPPO
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2013
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III IIIserie seriediretta direttada da Antonio AntonioRigon Rigon
IlIlprogetto progettoèèstato statorealizzato realizzatocon conililcontributo contributodella della Fondazione FondazioneCassa Cassadi diRisparmio Risparmiodi diAscoli AscoliPiceno Piceno
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Comune Comunedi diAscoli AscoliPiceno Piceno
Fondazione FondazioneCassa Cassadi di Risparmio RisparmioAscoli AscoliPiceno Piceno
Istituto Istitutostorico storicoitaliano italiano per perililmedio medioevo evo
©©Copyright Copyright2013 2013by byIstituto IstitutoSuperiore Superioredi diStudi StudiMedievali Medievali“Cecco “Ceccod’Ascoli” d’Ascoli”--Ascoli AscoliPiceno Piceno Coordinatori Coordinatoriscientifici: scientifici:IISA SALLORI ORISSANFILIPPO ANFILIPPO, ,SSILVIA ILVIAM MADDALO ADDALO
Redazione: Redazione:SSILVIA ILVIAG GIULIANO IULIANO, ,SSALVATORE ALVATORESSANSONE ANSONE ISBN ISBN978-88-98079-12-4 978-88-98079-12-4
Stabilimento StabilimentoTipografico Tipografico«Pliniana» «Pliniana»--V.le V.leF. F.Nardi, Nardi,12 12--Selci-Lama Selci-Lama(Perugia) (Perugia)--2013 2013 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2013
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Con gli atti della XXIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, dedicato al maestro di Offida, aggiungiamo un nuovo, prestigioso, volume all’approfondimento scientifico di quel mondo medievale di cui il Premio è espressione di grande vitalità e fermento culturale. A testimonianza del grande lavoro portato avanti con estremo rigore e tanta passione dall’Istituto Superiore di Studi Medievali Cecco d’Ascoli, anche questa pubblicazione, per il settimo anno, è a cura dell’Istituto storico italiano per il medioevo fondato nel 1883 per dare «unità e sistema alla pubblicazione de’ Fonti di storia nazionale». Ascoli e il medioevo è un binomio assolutamente unico. Nella nostra città il medioevo si legge nelle pietre degli antichi palazzi e «passeggiare per le sue antiche strade – come scrisse Jean Paul Sartre – è come lo sfogliare a caso un volume di storia dell’arte» Con la pubblicazione degli atti relativi al convegno Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del Maestro di Offida l’Istituto Superiore di Studi Medievali Cecco d’Ascoli propone una avvincente lettura di un anonimo pittore (il Maestro di Offida è il nome convenzionale con il quale viene identificato) che operò tra la metà del XIV secolo e gli inizi del XV secolo tra Marche e Abruzzo ed è così che questo artista, nel trascendere il tempo e lo spazio, diventa “testimonial” di un intero e vasto territorio: non solo il Piceno, ma anche Fermo, Macerata e il vicino Abruzzo, dove l’artista e la sua scuola hanno operato. Così il Premio che già di per sé è un evento straordinario capace di concentrare su Ascoli, per tre giorni, l’attenzione di eminenti storici e studiosi, con la trattazione del Maestro di Offida è diventato esempio concreto di quell’unione tra la città e il territorio. Dal 1987 anno in cui l’allora sindaco Gianni Forlini (con la prestigiosa collaborazione del prof. Franco Cardini e di altri ragguardevoli esponenti del mondo giornalistico, quali Enzo Carra, Antonio Donat Cattin, Franco
Cangini e Mario Pendinelli) volle questo appuntamento per promuovere la città, il Premio internazionale Ascoli Piceno non solo ha acceso i riflettori su questa città, così intimamente medievale, ma l’ha inserita nell’ambito dei più qualificati circuiti della cultura medievistica nazionale ed internazionale, contribuendo con le sue giornate di studio e con la pubblicazione degli atti alla ricerca storica e ponendoci in condizioni di leggere sempre meglio il nostro passato. E la conoscenza del passato è importante per il presente e il futuro.
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Il Sindaco di Ascoli Piceno (Avv. Guido Castelli)
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Senza dubbio il Premio Internazionale Ascoli Piceno ideato nel 1987 dall’illustre sindaco Gianni Forlini con la prestigiosa collaborazione del prof. Franco Cardini costituisce un evento di assoluto rilievo nell’ambito della cultura medievistica nazionale ed europea. Come Sindaco di Offida ho avuto il piacere e l’onore di ospitare nel mese di dicembre 2011, nell’ambito della XXIII edizione Premio, una delle giornate di studio ad esso connesse e ideate al fine di porre in luce anche rilevanti argomentazioni inerenti il patrimonio storico-artisticodocumentario di Ascoli e di tutto il territorio Piceno. Il tema dell’edizione 2011 Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del Maestro di Offida (secoli XIV - XV) è un tema particolarmente interessante non solo per la nostra cittadina, ma per tutto il territorio marchigiano ed abruzzese, poiché le opere del maestro di Offida si ritrovano anche ad Ascoli Piceno, Atri e Teramo e gli affreschi, che presentano un’uniformità di stile ed espressione, incontrano un alto gradimento da parte del pubblico. La chiesa di Santa Maria della Rocca è uno dei luoghi che maggiormente permettono di ammirare l’opera di questo artista che, non a caso, prende il nome convenzionale di Maestro di Offida. Le sue Madonne in trono, le Storie di santa Caterina d’Alessandria, di santa Lucia o gli altri santi raffigurati lungo le pareti della cripta, incantano ogni anno migliaia di visitatori cha non perdono occasione di esaltare la bellezza dei volti o delle vesti e la particolare tecnica con la quale le aureole sono state realizzate. Le giornate di studio sul maestro di Offida, con l’intervento di studiosi locali, esperti e ricercatori provenienti dai principali atenei italiani e stranieri, hanno consentito di approfondire alcuni temi ed aspetti poco conosciuti e soprattutto costituiscono una fonte aggiornata ed insostituibile per tutti coloro che vogliono scoprire e studiare la figura e le opere di un artista per noi così importante. Il Sindaco di Offida (Dr. Valerio Lucciarini De Vincenzi)
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PRIMA GIORNATA
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Introduzione ai lavori
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Autorità, illustri colleghi, gentili signore e signori, è con profonda soddisfazione che, quest’anno, inauguro a Offida il tradizionale convegno organizzato dall’Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli” in occasione del conferimento del Premio internazionale Ascoli Piceno. Nonostante le difficoltà e gli imprevisti, manifestatisi sino agli ultimi giorni, ce l’abbiamo fatta. E non era scontato. La crisi economica che sta attraversando il nostro paese, e che per primi ha colpito proprio gli enti e gli istituti di cultura, ha avuto le sue ricadute anche sul nostro Istituto che ha visto diminuire i finanziamenti e ha dovuto in parte ridimensionare le proprie attività o, quanto meno, ripensarle alla luce di una crescente mancanza di risorse. Ma, a dire il vero, non sono queste restrizioni che preoccupano. In momenti di generale difficoltà che – come è noto – investono l’Europa intera, è normale e anche giusto che si partecipi ai sacrifici di tutti. A far male è, semmai, il pretesto economico usato per sconsiderati attacchi alla cultura e al sapere umanistico, agli studi storici e, in particolare, a quelli sul medioevo, tacciati di superfluità e inutilità. Non mi riferisco al contesto ascolano, ai suoi cittadini e alle sue istituzioni, apparsi anche in queste circostanze esemplari per attenzione e disponibilità, ma a recenti dibattiti parlamentari durante i quali, a livelli davvero bassi di discussione, c’è chi si è chiesto «che cosa ancora ci sia da ricercare sul medioevo» e, senza vergogna, ha potuto affermare in un’aula parlamentare che «l’importanza di conoscere la propria storia si esplica nello studiare la storia, non continuando per centinaia di anni a fare ricerca». Credo, per carità di patria, che sia meglio astenersi da ogni commento su simili affermazioni; piuttosto teniamoci stretta la targa che il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha conferito all’Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli” per celebrare i venticinque anni di attività dell’Istituto stesso e occupiamoci del convegno.
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Grazie alle sinergie tra Ascoli ed Offida che, con infaticabile impegno, il presidente Luigi Morganti è riuscito ad attivare, è oggi possibile realizzare al meglio quel coinvolgimento del territorio che fin dall’inizio è stato uno dei più importanti punti programmatici individuato dal Comitato scientifico. Per la prima volta nella sua storia il convegno legato al Premio internazionale Ascoli Piceno si trasferisce per un giorno e anzi si inaugura in un importante centro del territorio come Offida. Prendendo spunto dalla produzione pittorica di un artista, conosciuto per l’appunto come maestro di Offida, attivo nella seconda metà del ’300 nell’area centroadriatica, si è voluto affrontare il più ampio tema della committenza artistica (o meglio, committenze, al plurale, e vedremo perché) in relazione alla civiltà urbana: un tema aperto come pochi a quella ricerca interdisciplinare che caratterizza la proposta scientifica dell’Istituto “Cecco d’Ascoli”, realizzata negli ultimi sei anni puntualmente attraverso i convegni, e intesa non come semplice giustapposizione di varie competenze, ma come confronto serrato e, a volte, integrazione, anche nel lavoro di uno stesso studioso, di prospettive diverse. Devo dire che in questa occasione, a parte lo specifico riferimento al maestro di Offida e dunque alle tradizioni culturali di questo territorio, non siamo stati innovativi come altre volte nella scelta tematica generale. Se ancora nel 1991, in un intervento inaugurale alla trentanovesima Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto, Ovidio Capitani poteva parlare di «coraggio nell’affrontare temi inusitati» a proposito dell’argomento scelto per quell’incontro (Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale)1, oggi, a venti anni di distanza, dobbiamo constatare come il rapporto tra produzione artistica e società, i messaggi simbolici e ideologico-politici trasmessi da opere singole o da cicli decorativi, la circolazione degli artisti e delle opere d’arte, l’indagine iconografica, i contenuti e le forme della committenza siano temi entrati definitivamente nel laboratorio dello storico . Nello stesso tempo, messe da parte antiche divisioni di scuole, gli storici dell’arte, con tecniche di indagine e strumenti euristici sempre più raffinati, e con riferimento, non esclusivo all’età rinascimentale, hanno spostato i riflettori dall’offerta alla domanda, hanno indagato in profondità l’interazione fra committenti ed artisti, si sono soffermati sulla tipologia delle opere e dei committenti stes-
1 O. Capitani, Saluto di apertura, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’Alto medioevo occidentale (4-10 aprile 1991), I, Spoleto 1992 (Centro italiano di studi sull’Alto medioevo, XXXIX), p. 16.
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si, mettendo in luce la pluralità e la diversità di questi ultimi, individuando committenti occulti, distinguendo i committenti ufficiali da quelli reali, introducendo, almeno per la produzione artistica rinascimentale, la figura del consigliere iconografico (per il medioevo l’ordinator), l’erudito, che suggerisce, sceglie e inventa i soggetti da rappresentare. È così che, anche in saggi recenti, si è visto nel committente «l’imprescindibile protagonista, in assenza del quale l’opera non sarebbe né progettata né realizzata»2. Del resto, già nel 1991 Enrico Castelnuovo sottolineava come l’«attività di alcuni grandi committenti avesse gran peso nel suscitare incontri e viaggi di artisti, nel far circolare esperienze, conoscenze, modelli, nel conferire e fare assumere carattere veramente europeo a certe esperienze, a certe formule, a far nascere quei fenomeni complessi e di ampia diffusione che chiamiamo stili»3. Non voglio però sostituirmi agli esperti che ascolteremo in queste due giornate di studio. Mi limito ad osservare, come ho già ricordato all’inizio, che nel titolo del convegno la parola “committenza” è declinata al plurale, “committenze”, a dire del tentativo, che spero trovi riscontri positivi nei contributi che verranno presentati, di individuare con metodo storico i promotori delle iniziative che portarono alla realizzazione di opere d’arte, non solo nel campo della pittura, e di quella del maestro di Offida in particolare, ma anche in quello della scultura, dell’architettura, della miniatura, delle opere di pubblica utilità e, molto spesso, di grande qualità artistica, come nel caso delle fontane cittadine. Sarà inevitabile, credo, far riferimento, anche solo in maniera implicita, ad una tipologia delle committenze: pubbliche, private, laiche, ecclesiastiche, individuali, collettive, di singoli uomini o donne (in questo caso anche nell’ottica di una possibile storia della committenza al femminile), di confraternite, ciascuna con la propria specificità, tenendo ben presenti le distinzioni, che pure occorre fare, tra richiesta di una singola opera (un ritratto, una statua) e monumenti complessi (altari, tombe) o di cicli pittorici. Con la tipologia delle committenze va poi di pari passo quella delle fonti, la prima delle quali è l’opera stessa dell’artista, il quale non infrequentemente ritrae i committenti, dà indicazioni varie, più o meno esplicite su di loro, e che, comunque è chiamato a realizzarne le intenzioni. Inesauribile fonte di conoscenze, a livello privato, sono poi i testamenti. Una splendida 2 A. Pinelli, Postfazione, in S. Settis, Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento, Torino 2010, p. 222. 3 E. Castelnuovo, Discorso conclusivo, in Committenti e produzione artistico-letteraria cit., II, p. 895.
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e pertinente riprova al riguardo è offerta dall’esemplare edizione, traduzione e presentazione del testamento di Enrico Scrovegni, committente della celeberrima cappella affrescata agli inizi del Trecento da Giotto in Padova, che Attilio Bartoli Langeli ha inserito nel volume einaudiano di Chiara Frugoni su Giotto e la cappella medesima4. Fu «il migliore affare di Enrico», secondo il titolo di quel libro che mira a ribaltare una consolidata tradizione circa le motivazioni che spinsero l’uomo d’affari padovano a erigere la cappella non a espiazione dei propri e paterni peccati di usura, ma a glorificazione di sé e celebrazione del buon uso delle ricchezze. Atti notarili, registri, libri di entrate e di uscite, inventari, statuti comunali sono altrettante miniere di informazioni e, a questo proposito, mi è sembrata giusta l’iniziativa di inserire tra i vari interventi di anteprima al convegno, una relazione (che non troveremo pubblicata in questo volume) sul patrimonio documentario di Santa Maria della Rocca di Offida, affidandola a Valter Laudadio. Nella prospettiva del convegno il tema delle committenze è posto d’altra parte in relazione con la civiltà urbana. Ne deriva una sollecitazione a riflettere su ciò che l’espressione “civiltà urbana” può significare nella Marca tardo medievale, tradizionalmente indicata come “terra di signori”, di castelli, di “quasi città” per riprendere una definizione di Giorgio Chittolini da tempo entrata nel lessico e nelle concettualizzazioni degli storici italiani. La stessa Offida, si sa, non appare nella documentazione del Tre-Quattrocento come civitas o castrum, ma come realtà intermedia: terra Offide, centro semiurbano e “città imperfetta”, almeno in un’ottica politico-istituzionale, se non in quella della cultura, dell’arte, degli stili di vita e, per l’appunto, della civiltà urbana . Tutto ciò in un tempo che, nella prospettiva del convegno, è quello del maestro di Offida, la cui biografia speriamo possa essere meglio definita, assieme alla cronologia delle opere; e in uno spazio corrispondente grosso modo a quello in cui si esplicò la sua attività, al confine tra Abruzzo e Marche e in territori politicamente differenziati e non omogenei: il Regno di Sicilia e lo Stato della Chiesa. Personalmente sono molto interessato alla ricostruzione, che penso verrà fatta nelle relazioni, non solo dei percorsi iconografici e stilistici, ma dell’intreccio di scambi politici, culturali ed economici che, fra Tre e
4 A. Bartoli Langeli, Il testamento di Enrico Scrovegni (12 marzo 1336), in C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, con l’edizione, la traduzione e il commento del testamento di Enrico Scrovegni, cur. A. Bartoli Langeli e un saggio di R. Luisi, Torino 2008, pp. 397-539; per una complessiva valutazione del volume della Frugoni e, al suo interno, del contributo di Bartoli Langeli vedi A. Rigon, Enrico Scrovegni, Giotto e la cappella di Santa Maria dell’Arena di Padova , «Arte veneta», 67 (2010), pp. 230-234.
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Quattrocento, caratterizzarono questo territorio. In realtà l’area di confine indicata, tra Ascoli Piceno e Teramo, i centri nei quali operarono il maestro di Offida e i suoi collaboratori sono gli stessi dove, in un periodo immediatamente successivo, si insediarono i Carraresi transfughi da Padova dopo la conquista veneziana della città, dando vita ad una forma di dominazione che appunto in Ascoli, con Conte da Carrara e i figli Ardizzone e Obizzo suoi successori , e in Teramo, dove contemporaneamente fu vescovo Stefano da Carrara, ebbe i suoi caposaldi, mentre Offida da una parte e Civitella del Tronto dall’altra ne erano i maggiori e più agguerriti avamposti nel territorio marchigiano ed abruzzese. Quanto ad Atri, sono noti i tentativi di Francesco Novello, signore di Padova, nei primissimi anni del Quattrocento, di far sposare il figlio Marsilio ad una figlia del duca Andrea Matteo d’Acquaviva. Cosa questo possa significare non so. Mi limito a ricordare che nella loggia al primo piano del palazzo comunale di Offida, a fianco del grande stemma di Ladislao di Durazzo († 1414), re di Napoli, sono riprodotti in basso, a sinistra e a destra, due scudi più piccoli con le insegne carraresi e che, d’altro canto, in uno degli affreschi con santi e madonne della splendida chiesa di Santa Maria della Rocca che l’Allevi reputava «meno antico degli altri»5, si legge la data 1423, età della presenza carrarese in Offida. Ripeto: non è possibile, allo stato attuale delle conoscenze, ricavarne alcunché di specifico in rapporto al tema di questo convegno. Mi limito ad osservare che l’area nella quale maggiormente si dispiegò l’attività del maestro di Offida e dei suoi seguaci, negli anni immediatamente successivi, fu caratterizzata non solo da un fitto intreccio di scambi culturali ed economici, ma da tentativi, sia pure effimeri, di unificazione politica sotto il dominio di una sola famiglia venuta da una città dell’alto Adriatico dalle altissime tradizioni artistico-culturali maturate proprio nel Trecento. Forse ci sarà modo di discuterne e magari aprire nuove piste di ricerca. Con questo augurio e con un caldo ringraziamento ai cittadini di Offida, al loro sindaco e alla loro Amministrazione per l’ospitalità e la collaborazione; ai Teramani per la presenza a queste giornate di studio; agli Ascolani per l’organizzazione, apro i lavori del convegno e chiamo a presiedere questa seduta il collega professor Giuliano Pinto, membro del Comitato scientifico dell’Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli”.
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G. Allevi, A zonzo per Offida, in Offida. Origini e storia, Offida 1979, p. 686.
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Per l’onore della città, per l’onore del signore. Circolazione di modelli politici e di artisti tra le signorie cittadine dell’Italia centrale (secolo XV)
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* La ricerca storica ha da tempo evidenziato come nell’Occidente della fine
del medioevo la committenza di opere d’arte e l’edilizia monumentale abbiano rappresentato un dovere sociale, una necessità politica per legittimare i poteri, nonché uno strumento di affermazione dei committenti e della loro appartenenza ad un gruppo dominante1. Tali meccanismi riguardano anche la committenza dei signori urbani dell’Italia centrale. Lo sviluppo contrastato di questi regimi nel corso del XIV e del XV secolo si accompagna ad una vera e propria fioritura artistica; i nuovi dirigenti moltiplicano committenze che consentono loro di offrire un’immagine consensuale del proprio potere, secondo una politica che tuttavia non è riducibile a
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* Le note di questo saggio si limitano ad indicare la bibliografia principale sul tema. Ringrazio sentitamente del loro preziosissimo aiuto e dei loro consigli Alessandra Borchi, Elisabeth Crouzet-Pavan, Stéphane Gioanni, Jean-Claude Maire Vigueur e Amedeo De Vincentiis. Sono particolarmente grato a quest’ultimo cosí come alla Borchi e a Rosanna Scatamacchia per la traduzione del mio testo in italiano. Tutte le fotografie che si trovano al termine del contributo sono dell’autore. Si ringraziano la dott.ssa Annamaria Menichelli, Madre Chiara Laura e le Suore clarisse di Santa Chiara di Camerino per aver cortesemente autorizzato l’esecuzione e la pubblicazione delle riprese fotografiche. 1 L. Green, Galvano Fiamma, Azzone Visconti and the Theory of Magnificence, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 53 (1990), pp. 98-113; M. Warnke, Liberalitas principis, in Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento. 1420-1530. Atti del convegno (Roma, 24-27 ottobre 1990), cur. A. Esch Ch.L. Frommel, Torino 1995, pp. 83-92; G. Guerzoni, Liberalitas, Magnificentia, Splendor: The Classic Origins of Italian Renaissance Lifestyles, in Economic Engagements with Art, cur. N. De Marchi - C.D.W. Goodwin, Durham-London 1999 (History of Political Economy Annual Supplement), pp. 332-378; R. Shepherd, Republican Anxiety and Courtly Confidence: the Politics of Magnificence and Fifteenth-Century Architecture, in The Material Renaissance, cur. M. O’Malley - E. Welch, Manchester-New York 2007, pp. 47-70. Uno studio collettivo sul mecenatismo ha tentato di utilizzare i concetti dell’economia dell’informazione e del signalling model: The Patron’s Payoff. Conspicuous Commissions in Italian Renaissance Art, cur. J.K. Nelson - R.J. Zeckhauser, Princeton-Oxford 2008.
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quella di un mecenate principesco in miniatura2: l’onore del signore e della sua famiglia non può essere celebrato senza essere strettamente associato a quello della città stessa, o del comune o del popolo. Tale principio conduce alla declinazione ed all’associazione di diversi modelli politici, cioè di diverse forme di potere e di governo, sottese da un complesso di rappresentazioni culturali, che contribuiscono ad organizzare i rapporti sociali. Questo articolo riguarda la prima metà del XV secolo e si concentra sui Trinci di Foligno, pur accordando un’importanza speciale ad altre due signorie a loro strettamente legate, i da Varano di Camerino e i Chiavelli di Fabriano. Entro tali confini, saranno analizzate la circolazione da una città all’altra dei protagonisti di tali vicende e le ricadute di questa mobilità sulla committenza artistica. Vedremo in particolare come gli spostamenti dei signori e dei loro emissari (a) rafforzino il ruolo dirigente dei primi e consentano la condivisione, all’interno dell’élite del tempo, di una stessa cultura visiva, condensata in immagini polisemiche, che possono essere utilizzate per legittimare il potere signorile (b). Quindi passeremo ad analizzare come la circolazione di pittori chiamati dall’una o dall’altra città risulti indispensabile alle politiche di rappresentazione attraverso l’immagine dei dirigenti (c). Concluderemo esaminando come tali spostamenti contribuiscano a stringere le relazioni tra gli stessi signori, nel quadro di una politica di raccomandazioni o grazie al ruolo di intermediari in questioni extraartistiche talvolta affidato a singoli artisti (d). a) La diplomazia del viaggio: signori in movimento
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Le signorie cittadine si costituiscono progressivamente in seno a sistemi comunali: il loro avvento completa tali assetti, spesso modificandoli significativamente, senza per questo portare alla loro scomparsa3. I nuovi regimi si rafforzano grazie agli scambi con altre città, quale che sia il loro sistema politico, come pure alla circolazione di merci e uomini. Gli spostamenti di magistrati e mercanti, di specialisti del diritto, di professionisti
2 G. Benazzi, I cicli pittorici del tempo d’Ugolino e Corrado Trinci, in Il palazzo Trinci di Foligno, a cura di G. Benazzi - F.F. Mancini, Perugia 2001, p. 459. Un panorama delle corti italiane, comprese le minori, è stato recentemente delineato in Corti italiane del Rinascimento. Arti, cultura e politica, 1395-1530, cur. M. Folin, Milano 2010: per il nostro tema, si veda in particolare A. De Marchi, L’area umbro-marchigiana, pp. 308-325. 3 Da ultimo A. Zorzi, Le signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Milano-Torino 2010; Communes and Despots in Medieval and Renaissance Italy, cur. J.E. Law - B. Paton, Farnham-Burlington 2010.
PER L’ONORE DELLA CITTÀ, PER L’ONORE DEL SIGNORE
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delle armi o del denaro tessono relazioni che rinforzano lo «statum pacificum prosperum et tranquillum» che gli scritti del tempo indicano quale obiettivo ideale dei governanti4. Per quanto sia impossibile calcolare con precisione il tempo che i membri delle diverse dinastie signorili trascorrono al di fuori delle loro rispettive città, i cronisti coevi offrono l’impressione di continui spostamenti. Basti citare le operazioni militari, come quella che vede coinvolto Ugolino Trinci a capo di cento lance al soldo di Perugia nel 13885, oppure quella che porta Berardo da Varano e alcuni capitani ad occupare Roma assieme a Braccio da Montone nel 14176. Ma oltre alle esigenze della guerra, altre ragioni spingono questi signori a lunghi percorsi per ritrovarsi. I passatempi aristocratici, ad esempio, implicano spostamenti significativi, come la battuta di caccia che riunisce a Nocera l’appena ricordato Berardo, un membro dei Chiavelli e due dei signori di Foligno nel 1421. E così pure i legami matrimoniali che associano strettamente le famiglie signorili dell’Italia centrale rappresentano occasioni di viaggi e celebrazioni festive, alle quali partecipano insieme Chiavelli, Malatesti, Fortebracci, Varani, Guinigi, Trinci e Montefeltri7. Nel novembre del 1397, Biordo Michelotti sposa Giovanna Orsini, figlia del conte Bertoldo: per le vie di Perugia si snoda un corteo sontuoso in cui, accanto alla giovane sposa ed agli ambasciatori di Firenze e Venezia, cavalca anche Chiavello Chiavelli8. Alcuni avvenimenti straordinari consentono ulteriori viaggi, come l’investitura del principato di Capua a Braccio da Montone nel 1423. Nel palazzo comunale di Perugia ed alla presenza dei signori di Camerino e di Fabriano, il condottiero riceve una corona aurea dalle mani di Corrado III Trinci, scelto dai sovrani di Napoli come loro rappresentante e la cui nipote aveva sposato da poco il figlio di Braccio9. 4 L’espressione compare, tra l’altro, nella bolla di concessione del vicariato in temporalibus concessa da Bonifacio IX a Chiavello e Tommaso Chiavelli nel 1404: Fabriano, Archivio Storico Comunale, Pergamene, carte diplomatiche, b. XII, n. 523. 5 La condotta è edita in Note e documenti raccolti e pubblicati da Ariodante Fabretti che servono ad illustrare le biografie dei capitani venturieri dell’Umbria, Montepulciano 1842, p. 63. 6 Il diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, ed. F. Isoldi, Città di Castello 1916-1917 (R.I.S.2, 24/5), p. 111. 7 Per esempio, E. Rossi Finamore, Il pranzo di nozze di Gentile Varano e di Isabetta Bevilacqua a Fano alla corte di Galeotto Malatesti, in Le signorie dei Malatesti. Atti della giornata di Studi Malatestiani a Camerino, Rimini 1990 (Storia delle signorie dei Malatesti, 5), pp. 67-97. 8 Cronache della città di Perugia, ed. A. Fabretti, I (1308-1438), Torino 1887, pp. 53-54. 9 Johannis Antonii Campani Braccii Perusini Vita et Gesta. Ab anno MCCCLXVIII usque ad MCCCCXXIV, ed. Valentini, Bologna 1929 (R.I.S.2, 19/4), p. 191; Frammenti di cronaca perugina inedita, ed. O. Scalvanti, «Bollettino della Regia Deputazione di Storia
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Viaggi e spostamenti non sono solo occasioni per manifestare una posizione sociale eminente o per stringere alleanze tra famiglie, ma conferiscono anche visibilità ai nuovi uomini forti delle città italiane, contribuendo ad imporli all’esterno come interlocutori nelle relazioni diplomatiche, definendoli come veri attori politici. Rafforzando la loro visibilità, in definitiva, queste apparizioni al di fuori delle mura della città permettono ai signori di legittimare il proprio ruolo al loro interno, così come all’interno del comune. Peraltro, tali ripetuti spostamenti vengono compresi nel funzionamento delle istituzioni cittadine in modo da non comprometterne il funzionamento. Nel novembre del 1426, Corrado III Trinci prevede di recarsi a Roma in occasione delle nozze di Antonio Colonna, principe di Salerno e nipote di Martino IV, e di raggiungere laggiù il conte Guidantonio da Montefeltro. In previsione della sua assenza, Corrado nomina nove cittadini che affianchino i priori del popolo, per sostenere il figlio Ugone nella gestione degli affari correnti10. Nei casi in cui non viaggiano in prima persona, i signori inviano messaggeri e ambasciatori e, a loro volta, ricevono emissari da altre città, incaricati di negoziare alleanze o difendere gli interessi dei loro concittadini. In effetti, nel quadro di organismi politici che inglobano istituzioni comunali e popolari, corpi politici molteplici e pratiche di governo personale egemonizzate da una famiglia, la diplomazia risulta un collante indispensabile11. La permeabilità tra pubblico e privato, che caratterizza le formazioni statuali dell’Italia tardomedievale fa sì che gli scambi diplomatici accrescano l’onore della città e del comune e, al tempo stesso, consolidino la posizione delle famiglie che ormai li codirigono12.
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b) Circolazione di modelli iconografici e formazione di immagini polisemiche del potere Tali spostamenti comportano tuttavia una seconda conseguenza.
Patria per l’Umbria», 11 (1905), p. 601: la cronaca perugina anonima del XV secolo, che cita la presenza dei signori di Camerino e di Fabriano, non ne specifica l’identità. 10 Foligno, sezione Archivio di Stato, Riformanze, 24, f. 111v. 11 K. Isaacs, Sui rapporti interstatali in Italia dal medioevo all’età moderna, in Origini dello stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, cur. G. Chittolini - A. Molho, Bologna 1996, pp. 113-132; N. Covini, Guerra e relazioni diplomatiche in Italia (secoli XIV-XV): la diplomazia dei condottieri, in Guerra y Diplomacia en la Europa Occidental 1280-1480. Actas de la XXXI Semana de Estudios Medievales de Estella (19-23 luglio 2003), Pamplona 2005, pp. 163-189. 12 Chittolini, Il «privato», il «pubblico», lo Stato, in Origini dello stato cit., pp. 553-589.
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Grazie ad essi, i membri dell’élite e dell’aristocrazia urbana acquisiscono una cultura visiva comune. Come noto, nel Trecento e nel Quattrocento le città italiane sviluppano un’intensa comunicazione politica, fondata in particolare sulle immagini dipinte. Un «vero lessico politico visuale», composto da simboli e figure allegoriche complesse, viene utilizzato per elaborare messaggi politici dai molteplici livelli di significato13. Uomini illustri, rappresentazioni astrologiche o arti liberali sono i temi più diffusi, adatti ad una decifrazione immediata, per quanto certamente non trasparente ed univoca14. Sovente combinati gli uni con gli altri, tali temi costituiscono il nucleo di immagini dipinte o scolpite su committenza dei regimi comunali, nel Palazzo pubblico di Siena come sulla Fontana Maggiore di Perugia15. I comuni popolari utilizzano tali immagini per consolidarsi, trasmettendo un messaggio centrato sulle virtù dei loro reggenti e sulla pretesa saggezza che consentirebbe loro di governare la comunità cittadina e di riscuoterne il consenso16. Per quanto abbondantemente sfruttata dalla propaganda comunale, la tematica della saggezza dei governanti non è certo un suo monopolio; al contrario, essendo tale concetto diffuso come fondamento del potere poli-
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13 M.M. Donato, Testi, contesti, immagini politiche nel tardo Medioevo: esempi toscani. In margine a una discussione sul “Bon Governo”, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 19 (1993), pp. 305-355. 14 Il senso, che le immagini costruiscono, rimane plurale, ma la comunicazione politica, per essere efficace, utilizza elementi visuali agevolmente decifrabili, che indicano la significazione generale dell’insieme pittorico. Sull’argomento nei cicli degli uomini illustri, Donato, Gli eroi romani tra storia ed exemplum. I primi cicli umanistici, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, cur. S. Settis, II: I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, pp. 95-152, in particolare p. 98. Per altri esempi, mi permetto di rimandare a J.-B. Delzant, La compagnie des hommes illustres: mobilisation et usage d’un thème au XVe siècle, in La politique de l’histoire en Italie. Arts et pratiques du réemploi. Atti del convegno di Parigi (16-17 ottobre 2009), cur. C. Callard - É. Crouzet-Pavan - A. Tallon, Paris 2012, pp. 211-251. 15 Sul palazzo pubblico di Siena, Palazzo Pubblico di Siena. Vicende costruttive e decorazione, cur. C. Brandi, Milano 1983; sugli affreschi: P. Boucheron, «Tournez les yeux pour admirer, vous qui exercez le pouvoir, celle qui est peinte ici». La fresque du Bon Gouvernement d’Ambrogio Lorenzetti, «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 60 (2005/6), pp. 1137-1199. Sulla fontana maggiore di Perugia, G. Nicco Fasola, La fontana di Perugia, Roma 1951; K. Hoffmann-Curtis, Das Programm der Fontana Maggiore in Perugia, Düsseldorf 1968. 16 E. Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento. Atti del convegno di Trieste (2-5 marzo 1993), cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 157-182; E. Crouzet-Pavan, Enfers et paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, Paris 2001, pp. 181-182; sul tema della comunicazione politica: The Languages of Political Society. Western Europe, 14th-17th Centuries. Atti del workshop (Milano, 30 settembre-2 ottobre 2010), cur. A. Gamberini - J.-P. Genet A. Zorzi, Roma 2011 (I libri di Viella, 128).
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tico in tutto l’Occidente, anche le monarchie vi fanno frequentemente ricorso. Nel 1372, Jean Corbechon conclude la traduzione in volgare del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, commissionata dal re di Francia Carlo V. L’opera, scritta nel XIII secolo, è una delle enciclopedie medievali più diffuse. Nel prologo che aggiunge al suo Livre des propriétés des choses, il cappellano del sovrano ricorda che:
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la nobiltà di un cuore regio, innanzitutto, deve sovranamente desiderare di regnare e di governare i suoi sudditi secondo il bene, l’onore e la giustizia. Ciò non è possibile senza la saggezza e per questo deve, dopo Dio ma prima di ogni altra cosa, amare e desiderare la saggezza.
E quindi Corbechon aggiunge:
Sappiamo che il glorioso re di Francia Carlo studiava varie scienze e che aveva fatto dipingere con splendore nel suo palazzo le sette arti liberali affinché, quando non aveva il tempo di vederle nei suoi libri, le potesse contemplare in pittura17.
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I Trinci e i da Varano non sono certo i Valois, ma il passaggio di Corbechon mi sembra esemplare del modo in cui le allegorie dipinte delle arti liberali possano servire alla messa in scena di un sovrano che intende fondare la propria legittimità sulla saggezza. Così, la sapienza diventa uno degli attributi del potere monarchico. Dal canto suo, il mondo comunale italiano conosce appieno tale argomento, diffuso a vari livelli nella sfera politica come in quella culturale, diffuso tra la popolazione urbana da trovatori e poeti. Un cantare sulla guerra di Troia, tra gli altri, racconta come le genti di Priamo avessero ricevuto il sostegno del sovrano dell’Asia, «Epistropo, un re vechissimo,/ Che tucte septe l’arti liberali/ Seppe e fune mastro soctilissimo»18. Al di fuori dell’universo romanzesco, il topos appare anche nelle opere encomiastiche dedicate ai signori cittadini: la saggezza vi compare come un segno cruciale della legittimità esibita da un pote-
17 «La noblesse d’un cœur royal doit souverainement et en premier lieu désirer de régner et de gouverner ses sujets, selon le bien, l’honneur et la justice. Cela, il ne peut le faire sans sagesse et c’est pourquoi, il doit, après Dieu et avant toutes choses, aimer et désirer la sagesse. […] Du glorieux roi de France Charles, nous apprenons qu’il étudiait plusieurs sciences et qu’il avait fait très richement peindre en son palais les sept arts libéraux afin que, lorsqu’il n’avait pas le temps de les voir en ses livres, il pût les contempler en peinture»: Livre des propriétés des choses de Barthélémi l’Anglais. Une encyclopédie au XIVe siècle, intr., trad., comm. B. Ribemont, Paris 1999, pp. 53-54. 18 F. Ugolini, I cantari d’argomento classico con un’appendice di testi inediti, Genève Firenze 1933 (Biblioteca dell’ «Archivium Romanicum», 19), p. 194.
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re che si vorrebbe dinastico, sebbene profondamente radicato in una delega di autorità consentita dalla comunità civica. Nel 1414, Pierangelo di Bucciolino compone una Legenda di San Feliciano, in onore del santo patrono di Foligno. L’opera è dedicata ai Trinci e, senza imbarazzi, il signore del tempo, Ugolino III, vi è definito «compagno […] della somma sapientia». Pierangelo aggiunge che lo stesso Ugolino addirittura «vestìse delle septe liberali»19. È la stessa tematica che appare in bella mostra nel palazzo di famiglia dei Trinci, la cui decorazione è ultimata verso il 1411-141220. Assise su imponenti troni, le allegorie femminili delle arti liberali circondano la Filosofia [Fig. 1] e fronteggiano altre sette figure che, nella stessa sala, condensano ciascuna tre elementi: un astro, una divinità antica ed un giorno della settimana21. Come quelle delle arti liberali, le rappresentazioni degli astri fanno parte del repertorio utilizzato dai poteri laici medievali per affermare la propria legittimità: fanno apparire questi poteri come risultato di una configurazione favorevole dei componenti dell’universo di cui, a loro volta, i governanti, saggi e capaci, sono in grado di sfruttare adeguatamente le opportunità22. Anche la letteratura sottolinea come gli eroi saggi sappiano utilizzare politicamente tali immagini. Nel Roman d’Alexandre, l’autore, nel descrivere la tenda del re macedone, si attarda sulla rappresentazione dei pianeti, dei mesi, dei giorni e delle ore, tutti segni della sapienza e delle ambizioni del conquistatore23. Programmi iconografici di questo tipo ornano le mura di vari luoghi del potere nell’Italia della fine del medioevo. Nella Rocca di Angera, divinità planetarie dominano le lunette della sala che il vescovo Ottone Visconti fa dipingere durante la costruzione della propria signoria personale, alla fine del decennio del 127024; a Siena gli astri appaiono nella cornice del ciclo del Buon Governo. L’associazione di figure astrologiche alle allegorie delle Arti liberali in una stessa sala, nel cuore del palazzo Trinci, connota così la residenza del signore come un vero e proprio luogo di rap-
19 Pierangelo di Bucciolino, Legenda di San Feliciano. Poemetto in volgare degli inizi del secolo XV, ed. S. Nessi, «Bollettino Storico della Città di Foligno», suppl. 4 (2003), p. 69. 20 Benazzi, I cicli pittorici cit., pp. 471-488. 21 Così, ad esempio, il pianeta Marte, il dio eponimo della guerra e il giorno martedì. 22 Sul tema, D. Blume, Regenten des Himmels. Astrologische Bilder in Mittelalter und Renaissance, Berlin 2000; J. Wirth, L’image à la fin du Moyen Âge, Paris 2011, pp. 275-285. 23 A. Parisiensi, Le roman d’Alexandre, ed. L. Harf-Lancner, Paris, 1994, pp. 195-205. 24 D. Blume, Planetengötter und ein christlicher Friedensbringer als Legitimation eines Machtwechsels: die Ausmalung der Rocca di Angera, in Europäische Kunst um 1300. Akten des XXV. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte (Wien, 4-10 settembre 1983), cur. H. Fillitz - M. Pippal, Wien 1986, pp. 175-186.
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presentazione del potere. Un potere presentato come fondato sulla saggezza del signore che, per suo conto, sa approfittare delle occasioni offerte dalla Fortuna. La casualità e l’instabilità del corso della dea bendata, evocate dalla composizione ondeggiante delle figure degli astri, delle ore del giorno e delle età della vita, sono fronteggiate dalla solidità fornita da una saggezza incarnata da personaggi installati su troni solidi e robusti. C’è un ulteriore elemento che va evidenziato: le allegorie delle Arti liberali dell’affresco sono prevalentemente prese a prestito dalla fontana maggiore di Perugia25. La posa delle figure femminili, come pure molti dei loro attributi, paiono citazioni dirette delle sculture di Nicola e Giovanni Pisano, di cui riprendono anche alcune innovazioni iconografiche [Figg. 23, 4-5, 6-7]26. Ultimata nel 1278, la fontana è un exploit tecnico e artistico dedicato all’onore della città, così come a quello del regime che ne ha promosso la costruzione, il comune popolare. Agli inizi del XV secolo, le signorie di Gian Galeazzo Visconti (1400-1402) e poi del re di Napoli Ladislao (1408-1414) mettono fine all’indipendenza di Perugia e del suo regime comunale27; ma la fontana maggiore continua a manifestare la grandezza passata del comune stesso, perpetuandone la memoria. Nel caso di palazzo Trinci, nessun documento permette di determinare il grado di coinvolgimento di Ugolino III nella concezione del programma decorativo, né di provare quindi che la scelta di citare le Arti liberali di Perugia sia a lui direttamente riconducibile. Ma in genere i contratti per la realizzazione di affreschi o di tavole nell’Italia del XIV e XV secolo tendono a mostrare che il committente abbia una idea piuttosto precisa di ciò che intende ottenere e che intervenga regolarmente nel processo di creazione dell’opera28. Inoltre, è assai probabile che Ugolino abbia avuto conoscenza diretta dei bassorilievi dei fratelli Pisano, allo stesso modo di altri potenti del tempo che avevano soggiornato nella città del Grifo. Come suo figlio Corrado, il committen-
25 La somiglianza è rilevata, ma senza ulteriori commenti, anche da A. Dunlop, Painted Palaces. The Rise of Secular Art in Early Renaissance Italy, University Park (Pennsylvania) 2009, p. 74. 26 V. gli studi di Fabio Stok che contestualizza le sculture dei Pisano nella lunga durata delle rappresentazioni delle Arti liberali: F. Stok, La raffigurazione delle Arti liberali, in Il linguaggio figurativo della fontana maggiore di Perugia. Atti del convegno (Perugia, 14-16 febbraio 1994), cur. C. Santini, Perugia 1996, pp. 291-312. 27 J.-C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, Torino 1987 (Storia d’Italia, cur. G. Galasso, VII/2), pp. 560-561. 28 M. O’Malley, The Business of Art. Contracts and the Commissioning Process in Renaissance Italy, New Haven-London 2005; S. Settis, Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento, Torino 2010 (ed. orig. Annali della Storia d’Italia, IV: Intellettuali e potere, cur. C. Vivanti, Torino 1981).
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te deve per lo meno essere consapevole che le figure del suo palazzo echeggiano una delle realizzazioni artistiche di maggior spicco dei comuni dell’Italia centrale. Tali immagini, in effetti, sviluppano un discorso in figura che condensa gli aspetti contrastanti del dominio dei Trinci sulla città. Ugolino ed i suoi detengono un potere, divenuto dinastico, il cui fondamento risiede nella persona stessa del signore, in colui che «vestìse» delle arti liberali, come ricorda il letterato Pierangelo di Bucciolino nella sua Legenda di San Feliciano. Ma Ugolino resta anche, e innanzitutto sul piano giuridico, il primo magistrato del comune. Gli affreschi di palazzo Trinci attestano così un vero e proprio gioco con la memoria visiva dell’identità comunale, un’assimilazione dei segni più noti dell’ideologia ancora ben viva su cui quel tipo di regime si è fondato più di due secoli prima. c) Fasto e consumo di immagini. Pittori per l’onore della città, del comune e del signore
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Nel mondo delle città italiane, dove le immagini risultano essenziali alla comunicazione politica, la presenza di pittori e scultori si rivela una necessità. Le qualità estetiche di questo tipo di messaggio, infatti, appaiono tanto importanti per la loro efficacia comunicativa da essere considerate dagli stessi poteri che le commissionano. I grandi lavori promossi dalle autorità comunali, con un ritmo sempre più sostenuto a partire dalla seconda metà del Duecento, includono nelle loro motivazioni ufficiali anche la ricerca della “pulchritudo”29. Questa finalità emerge sia nelle decisioni riguardanti lo sviluppo urbanistico, sia nella committenza di immagini: l’onore della città viene accresciuto dalla sua bellezza visiva. Una petizione dei senesi indirizzata al Consiglio dei Nove nel 1316, a proposito del degrado degli affreschi del palazzo del podestà, sostiene che:
Ciascun comune riceve grande onore quando i suoi rettori e dirigenti risiedono in un luogo comodo, bello e onorevole: sia per loro stessi, sia per i forestieri che continuamente vi si recano per molte diverse ragioni. E ciò è vero in particolare per il comune di Siena, tenuto conto della sua qualità30.
E. Crouzet-Pavan, Les villes vivantes. Italie, XIIIe-XVe siècle, Paris 2009, pp. 152-159. Documenti per la storia dell’arte senese, I: secoli XIII e XIV, cur. G. Milanesi, Siena 1854, doc. 30, pp. 180-181: «et magnus honor etiam comunibus singulis, ut eorum rectores et presides bene, pulchre et honorifice habitent, tum ratione eorum et ipsorum, tum ratione forensium, qui persepe ad domos rectorum accedunt ex causis plurimis et diversis. Multo tamen constat Comuni Senensi secundum qualitatem ipsius». 29 30
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In questo caso, l’argomento è riferito ai luoghi del potere civile; ma è altrettanto valido per le residenze che i Trinci, i Chiavelli e i da Varano hanno fatto costruire nel centro delle loro città, dove si radunano regolarmente alcuni organi comunali e dove sono ricevuti gli ospiti di rango. La “pulchritudo” è ricercata anche con mezzi meno durevoli. Le pitture che ornano gli spazi del potere vengono amplificate da innumerevoli decorazioni effimere. Apparati di questo tipo sono realizzati in occasione delle visite di personaggi importanti: vengono allora innalzate architetture effimere di legno e tessuti, si dipingono sulle mura gli emblemi dei diversi poteri, oppure si restaurano decorazioni già esistenti. Un pittore come Ottaviano Nelli riceve frequenti committenze legate a questo genere di occasioni. Nel 1400 viene incaricato di rappresentare le armi di Gian Galeazzo Visconti sugli edifici pubblici di Perugia, non appena la città passa sotto il controllo del duca di Milano. Undici anni dopo il comune di Gubbio, città sottomessa alla signoria dei Montefeltro, paga Nelli per confezionare e decorare le banderuole appese alle trombe31. Sempre a Gubbio, nell’estate del 1433, quando Sigismondo di Lussemburgo attraversa la penisola per recarsi a ricevere la corona imperiale a Roma, il comune ordina che la città sia abbellita con decori per il passaggio del monarca. Alcune bandiere, realizzate appositamente, sono fatte sventolare dalle mura e le autorità affidano a Nelli la fabbricazione di un baldacchino in cui il pittore deve eseguire «picturas armorum domini Imperatoris, domini nostri Pape, Illustris domini nostri [comitis Guidantoni da Montefeltro] et Communis Eugubii»32. Poco dopo, Sigismondo viene accolto in pompa magna nel palazzo dei Trinci33. Per tali festeggiamenti i governi devono disporre rapidamente di artisti, le cui competenze e abilità non facciano sfigurare la comunità che li ingaggia e talvolta essere pronti a gratificarli concedendo loro alcuni privilegi. A Foligno, il comune ha esonerato i muratori dai turni di guardia: nel maggio del 1430, un certo Giovanni di Cola reclama l’esenzione davanti al signore in virtù della propria appartenenza «de numero magistrorum lapidum et pictorum», e Corrado Trinci accoglie la richiesta34. Un’esenzione di tale rilievo viene determinata senz’altro dai rapporti di forza interni, tra 31 F. Rossi, Ottaviano Nelli: note per la biografia di un pittore di corte, «L’arte» (già «Archivio Storico dell’Arte»), (giugno-settembre 1967), pp. 6, 26: «pro drappo et francijs et pictura penonum tubarum et sutura ipsorum». 32 Ibid., p. 20. 33 Delzant, La compagnie des hommes illustres, in Usages de l’histoire et pratiques politiques cit. 34 Foligno, Biblioteca comunale, ms. F. 55-1-257, f. 91r.
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le corporazioni ed il comune, ma per essere confermata deve essere solidamente giustificata: i pittori forse la sostengono ricordando il loro contributo alla difesa dell’onore civico, mentre i muratori, che appartengono alla medesima corporazione, possono ricordare la protezione concreta della città, che assicurano con la manutenzione delle mura. La richiesta di Antonio sembra dunque essere ben fondata. Nulla lascia pensare che le sue relazioni con il signore gli abbiano consentito di beneficiare di un particolare privilegio, quanto piuttosto che abbia ottenuto il riconoscimento di un diritto per la sua appartenenza alla corporazione dei pittori e come tale riconosciuto da tutti i magistrati cittadini. In altri casi, tuttavia, alcuni artisti beneficiano di interventi speciali e diretti da parte dei signori35. Il 16 dicembre 1432, a Foligno, alcuni canonici di San Salvatore si riuniscono nel coro della collegiata. Ci sono Niccolò di Marco, Astorre di Onofrio Trinci e Angelo di Agostino, vicario di Rinaldo, priore in carica e figlio di Corrado III. Davanti al notaio Tommaso di Angelo di Pietro, i canonici riconoscono un debito di 24 fiorini dovuto dal capitolo a Bartolomeo di Tommaso, «pro residuo» del pagamento di «unius cone per ipsum facte et fabricate in dicta ecclesia ad requisitionem et postulationem dictorum prioris et canonicorum»36. Lo stesso giorno, con un secondo atto, i canonici saldano il debito, dando in affitto un terreno a Bartolomeo per otto anni, con un canone equivalente alla somma dovuta e probabilmente fittizio. La critica è concorde nel riconoscere nell’immagine citata dall’atto il trittico esposto oggi al Museo della Città-Pinacoteca Comunale di palazzo Trinci. Grazie al parere degli eruditi del XVII secolo, si è identificato il personaggio del pannello centrale, inginocchiato ai piedi della Vergine, nel priore Rinaldo, considerato il committente dell’opera37. Tuttavia, sembra che sia stato piuttosto il padre di Rinaldo a giocare un ruolo determinante nella committenza e nel pagamento dei pannelli. I canonici dichiarano di essersi riuniti il 16 dicembre «per ordine e volontà del magnifico e eccelso signore Corrado Trinci, padre del detto priore», per poi dichiarare che la concessione del terreno 35
Sui rapporti fra signori e artisti di corte, Warnke, L’artiste et la cour: aux origines de l’artiste moderne (ed. orig.: Hofkünstler: zur Vorgeschichte des modernen Künstlers, 1985), Paris 1989. 36 I dettagli dell’episodio si trovano negli atti notarili parzialmente editi da M. Sensi, Documenti per Bartolomeo di Tommaso da Foligno, «Paragone / Arte», 325 (marzo 1977), appendice, docc. III e IV, pp. 133-135. 37 V. la scheda di F. Coltrinari in Matteo di Gualdo. Rinascimento eccentrico tra Umbria e Marche, catalogo della mostra (Gualdo Tadino, 21 marzo-27 giugno 2004), cur. E. Bairati - P. Dragoni, Città di Castello 2004, pp. 117-123.
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è stata effettuata, nuovamente, «per volontà» di Corrado38. La posizione attribuita a Trinci padre, la formula insistente con cui si ricorda che Rinaldo è suo figlio e la presenza del vicario Angelo si chiariscono alla luce di un ulteriore documento. Nel settembre 1430 Rinaldo rinuncia a due prebende con un atto redatto dal medesimo notaio, il quale, due anni dopo, viene chiamato per il pagamento del trittico. Ed il testo specifica che il figlio del signore allora aveva un’età compresa tra i sette ed i quattordici anni39: la giovane età del priore si aggiunge così agli interventi paterni nei pagamenti nel confermare che fu proprio Corrado a ricoprire un ruolo eminente nella committenza del dipinto. Tutto lascia pensare che il signore di Foligno sia stato in contatto diretto con Bartolomeo, se non addirittura associato fin dall’inizio alla decisione della committenza ed alla scelta di un artista originario della sua città, per quanto attestato ad Ancona già dal 142540. I due atti notarili non consentono di dire se la committenza del polittico per l’altare maggiore di San Salvatore sia stata imposta dal signore, però un altro documento testimonia che dopo il 1432 Bartolomeo resta particolarmente legato a Corrado Trinci. Infatti, il 31 marzo 1434 il pittore firma un contratto a Fano per la decorazione della facciata e di una cappella della chiesa di San Giuliano. L’atto fissa l’inizio dei lavori al mese successivo e, come d’abitudine, vieta a Bartolomeo di operare contemporaneamente su un altro cantiere. Prevede tuttavia un’eccezione: nel caso in cui «il magnifico signore di Foligno» abbia fatto richiedere il pittore durante il suo lavoro a Fano, Bartolomeo è autorizzato ad assentarsi per un massimo di quindici giorni dalla città41. Una durata così breve non permette certo di intraprendere lavori impegnativi, ma gli artisti talvolta esercitano diverse attività professionali contemporaneamente: qualora si tratti di eventuali impegni artistici, sarà solamente questione di realizzazioni molto
38 Sensi, Documenti per Bartolomeo cit., doc. III, p. 134: «de mandato et volumptate magnifici et excelsi domini Corradi de Trinciis, patris dicti prioris»; doc. IV, p. 135: «volumptate prefati magnifici domini Corradi». 39 S. Nessi, I Trinci signori di Foligno, Foligno 2006, appendice documentaria, n. 185, p. 251. Questa menzione invalida l’identificazione del figlio di Corrado III, priore di San Salvatore eletto vescovo della città nel 1438, con il «nobilem et egregium virum dominum Raynaldum Conradi de Trinciis de Fulgineo», eletto priore della cattedrale nel 1400. M. Faloci Pulignani, I priori della cattedrale di Foligno, «Bollettino della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 20 (1914), pp. 332-336. 40 Sensi, Documenti per Bartolomeo cit., docc. I et II, pp. 132-133. 41 Ibid., doc. IX, pp. 138-140: «Salvo et reservato quod si Magnificus dominus Fulginei micteret pro dicto magistro Bartolomeo, tempore dicti laborerii, possit magister Bartolomeus ad ipsum Magnificum dominum ire et morari, in eundo, stando et redeundo solum per XV dies et non ultra et etiam pro minori spatio, si possibile erit, operando et solicitando eius reditum cum illo Magnifico domino quanto frequentius fieri poterit».
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puntuali, di consigli o di progetti. D’altronde, come Nelli, anche Bartolomeo di Tommaso viene incaricato di rappresentare emblemi su edifici e monumenti. Nel 1434, riceve cinque ducati da un referendario dei Malatesta di Fano per «cinque arme a la schachiera» dipinte «a oro fino» «su la cassa de la felici memoria del magnifico Signor messer Pandolfo»42. Il contratto di San Giuliano indica dunque che Corrado si riserva di chiamare artisti di cui si fida particolarmente e proprio quando, poco dopo il passaggio dell’imperatore, il signore è impegnato in un’attività diplomatica e militare che richiede anche una politica di immagine. Trinci, infatti, raggiunge nel 1434 il campo di Francesco Sforza, appena giunto in Umbria43. L’alleanza è sigillata dal matrimonio della figlia di Corrado, Marsobilia, con il fratello di Francesco, Leone, e le nozze sono celebrate a Foligno alla fine del gennaio 1436, alla presenza del potente capitano44. Non è necessario collegare la clausola sui servizi a Corrado III del contratto di Fano ad un avvenimento preciso: va piuttosto sottolineata l’abbondanza di occasioni per le quali i talenti di un pittore di fama potevano essere sollecitati. Per quanto destinate ad una breve durata, le committenze legate a questo tipo di celebrazioni completano le decorazioni parietali monumentali, contribuendo alla messa in scena del potere e confermando il ruolo di un signore che opera al contempo per l’onore suo e della sua città. d) Sapere impiegare i pittori fuori dalla città
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Gli spostamenti dei pittori, più o meno indotti dai signori, sono sfruttati da questi ultimi, e, in questa parte conclusiva, mi soffermerò su tre opzioni, diverse ma compatibili, dell’utilizzo di tale circolazione. La diplomazia culturale di Lorenzo il Magnifico nell’ultimo quarto del Quattrocento è considerata emblematica del ruolo attribuito agli artisti nelle relazioni tra governi e stati; ma, per quanto spettacolare, non deve far dimenticare alcuni precedenti altrettanto efficaci. Gli artisti, inviati o raccomandati presso altre città, rinsaldano i legami tra gruppi dirigenti e, non 42 Ibid., doc. XII, pp. 142-143: «per cinque arme a la schachiera, le qual de’ fari su la cassa de la felici memoria del magnifico Signor messer Pandolfo, a oro fino et a tucte suo spixi». Morto nel 1427, Pandolfo III Malatesta venne sepolto nella chiesa di San Francesco di Fano: dunque, sette anni dopo la sua scomparsa, il suo monumento funebre non era ancora ultimato. 43 Nessi, I Trinci cit., pp. 163-164. 44 Ibid., p. 169 e nota 146, p. 181.
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a caso, i loro spostamenti si svolgono su vie già tracciate dalle alleanze matrimoniali. A partire dal 1370, Ludovico Gonzaga, signore di Mantova, invia numerose ambasciate nella penisola per cercare di evitare che sia minacciata ulteriormente la sua posizione già indebolita da rivalità familiari. Nel 1375 Gonzaga riesce a riavvicinarsi a Bernabò Visconti, ottenendo la mano della figlia di questo per uno dei propri; tuttavia, ostacolo dopo ostacolo, il matrimonio non viene celebrato prima del 138145. Nel frattempo, però, i legami tra le due corti non si sono interrotti, e, in una lettera del 1380, il nipote di Bernabò, Giangaleazzo, scrive a Ludovico affinché gli siano inviati «quatuor vel sex bonos depictores qui sciant bene facere figuras et animalia» per la decorazione del castello di Pavia. Il conte di Virtù afferma di sapere che «in civitate [su]a Mantue esse bonos depictores»46, ma la sua richiesta consente anche di mantenere la trama delle relazioni diplomatiche. Le frequenti richieste di un artista fra una corte e l’altra facilitano tali relazioni, alimentando i legami di reciproca benevolenza fondati sullo scambio di favori non eccessivamente impegnativi. Molte tappe della carriera di Ottaviano Nelli si inseriscono in tale prospettiva. Uomo di fiducia dei Montefeltro, fin dal primo decennio del secolo Nelli ricopre vari incarichi politici nel comune di Gubbio ed alla fine della sua carriera, nel 1438-1439, diviene membro del Consiglio stretto, che convoca il conte per l’approvazione di alcuni provvedimenti finanziari47. Nel 1434 la moglie di Guidantonio commissiona al pittore, attivo a Urbino già dalla fine del secondo decennio del Quattrocento, un ritratto del figlio Oddantonio «nanti a santo Rasimo, col fameglio e col cavallo»48. Tra un allontanamento e l’altro da Gubbio, Nelli opera poi in varie altre città, come Foligno, dove realizza nel 1424 il ciclo della Vita della Vergine commissionatogli da Corrado III per la sua cappella palatina. Il conte di Urbino, raggiunto da Corrado a Roma per i festeggiamenti del 1426, ha giocato un ruolo essenziale nell’evoluzione delle relazioni tra Martino V e il principale alleato dei Trinci, Braccio da Montone: la committenza del signore di Foligno ad un pittore vicinissimo ai Montefeltro si inserisce così nel quadro di scambi amichevoli e diplomatici nell’ambiente signorile, che gli artisti contribuiscono ad alimentare. Per quanto la sua presenza possa essere legata ai Chiavelli solo ipoteticamente, è degno di nota che nel corso dello stesso
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I. Lazzarini, Ludovico Gonzaga, in Dizionario Biografico degli Italiani, 57, Roma 2001, p. 800. 46 Documenti diplomatici tratti dagli archivj milanesi, cur. L. Osio, I, Milano 1864, p. 212. 47 Rossi, Ottaviano Nelli cit., pp. 4, 16-17. 48 Ibid., p. 15.
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decennio Nelli operi anche a Fabriano, dove realizza una Madonna col Bambino nel complesso ospedaliero di Santa Maria del Piangato attorno al 142049 e, contemporaneamente, i pannelli del cassone funebre del beato Pietro Becchetti, destinato all’oratorio del convento di Sant’Agostino50. La politica di raccomandazione di artisti, funzionale alle relazioni tra famiglie signorili o tra città vicine, è ben esemplificata da un secondo caso. La bottega di Giovanni di Corraduccio domina il mercato di Foligno nella prima metà del XV secolo51. Assieme ai suoi collaboratori, infatti, il maestro lavora nei principali edifici politici e religiosi della città e del suo distretto, come nel monastero di Sant’Anna e in quello di Santa Croce a Sassovivo, due enti strettamente legati alla famiglia Trinci52. Ugolino III dal 1394 è titolare dello juspatronato sulla potente abbazia benedettina di Santa Croce e nel 1411 vi fa nominare abate un suo parente stretto, Giacomo, che resta in carica fino al 144053. Sempre Giovanni di Corraduccio viene impiegato a Fabriano ed a Camerino, vale a dire nei centri dominati da due famiglie inserite nella rete di matrimoni incrociati mediante la quale Ugolino è intento a rafforzare la propria posizione. Il pittore realizza negli anni dieci del Quattrocento una Crocifissione per la sala capitolare di Santa Maria Nuova nella quale, tra la folla dei personaggi affaccendati ai piedi della Croce, va verosimilmente riconosciuto Rodolfo III da Varano nella figura orante seguita da uno scudiero [Figg. 8-9]54. Negli anni 1380-1385 lo zio di Rodolfo, Giovanni, aveva contribui-
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49 L’affresco è oggi visibile in via Cialdini, v. gli articoli di G. Donnini, in «L’Azione» (22 maggio 1993) e «Gubbio Arte» (aprile 1993), ristampati in Donnini, Appunti d’arte tra Marche e Umbria, s. loc. 2005, pp. 150-154. 50 F. Marcelli, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”, Fabriano 1997, p. 74. 51 Giovanni di Corraducio, Catalogo della mostra (Montefalco, agosto 1976), cur. P. Scarpellini, Foligno 1976; E. Lunghi, Pittori di Foligno e pitture a Foligno e dintorni, in Pittura a Foligno 1439-1502. Fonti e studi. Un bilancio, cur. B. Toscano, Foligno 2000, pp. 171-226; C. Ranucci, Giovanni di Corraduccio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 55, Roma 2001, pp. 781-783. 52 L’abbazia di Sassovivo a Foligno, Foligno 1992; Il monastero di Sant’Anna a Foligno. Religiosità e arte attraverso i secoli, cur. A.C. Filannino, Foligno 2010. 53 Sensi, La signoria dei Trinci: ascesa di una famiglia, in Il palazzo Trinci di Foligno cit., pp. 7-8. 54 La chiesa venne dedicata in seguito a santa Chiara, divenuta eponima. A. De Marchi, Pittori a Camerino nel Quattrocento: le ombre di Gentile e la luce di Piero, in Pittori a Camerino nel Quattrocento, cur. De Marchi, Milano 2002, pp. 33-36; nn. 60 e 72 pp. 9091; M. Sensi, Due “drammatiche” crocifissioni già sovrapposte a S. Chiara di Camerino, in Un desiderio senza misura. Santa Battista Varano e i suoi scritti. Atti della IV giornata di studio sull’Osservanza francescana femminile (Camerino, 7 novembre 2009), cur. P. Messa - M. Reschiglian - Clarisse di Camerino, Assisi 2010, pp. 307-334.
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to alla fondazione del monastero a Camerino55, occupato dagli Olivetani fino al 1408: forse l’incarico a Giovanni di Corraduccio è legato all’insediamento della nuova comunità. Sebbene la storia del monastero rimanga punteggiata da lacune è comunque accertato che altri benedettini, quelli di Sassovivo, da tempo stabiliti in città nel monastero di Sant’Angelo in Platea, intervengono nella gestione di Santa Maria Nuova almeno dal 145556. Strette relazioni familiari, legami istituzionali: esistono dunque indizi che collocano il pittore di Foligno nel circuito signorile. Nell’aprile 1415, maestro Giovanni è a Fabriano per dipingere la storia della Santa Croce nella collegiata di San Venanzio, principale chiesa della città [Figg. 10-11]. Gli affreschi ornano la cappella nominata nella documentazione «cappella heredum Ciucciarelli Bonaventure» e sono finanziati da un lascito testamentario57. Anche in questo caso, la documentazione nota non consente di stabilire una relazione tra questa commessa ed i Chiavelli: tuttavia, mette in luce una rete di rapporti, ed in particolare nella loro città di provenienza, che permettono agli artisti di ottenere incarichi lavorativi anche in altri centri. Probabilmente Giovanni non è stato preceduto dalla sua fama a Fabriano, se uno dei testimoni del contratto ritiene necessario specificare di «cognoscere infrascriptum pictorem»58. La sua chiamata è legata a relazioni di altro genere. In effetti, il personaggio che gioca un ruolo fondamentale nella scelta dell’artista, che definisce le storie da illustrare, oltre a quelle della Croce, e che interviene personalmente nel pagamento dei dipinti tre mesi dopo, il canonico della collegiata Rainaldo di Cicco di Tommasuccio, è strettamente legato a Foligno: vi deteneva un canonicato e l’altare che ha fondato nella chiesa di San Venanzio è dedicato al protettore della città dei Trinci, san Feliciano59. L’ombra di Corrado Trinci sull’attività di Bartolomeo di Tommaso negli anni 1432-1434 evidenzia relazioni tra pittori e signori che perdurano ben oltre la realizzazione di una singola committenza. Chiamati o raccomandati altrove, oppure semplicemente autorizzati a circolare, gli artisti
55 G. Remiddi, Monastero di Santa Chiara a Camerino, in Studi storici per Angelo Antonio Bittarelli, cur. G. Tomassini, Camerino 2001, pp. 158-159. 56 Sensi, Due “drammatiche” crocifissioni cit., pp. 323-324. 57 Si vedono le indicazioni nel regesto di S. Felicetti, Documenti per la storia dell’arte medievale a Fabriano e nel suo contado, in Il maestro di Campodonico. Rapporti artistici fra Umbria e Marche nel Trecento, cur. F. Marcelli, Fabriano 1998, nn. 123-124, p. 218. 58 Ibid., n. 123, p. 218. 59 Le pergamene dell’archivio domenicano di S. Lucia in Fabriano, ed. R. Sassi, Ancona 1939, n. 110, pp. 31-32. L’autore, senza indicare le fonti, sostiene che Rainaldo era canonico folignate.
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conferiscono visibilità ai signori che li impiegano o che li hanno già impiegati in precedenza. Non è inopportuno, forse, interrogarsi sui ruoli extra artistici svolti da questi pittori nei loro spostamenti, senza dovere sempre supporre strategie deliberate da parte loro o da parte dei signori. Resta il fatto che, seppure non sempre indotta dai loro patroni, la mobilità di questi artisti finisce spesso per avvantaggiare anche coloro che li proteggono. La committenza artistica, infatti, può avere effetti collaterali: i viaggi sono occasione di incontri, conversazioni, discussioni, e anche così si tessono, o a volte si sfilacciano, le reputazioni di patroni e signori. Nel seguire questi percorsi, le cui evidenze diventano quasi impercettibili, lo storico deve certo muoversi con cautela, ma non per questo rinunciare ad interpretare dati suggestivi. Il padovano Battista di Domenico, ad esempio, nell’orbita dei Trinci almeno dal 1411, si trova certamente nella posizione di poter diffondere l’immagine positiva che i suoi signori vogliono ritagliarsi. Dopo aver realizzato gli affreschi commissionati da Ugolino III sotto la supervisione di Gentile da Fabriano, assieme ad altri tre maestri e ai loro aiuti, il padovano resta a lungo presso il suo committente ed a Foligno trova persino moglie60. Il contratto di dote viene redatto il 18 giugno 1426 nella sala degli Imperatori di palazzo Trinci. Alla presenza di Corrado e di molti suoi ufficiali «et multis aliis familiaribus prefati magnifici domini», i genitori della sposa cedono i diritti su vari beni immobiliari a Battista e le parti giurano di rispettare gli impegni contratti ovunque si trovino. L’atto sgrana i nomi delle città di Foligno, Napoli, Roma, Padova, tutti luoghi dove l’artista probabilmente avrebbe dovuto operare e senz’altro rendere noto anche lì quanto aveva già fatto per i suoi signori61. Un ultimo esempio indica come talvolta i pittori fungano da tramite per negoziati politici o transazioni commerciali; ovvero come i signori sappiano servirsi della presenza in altri centri di artisti a loro legati per attività che non hanno nulla di artistico ma tornano comunque a loro vantag-
60 Per la realizzazione dell’affresco, v. Il manoscritto intitolato Appunti sopra la città di Fuligno. Scritti da Lodovico Coltellini accademico fuliginio. Parte nona. 1770-1780, ed. L. Lametti, in Il palazzo Trinci di Foligno cit., p. 428. Battista di Domenico viene citato come primo testimone in un atto notarile dell’8 dicembre 1412 che attesta l’affitto di un terreno posseduto dall’abbazia di Sassovivo a Foligno e in cui agisce il procuratore della comunità, ovvero l’abate Giacomo Trinci. In seguito, il pittore appare in altre transazioni in cui sono coinvolti, a diverso titolo, familiari dei Trinci, v. S. Felicetti, Pittori forestieri a Foligno nel primo Quattrocento. Regesto documentario, in Nuovi studi sulla pittura tardogotica. Palazzo Trinci. Atti della terza sessione del convegno Intorno a Gentile da Fabriano e a Lorenzo Monaco (1° giugno 2006), cur. A. Caleca - B. Toscano, Livorno 2009, p. 114. 61 Ibid., doc. 21, pp. 127-128.
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gio . Più che dalle competenze tecniche dei pittori, queste missioni erano determinate da relazioni di fiducia personale, molto probabili per quanto non direttamente documentate. Il caso di Luca di Paolo è esemplare. Nel 1471 il pittore è nominato legittimo procuratore e nunzio speciale degli Ottoni, signori di Matelica, con l’incarico di vendere una bottega che questi possiedono a Fabriano; quindi viene inviato a Firenze per sbrigare qualche altro affare della famiglia signorile63. Nessuna di queste missioni è dunque riconducibile all’appartenenza di Luca all’arte dei pittori. Giovanni Angelo d’Antonio, invece, è presente a Firenze negli anni 1440 nelle vesti di artista. È ben introdotto nel circolo mediceo tanto da ricevere talvolta la sua corrispondenza «in casa di Cosimo» e, una volta rientrato a Camerino, da potersi firmare in una lettera a Giovanni di Cosimo dei Medici come «el vostro minimo servidore Iohanni Angelo d’Antonio dipintore da Camerino, el quale sonava de liotto»64. Ma Giovanni Angelo resta vicino soprattutto ai da Varano. Elisabetta Malatesta, madre di Rodolfo IV, gli domanda di accompagnare il figlio in un viaggio a Ferrara ben prima di commissionargli la grande Annunciazione di Spermento, attorno al 1455. Le ottime relazioni del pittore con i Medici possono essere messe a profitto anche della casata dei suoi patroni: nell’aprile del 1451 Elisabetta ed i suoi lo incaricano di proporre a Giovanni di Cosimo il matrimonio con una «magnificha fanzulla» di circa tredici anni, cugina germana di Rodolfo65. L’affare non ha seguito, ma mostra come i viaggi dei pittori ed i legami intessuti in quelle occasioni possano essere utilizzati, anche alcuni anni dopo, in funzione di alleanze ed amicizie politiche da parte dei signori protettori dei pittori.
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La stabilità dei regimi signorili presi in esame dipende, in effetti, dalla mobilità degli uomini. L’accoglienza di ospiti importanti, come pure gli spostamenti dei signori fuori della propria città, rafforzano la posizione di quei detentori di un potere personale ambivalente. Ed anche molti aspetti della committenza artistica si chiariscono alla luce di tale mobilità. La com62 De Marchi, L’area umbro-marchigiana cit., p. 310. 63 S. Biocco, Un dipinto a Matelica e nuove acquisizioni su Luca di Paolo, in I da Varano
e le arti. Atti del convegno (Camerino, 4-6 ottobre 2001), cur. De Marchi - P.L. Falaschi, Ripatransone (AP) 2003, I, regesto, nn. 2-3, p. 417. 64 E. Di Stefano - R. Cicconi, Regesto dei pittori a Camerino nel Quattrocento, in Pittori a Camerino nel Quattrocento cit., n. 56, p. 453; n. 78, pp. 455-456. 65 Ibid., n. 78, pp. 455-456. Si tratta di una figlia di Battista Chiavelli e Guglielmina da Varano, sorella del marito di Elisabetta. L’adolescente risiede a Camerino dopo l'uccisione del padre e dei suoi a Fabriano nel 1435 e, in realtà, dovrebbe avere almeno 16 anni.
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mittenza stessa viene arricchita da questa circolazione, poiché assieme agli uomini si spostano anche modelli iconografici: divenute riconoscibili in una dimensione sovralocale, le immagini sono reinserite in programmi decorativi rinnovati, nei quali si caricano di significati molteplici. Esse contribuiscono inoltre ad arricchire il modello politico della signoria cittadina, al quale forniscono riferimenti concettuali e visivi, grazie ai quali il regime può trasmettere un’immagine di se stesso e definire la natura del proprio potere, cosí come quella dei rapporti tra le istituzioni civiche. Inoltre è la committenza stessa, a sua volta, a sollecitare la mobilità, chiamando pittori e artisti a collaborare alla messa in scena dei diversi poteri locali. Ma le ricadute di questa circolazione non si limitano alle sole opere realizzate. Gli artisti, una volta ingaggiati, proseguono per la loro strada, si inseriscono in una politica di raccomandazioni e di scambi di favori tra signori, veicolano l’immagine lusinghiera dei loro protettori o si adoperano persino come intermediatori matrimoniali. La committenza artistica svela i suoi risvolti politici solo se ricompresa nel quadro di tali pratiche e tali scambi.
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Fig. 1 - Collaboratori di Gentile da Fabriano, Sala delle Arti Liberali e dei Pianeti, Palazzo Trinci, Foligno
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Fig. 3 - Collaboratore di Gentile da Fabriano, La Musica, sala delle Arti Liberali e dei Pianeti, Palazzo Trinci, Foligno
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Fig. 2 - Nicola e Giovanni Pisano, La Musica, Fontana Maggiore, Perugia
Fig. 4 - Nicola e Giovanni Pisano, L’Aritmetica, Fontana Maggiore, Perugia
Fig. 5 - Collaboratore di Gentile da Fabriano, L’Aritmetica, sala delle Arti Liberali e dei Pianeti, Palazzo Trinci, Foligno
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Fig. 6 - Nicola e Giovanni Pisano, La Grammatica, Fontana Maggiore, Perugia
Fig. 7 - Collaboratore di Gentile da Fabriano, La Grammatica, sala delle Arti Liberali e dei Pianeti, Palazzo Trinci, Foligno
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Fig. 8 - Giovanni di Corraduccio, Crocifissione, monastero di Santa Chiara (giĂ Santa Maria Nuova), Camerino
Fig. 9 - Giovanni di Corraduccio, Crocifissione, particolare: committente (Rodolfo III da Varano?) e scudiero, monastero di Santa Chiara (giĂ Santa Maria Nuova), Camerino
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Fig. 10 - Giovanni di Corraduccio, Crocifissione, San Venanzio (oggi cattedrale), Fabriano
Fig. 11 - Giovanni di Corraduccio, Storia della Santa Croce, particolare: Sant’Elena in preghiera, San Venanzio (oggi cattedrale), Fabriano
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Nelle Marche meridionali fra Tre e Quattrocento: cittĂ , regimi, committenza artistica
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L’epoca del maestro di Offida, compresa fra la seconda metà del Trecento e il primo quarto del Quattrocento, corrisponde ad una delle più tormentate e convulse fasi nella storia delle Marche meridionali. Si trattò indubbiamente di un periodo di “crisi” per le città, contrassegnato da una vera e propria “eclissi” demografica: le ricorrenti epidemie di peste, il concomitante calo della produzione agricola, nonché le frequenti devastazioni delle truppe mercenarie nelle campagne, provocarono infatti un netto tracollo della popolazione urbana e rurale. La crisi investì pure la sfera politica: in questi anni le città e i centri minori delle Marche meridionali vennero a trovarsi all’interno di lotte di potere di respiro sovraregionale, nei cui meccanismi finirono per essere facilmente fagocitate. Mentre nel resto dell’Italia centro-settentrionale, procedendo verso la metà del Quattrocento, l’«incoativo sistema» di stati territoriali tendeva a comporsi in quadri regionali tendenzialmente più ordinati2, nel Piceno continuava a perdurare uno spiccato particolarismo. Esso si rendeva evidente nel tessuto insediativo a maglie molto strette, nella presenza pervasiva di tanti contadi come in un mosaico dalle tessere di minime proporzioni, nella mancata ricomposizione in unità territoriali più ampie e gerarchicamente disposte. Lo schema di fondo dello stato cittadino, combinato con il policentri-
1 Per un quadro comparativo sull’evoluzione demografica delle città delle Marche e dell’Italia centrale fra Tre e Quattrocento, M. Ginatempo - L. Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990, pp. 117128 e relativa bibliografia, pp. 263-270; l’espressione usata nel testo è mutuata dal titolo di Ginatempo, Dietro un’eclissi: considerazioni su alcune città minori dell’Italia centrale, in Italia 1350-1450: Tra crisi, trasformazione, sviluppo, Pistoia 1993, pp. 35-76; per un quadro d’insieme, G. Pinto, Le città umbro-marchigiane, in Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale. Aspetti economici e sociali, Pistoia 2003, pp. 245-272. 2 G. Chittolini, Ascesa e declino di piccoli stati signorili (Italia centro-settentrionale, metà Trecento), «Società e storia», 31 (2008), pp. 455-480: 476.
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smo e con la densità degli insediamenti urbani, si sarebbe perpetuato del resto anche nei secoli successivi, lungo tutta l’epoca di antico regime. Se si osservano la geografia urbana e gli spazi giurisdizionali controllati dai centri urbani della Marca meridionale alla metà del Quattrocento, l’immagine che si compone appare quasi per nulla mutata rispetto alla matura età comunale. Nell’area compresa fra le valli dei fiumi Tenna e Tronto, accanto alle città di Fermo e di Ascoli, che mantenevano la giurisdizione su quei castelli controllati già alla metà del Duecento, continuavano ad esercitare una seppur modesta egemonia territoriale, in area collinare, Sant’Elpidio a Mare, Montegiorgio, Monterubbiano, Montefiore, Ripatransone e Offida, ai quali si aggiungeva Amandola nella fascia appenninica. Nella relazione redatta nel 1371 dal cardinale Anglic de Grimoard, fratello di papa Urbano V, nonché vicario papale nello Stato della Chiesa, Fermo appare come una delle due chiavi di volta (claves) della Marca, insieme ad Ancona: nel suo laconico rendiconto il legato la definiva notabilis civitas, caratteristica che non ravvisava invece per Ascoli3. Non è però nel rango ascrivibile alla città di Fermo che devono essere ricercati i caratteri originali della civiltà urbana del Piceno alla fine del Trecento. È invece nella persistenza di un ruolo attivo dei centri minori che risiede tale cifra. Ne sono prova le parole rivelatrici e quasi di stupore espresse da un fine diplomatico della corte angioina di Napoli, Nicolò Spinelli, il quale nel 1392, passando in rapida rassegna i centri urbani dello Stato papale in vista di un costituendo Regnum Adrie sotto il controllo di Luigi d’Angiò Durazzo, per le Marche affermava: «Sunt in ista provincia multa notabilissima castra, quasi sint civitates»4, anticipando di molti secoli, in modo del tutto inconsapevole, un fortunato e perspicuo concetto storiografico, quello di “quasi-città”5. L’elenco stilato dall’emissario angioino è
3 A. Gamberini, Grimoard, Anglic de, in Dizionario biografico degli Italiani, 59, Roma 2002, pp. 679-683; il testo documentario dei Praecepta […] de conditione et statu […] civitatis Bononiensis et provinciarum Romandiole ac Marchiae Anconitanae (1371) è edito in A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis Sanctae Sedis. Recueil de documents pour servir à la histoire du gouvernement temporel des États du Saint-Siège extraits des Archives du Vatican, II, Rome 1862, pp. 527-539. 4 A. Esch, Bonifaz IX und der Kirchenstaat, Tübingen 1969 («Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 29), pp. 639-644: 642; il testo documentario si riferisce al fallito progetto di Clemente VII (papa avignonese) di conferire a Luigi d’Angiò Durazzo un istituendo Regnum Adrie in risposta ai favoritismi di Urbano VI (papa romano) nei confronti di Carlo di Durazzo e di Giovanna II di Napoli; sull’estensore del testo, cfr. G. Romano, Niccolò Spinelli da Giovinazzo, diplomatico del sec. XIV, Napoli 1902. 5 G. Chittolini, “Quasi-città”. Borghi e terre in area lombarda nel tardo medioevo, «Società e storia», 47 (1990), pp. 3-26 (riedito in Chittolini, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano 1996, pp. 85-104).
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in realtà molto farraginoso e poco coerente: egli conosce poco o nient’affatto il contesto regionale, utilizzando evidentemente dati e informazioni di seconda mano. Nel dettaglio, Fermo gli appariva come una notabilis civitas, mentre Ascoli era designata optima civitas; per entrambe rilevava la presenza di porti fiorenti sul mare Adriatico6. Fin qui nulla di originale; quella che appare invece significativa è la sua chiara percezione della Marca di Ancona (e segnatamente dell’area centro-meridionale) come regione di “quasi-città”, fatta cioè di centri di modeste proporzioni demografiche che però, per le capacità di iniziativa politica, per la composizione sociale e il ruolo economico, per il controllo di un pur modesto territorio, potevano essere in tutto assimilate alle sedi episcopali7. Di fronte a tale peculiarità delle Marche meridionali, dobbiamo lamentare a fortiori la mancanza di puntuali ricerche, per il periodo considerato, sui centri minori di quest’area: un bilancio d’insieme appare dunque prematuro, mentre risulterebbero propedeutiche nuove ricerche sulle fonti d’archivio. Le osservazioni che seguono si concentreranno pertanto sulle due città maggiori, Fermo e Ascoli, su cui disponiamo di maggiori dati, suscettibili di interpretazioni complessive più coerenti. Si tratta di storie che procedono per molti versi in modo parallelo e che si prestano dunque perfettamente ad un’analisi sinottica8. Nel testo che segue, cercherò dunque di organizzare i contenuti incardinandoli su alcuni percorsi di lettura, fra loro strettamente correlati: i fattori esterni e “perturbanti” che condizionarono profondamente le vicende storico-politiche delle città picene; l’avvicendarsi dei regimi all’interno delle città; l’evoluzione dei ceti dirigenti urbani; la civiltà urbana in relazione alle forme di committenza artistica.
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Le città e l’anarchia politica nello stato della Chiesa
La trama degli eventi storici che interessarono l’area picena fra Tre e Quattrocento appare assai convulsa e i suoi contorni sfuggenti. La situazione, del resto, non era troppo diversa in gran parte dell’Italia centro-settentrionale o nel Mezzogiorno, soprattutto negli anni travagliati della lotta per 6 7
Esch, Bonifaz IX cit., p. 641. Per uno sguardo comparativo, cfr. G. Taddei, Comuni rurali e centri minori dell’Italia centrale tra XII e XIV sec., «Mélanges École Française de Rome. Moyen Âge», 123/2 (2011), pp. 319-334. 8 Per uno sguardo sintetico e comparativo sulle due città picene: G. Pinto, Ascoli, Spoleto 2013 (Il medioevo nelle città italiane, 4); F. Pirani, Fermo, Spoleto 2010 (Il medioevo nelle città italiane, 2).
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la successione alla regina Giovanna II alla corona nel regno angioino di Napoli, tanto che il paradigma della complessità potrebbe apparire po’ logoro e liquidatorio. Se però si considerano sia la profonda crisi politica e autoritativa in cui precipitò lo Stato della Chiesa durante gli anni dello Scisma, sia il procedere della costruzione statale «per accelerazioni e strappi», si comprende allora come le Marche meridionali (così come un po’ tutte le terre della Chiesa) divennero non soltanto la «camera di compensazione», ma anche la cassa di risonanza dei conflitti che agitavano le maggiori potenze territoriali italiane9. Lo Scisma infatti ebbe come effetto anche quello di immettere molte città della monarchia papale in contesti e scontri politici di più ampio raggio, nei cui ingranaggi però queste finirono spesso per assumere un ruolo vicario e quasi di pedine fra le maggiori potenze della penisola10. Questo ruolo subalterno appare evidente già negli anni immediatamente precedenti lo Scisma, durante la Guerra degli Otto Santi, che fra 1375 e 1378 oppose il papato avignonese ad una Lega, capeggiata da Bernabò Visconti, alla quale aderirono le più importanti città dell’Italia centrale (Firenze, Bologna, Siena, Perugia)11. Non si dovrà restare abbagliati dal tono infervorato delle lettere scaturite dalla penna di Coluccio Salutati e inviate dalla Prima Cancelleria della Repubblica fiorentina alle città di Fermo e di Ascoli, nelle quali si esalta la libertas repubblicana e al contempo si denigra la gallicana tirannis per guadagnare le città della 9
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S. Carocci, Vassalli del papa. Potere pontificio, aristocrazie e città nello Stato della Chiesa (XII-XV sec.), Roma 2010, p. 19; sulle vicende politiche nello Stato della Chiesa, cfr. P. Partner, The Lands of St. Peter. The Papal State in the Middle Ages and the early Renaissance, London 1972, pp. 366-395; relativamente all’area marchigiana, in estrema sintesi, P.L. Falaschi, Le Marche di san Giacomo, in San Giacomo della Marca nell’Europa del ‘400. Atti del Convegno di studi (Monteprandone, 7-10 settembre 1994), cur. S. Bracci, Padova 1997, pp. 141-169. 10 Per uno sguardo complessivo sui rapporti di potere fra grandi e piccole “potenze” nell’Italia del Quattrocento, R. Fubini, “Potenze grosse” e piccolo stato nell’Italia del Rinascimento. Consapevolezza della distinzione e dinamica dei poteri, in Il piccolo stato. Politica storia diplomazia. Atti del convegno di studi, San Marino, 11-13 ottobre 2001, cur. L. Barletta - F. Cardini - G. Galasso, San Marino 2003, pp. 91-126. 11 Sulla guerra degli “Otto Santi”, per la trama degli eventi cfr. A. Gherardi, La guerra dei Fiorentini con papa Gregorio XI detta la guerra degli Otto santi. Documenti, «Archivio storico italiano», 47 (1867), pp. 208-232; 48 (1867), pp. 229-257; 51 (1868), pp. 260-296; J. Glénisson, Les origines de la revolte de l’État pontifical en 1375. Les subsides extraordinaires dans les provinces italiennes de l’Église au temps de Grégoire XI, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 5 (1951), pp. 145-168; G. Mollat, Les papes d’Avignon (1305-1378), Paris 1965, pp. 159-165; A. Jamme, Renverser le pape. Droits, complots et conceptions politiques aux origines du Grand Schisme d’Occident, in Coups d’États à la fin du Moyen Âge?, cur. F. Foronda - J.Ph. Genet - J.M. Nieto Soria, Madrid 2005, pp. 433-482.
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Marca di Ancona alla causa della Lega . L’ingresso di queste ultime nell’alleanza antipapale comportò allora una subordinazione de facto alla politica fiorentina e fu gravida di importanti conseguenze a livello locale. A Fermo non è certo un caso che l’instaurazione della signoria di Rinaldo di Monteverde, avvenuta nel dicembre 1375, fosse del tutto concomitante con l’adesione della città alla Lega: Rinaldo infatti era stato appena ingaggiato dalla Repubblica fiorentina come capitano di ventura e dunque l’autorità personale del condottiero sulla città picena faceva certo buon gioco ai Fiorentini per indurre l’intera area picena a passare dalla propria parte13. Cosa che poi avvenne puntualmente, poiché Rinaldo, insieme ad altri capitani di ventura, nel marzo 1376, pose sotto assedio Ascoli, ultima città della Marca rimasta fedele a papa Gregorio XI, e riuscì a cacciare, dopo nove mesi, il governatore della città, Gomez Albornoz, nipote del cardinale Gil de Albornoz. Nelle lettere gratulatorie inviate a Rinaldo da Coluccio Salutati si leggono parole di profonda lode per il condottiero fermano che si era distinto nell’impresa ascolana per affermare strenuamente la libertas dal giogo ecclesiastico. Resta tuttavia ferma l’impressione che l’intera area picena subisse allora la supremazia politica della città del Giglio, evidente del resto nel susseguirsi in quegli anni, sia a Fermo che ad Ascoli, di ufficiali fiorentini (o della Toscana egemonizzata da Firenze) a capo dell’amministrazione cittadina14. Ad Ascoli l’egemonia fiorentina si riverberò anche sulla redazione dello statuto del 137715. Non soltanto il proemio inneggiava apertamente «ad honore, triumpho et exaltatione de la filice Legha della italica libertà, et de tucti l’altri colligati et maxime de li magnifichi Communi de le ciptà di Fiorenza et de Perusia», ma la stessa partizione del testo normativo fra statuti del comune e statuti del popolo rispecchiava la tradizionale divisione fra statuto del podestà e del capitano del popolo, tipica dell’ordinamento fiorentino. Un trentennio più tardi, il cortocircuito tra la storia italiana e quella ascolana si fa ancora più clamoroso: nelle alterne e tormentate vicende della successione per il Regno di Napoli, nel 1406 Innocenzo VII
12 Lettere di stato di Coluccio Salutati: cancellierato fiorentino (1375-1406), cur. A. Nuzzo, Roma 2008, ad indicem. 13 Per i riferimenti alle fonti, F. Pirani,“Crudelissimo Nerone”: la memoria damnata di Rinaldo da Monteverde, signore di Fermo († 1380), «Studia picena», 76 (2011), pp. 83-110: 85-96. 14 Per Fermo: Giovanni Bartolini dei Paganelli di Arezzo, podestà nel 1375, Migliore di Guadagni di Firenze, podestà nel 1376, Picaro dei Tolomei di Siena, podestà nel 1377, Giovanni di Cambio di Firenze, Capitano del Popolo nel 1379; per Ascoli: Cipriano dei Tornaquinci di Firenze, podestà nel 1377, Rosso dei Ricci di Firenze, podestà nel 1380. 15 Statuti di Ascoli Piceno, edd. G. Breschi - U. Vignuzzi, I, Ascoli Piceno 1999, p. 3.
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giunse perfino concedere Ascoli in vicariato a Ladislao d’Angiò Durazzo, per poi però revocare la carica appena due anni dopo, al rapido mutare delle alleanze politiche16. L’episodio non rappresentò soltanto una breve parentesi, dal momento che Ladislao, in quel lasso di tempo, introdusse importanti cambiamenti costituzionali ad Ascoli, decretando l’abolizione della magistratura del Capitano del popolo e promuovendo una riforma statutaria; nel campo economico, inoltre, volle incrementare gli scambi commerciali promuovendo una fiera annuale, in occasione della festa di sant’Emidio. Durante il periodo dello Scisma la debolezza del potere papale si rese particolarmente evidente nel conferimento del vicariato in temporalibus per 25 anni alle città di Fermo e di Ascoli, elargito nel 1390 da Bonifacio IX in cambio di un cospicuo censo in denaro17. Ciò sanciva formalmente la rinuncia del pontefice ad ogni ingerenza sul governo delle città e la sostanziale estraneità della S. Sede alle dinamiche politiche cittadine. Negli stessi anni, però, nonostante il lasco controllo del territorio da parte del potere papale, i maggiori signori cittadini della Marca meridionale, primi fra i quali i Da Varano di Camerino, persero l’occasione per riuscire ad egemonizzare vaste aree, perpetuando invece logiche di alleanza mutevoli e di breve respiro18. Invero, alla metà del XIV secolo i Malatesta avevano ottenuto importanti successi nel sud delle Marche, fino ad imporsi, seppur per breve tempo, su Ascoli e su gran parte del Piceno, ad eccezione di Fermo. In particolare, Galeotto aveva ricoperto in modo esclusivo la carica di defensor populi ad Ascoli dal 1348 al 1352, anno in cui impose la sua autorità anche su Offida. Ma l’aspirazione dei Malatesta a proiettarsi in un ambito che travalicasse la Romagna e le Marche settentrionali fu ben presto frustrata, com’è noto, dall’intervento politico e militare del cardinale Gil de Albornoz. Qualche tempo più tardi, verso il 1380, i Da Varano si resero protagonisti di una rapida espansione territoriale, grazie alla spericolata azione politica e militare di Rodolfo II, giungendo a controllare le
16 Sulle ripercussioni della guerra di successione per il regno di Napoli nei primi anni del Quattrocento, nonché sulle coeve ingerenze dei signori di Acquaviva all’interno della città di Ascoli, B. Pio, La guerra degli “Otto Santi”, gli Acquaviva e Ascoli tra XIV e XV secolo, in Il confine nel tempo. Atti del convegno (Ancarano 22-24 maggio 2000), cur. R. Ricci - A. Anselmi, L’Aquila 2005, pp. 375-403: 396-403. 17 Per un quadro sinottico dei vicariati concessi da Bonifacio IX, Esch, Bonifaz IX cit., pp. 595-603. 18 Sulle dinamiche territoriali di lungo periodo, B.G. Zenobi, I caratteri della distrettuazione di antico regime nella Marca pontificia, in Scritti in memoria di Enzo Piscitelli, cur. R. Paci, Padova 1982 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, 10), pp. 61-105.
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valli del Potenza e del Chienti fino alla costa adriatica ed estendendo l’autorità anche su Macerata, sede del rettore provinciale della Marca. Ma una miope concezione patrimoniale del potere e la mancanza di forti leaderships fra i successori di Rodolfo impedirono l’affermazione di uno stato territoriale varanesco nella Marca centro-meridionale, che invece restò confinato ad un’area per lo più montuosa fra Marche e Umbria, per quanto vivace economicamente e irradiata da importanti vie di transito. Dunque, fra Tre e Quattrocento, si riscontra in modo evidente la fragilità delle piccole signorie marchigiane, «esposte in pieno alle oscillazioni del sistema della forze politiche italiane»19, mentre le città ed anche i centri minori, diversamente da quanto avvenne in molte altre parti d’Italia, ne approfittarono per evitare forme di stabile subordinazione ai signori, così da preservare ampi margini di autonomia politica. Non è dunque un pregiudizio di tipo etnico o un vieto luogo comune quello espresso dal cardinale Gil de Albornoz nel 1355, allorché in un atto cancelleresco definiva la città di Fermo «volubilis ut rota et labilis ut anguilla»20 (l’esempio potrebbe facilmente essere esteso a quasi tutti gli altri centri della Marca) né lo è affatto, un secolo più tardi, il refrain di Giovanni Simonetta, segretario di Francesco Sforza, secondo cui i Piceni sarebbero «natura mobiles novisque rebus studentes»21: si tratta invece della mera costatazione che nella Marca perduravano ancora schemi di alleanze di chiaro retaggio comunale, fatti di repentini e utilitaristici cambiamenti di fronte, un po’ come avveniva all’epoca degli ultimi imperatori Svevi. Va da sé che questo atteggiamento politico delle città e dei centri minori rendeva un’impresa improba la costruzione di entità territoriali e autoritative dotate di qualche coerenza. Ad accrescere l’endemica instabilità politica nella Marca meridionale, fra Tre e Quattrocento, intervenne anche il continuo imperversare di truppe mercenarie. Com’è stato suggerito da Philippe Jansen, si trattò di una sorta di Guerra dei Cento Anni svoltasi sul suolo marchigiano22, contrassegnata dalla pervicace presenza di truppe al soldo dei condottieri e da reite19
J.C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, Torino 1987, (Storia d’Italia, dir. da G. Galasso, VII.2), pp. 323-606 (ediz. separata da cui è tratta la citazione, Torino 1988, p. 247). 20 Cit. da S. Prete, Documenti Albornoziani nell’Archivio Diplomatico di Fermo, «Studia Picena», 27 (1959), pp. 56-76, p. 58. 21 Cit. da B. Feliciangeli, Delle relazioni di Francesco Sforza coi camerti e del suo governo nella Marca, «Atti e memorie della Deputazione di Storia patria per le Marche», n.ser., 5 (1908), pp. 311-462: 422 (riedito in Tardo medioevo nelle Marche, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», 100 (1995), pp. 397-497). 22 Ph. Jansen, Démographie et société dans les Marches à la fin du moyen âge. Macerata aux XIVe et XVe siècles, Rome 2001 (Collection de l’École française de Rome, 279), p. 91.
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rate azioni predatorie nei centri minori, che colpivano le economie locali attraverso la devastazione sistematica delle campagne23. Non per niente, la cronaca fermana del notaio Antonio di Nicolò, redatta verso la metà del Quattrocento, si risolve per gran parte in una interminabile teoria di guerre e scaramucce, saccheggi perpetrati o soltanto minacciati e poi sventati attraverso ingenti esborsi di denaro da parte delle città; eventi che risuonano dei nomi di noti condottieri dell’epoca, da John Hawkwood a Boldrino da Panigale, da Lutz von Lindau a Braccio di Montone24. In un periodo di pressoché totale anarchia politica la forza militare finì per costituire un elemento di fondamentale rilevo per il controllo del territorio e addirittura una condizione sine qua non per ottenere il governo delle città. A tale proposito, può apparire rivelativo della mentalità dominante un motto faceto pronunciato da Rodolfo II da Varano, secondo quanto narra una novella di Franco Sacchetti. Il prosatore toscano racconta che un giorno il signore di Camerino chiese a suo nipote, «il quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni» e che era diventato un «valentrissimo legista», cosa avesse appreso di tanto importante durante la sua formazione giuridica; sentendosi rispondere con fierezza dal giovane d’aver «apparato ragione», Rodolfo lo rimproverò di aver perduto soltanto il suo tempo, in quanto avrebbe dovuto «apparare la forza, che valea l’un due», cioè il doppio25. Il motto dimostra chiaramente un’opposizione di valori fra il vigore del diritto e la forza militare, registrando fedelmente lo spostarsi dell’ago della bilancia verso la seconda opzione nell’orizzonte politico culturale dei signori cittadini del secondo Trecento. Non è certo un caso, allora, che fra 1433 e 1447 la Marca di Ancona fu teatro del più formidabile esperimento di costruzione di uno stato regionale condotto in Italia da un condottiero politicamente spregiudicato, Francesco Sforza26. Ma si trattò di un’effimera per quanto eclatante proie-
Ph. Jansen, Citadins et hommes de guerre dans les Marches aux XIVe et XVe siècles: une difficile cohabitation, in Villes en guerre (XIVe-XVe siècles), cur. Ch. Raynaud, Aix-enProvence 2008, pp. 63-84; D. Cecchi, Compagnie di ventura nella Marca, «Studi maceratesi», 9 (1975), pp. 64-136. 24 Antonio di Nicolò, Cronaca della città di Fermo, ed. crit. con note G. De Minicis, introd. e trad. P. Petruzzi, Fermo 2008 (Biblioteca Storica del Fermano, 8); sui caratteri della cronaca, F. Pirani, Memoria e tradizione civica nella cronaca di Fermo del notaio Antonio di Nicolò (metà XV secolo), in Incontri. Storie di spazi, immagini, testi, cur. G. Capriotti - F. Pirani, Macerata 2011, pp. 329-366. 25 F. Sacchetti, Il trecentonovelle, ed. E. Faccioli, Torino 1970, novella XL. 26 Per un quadro circostanziato dei convulsi eventi di quegli anni, G. Benadduci, Della signoria di Francesco Sforza nella Marca e peculiarmente in Tolentino, dicembre 1433-agosto 1447, Tolentino 1892 (rist. anast., Sala Bolognese 1980). 23
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zione di un potere eminentemente militare, incapace di radicarsi nel tempo. Nella generazione precedente, del resto, non erano mancati, nella Marca meridionale, casi tipologicamente paragonabili a quello dello Sforza. Fin dal primo Quattrocento, infatti, si erano affacciate sul proscenio delle città picene figure di condottieri che erano riusciti ad assumere, con l’avallo del papato, o piuttosto in virtù della debolezza estrema dell’autorità pontificia, il ruolo di signori cittadini. Nel caso di Fermo, Innocenzo VII concesse nel 1405 al nipote Ludovico Migliorati di Sulmona, allora capitano di ventura al servizio di Ladislao di Durazzo, il governatorato della Marca e il vicariato apostolico sulla città, ove egli fissò la propria residenza, instaurando un regime monocratico per un quarto di secolo, fino 142827. In questi anni Migliorati esercitò la propria autorità in aperta illegalità, poiché, appena due anni dopo la sua nomina, il successore al soglio pontificio, Gregorio XII, gli revocò subito l’incarico. Ludovico rifiutò però il provvedimento di revoca e continuò ad esercitare a vita la sua carica su Fermo. Il vicariato perpetuo si protrasse in seguito nuovamente con l’avallo papale, durante i primi anni di pontificato di Martino V, il quale riuscì almeno ad impedire, all’indomani della morte di Ludovico nel 1428, che il vicariato potesse divenire ereditario. L’inamovibilità de facto del Migliorati mostra ancora una volta la fragilità dello Stato papale e il valore decisivo della forza militare nel mantenimento del potere. Ad Ascoli si produsse negli stessi anni una situazione per certi versi simile. Martino V nel 1416 concesse l’investitura di vicario in temporalibus a Conte da Carrara, figlio naturale di Francesco il Vecchio, signore di Padova, in virtù delle vittorie militari da questi ottenute in Umbria contro Braccio da Montone28. Alla morte di Conte, nel 1422, il titolo fu rinnovato ai suoi figli Obizzo e Ardizzone, per essere però revocato quattro anni più tardi dal papa Colonna, nel contesto di una politica di riaffermazione dell’autorità papale all’indomani della dissoluzione dello stato braccesco. Martino V volle quindi abbattere nel 1426 il potere dei Carraresi su Ascoli e conferire nuovamente a questa lo status giuridico di città immediate subiecta, inviandovi stabilmente un governatore. Sia nel caso di Fermo che in quello di Ascoli, siamo dunque di fronte a regimi detenuti da personaggi profondamente estranei al contesto locale città, spesso lontani dal 27 A. Falcioni, Le vicende politiche e militari di Ludovico Migliorati, signore di Fermo, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», 108 (2007-2010), pp. 217-242. 28 Cfr. M. Franceschini, Carrara, Conte da, in Dizionario Biografico degli Italiani, 20 (1977), pp. 646-649; G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento, Ascoli Piceno 1950, I, pp. 42-51; M. Cristofari Mancia, Il primo registro della Tesoreria di Ascoli, Roma 1974, pp. 1-22.
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Piceno per impegni militari, dunque per nulla o quasi assimilabili, sotto il profilo politico cittadino, alle coeve esperienze signorili marchigiane dei Da Varano o dei Montefeltro29, i cui esponenti svolgevano peraltro lo stesso mestiere delle armi e godevano pure di una legittimazione papale formalmente analoga. Le città e i regimi politici
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Se si considera che l’autorità dei signori-condottieri su Fermo e su Ascoli fu imposta dall’esterno o dall’alto, si comprende facilmente perché tali esperienze di governo, incentrato nelle mani del signore e dei suoi stretti collaboratori, fossero state fortemente osteggiate. Si comprende altresì perché le due città, come reazione a tali esperienze, maturassero un atteggiamento politico marcatamente repubblicano. Durante la seconda metà del Trecento, infatti, la possibilità di un trapasso fluido e indolore da esperienze di tipo comunale ad altre di tipo signorile (una possibilità, questa, che era stata largamente percorsa e attuata durante la prima metà del secolo in molte città marchigiane30), appariva ormai preclusa. Il signorecondottiero veniva percepito dalla comunità civica come un corpo estraneo e un’anomalia costituzionale da rimuovere appena se ne fosse prestata l’occasione. Nonostante non si conoscano quasi per nulla le concrete forme che assunsero i regimi personali di questo periodo su Fermo e su Ascoli per la perdita pressoché totale della documentazione (con ogni sicurezza, per effetto di una chiara operazione di damnatio memoriae), si può facilmente intuire lo iato fra signore e cittadinanza, fra questi e i ceti dirigenti locali, soltanto marginalmente coinvolti nella sfera pubblica. Tale iato si proietta con esiti drammatici anche sugli spazi urbanistici: il caso di Fermo, a tale proposito, risulta paradigmatico. A cominciare dalla metà del Trecento, infatti, prese avvio una progressiva frattura fra quelli che fino ad allora erano stati i due poli complementari della città: il
29 Per un confronto, cfr. G. Chittolini, Su alcuni aspetti dello stato di Federico, in Federico di Montefeltro. Lo stato, le arti, la cultura, I (Lo stato), a cura di G. Cerboni Baiardi - G. Chittolini - P. Floriani, Roma 1986, pp. 61-102 (riedito col titolo Città, terre e castelli nel ducato di Urbino al tempo di Federico da Montefeltro, in Chittolini, Città, comunità e feudi cit., pp. 181-210); P.L. Falaschi, Orizzonti di una dinastia, in I Da Varano e le arti. Atti del Convegno (Camerino, Palazzo Ducale, 4-6 ottobre 2001), cur. A. De Marchi - P.L. Falaschi, Ripatransone 2003, pp. 17-42. 30 Per un riscontro documentario, F. Pirani Tiranni e città nello Stato della Chiesa. «Informatio super statu provincie Marchie Anconitane» (1341), Fermo 2012.
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Girfalco, cioè l’area sommitale del colle, ove sorgevano la cattedrale e l’episcopato, accanto ad importanti palazzi pubblici, e la piazza di San Martino, più in basso, lungo la pendice collinare verso nord-est, che ospitava le sedi del potere comunale e che costituiva lo spazio per gli scambi economici e per la socialità31. Alla fine del Trecento, allorché sia il palazzo del vescovo sia il palazzo dei Priori, che sorgevano sul Girfalco, furono trasferiti altrove32, l’evoluzione funzionale delle due aree poteva dirsi conclusa: la sommità del colle rappresentava ormai il centro nevralgico di un potere estraneo alla città, mentre, con perfetta logica dualistica, la dimensione civica trovava la sua espressione nella Piazza di San Martino. Fra Tre e Quattrocento, il Girfalco divenne stabile appannaggio dei signori-condottieri, i quali dominarono non solo politicamente, ma anche topograficamente la città. Durante la seconda metà del XIV secolo vennero erette possenti fortificazioni tutt’attorno alla sommità del colle, tanto che l’intera area finì per diventare un vulnus all’interno del tessuto urbano, un corpo estraneo ed anche uno spazio ostile per la cittadinanza, poiché i signori-condottieri potevano imporre la loro autorità usando il Girfalco come base logistica per le loro milizie. Il Girfalco venne pertanto assumendo il volto inviso di una cittadella signorile, paragonabile per la sua funzione alla celebre Augusta, fatta costruire da Castruccio Castracani mezzo secolo prima a Lucca33. Nel 1371 il cardinale Anglic de Grimoard, nella sua relazione inviata al fratello Urbano V, descrisse il girone di Fermo come la più bella fortezza marchigiana, capace di accogliere un gran numero di armati. Dapprima Giovanni Visconti da Oleggio e poi Rinaldo da Monteverde, nel secondo Trecento, e quindi Ludovico Migliorati e Francesco Sforza, nel primo Quattrocento, elessero il Girfalco come luogo di residenza della propria corte e soprattutto come stanza per le proprie milizie. Si andò creando in questi anni un profondo solco fra gli spazi del signore e quello dei cittadini, che assistevano passivamente ai fasti princi-
31 Sulla struttura urbanistica di Fermo alla fine del medioevo e sul suo impianto bipolare, cfr. i saggi contenuti in Fermo. La città tra medioevo e rinascimento, Cinisello Balsamo 1989. 32 Il nuovo edificio dell’episcopio fu eretto nell’area inferiore della piazza di San Martino, lungo le ripide pendici collinari, durante l’episcopato di Antonio de Vetulis, nel 1391, come attesta un’epigrafe in caratteri gotici posta lungo il perimetro murario sud-orientale della costruzione: cfr. C. Tomassini, Il palazzo vescovile fermano, «Quaderni dell’Archivio Storico Arcivescovile di Fermo», 12 (1991), pp. 89-100. 33 Sull’evoluzione delle strutture fortificatorie nel Girfalco, si rimanda alla puntuale disamina di L. Tomei, Lo sviluppo urbanistico (sezione del capitolo Le fortificazioni di Fermo), in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche, cur. M. Mauro, IV/2, Ravenna 2001 (Castella, 72), pp. 54-88, anche per i riferimenti alle fonti citate.
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peschi, talvolta messi in atto con grande apparato scenografico34. Secondo quanto registra puntualmente il cronista Antonio di Nicolò, infatti, l’ingresso nella città fermana di Francesco Sforza, nel gennaio 1434, avvenne al canto delle litanie nel corso di una solenne processione diretta verso il Girfalco: il corteo era capeggiato dal condottiero e seguito da un gran numero di armati, cavalieri e fanti. Qualche anno più tardi, nel 1442, Bianca Maria Visconti, moglie dello Sforza, venne fatta scortare sotto un baldacchino di seta celeste fino al Girfalco, ove era stata indetta una giostra per festeggiare il battesimo di Galeazzo Maria, nato da quel matrimonio35. Negli stessi anni l’umanista Bartolomeo Facio, inviato nell’ottobre 1443 a Fermo per trattare una tregua con Alfonso d’Aragona, re di Napoli, descrisse con precisione l’area del Girfalco come un’arce munita tutt’attorno di strutture fortificate («planities modica […] quae, muro cincta, crebris turribus interpositis, arcem inexpugnabilem fecerat») e aggiunse con perspicacia che chi ne avesse avuto l’appannaggio avrebbe facilmente potuto porre sotto il proprio giogo la città e l’intero Piceno36. La situazione di insopportabile spossessamento di questa area della città da parte dei suoi abitanti culminò nel 1446 con la rivolta armata dei Fermani contro Francesco Sforza, una rivolta che prese la forma di un assedio alla cittadella del Girfalco, durato tre mesi. All’indomani della resa delle truppe sforzesche, i cittadini abbatterono furiosamente tutte le fortificazioni del Girfalco e rasero al suolo tutti gli edifici, ad eccezion fatta della chiesa cattedrale. Con tale epilogo fu così cancellato in modo indelebile dalla città quello spazio del potere dispotico e militare che gravava sulla comunità urbana e che per quasi un secolo ne aveva condizionato la vita civica. Ad Ascoli, invece, la diversa conformazione della struttura urbana e il vario dipanarsi delle vicende storiche fecero sì che il tentativo di creare stabilmente una cittadella signorile abortisse sul nascere. Durante la sua breve esperienza signorile, fra 1348 e 1352, Galeotto Malatesta fece edificare due rocche, una sul monte Pelasgico (la futura Fortezza Pia) e l’altra sulle sponde del fiume Castellano, detta Cassero a Mare (o Forte Malatesta): una cronaca ascolana tardo medievale descrive quest’ultimo edificio come una
34 Su tale aspetto simbolico richiama l’attenzione Ph. Jansen, Ls fastes princiers: quand la noblesse s’impose aux comunes italiennes d’après l’exemple des Sforza dans les Marches, in L’identité nobiliaire. Dix siècles de métamorphoses (IXe-XIXe siècles), Le Mans 1997, pp. 280-292. 35 Antonio di Nicolò, Cronaca della città di Fermo cit., rispettivamente p. 92 e p. 102. 36 Il passo è citato e commentato in Tomei, Lo sviluppo urbanistico cit., p. 84.
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«fortezza […] con bellissimi bastioni a torni» . Nella rivolta cittadina che provocò la cacciata del signore fu dato l’assalto a quest’ultima fortezza, presidiata da un vicario del signore e dalle sue guarnigioni: ne seguì la parziale demolizione e il danneggiamento della struttura. Qualche tempo più tardi, nel 1376, all’epoca dell’assedio alla città di Ascoli da parte degli aderenti alla Lega degli Otto Santi, quelle strutture dovevano essere ancora funzionali, dal momento che il governatore della città, Gomez Albornoz, si asserragliò per dieci mesi in questa struttura fortificata, che le testimonianze cronachistiche designano con il termine di “cittadella”38. Nulla di paragonabile al caso fermano, certamente, ma anche qui si assiste al tentativo dei signori di creare uno spazio separato dal contesto urbano e precluso ai cittadini. Lo iato fra signore e città emerge in modo ancor più clamoroso attraverso il simbolo più alto e rappresentativo dell’identità politica e giuridica della comunità urbana: lo statuto cittadino. Due testi normativi quasi coevi, gli Statuti del Comune e del Popolo di Ascoli del 137739 e gli Statuti di Fermo del 138340, nel fissare un nuovo ordine costituzionale all’indomani dell’abbattimento dei regimi signorili, ostentano un forte orgoglio repubblicano e condannano senza appello ogni potere monocratico. Nel testo normativo fermano, Rinaldo di Monteverde è definito, con biasimo iperbolico, sævissimus tyrannus e ‘secondo Nerone’, mentre si ordina la cassazione di tutte le norme da lui introdotte durante la sua dominazione41. Inoltre viene introdotta fra le feste civiche la ricorrenza di san Bartolomeo, giorno in cui Rinaldo era stato pubblicamente giustiziato tre anni prima. Intanto, nella piazza di San Martino, luogo dell’esecuzione, veniva esposta un’effigie in pietra della sua testa, alla quale era apposta un’iscrizione ammonitrice che recava la scritta in volgare: «Tiranno fui pessimo et crudele». Siamo dunque di fronte alla messa in atto di una damnatio memorie composita e sofisticata. Da un lato, infatti, essa si riconnette con la pratica della “pittura infaman-
37 A. De Santis, Ascoli nel Trecento, I: 1300-1350, Ascoli Piceno 1984 pp. 479-480 (il testo della cronaca è edito in appendice a p. 505); sull’evoluzione della struttura fortificata nei secoli successivi, cfr. F. Mariano, Ascoli Piceno. Fortezza Malatesta, in Castelli, rocche, torri cit., pp. 280-284. 38 Cronaca ascolana dal 1345 al 1525, ed. A. Salvi, Ascoli Piceno 1993, p. 24. 39 Cfr. sopra, nota 15. 40 Il testo del deperdito statuto del 1383 si può facilmente ricostruire attraverso l’edizione cinquecentesca a stampa: Statuta Firmanorum, Venetiis1507; per una descrizione del codice normativo, cfr. Catalogo della raccolta di statuti, consuetudini, leggi, decreti, ordini e privilegi dei comuni, delle associazioni e degli enti locali italiani dal medioevo alla fine del secolo XVIII, cur. C. Chelazzi, III, Firenze 1955, pp. 45-48. 41 Sulla feroce damnatio memoriae che seguì la morte del tiranno, Pirani, “Crudelissimo Nerone” cit., pp. 96-110.
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te”, che consisteva, com’è noto, nel ritrarre sulle pareti degli edifici pubblici i cittadini colpevoli di reati nei confronti della collettività (non si dimentichi che la “pittura infamante” era dotata di una precisa sanzione giuridica e che il ricorso ad essa veniva sovente prescritto a chiare lettere negli statuti cittadini)42; dall’altro lato, la produzione di immagini e di scritte diffamatorie esprime un gusto ludico-spettacolare43, che ben si saldava con la ritualizzazione dell’esecuzione capitale di Rinaldo, perfettamente descritta nella cronaca di Antonio di Nicolò. Nel caso di Ascoli, invece, gli statuti del 1377 affermano che la redazione normativa fu compiuta in una sola convulsa notte, allorché «fo facta la novità in ne la ciptà d’Asculi contra lu signore»: si legge infatti che il regime instaurato dai crudelissimi tiranni Giovanni di Venimbene e Galeotto Malatesta si era reso intollerabile, tanto che il consiglio comunale aveva deliberato di tornare al più presto al populare stato, mettendo insieme a tempo di record una nuova redazione di leggi cittadine. In realtà la storia della notte fatidica altro non è se non un abile artificio retorico, dal momento che la fine del dominio del Malatesta risaliva al 1355 e quello di Giovanni di Venimbene addirittura al 1321. Si trattava dunque di una strategia deliberata, non certo frutto d’ingenuità: come ha dimostrato Gherardo Ortalli, «mescolare signorie vecchie e nuove, regimi di popolo, libertà e dipendenze, finendo con l’appiattire oltre mezzo secolo di vita di lotte di comune nella congiuntura di una notte di tumulti» rispondeva ad una precisa volontà «dettata da una stratificazione di contingenze politiche»: lo statuto appariva allora un duttile strumento, capace di dipanare, nella sua qualità di fonte del diritto, i nodi della storia politica cittadina e al tempo stesso di formulare un’esplicita condanna verso i regimi monocratici44. Infatti tale condanna poteva essere benissimo estesa anche alla recente esperienza di Gomez Albornoz, da poco terminata; ma poiché quest’ultimo godeva allora della fiducia papale, non era il caso di inserire apertamente quel nome 42
Cfr. G. Ortalli, “... pingatur in palatio...”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979. 43 Cfr. M.M. Donato, “Cose morali, e anche appartenenti secondo e’ luoghi”: per lo studio della pittura politica nel tardo Medioevo toscano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 491-517; in particolare, sul valore comunicativo delle scritture esposte, N. Giovè Marchioli, Cancellare il ricordo: la damnatio memoriae nelle iscrizioni medievali tra formule e scalpellature, in Condannare all’oblio. Pratiche della damnatio memoriae nel medioevo. Atti del Convegno di studio (Ascoli Piceno, 27-29 novembre 2008), Roma 2010, pp. 127-156. 44 Per l’intera questione si rinvia a G. Ortalli, Lo statuto tra funzione normativa e valore politico, in Gli statuti delle città: l’esempio di Ascoli nel secolo XIV. Atti del Convegno di studio (Ascoli Piceno, 8-9 maggio 1998), cur. E. Menestò, Spoleto 1999, pp. 11-35: 18-19.
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nella lista dei crudelissimi tiranni, mentre sarebbe stato preferibile lasciarlo facilmente intuire a chi lo avesse voluto. Dunque, a meno di non voler liquidare le espressioni appena citate come vieta retorica politica, cosa che non sarei affatto incline a fare, si dovrà convenire che, nel tornante fra Tre e Quattrocento, le città di Fermo e di Ascoli, respingendo le esiziali esperienze di governo monocratiche, maturarono un orientamento politico e un assetto costituzionale di tipo repubblicano, riconoscendosi città immediate subicte all’autorità della Chiesa. Uno status, questo, che le città picene avrebbero mantenuto immutato, del resto, fino all’età napoleonica, se si esclude ovviamente la bufera che imperversò negli anni, fra il 1433 e il 1447, allorché l’ultimo signorecondottiero, Francesco Sforza, tentò l’effimera costruzione di una compagine territoriale regionale sotto il suo personale controllo. I ceti dirigenti urbani: verso la costituzione di un patriziato
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Se si passa ora a considerare l’evoluzione dei ceti dirigenti urbani, non c’è dubbio che il secolo compreso fra il 1350 e il 1450 risulti decisivo per la formazione di un’oligarchia di governo nelle città e nei centri minori del Piceno. Alla fine di quel secolo, dopo il definitivo tracollo dei signori-condottieri e grazie al concomitante ristabilimento del controllo diretto sulle città da parte della monarchia papale, all’interno della società politica locale era giunto a maturazione «il coagularsi definitivo dei gruppi al potere secondo moduli di sapore oligarchico che evitano appunto, attraverso il perpetuarsi dei ruoli e delle famiglie nelle istituzioni cittadine, l’arroventarsi del sistema politico, operando con cautela e circospezione sul giunto istituzioni-società»45. Spetta a Bandino Giacomo Zenobi il merito di aver approfondito il tema della cristallizzazione di quei moduli e il loro assestarsi in età moderna, fino a dar vita a quelle strutture tendenzialmente rigide e formalizzate, tipiche delle “ben regolate città” della periferia dello Stato pontificio fra Cinque e Settecento. Se si guarda invece ai secoli precedenti, in particolare al periodo anteriore alla metà del Quattrocento, si osserva una definizione ancora informale di quelle oligarchie, ove i giochi appaiono aperti e le vie di affermazione in seno alla società urbana largamente percorribili. Purtroppo non si dispone generalmente, per il periodo considerato, 45
B.G. Zenobi, Le “ben regolate”città: modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, p. 37.
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degli atti dei Consigli, una fonte primaria per ricostruire le preminenze politiche (ad Ascoli le Riformanze principiano dal 1456, mentre, a Fermo si dispone di una serie molto lacunosa e discontinua a partire dal 1380). Tuttavia, almeno nel caso di Fermo conosciamo in modo soddisfacente l’evoluzione della società urbana grazie agli studi puntuali di Tomei46, mentre per Ascoli i contorni dello stesso processo appaiono più sfumati47. L’orizzonte istituzionale entro cui si produssero l’ascesa di nuove famiglie e il decantarsi dell’oligarchia di governo appare tuttavia facilmente individuabile: tanto ad Ascoli quanto a Fermo gli statuti cittadini del tardo Trecento mostrano infatti marcati tratti formali antimagnatizi e soprattutto “popolari”. A Fermo il potere era di fatto gestito dalle famiglie più opulente (de maiore appretio), iscritte alle Arti maggiori: non soltanto giudici e notai, medici e speziali, ma anche calzolai, sarti e pellicciai, orafi48. Nell’intelaiatura istituzionale, le magistrature più importanti per il governo della città erano quelle del Gonfaloniere di giustizia (una carica strettamente riservata ad un procuratore legale o ad un mercante), e quella collegiale dei sei Priori. Il vero e proprio organo di governo della città era il Consiglio di Cernita, che assommava poteri legislativi ed esecutivi, dettava le linee di intervento nella politica estera, svolgeva infine la funzione di suprema corte d’appello. Conseguentemente, le altre assemblee comunali ancora mantenute in vita vedevano restringersi le loro funzioni ad organi di consultazione e di ratifica delle decisioni assunte dal Consiglio di Cernita. Ad Ascoli si ripeteva, mutatis mutandis, lo stesso modulo di governo49: la suprema magistratura politica era quella degli Anziani, composta di quattro membri, designati su base topografica, mentre il potere esecutivo spettava ad un consiglio ristretto, il Consiglio speciale, composto da
46 L. Tomei, Prospero Montani, eminenza grigia del regime personale di Liverotto Euffreducci o vero ispiratore del colpo di stato del gennaio 1502?, in Caratteri e peculiarità dei secoli XV-XVII nella Marca meridionale, Grottammare 1999, pp. 87- 244: a dispetto del titolo riduttivo, si tratta di un ampio studio sull’evoluzione della società urbana e dei ceti dirigenti fermani lungo tutto il Quattrocento. 47 Occorrerà ricorrere in questo caso a studi prevalentemente rivolti alla storia evenemenziale: A. De Santis, Ascoli nel Trecento, 2: 1350-1400, Ascoli Piceno 1988; G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento, I. Vita pubblica e privata, Ascoli Piceno 1950; per una sintesi, Pinto, Ascoli cit., pp. 85-92. 48 Per un quadro esaustivo dell’ordinamento, cfr. L. Tomei, Il comune a Fermo dalle prime origini fino al Quattrocento, in Istituzioni e statuti comunali nella Marca di Ancona, Dalle origini alla maturità (secoli XI-XVI), II/2. Le realtà territoriali, cur. V. Villani, Ancona 2007, pp. 341-512: 451-456. 49 Cfr. Pinto, Ascoli e il suo territorio, in Istituzioni e statuti comunali cit., pp. 301-340: pp. 223-336.
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quarantotto membri designati dagli Anziani. Il pletorico organismo deliberante, il Consiglio generale degli Ottocento, formato sulla base della ripartizione urbana per sestieri, veniva ormai convocato per ratificare le decisioni prese nelle altre assemblee. I nobili (gentili homines), gli avvocati e i giudici erano esclusi dalle magistrature più importanti e vedevano limitata la loro partecipazione politica al Consiglio de la adjonta, formato da cinquanta componenti, che andava ad integrare le altre assemblee soltanto in particolari circostanze. Le Arti non esercitavano un potere diretto, ma garantivano formalmente di fronte al Capitano del popolo «lu bono stato de lu populo» e si occupavano di questioni più rilevanti, come ad esempio l’annuale ricognizione delle giurisdizioni e dei possessi del comune, affidata a quattro mercanti che disponevano di beni per almeno mille lire, designati dal Consiglio dei Duecento. Fra Tre e Quattrocento, le magistrature di governo e gli organi esecutivi delle due città picene erano ormai monopolizzati da un ristretto gruppo di famiglie. Alla fine del XIV secolo, a Fermo il processo di chiusura del ceto dirigente, costituito da un’ottantina di casati, appare già in pieno corso di realizzazione. L’accesso al Consiglio di Cernita era garantito su base ereditaria e l’ingresso di nuovi membri avveniva per cooptazione. Nel ’400 appartenere a tale oligarchia costituiva un chiaro elemento di distinzione: nei documenti ufficiali di questo periodo vengono infatti usate in modo sempre più ricorrente le designazioni di cives de cernita o cives de regimine per indicare appunto quei “cittadini di reggimento”, ormai stabilmente insediati nel supremo organo assembleare50. Sotto il profilo sociale tale oligarchia comprendeva in prevalenza esponenti della borghesia professionale e non di rado uomini recentemente immigrati, alcuni dei quali furono protagonisti di un rapido successo e riuscirono a scalzare gli esponenti dell’aristocrazia di antica tradizione. Nel primo Quattrocento vennero infatti alla ribalta a Fermo famiglie provenienti dal contado, dotate di solide fortune economiche e animate da forti aspirazioni politiche: fra queste gli Azzolino, oriundi della vicina Grottazzolina, gli Euffreducci, provenienti da Falerone, i Fogliani, che originariamente vivevano in una contrada rurale poco lontano da Fermo, i Massucci-Triconi, inurbati dal centro costiero di Pedaso, i Montani, originari di Montottone, gli Assalti, prima residenti ad Offida51. I capostipiti di questi casati esercitavano spesso le professioni liberali, quali il notariato o la mercanzia: ad esempio, magister 50 51
Tomei, Il comune a Fermo cit., pp. 453-456. Tomei, Prospero Montani cit., pp. 123-221, con ampie ricostruzioni prosopografiche e dettagliate tavole genealogiche fuori testo.
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Tommaso di Zuccio di Falerone, da cui ebbe origine la famiglia degli Euffreducci, aveva svolto nel tardo Trecento la professione di medico condotto in varie citta della Marca, prima di trasferirsi a Fermo ed essere aggregato nel 1389 al Consiglio di Cernita. Si tratta di famiglie che tanta parte avrebbero avuto nelle vicende politiche e anche nella committenza artistica dopo la metà del XV secolo. Nel caso di Ascoli, invece, la laconicità delle fonti documentarie non consente di approfondire l’analisi sugli assetti e sulle preminenze sociali. Il catasto del 1381, nel registrare soltanto i beni immobili e nell’indicare meramente il patronimico degli allibrati, preclude in larga parte lo studio diacronico delle famiglie più ricche e tantomeno consente di cogliere il rapporto fra economia, affari e politica52. Risulta tuttavia sufficientemente chiara l’articolazione complessiva della società, descritta negli statuti del 1377 attraverso la tripartizione fra “maiori”, “mediocri” e “minuti”. L’élite economica era composta da famiglie di diversa provenienza, tutte impegnate in attività remunerative, quali la produzione tessile e la mercatura, esercitata sia nei confini dello Stato della Chiesa che in quelli del Regno di Napoli. Il robusto ceto medio, formato per lo più da artigiani e bottegai, ma anche da notai, si qualificava per un diffuso possesso di beni immobili urbani e rurali. All’ultimo gradino della società, il catasto registra la presenza di nullatenenti, soprattutto albanesi, sfruttati come mano d’opera nelle campagne dai maggiori possessori fondiari per riavviare la produzione agraria all’indomani delle epidemie di peste trecentesche. La nuova oligarchia, tanto a Fermo quanto ad Ascoli, trovava dunque un fertile terreno di affermazione nel mutato quadro economico, animato da vivaci e precoci reazioni alla crisi trecentesca. A Fermo erano le fiere annuali a fare da volano per lo sviluppo economico, mentre ad Ascoli assolvevano tale funzione le attività manifatturiere e soprattutto la produzione di panni lana53. 52 Per uno sguardo complessivo sul catasto del 1381 e su quelli successivi del 1433 e del 1458, G. Pinto, Ascoli nel tardo Medioevo: aspetti della società e dell’economia cittadina dai catasti tre-quattrocenteschi, «Archivio storico italiano», 159 (2001), pp. 319-336; sugli aspetti urbanistici si concentra l’analisi di P. Varese - G. Angelini Rota, Il catasto ascolano del 1381, «Atti e memorie della Deputazione di storia per le Marche», ser. VI, 11 (1942), pp. 43-147; sui criteri di redazione dei registri, L. Ciotti, Il catasto trecentesco del comune di Ascoli e delle ville e dei castelli del suo distretto, «Archivi per la storia», 8 (1995), pp. 101-120. 53 Per un quadro dell’economia picena alla fine del medioevo, cfr. Fermo e la sua costa. Merci, monete, fiere e porti fra tardo Medioevo e fine dell’età moderna, Grottammare 2000, in particolare: G. Pinto, Produzioni e circuiti mercantili nella Marca centro-meridionale (secc. XIII-XVI), pp. 7-20; E. Di Stefano, Relazioni commerciali tra Fermo e Venezia. Spogli d’archivio veneziani, pp. 21-39; M. Moroni, Origini e organizzazione della fiera dell’Assunta tra basso medioevo e età moderna, pp. 41-65.
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Verso la metà del Quattrocento, dunque, la stabilizzazione politica della penisola italiana e la ricerca di autorevoli referenti locali da parte del sovrano-pontefice crearono le premesse per una durevole fissazione dei moduli di governo oligarchici54. Ma alla fine del Trecento quel processo di composizione doveva ancora accusare gravi colpi di assestamento. Le vicende di Fermo e di Ascoli procedono anche in questo caso in modo parallelo. Nella città del Girfalco, sullo scorcio del secolo si assiste all’ultimo sussulto dell’aristocrazia urbana, che si espresse attraverso la preminenza politica di Antonio Aceti, un personaggio poliedrico, dotato di capacità militari ma anche di ottime competenze giuridiche (fu infatti lettore in diritto civile presso lo Studio generale di Perugia)55. L’Aceti, dopo aver assunto il titolo Gonfaloniere di giustizia, una carica prevista nell’ordinamento repubblicano riformato nel 1383, impose de facto la propria egemonia sulla città assumendo il ruolo di pacificatore fra le fazioni, grazie anche al sostegno di Bonifacio IX. Ma le forti tensioni interne alla società urbana e la nomina di Ludovico Migliorati a vicario della città segnarono ben presto la fine della sua breve parabola: nel 1407 Antonio fu fatto pubblicamente decapitare dal nipote di papa Innocenzo VII insieme ai figli e ai suoi più stretti collaboratori politici. Ad Ascoli, invece, il potere personale assunto da Andrea Matteo di Acquaviva fu ancora di più breve durata56. Forte della vasta autorità raggiunta in Abruzzo, grazie all’appoggio di Carlo e di Ladislao d’Angiò Durazzo, nonché con l’avallo di papa Bonifacio IX, l’Acquaviva riuscì imporre un potere personale sulla città picena fra la fine del 1395 e la metà del 1397, sostenendo la compagine sedicente guelfa nelle aspre lotte interne fra fazioni. Il profilo delle due personalità che si imposero rispettivamente su Fermo e su Ascoli negli ultimi anni del Trecento può apparire fra loro difforme: l’Aceti apparteneva infatti all’aristocrazia cittadina, mentre l’Acquaviva discendeva da una famiglia che aveva saputo conquistare una vasta dominazione territoriale nell’Abruzzo settentrionale. Tuttavia le due vicende mostrano un orizzonte comune: le città, nonostante la messa a punto di organiche riforme costituzionali in senso repubblicano, non erano ancora immuni dalle brame di esponenti dell’antica aristocrazia, 54 Per un’ampia disamina di tale fenomeno nelle città dello Stato papale durante il Quattrocento, S. Carocci, Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città alla fine del medioevo, cur. S. Gensini, Pisa 1996, pp. 151224 (riedito e aggiornato in Vassalli del papa cit., pp. 99-160). 55 Aceti, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 137-138. 56 Acquaviva, Andrea Matteo, ibid., pp. 166-167; sulle ingerenze politiche degli Acquaviva in questi anni, cfr. Pio, La guerra degli “Otto Santi”, gli Acquaviva e Ascoli cit., pp. 383-394.
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mentre i gruppi oligarchici dimostravano di non aver maturato una coesione tale da impedire l’affermazione di forti poteri personali. Forme di committenza artistica: il caso fermano
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Fra Tre e Quattrocento, in un periodo storico contrassegnato da un progressivo assestamento sociale e da un rapido avvicendamento di regimi, la committenza artistica, sia pubblica che privata, appare complessivamente vivace, ma spesso poco coerente. Risulta chiaro che i regimi politici fin qui passati in rassegna, infatti, non seppero né vollero promuovere una politica culturale di ampio respiro, paragonabile a quella di signorie ben più radicate e consolidate all’interno della città (come accade per i Da Varano a Camerino), oppure a quella di città-stato politicamente più stabili (come nel caso di Ancona). Nello spazio che segue, verrà proposta qualche considerazione d’insieme sulla committenza e sulla produzione artistica a Fermo, una realtà non soltanto meglio documentata e studiata, ma forse anche più vivace al paragone di quella coeva di Ascoli. Certo, non sussistono dubbi sul fatto che fra la vicenda artistica della prima metà del Quattrocento e l’esplosione culturale registrata nella seconda metà di quello stesso secolo vi sia un’evidente sproporzione, riscontrabile non soltanto nell’attività di artisti di primissimo piano nelle città picene (il caso dei fratelli Carlo e Vittore Crivelli appare emblematico), ma anche nella diffusa presenza di pittori, orefici, maestri lombardi, cui si affiancano umanisti e letterati di alta caratura. Ciò confermerebbe ancora una volta l’ipotesi che la stabilizzazione delle città picene all’interno dello Stato papale avesse consentito l’avvio di una nuova e più ricca stagione culturale, mentre il panorama artistico prima del 1450 si presenta ancora in forme più sperimentali e incoerenti, ma non per questo meno interessanti euristicamente. A Fermo, il periodo compreso fra la metà del Trecento e il primo Quattrocento rappresenta l’epoca in cui le testimonianze superstiti iniziano a delineare il gusto della committenza, che si precisa in un originale innesto, a livello locale, della cultura figurativa tardogotica. Gli studi hanno ampiamente dimostrato, a tale proposito, che l’influsso dominante della pittura veneziana convive con le suggestioni della pittura bolognese e con la lezione umbro-toscana, dando vita ad un clima artistico eclettico, all’interno del quale maturarono le aspirazioni a mettere a punto un linguaggio di originale sintesi57. Alla metà del Trecento, la tavola della 57
Riprendo qui, con alcuni approfondimenti, quanto esposto in Pirani, Fermo cit., pp.
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Madonna dell’Umiltà realizzata dal fabrianese Francescuccio di Cecco Ghissi per la chiesa di San Domenico (ora conservata nella Pinacoteca Comunale) testimonia la fortuna della bottega di Allegretto Nuzi di Fabriano, presso il quale il Ghissi lavorò negli anni successivi al rientro del suo maestro da Firenze58. L’apertura della committenza locale all’influenza bolognese è invece documentata dal suntuoso Polittico a due registri (anch’esso conservato nella Pinacoteca Comunale), datato 1369, opera di Andrea de’ Bruni da Bologna: si tratta in questo caso di un artista giunto nella città picena dopo un lungo itinerario attraverso la Romagna e le Marche settentrionali59. Il primato del gusto nelle opere a soggetto religioso spetta senza dubbio a Venezia. Fra Tre e Quattrocento i committenti fermani, riconducibili alle più opulenti famiglie mercantili, richiedevano spesso la spedizione da Venezia di opere che si intonavano al gusto tardo gotico allora dominante, dimostrando una particolare attenzione alle novità artistiche e una forte permeabilità verso gli influssi esterni. I dipinti seguivano sulla via marittima la rotta inversa percorsa dalle merci, che le stesse famiglie esportavano nella città lagunare, e venivano quindi montati in situ all’interno delle chiese per cui erano stati richiesti60. Un esempio paradigmatico a tale proposito è costituito dal polittico attribuito a Marco di Paolo Veneziano,
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153-160. Fra gli studi relativi al clima artistico e alle opere d’arte a Fermo fra Tre e Quattrocento: F. Coltrinari, La storia dell’arte a Fermo attraverso le collezioni della Pinacoteca civica: dal museo al territorio fra conservato e perduto, in Pinacoteca comunale di Fermo. Dipinti, arazzi, sculture, cur. F. Coltrinari - P. Dragoni, Milano 2012, pp. 23-59: 2429; Il gotico internazionale a Fermo e nel Fermano, Catalogo della mostra (Fermo, Palazzo dei Priori, 28 agosto-31 ottobre 1999), cur. G. Liberati, Livorno 1999; L’aquila e il leone. L’arte veneta a Fermo, Sant’Elpidio a Mare e nel Fermano. Jacobello, i Crivelli e Lotto, Catalogo della mostra (Fermo, Pinacoteca Civica, Sant’Elpidio a Mare, Pinacoteca Civica “Vittore Crivelli”, 24 marzo-17 settembre 2006), cur. S. Papetti, Venezia 2006; Fioritura tardogotica nelle Marche, cur. P. Dal Poggetto, Milano 1998; Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni ambientali, beni architettonici, cur. P. De Vecchi, Fermo, 1998; Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni artistici: pittura e scultura, cur. S. Papetti 2003; Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni artistici: oreficerie, cur. G. Barucca - B. Montevecchi, Fermo 2006; cfr. infine L. Dania, La pittura a Fermo e nel Fermano nella prima metà del Quattrocento, in Vittore Crivelli e la pittura del suo tempo nel Fermano, cur. Papetti, Milano 1997, pp. 25-35. 58 Cfr. la relativa scheda in Pinacoteca comunale di Fermo cit., pp. 80-81 e la bibliografia ivi riportata. 59 Cfr. la relativa scheda, ibid., pp. 82-83. 60 Sulle fitte relazioni con Venezia e sull’importazione di opere d’arte, A. De Marchi, A sud di Ancona: gli invii da Venezia e la scuola della costa, in Fioritura tardogotica nella Marche cit., pp. 29-38; De Marchi, Trecento veneziano nelle terre adriatiche marchigiane, in Pittura veneta nelle Marche, cur. V. Curzi, Cinisello Balsamo 2000, pp. 29-51.
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commissionato negli ultimi anni del Trecento per la chiesa di San Michele Arcangelo (ora conservato nel Museo Diocesano): ne sono testimoni le sette tavole, oggi prive del raccordo dell’originaria cornice dipinta e dorata, raffiguranti una scena dell’Incoronazione della Vergine nello scomparto centrale e Santi in quelli laterali61. Lo stile fiammeggiante, i forti contrasti cromatici, la dolcezza delle fisionomie componevano un lessico gradito agli esponenti dell’oligarchia locale, che guardava con forte interesse alla cultura figurativa veneziana. La testimonianza stilisticamente più alta di tale gusto si riscontra nelle Storie di Santa Lucia eseguite da Jacobello del Fiore (conservate nella Pinacoteca Comunale): le otto tavolette superstiti costituivano in origine una pala d’altare realizzata per la chiesa omonima, ubicata nella contrada di Campolege62. La composizione, che può essere datata agli anni 14101412, testimonia la cultura eclettica di Jacobello e rivela influssi dello stile gotico cortese, in particolare di Gentile da Fabriano. Per la chiesa di San Pietro, invece, fu realizzata negli stessi anni, su commissione dell’arcipresbitero fermano Gaspare di Giovanni, l’Imago Pietatis tra la Madonna e san Giovanni Evangelista (oggi conservata a Kiev), ove il prelato committente viene ritratto con ricchi paramenti liturgici, inginocchiato in preghiera sotto la figura della Madonna dolente63. La lista dei pittori veneziani che lavorano per le città della costa marchigiana si allunga insieme al moltiplicarsi dei rapporti economici e culturali sia con Venezia che con la costa dalmata. Ne costituisce una prova il Polittico del cosiddetto Maestro di Sant’Elsino o Maestro del Crocefisso di Kton (ma non unanimemente attribuito64), ora alla Pinacoteca Comunale, che si suppone provenisse dalla chiesa di San Gregorio. L’attività dell’artista, documentato a fine Trecento a Venezia nella bottega di Jacobello di Bonomo e di cui rimangono testimonianze pittoriche cospicue nelle città della Dalmazia, mostra appieno la rete di scambi che si instaurò fra i centri maggiori dell’Adriatico durante tutto il XV secolo65.
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Cfr. la relativa scheda in L’aquila e il leone cit., pp. 92-93. Cfr. la relativa scheda in Pinacoteca comunale di Fermo cit., pp. 84-87. Cfr. la relativa scheda in Il gotico internazionale cit., pp. 78-79. Cfr. la relativa scheda in Pinacoteca comunale di Fermo cit., pp. 88-89; sulla questione attributiva, M. Papetti, La pittura tra Ascoli e Fermo nella prima metà del Quattrocento, in Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni artistici: pittura e scultura cit., pp. 35-55. 65 Su tali rapporti, De Marchi, A sud di Ancona cit.; A. De Marchi, Pittura medioevale nell’Ascolano e nel Fermano, in Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni artistici: pittura e scultura cit., pp. 13-34; I. Petricioli, Fermo e Zara: contatti
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Nel crogiolo degli influssi veneziani e nella rielaborazione della lezione gotico cortese si venne formando lungo la costa adriatica marchigiana, durante la prima metà del Quattrocento, una cultura autoctona che gli studiosi hanno ormai ribattezzato “stile adriatico”, per designare le peculiarità di un clima artistico che si dispiega nel corso del Quattrocento. A Fermo, la testimonianza più compiuta di tale cultura è rappresentata dal ciclo di affreschi dell’Oratorio di Santa Monica, che traduce il culmine espressivo di quel peculiare dettato stilistico, da alcuni storici dell’arte designato come “scuola della costa”, caratterizzata dall’egemonia di Pietro di Domenico da Montepulciano (vicino a Filottrano, in diocesi di Osimo) e del suo sodale e imitatore Giacomo di Nicola da Recanati66. La partitura degli affreschi si compone di un Ciclo del Battista e di un Ciclo di san Giovanni Evangelista lungo le pareti, mentre sulla volta sono raffigurati gli Evangelisti e Padri della Chiesa; nelle vele campeggiano le Virtù cardinali e teologali e negli altri spazi dell’edificio quadrangolare si collocano immagini votive. L’opera pittorica, nella sua eterogeneità di fondo e nella sua esuberanza, denota la messa a fuoco di un dettato originale rispetto alle coeve esperienze gotiche marchigiane, reinterpretando in chiave personale il decorativismo dei fratelli Salimbeni da San Severino, di cui viene recepito il gusto per il quotidiano e per le dettagliate descrizioni di taglio quasi popolaresco. L’eleganza delle vesti e la cura dei dettagli mostrano ancora una volta come a Fermo, durante gli anni dei regimi del Migliorati e degli Sforza, si fosse diffusa all’interno della città una cultura di raffinata ostentazione, che aspirava ad esprimersi attraverso un linguaggio originalmente rielaborato. È in tale contesto culturale che venne realizzata la chiesetta di San Giovanni (nota dal Seicento in poi come Oratorio di Santa Monica), finanziata nel 1423-25 da Giovanni di Guglielmo delle Macigne, membro di una famiglia dell’oligarchia cittadina, e poi da questi affidata ai vicini frati Eremitani per l’amministrazione del culto. L’edificio riflette peraltro, sotto il profilo architettonico, il gusto tardo-gotico dominante a Fermo in
artistici tra Medioevo e Rinascimento, «Notizie da Palazzo Albani», 13 (1984), pp. 7-16; per un quadro storico del contesto storico nel quale maturarono i contatti culturali, M. Moroni, Fermo, Venezia e l’Adriatico fra XIII e XVII secolo, in L’aquila e il leone cit., pp. 17-27. 66 Gli affreschi dell’Oratorio di Santa Monica, scoperti nel 1934 e ricollocati in loco nel 1995, costituiscono forse la testimonianza più eloquente della pittura tardogotica nelle Marche: per l’analisi stilistica della partitura decorativa, De Marchi, Gli affreschi dell’oratorio di San Giovanni presso Sant’Agostino a Fermo. Un episodio cruciale della pittura tardogotica marchigiana, in Il gotico internazionale a Fermo cit., pp. 48-69; più in sintesi, B. Montevecchi, Gli affreschi dell’oratorio di Santa Monica a Fermo, in I beni culturali di Fermo e del territorio. Atti del convegno di studio (Fermo, 15-18 giugno 1994), cur. E. Catani, Fermo 1996, pp. 305-316.
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quegli anni: la facciata a capanna è infatti adornata da due monofore gotiche e da un fregio di archetti pensili trilobati e da scodelle maiolicate. Fra gli ultimi anni del Trecento e la metà del Quattrocento si moltiplicarono a Fermo gli interventi architettonici, per lo più tesi ad abbellire e a ridisegnare con un gusto più aggiornato strutture preesistenti. L’elenco è cospicuo e comprende: la tribuna della cattedrale, realizzata nel 1391, le torri campanarie di San Zenone (1422) e di San Francesco (1425), il cantiere della chiesa di San Domenico (fra 1415 e 1420), l’ampliamento dell’Ospedale di Santa Maria della Carità nel 1417, il restauro di Fonte Fàllera nel 1445, di primaria importanza per l’approvvigionamento idrico della città67. Non mancarono neppure interventi urbanistici di alto profilo. Tra il 1438 e il 1442 Alessandro Sforza, negli anni della signoria del fratello Francesco, concepì un ambizioso progetto di risistemazione della centrale Piazza di San Martino, in modo da conferirle decoro e coesione architettonica: decise infatti di demolire le botteghe costruite in legno che si addensavano al centro e nella zona nord dell’area pubblica, volle che fosse abbattuta la chiesetta di Santa Maria della Misericordia (costruita nel 1399 come voto per scongiurare il diffondersi dilagante della peste), provvide quindi al livellamento della piazza, facendole acquisire il contorno regolare e l’andatura pianeggiante che essa ha conservato fino ad oggi68. Nel campo dell’oreficeria si dispiega pienamente a Fermo la fioritura tardogotica. Alla fine del Trecento gli arredi sacri, in particolare i reliquiari, avevano assunto, nell’espressione artistica e nel valore simbolico, un rango del tutto paragonabile alla pittura o alla scultura. L’espressione più alta dell’oreficeria di questo periodo è rappresenta dal Reliquario della Sacra Spina, commissionato dopo il 1405 dal frate eremitano Agostino di Rogerolo69: esso traduce appieno il gusto di una committenza colta e sofisticata, che sa
67 Per una cursoria rassegna sui cantieri attivi nel primo Quattrocento, G. Liberati, Una città tra due secoli: Fermo e il Fermano dalla fine del ’300 alla metà del ’400, in Il gotico internazionale a Fermo cit., pp. 19-25: 24; ancora utile la consultazione del datato F. Maranesi, Guida storica e artistica della città di Fermo, Fermo 2002 («Biblioteca Storica del Fermano», 1), riedizione dell’originale apparso nel 1944. 68 Per i dettagli architettonici e il rimando alle fonti documentarie, L. Tomei, La piazza del popolo tra romanità, medioevo e rinascimento, in Fermo. La città tra medioevo e rinascimento, pp. 91-143: 120-125. 69 Sulla vicenda della reliquia della ‘Sacra Spina’, connessa alla presenza degli Agostiniani a Fermo, G. Martinelli, Il beato Clemente e le vicende della Sacra Spina fra Sant’Elpidio e Fermo, con testi di B. Montevecchi e G. Barucca, Fermo 2009. Sulla produzione orafa a Fermo, Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni artistici: oreficerie cit., ove si segnalano: Barucca, Presenze e influssi degli smalti senesi nel Tre e Quattrocento, pp. 75-88; Montevecchi, Presenze e suggestioni veneziane dal XIII al XVI secolo, pp. 39-54; Montevecchi, L’oreficeria sulmonese e l’influsso abruzzese, pp. 55-73; cfr. inoltre
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indirizzare le sue richieste ad artigiani raffinati. L’oggetto sacro costituisce una mirabile sintesi degli influssi dominanti nell’oreficeria dell’epoca: la sua architettura rimanda infatti ad un artista veneziano, mentre gli smalti delle figurette sul piede dell’edicola del fusto conducono a Siena: quest’ultima ipotesi è suffragata non soltanto dallo stile, ma dalla presenza documentata di maestro Mariano «olim de Senis, aurifice de Firmo». Nei primi anni del XV secolo, anche il governatore della città Ludovico Migliorati commissionò un’ornata opera di oreficeria per contenere una reliquia del più celebre santo agostiniano della Marca, san Nicola da Tolentino (oggi conservata nel Tesoro della Basilica di San Nicola a Tolentino): anche questo manufatto conferma le assonanze sia con stilemi abruzzesi sia con la cultura veneziana. Dunque, a Fermo fra Tre e Quattrocento artigiani orafi toscani, e forse anche veneziani e abruzzesi, furono protagonisti di una stagione di intensa produzione che investiva non soltanto in opere d’eccellenza ma anche in suppellettili liturgiche, come le croce astili, molto diffuse in ambito urbano come pure nei centri minori della diocesi. Anche nella miniatura si riflette la temperie artistica tardo-gotica. Il messale commissionato dal vescovo Giovanni De Firmonibus (oggi conservato al Museo Diocesano), lungamente indagato negli studi70, rappresenta
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Barucca, L’oreficeria a Fermo e nel Fermano tra Gotico e primo Rinascimento, in Il gotico internazionale a Fermo cit., pp. 116-119; Montevecchi, L’oreficeria a Fermo e nel suo territorio: presenze e suggestioni veneziane, in L’aquila e il leone cit., pp. 79-87. 70 Il codice è stato indagato sotto molteplici aspetti: dal punto di vista della funzione liturgica, F. Concetti, Note liturgiche sul Messale De Firmonibus e sull’antico formulario della Messa dell’Assunta, «Quaderni dell’Archivio Storico Arcivescovile di Fermo», 32 (2002), pp. 19-56; per la decorazione, M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Il contributo della miniatura alla formazione del gotico internazionale nelle, in Fioritura tardogotica nella Marche cit., pp. 39-44 (si veda pure l’accurata scheda del manufatto, pp. 316-318) e della stessa curatrice La miniatura a Fermo in età tardogotica. Ipotesi e considerazioni per l’avvio di nuove ricerche, in Il gotico internazionale cit., pp. 154-163; i saggi contenuti in La Cavalcata dell’Assunta e la città di Fermo. Storia, arte, ritualità, araldica, cur. M. Temperini, Fermo 2011 indagano il codice sotto vari punti di vista, privilegiando il rapporto con la storia della città: Temperini, La Cavalcata dell’Assunta nella stagione cortese, pp. 17-45; M.C. Leonori, Il Messale de Firmonibus, Appunti codicologici, pp. 49-54; D. Simoni, Il Messale de Firmonibus: l’apparato iconografico, pp. 55-75; A. Monelli - F. Concetti, Il culto della Madonna Assunta in Cielo e la messa dell’Assunta nel Messale de Firmonibus, pp. 85-92; cfr. infine M. Mauro, Armi e Armati nella “Cavalcata dell’Assunta”di Fermo (Giovanni di Maestro Ugolino da Milano, Messale de Firmonibus, 1436), in Castelli, rocche, torri, cit., pp. 133-134. Sul corteo descritto nella miniatura, A. Tomei, Il “Palio dei Corsieri”per la festa dell’Assunta di Fermo dal secolo XIV alla fine dell’Ancien régime, in Giochi, tornei e sport dal Medioevo all’età contemporanea. Atti del convegno nazionale “Sport: Archivi e Memorie” (Fermo, 2 ottobre 1998-Porto San Giorgio, 3 ottobre 1998), Fermo 2005, pp. 9161 (riedito in La Cavalcata dell’Assunta cit., pp. 151-255).
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non soltanto un documento per la diffusione di stilemi lombardi nella sua ricca decorazione, ma anche una fonte straordinaria per la storia della città. Il codice venne decorato fra il 1420 e il 1436 con raffinate miniature di intonazione tardogotica da un maestro lombardo residente a Fermo, Giovanni di Ugolino da Milano, forse coadiuvato da un collaboratore marchigiano. L’interesse del codice per la storia della città risiede nel fatto che il suo decoratore non si limitò ad eseguire soggetti di ispirazione liturgica ma fissò mirabilmente sulla carta il fastoso corteo, che annualmente, nel giorno della festa dell’Assunta, si snodava lungo le vie cittadine per raggiungere la cattedrale sul Girfalco. Il vescovo committente volle che venisse fissata sulla pagina miniata l’immagine idealizzata di un mondo cortese all’interno del quale i ruoli sociali risultassero ben definiti, perfino stigmatizzati nella postura così come nell’abbigliamento dei figuranti al corteo. L’immagine del corteo dunque interpretava e trasfigurava la realtà storica coeva in un intreccio di riti collettivi e simboli del potere dalla dirompente potenzialità euristica. Il tema iconografico della miniatura è facilmente riconducibile ad un rito urbano di natura schiettamente cittadina e comunale: quello che si dispiega davanti agli occhi dell’osservatore è un ricco corteo, che culmina con l’offerta del pallio di seta, ricognitivo dell’autorità della città dominante, offerto dai centri soggetti del contado. In un periodo, in cui altrove i poteri signorili miravano a legittimare il loro potere attraverso la committenza delle opere d’arte, tese ad esaltare la personalità del principe, riproporre in chiave figurativa un rito che affondava le radici addirittura in età precomunale, allorché il dono del pallio era indirizzato al vescovo, acquisiva una patina arcaicizzante e significava voler riaffermare l’orgoglio della città comunale. La vita urbana del primo Quattrocento, lacerata dall’esperienza dei regimi dei signori-condottieri, si ricomponeva nel giorno della festa dell’Assunta per affermare la propria aspirazione alla pace collettiva. Infatti, nonostante Ludovico Migliorati in quegli stessi anni dominasse la città dall’alto delle fortificazioni del Girfalco e nonostante questi avesse fatto rimuovere nel 1419 la testa scolpita in pietra del tiranno Rinaldo di Monteverde, fino ad allora in bella mostra nella pubblica piazza a pubblico monito, nella pagina miniata il Girfalco dismette il suo severo volto militare, così ostile alla cittadinanza, per assumere invece l’aspetto di un elegante complesso di edifici tardogotici. Di lì a breve l’orgoglio cittadino si sarebbe ricongiunto con la sua vocazione repubblicana: secondo la cronaca di Antonio di Nicolò, al momento della cacciata dalla città di Francesco Sforza, nel 1446, il popolo fermano
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si sollevò al grido «Viva Santa Chiesa et la libertà» . Questo motto fissa con lucida consapevolezza l’idea che le sorti progressive della città dipendevano ormai dalla capacità di dialogo e di negoziazione fra i ceti dirigenti locali e i governatori dello Stato papale. Il cronista fermano ne esprime una chiara consapevolezza terminando la propria narrazione con l’anno 1446, allorché la cittadinanza si riappropriava degli spazi urbani fino ad allora controllati dai signori-condottieri e ritrovava la concordia non soltanto all’interno delle mura, ma anche con le vicine città nemiche. Grazie all’intervento di san Giacomo della Marca, infatti, si celebrò in quello stesso momento anche una storica pace fra Fermo ed Ascoli, eterne rivali. Alla fine di un’infervorata predica del santo frate dell’Osservanza, cui prese parte una gran massa di fedeli fermani insieme a quattrocento cittadini ascolani recanti in mano ramoscelli d’ulivo, tutti gli astanti inneggiarono alla concordia: gli uni e gli altri giurarono di diffondere nei luoghi pubblici l’immagine scolpita su uno scudo raffigurante gli stemmi inquartati delle due città, una delle quali è ancor oggi visibile nella Porta Solestà ad Ascoli72. Come dire, soltanto un periodo di stabile pacificazione avrebbe potuto ormai schiudere una nuova era.
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Tomei, La piazza del popolo cit., pp. 125-128. A. Salvi, Iscrizioni medioevale di Ascoli, Ascoli Piceno 1999, pp. 224-226; cfr. anche G. Pagnani, Federazione tra Ascoli e Fermo promossa da S. Giacomo della marca, «Picenum Seraphicum», 7 (1970), pp. 209-220.
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Un aspetto della committenza pubblica in ambito urbano: le fontane
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Per utilità e decoro della città
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Quando parlano delle fontane pubbliche, i più impegnati documenti cittadini (statuti e deliberazioni) sono improntati all’orgoglio. Tra i termini più tipici del lessico comunale, due sono quelli che ritornano a proposito delle fontane: l’utilitas e il decus. L’utilitas (ovvero commodum, ovvero profectus) sta a significare il mettere a disposizione della cittadinanza un bene pubblico1. Nel nostro caso, l’acqua. Facendo una fontana e dichiarandola fatta ad utilitatem civitatis, il Comune afferma che quel fonte, quell’acqua è di tutti e di nessuno; è, insomma, bene comune, uso civico; è una vittoria, piccola o grande non importa, sui tanti particolarismi che segnavano i diritti sulle acque. La fontana è una dichiarazione visibile della pubblicità e della libertà di prelievo dell’acqua, prima riservata ai privati proprietari di pozzi e cisterne. Bonum commune: hai così una riprova della forza espressiva di quella parola latina declinata al neutro, commune, che ha forgiato in maniera indelebile l’Italia delle città2.
1 Due soli esempi, da Orvieto. Nella seduta consiliare del 20 giugno 1301 si delibera il restauro della fontana di Sant’Angelo con la seguente motivazione: «pro evidenti utilitate Comunis et quia ad publicam spectat utilitatem fontes habundantes aqua habere in civitate»; tre anni dopo, il 22 giugno 1304 gli abitanti del rione di Santo Stefano chiedono «pro honore dicte nostre civitatis et publica utilitate atque commodo adiacentium» un restauro generale dell’acquedotto. Cfr. L. Riccetti, La città costruita. Lavori pubblici e immagine in Orvieto medievale, Firenze 1992, pp. 165-166, 167. 2 Cfr. gli atti del recente convegno Il bene comune: forme di governo e gerarchie sociali nel basso medioevo. Atti del XVLIII Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 2011), Spoleto 2012. Nell’ampia bibliografia precedente, ci limitiamo a citare E. CrouzetPavan, «Pour le bien commun»... À propos des politiques urbaines dans l’Italie communale, in Pouvoir et édilité. Les grands chantiers dans l’Italie communale et seigneuriale, Rome 2003, pp. 11-40.
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L’altro motivo di orgoglio è il decus della città, l’ornamentum di essa, un obiettivo perseguito con attenzioni al contempo estetiche e di funzionalità. La fontana è utile ma deve essere una cosa bella, che impreziosisce il paesaggio urbano: lo sgorgare limpido dell’acqua, il lieve mormorio degli zampilli (iocundo murmure fontes, dice di sé la fontana di Perugia3) danno gioia agli occhi e ai sensi. Lo Statuto di Treviso dice che i fonti, insieme con le acque che scorrono, sono la bellezza della città: «cum pulcritudo sit quedam civitatis Tarvisii fontes, flumina et cagnani»4. Un analogo concetto viene espresso a Siena: «cum copia fontium et aquarum habundantia decoret plurimum civitates»5. La fontana pubblica comunale è un piccolo gioiello, che ingentilisce la, per il resto solenne e grandiosa, politica comunale della bellezza. In particolare lo è la fontana della Piazza grande, in quelle città che decidono di farla. Sappiamo bene quanto impegno misero i Comuni nel creare una piazza che rappresentasse, diremmo oggi, il primato della politica ed esaltasse il prestigio della città, che fosse una sorta di vetrina offerta all’ammirazione dei cittadini e dei forestieri. Quello spazio doveva essere potente, doveva incutere timore e rispetto; e insieme doveva essere cortese e attraente, insomma bello, e perciò spesso venne scenograficamente completato dalla costruzione di fontane monumentali. Non si vogliono affatto affermare, di queste due direttrici del governo comunale (e in specie popolare), la perfetta coerenza e la sovrana assolutezza ideologica: sia il perseguimento dell’utilitas pubblica, dell’appropriazione dei diritti sulle funzioni e risorse urbane (compresa l’acqua); sia la politica del decus urbano, il riassetto del paesaggio cittadino nel suo complesso e nel suo vertice, la piazza grande, dovevano fare i conti con il preesistente, e dunque si svolsero per compromessi e adattamenti, ebbero accelerazioni in avanti e ritorni indietro. Ma sta di fatto che la fontana questo vuole rappresentare, il successo del Comune e del Popolo nel governare e modellare la città al servizio della collettività6.
3 A. Bartoli Langeli - L. Zurli, L’iscrizione in versi della Fontana Maggiore di Perugia, Roma 1996, p. 85. La corretta lezione del primo verso dell’iscrizione va segnalata, perché la vulgata precedente (e tuttora persistente) portava un incomprensibile iocundum vivere fontes. 4 Gli statuti del comune di Treviso (secc. XIII-XIV), a cura di B. Betto, Roma 1984-1986 (Fonti per la Storia d’Italia, 109, 111), I, p. 138: cap. CLXVIII, De reaptatione foncium et fluminum. 5 F. Bargagli Petrucci, Le fonti di Siena e i loro acquedotti, Siena-Firenze-Roma 1903, rist. anast. Siena 1974, II, p. 20; citazione da D. Balestracci, L’acqua a Siena nel Medioevo, in ‘Ars et Ratio’. Dalla torre di Babele al ponte di Rialto, cur. J.-C. Maire Vigueur - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1990, pp. 19-31: 30-31. 6 Cfr. S. Merli, Fonti e fontane dell’Umbria, Perugia 2000, pp. 91-96.
UN ASPETTO DELLA COMMITTENZA PUBBLICA: LE FONTANE
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Portare l’acqua in città
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La fontana dunque unisce l’utile e il dilettevole. Essa è l’emergenza visibile, alla luce del sole, del sistema di approvvigionamento idrico della città7. Per mettere l’acqua a disposizione della cittadinanza, ad alcune città era sufficiente raccogliere e canalizzare le acque sorgive, piovane e d’infiltrazione. Altre città, specie quelle d’altura, posero in atto impegnativi interventi di ingegneria idraulica, che riuscirono più o meno bene e comunque, specie se mal riusciti, furono sempre all’ordine del giorno. Quelle che l’avevano, rimisero in funzione l’antico acquedotto romano (per esempio Cortona e Tarquinia, per non dire di Roma); altre, che non l’avevano, provarono a farsene uno nuovo “alla romana”, parte interrato e parte sospeso, con arconi e cunicoli, sifoni e condotte forzate. Un’impresa nella quale si cimentarono nel Due-Trecento poche città: Sulmona nel 1256, Viterbo nel 1276, Perugia nel 1278, poco più tardi Orvieto e Spoleto8; e ancora, con acquedotti minori, Assisi, Gubbio e Massa Marittima9. A far fede dell’impegno di simili opere è sufficiente la più ardita, il cosiddetto Ponte delle Torri di Spoleto10.
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7 Fondamentale in merito è D. Balestracci, La politica delle acque urbane nell’Italia medievale, «Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Âge», 104/2 (1992), pp. 431479. Si hanno molti approfondimenti specifici: per esempio, quanto all’Italia centrale, G. Cherubini, Lo sfruttamento dell’acqua negli Statuti della Marca meridionale, in Arti e manifatture nella Marca nei secoli XIII-XVI. Atti del XXI Convegno di studi maceratesi (Matelica, 16-17 novembre 1985), «Studi maceratesi», 21 (1988), pp. 27-39; A. Lanconelli - R.L. De Palma, Terra, acqua e lavoro nella Viterbo medievale, Roma 1992 (Nuovi Studi storici, 15). 8 Come risulta dall’attenta disamina di G. Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia e l’adduzione idrica nelle realtà comunali centroitaliane, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del convegno internazionale di studi (FirenzeColle di Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), cur. V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 317-330: 321-322, con belle descrizioni, precisazioni cronologiche e bibliografia. Le date fornite nel testo sono quelle ricordate dalle città per celebrare la conclusione dei lavori, che poté arrivare anche a notevole distanza di tempo dalla prima decisione: per esempio a Perugia la costruzione dell’acquedotto fu deliberata nel 1254 e portata a termine più di vent’anni dopo. 9 Per Assisi: Dare acqua ad Assisi. Gli acquedotti antichi da Panzo, cur. M. Barbanera, M.A. Carloni - F. Santucci - O. Stefanucci, Perugia 2004 (Deputazione di storia patria per l’Umbria, Appendici al «Bollettino», n. 20). A Massa Marittima e Gubbio si accennerà più avanti. 10 Celebre già alla metà del Trecento, quando Fazio degli Uberti lo ricordava fra le cose mirabili del Dittamondo: «il ponte di Spoleti ancor mi piace» (lib. III, cap. X). L’opera grandiosa era non solo condotto idrico ma anche ponte fra due montagne (il colle Sant’Elia e il Monteluco); la sua fondazione «è concordemente ancorata a quella della nuova cinta delle mura cittadine», in costruzione dal 1296 (Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 322).
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Quale che fosse la provenienza delle acque, tutte le città realizzarono una rete interrata di condutture per l’adduzione idrica nei diversi luoghi dell’abitato, per servire le esigenze alimentari, igieniche e manifatturiere del popolo. Gli sbocchi dell’acqua alla luce del sole contavano così, accanto alle fontane vere e proprie, piccoli monumenti d’arte, fontanelle e fontanoni, abbeveratoi e guazzatoi, che andavano man mano a ridisegnare e a movimentare il volto della città. Molte informazioni su questo diffuso sistema di fonti forniscono gli statuti cittadini. Ben nota è l’insistenza con la quale ci si adoperò per garantire la manutenzione e l’integrità della rete idrica, per assicurare la limpidezza delle acque chiare (e giù divieti severissimi di fare e gettare turpitudines nei pressi delle fontane o di riversarvi immunditie), per evitare usi impropri e appropriazioni indebite dell’acqua pubblica11. Quanto poi all’installazione di nuovi punti d’acqua e alla manutenzione dei preesistenti, solo la fontana di Piazza e poche altre erano a carico della collettività generale; erano invece a carico dei vicini, della vicinìa le altre, le fontane di contrada12. Altro problema, anch’esso assai presente ai governi cittadini, era quello della reale efficacia delle fontane e fontanelle, non sempre adeguatamente ‘performanti’ dal punto di vista della pubblica utilità e delle esigenze pratiche della collettività13.
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Tutto ciò è ben noto, per merito di una bibliografia relativamente abbondante, della quale qui abbiamo fornito solo un assaggio. Qualche maggior difficoltà nel reperimento delle fonti e dei fonti (scusate il bisticcio di parole) abbiamo incontrato per ottenere il nostro scopo, ossia una rassegna delle fontane pubbliche, e in special modo delle fontane di Piazza, secondo i due parametri dello spazio e del tempo. Secondo geografia: l’Italia mediana, tra Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. Secondo 11 12
Merli, Fonti e fontane cit., pp. 113-139. Cfr. Balestracci, La politica delle acque cit., p. 466, che ricorda come a Bologna nel corso del Duecento vicinìe e contrade sono impegnate nella manutenzione dei pozzi urbani. Quanto alle fontane, cfr. lo Statuto di Fabriano del 1415, ove si parla di «fontes qui facti fuerint per formam statuti per homines contrate secundum dictam contratam»: Lo statuto comunale di Fabriano (1415), edd. G. Avarucci - U. Paoli, Fabriano 1999, p. 293. 13 André Guillerme (Puits, aqueducs et fontaines: l’alimentation en eau dans les villes du nord de la France, Xe-XIIIe siècle, in L’eau au Moyen Âge, Aix-en-Provence 1985 [Senefiance, 15], p. 191) «fait remarquer que les fontaines médiévales ne pouvaient pas, en raison de l’étroitesse des canalisations, avoir un débit supérieur à dix litres par minute. Le filet d’eau était généralement si mince que les utilisateurs leur avaient donné des surnoms aussi révélateurs que “Pissotte” ou “Pissellotte”»; così C. Gouédo-Thomas, Les fontaines médiévales. Images et réalité, «Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Âge», 104/2 (1992), pp. 507-517: 513. Un esempio nostrano: a Perugia c’è tuttora la fontana del Piscinello (Merli, Fonti e fontane cit., p. 59).
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cronologia: il Duecento, con prolungamenti fino al Quattrocento. Il fatto è che poche sono le fontane effettivamente impiantate nelle città che siano sopravvissute nella forma originaria e sul sito originario. Parecchi infatti sono i casi di rimozione di fontane, quando ritenute non più rappresentative in contesti urbanistici fortemente rimaneggiati, e ancor più numerosi i rifacimenti e gli spostamenti. La piccolezza in questi casi si è dimostrata un handicap. Ma il campione che presentiamo sembra almeno utile a rappresentare quel che poté avvenire in molte città, anche se non è rimasto documentato né sulla carta né materialmente. Le basi dello studio stanno ovviamente nelle monografie locali e specifiche, poiché manca una trattazione complessiva; a livello generale, piace segnalare l’attenzione che alle fontane riservò Jacques Heers nel suo La ville au Moyen Âge del 199014. Siena e Viterbo
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Ci sono anzitutto città che sembrano perseguire una strategia delle fontane. Per farci capire, altre città (Venezia, Bologna, Pisa...) attuano invece una strategia dei pozzi. Quelle che puntano su una moltiplicazione e dislocazione programmata di fontane sono almeno Siena e Viterbo15. Siena passa attraverso tre fasi, molto precoci16. Inizialmente «aveva raccolto in una prima cintura di fonti suburbane le acque di stillicidio del suo arido sotto suolo»: dunque un fonte per ciascuna porta della città (una delle prime, quella di Porta Ovile). Agli inizi del XIII secolo si dedicava «all’escavazione dei bottini, canali sotterranei che alimentavano le principali fonti cittadine», ossia le fontane dislocate presso i grandi conventi mendicanti, quelli dei domenicani17, minori, agostiniani e servi di Maria, 14 J. Heers, La città nel medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, trad. it. cur. M. Tangheroni, Milano 1995 (ed. orig. La ville au Moyen Âge en Occident. Paysages, pouvoirs et conflits, Paris 1990), pp. 337-353. Il paragrafo è intitolato La fontana, simbolo d’autonomia o dono del principe, e fa parte del capitolo Il bene comune: sollecitudine o pretesto?. 15 Fuori del nostro ambito d’interesse l’esempio maggiore è quello di Genova: una decina di fonti allineati sulla Ripa, che assicurano il rifornimento del porto e dei magazzini portuali; ben dentro la città, la famosa Fontana Marosa (altrettanto famosa che ignota); all’estremo opposto, verso l’entroterra, accostate alle mura, quattro modeste fontanelle che servono i borghi e i sobborghi della città. Balestracci, La politica delle acque cit., p. 463. 16 Ibid., pp. 462-463 (qui i brani virgolettati). Sull’argomento si vedano inoltre Balestracci, L’acqua a Siena cit.; D. Balestracci - L. Vigni - A. Costantini, Memoria dell’acqua. I bottini di Siena, Siena 2006. Una breve panoramica in P. Cammarosano, Siena, Spoleto 2009 (Il medioevo nelle città italiane, 1), pp. 126-127. 17 Presso San Domenico è Fonte Branda, motivo di un forte orgoglio civico che si protrae nel tempo, se un anonimo cittadino, rivolgendosi nel 1397 alle magistrature, ricordava
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che vedevano così esaltata la loro funzione di ‘punti forti’ urbanistici. Nel 1250 era in grado di programmare l’installazione di fontane anche nei borghi, fino a una distanza di due miglia dalle mura, come attesta il Breve degli officiali di quell’anno18. Solo all’inizio del Trecento si pensò alla fontana di Piazza, alla quale ci dedicheremo più avanti. Straordinario, com’è noto, è il caso di Viterbo, detta infatti la città delle fontane, e precisamente delle novantanove fontane (99 è un numero che ricapiterà). Ci basiamo soprattutto sulla monografia di Cecilia Piana Agostinetti del 198519. Per un paio di secoli, Viterbo non fa altro che fontane (si fa per dire, fece anche ben altro); le fa con la sua pietra caratteristica, il peperino. Il tessuto urbano è caratterizzato da piazzette, di forma più o meno regolare, nelle quali compaiono sempre una chiesa e una fontana; un po’ come i campi e campielli di Venezia, una chiesa e un pozzo. A Viterbo ci sono fontane semplici, a vasca rettangolare addossata, poste in prossimità delle porte urbiche; ma nel centro cittadino ce ne sono tante a forma rotonda e monumentale. La più antica è la Fontana del Sepale, Fons Sepalis, poi detta Fontana Grande, attestata fin dal 120620. Nonostante i frequenti rifacimenti, se ne riconosce la struttura originaria: pianta centrale a croce greca, tre vasche sovrapposte sorrette da una colonna centrale terminante con un pinnacolo. Di qui esce l’acqua, che scende da una coppa all’altra attraverso protomi a muso di leone [Fig. 1].
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che «tutti e’ forestieri che ci vengono [a Siena] vogliono vedere Fontebranda»; e ancora nel 1417 il Concistoro del Comune definisce la stessa fonte «una delle più belle et fructuose fonti d’Italia»: Balestracci, L’acqua a Siena cit., p. 31. 18 Breve degli officiali del comune di Siena compilato nell’anno MCCL al tempo del podestà Ubertino da Lando di Piacenza, ed. L. Banchi, «Archivio Storico Italiano», ser. III, 3/2 (1866), pp. 3-104: 93, cap. XLVII, De tribus electis super fontibus inveniendis et construendis extra civitatem ad duo miliaria. 19 C. Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo. Presenze vive nella città, Roma 1985. Cfr. anche Lanconelli - De Palma, Terra, acqua e lavoro cit., pp. 6-7. Si ringrazia per le molte indicazioni forniteci Eleonora Rava. 20 Si parla di una data anteriore, 1192 (così anche Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo cit., p. 56), frutto in realtà di un equivoco indotto da Pinzi, poi chiarito da Lanconelli - De Palma, Terra, acqua e lavoro cit., p. 6. Un’epigrafe oggi non più leggibile farebbe risalire al 1212 il completamento del manufatto ad opera di due maestri scalpellini, ma Attilio Carosi ne dubita. Le scritte leggibili attestano un rifacimento completo della fontana nel 1279 e un ulteriore restauro nel 1424: A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo (secc. VI-XV), Viterbo 1986, pp. 86-89. Sulla fontana del Sepale, ottimo l’articolo di Chiara De Santis del 1997 Fontana Grande: storia e particolarità, leggibile online all’indirizzo http://www.bibliotecaviterbo.it/rivista/1997_3/De_Santis.pdf.
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Ne seguirono molte altre. Una rapida elencazione di quelle fatte nella prima metà del Duecento può dare un’idea del fenomeno: degli inizi del secolo sono le fontane di piazza del Comune o piazza Nuova (distrutta nel 1243) e di Pianoscarano; si ebbero poi le fontane di San Tommaso (più tardi detta della Morte); del Palazzo dei Papi; della Crocetta o di Santa Maria in Poggio (teatro di un miracolo di santa Rosa); di San Giovanni in Zoccoli (1246); di piazza delle Erbe; di San Faustino (dopo il 1251); della Rocca. Si arriva al 1255, quando ne furono fatte tre. Lo riferisce il cronista quattrocentesco Niccolò della Tuccia, che ben esprime che cosa rappresentassero le fontane per la cultura comune dei viterbesi: «1255. [...] Anche fu fatta una fontana nel chiostro di San Francesco e un’altra nella piazza di Sant’Angelo, e preser l’acqua nella strada di Roma. Anche fu fatto un palazzo a S. Lorenzo e lo domandorno il Vescovato, e il primo Francesco Raniere [...] gli fece fare una bella fontana, e fu fatta alle spese del Commune acciò venisse volontà al papa di stare in Viterbo, dove non era mai venuto se non per passaggio»21. Non solo le fontane di città, ma anche le fonti esterne avevano da essere pregevoli: lo Statuto viterbese del 1251 impone agli abitanti della contrada di San Sisto di fare a loro spese fuori della porta urbica un «fontem pulcherrimum et bene muratum», già denominato Fonte della Rosa22. Nelle fontane viterbesi si riscontra, come dominante elemento iconografico e plastico, il leone; e leonine di solito sono le protomi dalle quali sgorga l’acqua. Il che dipende sì dal fatto che il leone è l’animale simbolo di Viterbo, ma anche dal tòpos leonino di tutta la produzione consimile a livello europeo23. Meglio non uscire dal seminato, pare dire Niccolò della Tuccia: «1470. [...] E in quell’anno fu principiata una bella fonte nella piazza del Comune di Viterbo con sei compassi e sei cannelli, che gettavano acqua. In cima alla fonte fu posto un Ercole mal fatto, formato come una vil feminella. Li mastri che la fecero erano fiorentini, e non intesero bene detto lavoro, secondo mio giudicio»24.
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Cronache e statuti della città di Viterbo pubblicati e illustrati da Ignazio Ciampi, Firenze 1872, p. 31. 22 Ibid., p. 544: cap. 200, Quod potestas faciat fieri fontem Rose cum abbeveratorio. 23 Cfr. I. Voss, Fontane, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VI, Roma 1995, pp. 271277: 272. 24 Cronache e statuti della città di Viterbo cit., p. 98.
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Due strutture fondamentali
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Le fontane urbane di Viterbo hanno a terra una vasca a pianta circolare, poligonale o cruciforme; al centro di essa s’innalza una colonna, dal vertice della quale sgorga l’acqua. Sono fontane libere e visibili da tutti i lati. Su questa base comune, si distinguono due tipi: la fontana “a fuso”, con la sola colonna verticale, composta e terminante in vari modi; e la fontana “a coppe sovrapposte” (come la fontana del Sepale che si è descritta), con la colonna che sorregge altre vasche rotonde, di solito due. Questa seconda è il modello più caratteristico, la fontana “alla viterbese”, destinata a notevole fortuna. La tradizione della fontana a coppe sovrapposte, formatasi così precocemente e corroborata dalla fama dei maestri fontanari viterbesi (che furono spesso chiamati altrove per prestare la loro opera), s’irradiò soprattutto verso est, nelle città, nell’ordine, dell’Umbria, delle Marche, dell’Abruzzo; e di qui verso sud. Esemplare più famoso, la Fontana di Perugia. Non attecchì invece il tipo della fontana rotonda, in direzione settentrionale, verso le città toscane. Qui domina la tipologia – peraltro presente anche a Viterbo, nelle fonti periferiche e in quelle minori – della fontana a edicola, addossata a una parete, con una o più vasche di forma rettangolare o emisferica, a vista frontale. La fontana a edicola può essere aperta oppure strutturarsi in forma di loggia ad arcate ogivali. Ma le variazioni che s’innestano su questo tipo sono molto numerose. Leggiamo la descrizione delle fontane senesi proposta da Italo Moretti: «Alcune delle maggiori fonti di Siena (Branda, Nuova, d’Ovile, di Follonica, di Pescaia) ebbero una struttura architettonica a protezione delle vasche, costituita da un loggiato quadrilatero, con volte impostate su due o tre arcate a sesto acuto o a tutto sesto (Fonte di Pescaia), aperte sulla fronte principale, talora di grande eleganza formale (Fonte Nuova) da ricordare modelli cistercensi; in qualche caso l’edifico si conclude alla sommità con il solito ricorso di arcatelle pensili e merlatura, come nella più grande e forse più antica Fonte Branda (seppure con interventi di varie epoche) e nella Fonte di Pescaia, successivamente sopraelevata»25 [Fig. 2]. Fontane libere e circolari, e fontane addossate: queste le due strutture fondamentali. Quanto al primo tipo, riservandoci di accennare a Perugia più avanti, consideriamo le fontane di Fabriano e di Gubbio, l’una brevemente e l’altra più diffusamente. 25 I. Moretti, Siena. Architettura, in Enciclopedia dell’arte medievale, X, Roma 1999, pp. 631-641: 640.
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Fontane circolari
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Nella platea Comunis di Fabriano, come altrove, il riassetto del tessuto urbano e la ridefinizione dello spazio pubblico in chiave monumentale passano per l’edificazione del Palazzo del podestà (anni 1255-1260) e della grande fontana pubblica ottagonale (1285 circa)26. Pochi anni dopo la Fontana Maggiore di Perugia – di cui replica forma e dimensioni, ma non l’ornamentazione e le scritte incise – la fontana di Piazza costituisce un ulteriore esempio di opera pubblica realizzata in nome del decoro e del bene comune, il cui valore civico permane anche dopo la perdita dell’autonomia comunale27. Quanto meno singolare è il caso di Gubbio: una fontana dentro il Palazzo pubblico28. La segnalava già Leandro Alberti a metà Cinquecento: «In questa nuova Città, fra gli altri nobili edifici, si vede il Palagio, ove dimorano li Priori, fabricato con grand’arteficio, nel quale (oltre all’altre singolari opere che in esso si ritrovano), èvi una fontana, che salisce sopra tutti gli edifici d’esso, e getta abbondanti e chiare acque nel mezzo d’una largha sala, con gran piacere de’ riguardanti. E condutta etiandio l’acqua di detta fontana per tutte le stanze del detto [Palagio]»29. La novità eugubina sotto il profilo idraulico consiste nell’adduzione dell’acqua ai piani alti di un edificio; per farne che? per alimentare una fontana al chiuso, al centro di un salone al secondo piano del palazzo, con una funzione estetica (per il «piacere de’ riguardanti») ma anche, a quanto pare, di servizio, poiché da essa l’acqua arrivava agli altri locali del palazzo [Fig. 3].
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R. Sassi, La data e l’artefice perugino della fontana maggiore di Fabriano, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», ser. 7, 4 (1949), pp. 71-82; Sassi, Un altro documento per la storia della fontana romanica nella piazza maggiore di Fabriano, ibid., ser. 7, 6 (1951), pp. 41-44. 27 Insiste su questo aspetto J.-B. Delzant, ‘Instaurator et fundator’. Costruzione della signoria urbana e presenza monumentale del Comune (Italia centrale, fine del Medio Evo), «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 108 (2012), pp. 271-338 (ed. orig. in The Power of Space. Cities in Late Medieval/Early Modern Italy and Northern Europe, cur. M. Howell, in corso di stampa): pp. 320-321. Delzant in particolare enfatizza le disposizioni sulla manutenzione della fontana contenute nello Statuto del 1415, quando la città era sotto il dominio dei Chiavelli: Lib. V, capp. II-III, De non ledendo fontem platee. Cfr. Lo statuto comunale di Fabriano cit., pp. 289-291. 28 Per quanto segue fa testo il saggio di P. Micalizzi, Gubbio. Storia dell’architettura e della città, Gubbio 2009, specialmente pp. 123-125. Di qui, specie da p. 124, i brani virgolettati riportati più avanti. 29 L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, In Venegia, Appresso Pietro de i Nicolini da Sabbio, MDLI, pp. 73-74. Citato da Micalizzi, Gubbio cit., p. 124.
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Il palazzo è il Palazzo del Popolo, detto dei Consoli (così erano chiamati a Gubbio quelli che altrove erano i Priori), edificato a partire dal 1332 su un’ardita piazza pensile capace di reggerne la mole a dispetto dello scoscendimento della montagna30. Evidentemente già in fase di progettazione era previsto che esso fosse dotato di un sistema di adduzione e distribuzione idrica31. L’unico fatto simile che si riscontri in Italia è, manco a dirlo, viterbese: si tratta della fontana nella loggia del Palazzo dei Papi, una loggia sopraelevata32. Ma di una fontana al chiuso – la loggia viterbese è aperta e soleggiata – non se ne conosce nessun’altra. La fontana di palazzo era nata all’aperto, come dimostra la notevole usura dell’invaso. Paolo Micalizzi, il maggiore storico dell’architettura urbana di Gubbio, ritiene che questa fontana fosse l’originario fons arenghi, verosimilmente posto a ornamento dell’antica piazza del Comune. Non è identificazione da poco, poiché il riuso, la “monumentalizzazione” della fontana pubblica avrebbe un surplus di valore: l’operazione lascerebbe intendere «la definitiva sanzione del trasferimento (reale e simbolico) dell’autorità di governo dall’antica ‘platea’ alla nuova residenza consolare» (Micalizzi). Si veniva cioè a stabilire una stretta connessione tra l’acqua, tradizionalmente intesa come fonte di vita e come forza motrice capace di alimentare le attività produttive della comunità, e il potere politico, per il tramite di una metaforica «fonte del potere» (idem). Senza voler ridurre la brillantezza di quest’interpretazione, ci permettiamo un breve excursus, fondato anche su attestazioni inedite (si vedano i
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30 Si veda la bella monografia di M. Belardi, Il Palazzo dei Consoli a Gubbio e il centro urbano trecentesco, Perugia 2001. Della costruzione del Palazzo si parla nello Statutum Comunis et Populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii. Con le aggiunte del 1376, ed. A. Menichetti, Gubbio 2002, pp. 64-65 (Lib. I, cap. C: De ordine tenendo circha edifficationem palatii novi et platee et cisterne). 31 «La realizzazione di uno dei più ambiziosi progetti urbanistici dell’inizio del Trecento [...] non riguardava soltanto la costruzione del palazzo dei Consoli e del palazzo Pretorio (quest’ultimo mai portato a termine), ma anche la creazione di una piazza pensile e la realizzazione di un acquedotto, il Bottaccione, che doveva condurre acqua fino all’interno del palazzo dei Consoli»: M.E. Savi, Gubbio, in Enciclopedia dell’arte medievale, VII, Roma 1996, pp. 140-146: 141. 32 Dal lato di Gubbio, propone l’apparentamento Micalizzi, Gubbio cit., p. 124. Viceversa e prima, dal lato di Viterbo, Laura Pace Bonelli sottolinea come la «soluzione ardita e carica di significati politici» della fontana della loggia papale «non trovò sostanzialmente riscontri nell’edilizia pubblica dell’Italia centrale durante il Medioevo, con la significativa eccezione del palazzo dei Consoli di Gubbio (sec. 14°) dove, analogamente, fu costruito un acquedotto per alimentare la fontana interna all’edificio» (Viterbo, in Enciclopedia dell’arte medievale, XI, Roma 2000, pp. 709-717: 715). Sulla fontana della loggia dei Papi cfr. Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo cit., pp. 44-47.
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documenti riportati nell’appendice allegata a questa relazione), che forse mette in dubbio l’identità tra il fonte di Palazzo e l’ex fonte dell’Arengo. Il che comunque non inficia il fatto fondamentale e solitario: sicuramente una antica fontana, fosse o non fosse quella dell’Arengo, fu portata da uno spazio aperto a un interno chiuso. Fontane, pigne, alberi
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Per tornare alle fontane circolari di Viterbo, frequente è la terminazione della colonna portante con una pigna, dalle cui scaglie esce l’acqua di adduzione33. Per questo elemento ci affidiamo per brevità a quanto scritto da Irmgard Voss nell’Enciclopedia dell’arte medievale34. Il prototipo della fontana a pigna è il càntaro romano che, trovato nei pressi del Pantheon (per questo dà il nome a quel rione), fu poi trasferito nell’atrio della basilica di San Pietro; oggi è ai Musei Vaticani, nel cortile appunto della Pigna. L’esempio medievale maggiore è la fontana a pigna che stava nell’atrio della Cappella palatina di Aquisgrana. Nell’iconografia cristiana, la pigna è il simbolo dell’albero della vita e in particolare è simbolo fallico e della fertilità; cosicché, anche se non c’entra nulla, il pensiero, un po’ malizioso, va alla Fonte Nova di Massa Marittima, una fontana ad arconi la cui parete di fondo di sinistra è occupata da quel famoso dipinto a secco, databile tra la fine del Due e l’inizio del Trecento, riportato alla luce nell’anno 2000. Esso rappresenta otto donne, quattro buone a destra e quattro cattive a sinistra, sotto un grande albero dal quale pendono venticinque organi maschili, mentre sulle loro teste svolazzano delle nere aquile imperiali [Fig. 4a-b]. Piovono le interpretazioni35. Però, caspita, la connessione tra una fontana e un dipinto è assai rara; e doveva capitarci proprio questo murale molto sui generis, per dirla eufemisticamente.
33 A Viterbo il simbolo della pigna ricorre nelle fontane duecentesche di S. Tommaso, detta della Morte, di S. Faustino, di S. Maria in Poggio e di Pianoscarano. 34 Voce Fontane, citata a nota 23, pp. 271-272. 35 Massa Marittima. L’albero della fecondità, Massa Marittima 2002; G. Ferzoco, Il murale di Massa Marittima, Firenze 2005; A.S. Hoch, Duecento Fertility Imagery for Females at Massa Marittima’s Public Fountain, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 69/4 (2006), pp. 471-488; E.M. Longenbach, A fountain bewitched. Gender, sin, and propaganda in the Massa Marittima mural, The University of North Carolina at Chapel Hill 2008. Si veda il sito http://gradworks.umi.com/14/52/1452979.html. Nella saggistica generale, la prima citazione si deve a G. Ortalli, Comunicare con le figure, in Del vedere: pubblici, forme e funzioni, cur. E. Castelnuovo - G. Sergi, Torino 2004 (Arti e storia del Medioevo, III), pp. 477-518: 497.
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A tutt’altro albero rinvierebbe la fontana dell’Arringo di Ascoli Piceno, antenata delle due fontane ottocentesche che ornano oggi la piazza: essa prese il posto dell’olmo, l’albero sotto il quale si pronuncia giustizia e si discute del bene comune. Scrive Heers: «Ad Ascoli Piceno [...] la tribuna dell’arengo [...] venne eretta molto tempo dopo che fu piantato l’olmo in piazza della cattedrale: la cronaca parla di questo magnifico albero di più di trecento anni, abbattuto nel 1369 da un terribile vento: su quest’area venne poi installata la Fonte dell’Olmo»36. Quanto alla cronologia, siamo rassicurati dallo Statuto di Ascoli degli anni 1377-1496, che cita di passaggio la Fonte de lu Arrengho: la corsa per il palio dell’Assunta si corre «da lu piano de Porta Romana per la strata dericta perfine ad Sancto Rasmo et de là perfine a la fonte de lu Arrengho»37. Si rischia di girovagare per fontane e di non finirla più. Conviene infine considerare le tre fontane di città dell’Italia mediana più famose: in ordine cronologico d’impianto, la Fontana delle Novantanove cannelle dell’Aquila (1272), la Fontana Maggiore di Perugia (1278), la Fonte Gaia di Siena (1343 e 1419). Tre fontane-capolavori
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La fontana dell’Aquila38 fu fatta nel 1272 in una forma ben diversa da quella odierna: un solo prospetto, con lieve inflessione al centro; quindici sole cannelle. I quindici mascheroni in pietra antropomorfi e zoomorfi si devono al firmatario dell’opera, Tancredi da Pentima, uno scultore sulmonese seguace di Nicola Pisano. In tempi successivi si allungò il prospetto originario e si aggiunsero i due laterali; così le cannelle di tempo in tempo diventarono prima 20, poi 33, poi 93, poi 99: ed ecco le Novantanove cannelle, che hanno soppiantato il nome originario di Fonte della Rivera [Fig. 5]. La storia dell’approdo al fatidico 99 merita di essere raccontata. Alla fine del Cinquecento le cannelle, per occupare regolarmente i tre prospetti, erano arrivate a 93. Poco tempo dopo l’erudizione locale cominciò a 36 Heers, La città nel medioevo cit., p. 462. La fonte che egli cita di passaggio è la Cronaca Ascolana di Francesco Bartolini di Arquata. 37 Statuti di Ascoli Piceno, edd. G. Breschi - U. Vignuzzi, Ascoli Piceno 1999-2004, I, p. 268: Libro II, cap. VI. 38 Monografia di riferimento: F. Bologna, La fontana della rivera all’Aquila detta delle Novantanove cannelle, L’Aquila 1997; le parole che, riportate, chiudono questo capitoletto, sono a p. 22.
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lavorare sul numero 99: 99 le parrocchie della città, 99 i popoli in cui si divideva la cittadinanza, 99 infine i castelli che concorsero alla fondazione della città. E più d’uno contò, alla grossa, non 93 ma 99 cannelle. Dopo il 1861, il Comune decise: hanno da essere 99, e aggiunse le ultime sei, senza nemmeno ornarle con un mascherone posticcio. Quelle sei cannelle, strette e nude, sono il tocco finale di una manipolazione progressiva che ottiene «il riaggancio al mito civico, e a suo modo “nazionale”, del Novantanove»: così Ferdinando Bologna, che ha messo magistralmente le cose a posto nel suo bel libro del 1997.
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Perugia, 1278 [Fig. 6]: Cum fons Platee civitatis Perusie miro constructus ordine et edificio suisque sculturis, celaturis atque structuris speciose ornatus, omnibus perquam maxime admirandus existat, qui quantum honoris, ornatus, ac decoris predicte civitati de cetero tribuat et afferat, nemo est qui ignoret. [...] Cuius quidem fontis aqua de Monte Paciano per tria miliaria a civitate distante satis cum difficultate et maximo dispendio ad eundem fontem deducta fuit. In quo quidem monte aqua ex multiplici vena in unum collecta locum muro undique satis amplo circundatum, “conserva magna” vulgo nuncupatum, in satis abundanti copia tenetur et cohercetur. Ex indeque per aqueductum plumbeum miro, amplo et in convallibus altissimo, per colles et montes, per subterraneos meatus et cuniculos ascendentem in ipsum fontem miro ordine et modo permagnifice deducitur. Quod quidem opus centum et sexaginta milibus florenis auri (prout in antiquis Perusine civitatis annalibus scriptum reperitur) constructum ingeniose fuit.
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Con questo vero e proprio inno all’acquedotto di Monte Pacciano e alla Fontana Maggiore si apre il libro IV dello Statuto di Perugia a stampa del 1528, che tratta soprattutto del pubblico ornato39. La Fontana nacque nel 1278 come coronamento terminale di un’impresa straordinaria, appunto l’acquedotto, costato un’infinità di tempo e di denaro, «una delle più imponenti opere idrauliche del Medioevo occidentale» a dire di Romalli40. Capocantiere un religioso, il silvestrino fra Bevignate; responsabile dell’ac-
39 Statuta Auguste Perusie, Perusiae, in aedibus Hieronymi Francisci Chartularii, 15231528, f. IIr, Lib. IV (1528), proemio: «[...] Hinc est quod maiores nostri hoc quarto volumine statutorum, quod circa civitatis ornatum potissime versatur, primum de ipso fonte titulum preponere voluerunt». E subito il cap. I verte «De fonte plateę et eius aqueductu, conservis et venis ac de cisternis et puteis certo modo faciendis». 40 Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 317. Fondamentale, prima, M.R. Silvestrelli, «Super aquis habendis in civitate». L’acquedotto di Montepacciano e la Fontana Maggiore, in Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, cur. C. Santini, Perugia 1996, pp. 73-161.
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quedotto il ductor acquarum veneziano Boninsegna; scultori, i due Pisani, il vecchio Nicola e il giovane Giovanni; autore delle parti in bronzo (e in particolare della stupefacente vasca superiore), l’ottimo fonditore Rubeus. Insomma, i migliori ingegni disponibili nell’Italia di allora. Punto di partenza fu una riunione consiliare del 16 agosto 1277, che attribuì appunto a fra Bevignate il compito di decidere il tracciato urbano dell’acquedotto, in quale parte della piazza dovesse essere fatto il fonte e come lo si sarebbe fatto («ac etiam quomodo et qualiter dictus fons fieri debeat et de apparatu necessariorum pro ipso fonte faciendo»)41. Punto d’arrivo – almeno di arrivo dell’acqua, se non di chiusura del cantiere – la notizia cronistica: «1278. In quisto millessimo, dì xiij de ffebraio, venne l’acqua de Monte Pacciano e’lla fonte de la piaçça de Peroscia»42. Sei mesi soltanto, un tempo miracolosamente breve; ma così è43. Per farsi, oltre che committente, autore, per ottenere una cosa che fosse insieme una meraviglia e un programma politico, il Comune e Popolo di Perugia dovette affidarsi a una mente pensante (è stato fatto il nome di Bovicello notaio, cancelliere e dictator del Popolo)44, capace di intessere immagini e parole in una trama fittissima di significati simbolici45: alcuni elementari (e sono le formelle, con relative didascalie, della vasca inferiore), altri, cioè le statuette con relativi cartigli e l’iscrizione in 24 versi della vasca superiore, così sofisticati e ardui che nessuno ci capì niente, per sette secoli e più46. Un bell’esempio di quelle strategie così delineate da Maria Monica
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41 Documento pubblicato per la prima volta da G. Nicco Fasola, La Fontana di Perugia, Roma 1951, p. 57 (Archivio di Stato di Perugia, Archivio Storico del Comune di Perugia, Consigli e riformanze, 5/3, c. 21r). 42 F.A. Ugolini, Annali e cronaca di Perugia in volgare dal 1191 al 1336. Testo, commentario, annotazioni linguistiche, «Annali della Facoltà di lettere e filosofia della Università degli studi di Perugia», 1 (1963-1964), pp. 141-337: 154. 43 Dissente nettamente dalla communis opinio (che è anche di Silvestrelli e nostra) Bruno Toscano: Percorsi arnolfiani (scritto con Vittoria Garibaldi), in Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale. Catalogo della mostra (Perugia e Orvieto, luglio 2005gennaio 2006), a cura dei medesimi, Cinisello Balsamo (Mi) 2005, pp. 13-21: 16-18. La chiave, a nostro avviso impraticabile, è l’attribuzione di tutte le notizie del 1277 (come quella riportata sopra) non alla prima fontana ma alla seconda, non alla fontana dei Pisani ma alla fontana di Arnolfo, che sarà completata nel 1281; sulla quale cfr., nel medesimo volume, M.R. Silvestrelli, Acqua per la città. Lo spazio perduto della fontana di Arnolfo, pp. 113-119. 44 Sulla figura di Bovicello, cfr. S. Merli - A. Bartoli Langeli, Un notaio e il Popolo. Notizie su Bovicello Vitelli cancelliere duecentesco del Comune di Perugia, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano», 101 (1997-1998), pp. 199-303; A. Bartoli Langeli, Dettatore e poeta. Bovicello (Perugia, 1250-1304), in Bartoli Langeli, Notai, Roma 2006, pp. 211-236. 45 Ortalli, Comunicare con le figure cit., pp. 496-497. 46 A. Bartoli Langeli - N. Giovè Marchioli, Le scritte incise della Fontana Maggiore, in
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Donato: «nella mediazione visiva del potere – dei suoi simboli sacri e secolari, dei temi di cronaca come delle parole d’ordine e dei grandi princìpi – si era disposti a investire molto in denaro, in dottrina di giuristi e letterati, in talento e fatica d’artisti», facendo evidentemente affidamento «sulla rilevanza d’immagine e l’efficacia comunicante dei risultati»47.
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A Siena la fontana di Piazza48 fu il coronamento non di una grande impresa ingegneristica e idraulica, ma di una grande impresa architettonica e urbanistica: la progettazione della piazza del Campo – quella piazza che secondo i Senesi è «la più bela che si truovi»49. La si deliberava nel maggio 1309, motivandola col fatto che «intra li studii et sollicitudini e’ quali procurare si debiano per coloro, e’ quali ànno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la belleça de la città, et de le principali belleçe è di ciascuna gentile città che abiano alcuno prato overo luogo a deletto et gaudio de li cittadini et de’ forestieri»50. Siamo nel pieno del governo dei Nove, capace di fissare in pochi decenni e in modo permanente quei tratti ancora oggi inconfondibili del tessuto urbano. Alla progettazione della fontana si giunse più tardi, nel 1334, arrivando a inaugurarla nel 1343. Essa prese il nome significativo di Fonte Gaia, Fons Gaius, e l’artefice, maestro Iacobo di Vanni Ugolini, ebbe l’onore del soprannome “Giacomo dell’Acqua”. Era tuttavia una fontana modesta: «non molto grande», è scritto nella cosiddetta cronaca di Agnolo di Tura del Grasso51.
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Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, cur. C. Santini, Perugia 1996, pp. 163-195; Bartoli Langeli - Zurli, L’iscrizione in versi della Fontana Maggiore cit. 47 M.M. Donato, Dal ‘Comune rubato’ di Giotto al ‘Comune sovrano’ di Ambrogio Lorenzetti (con una proposta per la “canzone del Buon governo”), in Medioevo: immagini e ideologie. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 23-27 settembre 2002), cur. A.C. Quintavalle, Milano 2005, pp. 489-509: 489. 48 Sulla quale si veda ora La Fonte Gaia di Jacopo della Quercia. Storia e restauro di un capolavoro dell’arte senese, cur. E. Toti - S. Dei, Firenze 2011. Interessano soprattutto i saggi di D. Balestracci, Le Virtù in Piazza. Genesi e realizzazione della Fonte Gaia, pp. 2335; e Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 37-61. 49 Documento citato da Moretti, Siena. Architettura cit., p. 640; nella Enciclopedia dell’arte medievale precede E. Guidoni, Siena. Urbanistica, pp. 625-631, con ampio spazio dedicato al Campo. Bastino queste voci per dar conto della bibliografia sulla Piazza senese. 50 Così nel volgarizzamento statutario del 1309-1310. Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. S. Mahmoud Elsheikh, Siena 2002 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fonti e Memorie, 1), II, p. 147: Lib. III, cap. 291, Di fare uno prato intra le porte di Camollia. 51 Cfr. Balestracci, Le Virtù in Piazza cit., p. 26 (qui la citazione della Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta La Cronaca Maggiore); Dei, La Fonte e la Piazza cit., p. 59 note 1 e 3.
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Fu nel 1408, chiuso il breve episodio della dedizione a Giangaleazzo Visconti, che il governo senese (gli ufficiali di Balia e il capitano del Popolo) commissionò a un artista del calibro di Jacopo della Quercia il rifacimento della Fonte Gaia52. Un rifacimento che si volle splendido e solenne, senza badare a spese53. Ne venne un monumento completamente nuovo in senso tipologico ed estetico [Fig. 7]. A ornamento della Fontana stanno le virtù teologali e cardinali, accompagnate dalla Sapientia, la saggezza del buon governo – riscontro esterno dei contenuti dipinti ottant’anni prima da Ambrogio Lorenzetti all’interno del Palazzo comunale. Le due figure intere poste ai lati, che volevano significare chissà che cosa, furono subito intese come Rea Silvia e Acca Larentia: così, oltre ai valori morali e civici, alla città si rivendicava (in concorrenza con Firenze) la nobile e antica ascendenza romana54. Perché l’opera fosse finita occorse molto tempo, undici anni: «1419. La Fonte dell chanpo di Siena si fornì di fare con fighure di marmo, con altro bello ornamento come si vede, co’ mollta abondantia di acqua, le quali fighure furno fatte per maestro Iacomo di maestro Pietro della Ghuerca da Siena. E lui conpose la Fonte e fe’ tutte le figure e altri intagli come si vede; ancho maestro Francesco di Valdambrino da Siena fece una di dette figure; e maestro Sano da Siena murò la fonte d’in-
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Tutta la documentazione in merito è raccolta da J. Beck, Jacopo della Quercia, New York 1991, vol. II. 53 Come dimostra la «petitio operariorum super fonte campi noviter construendo» inoltrata il 18 gennaio 1415 ai Priori e al Capitano del popolo della città per porre rimedio a quei «defecti» che «il decto lavorìo pate». Poiché infatti «nella decta allogagione della fonte non si fece mentione come la parte di fuore d’essa fonte dovesse essere facta, che è quella parte che più s’à a vedere; e non mutando altrimenti e’ maestri la faranno piana e biancha, la quale chosa sarebbe diforme al bello lavorìo che viene dalla parte dentro», gli operarii chiedono l’esborso di un’ulteriore somma di 400 fiorini rispetto ai 2000 pattuiti all’atto dell’affidamento dell’incarico; somma che vada anche a coprire l’incremento della superficie complessiva della fontana, «acciocché il lavorìo della decta fonte abbia sua perfectione et sua ragione et sia al contento de’ cittadini, altrimenti el decto lavorìo seguirà secondo l’alogagione e sarà sozo». La somma aggiuntiva fu versata il 4 agosto successivo. Cfr. ibid., docc. 25-26 (pp. 347-350), 54 (pp. 365-366), 56 (p. 367), 82 (pp. 383-385). 54 Sul primo aspetto: M. Caciorgna, ‘Difficilis est cura rerum alienarum’. La Fonte Gaia di Jacopo della Quercia e altri esempi di iconografia politica nell’arte senese, in Il Buono e il Cattivo Governo. Rappresentazioni nelle Arti dal Medioevo al Novecento. Catalogo della mostra (Venezia, 15 settembre - 12 dicembre 2004), cur. G. Pavanello, Venezia 2004, pp. 44-69. Sul secondo: la stessa, Moduli antichi e tradizione classica nel programma della Fonte Gaia di Jacopo della Quercia, «Fontes», IV-V, 7-10 (2001-2002), pp. 71-142. Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 48-54. Efficace la sintesi di Sara Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 40-54: paragrafo intitolato Il programma iconografico della Fonte Gaia: celebrazione del Buon Governo e recupero delle origini romane.
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torno l’anno 1419» . Anche a Jacopo della Quercia, come al suo predecessore, toccò il privilegio di un nuovo nome, Jacopo della Fonte56.
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Qualche considerazione comparativa sulle tre grandi Fontane. Il primo dato è comune. Le tre opere sono tutte e tre firmate: Tancredi da Pentima, i Pisani (insieme con gli altri artefici della Fontana di Perugia), Jacopo della Quercia. Esse sono opere d’arte, testimonianze insigni – quanto alle loro componenti plastiche – della scultura italiana. Se su Jacopo della Quercia non c’è da spender parole, merita dire che la fontana aquilana e quella perugina risalgono a quell’esperienza felicissima di travaso di esperienze tra il Regno federiciano e la Toscana comunale che può riassumersi sotto il nome di Nicola Pisano. Giova allora ricordare che lo stesso Nicola si era misurato agli esordi della sua carriera con la realizzazione degli apparati decorativi di una fontana: la Fonte dei Canali o delle Serpi in amore di Piombino, fatta nel 1247 per iniziativa della dominante Pisa, della quale Nicola scolpì nel marmo le cinque (oggi quattro) protomi con i cavalli e i molossi57. Opere d’arte e opere di città. A Perugia e Siena le fontane nascono come espressione di una robusta, attrezzata e ambiziosa cultura civica; a Perugia, in particolare, quella finalità è perseguita sia a livello iconografico (come a Siena) sia e soprattutto nel solenne corredo epigrafico, che ne fa
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55 Così la cronaca di Paolo di Tommaso orafo, cit. da Beck, Jacopo della Quercia cit., doc. 92 (p. 390; interpunzione nostra). 56 Nella redazione del 1550 de Le vite del Vasari si legge: «Tornatosene poi a Siena, et in quella dimorando, dalla Signoria di detta città gli fu fatta allogazione della superba fonte di marmo fatta su la piazza publica dirimpetto al palazzo loro, la quale opra fu di prezzo di ducati duo milia e dugento; et in quella usò artificio e bontà, che gli diede tanto nome che sempre fu nominato, e vivo e morto, Iacopo de la Fonte Sanese» (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architetti, edd. L. Bellosi - A. Rossi, Torino 1986, p. 242). Così invece nella versione riveduta del 1568: «Perciò che la Signoria di Siena, risoluta di fare un ornamento ricchissimo di marmi all’acqua che in sulla piazza avevano condotta Agnolo et Agostino sanesi l’anno 1343, allogarono quell’opera a Iacopo per prezzo di duemiladugento scudi d’oro; onde egli, fatto un modello e fatti venire i marmi, vi mise mano e la finì di fare con molta sodisfazione de’ suoi cittadini, che non più Iacopo della Quercia ma Iacopo della Fonte fu poi sempre chiamato» (Beck, Jacopo della Quercia cit., Appendix 2, II, p. 570). 57 Cfr. A. Giuliano, Le fonti alla marina di Piombino, in Studi normanni e federiciani, cur. A. Giuliano, Roma 2003, pp. 123-128; R. Belcari, La fonte dei canali alla Marina di Piombino. Approvvigionamento idrico, committenza e maestranze alla metà del Duecento, in Reti d’acqua. Infrastrutture idriche e ruolo socio-economico dell’acqua in Toscana dopo il Mille. Atti della III Giornata di studio del Museo civico Guicciardini di Montopoli in Val d’Arno (Montopoli in Val d’Arno, 19 maggio 2007), cur. M. Baldassarri, San Giuliano Terme 2008, pp. 113-130; La fonte dei canali alla Marina di Piombino. Storia e restauro, cur. M.T. Lazzarini, Ospedaletto 2010.
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davvero un unicum. Il problema è che di quell’ammirevole ma illeggibile serie di segni (e poi, quei così ardui versi in latino), di quel ricercatissimo assemblaggio di immagini e di cartigli si perse subito il senso: e restò soltanto la bellezza. Il dictator della Fontana, sia stato o non sia stato Bovicello, diede a tal punto fondo alla sua subtilitas che fallì il suo compito. Molto più diretto, sebbene sempre allusivo (come d’abitudine), il linguaggio messo in atto a Siena da Jacopo della Quercia. Tutto diverso il caso delle Novantanove cannelle dell’Aquila: qui si trattò della costruzione lunga e progressiva, prima casuale poi sempre più convinta, da parte della città di un significato simbolico a un fonte che in origine non aspirava se non alla bellezza e alla praticità. Dare un senso civico alla fontana, farne il simbolo della città: operazione in fin dei conti riuscita, ma a prezzo della manipolazione profonda, dettata dall’erudizione locale, dell’opera d’arte. Terzo aspetto, la funzione urbanistica della fontana: e qui veramente l’Aquila è fuori quadro, per la posizione periferica del suo fonte – a maggior ragione significativo, allora, l’apparato plastico. Ma Perugia e Siena fanno evenienze opposte: per dirla in maniera molto semplificata, a Perugia viene prima la fontana e poi la piazza, a Siena avviene il contrario. Mentre infatti Siena, come si è detto, delibera nel 1309 la piazza del Campo, completa la costruzione del palazzo pubblico e solo a partire dal 1334 pensa alla fontana, a Perugia la fontana costituisce in modo programmatico il nucleo scenografico di una platea magna ancora in fieri: il Palazzo pubblico è di là da venire. E non da sola: aperto ancora il cantiere della fontana de capite platee, il Comune affida al subtilisimus et ingeniosus magister Arnolfo di Cambio (tanto per non smentire la sua volontà di prendere il meglio) la fontana de pede platee, completata nel giro di un paio d’anni. Scrive Maria Rita Silvestrelli che è «con l’acqua che il Comune di Perugia traccia la via della progressiva appropriazione dell’acropoli e fissa con due fontane i poli di estensione e di trasformazione della piazza»58. Non solo: per quanti cambiamenti e adattamenti subisca il paesaggio della platea magna, la Fontana rotonda (perché quella di Arnolfo era invece costituita da una vasca rettangolare addossata) fungerà sempre da ombelico della città, punto di confluenza o se si vuole di partenza delle cinque vie regales che percorrono la città e, attraverso le cinque porte, si proiettano fino all’estremo del contado59. 58 59
Silvestrelli, Acqua per la città cit., p. 114. Alla fine del Duecento il Comune di Popolo si fa carico della ridefinizione amministrativo-urbanistica della città vecchia, come risulta da un capitolo statutario del 1295, «Que dicantur vie regales», nel quale, «ad tollendam ambiguitatem viarum regalium et pla-
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Costituita da una vasca inferiore con gradini di accesso per prelevare l’acqua e da una vasca inferiore composta da formelle con figure umane scolpite60, la fontana di Arnolfo – per venire all’ultimo punto che vogliamo toccare, la capacità di durata delle fontane – non visse più di una ventina d’anni61. Sminuita dalla cronica carenza di acqua corrente, «che ne vanificava significati e destinazione d’uso», alla fine del Duecento fu smontata per far posto a un nuovo palazzo: destino di tanti manufatti, anche pregevoli, divenuti effimeri per la voracità del Comune duecentesco e primo-trecentesco e riutilizzati in altro modo62. Invece la Fontana Maggiore è sempre rimasta lì, uguale a se stessa, almeno nelle intenzioni di chi ne intraprese periodicamente la manutenzione e il rimontaggio. Essa è stata salvata dalla sua centralità urbanistica, e ancor più dall’essere assurta a monumento simbolo della città, ricordo perenne del secolo d’oro della Augusta Perusia. Anche la Fonte Gaia senese si è mantenuta, ma ha subìto svariate modifiche, ultima la sostituzione dell’originale, musealizzato, con una copia: il che indica che il monumento è stato salvaguardato in forza soprattutto del suo valore artistico intrinseco (quando se ne parlò per la Fontana di Perugia ci fu una sollevazione popolare). Lunga, infine, anche la durata della Fontana delle Novantanove cannelle dell’Aquila, che ha resistito anche al terremoto recente – e sta lì a dire che l’Aquila esiste, non è una città morta. Ma la sua è stata una vita assai mobile, in crescendo, con la moltiplicazione da 15 a 99 delle sue bocche d’acqua per ragioni di storia e di storiografia. Proprio nel
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tee», si definiscono esattamente i confini della piazza del Comune e il tracciato delle cinque grandi strade cittadine che dovevano unire le cinque porte della cinta muraria al forum Comunis, inteso dunque come elemento generatore dei più importanti assi della viabilità urbana: Perugia, Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Perugia, Statuti, 12, frammento n. 2, Lib. IV, cap. XXXIX, c. 71v. Anche lo Statuto in volgare del 1342 (Statuto del Comune e del Popolo cit., II, p. 126, Lib. III, cap. 74: La distintione de la piacça e de le strade regaglie) e quello a stampa del 1523 (Statuta Auguste Perusie cit., f. VIIIra, Lib. III, add. al cap. 11: De insultu) descrivono l’andamento delle vie regali cittadine sempre partendo dalla piazza del Comune. 60 Di grande utilità la ricognizione bibliografica fornita da Romalli in merito alla fortuna critica della “fontana di Arnolfo”: L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 328 nota 2. Cfr. inoltre, insieme col catalogo indicato a nota 43, V. Pace, Arnolfo a Roma e in Umbria. Certezze e problemi, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca cit., pp. 117-126: pp. 118119. 61 C. Cutini, Breve fortuna della fontana del “buon governo”, in Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale cit., pp. 121-125. Di qui, p. 124, la citazione che segue. 62 Come risulta, nel caso specifico, dal verbale della seduta consiliare del 19 agosto 1308, in occasione della quale i priori e i camerari delle Arti, chiamati a deliberare «de lapidibus qui fuerunt de fonte pedis platee», stabilivano che tale materiale dovesse essere reimpiegato per «facere scalas» nella cappella di Sant’Ercolano. Cfr. Balzani, I documenti, ibid., pp. 141-147: 147.
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1861, quando il Comune dell’Aquila aggiunse le sei cannelle “mancanti”, a Perugia si avanzò la proposta di smontare la Fontana Maggiore e di trasferirla dalla platea magna allo spazio apertosi dopo l’abbattimento della Rocca Paolina63, per celebrare il recupero della libertà dall’oppressione papalina64. Non se ne fece nulla, ma sia la proposta che il rifiuto furono una conferma dello strettissimo rapporto creatosi fra il monumento e i cittadini di Perugia. Entrambe le vicende, quella aquilana e quella perugina, poi, mostrano quanto l’Unità, di cui celebriamo i centocinquant’anni, abbia risvegliato gli orgogli municipali, le fedeltà alle piccole patrie. Se sia buon segno o cattivo segno, non lo sappiamo.
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Le fontane sono non soltanto il frutto di imprese esornative del tessuto cittadino di cui commisurare, a seconda dei casi, l’investimento economico, l’elevata qualità estetica, il valore degli artisti incaricati di realizzarle, l’unicità di un’opera senza precedenti e spesso senza seguito. La loro natura, al contempo funzionale e urbanistica, è infatti, come si è visto, spesso legata a un intento propagandistico, ragione per cui il nesso fondamentale tra il contesto storico-politico in cui il committente si trova ad agire e il prodotto finito è proprio l’intenzione che il manufatto veicola o, ancor meglio, la retorica che esso tradisce65. Se dunque gli artefici non sono mai meri esecutori rispetto alla domanda e alle aspirazioni della committenza, è pur vero che da quella domanda sono almeno condizionati: tanto più nel caso delle istituzioni comunali mature, quando l’ispirazione ‘pub-
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63 Il 16 maggio 1861 l’ingegnere fiorentino Pietro Campovele, chiamato dal sindaco Reginaldo Ansidei a pronunciarsi in merito ai nove progetti di ‘riqualificazione’ dell’area presentati dai vari concorrenti, sottolineava come tra i primi lavori da eseguire «appena stabilito il piano architettonico da mandarsi ad effetto», c’era senz’altro «il traslocamento della classica fontana di Giovanni da Pisa nel mezzo di detta piazza, togliendola dal posto indistinto dove attualmente si vede. Nella testata poi superiore del corso, in prossimità della chiesa del duomo, collocarvi il monumento scultoreo al nostro amatissimo sovrano». Cfr. F. Bozzi, La distruzione della Rocca, in La Rocca Paolina di Perugia. Studi e ricerche, Perugia 1992, pp. 225-251: 238. L’idea peraltro era stata formulata già agli inizi dell’Ottocento – come ricorda con malcelato sarcasmo Luigi Bonazzi – da alcuni nobili perugini, i quali, «non avendo altro da pensare, proposero di trasportare la fonte di San Lorenzo in piazza Rivarola; progetto che fece ridere tutto il paese, e a cui troncò ogni nervo un opuscolo di Vermiglioli» (L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860 [1875-79], Perugia 1960 (rist. anast.), II, p. 432). 64 Cfr. P. Belardi - S. Merli, La piazza. Da spalto fortificato a cerniera immateriale, in Il Palazzo della Provincia di Perugia, cur. F.F. Mancini, Perugia 2009, pp. 53-89. 65 B. Brenk, Committenza e retorica, in Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 3-42: 3.
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blica’ dell’opera procede di pari passo con una esplicita linea propagandistica elaborata e promossa giust’appunto dal ceto di governo66. Partendo dunque dal nesso “istituzionale” fra arte e potere di burckhardtiana memoria, quello che si constata tra Due e Trecento è il sorgere in ambito comunale di una «nuova arte politica» che vede non solo nella pittura, come ampiamente dimostrato da Maria Monica Donato67, ma anche nei corredi decorativi delle fontane un fecondo ambito di applicazione nel quale dispiegare quel «lessico politico per immagini»68 di cui parla la studiosa. Lessico efficacemente retorico e “massmediatico” – che risente peraltro di un significativo ampliamento dei soggetti iconografici in senso profano69 e dell’integrazione di eloquenti iscrizioni in versi – e dunque in grado di soddisfare le tante esigenze comunicative della vita politica comunale, celebrando successi e stigmatizzando cattivi comportamenti, additando modelli e consacrando simboli e valori in cui la città potesse identificarsi70.
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66 Ortalli, Comunicare con le figure cit., p. 498, che sottolinea come «poiché ... era il mondo della politica e della gestione della cosa pubblica che aveva più di ogni altro la possibilità e insieme la necessità di trasmettere progetti e convinzioni, proprio quel mondo si trovò a comunicare con le figure oltre che con lo scritto e la parola ... finendo con l’alimentare un robusto circuito iconico laico, ufficiale e pubblico». 67 Che ha ben studiato l’uso politico delle immagini nelle città italiane del basso Medioevo e che sottolinea come, nel quadro di «un variegato tessuto di immagini politiche che interessa tutta l’Italia comunale», in città come Firenze e Siena si dà vita «a una “politica in figure” duttile, diramata, attentamente meditata ed orchestrata, persino martellante», Donato, Dal ‘Comune rubato’ di Giotto cit., p. 489. 68 M.M. Donato, ‘Cose morali, e anche appartenenti secondo e’ luoghi’: per lo studio della pittura politica nel tardo Medioevo toscano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 491-517: 492. 69 La stessa, ibid., p. 495. Cfr. inoltre Ortalli, Comunicare con le figure cit., il quale nel paragrafo L’immagine «laica» nel basso Medioevo e le novità dell’Italia dei Comuni sottolinea come «i nuovi modi di utilizzo dell’immagine si presentassero con particolare capacità innovativa nell’Italia centro-settentrionale, che viveva precocemente e con maggiore intensità l’esperienza dei comuni cittadini» (p. 487). 70 Dopo la consegna del testo siamo venuti a conoscenza della tesi di laurea di Laura Visentin, Alle fonti del Medioevo. Catalogo delle fontane pubbliche dal XIII al XIV secolo in Italia, tesi di laurea in storia dell’arte, relatore prof. Guido Tigler, a.a. 2008-2009, che speriamo di veder presto pubblicata. Anche perchè da parte nostra non sarebbe stato giusto, nell’attesa, recepire le molte indicazioni in essa contenute che avrebbero arricchito questa relazione.
APPENDICE
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Documenti sulla Fontana dell’Arengo e sulla Fontana del Palazzo dei Consoli a Gubbio
Quando si cominciò a costruire il Palazzo del Popolo, la Fontana dell’Arengo stava ancora nella sua piazza: lo provano alcune deliberazioni comprese nel periodo tra il luglio 1326 e il febbraio 1338 [App., nn. 1-4]; lo prova ulteriormente lo Statutum comunis et populi di Gubbio dello stesso 1338, dove si ordina la manutenzione del fons Arenghi et eius aqueductus [nn. 5-7]. Nel 1349, quando il Consiglio cittadino delibera più volte circa il prolungamento dell’acquedotto di piazza fino al palatium Populi [nn. 8, 10-11] – e quindi la fontana in oggetto o era già stata portata all’interno o era in procinto di esserlo –, la Fontana dell’Arengo è ben viva e presente nel tessuto urbano, se è vero che essa dava addirittura il nome a una delle contrade del quartiere di Sant’Andrea [n. 9]. Ma, andando avanti, quella stessa fontana era ancora in funzione nella contrada 24 anni dopo: il fons Arenghi è indicato al primo posto tra le opere che cadono sotto la responsabilità dei due superstites delle fontane e dei condotti della città [n. 12].
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Con Riformanze si cita: Sezione di Archivio di Stato di Gubbio, Fondo comunale, Riformanze. Dobbiamo le notizie tratte da Riformanze 4, cc. 113v e 108r, ad Alberto Luongo, che ringraziamo per averci sottoposto un suo articolo dal titolo I notai della curia vescovile di Gubbio nel Trecento: prime considerazioni, che comparirà nel prossimo numero del «Bollettino della Deputazione di Storia patria per l’Umbria».
1.
1326 agosto 3 (Riformanze, 1, cc. 34v-35v) Il consiglio generale del Popolo, dei capitani delle Arti, dei consoli dei mercanti e dei cento del Popolo è chiamato a pronunciarsi in merito al «conductus sive aqueductus per quem venit sive labitur aqua ad fontem Arenghi [...] in locis pluribus devastatus».
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2.
1326 agosto 16-17 e 20 (Riformanze, 1, cc. 40v, 42r, 44rv) I consigli cittadini devono deliberare «de quadam bona et legali persona eligenda in superstitem et custodem conductus fontis Arenghi et ipsius fontis et qui dividat, det et mictat aquam tam ad dictum fontem Arenghi quam ad fontes fovei et Sancti Iuliani»; viene eletto per sei anni come custode Sander Tenti, di cui si indicano dettagliatamente le mansioni. 1327 gennaio 28 (Riformanze, 1, c. 170v) Si delibera che una certa vena d’acqua «conducatur per aqueductum ad aqueductum qui venit ad fontem Arenghi». 4.
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3.
1338 gennaio 15 (Riformanze, 2, c. 201r) Il Consiglio elegge un «superstitem et officialem Comunis Eugubii ad lavandum et remoliendum fontem Arenghi et conductum ipsius».
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5. 1338 (Statutum Comunis et Populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii, ed. cit. in nota 30 al testo, p. 55) Lib. I, cap. LXX: «Quod gonfalonerius et consules cum capitaneis Artium possint providere super habundantiam aque et teneantur quolibet mense revidere aqueductum». Questo è il dispositivo: «Providimus statuentes quod domini gonfalonerius et consules populi semel in mense ad minus debeant videre aqueductum fontis Arenghi et revideri facere; et ubi esset devastatum faciant reactari et reparari; et etiam alias fontes civitatis Eugubii faciant revideri, reactari et reparari, si indigent reactatione et reparatione, expensis comunis. Et dicti domini gonfalonerius et consules una cum capitaneis et gonfaloneribus Artium et consulibus mercatorum possint ordinare quod habundantia aque sit in civitate Eugubii per omnem modum et viam que eis videbitur; et in predictis possint expendere de avere comunis Eugubii illam pecunie quantitatem que eis videbitur». 6.
1338 (Statutum Comunis, p. 59) Lib. I, cap. LXXXIIII: De actando et manutenendo fontem Arenghi et eius acqueductum et viam aqueductus; p. 55, 7.
1349 aprile 22 (Riformanze, 4, cc. 53r-54r) Si stabilisce, facendo riferimento al capitolo LXX dello Statuto [sopra, n. 5] che «pro reactatione et reparatione aqueductus fontis Arenghi expendantur et expendi ac solvi possint et debeant de pecunia dicti Comunis de mensibus maii et iunii proxime ventur(is) usque in quantitatem quinquaginta librorum ravennatensium»; si aggiunge: «ad quam reactationem et reparationem fieri faciend(as) domini gonfalonerius et consules possint eligere unum vel plures superstites ad predicta».
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1349 giugno 20 (Riformanze, 4, c. 112r) Si delibera di concedere una proroga «superstitibus operis aqueductus fontium palatii Populi» rispetto al «terminus eis datus ad faciendum fieri dictum opus hinc ad kalendas augusti proxime venturas, cum haberi vel inveniri non possint magistri qui faciant dictum opus». 1349 giugno 24 (Riformanze, 4, c. 113v) Al quarto posto fra le contrade del quartiere di Sant’Andrea viene nominato il vessillifero ovvero gonfaloniere «vexilli fontis Arenghi cum signo eiusdem fontis Arenghi quod stare debet ad fontem Arenghi et in platea ante ecclesiam Sancte Crucis». Delle tre chiese eugubine intitolate alla Santa Croce stava nel quartiere di Sant’Andrea quella di Santa Croce de Vexis, che evidentemente doveva affacciarsi su un lato della piazza pubblica. Le altre due chiese si trovavano nel quartiere di San Pietro e fuori delle mura urbiche. Del «vexillum cum signo fontis Arenghi» si parlava anche poco prima (c. 108r, alla data 13 giugno 1349).
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1349 luglio 21 (Riformanze, 4, c. 155rv) Si delibera, «ad hoc ut aqueductus fontium palatii Populi [...] perficiatur et ad finem deducatur optatum, ita quod aqua veniat ad dictos fontes», che i soldati e gli ufficiali del podestà e del capitano, su richiesta dei «superstites dicti operis» possano «realiter et personaliter constringere summarie et de facto omnes et singulos magistros, muratores, carpentarios, caminetarios (sic), virgolatores, manovales et alios quoscumque homines actos et necessarios ad laborandum vel aliquod laborerium faciendum in dicto et pro dicto opere perficiendo». Nella stessa seduta si delibera inoltre di prorogare il «terminum datum et ordinatum ad faciendum et fieri faciendum dictum aqueductum et ipsius opus et laborerium hinc ad kalendas mensis februarii proxime accessuras». 1350 gennaio 23 (Riformanze, 4, c. 367rv) Si concede a «magister Bartholus magistri Christofori et magister Ventura magistri Iohannis», che «cum reverentia requisiverunt [...] quod dent et dari faciant canellos sive tombolos de plumbo, astragum, collam, calcinam et alia eis necessaria» per il completamento «operis aqueductus fontium palatii Populi», un’ulteriore proroga di due mesi.
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1375 maggio 29 (Riformanze, 5, c. 80r) Vengono nominati per un anno due superstites di varie fontane e dei condotti della città: al primo posto il fons Arengni.
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IS Fig. 1 - Viterbo, Fontana del Sepale
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IS Fig. 2 - Siena, Fonte Branda
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Fig. 3 - Gubbio, Fontana del Palazzo dei Consoli
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Fig. 4a - Massa Marittima, Fonte Nova
Fig. 4b - Massa Marittima, Fonte Nova, particolare
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Fig. 5 - L’Aquila, Fonte della Rivera
Fig. 6 - Perugia, Fontana Maggiore
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Fig. 7 - Siena, Fonte Gaia
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SECONDA GIORNATA
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Il Maestro di Offida nell’Abruzzo teramano
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Il problema della ricostruzione del percorso e della carriera del cosiddetto “Maestro di Offida”, il problema della sua formazione, della sua cultura d’origine, della sua cronologia, delle trasformazioni nel tempo del suo stile, è indubbiamente uno dei quesiti più interessanti nel panorama della storia dell’arte del Trecento tra le Marche e l’Abruzzo. Nel corso degli ultimi decenni il corpus di opere riferibili a questo artista, caratterizzate da un linguaggio semplice, efficace e molto riconoscibile, è enormemente cresciuto; e si è rivelato distribuito non solo nelle Marche – dove l’attività dell’anonimo pittore, a cominciare appunto dagli affreschi della chiesa di Santa Maria della Rocca a Offida, era già nota – ma anche nell’Abruzzo teramano, regione nella quale gli studi, a partire dal 1983/84 in avanti, hanno ripetutamente avvistato la sua mano a Canzano, ad Atri, a Penne, a Teramo, a Ronzano, a Morro d’Oro, a Pianella, a Nocciano, a Moscufo, a Città Sant’Angelo e in altri posti ancora1.
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1 Su questo artista si veda, in sintesi, B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p. 11 (ed. it. Milano 1936, p. 9); P.Toesca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 691, 692, nota 219; F. Bologna, Di alcuni rapporti tra Italia e Spagna e ‘Antonius Magister’, «Arte Antica e Moderna», (1961), pp. 46-47 nota 49; B. Trubiani, La Basilica-Cattedrale di Atri, Roma 1969, pp.153-199; A. Rossi, Il Maestro di Offida, in Restauri nelle Marche, catalogo della mostra, Urbino 1973, pp. 808-811, n. 207; G. Matthiae - B. Trubiani, Gli affreschi della Cattedrale di Atri, Pomezia 1976, pp. 6-12; G. Crocetti, Gli affreschi di Santa Maria a Pie’ di Chienti, «Notizie da Palazzo Albani», (1978/2), pp. 39-45; G. Crocetti, Pittori del Quattrocento nelle chiese farfensi delle Marche, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche. Atti del Convegno di Studi, Fabriano 1981, Fabriano 1982, pp. 235-238; F. Bologna, Santa Maria ad Ronzanum, in Documenti dell’Abruzzo teramano, I/1, La Valle Siciliana o del Mavone, Roma 1983, pp. 224-226; F. Bologna - P. Leone de Castris, Percorso del Maestro di Offida, in Studi di storia dell’arte in memoria di Mario Rotili, Napoli 1984, pp. 283-305; F. Bologna, San Salvatore di Canzano, Affreschi del XIV secolo, e Affresco nella lunetta del portale, Convento di Sant’Antonio Abate, Morro d’Oro, in Documenti dell’Abruzzo teramano, II/1, La Valle del medio e basso Vomano, Roma 1986, pp. 450-462,
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Di seguito a questi ritrovamenti, e a quello – al contempo – di altri suoi affreschi ad Ascoli e nella Marca Picena, la critica, pur nell’ambito di una comune rivalutazione dell’attività dell’artista, ha imboccato strade diverse. C’è chi si è provato a dividere le opere sino a quel momento riunite, o addirittura un unico ciclo, come quello ad esempio di Canzano, fra le mani di più pittori – è il caso ad esempio di Angelo Tartuferi e di Donatella
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II/2, pp. 583-584; E. Neri Lusanna, Pittura del Duecento e del Trecento nelle Marche, V. Pace, Pittura del Duecento e del Trecento in Abruzzo e in Molise, P. Leone de Castris, Pittura del Duecento e del Trecento a Napoli e nel Meridione, V. Terraroli, Maestro di Offida, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, II ed., Milano 1986, pp. 420, 449, 501, 623; S. Papetti, Proposta per il Maestro di Offida ed i suoi seguaci ad Ascoli Piceno, «Notizie da Palazzo Albani», 16/1 (1988), pp. 139-148; P. Zampetti, Pittura nelle Marche. I. Dalle origini al primo Rinascimento, Firenze 1988, pp. 122-123; G. Crocetti, Una nota sul Maestro di Offida, pittore marchigiano del sec.XIV, «Arte Cristiana», 79 (1991), pp. 353-362; G. Crocetti, La vita della Madonna negli affreschi del Maestro di Offida (Fra Melicuccio di Giovanni, monaco farfense), «Il Messaggio della Santa Casa», (1996), pp. 275-280; D. Piccirilli, Il ciclo dell’oratorio di Sant’Eustachio ad Ascoli Piceno e alcune osservazioni sulla pittura tra Marche meridionali e Abruzzo settentrionale nella prima metà del Trecento, «Commentari d’arte», 4 (1998) [ma 1999], 9-11, pp. 45-56; S. Papetti, Gli affreschi trecenteschi e quattrocenteschi, in G.Avarucci, Santa Maria a piè di Chienti, Montecosaro 1999, pp.129-136; S.Papetti, Aspetti della pittura tardogotica a Montefiore e nel territorio: il Maestro di Offida e i suoi epigoni, in Il patrimonio disperso: il “caso” esemplare di Carlo Crivelli. Atti della giornata di studio, cur. M. Massa, Montefiore dell’Aso - Camerino Porto San Giorgio 1996, Ripatransone 1999, pp. 64-80; A. Tartuferi, Qualche osservazione sul Maestro di Offida e alcuni appunti sulla pittura del Trecento nell’Abruzzo teramano, «Arte Cristiana», 88 (2000), pp. 249-259; D. Piccirilli, Le “Storie di San Silvestro” nella chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio di Ascoli Piceno, «Commentari d’arte», 6 (2000) [ma 2003], 15-17, pp. 9-19; P. Leone de Castris, Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento, Cattedrale, Atri; Gli affreschi della cripta, Cattedrale, Atri; Gli affreschi trecenteschi del sottotetto, Collegiata di San Michele Arcangelo, Città Sant’Angelo, in Documenti dell’Abruzzo teramano, V/1, Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara, TeramoSambuceto 2001, pp. 214-225, 230-233, 293-296; F. Bologna, Altre aggiunte al Maestro di Offida, ibid., pp. 297-298; P. Leone de Castris, Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento, Santa Maria Maggiore, Pianella; Tabellone a fresco con due Santi, Chiesa di Santa Maria del lago, Moscufo; Gli affreschi dell’antico coro della chiesa di San Domenico e l’attività del presunto Luca d’Atri a Penne, in Documenti dell’Abruzzo teramano, VI/1, Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Teramo-Sambuceto 2003, pp. 323-325, 345, 480-482; S. Papetti, in Atlante del gotico nelle Marche. Ascoli Piceno e provincia, Milano 2004, pp. 42-46, 49, 51, 53, 57, 69, 71, nn. 2-10, 14-16, 18, 20, 40; G. Donnini, in Atlante del gotico nelle Marche. Macerata e provincia, Milano 2004, pp. 51, 77; P. Leone de Castris, Affreschi trecenteschi, Cattedrale, Teramo; Gli affreschi del presunto Luca d’Atri, Chiesa di San Domenico, Teramo; Pittura del Trecento nell’Abruzzo teramano, in Documenti dell’Abruzzo teramano, VII/1, Teramo e la valle del Tordino, Teramo-Sambuceto 2006, pp. 302-308, 429-439, 440-453. Per una più ampia e completa bibliografia mi permetto di rimandare ai miei Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento cit., pp. 224-225 note 4 e 8; Affreschi trecenteschi cit., pp. 307-308 nota 9; Pittura del Trecento cit., pp. 450-451 nota 21.
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Piccirilli –; c’è chi ne ha proposto una datazione complessiva nel corso del terzo quarto del Trecento – è il caso di don Giuseppe Crocetti e ancora di Angelo Tartuferi3 –; e c’è chi infine ha sposato l’idea di una loro datazione e seriazione nei decenni a cavaliere del 1350, all’incirca tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo, talora per altro considerando gli affreschi ascolani come all’origine del percorso di questo pittore – è il caso ad esempio di Stefano Papetti4 –, talora rivendicando di contro la priorità – è il caso soprattutto di Ferdinando Bologna e di me stesso – delle opere rinvenute nell’Abruzzo teramano5. Un elemento importante, per iniziare a sfrondare almeno alcune delle ipotesi sin qui avanzate, sta nella possibilità ormai sempre più certa e concreta – sulla base di documenti di dedicazione di alcuni altari e di un’epigrafe dipinta – di datare gli affreschi di questa mano in Santa Maria della Rocca a Offida, le Storie di Santa Lucia, quelle di Santa Caterina eccetera – in passato riferiti in qualche caso addirittura al primo decennio del Quattrocento e dai più considerati in ogni caso l’opera più matura e tarda tra quelle riemerse di questo artista – agli anni tra il 1361 e il 1367; circostanza che già di per sé sconsiglia “fughe in avanti” e fa piuttosto propendere per una certa anticipazione, almeno di qualche decennio, della data d’avvio dell’attività del nostro pittore6. Molti degli affreschi marchigiani di cui s’è detto, quelli ad esempio della chiesa di San Francesco a Montefiore dell’Aso o delle chiese ascolane di San Vittore o dei Santi Vincenzo e Anastasio o anche quelli, notevoli ma lacunosi e sin qui ancora poco studiati, delle pareti laterali della cappellina a sinistra dell’ingresso nel Duomo di questa stessa città7, sono – ne
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2 Cfr. Tartuferi, Qualche osservazione cit., pp. 249-259; Piccirilli, Il ciclo cit., pp. 45-56; Piccirilli, Le “Storie di San Silvestro” cit., pp. 9-19. 3 Cfr. ancora Tartuferi, Qualche osservazione cit., pp. 249-259; e i vari interventi di G. Crocetti qui citati a nota 1, con l’avvertenza che, in quelli più antichi, lo stesso Crocetti si era spinto a datare gli affreschi di questa mano presenti a Offida, a Canzano e in San Clemente al Vomano dentro il primo quarto del Quattrocento. 4 Cfr. i vari interventi di S. Papetti qui citati a nota 1, e in ultimo particolarmente in Atlante del gotico nelle Marche. Ascoli Piceno cit., pp. 42-43. 5 Cfr. i vari interventi di F. Bologna e di chi scrive qui citati a nota 1. 6 A questo proposito si veda A. Rosini, Compendioso racconto historico de’ successi memorabili e de’ soggetti commendabili nella Toga e nell’Armi della Terra di Offida, Offida 1654, ristampato in Offida origini e storia, Offida 1979, p. 42; Bologna - Leone de Castris, Percorso cit., p. 299 (con bibliografia precedente); Papetti, Proposta cit., p. 140; Leone de Castris, Pittura del Trecento cit., p. 451 nota 23. 7 Per gli affreschi di Montefiore dell’Aso e delle chiese ascolane di San Vittore e Santi Vincenzo e Anastasio cfr. qui la bibliografia a nota 1. Per quelli, molto guasti, della cappella nel basamento della torre sinistra di facciata dell’antica Cattedrale di Ascoli, con Santi e Storie eremitiche ai lati di una Crocifissione di altra mano, cfr. in sintesi F. Cappelli, La cat-
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convengo – di data precedente rispetto a quelli di Offida; ma di quanto? In assenza, per il momento, di date o riferimenti certi – solo la Piccirilli ha fatto notare, seppur con incertezze e contraddizioni, che il programma delle Storie di Costantino e di San Silvestro papa dei Santi Vincenzo e Anastasio ha un carattere esplicitamente “romano” che sembra alludere o a una data addirittura anteriore al 1334 oppure (ed è questa a mio avviso la soluzione più convincente) al ritorno della città all’obbedienza dopo la ribellione e l’interdetto papale, negli anni Cinquanta8 – credo personalmente che sia proprio quest’ultimo il periodo più adatto a circoscrivere l’attività del pittore nella Marca Picena e a spiegarne il successo in loco e il sorgere numeroso, a partire almeno dagli anni Settanta, di seguaci e imitatori: nella stessa Ascoli, in San Vittore, in San Pietro Martire, in Santa Maria delle Donne, ma anche a Visso e a Monterubbiano9. Certo al “Maestro di Offida” non dové essere ignota quest’area anche negli anni della sua formazione, come dimostra la sua conoscenza – io direi certa – delle cose, a cavaliere del 1320, dei pittori di cultura riminese attivi nella stessa Ascoli – il maestro del polittico già in San Domenico ed ora nella Pinacoteca Civica – ma anche a Camerino, in San Francesco, e altrove10. Tuttavia nessuno degli affreschi sin qui riemersi nelle Marche mi sembra – come ho avuto occasione di dire già più volte in passato – presenti caratteri tali da poter essere restituito a questo pur presumibile periodo di formazione, e soprattutto caratteri tali da poterne consentire una datazione anteriore a quella degli altri affreschi, così più arcaici, presenti in territorio teramano, tra Atri, Canzano e Morro d’Oro. Il presente convegno rappresenta tuttavia l’occasione migliore per riesaminare questo rapporto tra le opere marchigiane e quelle abruzzesi del pittore, e – per parte mia – per provare a precisare meglio, rispetto al passato, le circostanze di cronologia e di committenza proprie di queste ultime opere, così da tratteggiare in modo più chiaro il problema degli esordi dell’artista e l’identità dei suoi primi patroni ed estimatori.
tedrale di Ascoli nel Medioevo: società e cultura in una città dell’Occidente, Ascoli Piceno 2000, pp. 122-123, che li riferisce a un anonimo pittore dei “decenni centrali” del secolo XIV, del tipo del “Maestro del polittico di Ascoli” e che prepara ai modi del “Maestro di Offida”; e P. Leone de Castris, “Maestro di Offida” (Luca d’Atri?), Sant’Onofrio, in Opere d’arte dalle collezioni di Ascoli Piceno: la Pinacoteca Civica e il Museo Diocesano. Scoperte, ricerche e nuove proposte, cur. S. Papetti, Roma 2012, pp. 62-63, con l’attribuzione toutcourt al “Maestro di Offida”/Luca d’Atri. 8 Piccirilli, Le “Storie di San Silvestro” cit., pp. 10, 15-16, 19 nota 41. 9 Cfr. Papetti, Proposta cit., pp. 147 e ss.; Leone de Castris, Pittura del Trecento cit., pp. 451-452 note 40-41, col rinvio a una più ampia bibliografia. 10 Si veda in particolare Bologna - Leone de Castris, Percorso cit., pp. 288-289.
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Cominciamo col ciclo dell’abbazia benedettina di San Salvatore a Canzano, a poco più d’una decina di chilometri da Teramo; un ciclo purtroppo oggi assai frammentario ma che un tempo doveva essere imponente, esteso almeno alle pareti della navata centrale – con Storie cristologiche – e ai relativi sottarchi, decorati con figure di Santi, Apostoli e Profeti. Sulle due pareti, quasi al termine della navata centrale, restano oggi – come si sa – due epigrafi dipinte che recavano il nome del committente, il preposito Benedetto, la data e forse anche il nome – oggi per altro illeggibile – dell’artista. Questa data, anzi queste due date, sono state lette nel tempo in modo assai diverso. Dal Balzano come “1320”. Dal Crocetti come “1427”. Dal Bologna in un primo tempo preferibilmente come “1334” e “1338”, in un secondo tempo come “1344”11. In realtà la scritta sulla parete di sinistra, di cui vediamo una foto, presenta, nella terza riga, nello spazio mancante dopo la M del millesimo, il posto per le tre C di “trecento” una delle quali appena s’intravede, e nella quarta, prima delle quattro unità del numero “4”, lo spazio – pari a quello che nella riga superiore occupano le prime sei lettere di “Benedictus” – per tre o quattro decimali, rispettivamente “trenta” o “quaranta”, o al limite – stante che gli affreschi, di certo precedenti a quelli della stessa mano ad Offida, non potevano recare una data negli anni Settanta o Ottanta – per le quattro cifre di un “35”; così che la data trascritta difficilmente sembra poter essere stata diversa da “1334”, “1339” o “1344”. Allo stesso modo la scritta della parete di destra, sotto la Crocifissione, presenta nella quarta riga, dopo la M del millesimo, lo spazio per le tre C di “trecento”, e nella riga sottostante, a lato delle tre X di “trenta”, lo spazio per alloggiare le tre o quattro cifre corrispondenti a un “4”, a un “7”, a un “8” o al limite a un “13”; così che anche in questo caso la data andrebbe circoscritta fra il 1334 e il 1343. Personalmente penso che la lettura più probabile di questa data sia effettivamente “1334” e comunque che una collocazione del ciclo nel corso ancora degli anni Trenta sia, pur all’interno di questa breve oscillazione, preferibile. Un Benedetto – verosimilmente lo stesso committente ricordato nell’epigrafe – compare infatti come preposito della chiesa di San Salvatore “de Canzano” alla data del 1 ottobre 1324, quando versava 15 tarì ai sottocollettori apostolici a titolo di decime sulle rendite della chiesa12. 11 Cfr. V. Balzano, Notizie d’arte abruzzese. S. Salvatore a Canzano, «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», 23 (1908), pp. 299-307; Crocetti, Pittori del Quattrocento cit. pp. 235-238; Bologna - Leone de Castris, Percorso cit., pp. 287 ss.; Bologna, San Salvatore di Canzano cit., pp. 455-458. 12 Cfr. Leone de Castris, Pittura del Trecento cit., p. 444; e, a monte, Documenti
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Gli affreschi di Canzano, inoltre, sono, fra tutti quelli del “Maestro di Offida”, forse i più arcaici e severi, ancora molto stretti al modello marchigiano-riminese e paralleli agli esiti dei primi miniatori teramani, Berardo e Muzio di Francesco di Cambio13; e un confronto fra le due Presentazioni al Tempio, qui a Canzano e nel sottotetto della chiesa di San Michele a Città Sant’Angelo, mi pare indichi bene – più di molte parole – la distanza che intercorre fra le diverse tappe dello sviluppo formale d’un medesimo artista negli anni all’incirca tra il 1335 e il 1350. Non molto distante da Canzano, all’incirca venti chilometri ad est, in questi stessi anni il nostro pittore ricompare al lavoro nella lunetta del portale della chiesa francescana di Sant’Antonio Abate a Morro d’Oro, dove affresca una Madonna col Bambino tra i Santi Francesco e Ludovico di Tolosa14. Nel bel portale marmoreo – la cui fattura giustamente Francesco Aceto ricollega a quella dei portali voluti dal vescovo Niccolò Arcioni della chiesa di San Francesco e del Duomo di Teramo, conclusi rispettivamente nel 1327 e nel 1332 – la presenza di san Ludovico, già di per sé sintomo di una datazione successiva al 1317 e d’un possibile legame con Napoli e la corte degli Angiò, è accompagnata da una singolare profusione di gigli angioini; e questo ha fatto ragionevolmente pensare a una qualche responsabilità, nella commissione dell’opera, dell’allora signore di Morro, Francesco o Cecco Acquaviva, che nel 1329 era stato nominato ciambellano e familiare di re Roberto d’Angiò e nel 1332 giustiziere dell’Abruzzo Ultra15. Un interesse di Cecco Acquaviva verso le chiese dei territori passati in quegli anni, dal 1316/19 in avanti, sotto il suo controllo trapela d’altronde, in modo più evidente, nella stessa Morro d’Oro, nell’epigrafe murata sul fianco destro dell’altra chiesa di San Salvatore, dove si legge come l’opera fosse stata realizzata nel 1331 dal maestro Gentile da Ripatransone e voluta dal preposito di Morro, Martino, regnante Roberto d’Angiò e sotto il dominio appunto di Francisci de Aquaviva16; e non è da escludere – anzi – vista la contemporanea presa di possesso dei due borghi, che questo inte-
dell’Abruzzo teramano, II/3, La Valle del medio e basso Vomano, Dizionario topografico e storico, Roma 1986, p. 698. 13 Bologna - Leone de Castris, Percorso cit., pp. 297-298; Leone de Castris, Pittura del Trecento cit., p. 443. 14 Bologna, Affresco nella lunetta del portale cit., pp. 583-584; e la bibl. successiva, in particolare gli interventi di chi scrive, qui citata a nota 1. 15 F. Aceto, Portale del convento di Sant’Antonio Abate, Morro d’Oro, in Documenti dell’Abruzzo teramano, II/2, La Valle del medio e basso Vomano, Roma 1986, pp. 527-531. 16 Documenti dell’Abruzzo teramano, II/3, La Valle del medio e basso Vomano, Dizionario topografico e storico cit., pp. 767-768
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ressamento o beneplacito abbia coinvolto la vicenda – di cui già s’è parlato – oltre che delle due chiese di Morro d’Oro, anche di quella di San Salvatore a Canzano e del suo preposito Benedetto. A un artista molto prossimo al nostro “Maestro di Offida”, inoltre, e cioè al miniatore Berardo da Teramo, e in anni non distanti da questi, gli Acquaviva, cui appartiene questa volta senza ombra di dubbio – come ho provato a dimostrare qualche anno fa – lo stemma col leone azzurro rampante in campo d’oro che compare nel foglio principale col Giudizio, commissionavano un importante Graduale miniato, alcuni fogli staccati del quale sono oggi presso la Fondazione Cini a Venezia; e questo Graduale, voluto da un “Giacomo arciprete di San Flaviano” a Giulianova – verosimilmente lo stesso “arciprete Giacomo” che in un documento del 1324 versava le decime per quella chiesa alla diocesi aprutina – e, dicono le scritte visibili su questo stesso foglio, in memoria di un “Matteo” già preposito del monastero benedettino cassinese di Gabbiano, doveva essere destinato o a quest’ultimo convento, sito presso Corropoli – di cui era signore nel 1340 Cecco Acquaviva – o, in seconda istanza, per l’appunto alla chiesa di San Flaviano a Giulianova, il cui arciprete – è noto negli anni a seguire – era nominato su indicazione sempre della stessa famiglia comitale degli Acquaviva17. Sebbene l’acquisto di Atri da parte degli allora conti di San Flaviano, e futuri duchi d’Atri, non dati – come si sa – che al 1392/93, è proprio in quest’area e nella diocesi da poco divenuta comune di Atri e Penne che si trovano, occorre dire, le altre e più consistenti tracce dell’attività – diciamo così – “primitiva” del “Maestro di Offida”, oggetto del nostro intervento. Intanto all’interno della stessa Cattedrale di Atri, dove tabelloni votivi a fresco di sua mano decorano la controfacciata, alcuni dei pilastri e parte della parete laterale di destra, tutti eseguiti, anche se in momenti diversi, al tempo del cistercense Nicola, vescovo dal 1326 al 1352, e in ogni caso ben prima che parte di essi venisse coperta e danneggiata dalla costruzione, nel 1371, della cappella, addossata appunto alla facciata del medico Rainaldo di Panfilo18.
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Leone de Castris, Pittura del Trecento cit., pp. 442, 450 nota 19; col rinvio ai documenti, alle circostanze storiche relative ai personaggi citati e alla precedente bibliografia sui fogli in questione, in specie a M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, Berardo da Teramo “miniatore”, Città di Teramo, Calendario 2004, Mosciano (TE) 2003. 18 Rinvio alla bibliografia qui citata a nota 1, ed in particolare a Leone de Castris, Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento, Cattedrale, Atri cit., pp. 215-225 e bibl. prec.
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I più antichi tra questi affreschi, la Madonna della Misericordia della parete di destra della nave, la Madonna in trono di uno dei pilastri e soprattutto il Giudizio finale della controfacciata – sorta di versione monumentale di quello miniato da Berardo da Teramo che abbiamo appena visto – appartengono infatti a una fase dello sviluppo del linguaggio del “Maestro di Offida” non dissimile da quella attestata a Canzano e a Morro d’Oro, forse appena più avanzata, databile diciamo sul 1340; una fase dove ad un rinvio alla cultura riminese-marchigiana, verosimilmente conosciuta ad Ascoli, si somma quello alla cultura lineare e al sapore narrativo della miniatura teramana d’inizio Trecento, della miniatura – l’abbiamo visto – di Berardo da Teramo e Muzio di Francesco di Cambio. A questa prima fase, che da Canzano e Morro d’Oro porta ad Atri, appartengono anche – io credo – la severa e ombrosa Madonna col bambino del Museo Nazionale d’Abruzzo dell’Aquila, proveniente dalla chiesa di San Comizio a Penne, uno dei rari dipinti su tavola dell’artista, e probabilmente anche i frammenti con teste di Santi che ancora si leggono sulle mura dell’abside della chiesa dei Santi Lorenzo e Vittorino a Nocciano, proprio sul confine meridionale della diocesi, finestra che reca incisa – a conforto della nostra ipotesi di cronologia – la data “1335”19. Tutti gli altri affreschi della stessa mano presenti nell’area, in San Domenico a Penne, in San Francesco e nella stessa Cattedrale di Atri, nella collegiata di San Michele e in San Francesco a Città Sant’Angelo, nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Pianella e – lo vedremo – in quella di San Domenico e nella Cattedrale di Teramo, così come – lo si è detto – quelli che si conservano ad Ascoli e nella Marca Picena, mi sembrano di data appena più tarda e talora di bottega, successivi a un’esperienza, anche fisica, esistenziale, di contatto con Napoli, con la corte angioina e con la cultura giottesca di stanza in città, contatti e frequentazioni meridionali e con la capitale del Regno di cui è traccia, fra gli altri indizi, il trittico anch’esso su tavola della chiesa della Rabatana a Tursi, in Basilicata20. C’è piuttosto da dire, senza soffermarsi su argomenti già ampiamente trattati in passato, che, al ritorno dalla capitale del Regno, attorno alla metà degli anni Quaranta, il nostro pittore dové trovare ancora una volta nell’area dell’Abruzzo teramano patroni e committenti vecchi e nuovi in grado di apprezzarne la grande capacità di decorare vaste superfici e l’evoluta 19 Cfr. in particolare Bologna, Altre aggiunte al Maestro di Offida cit., pp. 297-298; Leone de Castris, Gli affreschi dell’antico coro cit., pp. 481-482; Documenti dell’Abruzzo teramano. Dalla valle del Fino cit., VI/2, Dizionario topografico e storico, pp. 672-675. 20 Cfr. la bibliografia – e in particolare i contributi di chi scrive – qui citata a nota 1;
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capacità di narrare e di impaginare nello spazio scene anche complesse. Fra questi committenti, negli anni subito prima e a cavaliere del 1350, spicca senz’altro il nome del vescovo, questa volta di Teramo, Niccolò Arcioni, morto nel 1355 e di cui s’è già detto a proposito degli esordi del pittore. Il nome di questo alto prelato, membro di una nobile famiglia romana, è legato – come si sa – all’ampliamento e alla ristrutturazione della Cattedrale di Teramo, conclusa nel dicembre del 1335 con una solenne funzione celebrativa; ed è credibile che alla sua iniziativa, oltre al portale della facciata orientale firmato e datato dal marmoraro anch’esso romano Deodato nel 1332 e dotato del suo stemma, si debba il corredo di immagini, sculture in legno e in marmo e cicli a fresco, che doveva arricchirne l’interno e che in parte ancor oggi sopravvive21; corredo di cui dové far parte anche il piccolo ciclo di Storie di Sant’Eligio che con altri affreschi, alcuni dei quali più tardi, decora – riscoperto sotto uno scialbo nel 1930 – la parete interna della facciata occidentale della chiesa “arcioniana”, opera tipica del “Maestro di Offida”22. Ancor più certo, poi, è il suo intervento nell’altra chiesa teramana di San Domenico, che egli stesso – in una bolla del dicembre 1353 con la quale concedeva indulgenze a chi la visitasse – dichiarava «nuovamente costruita», e sulle pareti della quale i restauri condotti dal Savini nel 1929/30 ed altri restauri invece più recenti hanno fatto riemergere una vasta e frammentaria decorazione a fresco con Storie cristologiche, una Disputa di San Tommaso, una seconda Crocifissione ed altri tabelloni con la Madonna e vari Santi, decorazione anch’essa di mano del nostro pittore ed esplicitamente dotata, questa volta, dello stemma con l’arcione23. Siamo, con questi affreschi, sul finire – io credo – degli anni Quaranta, e non mi sento di escludere che a questa data il “Maestro di Offida” già lavorasse al contempo e in modo alternato nei centri della Marca Picena e dell’Abruzzo teramano, a un tiro di schioppo d’altronde gli uni dagli altri. La Crocifissione a tre figure della chiesa di San Domenico a Teramo, infatti, denuncia, se non m’inganno, già una conoscenza delle prime cose di Allegretto Nuzi di ritorno nelle Marche, in particolare della Crocifissione nonchè C. D’Alberto, in Giotto e il Trecento. “Il più Sovrano Maestro stato in dipintura”. Catalogo della mostra (Roma 2009), cur. A. Tomei, Roma 2009, pp. 225-226, scheda n. 70; con altra bibliografia. 21 F. Aceto, La Cattedrale di Santa Maria e San Berardo, in Documenti dell’Abruzzo teramano, VII/1, Teramo e la valle del Tordino cit., pp. 262-288: 270-281; con bibl. precedente. 22 Leone de Castris, Affreschi trecenteschi, Cattedrale, Teramo cit., pp. 302-308. 23 Leone de Castris, Gli affreschi del presunto Luca d’Atri, Chiesa di San Domenico, Teramo cit., pp. 429-439.
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da questi affrescata in San Francesco in Rovereto a Saltara24. E tuttavia è proprio in questi anni, probabilmente non molto oltre il 1352/55, che le tracce d’un’attività dell’anonimo pittore nell’Abruzzo teramano s’interrompono, laddove s’infittiscono quelle della sua operosità nelle Marche. Sarei dunque giustificato, a questo punto, a concludere il mio intervento, se non fosse per una questione della quale mi sono occupato nel recente passato, ma che non mi sembra giusto trascurare in questa occasione; una questione che in parte ancora si lega all’ipotesi sin qui riassunta di un’origine e un esordio abruzzese dell’artista e in parte affronta – diciamo così – il tema del suo “anonimato”. Qualche anno fa, una volta messa a fuoco la particolare densità di testimonianze di mano del nostro artista nell’area dell’Abruzzo teramano, e in particolare nell’area dell’antica diocesi di Atri e Penne, una volta individuato nella Cattedrale di Atri il fulcro di una sua attività reiterata e continuata nel tempo, all’incirca dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Cinquanta, e nella chiesa principale e nella città di Atri – sulle pareti specie della cripta del Duomo e nel Messale miniato dei Frati Minori oggi nel Museo Capitolare, trascritto da un Nicolò di Valle Castellana e datato 136525 – il luogo più antico d’avvio di una sua “scuola” già a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta del Trecento, mi sono provato con molta prudenza a proporne una possibile «identificazione con il grande e sinora sconosciuto artista locale citato con spicco, e assieme a Giotto, dal giurista abruzzese Luca da Penne e ricordato anche dalle fonti in connessione agli affreschi della Cattedrale [di Atri], e cioè con Luca d’Atri»26. È un’ipotesi – questa – sulla quale, mi permetto di insistere, vale forse la pena, per rubare la frase a Roberto Longhi – impegnato in quell’occasione a difendersi dalle contestazioni del Waterhouse (o come lui lo chiamava, irridendolo, il Casalacqua) sull’identità dei committenti dell’altare Griffoni di Francesco del Cossa – di «puntare una ghinea»27.
24 Ibid., in part. alle pp. 431, 439 nota 14, col rinvio, per la citata Crocifissione del Nuzi,
a Restauri nelle Marche cit., pp. 77-80. 25 Cfr. Leone de Castris, Gli affreschi della cripta, Cattedrale, Atri cit., pp. 230-233; A. Perriccioli Saggese, Messale dei Frati Minori, Museo Capitolare, Atri, in Documenti dell’Abruzzo teramano, V/1, Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara cit., pp. 472476 e fig. 614. 26 Leone de Castris, Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento, Cattedrale, Atri cit., pp. 221, 225 nota 16; col rinvio alle fonti, a Luca da Penne e a Muzio Pansa. 27 R. Longhi, Ampliamenti nell’Officina Ferrarese, «La Critica d’Arte», 4 (1940), ora in Opere complete di Roberto Longhi, V, Officina Ferrarese, Firenze 1968, pp. 130-131.
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Luca da Penne, a cavallo del 1350 ed oltre, frequentava Napoli e la corte di Giovanna I d’Angiò, ed a Napoli doveva aver avuto certamente modo di apprezzare i grandi cicli, esaltati da Petrarca e da altri, affrescati dal pittore fiorentino su richiesta di Roberto il Saggio in Santa Chiara e nella Cappella palatina in Castel Nuovo. Fu certo per amor di campanile, o forse anche per amicizia personale coll’artista suo conterraneo, che nei suoi scritti parlò di quei «picturae professoribus ut Joctus fiorentino et Lucas Atrianus qui nostris temporibus ceteros excesserunt», e cioè dei due pittori che, a suo avviso, avevano ai suoi tempi fra tutti primeggiato28. E tuttavia, se l’artista attivo ad Atri, a Offida e nella larga fascia adriatica stretta tra le valli a nord del Chienti e a sud del Pescara fosse davvero da identificare col misterioso Luca d’Atri, il paragone con Giotto, poco giustificabile sotto il profilo della qualità e della grandezza, assume senso in rapporto alle doti indubbie di facile decoratore a fresco, di capace organizzatore del lavoro di cantiere e di vero dominatore del mercato medio-adriatico, in rapporto alla sua figura di artista prediletto ed apprezzato – sino a ottenerne una sorta di monopolio – dalla committenza abruzzese e picena di metà Trecento.
28 Vedi qui a nota 26 e, più in generale per Luca da Penne, la sua biografia, la sua frequentazione della corte angioina di Napoli e le sue opere, E. Conte, Luca da Penne, in Dizionario Biografico degli Italiani, 66, Roma 2007, pp. 251-254 (con bibliografia), laddove per le opere di Giotto a Napoli e la loro fortuna presso le fonti contemporanee mi permetto invece di rinviare a P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli 2006.
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Spunti dagli affreschi del maestro di Offida per osservazioni sulla moda nel Trecento e sullo studio della storia della moda
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Si ritiene che il maestro di Offida abbia operato nella seconda metà del XIV secolo (verosimilmente fra gli anni Quaranta e Settanta del Trecento) nell’Italia centrale e si ritiene che siano di sua mano gli affreschi della cripta della chiesa di Santa Maria della Rocca in Offida1 dove si trovano i due cicli, quello di santa Caterina d’Alessandria e quello di santa Lucia. Su questi due cicli mi soffermerò per ricavare spunti di riflessione non solo sulla moda nel Trecento ma anche sul rapporto moda e arte e sul nesso moda, arte e società. Gli affreschi narrano per immagini due distinte storie di giovani donne nobili, virtuose e coraggiose. La storia narra di Caterina2, vissuta in Egitto fra III e IV secolo, giovane bella, dotta e nobile che si rifiutò di celebrare le feste pagane. Un gruppo di retori tentò di convincerla, ma fu lei a convincerli a convertirsi al cristianesimo. Il governatore Massimino condannò a morte tutti i retori e lei al supplizio della ruota ma la ruota si ruppe e fu decapitata [Fig. 1]. Lucia3, nobile vergine siracusana, era devota a sant’Agata, davanti al sepolcro della quale cadde addormentata assieme alla madre che fu dalla santa guarita. Al risveglio Lucia chiese alla madre di scioglierla da ogni obbligo di matrimonio e di distribuire tutti i suoi beni
1 P. Leone De Castris, Percorso del Maestro di Offida, in Studi di storia dell’arte in memoria di Mario Rotili, Napoli 1984, pp. 283-305; A. Tatuferi, Qualche osservazione sul Maestro di Offida e alcuni appunti sulla pittura del Trecento nell’Abruzzo teramano, «Arte cristiana», 88/799 (2000), pp. 249-259; S. Papetti, Un artista itinerante fra le Marche e l’Abruzzo: il Maestro di Offida, in Le vie e la civiltà dei pellegrinaggi nell’Italia centrale. Atti del Convegno di studio svoltosi in occasione della tredicesima edizione del “Premio internazionale Ascoli Piceno” (Ascoli Piceno, 21-22 maggio 1999), cur. E. Menestò, Spoleto 2000 (Centro italiano di studi sull’alto Medioevo), pp. 43-61. 2Cfr. J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1993 (I° ediz. 1983), sub voce e Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, edd. A. e L. Vitale Brovarone, Torino 1995, pp. 963-971. 3 Ibid., pp. 34-37.
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ai poveri. Quando il fidanzato si rese conto della cosa (in un primo tempo aveva creduto che Lucia volesse acquistare dei beni più sicuri) la portò davanti al console Pascasio che le ordinò di sacrificare agli idoli. Al suo rifiuto il console diede ordine di portare lei, che voleva vivere nella castità, in un lupanare, ma il suo corpo si fece pesantissimo e dunque intrasportabile. Per vincere quello che considerava un incantesimo il console la fece bagnare con orina, quindi comandò che le si accendesse intorno un gran fuoco, alla fine la fece pugnalare alla gola [Fig. 2]. Morì nel 310. Pascasio fu portato a Roma e, accusato di aver depredato la provincia, venne condannato a morte. Sia gli affreschi di questi due cicli sia altri, sempre attribuiti al maestro di Offida o alla sua scuola, presenti a Offida, a Pedara di Rocca Fluvione (Chiesa dei Santi Ippolito e Cassano) o ad Ascoli Piceno (Cripta di San Vittore) saranno qui oggetto di attenzione per quello che attestano sulla moda e per quanto rivelano, attraverso la moda, sulla società del tempo e quindi per il contributo che possono dare ad un discorso più generale sul valore attribuito alle vesti alla fine del Medioevo. Moda, arte e storia
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Chi si è dedicato alla storia della moda e del costume provenendo perlopiù da studi storico-artistici si è valso delle rappresentazioni nelle opere d’arte di abiti ed accessori per descrivere forme e linee nel corso dei secoli. Il fatto che una certa veste fosse raffigurata in un affresco o in una tavola consentiva di dichiararla in uso al tempo della rappresentazione. Gli abiti e gli ornamenti possono in effetti contribuire alla datazione di questa o quell’opera ed un’esplicita trattazione del nesso moda e cronologia delle opere d’arte ha avuto luogo con Luciano Bellosi nel 19744. Si trattò allora di un lavoro pionieristico e di grande interesse che usava strumentalmente le scollature degli abiti o i bordi delle vesti per aggregare elementi di datazione certa in vista di allargamenti delle certezze. Gli abiti o gli accessori non erano per lui che un mezzo utile allo storico dell’arte e non oggetti dotati in sé di interesse per la storia della società. L. Bellosi, Buffalmacco e il trionfo della morte, Milano 2003 (ma I°a ediz. 1974), in particolare ‘Moda e costume’ negli affreschi pisani e loro datazione, pp. 51-65. Vedere inoltre: Bellosi, “I vivi parean vivi”. Scritti di storia italiana del Duecento e del Trecento, Firenze 2006 («Prospettive. Rivista di storia dell’arte antica e moderna») in particolare Moda e cronologia. A) Gli affreschi della basilica inferiore di Assisi, pp. 428-437 e B) Per la pittura di primo Trecento, pp. 438-449. 4
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Come i dipinti, quando di datazione certa, sono utilizzabili per datare tessili e capi di vestiario, analogamente la rappresentazione di abiti ritenuti ragionevolmente in uso in un determinato periodo possono aiutare a datare affreschi o quadri. Questi ultimi a loro volta consentono di vedere come una certa linea o foggia, attestata anche con dovizia di particolari da fonti documentarie, potesse essere realmente apparsa agli occhi dei contemporanei. L’intreccio tra arte, storia e moda costituisce una risorsa per tutte e tre le discipline con una tendenza a far prevalere l’interesse per l’opera d’arte, per la sua attribuzione e relativa cronologia, rispetto a quello per gli abiti rappresentati e per la loro storia. Del resto, e più in generale, è un dato di fatto che la storia degli abiti e degli accessori sia stata a lungo trascurata o marginalizzata e comunque considerata minore. Negli ultimi anni si è aperta una nuova fase della storia della moda, meno incentrata sulle opere nelle quali gli oggetti sono raffigurati e più sugli oggetti stessi, ma soprattutto vivamente interessata all’intreccio delle fonti (cronache, inventari, sermoni, leggi suntuarie e così via) con l’intento di ricostruire attorno agli abiti o agli accessori, cioè agli oggetti della moda, il ricco mondo di relazioni economiche, sociali ed istituzionali al quale appartengono. È proprio questo mondo che ha reso vesti ed accessori elementi dotati di alta capacità testimoniale circa la vita individuale e collettiva degli uomini e delle donne, tanto degli ultimi secoli del medioevo come delle epoche successive. Abiti ed accessori sono testimoni in grado di gettare luce sulle attività produttive e commerciali, sulle relazioni fra le categorie, sui rapporti fra i generi e su altro ancora. Ne è conseguito l’avvio di un processo di valutazione della materialità degli oggetti della moda, che siano guarnacche, pianelle o ventagli5, rappresentato ad esempio dallo studio delle tecniche costruttive di un capo di abbigliamento o dei materiali presenti nelle botteghe della moda6. L’interesse alquanto dilatatosi negli ultimi anni per gli oggetti della moda ha portato anche studiosi di storia letteraria sia a compiere percorsi nelle singole opere seguendo il filo di questo o quel capo sia ad analizzare il riferimento alle vesti nell’opera dell’uno o dell’altro autore7. 5
Moda. Storia e storie, cur. M.G. Muzzarelli - G. Riello - E. Tosi Brandi, Milano 2010, in partic. D.A. Baxter, Nei panni di chi? Storia della moda e storia dell’arte, pp. 82-91. 6 Ivi, G. Riello, L’oggetto di moda: tre approcci per la storia della moda, pp. 131-144; Riello, Things that Shape History: Material Culture and Historical Narratives, in History and Material Culture, cur. K. Harvey, Basingsoke 2009, pp. 24-47. 7 E. Weaver, Dietro il vestito: la semiotica del vestire nel “Decameron”, in La novella italiana. Atti del convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma 1989, pp. 701-710. Pionieristico al riguardo il lavoro di C. Merkel, Come vestivano gli uomini del “Decameron”. Saggio di storia del costume, Roma 1898 (rist. anast. Milano 1981).
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L’idea finalmente affermatasi che la moda sia un fenomeno polisemico al centro di molti processi e saturo di valori induce a guardare gli abiti rappresentati anche in questi affreschi con occhi pronti a cogliere ogni possibile significato. Tali abiti non sono solo utili a datare, ma sono portatori di elementi di rilevanza fin qui non abbastanza riconosciuta. Anticipo un tema su cui tornerò: questi affreschi forniscono prova più che di una forte attenzione ai costumi quasi di una resa alla moda. Tale resa rappresenta il prezzo dell’efficacia comunicativa ma forse anche la condivisione della rilevanza da molti attribuita ad abiti ed accessori. Oggi si contano numerosi studi sugli oggetti della moda, dai copricapi8 ai guanti9, che mirano a ricostruire e a interpretare il complesso valore economico, sociale e simbolico di abiti ed accessori: le scarpe ad esempio10. Lo scopo di questi studi è quello di dare un’idea di come gli oggetti si presentassero alla vista e al tatto di chi li desiderava, acquistava e faceva produrre, ma anche di come venissero caricati di significati in una società nella quale gusto, privilegio e distinzione erano rappresentati soprattutto, se non unicamente, da abiti ed accessori11. Tutto ciò presuppone ed esige un confronto fra storia dell’arte e storia della moda, in cui vecchie e nuove metodologie mirino alla complementarietà anziché alla separatezza quando non all’opposizione. Ciò nell’ambito di una quasi riconosciuta necessità di collaborazione fra le discipline raccomandata non per eclettismo, ma perché ce n’è bisogno. Ce n’è bisogno in quanto gli abiti sono all’intersezione di diversi settori, da quello dell’economia a quello delle leggi. Di qui la complessità di ogni discorso relativo alle vesti, con buona pace di quanti ancora considerano il tema frivolo o “piccolo argomento”12: una complessità che richiede giustapposizioni e fusioni di punti di vista.
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8 C. Frick Collier, Cappelli e copricapi nella Firenze del Rinascimento. L’emergere dell’identità sociale attraverso l’abbigliamento, in Moda e moderno. Dal Medioevo al Rinascimento, cur. E. Paulicelli, Roma 2006, pp.103-128; M.G. Muzzarelli, Ma cosa avevano in testa? Copricapi femminili proibiti e consentiti fra Medioevo ed Età moderna, in Un bazar di storie. A Giuseppe Olmi per il sessantesimo genetliaco, cur. C. Pancino - R.G. Mazzolini, Trento 2006, pp. 13-28. 9 M. Pastoreau, Le gant médiéval. Jalons pour l’histoire d’un objet symbolique, in Le corps et sa parure/The Body and its Adornement, «Micrologus», 15 (2007), pp. 121-137; E. Welch, Metter mano ai guanti d’età moderna, in Moda. Storia e storie cit., pp. 145-155. 10 Scarpe. Dal sandalo antico alla calzatura d’alta moda, cur. G. Riello - P. McNeill, Costabissara (Vi), 2007 (ediz. orig. Oxford-New York 2006). 11 M.G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e apparenze alla fine del medioevo, Torino 1996; Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna 1999. 12 Scriveva Baldassar Castiglione che l’abito «non è piccolo argomento della fantasia di chi lo porta» (Il libro del Cortegiano, cur. W. Barberis, Torino 1998, p. 160).
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Perdura tuttavia l’opportunità di distinzioni di competenze, tanto che a me, che non sono storico dell’arte, non compete ragionare sullo stile del pittore e sulle influenze riconoscibili, quanto piuttosto sugli oggetti che l’artista ha dipinto e sulle possibili ragioni di una occhiuta e riscontrabile attenzione per abiti ed accessori “alla moda” al tempo della esecuzione del dipinto o dell’affresco. La formula “alla moda” indica qualcosa di più rispetto alla definizione “in uso”: allude a un consapevole conformarsi ed attivarsi per seguire uno stile che caratterizzava un periodo e che comunicava non solo una necessaria disponibilità economica, ma anche l’appartenenza ad una precisa area del privilegio, ad una fascia di età, ad un’area geografica, ad una fede (ebrei distinguibili dai cristiani) e così via. I più avvertiti approcci odierni alla storia della moda hanno luogo intrecciando fra loro molteplici generi di fonti e riconoscendo ad abiti ed accessori il valore di oggetti la cui storia vale la pena indagare e non di soli strumenti per rimpolpare altre storie. Molteplici generi di fonti sì, ma resta il fatto che l’iconografia è lo straordinario occhio della storia della moda. Solo l’iconografia riesce a farci “vedere” abiti ed accessori descritti nei memoriali o nelle novelle, elencati non senza dettagli negli inventari o nei testamenti, esaminati dal punto di vista del loro valore dalle fonti economiche o normati dalle fonti giuridiche (e già il fatto che siano oggetto di puntuale normazione13 prova la rilevanza riconosciuta ad abiti ed accessori). Quello che le immagini rappresentano è in buona parte quello che l’artista, il suo committente e il pubblico che avrebbe ammirato la rappresentazione conoscevano già: avevano visto realmente prima di guardare la tela o l’affresco e in qualche caso possedevano personalmente. Il riferimento, limitando il discorso alle vesti, è ad abiti splendidi e costosi posseduti da pochi, ma visti da più persone, oppure a capi di abbigliamento (erano fra le poche cose presenti nelle case dei ricchi o dei meno poveri) che sostanziavano le doti e che venivano tramandati per testamento passando di generazione in generazione. Se il dipinto risente della capacità interpretativa del pubblico al quale si rivolge e della possibilità di riconoscere situazioni in esso rappresentate e se quindi rispecchia valori e gusti degli uomini e delle donne chiamati ad ammirarlo14, ciò comporta una necessaria corrispondenza fra l’analisi richiesta da un dipinto e la capacità di analisi del fruitore. Questo vale 13 M.G. Muzzarelli, Le leggi suntuarie, in La Moda, Torino 2003 (Storia d’Italia, Annali 19), pp.185-220. 14 M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino 1978 (ediz. orig. Oxford 1972), p. 46. Dello stesso autore vedere anche: Parole per le immagini. L’arte rinascimentale e la critica, Milano 2009.
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ovviamente anche per i fruitori dei cicli di santa Caterina e di santa Lucia immaginati come abili decodificatori del linguaggio della moda. Gli affreschi fornivano l’occasione di far uso della perizia acquisita e di utilizzare informazioni e opinioni tratte dall’esperienza generale. La nostra cultura è sufficientemente vicina al Trecento o al Quattrocento per immaginare di condividere almeno parte di quel patrimonio di conoscenze e per non avere la sensazione di fraintendere i dipinti, ma il rischio del fraintendimento c’è, eccome. Se si fosse persa la dottrina cristiana e non conoscessimo la storia di santa Caterina d’Alessandria faremmo molta più fatica a orientarci nella rappresentazione di questo ciclo. Da ciò deriva la necessità di riconoscere sì l’importanza della cultura cristiana, ma anche di quella della moda. In sostanza chi ha dipinto gli abiti indossati da santa Caterina o da sant’Orsola e chi guardava quei dipinti possedeva una comune consapevolezza del significato e del valore delle vesti nella società del XIV secolo e in particolare delle fogge e dei colori degli abiti raffigurati. Senza partecipare di quella consapevolezza si perde la maggior parte del senso della rappresentazione. Grazie alla possibilità che oggi abbiamo di intrecciare diversi generi di fonti è alla nostra portata tentare di immaginare quale poteva essere questa comune consapevolezza. Poiché si contava su un abbecedario condiviso per poter comunicare, dobbiamo cercare di ricostruire questo abbecedario. I soggetti rappresentati in questi casi, e nella maggioranza dei casi, sono religiosi e quindi è ineludibile conoscere la storia dei santi e in particolare quella di Caterina e di Lucia. Ma va anche attribuito al fenomeno della moda tutta la sua caratura ed importanza. Ciò in quanto il maestro di Offida operava mentre la moda faceva i suoi primi passi, mostrava la sua capacità di condizionare gusti ed usi, ma rivelava anche la potenzialità delle apparenze: per governare, valorizzando o marginalizzando, per risanare bilanci comunali perennemente deficitari, ma anche per rappresentare prestigio e potenza. Quanto sono venuta dicendo serve a chiarire il mio approccio al tema e dunque anche il mio modo di utilizzare gli affreschi dei quali parleremo e in particolare quelli del ciclo di santa Caterina di Alessandria e del ciclo di santa Lucia. Le vesti di santa Caterina d’Alessandria e di santa Lucia
Vorrei mettere a fuoco qualche dettaglio relativo all’abbigliamento delle due sante e di altre figure che compaiono negli affreschi della cripta della chiesa di Santa Maria della Rocca in Offida.
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Nel ciclo che la riguarda, Caterina veste un semplice guarnello alla moda del pieno Trecento. Si tratta di un abito stretto e scollato (gonnella) di un tenue color forse verde mandorla, ma praticamente incolore che si distingue per semplicità e scarso valore rispetto ad analoghe vesti di colore rosso acceso indossate da altre figure femminili. Esso si caratterizza per essenzialità anche rispetto alla guarnacca o cottardita di un pregiato color paonazzo con manicottoli pendenti foderati di vaio (dunque larghi e decorati come si usava nella seconda metà del XIV e non nella prima) indosso a una figura femminile in piedi accanto a Caterina che è ritratta in ginocchio davanti all’eremita con l’immagine del Bambin Gesù che ruota la testa verso di lei [Fig. 3]. In tutte le raffigurazioni Caterina ha i capelli acconciati con una treccia, o coazzone, semplice ma al tempo stesso accurata ed alla moda. Non ha in testa né nastri né cappelli, diversamente da altre due figure femminili raffigurate accanto a lei. Le sue vesti rappresentano dunque accuratezza, ma rinuncia rispetto a quello che una giovane di nobili natali come era lei avrebbe potuto indossare. Caterina è sempre raffigurata con ai fianchi un drappo a colori vivaci con motivi in forma di rombo. Il drappo è fermato in vita da una semplicissima cintura di colore blu, forse di tessuto, con un lembo pendente [Fig. 4]. Si tratta di un insieme inedito vale a dire di una combinazione di guarnello semplicissimo con drappo elaborato (che ricorda il tessuto della veste sottostante il mantello di colore azzurro intenso della Vergine Annunciata della stessa cappella) [Fig. 5] che pone problemi di interpretazione. Mi limito ad osservare che l’effetto a riquadri richiama alla mente le vesti da penitenza raffigurate indosso a Chiara da Rimini [Fig. 6] o a Margherita da Cortona [Fig. 7]15. Osservo inoltre che la rinuncia da parte di Francesco d’Assisi alle ricche vesti confacenti al suo status è stata resa pittoricamente da Benozzo Gozzoli in modo emblematico con l’immagine di Francesco nudo fino alla cintola e con ai fianchi un drappo di tessuto a più colori e decorato [Fig. 9] che ricorda il drappo di Caterina. Tanto il motivo a riquadri come quello a losanghe si ritiene che alludessero alla fecondità16 e nello specifico l’allusione potrebbe essere alla ricchezza di frutti attesa dalla scelta di conversione di Caterina. Le guarnacche o cottardite con maniche pendenti, alla moda nel
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E. Tosi Brandi, La mortificazione segnata dall’abito. Note per un’estetica della penitenza femminile nei secoli XIII-XVI, in Tra negazione e soggettività. Per una rilettura del corpo femminile nella storia della cultura, cur. A. Cagnolati, Milano 2007, pp. 71-87. 16 C. Giorgetti, Simboli, abiti, ritratti, in Per filo e per segno. Scritture della moda di ieri e di oggi, cur. M. Catricalà, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2004, pp. 79-94.
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Trecento, sono più volte rappresentate negli affreschi attribuiti al maestro di Offida. Nel caso della Madonna del latte con sant’Antonio e santa Caterina (Pedara di Rocca Fluvione) la guarnacca di quest’ultima [Fig. 8] è impreziosita da ricami che ricorrono anche in una raffigurazione della Madonna con bambino e due angeli sempre a Pedara di Rocca Fluvione [Fig. 10]. In altre occasioni invece la Vergine è raffigurata con abiti meno elaborati. Sempre Caterina è rappresentata con un’elegante sopravveste color paonazzo interamente foderata di vaio nella scena delle nozze mistiche di santa Caterina [Fig. 11], la cui condizione sociale non contrastava in effetti con una simile preziosa veste secondo le norme suntuarie del pieno Trecento. Anche sant’Orsola raffigurata nella cripta della chiesa in Santa Maria in Platea a Campli indossa una elegante cottardita rossa [Fig. 12]. Dunque il maestro di Offida ha raffigurato con competenza raffinate vesti alla moda sia femminili sia maschili. San Cristoforo che porta il bambino Gesù in spalla [Fig. 13] e il giovane uomo che sembra consegnare santa Lucia al capo delle guardie [Fig. 14], che poi Lucia convertirà, indossano infatti una corta e stretta gonnella con cintura un po’ bassa e scarsella appesa. Negli anni fra il 1340 e il 1380 questo era il modo di vestire alla moda degli uomini giovani. La gonnella di san Cristoforo appare percorsa nella parte superiore da una fitta serie di bottoni, un ritrovato recente all’epoca e molto apprezzato, ed imbottita di vaio nella parte inferiore, il che non era usuale. Quanto a santa Lucia, è sempre rappresentata con gonnella (veste da sotto, della quale si scorgono solo le maniche lunghe aderenti) e guarnacca a maniche pendenti foderate di pelliccia di vaio [Fig. 15]. Porta i capelli biondi, come santa Caterina, acconciati come santa Caterina secondo un modello di bellezza e di cura diffuso all’epoca. Sant’Eustachio (cripta di San Vittore, Ascoli Piceno), che era un generale dell’esercito dell’imperatore Traiano, porta in testa un cappello [Fig. 16] che, per ricorrere a termini impiegati da Bellosi per una rappresentazione analoga nel Trionfo della morte di Buffalmacco, lo fa apparire un bellimbusto alla moda. Dunque tanto la Madonna come le sante Lucia, Caterina o Orsola, sia san Cristoforo sia sant’Eustachio tutti vestono, anche se in maniera diversa, seguendo la moda del pieno Trecento in un’evidente seppur scontata discrasia fra epoca dei fatti narrati e modo di vestire. Di fronte a questo fenomeno si è preso atto del fatto che dalla fine del Duecento l’arte figurativa ha accolto con grande disinvoltura gli elementi della moda contemporanea per introdurli in episodi che non erano affatto
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contemporanei agli artisti che li raffiguravano . A proposito del fenomeno Panofsky ha parlato di una specie di regola di comportamento dell’artista medievale da lui denominata “principio di distacco”18. Sulla base di tale principio un pittore o un miniatore francese di fine Duecento poteva con disinvoltura illustrare dei miti antichi vestendo i personaggi in panni duecenteschi o trecenteschi. Come si può spiegare questa prevalenza della contemporaneità? Il fatto è che il fenomeno della moda ha letteralmente cambiato i costumi, ha fatto saltare i precedenti usi e riferimenti, ha ammaliato e sedotto. Di fatto ci si è dovuti arrendere alla moda che produceva guadagni, dava gusto, si offriva come strumento di governo e di comunicazione. Si è arreso il maestro di Offida come prima di lui altri pittori, Giotto compreso. Da allora miniando, affrescando o dipingendo una tavola non si è più potuto mancare, direi fino al tempo dell’astrattismo, di fare i conti con la moda. Infatti dalla fine del Duecento e soprattutto nel Trecento la moda si è affermata con forza e per dar conto dell’importanza di una situazione o della rilevanza di una persona, ma anche per comunicare senso di cura e per stimolare l’attenzione e la partecipazione il linguaggio delle vesti è diventato un elemento di centrale importanza. Ciò da quando gli oggetti prodotti nelle botteghe artigiane si sono fatti sempre più numerosi, accurati, esposti e desiderati. Da quando non solo nelle corti, ma anche per le vie cittadine si potevano vedere persone con indosso abiti costosi e accurati, esibiti per manifestare un privilegio in qualche caso conquistato di recente. Da quando nelle piazze i predicatori parlavano con frequenza e continuità di vesti e di vanità che evidentemente si imponevano come oggetto di riflessione. Da quando, nel secondo Duecento, i legislatori hanno preso ad occuparsi con sistematicità del modo di vestire soprattutto delle donne per regolare la relazione fra abiti e categoria di appartenenza alfine di facilitare la convivenza nella diversità, ma anche per aumentare le risorse comunali grazie al sistema delle multe. Chi infatti non rispettava le prescrizioni era tenuto a pagare una multa.
La nascita della moda
Dunque si può fissare la nascita della moda al momento nel quale l’of17 18
L. Bellosi, Buffalmacco e il trionfo della morte cit., pp. 51-53. E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Milano 1971, pp. 10611 (ediz. orig. Stockholm 1960).
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ferta di capi e di accessori si è fatta ampia e relativamente accessibile; quando è individuabile una consapevolezza critica espressa sia da laici come il cronachista Giovanni Villani sia da predicatori quali Giovanni da Vicenza o Umberto da Romans; quando una miriade di provvedimenti normativi ha cominciato a disciplinare con acribia l’accesso a vesti ed ornamenti. Ancora: quando si è verificato un radicale cambiamento soprattutto nelle fogge maschili, ma non solo, con l’affermarsi della moda del corto e stretto: un cambiamento nella configurazione, nelle proporzioni e nella relazione con il corpo. Ma si è verificato un cambiamento anche nella percezione della moda come fenomeno: una “stranianza d’abito nè bello né onesto”, per dirla con le parole di Giovanni Villani19, che ha risentito di influssi forestieri e che ha contagiato soprattutto i giovani. Tutto ciò ha avuto luogo nei primi decenni del Trecento20. La pittura testimonia questo cambiamento, lo registra e non può che inserire questa nuova realtà dotata di gran forza nella rappresentazione di episodi che a rigore avrebbero dovuto collocarsi in altri tempi caratterizzati da altre estetiche. Gesù, gli Apostoli, l’Arcangelo e qualche angelo non risentono della moda nemmeno nell’opera del maestro di Offida, ma la Madonna sì, le sante tutte, i santi anche. Per attrarre, per farsi capire e apprezzare bisognava lasciare spazio a una realtà coinvolgente che ha impressionato di sé la pittura come fosse una pellicola. L’ha impressionata quasi a prescindere dalla volontà dell’uno o dell’altro pittore. I pittori certamente hanno ammirato gli abiti ricamati con il filo d’oro e le guarnacche (o cottardite) a maniche pendenti foderate di pelliccia di vaio. Hanno visto i più semplici guarnelli femminili, le gonnelle maschili e i farsetti a cintura bassa. Li conoscevano e li hanno riprodotti, perché sapevano che ciò creava quel necessario effetto di realtà che produceva partecipazione, che rendeva vicina la storia raccontata al pubblico al quale si voleva arrivare. Ciò ha costituito una sorta di esca per l’amo, come Bernardino da Siena avrebbe suggerito di fare ricorrendo ad un accorto uso delle parole da parte del predicatore per attrarre, per convincere e per arrivare efficacemente al cuore21. Grazie al fatto che nel corso del tempo si è venuto diffusamente riconoscendo il valore semiologico delle vesti, agli esegeti non è sembrato 19 G. Villani, Cronica, con le continuazioni di Matteo e Filippo, cur. G. Aquilecchia, libro XII, cap. IV, p. 231. 20 M.G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna 2011, in particolare pp. 11-21. 21 M.G. Muzzarelli, Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del medioevo, Bologna 2005, in particolare pp. 33-35.
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degno di particolare nota il fatto che santi e sante del Tardo Antico venissero rappresentati come eleganti donne e uomini bassomedievali, cioè del tempo del pittore. Non si è sottolineato in ciò il riconoscimento di valore al linguaggio delle vesti e l’importanza attribuita ad esso. Né si è sottolineata la stupefacente parte lasciata a questo aspetto della vita degli uomini e delle donne del tempo del pittore e rappresentata, attraverso abiti e accessori, con naturalezza, quasi con scontatezza. Mi pare che siano due gli elementi caratteristici di questo fenomeno da riconsiderare: il sottostare della pittura alla forza della moda e la valorizzazione della quotidianità che ha avuto luogo nella rappresentazione pittorica. Aggiungerei poi, relativamente al XIV secolo, che va riconsiderata la straordinaria disponibilità nei riguardi del corpo reso visibile ed enfatizzato dopo secoli di occultamenti. Il corpo
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Le trasformazioni del vestire del XIV secolo annunciano la scoperta del corpo umano ben prima del Rinascimento. La silhouette in farsetto sarebbe la prefigurazione del corpo moderno. La nuova moda del corto e stretto ha permesso una visione pressoché anatomica del tronco e delle membra come non si aveva dall’antichità22. A fronte dello scandalo testimoniato dei cronachisti, della riprovazione dei predicatori e anche delle limitazioni dei legislatori la dinamica dell’innovazione vestimentaria ha proceduto a denudare o almeno a svelare i corpi tramite l’esibizione di decolleté femminili o l’esposizione di parte del corpo maschile fasciato da corti farsetti. Sarebbe tuttavia un errore interpretare le trasformazioni trecentesche come una riabilitazione dell’anatomia e del benessere corporale in quanto si è trattato di un rimodellaggio e non di una restituzione di spazio al corpo23. Al posto della informità si è affermata un struttura verticale con abiti con strascico e maniche pendenti fino a terra ma anche orizzontale sottolineata segnata dalle cinture basse maschili. Si è imposta la sapienza sartoriale, l’importanza del taglio, la conoscenza delle proporzioni. È così che linee destinate a caratterizzare l’occidente si sono contrapposte all’abito senza tempo di Gesù o degli Apostoli fissando l’idea stereotipata 22
O. Blanc, Parades et parures. L’invention du corps de mode à la fin du Moyen Age, Paris 1997, p. 73; Blanc, L’orthopédie des apparences ou la mode comme invention du corps, in Le corps et sa parure cit., pp. 107-119. 23 Ibid., p. 77.
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dell’Oriente come luogo del corpo nascosto da abiti senza forma che non costringono né esibiscono. Quel corpo che la Chiesa raccomandava di non modificare e di non mostrare è diventato così un oggetto da rimodellare e non solo da proteggere, un manichino per esposizioni di privilegi e di segni di appartenenza. Le profonde modificazioni accadute fra XIII e XIV secolo nella società si rispecchiano negli affreschi, nelle tavole, nelle miniature che registrano l’irruzione nella vita cittadina di nuove merci, del frutto delle abilità artigiane, degli esiti dei contatti internazionali, della comparsa di nuovi ceti, del protagonismo dei più giovani (sono loro che espongono i corpi e che seguono le mode), della scelta di segnalare la differenza in realtà cittadine nelle quali, ad esempio, cristiani ed ebrei convivevano. Le vesti rappresentano tutto ciò perché sono esse stesse al centro di questi importanti cambiamenti: sono l’oggetto del lavoro dei bottegai e dei commercianti, sono al centro di una disputa sociale (si è parlato di lotta di classe prima delle classi24), sono prese di mira dai moralisti, sono fortemente desiderate da uomini e donne attratti dai colori forti e resistenti ottenuti dai tintori o dalle fogge originali realizzate dai sarti. La forza di questi aspetti della realtà si traduce nella acconciatura di santa Caterina, nel cappello di sant’Eustachio, nel taglio della veste in colore rosso acceso di sant’Orsola. Questa realtà vivace e per certi versi stupefacente si è dunque impressa nella mente e nell’opera anche del maestro di Offida. Si trattava di una realtà nota a quanti si immaginava avrebbero ammirato in chiesa quegli affreschi: uomini e donne che andavano alla messa elegantemente vestiti rischiando di imbattersi lungo la strada in un funzionario comunale incaricato di controllare il rispetto delle norme suntuarie. Gli affreschi riflettono il gusto del pubblico che si immaginava fosse attratto da lunghe file di bottoni. Questi ultimi erano oggetto di restrizioni suntuarie e di effettiva applicazione di multe a chi non le rispettava. Anche l’attrazione per giubbe a vita bassa con cintura sui fianchi e annessa scarsella era alta e anche le borse come le cinture, specie se preziose, erano oggetto di restrizione suntuarie25. Quel pubblico apprezzava il farsetto di san Cristoforo, la veste di un rosso quasi violaceo di santa Caterina delle nozze mistiche ed ammirava i ricami dell’abito della Madonna desti24 A. Hunt, Governance of the Consuming Passions: A History of Sumptuary Laws, New York 1996, pp. 142-173. 25 M.G. Muzzarelli, Gioielli amati e gioielli disciplinati. Usi e connessioni fra Medioevo ed Età moderna dal caso di Bologna, in “Come l’orco della fiaba”. Studi per Franco Cardini, Firenze 2010, pp. 503-515; D. Liscia Bemporad, Il gioiello gotico nell’Italia centro-settentrionale, in Dalla testa ai piedi cit. alla nota 27, pp. 561-575.
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nati poi a diventare il vanto di questa zona delle Marche, quando si sarebbe passati dai ricami su stoffa ai “punti in aria”, cioè ai pizzi. Era un pubblico che vedeva queste vesti per le vie cittadina, che ne sentiva parlare in chiesa, che era informato di restrizioni e relative multe. Da tutto ciò si ricava che questi oggetti erano presenti sotto diversi aspetti nella quotidianità trecentesca e questo mi pare un dato significativo ed anche il succo traibile dall’esame delle vesti rappresentate nel ciclo di Santa Caterina d’Alessandria o in quello di santa Lucia. Accanto a questi rilevanti aspetti c’è poi il tema dell’uso delle vesti per datare le opere d’arte.
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Moda e società al tempo del maestro di Offida
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Come è noto, Bellosi ha utilizzato la moda, segnatamente la variazione di ampiezza dello scollo degli abiti, per la cronologia delle opere d’arte fra il 1300 e il 134026. Si è trattato di una rilevante novità scaturita dalla valutazione attenta dell’abito rappresentato. Ma non di questo vorrei occuparmi anche perché il maestro di Offida risulta attivo successivamente agli anni Quaranta del XIV secolo. Vorrei invece sottolineare l’importanza dell’apporto che la conoscenza della moda può dare alla datazione di un’opera perché è certo che il pittore registrava le mode e non le ideava, accoglieva e non proponeva un sistema di valutazione e comunicazione di bellezza, importanza, autorevolezza basato sugli accessori e sugli abiti. Questi ultimi a loro volta erano e restano indicatori efficaci capaci di reagire agli sviluppi culturali, politici e sociali del loro tempo27. Il pittore ripescava elementi del passato e attingeva a piene mani dal presente, ma non inventava il futuro; esprimeva il gusto e lo spirito di un’epoca (per la verticalità, ad esempio o per un acceso cromatismo) dando immagine al gusto del tempo. Ogni pittore svolgeva questo compito con i propri mezzi e con il proprio genio facendosi testimone, relativamente attendibile, di quello che poteva piacere e che era ricevibile al suo tempo. Nel caso di committenze private l’artista doveva verosimilmente fare i conti con indicazioni precise su come rappresentare il singolo o gruppi, sui colori da utilizzare, sulle pose e così via. Ciò, ben lungi dal dimostrare lo 26 27
Bellosi, Vedi supra nota 4. L. Dal Prà - P. Peri, Abbigliamento e santità. Il ciclo di San Giuliano ospitaliere della cattedrale di Trento e la famiglia Borgonuovo, in Dalla testa ai piedi. Costume e moda in età gotica. Atti del Convegno di studi (Trento, 7-8 ottobre 2002), cur. Dal Prà - Peri, Trento 2006, pp. 172-197: 179.
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scarso rispetto per l’artista, ne prova invece l’importanza: serviva la sua opera per attestare, comunicare e quindi fissare una realtà che senza di lui sarebbe stato difficile tramandare. All’artista si attribuiva una funzione testimoniale precisa che lo rendeva socialmente indispensabile. Nel caso degli affreschi di Offida sappiamo poco della committenza, ma sono collocati nell’abside di una cappella e possiamo immaginare che lo scopo fosse quello di rendere attuale e proponibile l’esempio di santa Caterina, ricca, dotta e coraggiosa. Eccola rappresentata con la corona in testa e con il libro, mentre indossa una sobria ma curata veste analoga a quella indossata da chi ad esempio svolgeva attività intellettuali28. La veste di Caterina, i ricami della Vergine, il farsetto di san Cristoforo, le fodere di vaio contribuiscono a datare anche se sappiamo che le vesti avevano una lunga durata che arrivava fino a mezzo secolo e quindi si tratta di datazioni di massima. Sorreggono i tentativi di ricavare elementi di datazione dalle vesti anche le indicazioni suntuarie che normano l’uso di quelle corone, di quei bottoni e di quelle cinture rappresentate dal maestro di Offida. Gli statuti suntuari di Spoleto del 1347, ad esempio, vietavano le corone a tutte le donne e consentivano invece cinture, borse, anelli e bottoni argentei alle maniche. I bottoni non dovevano eccedere il peso di 2 once e le maniche delle guarnacche non dovevano pendere dal braccio oltre un piede29. Gli Statuti di Todi del 1325-35 consentivano anelli, scheggiali e cinture decorate d’oro o d’argento, nonché bottoni d’oro o d’argento «solum causa abctonandi»30. Vietavano inoltre alle donne di portare «in dorso aliquos pannos quorum laborerium faciat quod laborerium et sutura constiterit seu constet ultra decem libras denariorum». In caso di inadempienza anche il sarto doveva pagare la multa31. Gli Statuti sempre di Todi del 1346 eccettuavano dalle proibizioni un mantello con uno strascico lungo al massimo un piede e imponevano vesti con limitata scollatura rotonda. La ampiezza è descritta con incredibile dettaglio: «quod quelibet scollatura … sit et esse debeat rotunda ita quod ipsa rotunditas correspondeat et conformetur bustio persone ipsius mulieris et quod taliter fiat dicta scollatura 28 M.G. Muzzarelli, Anatomia e fisiologia di una mise. La divisa di Christine de Pizan, in Atti del VII Convegno internazionale Christine de Pizan (Bologna, 22-26 settembre 2009) in corso di stampa. 29 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria, cur. M.G. Nico Ottaviani, Roma 2005 (Ministero per i Beni e le Attività culturali. Dipartimento per i Beni archivistici e librari. Direzione per gli archivi), pp. 647-650. 30 Ibid., pp. 763-767: 763. 31 Ibid.
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quod utraque parte tam dextra quam sinistra sit et remaneat ipsa vestis mensurando iposam a punta orchae sive a custura quae sit suoer iopsa orcha verus collum ipsius mulieris amplitudinis ad minus sexdecim partis unius brachii ad mensuram brachii cum quo panni lanei venduntur et mensurantur in civitate Tuderti»32. Gli uomini non avrebbero potuto portare cappucci più lunghi di un braccio o più larghi di un braccio e un quarto. Nessuno in città avrebbe potuto indossare mantelli foderati di panno di lana, lino o pelle eccetto cavalieri, giudici, giurisperiti, medici (l’area del privilegio che il maestro di Offida dipingeva in abiti rossi) e quanti avevano più di 60 anni: a tutti costoro era consentita qualsiasi fodera del mantello33. Gli Statuti di Perugia del 1342 vietavano vesti di più di due colori; alle donne erano proibite scollature «da la forcella de la gola en giù»34. Proibiti gli strascichi e proibito «alcuno velluto overo tararesco overo alcuno panno denante diviso overo aperto»35. Un apposito ufficiale avrebbe dovuto fare i necessari controlli alla domenica e nei giorni festivi nei pressi delle chiese del Beati Domenico, Francesco ed Agostino36 analogamente peraltro a quanto attestato per Bologna da una «Inquisizione contro una veste caudata» del 1286: una certa Francesca scoperta dal notaio del podestà nei pressi della chiesa di San Domenico con una vesta dallo strascico probabilmente eccedente non permise la verifica della lunghezza. Ne seguì un procedimento di inquisizione37. A Bologna gli Statuti del 1335 eccettuavano dai molti divieti «milites, doctores ed advocatos» e le loro mogli e figlie. I divieti riguardavano ornamenti d’oro, d’argento, cordelle, perle, madreperle, smalti, coralli, ambre, cristalli, fatta eccezione per i bottoni leciti al collo e alle maniche per abbottonatura, precisazione non inutile in quanto perlopiù erano adottati a fini di decorazione. Lecite le cinture con ornamenti d’oro o argento purché non valessero più di 10 lire38. Le numerose multe in materia suntuaria, che sono testimoniate a Bologna per 1365-66, si applicavano perlopiù ai bottoni39. Nel 1376 nuove norme vietarono borse d’oro, d’argento o 32 Ibid., pp. 768-777: 770. 33 Ibid., pp. 771-772. 34 Ibid., pp. 49-52: 50. 35 Ibid. 36 Ibid., p. 51. 37 La legislazione suntuaria secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna, cur. G. Muzzarelli, Roma
2002 (Ministero per i Beni e le Attività culturali. Direzione generale per gli archivi), p. 49: Inquisizioni (1286, agosto 7-12). 38 Ibid., pp. 75-81: 78 per le cinture e 79 per le eccezioni alle restrizioni. 39 Ibid., pp. 84-101: Multe (1365, luglio-1366, giugno).
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di seta che valessero più di 5 lire, fissarono in 3 il numero massimo degli anelli e proibirono vesti con immagini, figure o lettere ricamate in seta, nonché bottoni ricamati in oro o argento. Agli inadempienti era applicata una pena 3 lire che a ben vedere si configura come una sorta di tassa sul lusso40. Fra i successivi provvedimenti bolognesi segnalerei quelli del 139841, ma soprattutto quelli del 1401 che, tra l’altro, parlano con dovizia di particolari di quelle pellicce che il maestro di Offida rappresenta con frequenza: proibite vesti foderate di ermellino o di vaio, di martora o di altri animali. Non mancano le eccezioni42. Quanti all’epoca dell’emanazione della normativa già possedevano capi da essa proibiti ebbero la possibilità di continuare a indossarli dopo averli debitamente denunciati e segnati con un apposito bollo43. Le vesti bollate rappresentano la mediazione fra il rigore dei legislatori, il desiderio di esibizione di chi aveva risorse e le perenni necessità economiche del comune. È in questo fervore di produzione e di esibizione di oggetti, ma anche di disciplinamento di essi che va inquadrata la attenzione, ma io direi la resa alla moda dei pittori, compreso il maestro di Offida. Stavano nascendo l’uomo moderno e la cultura moderna che ha utilizzato, per comunicare, un linguaggio fatto in buona misura di colori, larghezze, lunghezze, ricami e bordi di pelliccia. Si trattava di un linguaggio efficace rapidamente adottato nelle rappresentazioni pittoriche. Un linguaggio, quello delle vesti e degli ornamenti, che era la prova dell’affermazione dei valori rappresentati dalla moda stessa, dalla capacità produttiva allo slancio commerciale, dal nuovo uso del corpo alla definizione e sottolineatura di una scalarità sociale. Pittori come il maestro di Offida capirono subito l’importanza di quella moda, alla quale la storiografia a lungo non ha saputo attribuire la corretta dignità ed importanza, ed hanno conferito agli abiti il dovuto rilievo. Oggi a quei pittori noi riconosciamo molta importanza e poca a quello che volevano additarci e cioè, tornando ai cicli di santa Caterina e di santa Lucia, al fatto che valori perenni veicolati attraverso alti modelli di virtù e di rapporto con le persone e con le cose andavano resi accessibili e prossimi al pubblico “mettendosi nei panni” di chi
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Ibid., pp. 102-104. Ibid., pp. 122-127. Ibid., pp. 127-136: 129 per le eccezioni. Ibid., pp. 137-147. Vedere: Belle vesti, dure leggi. “In hoc libro… continentur et descripte sunt omnes et singule vestes”, cur. M.G. Muzzarelli, Bologna 2003 (traduzione e commento dell’elenco delle vesti bollate e per alcune di esse ipotesi di rappresentazione iconografica cur. L. Zurla).
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si voleva raggiungere. I panni alla moda attivavano la ricevibilità del messaggio e quindi contavano molto: è ora che lo riconosciamo con il dovuto omaggio a quegli anonimi artigiani che con ago e filo, sapienza ed umiltà hanno creato oggetti, qualche volta capolavori, destinati a non durare e a non essere ricordati. Questi artisti/artigiani hanno lavorato senza arricchirsi e senza gloria lasciando segni, grazie a pittori come il maestro di Offida, che spetta a noi saper leggere e valorizzare.
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Fig. 1 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Caterina, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
Fig. 2 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Lucia, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
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Fig. 4 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Caterina, partic., Caterina che discute con l’imperatore Massenzio davanti all’idolo, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
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Fig. 3 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Caterina, partic., Caterina prega davanti all’immagine della Madonna, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
Fig. 5 - Vergine annunciante, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
Fig. 6 - Scuola riminese del Trecento, Santa Chiara da Rimini, partic., London, National Gallery
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IS Fig. 7 - Scuola toscana fra Due e Trecento, partic., Margherita da Cortona, Cortona, Museo Diocesano
Fig. 8 - Madonna del latte in trono, partic., Santa Caterina d’Alessandria, Chiesa dei Santi Ippolito e Cassano, Pedara di Rocca Fluviona
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Fig. 9 - Benozzo Gozzoli, Storie di San Francesco, partic., La rinuncia dei beni, Chiesa di San Francesco, Montefalco
Fig. 10 - Madonna con bambino e due angeli, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
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IS Fig. 11 - Maestro di Offida, Nozze mistiche di Santa Caterina, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
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IS Fig. 12 - Sant’Orsola, Chiesa in Santa Maria in Platea, Campli, cripta
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Fig. 13 - Maestro di Offida, San Cristoforo, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
Fig. 14 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Lucia, partic., Santa Lucia imprigionata converte il capo delle guardie, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
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Fig. 15 - Maestro di Offida, Ciclo di Santa Lucia, partic., La conversione di Santa Lucia, Chiesa di Santa Maria della Rocca, Offida, cripta
Fig. 16 - Maestro di Offida, Storie di Sant’Eustachio, partic., Sant’Eustachio, Chiesa di San Vittore, Ascoli Piceno, cripta
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La chiesa di Santa Maria delle Donne: un palinsesto della pittura trecentesca ad Ascoli Piceno
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Quando nel 1986, in occasione del convegno sulla pittura riminese del Trecento tenutosi a Mercatello sul Metauro, presentai una serie di dipinti murali riconducibili alla mano dell’anonimo autore degli affreschi della prepositura farfense di Santa Maria della Rocca ad Offida, il mio intento era quello di portare alla conoscenza degli studiosi ulteriori numeri inediti che potessero ampliare il catalogo dell’anonimo Maestro, al quale due anni prima Ferdinando Bologna e Pier Luigi Leone de Castris avevano dedicato un ampio saggio negli scritti in onore di Mario Rotili1. In quella stessa circostanza, individuai un documento, fino allora trascurato, che consentiva di datare intorno al 1361 le Storie di Santa Lucia e di Santa Caterina affrescate nelle due cappelle della chiesa inferiore di Offida, ancorando così il ciclo eponimo al settimo decennio del XIV secolo, anche in base alla tipologia degli abiti femminili e delle preziose stoffe riprodotte dall’anonimo artista con grande attenzione. Quel breve contributo si chiudeva con una sommaria presentazione di alcuni dipinti murali riemersi sotto gli intonaci moderni in occasione del restauro della chiesa ascolana di Santa Maria delle Donne, realizzato nel 1957 grazie al generoso impegno della Famiglia Merli, proprietaria dal 1875 dell’edificio di culto2.
1 Per una bibliografia completa e aggiornata sulle opere abruzzesi e marchigiane del Maestro cfr. P. Leone de Castris, Gli affreschi del presunto Luca d’Atri. Chiesa di San Domenico Teramo, in Documenti dell’Abruzzo Teramano, Teramo e la Valle del Tordino, Chieti 2006, pp. 429-439 e nello stesso volume Pittura del Trecento nell’Abruzzo Teramano, pp. 440-453. 2 Cfr. S. Papetti, Proposte per il Maestro di Offida e i suoi seguaci ad Ascoli Piceno, «Notizie da Palazzo Albani», 2 (1988), pp. 139-148; S. Papetti, Un artista itinerante tra le Marche e l’Abruzzo, il Maestro di Offida, in Le vie e la civiltà dei pellegrinaggi nell’Italia centrale. Atti del Convegno di Studi, XIII Edizione Premio Internazionale Ascoli Piceno, Spoleto 2000, pp. 45-52.
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Dopo quella segnalazione, negli anni ‘90 i dipinti furono restaurati a cura della Soprintendenza ai Beni Storico Artistici delle Marche, ma non vi è stata alcuna occasione per poter meglio approfondire l’analisi iconografica e stilistica degli affreschi che si dispongono sulle pareti della chiesa senza dar vita ad una narrazione coerente, ma come spesso accade in altri edifici ascolani, sembrano piuttosto essere il risultato di committenze episodiche non determinate dalla volontà di illustrare in maniera compiuta tematiche sacre legate alla vita di Gesù o dei santi. Le fonti storiche datano l’inizio della costruzione della chiesa tra il 1233 e il 1234: Sebastiano Andreantonelli ricorda che il vescovo ascolano Marcellino il 10 aprile 1233 riscosse la somma di 62 once in oro da Alberto, Bonifacio, Paolo e Pietro della Torre3 versata in pagamento per la sua erezione e lo stesso prelato elargì un cospicuo dono alle monache damianite che avevano provveduto alla costruzione del complesso monastico fuori dalle mura della città, nella piana di San Panfilo dove operavano numerosi artigiani attivi nel campo tessile che potevano sfruttare le abbondanti acque del corso del Tronto. Il vescovo Marcellino ottenne dal pontefice Gregorio IX , agli inizi degli anni Trenta, una bolla destinata a favorire l’insediamento cittadino dei Frati Minori e la pacifica esistenza delle monache damianite di santa Maria delle Donne con la quale si vietava di costruire edifici religiosi in tutto lo spazio cittadino compreso tra Ponte Maggiore e Porta Romana, ovvero tra i due estremi orientale ed occidentale della città4. Nel decennio compreso tra il 1250 e il 1260 viene riportata notizia di altri lasciti devoluti in beneficio per la realizzazione della chiesa che era ancora in fase di costruzione. Durante il suo pontificato, Niccolò IV, nel quadro di una linea politica di rafforzamento dell’autorità religiosa, intervenne più volte a favore delle monache damianite presso il Comune per ottenere la revoca, o la correzione, di uno statuto che vietava ai cittadini ascolani di servirsi dei mulini di proprietà delle suore, con grave pregiudizio per le già precarie risorse economiche delle stesse, o per ordinare di riparare i danni provocati con la distruzione dei loro mulini5. Le suore damianite rimasero in possesso del monastero fino al 1535, quando furono trasferite, per ordine del vescovo Roverella, all’interno
3 Sulla famiglia Della Torre, di origine lombarda Cfr. B. Carfagna, Il lambello, il monte e il leone: storia e araldica della città di Ascoli e della Marchia meridionale tra Medioevo e fine dell’ancien régime, Ascoli Piceno 2004, pp. 144-145. 4 Cfr. M. Cameli, In volubili Marchia. Ascoli e la sua Chiesa tra Papato e Impero (secoli XI-XIII), Ascoli Piceno 2012, p. 101. 5 Ibid., pp. 165-166.
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delle mura cittadine per garantire loro condizioni di maggiore sicurezza: nel 1540 la chiesa e l’annesso monastero passarono in proprietà alle suore di Sant’Egidio che lo utilizzarono fino al 1866, quando l’edificio religioso divenne proprietà demaniale, per poi essere acquistato nel 1875 dalla famiglia Merli; dopo un lungo abbandono, durante il quale fu adibita agli usi più disparati, la chiesa è stata restaurata nel 1954 e riaperta al culto l’8 settembre 1957 per merito della stessa nobile famiglia ascolana. L’edificio di culto rispecchia i tratti più tipici dell’architettura duecentesca ascolana [Fig. 1], caratterizzato dalla snella facciata in travertino con ampio rosone sormontato dal ricorrente motivo della croce greca formata da cinque bacini maiolicati uno dei quali, raffigurante un uccello inquadrato da decorazioni geometriche, ancora sopravvive a testimonianza della produzione in maiolica arcaica uscita dalle botteghe degli artigiani ascolani. L’ interno della chiesa è descritto nel 1853 da Giovanni Battista Carducci «[...] come piacevolmente pittoresco e bizzarro, da non lasciarti l’anima in quella freddezza, in che alcuna volta, eppuranco spesso a dispetto di tanto fasto e tanto studio, tanta regolarità i moderni tempi ti pongono»; a renderla un unicum nel panorama dell’architettura duecentesca ascolana è il fatto che la chiesa, poco oltre la metà, si divida in due livelli, il secondo dei quali è caratterizzato da un grande ciborio che doveva sovrastare un altare riservato al culto delle monache damianite che potevano così accedervi direttamente dal primo piano del convento, addossato alla parete nord della chiesa, come testimoniano i resti di aperture e di camminamenti sospesi che collegavano i due edifici. Fra i dipinti murali che già nel 1853 sommariamente il Carducci ricordava come elementi che concorrono al «[...] fantastico effetto della singolarissima chiesa», il più antico si trova nella parete di fondo e sovrasta un moderno altare realizzato in occasione dei restauri novecenteschi con elementi rinascimentali di reimpiego: raffigura una Madonna in trono con il Bambino caratterizzati dalle grandi aureole profilate di nero e ornate di perle, immagini legate a stilemi tardo duecenteschi ravvisabili anche in altre chiese della città di Ascoli ed in modo particolare in San Vittore e in Santa Maria Intervineas. Datate dal Cappelli alla metà del XIII secolo, queste immagini vanno sicuramente posticipate all’ultimo quarto del Duecento anche in base alle notizie storiche riguardanti le fasi costruttive della chiesa: è molto probabile che l’esecuzione della Vergine in trono e di una vicina figura di un santo non identificabile, forse parte di una più estesa decorazione, possa essere collegata al riconoscimento ricevuto l’11 giugno 1284 dal monastero di Santa Maria delle Donne che ottenne dall’Ospedale di Santo Spirito in Roma la giurisdizione sul vicino
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Ospedale di San Panfilo, accrescendo così il prestigio delle damianite. Come in altri monumenti, queste tracce di dipinti tardo duecenteschi furono ben presto coperte con nuove decorazioni realizzate nei primi decenni del XIV secolo che offrivano ai fedeli immagini più aggiornate ai registri stilistici rinnovati sul finire del XIII secolo, grazie all’azione degli artisti attivi nel cantiere assisiate. In successione cronologica, ad una fase collocabile intorno al 13201330 si può ascrivere la realizzazione dell’imponente sacello gotico ubicato sulla parete destra della chiesa, in prossimità dell’ingresso [Fig. 2]: due coppie di colonne binate con capitelli corinzi sostengono un ampio arco a sesto acuto dipinto con tarsie marmoree alla cosmatesca: si deve agli studi del Pastori il riconoscimento dell’arme gentilizia scolpita sul sarcofago come appartenente alla famiglia dei dinasti di Montecalvo che, solo nel corso del XV secolo assunsero il cognome Guiderocchi. Intorno al 1320 tre esponenti della famiglia, Riccardo, Nicoluccio ed una donna6, entrarono nell’ordine francescano e la donna, di nome Montanea, proprio nel convento delle damianite: pertanto, anche in relazione al grande prestigio della famiglia, questo sepolcro monumentale venne forse realizzato per accogliere il corpo di Montanea stessa e venne poi utilizzato da altri membri della casata tra i quali ricordiamo Astolfo Guiderocchi Junior che, secondo la tradizione, vi venne sepolto l’8 dicembre 1552. L’arcosolio accoglie un affresco raffigurante Cristo crocefisso tra la Madonna e San Giovanni Battista ed altre due Sante in eleganti abiti trecenteschi tra le quali è riconoscibile sul lato sinistro santa Caterina d’Alessandria, identificabile grazie all’attributo della corona e del libro che tiene in mano. Ai piedi della scena è raffigurata la salma di una monaca vestita in abiti sacri, identificabile forse con Montanea Guiderocchi. Sul lato destro del sepolcro, visibile dall’ingresso della chiesa, è affrescata l’immagine di un angelo inginocchiato campita su un fondo rosso pompeiano [Fig. 3]. Sebbene segnato da vaste lacune e da estese perdite del tessuto cromatico, il dipinto esprime caratteri di grande raffinatezza riconducibili alla cultura riminese nella declinazione che ne diede nel piceno meridionale Giuliano da Rimini, autore degli affreschi della chiesa di San Francesco a Fermo. La cannellatura delle vesti di santa Caterina, la tipologia dei volti, la saldezza plastica dei visi allungati caratterizzati da canne nasali ampie e dritte trovano un diretto riscontro nelle opere marchigiane di Giuliano da
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Cfr. Carfagna, Il lambello cit., pp. 168-169.
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Rimini, la visione delle cui opere ha certamente concorso alla formazione dell’anonimo Maestro del Polittico di Ascoli che vari studiosi hanno considerato responsabile della crescita culturale del Maestro di Offida7. Questo rapporto sarebbe testimoniato dagli affreschi recentemente riportati alla luce all’ingresso della cattedrale di Sant’Emidio, dove un tempo dovevano ornare la parete laterale di un nartece poi inglobato nella facciata rinascimentale progettata da Cola dell’Amatrice: la Crocefissione, come notato da Alessandro Marchi, è infatti opera del Maestro del Polittico di Ascoli, ma gli affreschi che decorano le pareti laterali del piccolo vano possono ben ascriversi alla mano del Maestro di Offida. È a questo anonimo artista, che oggi si tende ad identificare con Luca da Atri, che spettano altri dipinti conservati all’interno della chiesa di Santa Maria delle Donne; proprio a sinistra del sepolcro gotico ricordato si può apprezzare una elegante composizione inquadrata in alto da una cornice a mensole scorciate di memoria giottesca, come nella Crocefissione dipinta nella chiesa di San Domenico a Teramo, raffigurante al centro la Vergine in trono che tiene in braccio il piccolo Gesù Bambino avvolto in fasce decorate da liste nere e rosse [Fig. 4]. A sinistra di Maria si erge l’imponente figura di sant’Antonio Abate [Fig. 5], sul cui lato una cornice rossa verticale isola l’immagine del Cristo emergente dal sarcofago, eseguita in scala minore rispetto agli altri santi a dimostrazione di una vena compositiva fantasiosa che rifugge dagli schemi convenzionalmente simmetrici. Sul lato destro della composizione è raffigurato invece san Giovanni Battista che con una mano sostiene il drappo d’onore disposto alle spalle della Vergine, costituito da un raffinato tessuto giallo ocra percorso da ramages fogliati in bianco. La composizione è chiusa sul lato destro dalla figura di san Francesco che tiene un libro in mano raccogliendo le pieghe del mantello in un riuscito gioco chiaroscurale: la presenza del santo assisiate è senza dubbio legata alla committenza francescana di questa composizione e si collega agli stretti rapporti intercorsi tra san Francesco e santa Chiara, fondatrice dell’Ordine delle Damianite. Ancora alla mano del Maestro di Offida può essere ascritta la frammentaria Annunciazione dipinta sulla parete di fondo della chiesa, in prossimità della Vergine in trono tardo duecentesca, su un livello di intonaco che si sovrammette a quello dell’immagine più antica: il bel volto assorto della Vergine [Fig. 6] che punta lo sguardo verso l’angelo, del quale resta soltanto una porzione del profilo e una parte dell’ala, propone tutte le caratteristiche fisionomi7 Opere d’arte dalle collezioni di Ascoli Piceno: la Pinacoteca Civica e il Museo Diocesano. Scoperte, ricerche e nuove proposte, cur. S. Papetti, Roma 2012, pp. 60-61.
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che ricorrenti nelle immagini sacre femminili dipinte dal Maestro di Offida negli anni della sua maturità: la piccola bocca carnosa, i grandi occhi allungati, le tenere sfumature di rosa che imporporano le guance della Vergine, l’ampio volume della testa, sulla quale il velo si dispone scendendo ai lato del volto in pieghe scalari, rispecchiano i caratteri più tipici dello stile dell’anonimo artista, in anni non lontani dalla esecuzione dei cicli offidani e rimandano alla gemella figura dipinta nella chiesa di San Pastore a Ripatransone. Salita una ripida scala in travertino che ne sostituisce una più antica in legno ricordata anche dal Carducci, si raggiunge il livello superiore della chiesa, un tempo riservato alle funzioni religiose e all’adorazione delle monache di clausura che potevano facilmente raggiungerlo dalle camere poste al primo piano del convento. Lo spazio, piuttosto angusto, è quasi interamente occupato da un ciborio sostenuto da quattro possenti pilastri con una copertura in mattoni intonacati; una struttura piuttosto semplice, pensata sin dall’inizio per essere interamente decorata da affreschi ancora in gran parte superstiti, fatta eccezione per quelli che ornavano le zone superiori esterne, dove sopravvive soltanto l’immagine di un angelo annunziante sul alto sud del ciborio. I quattro pilastri sono stati affrescati su tutti i lati con un complesso di sedici santi, beati e martiri i nomi dei quali sono iscritti in alto in caratteri gotici maiuscoli su una cornice rossa, campitura dalla quale il colore è stato graffito con la stessa tecnica utilizzata per le iscrizioni che identificano le mezze figure di santi dipinte dal maestro di Offida nei sottarchi della chiesa di San Salvatore a Canzano. Nel corso dei secoli, soprattutto fra il XIV e il XV secolo, sui pilastri sono stati realizzati numerosi graffiti che recano date, nomi di visitatori, arme gentilizie riferibili ad alcune famiglie del patriziato ascolano, invocazioni ai santi effigiati, tutte attentamente indagate e trascritte da padre Salvi già alcuni anni orsono. Sulla figura di san Pietro anche il Salvi, come da me stesso evidenziato già nel 19868 legge la data 1383 (o 1385 come conseguenza di un incertezza nell’esecuzione delle cifra) che rappresenta un importante riferimento per fissare la cronologia degli affreschi ad anni precedenti. Assai utile per una corretta definizione cronologica del ciclo di dipinti murali che decorano il ciborio di Santa Maria delle Donne risulta anche l’identificazione di santi sui pilastri, fra i quali se ne segnalano due di stringente attualità nel contesto della devozione francescana trecentesca;
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S. Papetti, Proposte per il Maestro di Offida cit., p. 142.
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si tratta del beato Tommassuccio da Foligno nato a Nocera Umbra nel 1319 e morto a Foligno nel 1377, figura di grande carisma che non è improbabile abbia concorso a definire l’intera iconografia del ciclo perché verosimilmente nell’Ascolano circolavano le narrazioni delle visioni e delle profezie di Tommassuccio redatte nel 1350 da un suo discepolo Giusto della Rosa9. Molti dei santi dipinti sui pilastri vengono infatti ricordati nelle visioni del Beato, che anzi in una strofa cita proprio la città Ascoli: «Ascoli sarà desta ad rivoltar la schina ma pure ad la soppina staran li suoi citpadini». Non è improponibile che questo umile seguace del poverello di Assisi, durante le sue peregrinazioni, abbia visitato Ascoli e quindi il convento di Santa Maria delle Donne tanto da venir effigiato sul ciborio. Alla devozione francescana si collega anche la figura di santa Tita [Fig. 9], diminutivo familiare con il quale si indica la beata Margherita da Cortona rappresentata, come nella cripta della Cattedrale di Atri, nell’aspetto di una giovane terziaria francescana che tiene in mano una pietra10. La circostanza che nell’affresco ascolano sia citata con il nomignolo e che sia indicata già come santa sta a testimoniare una particolare forma di devozione nei suoi riguardi da parte delle consorelle picene. Confrontando la gestualità di alcune figure del ciclo, soprattutto quella delle sante Caterina, Lucia e Tita [Figg. 7-9], si vede come l’autore si sia servito del medesimo cartone preparatorio, come indica con chiarezza sia la postura leggermente reclinata del capo che quella delle mani alle quali si adattano, in modo spesso incongruo, gli attributi identificativi della ruota, della lampada e della pietra. Del resto le profonde incisioni nell’intonaco che la luce radente evidenzia nella figura di Beato Tommassuccio confermano l’uso di cartoni che potevano essere variamente assortiti e disposti secondo le necessità del momento. Si tratta di consuetudini operative ben documentate all’interno delle botteghe più importanti attive nell’età gotica, in cui il maestro si avvaleva di un cospicuo numero di aiutanti variamente dotati. All’interno della copertura del ciborio le quattro vele raffigurano due evangelisti, Cristo in Cattedra e San Francesco e Santa Chiara ai lati della Vergine. Ai motivi a “ramages” che collegano le figurazioni si uniscono dei
9 M. Faloci Pulignani, La leggenda del Beato Tommasuccio da Nocera, scritta da Giusto Della Rosa, Gubbio 1932. 10 G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Firenze 1995, n. 242 fig. 870.
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clipei con i volti dei Profeti, uno dei quali presenta una caratterizzazione espressiva quasi caricaturale che trova riscontro in altri affreschi attribuiti al Maestro di Offida, come la profetessa Anna della Presentazione al Tempio della chiesa di San Domenico a Teramo11. Non sembra inutile poi il ricorrere di alcune forme dialettali evidenti nelle iscrizioni recanti i nomi di santi, nelle quali Andrea è iscritto ANTREA e compare una santa Anessa, volgarizzazione del nome Agnese [Fig. 10], utilizzata in area abruzzese-molisana dove è ricordata con questo nome la reliquia della tonicella di santa Anessa che fu donata a Papa Celestino dal re di Francia. Fattori stilistici e di natura storica dunque convergono nel riferire all’équipe del maestro di Offida la decorazione del ciborio in una data da collocarsi intorno al 1370, quando il capobottega era presumibilmente già morto ed i suoi numerosi seguaci ancora usavano i suoi cartoni e i suoi strumenti di lavoro. Tutto ciò sembra dunque confermare che l’ultima e più matura fase della produzione del presunto Luca d’Atri sia legata ad una lunga permanenza nel territorio piceno, dove si possono individuare tutte le sue opere databili in anni più avanzati rispetto a quelle conservate in Abruzzo. Certo il lungo soggiorno marchigiano offrì nuove opportunità per l’anonimo pittore che poté confrontarsi con l’eleganza di Allegretto Nuzzi e con la spontaneità narrativa di Andrea da Bologna, incontri che rafforzarono nel maestro di Offida una più convincente capacità di raccontare in modo chiaro e persuasivo le storie sacre, riuscendo a conciliare le esigenze della committenza con quelle dei devoti.
11 Cfr. F. Bologna, San Salvatore di Canzano, affreschi dal XIV secolo, in La Valle del Medio e Basso Vomano, I, Roma 1986 (Documenti dell'Abruzzo teramano, 2), pp. 450-462.
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IS Fig. 1 - Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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IS Fig. 2 - Artista ascolano del primo quarto del XIV secolo, Sepolcro della famiglia Guiderocchi, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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Fig. 3 - Maestro del Polittico di Ascoli, Monumento Guiderocchi, Angelo annunciante, Ascoli Piceno, Santa Maria delleDonne
Fig. 4 - Maestro di Offida, Madonna in trono con i santi Francesco, Giovanni Battista, Antonio Abate e Cristoemergente dal sarcofago, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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Fig. 5 - Maestro di Offida, Sant’Antonio Abate, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
Fig. 6 - Maestro di Offida, Annunciazione, particolare, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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Fig. 7 - Bottega del Maestro di Offida, Santa Caterina d’Alessandria, Ascoli Piceno, Santa Maria delleDonne
Fig. 8 - Bottega del Maestro di Offida, Santa Lucia, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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Fig. 9 - Bottega del Maestro di Offida, Beata Margherita da Cortona, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
Fig. 10 - Bottega del Maestro di Offida, Sant’Agnese, Ascoli Piceno, Santa Maria delle Donne
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Pittori e miniatori tardogotici tra Marche e Abruzzo: un Messale miniato destinato a Offida
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Questo contributo intende analizzare un Messale miniato, attualmente conservato a Parma (Biblioteca Palatina, ms. 670), per precisarne il contesto di esecuzione e proporne una possibile destinazione originaria nelle Marche [Fig. 1]. Il manoscritto, fino a quel momento inedito, fu reso noto nel 2001 in occasione di una mostra dedicata ai libri liturgici e devozionali della Biblioteca Palatina, ma con datazione e localizzazione a mio avviso inesatte, poiché se ne proponeva l’esecuzione in Toscana all’inizio del Trecento, nell’ambito di Pacino di Bonaguida1. Il ricchissimo apparato miniato del codice mostra, invece, di essere ben più tardo [Figg. 2-3] e appare riconducibile a un’area diversa dell’Italia centrale, certamente pervasa da una ripresa di motivi toscani, ma chiaramente rielaborati in chiave tardogotica. Ho già accennato in altra sede come lo stile delle miniature suggerisca stretti rapporti con la produzione artistica abruzzese del primo Quattrocento2, e sono grata agli organizzatori di questo Convegno per avermi offerto la possibilità di approfondire l’analisi del codice, per collocarlo nell’ambito dell’importante congiuntura figurativa che lega Abruzzo e Marche tra fine XIV e inizio XV secolo3.
1 G. Zanichelli, Scheda 4. Messale benedettino, in Cum picturis ystoriatum. Codici devozionali e liturgici della Biblioteca Palatina. Catalogo della mostra (Parma, 13 giugno-29 settembre 2001), Modena 2001, pp. 87-90. 2 F. Manzari, Il Messale Orsini per la chiesa di San Francesco a Guardiagrele. Un libro liturgico tra pittura e miniatura dell’Italia centromeridionale, Pescara 2007, pp. 66, 71; Manzari, Libri liturgici miniati in Italia centromeridionale all’inizio del Quattrocento, in Universitates e Baronie. Arte e architettura in Abruzzo e nel Regno al tempo dei Durazzo. Atti del Convegno (Guardiagrele-Chieti, 9-11 novembre 2006), cur. P.F. Pistilli - F. Manzari G. Curzi, Pescara 2008, I, pp. 109-136: 117-118. 3 Per questo tema rimando anche a quanto detto da Alessandro Tomei nella sua relazione in questo Convegno. Per una descrizione del Messale si veda: F. Manzari, Messale destinato a Offida, in Illuminare l’Abruzzo. Codici miniati del Medioevo e del Rinascimento,
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L’esame dei santi presenti nel calendario, mai stato effettuato prima, ha mostrato, oltre a quelli di culto universale, la presenza esclusiva di culti locali riferibili alle Marche, permettendo di localizzare in quest’area la chiesa di destinazione originaria del libro liturgico. Il 18 maggio troviamo, infatti, citato san Venanzio di Camerino e il 4 agosto sant’Emidio di Ascoli: la loro presenza caratterizza anche il calendario di un altro libro liturgico marchigiano già noto, il Breviario per la chiesa di Sant’Angelo Magno ad Ascoli Piceno, che risale però alla prima metà del XIII secolo ed è privo di miniature (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 2050)4. In aggiunta a questi santi di culto marchigiano, compare un’indicazione di devozione locale ancora più particolare: il 12 dicembre è citato il beato Corrado di Offida5: «Obitus fuit sanctus Corradus de Offida» (f. 308v); quest’ultima indicazione appare così specifica da suggerire che il libro liturgico fosse destinato all’uso in una chiesa di questa località, il cui santo patrono, era, peraltro, san Leonardo, menzionato a sua volta, il 6 novembre6. Il beato Corrado da Offida, naturalmente più spesso citato in contesti francescani, come ad esempio in un codice della Historia septem tribulationum Ordinis minorum, in cui è anche raffigurato (Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Vitt. Em. 1167, f. 58v), ebbe di certo un culto diffuso nelle Marche, testimoniato da opere come la tavola proveniente da San Francesco a Forano (Treia, Cattedrale dell’Annunziata)7. Il Messale Pal. 670 costituisce, dunque, un’importante testimonianza del poco conosciuto culto del beato Corrado e una rilevante aggiunta all’esi-
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cur. F. Manzari - G. Curzi - A. Tomei - F. Tentarelli, Pescara 2012, pp. 226-227; rimando altresì al mio saggio La miniatura abruzzese in epoca gotica e tardogotica, ibid., pp. 55-88, per un quadro complessivo del contesto abruzzese. 4 Nel Breviario il calendario è frammentario e sopravvivono solo i mesi da maggio a dicembre (ff. 1r-4v). Per una riproduzione del f. 4r: R. Paciocco, Santi e culti nella storia della Marca d’Ancona (secoli XIII-XIV), in I Francescani nelle Marche, secoli XIII-XVI, cur. L. Pellegrini - R. Paciocco, Cinisello Balsamo 2000, pp. 84-103: 102. 5Il culto locale del beato Corrado è sostanzialmente poco indagato; rimando quindi agli studi di taglio agiografico: R. Sciammannini, Corrado da Offida, in Bibliotheca sanctorum, IV, Roma [1964], coll. 206-207; R. Manselli, Corrado da Offida, in Dizionario biografico degli Italiani, 29, Roma 1983, pp. 404-407; S. Brufani, Agiografia e santità francescana nel Piceno: gli Actus beati francisci et sociorum eius, in Agiografia e culto dei santi nel Piceno. Atti del Convegno di Studio svoltosi in occasione della undicesima edizione del “Premio internazionale Ascoli Piceno” (Ascoli Piceno, 2-3- maggio 1997), cur. E. Menestò, Spoleto 1998, pp. 123-152: 145, 148-149. 6 C. Colafranceschi, s.v. Leonardo, in Bibliotheca sanctorum, VII, Roma [1966], coll. 1198-1208. 7 Per la tavola si veda: D. Frapiccini, L’Annunciazione in affresco nel Convento di Forano presso Appignano di Macerata nel clima tardogotico dell’Italia centrale, in Universitates e Baronie. Arte e architettura in Abruzzo e nel Regno al tempo dei Durazzo. Atti
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guo corpus di codici miniati riconducibili alle Marche. La destinazione del Messale, inoltre, può essere ulteriormente precisata attraverso l’analisi del Santorale, in cui sono copiate ben due messe in onore di san Benedetto: la prima di esse (f. 210v) è introdotta da un grande riquadro miniato con il santo circondato da monaci del suo Ordine [Fig. 3]. Il formato della miniatura equipara questa festività alle principali feste dell’anno liturgico e indica che il Messale era destinato a una fondazione benedettina. Nel primo foglio del Messale l’incipit della messa della prima domenica dell’Avvento è introdotto da un grande riquadro miniato con l’immagine del Giudizio Universale [Fig. 1]: Cristo giudice, nella mandorla, affiancato dalla Vergine e dal Battista, in qualità di intercessori, mostra le piaghe e spicca contro il rilucente fondo dorato, decorato con raggi incisi e con decorazione puntinata, tra i quattro evangelisti e sopra l’immagine di due risorti, che fuoriescono dalle tombe scoperchiate (a sinistra in preghiera il salvato e a sinistra, disperato, il dannato). La grande miniatura, fiancheggiata da due fasce con immagini di santi e angeli sotto archetti trilobati, è inserita in un foglio circondato su quattro lati da una ricca bordura vegetale, punteggiata di piccole figurazioni e tutti questi elementi lasciano in secondo piano la piccola iniziale figurata all’incipit dell’Ad te levavi. L’orante rappresentato nella D non è identificabile con Davide, frequentemente raffigurato in questo punto liturgico, quale autore del testo: la figura, priva di aureola, potrebbe forse rappresentare il committente del codice, ad esempio l’abate della comunità cui era destinato il libro liturgico, ma l’ampio manto blu che la avvolge potrebbe più facilmente essere riferibile a un canonico, o addirittura a un laico che a un ordine monastico in particolare8. L’assenza di stemmi sulla pagina d’incipit e nell’apparato decorativo del manoscritto rende, in ogni caso, impossibile formulare ipotesi precise sulla sua committenza. Se è possibile affermare che il Messale fu realizzato per una chiesa di benedettini localizzata nelle Marche, forse proprio a Offida, la proposta che esso possa essere stato realizzato per Santa Maria della Rocca, annessa a un monastero benedettino dipendente da Farfa, appare piuttosto verosimile, soprattutto in considerazione dei legami che del Convegno (Guardiagrele-Chieti, 9-11 novembre 2006), cur. P.F. Pistilli - F. Manzari G. Curzi, Pescara 2008, II, pp. 171-190: 179-183. Per la raffigurazione nel codice Vitt. Em. 1167: Paciocco, Santi e culti nella storia della Marca d’Ancona cit., p. 88, ill. 5. 8 L’accuratezza dei colori degli abiti monastici, tuttavia, non era sempre un problema particolarmente sentito dai miniatori, come ad esempio nelle raffigurazioni di religiosi dal manto lilla raffigurati nella Praeparatio ad missam di Bonifacio IX: F. Manzari, Libri liturgici miniati per Bonifacio IX. Il codice Vat. lat. 3747 e la miniatura a Roma e nel Lazio all’epoca dello Scisma, in Il Pontificale di Bonifacio IX, Commentario cur. A.M. Piazzoni, ModenaCittà del Vaticano 2007, pp. 49-116: 69.
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uniscono i miniatori del Messale ai frescanti attivi nell’abside della chiesa superiore, come si dirà, ma essa non può, in assenza di altri elementi, che restare un’ipotesi, anche se molto suggestiva9. La cultura figurativa degli artisti che hanno realizzato il meraviglioso corredo di miniature del Messale, infatti, può essere collegata con precisione proprio a quella congiuntura stilistica che unisce la decorazione pittorica della chiesa superiore di Santa Maria della Rocca a un gruppo di affreschi distribuiti tra Marche, Abruzzo e Lazio e ciò costituisce, quindi, un motivo in più per avvalorare l’ipotesi della destinazione originaria del libro liturgico a Santa Maria della Rocca10. Il Messale è dotato di grandi riquadri miniati, posti a segnalare le messe più importanti del Temporale e del Santorale [Figg. 1-4]; gli incipit del Santorale e del Comune dei santi sono evidenziati da grandi iniziali istoriate [Fig. 6], mentre le messe d’importanza inferiore sono introdotte da iniziali figurate [Figg. 10-11, 13-15] o da iniziali decorate, secondo una chiara gerarchia della decorazione, che nei libri liturgici individua con precisione quella dei testi. Le iniziali filigranate sono di elevatissimo livello qualitativo e di notevole originalità [Fig. 20] e anch’esse collimano con quanto si rileva nella produzione di questa tipologia di iniziale diffusa in Abruzzo11. Nonostante un esame analitico dei culti locali rilevabili nel Messale non fosse stato intrapreso in precedenza, una proposta di assegnare le miniature all’ambito tardogotico marchigiano era stata formulata qualche anno fa da Maria Grazia Ciardi Dupré Dal Poggetto12: la studiosa, tuttavia, aveva ela9
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Certamente l’importanza della chiesa di Santa Maria della Rocca e il suo legame con l’ordine benedettino rendono piuttosto verosimile l’ipotesi, tuttavia, il corredo miniato del manoscritto sembra precedere, come si dirà, l’esecuzione degli affreschi. 10 La legatura di questo manoscritto, verosimilmente originaria, almeno per quanto concerne gli ornati in metallo, come i fermagli, decorati con fioroni e con immagini della Madonna con il Bambino, costituisce un’altra allusione a una destinazione a una chiesa intitolata alla Vergine. 11 Sulla particolare e ricchissima produzione di iniziali filigranate in Abruzzo tra Tre e Quattrocento, si veda: F. Manzari, Contributi sulla miniatura abruzzese del Trecento: il Graduale miniato da Guglielmo di Berardo da Gessopalena e la produzione della prima metà del secolo, in L’Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento Atti del Convegno Internazionale di Studi (Chieti, Università G. D’Annunzio, 1 - 2 aprile 2004), cur D. Benati - A. Tomei, Cinisello Balsamo 2005, pp.181-199: 194 e F. Manzari, La miniatura abruzzese cit., pp. 74-79. 12 M.G. Ciardi Dupré dal Poggetto, Il punto sulla miniatura marchigiana del Rinascimento, in I Da Varano e le arti. Atti del convegno internazionale (Camerino 2001), cur. A. De Marchi, Ripatransone 2003, pp. 431-458: 433-436. Tale attribuzione è in seguito riportata in G.M. Fachechi, Appunti sulla miniatura ‘Marchigiana’, in Collectio thesauri: dalle Marche tesori nascosti di un collezionismo illustre. Catalogo (Ancona - Jesi 2005), cur. M. Mei, Firenze 2005, pp. 51-58: 57, n. 18.
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borato questa ipotesi esclusivamente sulla base di considerazioni stilistiche, riconducendo, a mio avviso a torto, le figurazioni del codice nell’ambito del cosiddetto Carlo da Camerino, oggi riconosciuto quale Olivuccio di Ciccarello da Camerino13. Nonostante gli occhi allungati della figura del Cristo giudice presentino delle affinità con quelli delle opere di questo pittore14, la struttura complessiva delle figure – ampie e allungate, dai volumi piegati e contorti e dalle lunghe dita affusolate – differisce del tutto dalle solide e concrete volumetrie delle miniature del Messale; basti confrontare le figure spiccatamente tardo gotiche dell’Annunciazione di Urbino (Galleria Nazionale delle Marche), per cogliere tutta la distanza dall’impostazione ben più solida e ancora tardo trecentesca dei miniatori del Messale. Il confronto, in effetti, serve piuttosto ad allontanare le miniature dall’opera di questo pittore e dimostra quali rischi comportino i confronti effettuati tra le singole componenti delle opere. Nonostante io pensi che l’ambito di Carlo da Camerino non sia quello nel quale ricercare gli autori delle miniature, ritengo che, sulla base dell’analisi dei culti testimoniati dal codice, l’assegnazione del libro liturgico alle Marche sia assolutamente da confermare. Il Messale di Offida costituisce dunque un importante documento della produzione miniata marchigiana15, ancora largamente sconosciuta16. 13
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M. Mazzalupi, Una singolare ipotesi di storia dell’arte. Carlo da Camerino un pittore inesistente, «L’Appennino camerte», 82 (2002), p. 5; A. Marchi, Scheda 4, in Il Quattrocento a Camerino: luce e prospettiva nel cuore della Marca, cur. A. De Marchi - M. Giannatiempo Lopez, Milano 2002, pp. 153-155. 14 Per le opere di Olivuccio di Ciccarello: ibid., pp. 155-164; Atlante del gotico nelle Marche, cur. S. Papetti, 4 voll., Milano 2004, passim. 15 Come ho già sottolineato la miniatura marchigiana, a differenza di quella abruzzese rimane tuttora poco indagata, soprattutto a causa dell’assenza di letteratura critica della prima metà del Novecento: Manzari, Il Messale Orsini cit., p. 77. Della miniatura di quest’area si sono occupate in particolare le due studiose già citate nella nota 12; oltre ai saggi già menzionati si vedano: M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, Il Contributo della miniatura alla formazione del Gotico internazionale nelle Marche, in Fioritura tardogotica nelle Marche. Catalogo della mostra cur. P. Dal Poggetto, Milano 1998, pp. 39-44; M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, Lorenzo e Jacopo Salimbeni: due personalità che lavorano insieme, in Lorenzo e Jacopo Salimbeni di Sanseverino e la civiltà tardogotica. Catalogo della mostra, cur. V. Sgarbi, Milano 1999, pp. 29-42; G.M. Fachechi, Proposte per lo studio della miniatura ‘marchigiana’: rapporti artistici fra Umbria e Marche nel Trecento, in Il Maestro di Campodonico: rapporti artistici fra Umbria e Marche nel Trecento, cur. F. Marcelli, Fabriano 1998, pp. 102-113. Per le opere attribuite ai Salimbeni: A. Marchi, Un messale miniato dai fratelli Salimbeni nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, in Intorno a Gentile da Fabriano: nuovi studi sulla pittura tardogotica, cur. A. De Marchi, Livorno 2007, pp. 67-86; M. Minardi, Lorenzo e Jacopo Salimbeni: vicende e protagonisti della pittura tardogotica nelle Marche e in Umbria, Firenze 2008. 16 In aggiunta alle poche decine di codici già noti, segnalo un ulteriore manoscritto, mai studiato per il suo corredo miniato: il Registro della Marca di Ancona (Città del
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I diversi miniatori che collaborano all’esecuzione del Messale possono essere messi in relazione con le pitture monumentali collegate dalla critica all’attività di gruppi di frescanti itineranti attivi a Santa Maria della Rocca a Offida e a Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino e con quello che è stato proposto come un precedente di questa bottega, il ciclo di affreschi in San Francesco ad Amatrice17. Non si tratta naturalmente di confronti volti a individuare specificamente una di queste personalità all’opera nel manoscritto, nonostante questo non sia da escludere, ma piuttosto a tracciare le linee di una cultura comune, riflessa con precisione, a mio avviso, tanto negli affreschi, quanto nelle miniature18. In alcuni casi i confronti appaiono così stringenti da suggerire, in effetti, un’identità di mano, tuttavia quella che emerge con chiarezza è l’identità della formazione dei miniatori e dei frescanti in uno stesso contesto; ciò contribuisce da una parte a confermare il legame che esiste anche tra questi cicli pittorici, dall’altra ad aprire una nuova prospettiva, documentando l’attività di miniatori vicinissimi o addirittura identificabili con tali frescanti.
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Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Arm. XXV.20): v. Lux in Arcana. L’Archivio Segreto Vaticano si rivela. Catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, 29 febbraio-9 settembre 2012), Roma 2012. 17 Cristiana Pasqualetti ha proposto di riconoscere la formazione del Maestro di Loreto Aprutino nella bottega che opera in San Francesco ad Amatrice: C. Pasqualetti, Per la pittura tardogotica ai confini settentrionali del Regno di Napoli: sulle tracce del ‘Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino’. I, «Prospettiva», 109 (2003, sed 2004), pp. 2-26 e II, in «Prospettiva», 117-118 (2005, sed 2006), pp. 63-99. Ferdinando Bologna aveva a sua volta inserito gli affreschi di Amatrice nella linea stilistica che ha origine negli affreschi della cripta di Santa Maria in Platea a Campli: F. Bologna, Affreschi della cripta. Chiesa di Santa Maria in Platea. Campli, in Documenti dell’Abruzzo teramano, 4/2, La Valle del Vibrata e del Salinello, Pescara 1996, pp. 515-523. Nell’ampia storia critica su questi cicli di affreschi si vedano anche E. Carli, Per la Pittura del Quattrocento in Abruzzo, «Rivista del R. Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte», 9/1-3 (1942/1943), pp. 164-211: pp. 206-207 (ora in Carli, Arte in Abruzzo, Milano 1998, pp. 195-230); F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp. 323-325; S. Dell’Orso, Considerazioni intorno agli affreschi della chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, in «Bollettino d’Arte», ser. VI, 73 (1988), pp. 63-82; S. Papetti, Vicende di santi e di pittori: cicli tardogotici fra le Marche meridionali e l’Abruzzo teramano, in Lorenzo e Jacopo Salimbeni di Sanseverino e la civiltà tardogotica. Catalogo della mostra cur. V. Sgarbi, Milano 1999, pp. 57-64; A. Tartuferi, Qualche osservazione sul Maestro di Offida e alcuni appunti sulla pittura del Trecento nell’Abruzzo teramano, «Arte Cristiana», 799 (2000), pp. 249-258; F. Gangemi, Ai confini del Regno. L’insediamento francescano di Amatrice e il suo cantiere pittorico, in Universitates e baronie: arte e architettura in Abruzzo e nel regno al tempo dei Durazzo, cur. P.F. Pistilli - F. Manzari - G. Curzi, Pescara 2008, II, pp. 93-118; G. Pellini, Il rinnovamento tardogotico di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, ibid., pp. 69-92. 18 Il riferimento alle opere citate delle miniature del Graduale di Santa Maria Paganica e del Messale di Nicolò di Valle Castellana (rispettivamente L’Aquila, Archivio Diocesano,
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Nelle miniature del Messale opera un gruppo di artisti dalle personalità talora ben individuabili, che collaborano tra loro, ognuno con ogni verosimiglianza accompagnato da diversi assistenti, secondo procedimenti di lavoro in collaborazione, molto frequenti nella pittura monumentale, come sottolineato da Francesco Abbate proprio in relazione alla pittura meridionale di epoca tardogotica19, e ampiamente riconosciuti nell’ambito della miniatura, grazie alle notevoli possibilità di indagine offerte dai manoscritti incompleti, che dimostrano come il lavoro si svolgesse in fasi successive, con l’intervento di più artefici anche sulla stessa immagine20. Non è questa la sede per analizzare nuovamente gli affreschi in questione, tuttavia, penso che l’analisi delle miniature del Messale di Offida servirà a chiarire come, probabilmente anche nei ponteggi operano diversi artisti, i cui stili si uniformano in un linguaggio comune, mantenendo, tuttavia, rilevanti autonomie, maggiori che tra un unico artista e i suoi collaboratori. L’ampiezza di tali cicli di affreschi e la scansione lungo un arco cronologico così ampio – tra l’ultimo quarto del Trecento e il primo del Quattrocento – rende plausibile immaginare che fossero attive delle associazioni tra artisti diversi, abituati a armonizzare e fondere il proprio stile in un linguaggio uniforme, come è del resto documentato, in tale area, nel pieno Quattrocento21. Un sistema di lavoro di questo tipo può spiegare le differenze e le affinità, entrambe rilevabili nei cicli: più che discutere se si tratti di un unico maestro o di maestri diversi, mi sembra che il dilemma vada risolto immaginando l’associazione tra artisti, di volta in volta arricchita da personalità differenti, ma formate e operanti nella stessa area, con un linguaggio caratteristico e ben riconoscibile anche nelle varianti prodotte di cantiere in cantiere22.
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A2 e Atri, Archivio Capitolare, A.2), ripetutamente proposto in passato dalla critica (Bologna, Affreschi della cripta cit., pp. 526-527; Pasqualetti, Per la pittura tardogotica ai confini settentrionali del Regno di Napoli, I cit., pp. 5-6), va interpretato semplicemente, come un riflesso di una cultura comune condivisa e (Tartuferi, Qualche osservazione sul Maestro di Offida cit., p. 256) e non come un contatto diretto; per un’analisi più puntuale, si vedano le schede di queste opere nel catalogo Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 214-216, 218-220. 19 «La particolare organizzazione del lavoro che abbiamo schematicamente indicato come cooperativistica»: F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il sud angioino e aragonese, Roma 1998, p. 136. Questo aspetto è stato sottolineato anche da Pellini, Il rinnovamento tardogotico cit., pp. 85-86. 20 J.J.G. Alexander, I miniatori medievali e i loro metodi di lavoro, Modena 2003; R. Watson, Illuminated Manuscripts and their Makers, London 2003, p. 12. 21 Si pensi alla nota associazione del 1442 tra Bartolomeo di Tommaso, Nicola da Siena e Andrea Delitio: B. Toscano, La Pittura in Umbria nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, cur. F. Zeri, Milano 1987, II, pp. 355-383: 362-363. 22 Non mi sembra che un approccio filologico tradizionale, volto ad accorpare o espungere una singola immagine dal corpus di un artista in particolare sia efficace e soprat-
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Con l’avvertenza, dunque, che di personalità specifiche si può parlare solo in modo convenzionale, dando per scontato che anche le singole immagini possono essere frutto di un lavoro di gruppo e che un’indagine volta a distinguere con precisione assoluta i diversi “maestri” si scontra con un procedimento di lavoro prettamente collaborativo, nelle miniature del Messale si possono individuare almeno due artisti principali e diversi collaboratori di livello qualitativo meno elevato. I due artisti più raffinati mostrano affinità talmente forti con le opere della linea stilistica individuata tra Amatrice, Loreto e Offida, da indurre a supporre che nel manoscritto possano aver operato dei pittori/miniatori, forse identificabili con due personalità attive anche negli affreschi di Amatrice e di Loreto23. Straordinarie affinità con gli affreschi di San Francesco ad Amatrice (nel reatino, ma un tempo parte della diocesi di Ascoli), cioè con il ciclo più antico del gruppo di pitture murali, datato agli anni ottanta del Trecento, mostra uno dei due miniatori principali, individuabile in molte delle immagini, dalla Natività, all’Incoronazione della Vergine, al san Michele Arcangelo [Figg. 4-8]. Questo artista replica le fisionomie ricorrenti nei volti del Giudizio Universale, con le proporzioni raccorciate, l’ovale dall’ampia fronte, gli occhi allungati, in un modo così aderente agli affreschi, da indurre a pensare che se non si tratta dello stesso artista, è senz’altro un suo strettissimo collaboratore, educato al suo stile, che replica alla lettera sul supporto pergamenaceo. I volti della Madonna e di Giuseppe nella Natività del Messale sembrano direttamente copiati da quelli nell’analogo affresco di Amatrice [Figg. 4-5] e anche la composizione dell’Incoronazione della Vergine suscita la stessa impressione [Figg. 6-7]. La stessa tipologia di volto ricorre anche nel san Michele Arcangelo e nei personaggi che suonano sulla Torre del Paradiso [Figg. 8-9]. Il secondo miniatore individuabile nel manoscritto, nel Giudizio Universale all’incipit e in numerose iniziali figurate [Figg. 1, 10-11, 13-15], si può distinguere con grande evidenza dal precedente e mostra, invece, straordinari legami con il ciclo di Loreto Aprutino. Il fatto che nel codice collaborino, in stretta associazione, due artisti ben distinti tra loro, l’uno riconducibile agli affreschi di Amatrice e l’altro a quelli di Loreto, dimostra
tutto penso che non sia affatto rispondente alle modalità di creazione di queste opere, realizzate come imprese di gruppo. 23Alcune immagini, decisamente più deboli, si possono ricondurre ad almeno due personalità diverse, come le miniature ai ff. 159r, 162v, 171v e 182v ma non c’è lo spazio, né mi sembra particolarmente utile procedere a una spartizione tra i diversi artisti, poiché nonostante le differenze, di certo gli interventi, tra disegno e stesura dei colori, debbono essersi sovrapposti, anche entro la stessa immagine.
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allo stesso tempo la saldezza del legame tra questi cicli, affermata dalla critica, ma anche il fatto che in essi debbano aver operato artisti diversi. Questo secondo miniatore è un artista di elevatissimo livello qualitativo, come si può rilevare nella serie di iniziali figurate con busti di santi, eseguiti come una galleria di ritratti, con un fare estremamente pittorico [Figg. 10-11, 13-15]. Tale artista, che alla cultura appenninico-adriatica unisce una buona conoscenza della miniatura toscana, precede di certo gli affreschi di Loreto e di Offida, perché, pur mostrando notevolissime affinità con queste opere, non raggiunge mai le accentuate caratterizzazioni espressionistiche rilevabili in questi due cicli [Figg. 10-16]. Le affinità nell’esecuzione dei volti, il modo di delineare gli occhi, lo sguardo intenso e pungente, l’ovale del viso, la delicata forma delle bocche e dei menti mi sembrano, tuttavia, preludere ai modi dei frescanti di Loreto, che ebbero forse la possibilità di conoscere il corredo miniato del libro liturgico o almeno i suoi autori. Se penso sia indiscutibile individuare nelle miniature del Messale un legame strettissimo con gli affreschi di Loreto, il problema che si pone, in questi casi, è come interpretare il visibilissimo legame: è possibile che in queste immagini sia all’opera uno dei collaboratori principali del ciclo di Loreto, in una fase precedente agli affreschi e in un momento in cui certi aspetti del suo stile non si erano ancora affermati, oppure si tratta del riflesso dello stile più tardi espresso a Loreto, assorbito da un miniatore che si forma in stretta concomitanza con i frescanti? Alcune fisionomie sono del tutto sovrapponibili, come ad esempio il viso di san Pietro, con il naso sottile, la curva tra le sopracciglia, gli occhi allungati, del tutto identica alle fisionomie dei tre Patriarchi accanto alla Torre del Paradiso [Figg. 15-16]24, tuttavia molte caratteristiche degli affreschi, in particolare il modo di accentuare in senso espressionistico e feroce le espressioni, mancano del tutto. Le somiglianze di alcuni volti, come i santi Bartolomeo e Matteo [Figg. 13-14], con i tabelloni votivi nelle cappelle laterali, in particolare con i santi Giacomo maggiore e Tommaso apostolo nella terza cappella, oppure i monaci che affiancano san Benedetto [Fig. 3] con i volti della cappella di San Tommaso, dimostrano, fra l’altro, l’unitarietà degli affreschi di Santa Maria in Piano, nonostante la presenza di diversi artisti. Mi sembra che dirimere la questione se si tratti di un maestro attivo a Loreto – in una fase precoce – oppure un suo collaboratore, dotatissimo e autonomo nell’elaborare una versione lievemente diversa del suo stile, più composta e quasi
24 Per una lettura iconografica del Giudizio Universale: S. Dell’Orso, Il ‘Ponte della prova’. Un affresco nella chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino e la rappresentazione del ‘Purgatorio’, «Arte cristiana», n. ser., 76 (1988), 729, pp. 327-338.
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classica, sia non solo molto difficile, ma anche sostanzialmente inutile: penso che sia difficile negare le somiglianze, come le differenze; ciò che interessa è rilevarle, cogliere le dinamiche dei rapporti tra queste opere e ricostruire il più possibile il contesto in cui sono state prodotte, allargando il panorama conosciuto con nuove opere, come questa, su pergamena, che arricchisce il panorama dell’arte prodotta in tali aree. Il legame tra Amatrice, Loreto e Offida esce rafforzato e chiarito dall’analisi del Messale, tuttavia, un’analisi filologica volta a distinguere mani e a definire in modo incontrovertibile le cronologie interne – sempre relative – mi sembra piuttosto sterile e anche poco interessante. I ritrovamenti di nuovi materiali, che hanno interessato in particolare l’Abruzzo di epoca tardo medievale negli ultimi anni, nell’ambito della miniatura25, dimostrano quanto materiale ci sfugge tuttora e indicano come sia effimero il tentativo di individuare in modo anacronistico personalità ben precise, con nomi e cognomi, ai quali riferire decine di opere, senza calcolare la casualità e l’esiguità di ciò che ci è pervenuto e senza tenere in debito conto il fatto che della concreta prassi di lavoro, di come si costruisse, assemblando motivi tratti da composizioni precedenti, un progetto illustrativo o pittorico, di fatto non sappiamo proprio nulla. Le miniature del Messale, nel complesso, suggeriscono di collocare quest’opera a metà strada, cronologicamente, tra i gruppi di affreschi: dopo il ciclo tardo trecentesco di San Francesco ad Amatrice e prima di quelli di Loreto e Offida, datati nel terzo decennio del XV secolo. Il Messale si potrebbe inserire, dunque, nell’arco del primo, o al massimo del secondo, decennio del Quattrocento; si tratta di una cronologia basata su considerazioni di tipo ipotetico e ovviamente frutto delle attuali conoscenze. Se le miniature del Messale si possono collocare nel primo decennio del Quattrocento, esse contribuiscono a delineare con maggiore chiarezza una fase particolarmente poco indagata della miniatura centroitaliana di area adriatica, che mostra contatti insolitamente stretti tra pittura e miniatura26,
25 Penso alle fasi sconosciute della miniatura aquilana testimoniate dal Messale Ross. 276 della Biblioteca Apostolica Vaticana e dai due Libri d’ore legati a Stefano dell’Aquila: si veda per questo il mio saggio La miniatura abruzzese cit., pp. 73-74. 26 In realtà i contatti tra miniatura e pittura sono sempre stretti, perché, anche quando la miniatura appare poco pittorica e volumetrica, è perché anche la pittura parietale ha queste caratteristiche (pensiamo alla miniatura e alla pittura parigine del XIII secolo). La distinzione tra queste arti, infatti, ha un senso solo per motivi esclusivamente classificatori, poiché la miniatura non è altro che pittura su un supporto di pergamena, che arricchisce le nostre conoscenze sulla pittura di alcune aree, quando, a causa dell’esiguità delle sopravvivenze monumentali, tali conoscenze appaiono a volte scarsissime.
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come si riscontra nel più noto maestro del Messale Orsini, o di Beffi o di San Silvestro all’Aquila. In questo artista, individuato giustamente da Ferdinando Bologna in questi tre capolavori eseguiti sui tre principali supporti per la pittura – la pergamena, la tavola, la superficie muraria – possiamo riconoscere il caso più eclatante di scioltezza nel passaggio da una tecnica all’altra pervenuto da queste aree27. Si tratta di un artista del tutto diverso da quelli attivi nel Messale marchigiano, che opera con un bagaglio culturale estremamente ampio, ma incentrato a mio avviso nella cultura figurativa bolognese e adriatica, straordinariamente autonomo e originale, tanto da far pensare a un artista con esperienze formative importanti in altri centri, ma con una libertà di interpretazione personalissima e forse più legata all’area abruzzese di quanto si sia pensato28. I miniatori del Messale di Offida sono più tradizionali e costruiscono panneggi e figure in modo più convenzionale, ma con grande sicurezza e con effetti monumentali, che mostrano una cultura non distante da quella – a mio avviso del tutto contemporanea – del maestro di Beffi. Una cultura di questo tipo, profondamente pittorica e fortemente segnata da una componente bolognese, caratterizza anche le miniature di un altro libro liturgico (New York, Pierpont Morgan Library, Glazier 16), che ho potuto ricondurre all’ambito abruzzese pochi anni fa29. Si tratta di un Messale eseguito per un vescovo di Teramo, verosimilmente identificabile con Stefano da Carrara (1412-1427), per motivi sia cronologici che araldici30. Le miniature principali, riquadri miniati e iniziali istoriate, sono state realizzate da una bottega, che per molti versi deriva da quella del maestro di
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27 Per una bibliografia aggiornata su questo artista, talora distinto in più personalità diverse, si vedano i saggi e le schede nel catalogo Illuminare l’Abruzzo cit., passim. 28 Un buon numero di nuove opere miniate localizzate nelle diverse aree abruzzesi emerse negli ultimi anni sta trasformando profondamente la visione consolidata dell’arte abruzzese tra Tre e Quattrocento. L’assenza di un contesto all’altezza di questo miniatore/pittore aveva indotto Ferdinando Bologna a ipotizzare che si trattasse di un artista allogeno, ma penso che le straordinarie miniature realizzate all’Aquila da due miniatori attivi per Santa Maria Paganica, attivi alla metà del Trecento e nell’ultimo quarto del secolo, finora del tutto sconosciuti, permetta di intuire che in realtà ci sfugge del tutto l’esistenza di un raffinatissimo contesto di artisti, locali ma di livello assolutamente alla pari con quello delle più note produzioni regionali ed europee contemporanee: Manzari, La miniatura abruzzese cit., passim. 29 Manzari, Il Messale Orsini cit., pp. 65-71; F. Manzari, Scheda 39, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 239-241. 30 In realtà gli stemmi predisposti nel codice, al di sotto della mitria, sono incompleti oppure ridipinti e solo quello sulla pagina d’incipit, con la croce rossa in campo d’argento, sembra alludere all’insegna di Padova, e dunque alla città di origine del Carrarese: Manzari, Scheda 39, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 239-241.
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Beffi, anche se verosimilmente opera qualche decennio dopo, utilizzando un tipo di bordura del tutto diversa da quelle usate nelle opere di quest’artista; anche nel Messale di Teramo, tuttavia, possiamo riconoscere la mano del maestro di Beffi stesso, in alcuni strepitosi ritratti, eseguiti in un’opera quasi integralmente portata a termine da un suo allievo – ben distinto da lui, ma intriso della sua cultura31. Anche se il Messale di Teramo è legato alla linea del maestro di Beffi e non a quella marchigiano-aprutina oggetto di questo contribuito, in questo contesto esso appare interessante perché testimonia un tipo di cultura affine, profondamente pittorica, diffusa tra i miniatori di area adriatica nei primi decenni del Quattrocento32. Dal punto di vista del linguaggio ornamentale, l’ambito al quale si può ricondurre il repertorio decorativo impiegato nelle bordure del Messale di Offida è invece quello della miniatura aquilana di fine Trecento, testimoniata da un importante gruppo di manoscritti, anch’essi fino a poco fa del tutto sconosciuti33. Le elegantissime bordure del Messale di Offida seguono, infatti, modelli che possiamo rintracciare anche in due piccoli libri d’ore realizzati per L’Aquila all’inizio del XV secolo (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 165; El Escorial, Real Biblioteca del monasterio de San Lorenzo, Cod. h.IV.9)34. Anche se nel Messale di Offida il tipo di foglia di acanto impiegata appare molto più ricco e mosso, certamente debitore della conoscenza della miniatura fiorentina di fine Trecento, i tralci sono completati da sottili filamenti, ornati da foglie trilobate, che si dispongono nei margini in modo del tutto analogo rispetto a quanto avviene nei libri d’ore [Figg. 2, 4, 17-18]; anche il repertorio di volatili fantastici coincide nei tre codici, così come il particolare tipo di insetto rosso beccato dagli uccelli, un inserto realistico abbastanza insolito e peculiare [Figg. 1-2, 6, 16-17]. Anche in questo caso mi preme sottolineare che non si tratta di un confronto teso a riconoscere l’intervento degli 31Non
c’è qui lo spazio per approfondire questo argomento, per il quale rimando alla mia scheda e al saggio La miniatura abruzzese cit., pp. 80-81. 32 Non è forse irrilevante, inoltre, il fatto che i signori di Ascoli e del castello di Offida fossero due esponenti della famiglia da Carrara, Obizzone e Ardizzone, cugini del vescovo di Teramo Stefano da Carrara: si veda Pasqualetti, Per la pittura tardogotica, II cit., pp. 63, 87 note 1-2. 33 Manzari, Il Messale Orsini cit., pp. 66-71; Manzari, Libri liturgici miniati in Italia centromeridionale cit., pp. 115-116; Manzari, La miniatura abruzzese cit., pp. 73-78; Miniatori all’Aquila nell’ultimo quarto del XIV secolo: il corredo liturgico della chiesa di Santa Maria Paganica nell’ambito delle Giornate di studio organizzate dall’Università dell’Aquila La via degli Abruzzi e le arti nel Medioevo (L’Aquila, Castelvecchio Subequo, 11-12 maggio 2012), in corso di stampa. 34 Manzari, Schede 32-33, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 221-225.
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stessi miniatori, ma a individuare un preciso repertorio ornamentale comune, alla base delle scelte operate dai due differenti gruppi di miniatori, dal quale entrambe le botteghe, quella attiva per Offida e quella per l’Aquila, attingono. L’origine aquilana di tale repertorio ornamentale è confermata dal più antico codice in cui esso è individuabile, un manoscritto databile all’ultimo quarto del XIV secolo: mi riferisco allo straordinario Messale che ho potuto ricondurre al corredo liturgico della chiesa aquilana di Santa Maria Paganica35, di cui era noto solo il Graduale, già al Museo Nazionale dell’Aquila (oggi all’Archivio Diocesano, A2)36. In entrambi i libri liturgici, da utilizzare insieme per la celebrazione eucaristica, è raffigurata l’insegna del moro, del quartiere aquilano Paganica, mentre nel Messale è inserito anche lo stemma dell’Aquila. Il primo foglio del Graduale è stato realizzato dalla stessa raffinatissima bottega che ha integralmente miniato il Messale, mentre tutto il resto del progetto illustrativo del Graduale, compreso il secondo volume con il santorale37, è stato invece completato da una più modesta bottega, di certo seguendo il progetto illustrativo originario38. Come nei due piccoli libri d’ore dell’Aquila, anche nel Messale di Offida viene rielaborato il repertorio decorativo vario e innovativo dello straordinario Messale di Santa Maria Paganica, nel quale compaiono per la prima volta le componenti ornamentali di queste elegantissime bordure. Con i due piccoli libri d’ore il Messale di Offida ha in comune anche un particolarissimo tipo di iniziale, costituito da un nastro ripiegato su se stesso a formare un particolare tipo di gotica settentrionale [Figg. 17, 19], una textura ornamentale di origine nordica e che si diffonde in quest’area per la prima volta proprio all’inizio del Quattrocento39.
35 Manzari, Il Messale Orsini cit., p. 36; Manzari, Scheda 30, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 216-218. 36 Per la bibliografia pregressa si veda L. Morelli, Scheda 31, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 218-220. 37 Scoperto solo nel 2004 e tuttora conservato presso tale chiesa: L. Morelli, La ricomposizione di un libro liturgico miniato: il Graduale di Santa Maria Paganica di L’Aquila, in L’Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Chieti, Università G. D’Annunzio, 1-2 aprile 2004), cur. D. Benati - A. Tomei, Cinisello Balsamo 2005, pp. 201-209; Morelli, Scheda 31, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 218-220. 38 A mio parere a una distanza cronologica più breve da quella ipotizzata in Morelli, La ricomposizione cit.: si veda Manzari, La miniatura abruzzese cit., p. 73 39 Manzari, Il Messale Orsini cit., p. 71; Manzari, Libri liturgici miniati cit., p. 118. Questo tipo di lettera è usata dall’inizio del XV secolo anche nelle oreficerie di Nicola da Guardiagrele: vedi A. Cadei, Percorso di Nicola da Guardiagrele, in Cadei, Nicola da
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Una diffusione di questo repertorio anche nelle Marche non stupisce affatto, anche perché l’importanza di questa fase della miniatura aquilana – a lungo misconosciuta – è stata talmente rilevante, che i suoi modelli furono adottati anche a Roma, durante lo Scisma, dai miniatori attivi in un gruppo di codici, altrettanto poco noto, legato alla committenza del papa Bonifacio IX e della sua curia40. Con questo gruppo di libri liturgici il Messale di Offida presenta anche altri punti di contatto, come in particolare il raffinatissimo corredo di iniziali filigranate in rosso e azzurro, spesso arricchite da tocchi di ocra [Fig. 20]. Anche in questo caso non si tratta di proporre un’identità di mano, ma certamente di repertorio, tra il calligrafo operoso nel codice di Offida e il raffinatissimo autore delle decorazioni a penna e inchiostro dei codici riconducibili all’ambito di Bonifacio IX, dal Messale oggi conservato a Blackburn (Hart Museum, Hart 20918), a quello di San Pietroburgo (Hermitage, ORr-23)41: in queste opere dove lo straordinario calligrafo ha raggiunto vette di tale individualità, da aver permesso a François Avril di riconoscerlo nel copista, miniatore e calligrafo, Stefano Masii dell’Aquila, che si firma in ben due casi ed è ampiamente documentato presso la curia del papa di Roma42. Certamente il Messale di Offida non fa parte delle opere direttamente riferibili a Stefano dell’Aquila, ma nelle decorazioni a penna e a inchiostro di questo codice ha operato un calligrafo di grandissima raffinatezza e di cultura compatibile con quella dell’artista aquilano, che mostra come anche il settore della decorazione secondaria, normalmente del tutto seriale e ripetitiva nell’arco dei secoli del Tardo Medioevo, abbia raggiunto risultati di eccezionale raffinatezza in ambito abruzzese e marchigiano. Il
Guardiagrele. Un protagonista dell’autunno del Medioevo in Abruzzo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 15-89: pp. 27-28. In miniatura tale tipologia si ritrova, in data più tarda, nel Messale d’Acquaviva (Atri, Archivio Capitolare, A.19), eseguito nel secondo terzo del XV secolo. Per la bibliografia su questo codice: C. Pasqualetti, Scheda 44, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 249-250. Su questo tema anche: Manzari, La miniatura abruzzese cit., p. 74. 40 Manzari, Libri liturgici miniati cit., pp. 124-133; F. Manzari, La ripresa della miniatura a Roma durante lo Scisma. Copisti, calligrafi e miniatori attivi tra fine Trecento e inizio Quattrocento, in Libri miniati per la chiesa, per la città, per la corte in Europa: lavori in corso. Atti del Convegno della Società internazionale di storia della miniatura (Padova, 2-4 dicembre 2010), in corso di stampa. 41 Manzari, Libri liturgici miniati cit., pp. 124-133; Manzari, La ripresa della miniatura a Roma cit. 42 Per questo materiale, già citato in Manzari, La ripresa della miniatura a Roma cit., passim, e Manzari, La miniatura abruzzese cit., pp. 74-77, si veda ora, finalmente pubblicato, F. Avril, Stephanus de Aquila, in Illuminare l’Abruzzo cit., pp. 51-57.
PITTORI E MINIATORI TARDOGOTICI TRA MARCHE E ABRUZZO
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Messale di Offida, dunque, indipendentemente dalla sua possibile destinazione originaria per Santa Maria della Rocca, che non può che restare un’ipotesi, per quanto suggestiva, visti i contatti stilistici con i frescanti legati agli affreschi della chiesa superiore, costituisce un significativo documento di un’importantissima fase della miniatura tardogotica italiana, un nuovo testimone della produzione miniata riferibile alle Marche, un’area la cui miniatura è stata a lungo ignorata, proprio a causa della scarsità di opere conservate e riconosciute.
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Fig. 1 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 1r: pagina miniata all’incipit della I domenica dell’Avvento, riquadro miniato con il Giudizio Universale
Fig. 2 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 146r: pagina miniata all’incipit della messa di Pasqua, riquadro miniato con la Resurrezione
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Fig. 3 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 210v: pagina miniata all’incipit della messa di San Benedetto, riquadro miniato con il santo che mostra la regola
Fig. 4 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 11v: pagina miniata all’incipit della messa di Natale, riquadro miniato con la NativitĂ
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Fig. 5 - Amatrice, San Francesco, affresco con la Natività, particolari
Fig. 6 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 232r: pagina miniata all’incipit della messa dell’Assunzione, iniziale istoriata con la Incoronazione
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Fig. 7 - Amatrice, San Francesco, affresco con l’Incoronazione (part.)
Fig. 8 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 242r: pagina miniata all’incipit della messa di san Michele, riquadro miniato con Michele arcangelo, particolare
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Fig. 9 - Amatrice, San Francesco, Giudizio Universale, Torre del Paradiso, particolari
Fig. 10 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 14r: pagina miniata all’incipit della messa di san Giovanni, iniziale figurata con Giovanni evangelista
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Fig. 11 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 199r: pagina miniata all’incipit della messa di Sant’Andrea, riquadro miniato con sant’Andrea
Fig. 12 - Loreto Aprutino, Santa Maria in Piano, Giudizio Universale, particolare
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Fig. 13 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 234r: pagina miniata all’incipit della messa di San Bartolomeo, iniziale figurata con san Bartolomeo, particolare
Fig. 14 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 209r: pagina miniata all’incipit della messa di San Matteo, iniziale figurata con san Matteo, particolare
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Fig. 15 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 208r: pagina miniata all’incipit della messa di S. Pietro, iniziale figurata con san Pietro, particolare
Fig. 16 - Loreto Aprutino, Santa Maria in Piano, Giudizio Universale, Patriarchi, particolare
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Fig. 17 - Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 165, Libro d’ore, f. 150r: iniziale a nastro e bordura ornamentale con volatili
Fig. 18 - Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 165, Libro d’ore, f. 141r: iniziali decorate e bordura con animali fantastici
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Fig. 19 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 304v: iniziale miniata a nastro, all’incipit del mese di Aprile, particolare
Fig. 20 - Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 670, Messale per Offida, f. 3v: iniziali filigranate
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Scultura in pietra nella Marca meridionale: evoluzione e digressioni nei portali tardogotici
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Nell’ambito della scultura medievale prodotta in area medio-adriatica, l’avvento dell’età gotica comportò un diffuso incremento della decorazione plastica applicata ai portali monumentali degli edifici di culto, marcando la tendenza a focalizzare su di essi l’impegno degli artefici e dei lapicidi, con l’intento di amplificare l’impatto visivo e valorizzare le potenzialità comunicative dell’ingresso sacro, elemento chiave di raccordo tra lo spazio interno dell’edificio e quello esterno della pubblica via e della piazza cittadina. Rispetto alle ricerche indirizzate con impegno crescente alla scultura lignea della regione1, meno assidui si rivelano gli studi rivolti dagli specialisti alla scultura lapidea, nella sua duplice espressione monumentale connessa da un lato alla produzione funeraria, dall’altra alla decorazione architettonica, testimoniata essenzialmente dai portali scolpiti, scampati ai rifacimenti dell’età moderna e talvolta sopravvissuti agli stessi edifici di cui erano parte. Le vicende conservative che hanno interessato questi ultimi manufatti ci appaiono dunque fortunate, se paragonate alle radicali trasformazioni subite a partire dall’età rinascimentale, e ancor più in epoca barocca, dalle coeve decorazioni interne e dagli arredi sacri, sottoposti nel corso dei secoli a manomissioni e perdite che hanno reso difficoltoso lo studio delle testimonianze materiali.
1 La conoscenza della scultura lignea marchigiana si avvale di indagini sia circostanziate, sia ad ampio raggio, che hanno fornito gli strumenti per una più profonda ed ampia comprensione di tale settore artistico, v. L. Venturi, Opere di scultura nelle Marche, «L’arte», 19 (1916), pp. 25-50; G. Previtali, Studi sulla scultura gotica in Italia. Storia e geografia, Torino 1991; Scultura nelle Marche dalle origini all’età contemporanea, cur. P. Zampetti, Firenze 1993; E. Simi Varanelli, Marche - scultura, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VIII, Roma 1997, pp. 186-193; M. G. Fachechi, De lignamine laborato et depicto. Il problema critico della scultura lignea medievale nelle Marche, Urbino 2001; Nuovi contributi alla cultura lignea marchigiana. Atti della giornata di studio (Matelica, 20 novembre 1999), cur. M. Giannatiempo López - A. Iacobini, Sant’Angelo in Vado 2002.
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Il ruolo particolarmente significativo dei portali quali manifestazioni dell’evoluzione della scultura tardogotica fu evidenziato già da Luigi Serra nella puntuale ricognizione del patrimonio artistico regionale2. Rispetto alle sintesi storiografiche e alle osservazioni critiche proposte da Pietro Zampetti e Fabio Mariano nei lavori di carattere generale dedicati rispettivamente alla scultura e all’architettura nelle Marche3, si registrano ricerche concentrate su specifici ambiti, definiti ad esempio dalla natura della committenza, accanto a studi monografici condotti su singoli monumenti sottoposti in tempi recenti a interventi di restauro che ne hanno restituito una migliore leggibilità4. Il presente contributo, focalizzato sulla plastica architettonica riferibile all’ambito geografico delle Marche meridionali, si sofferma su tre casi di studio che offrono spunti di riflessione sui caratteri e sul trattamento della scultura applicata a contesti monumentali la cui esecuzione, protratta nel tempo, permette di seguire diacronicamente il passaggio da modelli locali consolidati a forme più moderne e aperte alle suggestioni del gotico internazionale. Accanto alle due testimonianze più significative e note, costitui2 3
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L. Serra, Arte nelle Marche dalle origini cristiane alla fine del Gotico, Pesaro 1929. Sui caratteri generali della scultura marchigiana, con note sulla decorazione plastica dei portali, v. P. Zampetti, L’età gotica: portali, tombe monumentali e statue del XIV e della prima metà del XV secolo, in La scultura nelle Marche cit., pp. 207-216; Simi Varanelli, Marche - scultura cit., pp. 186-193; F. Mariano, Architettura nelle Marche dall’età classica al Liberty, Firenze 1995, in particolare il capitolo Dal Romanico al Tardo Gotico, pp. 63-67. Alcuni temi critici relativi a singoli monumenti o rivolti alla ricostruzione delle personalità artistiche sono stati recentemente affrontati da Luca Palozzi in un ampio e approfondito lavoro di ricerca, v. L. Palozzi, Tra Roma e l’Adriatico. Scultura monumentale e relazioni artistiche nella Marca d’Ancona alla fine del Medioevo, tesi di perfezionamento in discipline storico-artistiche, Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2011-2012. 4 Lo sviluppo degli studi ha riguardato principalmente le Marche settentrionali, con una netta prevalenza dei contributi dedicati al contesto culturale malatestiano, tra i quali si rammentano B. Montevecchi, Scultura romanica e gotica a Pesaro, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, cur. M.R. Valazzi, Venezia 1990 (Historica Pisaurensia, 2), pp. 255-268; R. Bertozzi, Il gotico cortese e la politica culturale dei Malatesta a Pesaro e a Fano, in Arte e cultura nella Provincia di Pesaro e Urbino: dalle origini a oggi, cur. F. Battistelli, Venezia 1986, pp. 113-126; Le arti figurative nelle corti dei Malatesti, cur. L. Bellosi, Rimini 2002 (Storia delle signorie dei Malatesti, 13), in particolare i contributi di S. Masignani, La scultura nei territori malatestiani dal Duecento al Quattrocento, pp. 111-161 e M. Frenquellucci, Gli interventi malatestiani nelle città della Marca settentrionale (Pesaro, Fossombrone e Senigallia), pp. 491-532. Per quanto riguarda singoli casi di studio legati ad interventi di restauro, si vedano gli approfondimenti tecnici e storico-critici pubblicati in occasione dei lavori sui portali monumentali conservati a Pesaro, Il restauro del portale della chiesa di San Francesco a Pesaro, cur. F. Panzini, Pesaro 1994 (Quaderni della Fondazione Scavolini, 8); Il restauro del portale della chiesa di San Domenico a Pesaro, cur. F. Panzini, Pesaro 2000 (Quaderni della Fondazione Scavolini, 11).
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te dai portali della chiesa di San Francesco ad Ascoli e del duomo di Fermo, realizzazioni prestigiose comparse in due civitates magnae che giocavano un ruolo di spicco nella regione, si prenderà in esame il singolare e misconosciuto episodio di Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano, che permette di osservare in un ambito più modesto e circoscritto alcuni aspetti meno palesi della vicenda artistica che si intende indagare. Nel periodo in discussione, precedente la decisiva affermazione del potere pontificio con la caduta delle signorie medio-adriatiche, il quadro storico che interessa il contesto geografico selezionato registra una mutevole frammentazione politica, in cui trovano spazio rivalità e conflitti tra poteri locali incarnati da élites nobiliari, quali i da Varano a Camerino e le diverse signorie avvicendatesi a Fermo e ad Ascoli, a loro volta in perenne conflitto con le comunità urbane5. Allo stesso tempo, la natura liminare dei territori e l’incremento dei traffici transregionali legati allo sviluppo delle attività economiche – in primo luogo manifatturiere e di conseguenza anche mercantili – favorivano i contatti con le realtà culturali esterne, a partire da quelle confinanti (la Toscana e l’Umbria, gli Abruzzi e l’Adriatico settentrionale), per giungere fino alle più remote aree dei Balcani e del Nord Europa. A tali condizioni politiche e sociali corrisponde nelle manifestazioni artistiche una sensibile eterogeneità delle proposte, determinata spesso dal variare degli apporti esterni, accolti ed innestati su un comune sostrato costituito dalla tenace tradizione romanico-gotica locale6. Quest’ultima ha la sua peculiare manifestazione nel portale strombato a tutto sesto, quale si può osservare ad esempio nel San Francesco di San Ginesio e nel Sant’Agostino di Matelica, o ancora nel portale sul fianco meridionale della collegiata di Visso, opere cronologicamente riferibili ai 5 Per le vicende storiche inerenti le signorie delle Marche meridionali v. J.-C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in G. Arnaldi, Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale, 2, Lazio, Umbria e Marche, Lucca, Torino 1992 (Storia d’Italia, 7), pp. 323-609: 547-582. 6 Sulla scultura nelle Marche meridionali in età tardo-medievale v. A.A. Bittarelli, Macerata e il suo territorio. La scultura e le arti minori, Milano 1986; F. Buccolini, Scultura medievale camerinese, «Studi maceratesi», 18 (1982), pp. 371-392; M. Massa, La scultura romanico-gotica nell’Ascolano e nel Fermano, in Beni artistici: pittura e scultura, cur. S. Papetti, Cinisello Balsamo 2003, pp. 185-196. Interessanti notazioni sulle maestranze e i materiali si trovano anche in Atlante dei Beni Culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni ambientali. Beni architettonici,cur. P. De Vecchi, Cinisello Balsamo 1998. Un utile strumento di ricognizione del patrimonio è offerto dai volumi, suddivisi secondo le ripartizioni territoriali delle province, dell’Atlante del Gotico nelle Marche, Milano 2004, in particolare quelli su Macerata e provincia, e su Ascoli Piceno e provincia.
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primi decenni del XIV secolo [Fig. 1]. Intagliato per lo più in pietra bianca, talvolta a contrasto con la calda cromia della cortina in cotto, questo tipo di ingresso è caratterizzato dall’adozione nettamente prevalente dell’arco a pieno centro per la lunetta e da un’accentuata profondità degli sguanci, articolati tanto sugli stipiti quanto nell’archivolto da rincassi multipli, che accolgono colonnine – solitamente tre – variamente intagliate a torciglione, a chevrons o a lacunari. Tali “cordoni” decorativi risalgono dallo zoccolo liscio fino ai capitelli d’imposta, oltrepassandoli per proseguire la loro corsa nel giro della lunetta, occupata per lo più da una specchiatura uniforme, talvolta arricchita da figurazioni pittoriche, più raramente da gruppi scultorei a rilievo o a tuttotondo. A guardia dell’accesso possono essere presenti due leoni poggianti a terra o più spesso su mensole, talvolta con funzione stilofora, come avviene nella collegiata di Visso e nella chiesa di San Francesco a Montegiorgio. Su questo modello, tra la fine del XIV secolo e l’inizio del Quattrocento, si esercitano sperimentazioni formali alimentate dall’introduzione di elementi innovativi di gusto tardogotico; il fenomeno riguarda specialmente gli edifici collocati nei contesti urbani e si inserisce nel processo di sviluppo edilizio che interessa numerosi centri delle Marche con la creazione di nuovi quartieri e l’inclusione di borghi extraurbani tramite l’ampliamento delle cinte murarie, in risposta all’incremento demografico generato dalla favorevole congiuntura economica. Le più significative testimonianze monumentali dovevano spettare in primo luogo alle cattedrali, che tuttavia solo raramente hanno conservato i loro ingressi tardo-medievali, avendo quasi sempre subito ristrutturazioni radicali che ne hanno sacrificato l’aspetto originario, come è accaduto ad Ascoli, Camerino e Macerata. Una significativa eccezione è costituita dal duomo di Fermo, dedicato a Santa Maria Assunta in Cielo ed eretto sul punto più eminente dell’abitato, nel sito anticamente occupato dall’acropoli e divenuto in età medievale il fulcro della vita pubblica, per la contemporanea presenza del complesso episcopale e del Grifalco, sede e simbolo del potere politico, abbattuto dalla popolazione nel 14467. L’aspetto composito e asimmetrico del7 Per la storia di Fermo nel periodo considerato v. G. Liberati, Una città tra due secoli: Fermo e il Fermano dalla fine del ’300 alla metà del ’400, in Il Gotico internazionale a Fermo e nel Fermano. Catalogo della mostra (Fermo, 28 agosto - 31 ottobre 1999), cur. G. Liberati, Livorno 1999, pp. 19-25; Liberati, Fermo: governi, chiesa e società dalla metà del XIV secolo al XVI secolo, in L’aquila e il leone. L’arte veneta a Fermo, Sant’Elpidio a Mare e nel Fermano: Jacobello, i Crivelli e Lotto. Catalogo della mostra (Fermo-Sant’Elpidio a Mare, 24 marzo - 17 settembre 2006), cur. S. Papetti, Venezia 2006, pp. 5-15; F. Pirani,
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l’edificio sacro è frutto di successive riedificazioni, che hanno preservato le strutture medievali solo nella prima campata occidentale della basilica, quasi integralmente ricostruita nel 1781 dall’architetto Cosimo Morelli, su iniziativa del cardinale Andrea Minucci. All’esterno della chiesa, esteticamente caratterizzata dalla bianca cortina muraria in pietra d’Istria, appartengono all’età gotica il prospetto principale e il primo tratto della fiancata meridionale, vestigia in cui si avvicendano le tappe dell’evoluzione del linguaggio plastico applicato all’architettura, partendo dalle forme duecentesche, ancora memori del retaggio romanico padano, per giungere con il XV secolo ad un deciso aggiornamento al gusto tardogotico di impronta adriatica8. Una prima basilica era sorta sul luogo già in età paleocristiana, ma nel 1227, come attesta l’epigrafe murata accanto al portale meridionale9, il magister Giorgio da Como intervenne con un’opera di rinnovamento di cui non si conosce l’effettiva portata, non potendo stabilire se la stessa vada confinata alle sole decorazioni dell’accesso o se sia lecito estenderla all’intera fabbrica. Giorgio, il cui nome è ricordato nella regione in altri edifici coevi, è esponente di una delle numerose e prolifiche maestranze di costruttori padani che si trovarono frequentemente ad operare in terra marchigiana, favoriti in questo specifico caso dall’affermarsi nelle magistrature cittadine di alte personalità di origine lombarda10. Il loro apporto è dichiarato, nel portale minore del duomo, dall’adozione di una tipologia che si distacca da quella più familiare nei monumenti locali, per la strombatura poco accentuata, priva delle consuete cordonature delle colonnine tortili, ma ornata solo da ghiere geometriche e decorazioni fogliacee, di fattura accurata e tecnicamente raffinata. Un inserto caratterizzante è costituito dai fregi scolpiti a rilievo piatto e “metallico” negli stipiti, recanti il motivo classico del tralcio d’acanto corrente, abitato da effigi di santi, animali e creature fantastiche che perpetuano il repertorio simbolico dell’età
Fermo, Spoleto 2012 (Il Medioevo nelle città italiane, 2), con pertinenti notazioni sull’urbanistica e sui monumenti artistici. 8 Sulla produzione scultorea a Fermo e nel territorio circostante v. Massa, La scultura romanico-gotica cit., pp. 189-191; A. Marchi, Gli “sculti monumenti”. Per un catalogo della scultura a Fermo tra Medioevo e Rinascimento, in L’aquila e il leone cit., pp. 55-67; Palozzi, Tra Roma e l’Adriatico cit., pp. 186-194. 9 A.D. M.CC.XX.VII BARTHOLOMEUS. MANSIONARI. HOC. OPUS. FIERI. FECIT. P. MANUS. MAGISTRI. GEORGII. DE[.] EPISCOPATU. COM. 10 L’attività di Giorgio da Como è attestata negli stessi anni presso la cattedrale di Jesi, di cui firma il perduto portale gotico, mentre rimane ipotetica la sua presenza in altre località delle Marche centro-meridionali, v. C. Ranucci, Giorgio da Como, in Dizionario Biografico degli Italiani, 55, Roma 2001, pp. 361-363.
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romanica. Assai diffusa nei corredi ornamentali marchigiani è invece la cornice d’imposta intagliata con file di corolle riavvolte a formare una catena di borchie tondeggianti, motivo definito Ballenblume, derivato anch’esso da modelli antichi mediati dalle botteghe medievali11 [Fig. 2]. Se l’ingresso posto sul fianco laterale presenta forme coerenti e organiche, cui andarono più tardi ad aggiungersi le tre statue ormai trecentesche che nella lunetta compongono l’Imago Pietatis e la svettante ghimberga di coronamento disegnata da una sottile cornice di contorno, il portale del prospetto principale appare come una compagine ibrida di elementi riferibili a periodi e linguaggi differenti, combinati o semplicemente giustapposti tra loro nel corso dei secoli. Partendo dalla zona inferiore, i profondi sguanci scalati in rincassi rettilinei dallo spigolo inciso riprendono le soluzioni del portale minore, similmente concludendosi in alto con capitelli dalla campana liscia, su cui si snoda la cornice d’imposta scolpita con Ballenblume. Di nuovo gli stipiti e la lunetta sono contornati da fregi percorsi da motivi vegetali, qui individuati come tralci vitinei, che nei rilievi dei montanti ospitano figurazioni simboliche della vendemmia, accompagnate da alcuni segni zodiacali e da una varietà di specie animali attentamente descritte [Fig. 3]. Sebbene l’impostazione di base del portale possa essere appartenuta al progetto duecentesco, cui si riferisce l’opera di Giorgio da Como, nella resa esecutiva degli intagli, in particolare per i fregi abitati, le decorazioni del prospetto occidentale abbandonano lo stile arcaico per esprimere un più schietto naturalismo, apprezzabile nell’esattezza della rappresentazione botanica e nella vivacità delle “vignette” scolpite. Anche la teoria di apostoli che affianca il Redentore nel rilievo dell’architrave, pur facendo seguito ad una tradizione prettamente locale di epoca romanica12, denuncia una fattura più avanzata tanto nella forma delle arcatelle ogivali a traforo trilobo che inquadrano ciascun personaggio, quanto nell’andamento svelto e falcato delle figure, destinate in origine a spiccare cromaticamente su un fondo campito a tessere di mosaico, di cui restano esigui frammenti [Fig. 4]. La lunetta, in cui vediamo proseguire tutti gli elementi costitutivi e decorativi dei montanti, appare sovrastata da una riquadratura che si sviluppa in una slanciata ghimberga, orlata da una modanatura composta da file di palmette, volute e gattoni fogliacei. Il timpano triangolare accoglie 11 12
Marchi, Gli “sculti monumenti” cit., pp. 58-59. Nella stessa città di Fermo l’architrave istoriato con figure entro arcatelle è presente nel portale di San Zenone, datato 1186, e in quello di San Pietro, del 1252.
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una nicchia di forma ogivale, nella quale ha trovato posto, nel secolo XVIII, un gruppo bronzeo raffigurante l’Assunta. Il coronamento costituisce l’elemento conclusivo della decorazione e denuncia una fattura tarda sia nella tipologia evoluta della ghimberga sia nell’apparato decorativo, aggiornato al linguaggio fiorito propagato dai modelli adriatici, sebbene un po’ secco e graficamente stilizzato nell’intaglio. La cuspide va a sovrapporsi per un breve tratto al pregevole rosone, intagliato dal maestro Palmerius, il quale firma l’opera apponendovi anche la data, 1348, data del tutto compatibile con l’elegante gusto decorativo e la sottile esecuzione di colonnine scolpite, capitelli figurati e cornici traforate13. La disponibilità dei riferimenti cronologici fissati dalle iscrizioni, pur fornendo dei validi appigli per la definizione della vicenda costruttiva del duomo medievale, non é tuttavia dirimente riguardo alle singole tappe esecutive: è probabile, ma non documentato, che la fase duecentesca testimoniata dall’ingresso laterale dovesse coinvolgere almeno a livello progettuale la ricostruzione dell’intero edificio e comprendere l’impostazione generale della facciata14. Il momento gotico che l’epigrafe del 1348 sembra limitare al rosone, è invece rintracciabile anche nella maturazione stilistica espressa dalle sculture del portale maggiore, come dimostra l’identità lessicale tra lo spinoso Ballenblume corrente sull’architrave e quello utilizzato nell’ornamentazione della rosa15 [Fig. 5].
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13 In una targa murata al di sopra del rosone compare l’iscrizione IN (N)O(M)I(N)E D(OMI)NI MCCCXLVIII / INDI(C)T(IONE) P AD T(EM)P(O)R(E) D(OMINI) CLEM(EN)T(I)S P(A)P(E) / VI HEC ROSA FUIT FACTA T(EM)P(O)R(E) / MURONI OPERARII ECC(LESI)E ISTE; nell’invaso dell’oculo si legge invece M(AGISTER) PALMERIUS FECIT H(OC) OP(US). Si riportano qui le trascrizioni restituite da Palozzi, che riconosce nel maestro uno dei migliori interpreti della cultura gotica medio-adriatica e attribuisce alla sua bottega l’esecuzione dell’architrave figurato, v. Palozzi, Tra Roma e l’Adriatico cit., pp. 186-188. 14 Tanto Zampetti (L’età gotica cit., p. 210) quanto Mariano (Architettura nelle Marche cit., p. 66) assegnano a Giorgio da Como anche l’impostazione e parte dell’esecuzione del portale centrale, mentre Serra (L’arte nelle Marche cit., pp. 199-201) ritiene prevalente la fase trecentesca, seppure ancora condizionata da persistenze romaniche, evidenti a suo avviso nei tralci vitinei. 15 Nella cornice scolpita che delimita il rosone va notata la mutazione cui è sottoposto il motivo decorativo corrente: partendo alla sommità con girali fogliacei avvolti, forse a imitazione del medesimo motivo adottato nel portale romanico e in quello principale, l’intaglio assume gradualmente maggiore naturalezza e si arricchisce di elementi figurati, terminanti di nuovo al culmine del giro con figurine di putti intenti a vendemmiare in rigogliosi pampini. Il disegno della rosa deve il suo aspetto maturo essenzialmente all’infittirsi degli intagli minuti sulle cornici e sulle colonnine radiali, mentre lo schema compositivo resta basato rigorosamente sull’arco a pieno centro.
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Il completamento del portale con l’aggiunta della cuspide gattonata è attribuito al lapicida fermano Nuccio Uzzinelli, di cui risulta scandagliata principalmente l’attività svolta a Zara nei primi anni del Quattrocento, ma che dal 1413 assume la carica di protomagistro del duomo di Fermo16. Il mutamento del gusto in favore della cultura tardogotica di origine veneziana, comune a gran parte del territorio marchigiano verso la metà del XV secolo, è qui da interpretare come logica conseguenza dell’infittirsi delle relazioni, in primo luogo commerciali, tra il territorio fermano e la Serenissima, avviate già nel Duecento e gradualmente estese ai centri della costa balcanica17. Contemporaneamente, emerge dagli studi più recenti una vivace, quasi frenetica circolazione di professionisti e maestranze artistiche, fenomeno che fin dal Trecento coinvolge anche la sponda orientale dell’Adriatico18. Mentre non restano evidenze dell’opera prestata a Fermo, tra il 1404 e il 1410, dal lapicida zaratino Andrea di Giorgio per il convento degli agostiniani, l’evoluzione della cultura artistica adriatica trova la sua più celebre espressione in città nella lunetta scolpita in pietra per il portale dell’ospedale della Congregazione della Carità, poi convertito in Monte di Pietà. La datazione solitamente proposta per l’opera, basata sul rinvenimento di un documento del 1487, colloca il manufatto molto oltre i limiti cronologici stabiliti per la nostra indagine, situandola nell’alveo della cultura adriatica suscitata tra le due sponde dell’Adriatico da artisti quali Giorgio di Sebenico e la sua bottega19 [Fig. 6].
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16 Mariano, Architettura nelle Marche cit., p. 84; I. Petricioli, Fermo e Zara: contatti artistici tra Medioevo e Rinascimento, «Notizie da Palazzo Albani», 4 (1984), pp. 7-16. 17 Sui rapporti con Venezia v. M. Moroni, Fermo, Venezia e l’Adriatico fra XIII e XVII secolo, in L’aquila e il leone cit., pp. 17-27; Mariano, Architettura nelle Marche cit., pp. 8388. 18 Palozzi, Tra Roma e l’Adriatico cit., pp. 190-193. 19 Sul parato rosso del prospetto laterizio spicca il portale, eseguito in pietra d’Istria con inserti di altro materiale lapideo e probabilmente alterato da varie manomissioni. La lunetta è stata assegnata al magistro Iacobo Georgii, tagliapietre schiavone, menzionato in un documento del 1487. Tale data è stata considerata attendibile anche da chi, come Luigi Serra e Adolfo Venturi, ha preferito riconoscervi l’opera di allievi di Giorgio da Sebenico e del gotico fiorito veneziano di metà Quattrocento. Diverso è il parere di Marchi (Gli “sculti monumenti” cit., pp. 62-65), il quale ritiene che una così schietta espressione della cultura gotica, per quanto tarda, sia inconcepibile a questa altezza cronologica persino per le Marche, tanto più che nella stessa Fermo, a pochi anni di distanza, già si realizzavano portali in stile umanistico classicheggiante. A suo avviso la solenne arcaicità della Madonna scolpita nella lunetta ricorda, nella qualità dell’intaglio, le imitazioni dei modelli veneti trecenteschi prodotte in terra dalmata, mentre tanto l’abbigliamento dei devoti, quanto il repertorio decorativo fitomorfo, riportano al secondo quarto del XV secolo, con rimandi alla Porta della Carta del palazzo Ducale di Venezia.
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L’abbinamento tra l’arco strombato a pieno centro e la cuspide con base rettilinea compare di nuovo a Fermo, in una versione estremamente castigata, nel portale realizzato nel 1445 per la chiesa di San Domenico20. L’impiego del cotto in continuità con il rivestimento della facciata sembra dettato dalla volontà di rinuncia alla pur minima ostentazione esornativa. In altri edifici mendicanti delle Marche meridionali, l’istanza della sobrietà non impedisce il ricorso alla pietra bianca e a un moderato dispiego di partiti decorativi. Si vedano ad Amandola, città dell’entroterra maceratese posta ai margini dei Monti Sibillini, i portali in pietra calcarea applicati ai prospetti in mattoni delle chiese di San Francesco e di Sant’Agostino, datati rispettivamente al 1423 e al 146821. Gli ordini mendicanti rivestono un ruolo decisivo nel processo di graduale affermazione dei linguaggi gotici fin dal loro ingresso nel contesto urbano, databile spesso già nel primo Duecento, con una presenza dapprima defilata, cui fa seguito nel corso del secolo successivo la comparsa di nuove sedi in posizioni più centrali, adatte per ampiezza e morfologia alle rinnovate esigenze dell’apostolato urbano. Al pari delle tipologie architettoniche, anche i modelli ornamentali dei portali, elementi di “arredo urbano” cui si affida il compito di trasmettere una pubblica immagine di misura e razionalità, si diffondono secondo canali di circolazione legati alle dinamiche dell’ordine, più che alle contingenze locali22. Ad Ascoli Piceno i frati minori poterono edificare il loro grandioso tempio ai margini della principale piazza cittadina, l’antica platea superior sede
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20 Per il portale di San Domenico a Fermo v. C. Marchegiani, Stile geometrico e gusto optical nell’architettura mendicante marchigiana. Codici del sacro fra Due e Trecento, in Santità e società civile nel Medioevo. Esperienze storiche della santità agostiniana. Atti del convegno (Tolentino, 27-29 ottobre 2004), Tolentino 2005, pp. 103-127. 21 Nella chiesa di San Francesco ad Amandola il portale datato 1423 e firmato dal maestro Marco da Milano è circondato da un fregio continuo di tralci ondulati e sovrastato da una cuspide priva di decorazioni, a eccezione di un oculo a traforo quadrilobo che si apre al centro del timpano. Più complesso è il portale realizzato nel 1486 dal maestro veneziano Marino di Marco Cedrino per la chiesa di Sant’Agostino. La ghimberga si arricchisce di vistosi gattoni fogliacei, mentre sugli stipiti il fregio continuo che percorre l’estradosso della lunetta si interrompe per dare spazio a tabelle figurate con le effigi dei santi eremitani, putti ed emblemi dei calzolai, intervenuti nel finanziamento dell’opera. Sui monumenti di Amandola v. M. Antonelli, Amandola e il suo territorio, Milano 1995. 22 Sulle scelte estetiche e funzionali operate dagli Ordini mendicanti in merito alle loro sedi ecclesiastiche v. Marchegiani, Stile geometrico e gusto optical cit., p. 112; L. Bartolini Salimbeni, Resti monumentali e modelli architettonici francescani fino all’Osservanza, in I Francescani nelle Marche, secoli XIII-XVI, cur. L. Pellegrini - R. Paciocco, Cinisello Balsamo 2000, pp. 124-151; R. de Cadillhac, Insediamenti degli ordini mendicanti nelle Marche: origine e sviluppo dell’architettura francescana, «Studi maceratesi», 43 (2007), pp. 27-56; F. Barbieri, L’architettura degli ordini mendicanti, ibid., pp. 15-26.
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del mercato – l’attuale Piazza del Popolo –, cui ancora oggi fa da sfondo scenografico il fianco meridionale dell’edificio. L’attuale chiesa di San Francesco, originariamente dedicata a San Giovanni Battista, è il risultato di un cantiere plurisecolare, che ebbe inizio con la posa della prima pietra nel 1258 e che nel 1371 vide la consacrazione, in largo anticipo sulla effettiva conclusione dei lavori, giunta soltanto nel corso del XVI secolo23. Il primitivo progetto duecentesco, che le fonti locali legano al nome di Antonio Vipera24, prevedeva forse un edificio meno imponente e originale rispetto a quello poi realizzato, caratterizzato dall’alzato “a sala” e dall’innesto sul corpo longitudinale, scandito in tre navate originariamente coperte a capriate, del complesso blocco orientale, articolato in sette absidi poligonali e sormontato dalla cupola, conclusa tuttavia soltanto nel XVI secolo, al pari delle volte delle navate, mentre quelle del presbiterio e della sacrestia erano previste fin dall’inizio25. Le fonti documentarie indicano intorno al 1262 una sospensione dei lavori, destinati però a riprendere secondo un nuovo progetto, più ambizioso ed evoluto, già alla fine del XIII secolo o all’inizio del successivo. La riapertura del cantiere è stata messa in relazione con un possibile intervento del pontefice Niccolò IV, il francescano Girolamo da Ascoli (12271292), per il quale sarebbe del tutto legittimo ipotizzare una speciale attenzione nei confronti della chiesa minorita della propria città di origine,
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23 Un primo studio monografico sulla chiesa di San Francesco si deve all’abate G. Frascarelli, Memoria ossia illustrazione della basilica e convento dei padri minori conventuali in Ascoli del Piceno, Ascoli Piceno 1855. Per una trattazione esauriente, seppure non sempre condivisibile, delle vicende costruttive dell’edificio, si veda l’ampio saggio di G. Micozzi, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno, in Gli ordini mendicanti nel Piceno, 1, I Francescani dalle origini alla Controriforma, Ascoli Piceno 2002-2003, pp. 176-247, con bibliografia precedente. 24 Soltanto nel XIX secolo, con A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata 1834, la chiesa di San Francesco è attribuita ad Antonio Vipera, altrimenti sconosciuto. Nel codice 22 della Biblioteca Comunale di Ascoli Piceno, si afferma che l’edificio fu iniziato dal «magnifico messere Antonio Vipira con alquanti gintilomini de detta citade»; tale menzione sembrerebbe tuttavia riferirsi ad un committente o benefattore, piuttosto che a un architetto, v. Micozzi, La chiesa di San Francesco cit., p. 234. 25 Sui caratteri architettonici della chiesa di San Francesco v. W. Krönig, Hallenkirchen in Mittelitalien, «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 2 (1938), pp. 1142; Krönig, Note sull’architettura religiosa medioevale delle Marche, in Atti dell’XI Congresso Internazionale di Storia della Architettura (Marche, 6-13 settembre 1959), Roma 1965, pp. 205-232; A. Rodilossi, Ascoli Piceno città d’arte, Modena 1983, pp. 110-114; Atlante del gotico nelle Marche, 2, Ascoli Piceno e provincia, Milano 2004, p. 15; Cappelli, Maestranze, tecniche e materiali, in Atlante dei Beni Culturali cit., pp. 186-189; Marchegiani, Stile geometrico e gusto optical cit., pp. 103-127.
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come del resto paiono confermare i numerosi provvedimenti emanati a favore del convento e della fabbrica26. Ma, se per la definizione dell’impianto architettonico dell’edificio, che per molti aspetti resta privo di confronti nel contesto marchigiano, una cronologia non troppo disgiunta dall’età del primo pontefice minorita rimane accettabile27, al contrario per i tre portali del prospetto principale e per quello aperto sul fianco meridionale una datazione altrettanto alta, proposta da Micozzi sulla scorta di un’interpretazione iconologica di carattere scritturale, non è sostenibile alla luce dei dati stilistici espressi dai corredi scultorei, né appare compatibile con le comuni tempistiche di un cantiere di simile portata. Di certo rientra nelle prime fasi esecutive, entro la metà del XIV secolo, la decorazione del portale laterale aperto sulla platea superior. La superfetazione aggiunta nel XVI secolo come omaggio al pontefice Giulio II, opera di Bernardino di Pietro da Carona del 1509, non impedisce di distinguere la struttura medievale, rispettosa nel disegno complessivo di un modello riproposto con insistenza nelle fondazioni minorite picene dei primi decenni del XIV secolo28 [Fig. 7]. I rincassi multipli della strombatura accolgono su ciascun montante tre colonnine intagliate a torciglione e a spina, risalenti fino al capitello d’imposta, ornato da una duplice fila di foglie ripiegate “a lingua” verso l’esterno. L’insieme è confrontabile con il portale di San Francesco a Montefiore dell’Aso del 1303 e con quello eseguito dal maestro Gallus nel 1325 per il 26
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Sulla presunta committenza del pontefice Niccolò IV per la chiesa minorita di Ascoli v. G. Micozzi, San Francesco in Ascoli Piceno: un’ipotesi di committenza, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca: costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze - Colle di Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), cur. V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 209-220. Sull’attività di promozione artistica di Niccolò IV v. M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, La committenza e il mecenatismo artistico di Niccolò IV, in Niccolò IV, un pontificato tra Oriente ed Occidente. Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del VII centenario del pontificato di NiccolòIV (Ascoli Piceno, 14-17 dicembre 1989), cur. E. Menestò, Spoleto 1991, pp. 193-222; Micozzi, La chiesa di San Francesco cit., pp. 99-201; A. Tomei, La committenza artistica di Niccolò IV, primo papa francescano, «Ikon», 3 (2010), pp. 23-34. 27 Micozzi, La chiesa di San Francesco cit., pp. 237-243, propone confronti con edifici abruzzesi legati alla committenza di Carlo II d’Angiò, in particolare con la chiesa di San Francesco della Scarpa a Sulmona, fondata nel 1290 e con la più tarda chiesa di San Domenico a L’Aquila. 28 Su questo tipo di portali, interpretati come «castissimo monumento a Madonna Povertà» per la loro essenziale semplicità, v. Marchegiani, Stile geometrico e gusto optical cit., p. 111. Per una rassegna delle testimonianze monumentali v. V. Ricci, Per un primo repertorio di portali “francescani” degli inizi del sec. XIV nelle Marche meridionali, in Immagini della memoria storica. Atti del convegno di studi, anno III, (Montalto Marche, 12 agosto 1997), Acquaviva Picena 1998, pp. 125-191.
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San Francesco a Montegiorgio, assai simile anche nei dettagli della decorazione fitomorfa29. A marcare la linea di confine tra la parte inferiore del portale e la lunetta corre la cornice attraversata dal motivo corrente di foglie avvolte già incontrato a Fermo e comune al portale della collegiata di Visso (1324-1332). Il timpano ascolano, rigorosamente semicircolare, fu arricchito in epoca posteriore da pitture di soggetto araldico. Le spallucce che ne sorreggono l’architrave si animano della presenza di quattro figure ferine identificate da iscrizioni incise: l’ASPIS e il LEO sul capitello di sinistra, la LEHENA e il BASILISCUS su quello di destra. Tali creature, collocate all’ingresso del tempio come ammonimento morale, sono altresì visibili nelle chiese francescane di Montefiore, Montegranaro, Visso e Montegiorgio30. Una formulazione più matura, ormai pronta ad accogliere elementi stilistici del gotico tardo, connota i portali scolpiti sulla facciata occidentale, eretta su via del Trivio31. Per il prospetto principale della chiesa fu scelto il semplice schema a terminazione rettilinea, messo a punto in ambito aquilano fin dalla fine del secolo XIII, divenuto poi peculiare degli edifici sacri rinnovati in Abruzzo dalla metà del XIV secolo e qui riproposto nel travertino locale32. Mentre i due ingressi minori della facciata conservano un’estrema semplicità, relegando i discreti motivi di novità negli elementi salienti costituiti dalle colonnine cinghiate e dai soprastanti pinnacoli, nel portale maggiore la complicazione del disegno architettonico, associata alla profusione degli ornati, si pone in deciso contrasto con l’ostentata essenzialità degli
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29 Il portale è imitato in forme più evolute nella chiesa San Salvatore della stessa città di Montegiorgio, su cui v. Montegiorgio nella storia e nell’arte, cur. M. Liberati, Fermo 2008. 30 Micozzi, La chiesa di San Francesco cit., p. 246 nota 235; R. Roiati, Sui portali della Chiesa di San Francesco ad Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 2010, pp. 57-60. 31 Sui portali di facciata della chiesa di San Francesco v. Rodilossi, Ascoli Piceno, città d’arte cit., pp. 110-114; F. Quinterio, Ianua Picena: materia e linguaggio nei fronti degli edifici di Ascoli, dal periodo preimperiale al Novecento, Ascoli Piceno 2004; E. Simi Varanelli, Ascoli Piceno, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1991, pp. 577-580; Atlante del gotico nelle Marche, 2, Ascoli Piceno e provincia, Milano 2004, p. 15; F. Cappelli, Maestranze, tecniche e materiali, in Atlante dei Beni Culturali cit., pp. 186-189; Micozzi, La chiesa di San Francesco cit., pp. 246-246; Massa, La scultura romanico-gotica cit., pp. 187188. 32 I.G. Daniele, L’architettura sacra nell’Abruzzo dei Durazzo: un rinnovamento di facciata, in Universitates e Baronie. Arte e architettura in Abruzzo e nel Regno al tempo dei Durazzo. Atti del convegno (Guardiagrele - Chieti, 9-11 novembre 2006), cur. P.F. Pistilli - F. Manzari - G. Curzi, Pescara 2008 (Mezzogiorno medievale, 5), II, pp. 53-67.
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esempi più antichi [Fig. 8]. Di nuovo troviamo i profondi sguanci articolati in rincassi, i capitelli fusi in un’unica imposta e la lunetta semicircolare, ma ogni singola componente dell’insieme pare sottoposta a un processo di amplificazione. Sale a cinque per lato il numero delle colonnine il cui fusto, liscio nella parte inferiore e per i restanti due terzi intagliato secondo diverse fogge di torsione e scanalatura, appare tripartito da anelli raccordati tra loro. L’incavo che intacca i cilindri li fa somigliare a canne d’organo34 [Fig. 9]. Un fregio scolpito a bassorilievo con un tralcio vegetale corrente, ornato da grandi corolle a cinque petali, attornia per intero il profilo del portale, avvolgendolo in una ideale ghirlanda floreale, generata in basso da vasi a due anse e raccolta alla sommità dello stipite da una testa bovina. Al centro del fregio che orla la lunetta compare l’Agnus Dei, recante la croce. Il portale è concluso ai lati da elementi architettonici aggettanti che creano una spazialità allusiva ad un protiro. Alla base troviamo su ciascun lato una colonnina deputata a sorreggere una mensola su cui sta accovacciato un leone, il cui corpo emerge per metà dalla parete. Sul dorso di ciascuna fiera si innalza una seconda colonna profondamente intagliata con motivi a losanga, saliente fino al livello d’imposta, dove il capitello si salda a quello dei montanti. Da qui si dipartono due pinnacoli composti da quattro dadi sovrapposti, separati da cornici sporgenti e coronati dalle statue di san Francesco e sant’Antonio da Padova [Fig. 10]. Al centro svetta, a coronamento del timpano, l’alta ghimberga definita da una cornice intagliata con motivi stellati e impreziosita da crochets spiraliformi, che in due punti sono sostituiti da rosette. Un oculo quadrilobo ingentilisce il gâble, sulla cui sommità compare il busto dell’Eterno benedicente, recante in mano il libro aperto. Siamo di fronte ad una soluzione decorativa, adottata anche in altri portali marchigiani a partire dal primo Quattrocento, per la quale sono stati additati modelli emiliani, veneti e abruzzesi. È soprattutto a questi ultimi, esemplati dai portali del Sant’Agostino a Sulmona (1315) e del duomo di Teramo (1332-1335)35, 33
Lo stesso può dirsi per gli sfarzosi portali scultorei tre-quattrocenteschi, degni piuttosto di una cattedrale, delle chiese di Pesaro, Ancona, Tolentino, v. Marchegiani, Stile geometrico e gusto optical cit., p. 112. 34 Il motivo delle colonnine cinghiate richiama i portali di area teramana e compare, con un’analoga tripartizione dei fusti fantasiosamente intagliati, in Santa Maria Maggiore a Lanciano, risalente al 1317. 35 I.C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, Roma 1927-1928, II, p. 210. Sul portale del duomo di Teramo, opera del maestro Diodato, v. F. Aceto, Il portale maggiore, in Teramo e la Valle del Tordino, Teramo 2006 (Documenti dell’Abruzzo teramano, 7), II, pp. 13-19.
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che conviene rivolgersi per istituire paragoni stilisticamente calzanti, in quanto vi si ritrovano, a un’altezza cronologica piuttosto precoce, quegli elementi del gotico maturo, quali le colonnine cinghiate e intagliate a chevrons, le terminazioni cuspidate e i gattoni, che nel San Francesco di Ascoli compaiono elaborati con maggiore libertà inventiva – si pensi al singolare alloggiamento dei leoni stilofori o alla raffigurazione dei santi dell’Ordine sui pinnacoli – e con un inconsueto fasto ornamentale36. Il portale ascolano fu imitato, prendendo spunto anche dalle forme semplificate degli accessi laterali, nell’ingresso della chiesa di San Francesco ad Amatrice in Sabina, databile sullo scorcio del XIV secolo. Eseguito a conclusione di un cantiere avviato nel pieno Trecento, il portale sembra voler platealmente dichiarare, nell’esplicita ripresa del modello piceno, l’adesione all’autorità ecclesiastica territoriale rappresentata dalla Diocesi di appartenenza37. I tratti innovativi riscontrati nel portale di Ascoli supportano una datazione del monumento nella seconda metà del XIV secolo, ipotesi già avanzata da Serra38 e storicamente confermata dalla consacrazione del 1371, che può essere assunta come termine ante quem per l’esecuzione. Tale impresa artistica andrebbe dunque a collocarsi in un frangente politico ed economico favorevole alla creazione delle condizioni culturali di contatto e scambio con le aree limitrofe. Alla fine del Medioevo la città si trovava ben inserita entro un sistema di comunicazioni sviluppato tanto sul versante adriatico, quanto nell’entroterra appenninico, potendosi avvalere della via Salaria come collegamento del Piceno con la Sabina e l’Abruzzo. Il fiorire delle attività manifatturiere e commerciali favoriva inoltre le relazioni
36 Di nuovo alla chiesa di Sant’Agostino a Sulmona è utile guardare per un confronto con i torricini innalzati sul portale di Ascoli, poiché questi ultimi, nella loro relativa sobrietà, rimandano agli esempi abruzzesi, piuttosto che a quelli di area veneta. Per i nuovi portali che negli ultimi decenni del Trecento e nei primi del Quattrocento furono in molti casi aggiunti a prospetti preesistenti per rinnovare l’aspetto delle chiese urbane v. Daniele, L’architettura sacra nell’Abruzzo dei Durazzo cit., pp. 53-67. 37 Evidenziate da G. Carbonara, Gli insediamenti degli ordini mendicanti in Sabina, in Lo spazio dell’umiltà. Atti del convegno di studi (Fara Sabina 1982), Fara Sabina 1984, pp. 123-223: 213 nota 46, le affinità tra il portale maggiore di San Francesco ad Ascoli e l’omonima chiesa di Amatrice sono approfondite da F. Gangemi, Ai confini del Regno: l’insediamento francescano di Amatrice e il suo cantiere pittorico, in Universitates e Baronie cit., II, pp. 93-118. 38 Serra, L’arte nelle Marche cit., I, pp. 192-196. L’ipotesi di una datazione nella seconda metà del Trecento era stata avanzata anche da Toesca, che riscontrava relazioni tra il portale centrale di Ascoli e quelli di San Francesco e San Domenico a Pesaro, v. P. Toesca, Il Medioevo, I, Torino 1927, p. 732.
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a medio e lungo raggio, generando un cospicuo afflusso di forestieri, provenienti soprattutto da altre regioni della penisola, ma anche da centri dell’Europa settentrionale e balcanica39. Lo stesso fenomeno investiva nel frattempo il vicino territorio della Marca Camerte, dove i signori da Varano, tra il XIII e il XV secolo, dopo aver affermato la propria supremazia nella città di Camerino, avevano acquisito e consolidato un vasto dominio collocato in posizione di strategica centralità rispetto alla rete delle comunicazioni medio-adriatiche. Le capacità militari dimostrate dalla famiglia e il favore accordato dalla Curia di Roma, espresso con l’affidamento dei vicariati, facevano sì che alla frammentazione politica delle aree costiere si potesse contrapporre nell’entroterra una compagine relativamente stabile e di inconsueta estensione. È in questo frangente che l’economia camerinese va incontro ad uno straordinario exploit basato sullo sviluppo dell’industria tessile, i cui prodotti, apprezzati ben al di là dell’orizzonte regionale, tramite la mediazione di Venezia raggiungevano i mercati nord-europei e contemporaneamente attraevano nelle fiere locali la clientela d’Oltralpe40. All’inizio del Quattrocento, la presenza forestiera di origine germanica è finalmente avvertibile anche nella produzione artistica, manifestandosi in alcuni centri della Marca Camerte con interventi di rinnovamento attuati sui prospetti di edifici preesistenti. Il caso più noto riguarda la pieve di San Ginesio, centro urbano di media grandezza posto ai margini dei Monti Sibillini, in cui nel 1421 il maestro bavarese Herrigo de Japicho progettò e mise in opera un nuovo paramento in cotto destinato a rivestire la porzione superiore della facciata originaria della chiesa, introducendo nel contesto urbanistico della piazza una nota “esotica” di impronta internazionale capace di evocare i paesaggi nordeuropei41. 39 G. Pinto, Mercanti, prestatori e artigiani forestieri ad Ascoli (secoli XIII-XVI), in Stranieri e forestieri nella Marca dei secc. XIV-XVI, «Studi maceratesi», 30 (1996), pp. 175189; E. Di Stefano, La città di Ascoli nel quadro dell’economia e della società dell’Italia centrale tra il secolo XI e il secolo XIV, in Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno, città del travertino, Ascoli Piceno 2006, pp. 17-19. 40 E. Di Stefano, Una città mercantile. Camerino nel tardo medioevo, Camerino 1998, pp. 27-29. 41 Per il “frontespizio” realizzato dal maestro Herrigo per la pieve di San Ginesio e il significato di tale intervento nel contesto cittadino v. il contributo di P.F. Pistilli in questo stesso volume. Un esame dettagliato del manufatto è in G. Corso, Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali, in La chiesa collegiata di San Ginesio. Una storia ritrovata, cur. P.F. Pistilli - D. Frapiccini - R. Cicconi, San Ginesio 2012 (Centro internazionale di studi gentiliani. Quaderni, 4), San Ginesio 2012, pp. 123-157, con bibliografia precedente.
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Un episodio meno clamoroso, ma per molti aspetti analogo, si incontra nella vicina città di Sarnano, situata sulle colline maceratesi, alle pendici dei monti Sibillini42. Nei primi decenni del XV secolo, sulla facciata in cotto della chiesa di Santa Maria di Piazza Alta compare un portale lapideo che dichiara già a un esame sommario la sua estraneità alla tradizione plastica locale. Sorta nel corso del Duecento come presidio dell’abbazia benedettina di Piobbico, nei secoli seguenti la chiesa aveva acquisito un ruolo preminente nel contesto cittadino, forse anche in virtù della collocazione sulla piazza principale, in un ideale confronto con le sedi delle magistrature comunali. L’edificio conserva ancora l’impianto medievale, ma tanto nella struttura architettonica quanto nella veste decorativa appare contraffatto da ripetute manipolazioni, culminate con un ampio restauro di ripristino che allo scadere della Seconda Guerra mondiale eliminò tutte le sovrastrutture barocche, con l’intento di recuperare l’aspetto ritenuto originario43. Le manomissioni compromisero in parte anche il portale scolpito, con l’eliminazione di un protiro a sua volta costruito in sostituzione di una struttura medievale perduta, da cui provengono i leoni stilofori e altri elementi erratici attualmente murati nel prospetto44. Inoltre, le evidenti riscritture della muratura laterizia lungo i margini e alcune incongruenze nell’iconografia delle sculture, fanno sospettare lo smantellamento del monumento, seguito da una ricomposizione non impeccabile [Fig. 11]. Il portale, realizzato in pietra calcarea, si presenta leggermente strombato, contornato lungo gli stipiti e intorno alla lunetta da una tripla ghiera entro cui sono alloggiate due colonnine, lisce nella parte inferiore e intagliate lungo il fusto con motivi avvolgenti di racemi fioriti, stelle, elementi
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Sulla storia di Sarnano v. G. Pagnani - G. Gentili - A. A. Bittarelli, Sarnano. Santa Maria di Piazza Alta, Recanati 1979, pp. 9-21; G. Pagnani, Sarnano. Lineamenti storici, Sarnano 1984; E. Di Stefano, Dinamica del popolamento di una comunità dell’Appennino centrale. Sarnano nei secoli XIII-XVI, Ancona 1994. pp. 53-68. Una straordinaria raccolta di trascrizioni archivistiche ed epigrafiche, di notizie e di osservazioni critiche, è costituita dalle schede manoscritte compilate dall’erudito Giacinto Pagnani, consultabili presso la Biblioteca Comunale di Sarnano. 43 L’impianto a navata unica absidata e coperta a capriate, con presbiterio sopraelevato sulla cripta, segue una tipologia molto diffusa nella regione. Notizie dei restauri effettuati dal prof. Mariano Gavasci alla fine della Seconda Guerra mondiale vennero tempestivamente trasmesse alla stampa locale, v. A.A. Bittarelli, Sarnano, il tempio ritrovato, «L’Appennino Camerte», 10 novembre 1945, p. 2; Bittarelli, Sarnano, restauri in Collegiata, ibid., 14 settembre 1946, p. 2. 44 L’esistenza del protiro è documentata da una fotografia del 1930, conservata presso la Biblioteca Comunale di Sarnano,
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fogliacei o lacunari geometrici. Le campane dei capitelli appaiono fuse tra loro e decorate da tralci con grappoli o da foglie di quercia profondamente incise, cui si sovrappone l’abaco costituito da due listelli che racchiudono una fila continua di piccole bugne [Fig. 12]. Qui si imposta la lunetta dal profilo archiacuto molto compresso, addirittura “espanso” nel profilo dell’estradosso, percorso dalle medesime foglie di quercia accartocciate, che al culmine si trasformano in una nube stilizzata, da cui fuoriesce a mezzobusto la figura del Redentore. Una nuvola in tutto simile accoglie, poco più in basso, una seconda raffigurazione di Dio Padre che sostiene Cristo inginocchiato e l’animula di Maria. Lo specchio della lunetta è interamente occupato da un bassorilievo in pietra calcarea raffigurante la Dormitio Virginis, con il compianto degli apostoli sul corpo della Vergine appena spirata45 [Fig. 13]. Benché l’inconsueta forma della lunetta, l’originalità del corredo ornamentale e la vistosa eccezionalità del timpano istoriato conferiscano al portale un aspetto quanto meno singolare, il monumento è rimasto ignorato nei lavori di Serra e Zampetti dedicati all’arte marchigiana, ricevendo attenzione soltanto da Bittarelli, il quale, ravvisandovi elementi “bizantineggianti”, ne proponeva una fuorviante datazione intorno al 130046. Solo di recente un’attenta analisi del manufatto, condotta nell’ambito di un più ampio studio sulle presenze straniere nell’area medio-adriatica, ha permesso a chi scrive di inquadrare l’opera nelle coordinate culturali del gotico internazionale47. Gli aspetti formali ed esecutivi presentano infatti evidenti affinità con il prospetto ideato dal maestro bavarese per la pieve di San Ginesio, pur nella difformità dei materiali utilizzati48, al punto da poter avanzare anche per Sarnano l’intervento di una maestranza germanica. Riguardo poi al 45 Un’osservazione ravvicinata degli elementi scolpiti raffiguranti il Redentore e il gruppo con l’Eterno permette di spiegare l’incongruenza iconografica costituita dall’apparente omissione della figura di Cristo disceso ad accogliere l’anima della Madre. I due blocchi appaiono fissati alla lunetta con un intervento estemporaneo e disarmonico, indizio di una manomissione che avrebbe comportato un’inversione dei pezzi. La sommità dell’arco avrebbe pertanto dovuto accogliere l’Eterno con il Figlio e la Vergine, mentre l’effige isolata di Cristo si sarebbe trovata più in basso, presso il compianto, come pare indicare la torsione del busto e lo sguardo indirizzato al volto della Madre. 46 Bittarelli, Macerata e il suo territorio cit., p. 92; Simi Varanelli, Marche - scultura cit., p. 190. 47 Corso, Il frontespizio tardogotico cit., pp. 145-153. 48 Nel corredo ornamentale delle colonnine e dei capitelli troviamo lo stesso repertorio di foglie di quercia rigonfie, tralci correnti e stelle che ingentiliscono il frontespizio “teutonico” della pieve di San Ginesio, dove però i moduli decorativi sono forgiati in terracotta.
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rilievo della lunetta, estraneo per il suo contenuto narrativo ai canoni della coeva scultura monumentale marchigiana, esso propone uno dei temi maggiormente ricorrenti nei portali istoriati in area tedesca, segnatamente in Svevia e in Baviera, dove gli scultori del circuito parleriano, nella seconda metà del Trecento, diffondono una fortunata tipologia di timpani fittamente illustrati con ampli cicli mariani49. La DormitioVirginis di Sarnano condivide con le opere citate la concitazione drammatica e la commossa espressività dei personaggi, mentre il linguaggio plastico, qui risolto nel rilievo compresso e schiacciato delle figure, che si accalcano ingolfando lo spazio disponibile, è quanto mai lontano dalla virtuosistica minuzia e dalla vivacità narrativa dei portali di Schwäbisch-Gmünd, Ulma, Friburgo, Augusta o Thann. Analoghe testimonianze della diffusione della scultura narrativa di marca parleriana in forme corsive e ibride che ricordano, o meglio, anticipano l’episodio di Sarnano, compaiono lungo la direttrice levantina che collegava la Mitteleuropa con l’Italia adriatica. Negli anni 1395-1396, presso il duomo di Udine, una bottega di lapicidi della Germania meridionale è impegnata a decorare l’ingresso del transetto meridionale con un portale lapideo in cui si dispiega il medesimo lessico ornamentale composto di foglie “globulari”, rosette e tralci vitinei, mentre la scena dell’Incoronazione della Vergine che occupa la lunetta ogivale condivide con il rilievo marchigiano la mescolanza tra un vocabolario figurativo moderno e una sintassi incerta, con esiti di apparente arcaismo. La dislocazione del portale di Udine, al pari della presenza di alcune sculture architettoniche di natura simile nella basilica di Aquileia, permette di individuare nei percorsi viari orientali, passanti dal Brennero verso il Friuli e il Veneto, i canali di penetrazione del linguaggio artistico nordico all’interno della penisola50. Non è di certo casuale la coincidenza con i dati geografi49 Ne sono esempio il portale meridionale del duomo di Augusta e quello sud-occiden-
tale di Schwäbisch Gmünd, da annoverare tra le più rappresentative manifestazioni di una corrente artistica tradizionalmente considerata minoritaria nell’ambito della produzione parleriana, ma restituita da studi recenti alla sua effettiva complessità, v. B. Schock Werner, Parler, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IX, Roma 1998, pp. 227-232; A. Pinkus, Patrons and Narratives of the Parler School. The Marian Tympana 1350-1400, München 2009 (Kunstwissenschaftliche Studien, 151). 50 La lunetta, coronata dai tipici gattoni a foglia di quercia e grappoli d’uva, è arricchita da statuine di santi nell’intradosso e dai personaggi dell’Annunciazione ai lati, mentre l’architrave è istoriato con le scene della Strage degli Innocenti. Nonostante la consunzione del modellato, punti di contatto con la Dormitio marchigiana sono riscontrabili nelle fisionomie delle figure, nelle grosse mani, nei singolari panneggi appiattiti in pieghe sovrapposte dagli orli ondulati. Su questo monumento e sulle sculture parleriane presenti nella basi-
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ci relativi alla diffusione del Vesperbild, l’immagine plastica della Pietà che risponde a una specifica tipologia di scultura devozionale di origine germanica, destinata a grande fortuna in territorio veneto e nelle Marche meridionali tra le fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento51. Non è dato conoscere le particolari circostanze storiche in cui la chiesa di Santa Maria di Piazza Alta venne dotata del suo portale “teutonico”, ma da una parte le notizie relative a lavori di rinnovamento delle strutture architettoniche negli ultimi anni del XIV secolo, dall’altra l’analogo episodio datato della collegiata di San Ginesio suggeriscono di fissare al principio del Quattrocento il momento più propizio per la comparsa del nuovo portale, a nobilitare e aggiornare l’aspetto del luogo sacro, insieme manifestando nella più prestigiosa piazza pubblica la speciale consonanza con la temperie socio-culturale della città52. Nel piccolo borgo dei Sibillini, come nelle civitates majores di Fermo e Ascoli, l’esigenza di conferire il massimo risalto estetico e monumentale al fulcro costituito dal punto d’incontro e compenetrazione tra l’esterno e l’interno del luogo di culto, spinse i fabbriceri a sperimentare forme innovative e ad accogliere elementi linguistici estranei alla tradizione locale, mentre la complessità dei cantieri, protrattisi talvolta per numerosi decenni, può restituire nella concentrazione di un solo manufatto l’intera evoluzione dello stile gotico adottato di volta in volta dai lapicidi, rispecchiando
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lica di Aquileia, v. M. Walcher, Il Gotico, in La scultura nel Friuli-Venezia Giulia, 1, Dall’epoca romana al Gotico, cur. M. Buora, Pordenone 1988, pp. 311-375: 358-364 e G. Tigler, Scultori itineranti o spedizioni di opere? Maestri campionesi, veneziani e tedeschi nel Friuli gotico, in Artisti in viaggio 1300-1450. Presenze foreste in Friuli - Venezia Giulia. Atti del convegno (Passariano, 15-16 novembre 2002), cur. M.P. Frattolin, Udine 2003, pp. 121-168: 161-168. 51 È probabile che l’episodio figurativo della Dormitio Virginis sia da porre anche in relazione con la produzione dei Vesperbilder medio-adriatici, gruppi scultorei di produzione semiseriale nei quali si riscontrano spesso le semplificazioni plastiche, gli schematismi e le durezze che caratterizzano il rilievo della lunetta di Sarnano. Non è forse azzardato supporre una correlazione, se non proprio una continuità dei rispettivi ambiti di produzione, che nel campo della scultura devozionale si individuano in botteghe di plasticatori germanici trasferitisi nei centri medio-adriatici a partire dalla fine del Trecento e gradualmente assimilati al gusto locale, v. W. Körte, Deutsche Vesperbilder in Italien, «Kunstergeschichte Jahrbücher Bibliotheca Hertziana», 1 (1937), pp. 1-138; A. Castri, “In virginis gremium repositus”: dall’archetipo del “Vesperbild” alla “Bella Pietà”; un “excursus”, non solo alpino, in Il gotico nelle Alpi: 1350-1450. Catalogo della mostra (Trento, 20 luglio - 20 ottobre 2002), cur. E. Castelnuovo - F. de Gramatica, Trento 2002, pp. 170-185. 52 Nell’anno 1396 l’abate di Piobbico, che ancora deteneva la chiesa, fece erigere la torre campanaria, posta sulla cappella terminale. Non si conservano altre notizie nelle fonti storiche riguardanti la chiesa, v. Pagnani - Gentili - Bittarelli, Sarnano cit., pp. 9-21.
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le dinamiche lavorative delle maestranze e i mutamenti del gusto. Ăˆ dunque la stessa peculiare condizione storica e culturale delle Marche, e specialmente delle terre meridionali, incapaci di esprimere una scuola artistica territoriale nettamente caratterizzata, ma aperte e permeabili alle proposte esterne, la realtĂ che si riflette nei prospetti degli edifici e nei loro portali, frutto di un dialogo fra tradizione e innovazione, che non esclude qualche imprevista digressione.
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Fig. 1 - Visso, collegiata di Santa Maria, portale
Fig. 2 - Fermo, cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo, portale meridionale
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Fig. 3 - Fermo, cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo, portale maggiore
Fig. 4 - Fermo, cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo, portale maggiore, particolare
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Fig. 5 - Fermo, cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo, rosone
Fig. 6 - Fermo, portale del Monte di Pietà (già Ospedale di Santa Maria della Carità)
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Fig. 7 - Ascoli Piceno, San Francesco, portale meridionale
Fig. 8 - Ascoli Piceno, San Francesco, prospetto occidentale
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Fig. 9 - Ascoli Piceno, San Francesco, portale maggiore, particolare
Fig. 10 - Ascoli Piceno, San Francesco, portale maggiore, particolare
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Fig. 11 - Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale
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Fig. 12 - Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale, particolare
Fig. 13 - Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale, particolare
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Un signore lombardo, uno scultore romagnolo e un sepolcro “alla veneziana” nelle Marche del Trecento: Bonaventura da Imola e l’Arca di Giovanni Visconti da Oleggio nel Duomo di Fermo
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Nell’autunno del 1361, nella sua nuova, magnifica residenza di caccia di Pandino, tra i boschi della Gera d’Adda1 – dove s’era rifugiato per sfuggire alla peste che infieriva su Milano e da dove si recava cotidie ad venationem aprorum, come scriveva il 16 ottobre in una lettera indirizzata a Ugolino Gonzaga2 – Bernabò Visconti riceveva il vescovo di Fermo, per perfezionare con lui gli accordi di pace avviati fin dall’anno precedente con papa Innocenzo VI in merito alla questione di Bologna3, la fiorente città emiliana che, contro le rivendicazioni della Santa Sede, l’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti, zio di Bernabò e signore della metropoli lombarda dal 1339 al 1354, aveva acquistato nell’ottobre del 1350 dalla famiglia Pepoli4, per poi affidarne il governo a un suo familiare, il nobile nova-
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1 Sul castello di Pandino, eretto nel 1355/60 circa, durante i primi anni della signoria di Bernabò Visconti (1354-1385) cfr. G. Albini - F. Cavalieri, Il castello di Pandino. Una residenza signorile nella campagna lombarda, Cremona 1986; G.A. Vergani, L’arca di Bernabò Visconti al Castello Sforzesco di Milano, Cinisello Balsamo 2001, pp. 31-34. A quest’ultimo contributo (in particolare pp. 17-39) si rimanda anche per una sintesi aggiornata e in buona parte inedita sulla figura dello stesso Bernabò Visconti e sulla sua attività di costruttore e committente artistico. 2 Mantova, Archivio di Stato (d’ora in poi ASMn), A.G. 1603, fasc. 3, n. 136 (parzialmente pubblicato in Albini - Cavalieri, Il castello di Pandino cit., p. 97). 3 Sull’incontro cfr. F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, Milano 1955, p. 416. 4 Sulla questione dell’acquisto di Bologna da parte dell’arcivescovo Giovanni Visconti e il conseguente scontro con la Santa Sede cfr. B. Corio, Storia di Milano, ed. A. Morisi Guerra, Torino 1978, I, pp. 760-813; G. Biscaro, Le relazioni dei Visconti con la Chiesa, Innocenzo VI, «Archivio Storico Lombardo», 25 (1937), p. 120; Cognasso, L’unificazione cit., pp. 332-347; Cognasso, I Visconti, Milano 1966, pp. 202 ss. Acquistata il 16 ottobre 1350 per 170.000 fiorini da pagarsi in due anni, Bologna venne subito occupata dalle truppe milanesi capeggiate da Galeazzo II Visconti, nipote dell’arcivescovo Giovanni, al quale il Consiglio del popolo conferì il 24 ottobre la signoria della città, scatenando dure reazioni da parte della curia pontificia, che, dopo aver pubblicato un violento monitorio contro l’arcivescovo di Milano (18 novembre 1350), il 4 febbraio 1351 provvide a scomunicarlo
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rese Giovanni Visconti da Oleggio5. Il quale, però, dopo avervi imposto un regime tirannico e nepotistico, se n’era infine impadronito il 17 aprile del 1355, pochi mesi dopo la morte dell’arcivescovo, facendosi eleggere signore della città 6 e sottraendola così al controllo dei di lui nipoti e nuovi signori di Milano (i fratelli Matteo II, Galeazzo II e Bernabò Visconti), con i quali aveva da tempo rapporti assai tesi, probabilmente a motivo delle diverse relazioni e opportunità maturate durante gli anni della signoria congiunta di Giovanni e Luchino Visconti (1339-1349)7. Quest’ultimo, infatti, se da un lato, temendone le aspirazioni dinastiche, aveva osteggiato e perseguitato i nipoti, costringendoli infine all’esilio8, dall’altro aveva invece favorito l’Oleggio, un parente di scarsi mezzi nato intorno al 1300 nel borgo di Oleggio Castello9, nel Novarese, rimasto
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insieme con i nipoti Matteo, Galeazzo e Bernabò, per rimangiarsi però la scomunica negli anni successivi, grazie alla mediazione del re di Francia e all’abilità diplomatica di Giovanni Visconti, che nel 1353 riuscì addirittura a ottenere il vicariato pontificio sulla città per i successivi dodici anni. 5 Giovanni Visconti da Oleggio entrò a Bologna il 14 aprile 1351 come Capitano del Popolo, carica che l’arcivescovo di Milano aveva creato appositamente per lui: cfr. Cognasso, L’unificazione cit., p. 338. 6 Sul capitanato e sulla signoria di Giovanni Visconti da Oleggio a Bologna tra il 1351 e il 1360 cfr. P. Azario, Liber gestorum in Lombardia et precipue per et contra Dominos Mediolani Chronicon de gestis principum Vicecomitum ab anno MCCL usque ad annum MCCCLXII, ed. F. Cognasso, in R. I. S.2, 16/4, Bologna 1939, pp. 54-80; L. Frati, Documenti per la storia del dominio visconteo in Bologna, «Archivio Storico Lombardo», ser. II, 16/6 (1889), pp. 311-334; Frati, La congiura contro Giovanni Visconti da Oleggio, ibid., 20/10 (1893), pp. 341-350; L. Sighinolfi, La signoria di Giovanni Visconti da Oleggio (1355-1360), Bologna 1905; Cognasso, L’unificazione cit., pp. 338-407; C. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti da Oleggio e l’attività di Bonaventura da Imola. Ricerche su un monumento trascurato e su uno scultore dimenticato del Trecento marchigiano, tesi di laurea, Università degli Studi di Macerata, a.a. 2004-2005, relatore prof. Graziano Alfredo Vergani, pp. 9-15. 7 Per avere la misura della tensione che aleggiava da anni nelle relazioni tra l’Oleggio e i tre nipoti di Luchino Visconti basta leggere l’attenta ricostruzione delle vicende milanesi del periodo tracciata da Cognasso, L’unificazione cit., pp. 285-407. 8 Sui rapporti tesi tra i fratelli Matteo, Galeazzo e Barnabò Visconti – orfani di Stefano Visconti, fratello minore di Luchino, morto improvvisamente nel 1327 – e lo zio Luchino che, vedendo in essi una minaccia per il quieto passaggio della signoria ai propri discendenti diretti, tra il 1346 e il 1347 li costrinse a prendere la via dell’esilio, da cui poterono rientrare a Milano solo nel 1349, dopo la sua morte, cfr. Lamento funebre di Bernabò Visconti, in Lamenti storici dei secoli XIV, XV e XVI, edd. G.C. Medin - L. Frati, I, Bologna 1887, pp. 78-79 (stanze 19-20); Corio, Storia di Milano cit., I, pp. 760-762; D. Muratore, Bianca di Savoia e le sue nozze con Galeazzo Visconti, «Archivio Storico Lombardo», ser. II, 24 (1907), pp. 33-34; Azario, Liber gestorum cit., p. 49; Cognasso, L’unificazione cit., pp. 323326; Cognasso, I Visconti cit,, pp. 196-199; Vergani, L’arca di Bernabò cit., p. 20. 9 Cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 4, n. 2.
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orfano giovanissimo e quindi giunto a Milano verso il 1330 per porsi sotto l’ala protettrice di Giovanni Visconti10; il quale, dopo averlo avviato alla carriera ecclesiastica, nel 1335 lo aveva dispensato dai voti, ammogliato alla nobile Antonia Benzoni di Crema e indirizzato, con il sostegno di Azzone prima e di Luchino poi, nei ruoli politico-amministrativi e militari, in cui il novarese si era ben presto distinto, ottenendo la podesteria di varie città del dominio (Novara, Como, Brescia, Asti) e la nomina nel 1347 a Capitano Generale delle truppe viscontee11. Se il colpo di mano avvenuto a Bologna nel 1355 si spiegava dunque nell’ottica delle ambizioni personali e dei contrasti interni al casato visconteo, conseguenza ne era stato lo scatenarsi di un conflitto che aveva mobilitato l’intera Italia settentrionale e che si era risolto in prima battuta nel 1360 con la sconfitta dell’Oleggio12. Il quale, tuttavia, forte dell’appoggio di un nuovo potentissimo protettore, il cardinale Egidio Albornoz, legato pontificio in Italia e acerrimo oppositore dei sogni egemonici dei Visconti sulla penisola, era riuscito a contrattare un’onorevole uscita di scena, ottenendo dal papa, in cambio della cessione di Bologna, la concessione della signoria di Fermo e il rettorato della Marca13. Ciò spiega l’arrivo a Pandino, nel 1361, del vescovo fermano, mandato dall’Albornoz a perfe10
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Per una ricostruzione della figura di Giovanni Visconti da Oleggio e i suoi rapporti con i signori di Milano, in particolare con l’arcivescovo Giovanni e con Bernabò cfr. Frati, Documenti cit.; Frati, La congiura cit.; Sighinolfi, La signoria cit.; Azario, Liber gestorum cit., passim; Cognasso, L’unificazione cit., pp. 332-407; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 4-28. 11 Per una sintetica ma efficace ricostruzione della carriera e degli avvenimenti che interessarono la vita dell’Oleggio in questi anni cfr. da ultimo Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 5-8 (con bibliografia). 12 Cfr. Frati, Documenti cit., pp. 345 sgg.; Sighinolfi, La signoria cit., p. 47; Azario, Liber gestorum cit., pp. 80-87; Cognasso, L’unificazione cit., pp. 380-407; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 11-15. 13 Dell’atto di concessione della signoria di Fermo a Giovanni Visconti da Oleggio si è conservata una copia nell’Archivio di Stato di Fermo (d’ora in poi ASFe-AC), Fondo diplomatico Hubert, n. 266, pubblicato da G. De Minicis, Eletta dei monumenti più illustri di Fermo e suoi dintorni, Fermo 1857, pp. 20-3. Oltre alla concessione della signoria di Fermo e del rettorato della Marca, l’Oleggio otteneva un appannaggio annuo di 12.000 fiorini, pagati dalla Camera Apostolica, e in aggiunta la facoltà di raccogliere ad sui libitum voluntatis tutte le taglie, i redditi e i proventi dalla città e dal contado, secondo le stime fissate. Da parte sua il cardinale Albornoz gli elargiva 80.000 ducati per provvedere allo stipendiamento della corte, dei funzionari e dell’esercito, mentre concedeva in feudo a sua moglie, Antonia Benzoni di Crema, i castelli di Grottammare e di Marano, che si andavano ad aggiungere a quello di Dozza, presso Imola, che lo stesso cardinale aveva concesso alla donna nel luglio 1359 come ricompensa per il servizio reso dal marito nella riconquista di Forlì da parte della Santa Sede (cfr. F. Filippini, Il cardinale Egidio Albornoz, Bologna 1933, p. 199).
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zionare da un lato gli accordi di pace tra il papa e Bernabò – che non aveva accettato l’occupazione di Bologna da parte della Chiesa ed era perciò rimasto in armi, rivendicando per sé il vicariato sulla città, forte dell’investitura concessa nel 1353 dallo stesso pontefice all’arcivescovo Giovanni Visconti14 – ma dall’altro anche, probabilmente, a trattare la sospensione di ogni ostilità tra lo stesso Bernabò e l’Oleggio15. Comunque sia, entrato in città e insediatosi nel palatium magnum eretto sul Girfalco16, durante i sei anni della sua signoria fermana, protrattasi dal 1360 al 1366, Giovanni Visconti da Oleggio, «forse istrutto dalle passate vicende della sua vita crudele e tirannica», come scriverà di lui il Morbio nel 1841, «tranquillo e umano mostrossi (..), governando città e provincia con ogni maniera di sagge istituzioni e mostrandosi assai curante del bene universale»17. Per la verità non sappiamo se le cose siano andate veramente così. Alla ricca documentazione relativa ai decenni milanesi corrisponde infatti una notevole scarsità di testimonianze sugli anni fermani dell’Oleggio18. Sembra però certo che a Fermo egli abbia operato attivamente per rafforzare l’immagine e il ruolo egemonico suo e della città sul territorio, promuovendo a questo scopo alcune importanti imprese edilizie19, secondo l’esempio dei suoi potenti parenti milanesi, che al fasto delle loro residen-
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14 Sullo sviluppo degli avvenimenti seguiti all’occupazione di Bologna da parte della Santa Sede e l’opposizione di Bernabò Visconti, cfr. Cognasso, L’unificazione cit., pp. 407425. La pace, in realtà, verrà ratificata solo nel 1364. 15 La cessione di Bologna alla Santa Sede non aveva segnato in effetti la fine dei contrasti tra l’Oleggio e Bernabò Visconti, che nell’agosto 1360 cercò di fomentare una rivolta dei castelli di Corinaldo, Montenovo e Buscareto contro l’Albornoz e il nuovo signore della Marca. Subito estesasi nel Montefeltro, a Jesi, nei contadi di Fermo e Ascoli, la rivolta venne tuttavia soffocata nel sangue dalle milizie inviate dal legato pontificio in aiuto all’Oleggio: cfr. Filippini, Il cardinale cit., pp. 228 ss. 16 L’insediamento di Giovanni Visconti da Oleggio nel palatium magnum sul colle Girfalco è attestato da due documenti del 17 marzo e del 29 aprile 1365, conservati in ASFe-AC, Fondo diplomatico Hubert, n. 255 e n. 503 citati in M. Mauro, Castelli, Rocche, Torri, Cinte Fortificate delle Marche, IV/II, Fermo e i suoi castelli, Ravenna 2001, p. 82, al quale si rimanda anche per una ricostruzione della struttura dell’edificio (cfr. in particolare pp. 76-88). 17 C. Morbio, Storia della città e della diocesi di Novara, Milano 1841, p. 134. 18 Per la ricostruzione della signoria di Giovanni Visconti da Oleggio su Fermo cfr. F. Adami, De rebus in civitate firmana gestis fragmentorum libri duo, Roma 1591, p. 85; G. De Minicis, Di Giovanni Visconti da Oleggio, signore di Fermo, Roma 1840; Morbio, Storia della città cit., p. 134; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 16-28. 19 Secondo l’Adami (De rebus cit., p. 85) Giovanni Visconti da Oleggio «[…] si preoccupò di ornare Fermo con palazzi sia pubblici che privati e cinse la città di nuove mura e tanto rese più illustri tutti i monumenti che veramente poté essere chiamato, come egli stesso si denominò, Cesare Ottaviano…».
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ze e alla grandiosità delle loro imprese architettoniche, specie quelle di carattere difensivo, avevano affidato un ruolo fondamentale, facendone dei veicoli di manifestazione della ricchezza e della potenza del casato20, come attestava, tra le altre cose, la perduta iscrizione inserita nel monumento funebre di Azzone Visconti in San Gottardo in Corte a Milano, che celebrava il giovane signore, deceduto nel 1339 a soli 36 anni di età, attraverso l’esaltazione delle sue due maggiori imprese, indicate nell’ottenimento della signoria e nella costruzione delle mura della metropoli lombarda21. È perciò sotto questa luce, cioè oltre che come strutture prettamente difensive anche come interventi di propaganda, a emulazione dell’operato milanese dei Visconti, che ritengo possano allora essere lette anche le due principali imprese edilizie che la documentazione superstite permette di riferire all’Oleggio negli anni della sua signoria fermana. Innanzitutto la costruzione nel 1362 delle mura di Porto San Giorgio, l’insediamento raccolto intorno allo scalo navale della città, da cui partiva la principale via d’accesso al centro22. Affidata a maestranze locali, l’impresa consistette
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20 Sul mecenatismo artistico e in particolare sulla politica architettonica dei Visconti nel Trecento, sulla sua funzione strategica nell’organizzazione e nella difesa dello stato e sul suo contenuto propagandistico, cfr. Gualvanei de la Flamma Opusculum de rebus gestis ab Azone, Luchino et Johanne Vicecomitibus ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCXLII, ed. C. Castiglioni, in R. I. S.2, 12/4, Bologna 1938; G.A. Dell’Acqua, I Visconti e le arti, in I Visconti a Milano, Milano 1977, pp. 132-154; C. Perogalli, L’architettura viscontea, ibid., pp. 219-285; C. Gilbert, The Fresco by Giotto in Milano, «Arte Lombarda», 47-48 (1977), pp. 31-72; L. Green, Galvano Fiamma, Azzone Visconti and the revival of the Classical Theory of Magnificence, «Journal of the Warburg and Courtland Institute», 53 (1990), pp. 98-113; R. Cassanelli, Milano, in La pittura in Lombardia. Il Trecento, Milano 1993, pp. 22-36; G.A. Vergani, “Defensor Civitatis”. L’iconografia di sant’Ambrogio negli apparati scultorei delle porte medievali di Milano secoli XII-XIV), in Ambrogio. L’immagine e il volto. Catalogo della mostra cur. P. Biscottini, Venezia 1998, pp. 117-131; Vergani, L’arca di Bernabò Visconti cit., pp. 24-36 (tutti con ampia bibliografia). 21 Su questo tema cfr. Vergani, “Defensor civitatis” cit., p. 118. L’iscrizione, perduta, è stata trascritta e pubblicata dal Giovio e dal Forcella: cfr. P. Giovio, Vite dei Dodici Visconti, ed. L. Domenichini, Milano 1645, p. 74; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo ottavo ai nostri giorni, I, Milano 1889, p. 47. Per la tomba di Azzone, opera dello scultore pisano Giovanni di Balduccio, realizzata tra il 1340 e il 1342, cfr. E. Carli, Giovanni di Balduccio a Milano, in Il Millennio ambrosiano, III, La nuova città dal Comune alla Signoria, cur. C. Bertelli, Milano 1989, pp. 95-98; G.A. Vergani, Precisazioni su un documento contabile e su due commissioni artistiche dell’arcivescovo Giovanni Visconti, in Arte e storia in Lombardia. Scritti in memoria di Grazioso Sironi, Firenze 2006, pp. 11-20; Vergani, Scheda n. 322, in Musei e Gallerie di Milano, Museo d’Arte Antica del castello Sforzesco, Scultura lapidea, I, cur. M.T. Fiorio, Milano 2012, pp. 324-325. 22 Cfr. Mauro, Castelli cit., p. 477 e Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 26, sulla base di un documento conservato in ASFe-AC, Fondo diplomatico Hubert, pergamena n. 136.
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nell’erezione, intorno all’abitato, di una solida cortina quadrangolare in laterizio fornita di alte torri frangi-tratta, di cui si conservano ancora alcuni tratti del lato occidentale e due archi ogivali in via Crocifisso, riconosciuti da Maurizio Mauro (cui si deve lo studio più approfondito sull’argomento) come parti superstiti delle fortificazioni destinate a proteggere le strutture del porto vero e proprio23. Pochi anni dopo fu la volta delle mura di Fermo, come attestano due documenti del 15 febbraio e del 3 luglio 1366, concernenti l’acquisto di consistenti quantitativi di mattoni utilizzati «in fabbricatione et laboritio murorum dicti civitatis Firmi»24. Secondo Mauro, in questo caso l’Oleggio avrebbe provveduto a sostituire con cortine in laterizio quelle parti della cinta urbana del 1241-1254 composte solo di palizzate e terrapieni (esattamente come aveva fatto Azzone a Milano intervenendo sulla cinta del XII secolo), ampliandone tuttavia un tratto per includervi il sobborgo di Santa Caterina25. Anche di queste mura, terminate solo dopo la morte del signore (8 ottobre 1366)26, restano ampie vestigia, compresi i resti, rimaneggiati ma ben leggibili, di tre delle otto porte: porta Santa Caterina, porta San Giuliano e porta Sant’Antonio. Comunque sia, l’opera, cui resta indissolubilmente legata la memoria della figura e della signoria dell’Oleggio a Fermo, è la sua tomba, originariamente sistemata nella cappella di san Giovanni – il suo santo eponimo – nella cattedrale medievale della città (che sulla base delle fonti a disposizione ritengo plausibile fosse collocata in testa alla navata destra, accanto al presbiterio)27, da dove fu spostata verso il 1781, all’epoca della ricostru23 24
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Mauro, Castelli cit., p. 477; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 26. Cfr. ASFe-AC, Carte di Mitarella, docc. nn. 73 e 74. Cfr. Mauro, Castelli cit., p. 72; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 24-25. 25 Cfr. Mauro, Castelli cit., p. 72. 26 La conclusione dei lavori di erezione delle mura dopo la morte dell’Oleggio è attestata da Filippini, Il cardinale cit., p. 395. La sua data di morte è invece registrata da una delle iscrizioni presenti sulla tomba, per la quale vedi qui di seguito nel testo. 27 Secondo il De Minicis (Eletta dei monumenti cit., p. 17) il monumento «esisteva nel lato destro del portale maggiore vicino all’altare di mezzo nella cappella propria dell’Oleggio», cioè nella cappella che il signore di Fermo aveva ordinato di realizzare nel suo testamento dell’8 febbraio 1364 (di cui resta copia in ASFe-AC, Fondo Diplomatico Hubert, pergamena n. 429, pubblicato da De Minicis, Eletta dei monumenti cit., pp. 20 ss.). Secondo lo studioso tale notizia si ricava da alcune fonti precedenti l’abbattimento della chiesa medievale, ovvero dal Tractatus de Episcopis del giurista Giovanni Bertachini, edito nel 1570 (II, IV, n. 33), che però non è stato possibile rintracciare, e da un Breviario manoscritto contenuto in un codice di data non precisata trascritto da M. Catalani (De Ecclesia Firmana eiusque episcopis et archiepiscopis, Fermo 1783, p. 33), in cui, relativamente all’Oleggio, si legge che egli «[…] est seppultus in d(i)cta Eccl(es)ia Maiori firmana in
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zione dell’edificio, e trasferita nell’atrio della nuova chiesa . Addossata alla parete di controfacciata e appoggiata su quattro basamenti cubici non pertinenti29, l’arca [Figg. 1 e 2] del tipo a cassa su colonne, misura 390 cm di altezza, per 224 di larghezza e 129,5 di profondità30. L’insieme si articola in tre parti: le quattro colonne di sostegno, fornite di basi attiche e capitelli a crochet; il sarcofago, ornato da rilievi e chiuso superiormente da un coperchio su cui è scolpita l’effige del defunto, con le braccia incrociate sul ventre e con indosso l’abito di Rettore della Marca31; la camera funeraria,
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angulo destro anteriori iuxta altare sancti joh(ann)is et iuxta altare majus d(i)cte eccl(es)ie maioris firmane» (è sepolto nella detta Chiesa Maggiore di Fermo nell’angolo destro, davanti e vicino all’altare di san Giovanni e vicino all’altare maggiore di detta chiesa fermana). Non abbiamo un’idea esatta di come fosse strutturato lo spazio interno della cattedrale medievale di Fermo, e in particolare quante e che disposizione avessero le cappelle (attestate per lo più lungo la navata sinistra). Tuttavia, l’indicazione che l’ubicazione della tomba fosse nell’angolo destro della chiesa, presso l’altare maggiore, davanti e vicino a quello di san Giovanni, che era l’altare della cappella di patronato Oleggio, fa ritenere che il monumento si ergesse o all’ingresso di quest’ultima o immediatamente davanti, e che la cappella dell’Oleggio dovesse trovarsi accanto a quella maggiore, e quindi essere una delle due cappelle ai lati del presbiterio oppure corrispondere alla prima cappella orientale della navata sud della chiesa. In entrambi i casi è evidente la scelta di sistemare la tomba in una posizione eminente all’interno dell’edificio, a sottolineare l’importanza del personaggio. 28 Cfr. sulla ricostruzione tardo settecentesca della cattedrale di Fermo e sul trasferimento in quell’occasione dell’arca dell’Oleggio nell’atrio del nuovo edificio De Minicis, Eletta dei monumenti cit., p. 17; F. Trebbi - G. Filoni Guerrieri, Erezione della Chiesa cattedrale di Fermo a Metropolitana, Fermo 1890, p. 48. Come ricorda la Santarelli (L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 38), è probabile che in questa occasione i resti mortali dell’Oleggio venissero esumati e trasferiti in un’urna di cristallo attualmente conservata nell’antica Biblioteca Comunale di Fermo (Sala del Mappamondo). Alla stessa occasione risalgono con ogni probabilità alcuni danni alla cassa marmorea (i cui lati hanno lunghezza differenti) e lo spostamento delle colonne di sostegno in una posizione diversa rispetto a quella originaria, quando apparivano leggermente più spostate verso l’interno: lo si deduce dai resti di superfici quadrangolari più chiare, di misure identiche a quelle degli abachi dei capitelli, individuabili sulla superficie inferiore del sarcofago accanto agli abachi, evidentemente interpretabili come tracce lasciate da questi ultimi in quella che doveva essere la loro collocazione iniziale, indicata dalla Santarelli (L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 30) in circa 14 cm più verso l’interno. Ben leggibili fino a pochi anni fa, questi aloni più chiari sono quasi completamente scomparsi in seguito al recente intervento di restauro del monumento, forse condotto un po’ troppo a fondo, per lo meno in questo punto. 29 Tali basamenti sono infatti composti da una porzione inferiore in cemento e da una superiore in pietra martellinata, formata da due blocchi parallelepipedi eterogenei. 30 Cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., p. 29. A questo studio si rimanda anche per una puntuale e precisa misurazione di tutti gli elementi del monumento (pp. 29-36). 31 Il capo dell’Oleggio è raccolto in un cappuccio, il cui batolo gli fascia il mento e lo copre fin sotto le spalle, mentre la lunga veste, decorata ai bordi e lungo l’orlo, è trattenuta da una cintura il cui pendente giunge fino ai piedi. La testa poggia su un cuscino e gli occhi sono chiusi, le braccia incrociate sul ventre, le gambe rigidamente allineate e i piedi,
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nelle forme di una rigida cortina rettangolare retta da due angeli atteri (ma forniti in origine di ali metalliche, scomparse in epoca imprecisata) [Fig. 4]32. Ornato su ciascun lato da uno stemma partito con le armi dei Visconti e dei Benzoni [Figg. 7 e 8]33, il sarcofago reca al centro della fronte un rilievo con Cristo in Maestà, affiancato dai santi Pietro e Giovanni Evangelista [Fig. 3], inginocchiati nell’atto di porgere rispettivamente le chiavi e un libro34, contro un fondo dipinto con un motivo a fiori e uccelli, che allude al Paradiso35. Alle estremità, davanti alle due colonne tortili poste agli angoli della cassa, si ergono l’Arcangelo Gabriele e la Vergine, a inscenare un’Annunciazione [Fig. 5 e 6]. Si tratta, nel complesso, di un programma iconografico di immediata leggibilità, che nella parte superiore, tra gisant e cortina, rappresenta il dischiudersi del Paradiso all’anima del defunto36, mentre nel sarcofago allude alle fede dell’Oleggio nella vita e nella salvezza eterna, assicurate dall’incarnazione del figlio di Dio (richiamata dall’Annunciazione) e patrocinate per lui dai due santi inginocchiati davanti al Cristo in Maestà (colto, quest’ultimo, in una posa che rimanda a quella del Cristo Giudice nelle raffigurazioni del Giudizio Universale): il suo santo eponimo, Giovanni Evangelista, titolare anche della cappella presso cui l’arca era originariamente sistemata, e san Pietro, il principe degli apostoli e il custode delle porte celesti, ma anche tradizionale “figura” della Chiesa e simbolo del papato, scelto probabilmente per ricordare l’alleanza con la Santa Sede che, complici i legami con l’Albornoz, aveva segnato gli ultimi anni di vita dell’Oleggio, portandogli la nomina a rettore della Marca. Il tutto inquadrato in alto da una raffinata cornice a due ordini di cespi d’acanto intervallati da fiori e in basso da un’altra cornice a modanature lisce, che reca due iscrizioni incise in caratteri gotici. Una, sul listello superiore, con il
con stivali speronati, appoggiano su un altro cuscino. Il primo a riconoscere nell’abito del gisant quello del Rettore della Marca è stato De Minicis, Di Giovanni Visconti cit., p. 9. 32 Sulla schiena di entrambe le figure sono ben visibili due fessurazioni verticali e parallele che dovevano servire ad ospitare l’innesto delle ali metalliche andate perdute. 33 Si tratta di uno scudo partito, recante a sinistra lo stemma dei Visconti con il biscione a sette spire che tiene un fanciullo nelle fauci e a destra quello dei Benzoni, recante un mastino passante sopra tre pali di piccoli scudi sovrapposti. L’identificazione dello stemma si deve sempre al De Minicis, Di Giovanni Visconti cit., p. 9. 34 Oltre che dalla fisionomia e dagli attributi i due santi sono identificati dai loro nomi incisi in caratteri gotici sulla piccola base su cui stanno inginocchiati: S. PETRUS e S. JOANNES EVANGEL(IST)A. 35 È evidente la ricerca di tradurre con il mezzo della pittura l’effetto di un prezioso arazzo appeso alle spalle dei personaggi. 36 La cortina retta dai due angeli risultava originariamente dipinta con un cielo stellato, di cui restano numerose tracce, ben visibili dopo il recente restauro.
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ricordo dell’Oleggio e la sua data di morte: «Incliti magnificique domini domini Joannis de Oleggio condam rectoris Marchiae ad Christum evocati MCCCLXVI / VIII octobris corpus sepulcro tumulatur presenti»37. L’altra, sulla gola sottostante, con il nome dell’artefice: «Magister Tora de Imola, fecit hoc opus»38. Impreziosisce l’insieme una ricca decorazione dipinta in azzurro, rosso e oro, di cui restano tracce abbondanti, che il restauro da poco concluso permette di apprezzare al meglio, anche se, va detto, a causa della pressoché totale caduta delle applicazioni dorate, il recupero dell’intensità timbrica dei rossi e dei blu, unita alla forse troppo radicale pulitura dei marmi sembra generare un effetto patchwork che probabilmente poteva essere evitato con una pulitura meno radicale. D’altra parte, va però riconosciuto che la pulitura non solo ha restituito all’opera quell’effetto intensamente policromato che doveva possedere in origine e che era caratteristico della scultura lapidea medievale (di cui restano però scarsissime testimonianze), ma ha anche rimesso pienamente in luce la qualità dei rilievi, precedentemente penalizzati dai depositi di sporco, che ne alteravano i caratteri, e che ora, invece, per lo meno nelle cinque figure della fronte, e specialmente nella Vergine dell’Annunciazione, mostrano una nitidezza di segno e una morbida cedevolezza di modellato degne di uno scultore di livello, severo nei tratti e nella resa delle fisionomie, ma elegante nelle pose e nel disegno dei panneggi: in questo senso, perciò, riconoscibile come uno scultore aggiornato sulla temperie della scultura gotica della metà del XIV secolo e per niente attardato, tanto meno nel senso indicato nel 1929 dal Serra, che accostava il suo linguaggio a certe dure espressioni della scultura lombarda della prima metà del Trecento e lo riteneva ancora dipendente dalle esperienze del romanico emiliano39. Proprio al Serra si deve comunque la più articolata analisi dell’opera condotta dalla storiografia del XX secolo40. Sulla base di quanto già nota-
37 Traduzione: In questo sepolcro è tumulato il corpo dell’illustre e magnifico signore, signor Giovanni da Oleggio, un tempo rettore della Marca, chiamato presso Cristo l’8 ottobre 1366. 38 Traduzione: Maestro Tora da Imola fece quest’opera. 39 Cfr. L. Serra, L’arte nelle Marche, Pesaro 1929, p. 250. 40 Va in effetti notato che i due principali e successivi interventi della storiografia artistica del Novecento sull’arca (ovvero P. Zampetti, Scultura nelle Marche, Firenze 1993, p. 208 e M. Massa, La scultura Romanico-Gotica nell’Ascolano e nel Fermano, in Atlante dei beni culturali di Ascoli Piceno e Fermo. Beni Artistici. Scultura e Pittura, cur. S. Papetti, Fermo 2003, p. 196) non fanno altro che riproporre le osservazioni del Serra, senza addentrarsi in una nuova disamina dell’opera, per la quale bisogna attendere il meritorio lavoro del 2004 di Chiara Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 29-111.
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to nel 1857 dal De Minicis41 e nel 1883 dal Fanti42, nel suo contributo lo studioso riconosceva nell’arca fermana l’espressione di una cultura ibrida, in cui tipologie e modelli di monumenti funebri toscani, umbri e romani già diffusi dalla fine del Duecento, si fondono con più recenti elaborazioni d’area veneta, sparse tra Venezia, Padova e Verona43. Proprio il carattere “alla veneziana” dell’opera è stato ribadito, con ricchezza di argomenti e di confronti, da Chiara Santarelli, che nel 2004 ha dedicato all’arca uno studio ampio e rigoroso, nel quale ha riesaminato ex novo il monumento, riaffrontando in parallelo anche la ricerca documentaria sul committente e sull’esecutore44. I risultati di queste indagini sono numerosi e di notevole portata, tanto da impedirmi in questa sede di fornirne un quadro esauriente. Rinviando al lavoro della Santarelli, qui mi limiterò perciò a elencare le principali novità emerse dalle sue indagini e a commentare alcune delle nuove linee di ricerca che le sue scoperte e osservazioni sembrano aprire. Tra i dati relativi a Giovanni Visconti da Oleggio si segnalano da un lato un passo del suo testamento, redatto l’8 febbraio 1364, in cui egli chiede di essere sepolto in una cappella da costruirsi nella cattedrale di Fermo45, e dall’altro il tenore della prima iscrizione presente sulla tomba, che sembrerebbe attestare che al momento della sepoltura – in seguito alla morte avvenuta l’8 ottobre 1366, due anni e otto mesi dopo il testamento – l’arca doveva essere pronta: onde si può ritenere che la responsabilità della commissione del monumento spetti all’Oleggio stesso. Il quale potrebbe anche aver scelto lo scultore, concordando con lui la tipologia e il programma figurativo del monumento, come lasciano presumere alcuni elementi e in particolare la presenza di san Pietro sulla fronte del sarcofago: un santo cui non risulta che il signore di Fermo fosse mai stato particolarmente devoto e che probabilmente appare qui, come si è supposto,
41 Cfr. De Minicis, Eletta dei monumenti cit., p. 12. Dopo aver espresso un giudizio sostanzialmente positivo sulla qualità del monumento, lo studioso osservava che il gisant e la cortina sorretta da angeli ricordavano da vicino quelli di alcuni dei più antichi monumenti funebri realizzati nell’Italia centrale nella prima metà del Trecento, da quello del cardinale Consalvo Rodriguez in Santa Maria Maggiore a Roma, firmato da Giovanni di Cosma, a quello del Vescovo Tarlati nel Duomo di Arezzo (oggi riconosciuto come opera di Agnolo di Ventura e Agostino di Giovanni), a quello della regina Ecuba di Lusignano ad Assisi e di papa Benedetto XI a Perugia. 42 Cfr. I. Fanti, Sguardo retrospettivo all’arte in Imola, Imola 1883, pp. 14-16. 43 Cfr. Serra, L’arte cit., p. 250. 44 Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 29-111. Per l’analisi della tipologia e i confronti con i prodotti d’area veneziana cfr. in particolare pp. 51-82. 45 Cfr. ASFe-AC, Fondo Diplomatico Hubert, pergamena n. 429, pubblicato in De Minicis, Eletta dei monumenti cit., pp. 20 ss.
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per ricordare gli stretti legami intrecciati dall’Oleggio, nei suoi ultimi anni di vita, con la Curia pontificia, cioè con un significato di rivendicazione anche politica e istituzionale, che mi è difficile immaginare possa essere stato suggerito da altri che non dallo stesso Visconti nel corso dei suoi contatti con lo scultore. Questi, che vi si firma Tora de Imola, va senz’altro identificato secondo la Santarelli con quel Magister Bonaventura quondam Jacobinij de Filippis de Imolla che l’11 novembre 1353 aveva ricevuto dall’abate di Santa Maria foris portam di Faenza l’incarico di realizzare l’arca di san Pier Damiani46 – originariamente sistemata nel presbiterio di quella chiesa, poi spostata in una cappella laterale e infine scomparsa dopo il 1778, ma nota comunque grazie a due disegni dell’inizio del XVIII secolo47– che sembra avere in comune con quella di Fermo la resa a basso rilievo del gisant, di cui la Santarelli, in base ad alcuni indizi, ritiene di aver forse trovato un frammento superstite, con sopra scolpito un pastorale a terminazione gigliata e un accenno di panneggio, murato nel cortile di Palazzo Foschini a Faenza48.
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46 Cfr. Faenza, Archivio di Stato (d’ora in poi ASFa), Archivi delle Congregazioni religiose, Padri della Congregazione di Fonte Avellana in S. Maria Foris Portam, Libri degli Istrumenti, Libro n. 2, f. 33 r-v. Il documento non è mai stato pubblicato ed è stato rintracciato, integralmente trascritto e commentato per la prima volta da Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 89-95 e 112-113. Come precisa la studiosa, i lavori dell’arca si conclusero entro la Pasqua dell’anno successivo, poiché il 13 aprile 1354 vi avvenne la solenne traslazione delle spoglie di san Pier Damiani, come attestava un’iscrizione incisa alla base del monumento, ripetutamente pubblicata, per la quale cfr. da ultimo F. Lanzone, Storia ecclesiastica e agiografica faentina dal XI al XV secolo, Città del Vaticano 1969, p. 45. Forse sistemata originariamente contro una delle pareti laterali della cappella maggiore della chiesa, l’arca si trovava senz’altro nel 1527 dietro l’altare maggiore (cfr. G.M. Valgimigli, Memorie storiche di Faenza, VIII, Faenza 1861, p. 70), donde, nel 1673, all’epoca dei vasti rifacimenti apportati alla chiesa, fu trasferita in una cappella laterale, restandovi fino al 1778, quando, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, la chiesa fu confiscata e venduta. Da quel momento si sono completamente perse le tracce della tomba (cfr. anche A. Savioli, Il sepolcro di S. Pier Damiani, in Studi Gregoriani per la storia della libertas ecclesiae, Roma 1975, p. 130). Per una più ampia analisi dell’arca di san Pier Damiani cfr. comunque, da ultimo, M. Tomasi, Le arche dei santi. Scultura, religione e politica nel Trecento veneto, Roma 2012, pp. 207-208 e 245-247, che concorda anche sull’identificazione dello scultore con il Tora da Imola autore della tomba fermana. 47 I disegni, risalenti al 1701-1703 circa, sono stati realizzati dai fratelli Taschini, lapicidi faentini, interpellati per una perizia del monumento. Già conservati nell’Archivio Vescovile di Faenza, sono purtroppo andati dispersi ma fortunatamente dopo essere stati pubblicati da S. Ravioli, Le immagini faentine di S. Pier Damiani, in Studi su S. Pier Damiani in onore del cardinale Amleto Giovanni Cicognani, Faenza 1961, p. 417; cfr. anche Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 93-95 e Tomasi, Le arche dei santi cit., pp. 245-247. 48 Cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 96-97.
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L’importanza di questa commissione suggerisce che alla metà del Trecento Bonaventura da Imola dovesse essere uno scultore ben noto e apprezzato in Romagna e lungo la dorsale adriatica, ivi comprese le Marche, dov’è infatti attestato nel 1357, quando viene pagato 63 ducati per aver scolpito quattro finestre e sette stemmi di Innocenzo VI nella rocca papale di San Cataldo ad Ancona, edificata tra il 1356 e il 1361 per volere del cardinale Albornoz49. Forse, allora, che sia stato proprio l’ultimo protettore dell’Oleggio il possibile tramite tra il signore di Fermo e Bonaventura da Imola? In assenza di riscontri documentari la domanda è destinata a restare senza risposta, tanto più che numerose potrebbero essere state le occasioni di incontro tra i due indipendentemente dalle loro relazioni con il legato pontificio. Basti pensare, per esempio, al fatto che nell’inverno del 1358 Giovanni da Oleggio e la moglie avevano trascorso le vacanze natalizie a Imola, dove viveva lo scultore, per trasferirsi quindi a Faenza50, dove già brillava da quattro anni il luminoso marmo antico importato da Ravenna che Bonaventura aveva trasformato nell’arca di san Pier Damiani 51: un’opera che potrebbe aver colpito l’Oleggio a tal punto da indurlo a ricercarne l’autore al momento di far fare la propria sepoltura. Un’opera, comunque, tipologicamente assai diversa dall’arca fermana, della quale la Santarelli riverifica puntualmente le componenti veneziane, riconoscibili a suo parere non solo nella struttura della cassa su colonne – scandita in cinque specchiature, con rilievi di soggetto e impostazione ricorrenti nelle tombe venete della prima metà del Trecento – ma anche in altri elementi, come le colonnine tortili poste agli spigoli, la cornice superiore a cespi d’acanto e la greca dentellata che inquadra i rilievi, tutti ele-
49 Cfr. Serra, L’arte cit., pp. 249-250; Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 98-106; M. Medica, Il cardinale Albornoz e l’arte bolognese del Trecento, in España y Bolonia. Siete siglos de relaciones artísticas y culturales, cur. J.L. Colomer - A. Serra Desfilis, Madrid 2006, pp. 60-61; Tomasi, Le arche dei santi cit., p. 208. 50 Per tutte queste notizie cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., passim. 51 Nel contratto di commissione dell’arca di san Pier Damiani (ASFa, Archivi delle Congregazioni religiose, Padri della Congregazione di Fonte Avellana in S. Maria Foris Portam, Libri degli Istrumenti, Libro n. 2, f. 33r-v.; trascritto da Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit. pp. 112-113) si specifica che l’abate di Santa Maria foris portam è tenuto, tra le altre cose, a pagare anche le spese per una «caregia illorum currum qui aportabunt dictos lapides solum a civitate Ravenne ad civitatem Faventie»: il fatto che le lastre di marmo necessarie per realizzare la tomba siano state acquistate a Ravenna, ci dice che si trattava di lastre di marmo antico, di cui vi era ampia riserva nella città adriatica, tra le rovine dei palazzi tardo imperiali.
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menti che compaiono correntemente nelle tombe veneziane dell’epoca52, per non dire della tipologia del trono di Cristo, d’ispirazione bizantina ma assai diffuso nella scultura veneziana di metà secolo, come attesta il confronto con quello su cui siedono la Madonna e il Bambino in un rilievo conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, indubbiamente riferibile ad ambito veneziano della metà del Trecento53. La stessa camera funeraria e il gisant sul coperchio erano del resto temi da tempo diffusi nella scultura sepolcrale veneziana e non originali forme di ibridazione con modelli tosco-laziali propri del solo Bonaventura da Imola, come pensava il Serra. E sappiamo per certo che, oltre ai numerosi polittici di cui ci parlerà in questa sede Francesca Flores d’Arcais, anche opere di questo tipo erano state esportate da Venezia fin nel cuore della Romagna, raggiungendo anche le Marche, come attestano i casi della tomba del beato Jacopo Salomone nel Museo Civico di Forlì, del 1340 circa54, e poco più tardi, verso il 1370, della tomba-altare della Santa Spina dell’omonimo oratorio di Sant’Elpidio a Mare55, che per quanto ornato da figure contraddistinte da cadenze più morbide e leziose, resta ancorato, nell’impianto del sarcofago, al tipo della cassa a cinque scomparti tipica della tradizione veneziana trecentesca. Se Bonaventura da Imola può indubbiamente aver visto l’arca forlivese del beato Jacopo Salomone, resta da capire attraverso quali altre esperienze, contatti e relazioni possa aver maturato un linguaggio e un gusto così intimamente indirizzati in chiave veneziana. Un tema, questo, di ampia portata, che non è possibile trattare in questa sede e che perciò rinviamo a un prossimo e specifico contributo, nella speranza, per ora, di essere comunque riusciti a cogliere l’occasione di questo convegno per far rientrare a pieno titolo l’arca di Giovanni Visconti da Oleggio, il suo committente e il suo esecutore nel quadro delle presenze e delle vicende “alte” della storia dell’arte nelle Marche del Trecento.
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Cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 64-73. Per un quadro generale della scultura funeraria veneziana nel Trecento si rimanda al classico W. Wolters, La scultura veneziana gotica (1300-1460), Venezia 1976 e a Tomasi, Le arche dei santi cit. 53 Cfr. Wolters, La scultura veneziana gotica cit., I, n. 66. 54 Cfr. Santarelli, L’arca di Giovanni Visconti cit., pp. 70-71; Tomasi, Le arche dei santi cit., pp. 248-250. 55 Cfr. De Minicis, Eletta dei monumenti cit., pp. 59-73.
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IS Fig. 1 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti
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IS Fig. 2 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti
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Fig. 3 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
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Fig. 4 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
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Fig. 5 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
Fig. 6. - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
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Fig. 7 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
Fig. 8 - Fermo, Arca di Giovanni Visconti, particolare
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Talenti provinciali. Il cardinale francescano Gentile Partino da Montefiore e un’aggiunta alla scultura umbra del Trecento
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246
LUCA PALOZZI
IM E
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TALENTI PROVINCIALI
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IM E
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IS
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LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
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IM E
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250
LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
251
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LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
255
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TALENTI PROVINCIALI
257
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258
LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
259
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LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
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262
LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
263
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264
LUCA PALOZZI
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TALENTI PROVINCIALI
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LUCA PALOZZI
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Fig. 1 - Corona di Santo Stefano, Budapest, sede del Parlamento Ungherese
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Fig. 2 - Impronta del sigillo di Gentile Partino da Montefiore, Roma, Archivio Segreto Vaticano
Fig. 3 - Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
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Fig. 4 - Vetrate, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
Fig. 5 - Vetrate, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
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Fig. 7 - Simone Martini, Messa miracolosa, particolare, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di San Martino
Fig. 6. - Vetrate, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
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IS Fig. 8 - Vetrate, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Ludovico
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IS Fig. 9 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Monumento Partino, ca. 1305-1308, Montefiore dell’Aso, San Francesco
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Fig. 10 - Scultore umbro, Tomba di papa Benedetto XI († 1304), particolare, Perugia, San Domenico, già in Santo Stefano del Castellare
Fig. 11 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Monumento Partino, ca. 13051308, particolare, Montefiore dell’Aso, San Francesco
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Fig. 12 - Scultore umbro, Tomba di Giangaetano Orsini (†1294?), particolare, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Nicola
Fig. 14 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Chiave di volta con protomi umane, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
Fig. 13 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Monumento Partino, ca. 1305-1308, particolare, Montefiore dell’Aso, San Francesco
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Fig. 15 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Chiave di volta con protomi umane, particolare, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
Fig. 17 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Monumento Partino, ca. 1305-1308, particolare del volto della Vergine, Montefiore dell’Aso, San Francesco
Fig. 16 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Chiave di volta con protomi umane, particolare, Assisi, San Francesco, basilica inferiore, cappella di san Martino
Fig. 18 - Scultore umbro (Maestro del monumento Partino), Monumento Partino, ca. 1305-1308, particolare del volto di uno degli Angeli nel fastigio, Montefiore dell’Aso, San Francesco
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San Ginesio nel tardo medioevo e la vicenda della sua collegiata
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Al tempo del convegno di Ascoli, nel dicembre del 2011, quanto mi accingevo a presentare anticipava la monografia consacrata all’Annunziata di San Ginesio, lavoro di équipe che ho coordinato assieme a David Frapiccini e Rossano Cicconi; adesso, a pubblicazione avvenuta1, mi è più agevole fare il punto sui fatti artistici e urbanistici allora esposti, mediati dal filtro privilegiato della maggiore istituzione religiosa – la pieve-collegiata –, ligio alla stagione considerata: il Medioevo piceno al tempo del “maestro di Offida”. Addentrandomi nella questione, ritengo che sia ormai un dato inoppugnabile come il caso ginesino rappresenti una tra le tessere più significative della signoria varanesca nel Camerte, che nel centro degli alti Sibillini ha un sicuro paletto conclusivo nel campo dell’evergetismo: la riformulazione nel 1421 in chiave tardogotica del prospetto della collegiata2 [Fig. 1], allora dedicata al martire Ginesio3. Si tornerà in seguito ad affrontarne la 1
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La chiesa collegiata di San Ginesio. Una storia ritrovata, cur. P.F. Pistilli - D. Frapiccini - R. Cicconi, San Ginesio 2012 (Centro Internazionale Studi Gentiliani. Quaderni 4, cur. P. Ragoni). Il saggio proposto in questi atti ricalca il mio contributo stampato nel volume sulla pieve ginesina (P.F. Pistilli, San Ginesio e la sua collegiata: ascesa e crepuscolo nel tardo medioevo, pp. 1-11), sebbene con alcune sostanziali correzioni nel testo e corredato di note. 2 R. Cicconi, Notizie storiche, in La chiesa collegiata di San Ginesio cit., pp. 59-121: 101102; G. Corso, Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali, ivi, pp. 123-157: 125-145. In precedenza cfr. G. Salvi, La facciata della Chiesa Collegiata di San Ginesio e l’allogazione della medesima a maestro Enrico Alemanno, «Nuova Rivista Misena», 6/2 (1893), pp. 19-20, e soprattutto C. Marchegiani, Il frontespizio in terracotta della pieve di San Ginesio. Una proposta gotica alemanna nella Marca di Martino V, in I Da Varano e le arti. Atti del convegno, cur. A. De Marchi - P.L. Falaschi (Camerino, 4-6 ottobre 2001), Ripatransone 2003, II, pp. 637-654. 3 Sul cambio di dedicazione (San Ginesio, San Bartolomeo e Annunziata) e sull’innalzamento della pieve a collegiata, documentata dal 1464, cfr. sempre Cicconi, Notizie storiche cit., pp. 85-89.
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lettura per il suo specifico peso iconografico-politico. Ora preme rilevare il contesto nel quale l’iniziativa vedeva luce e che la lapide in facciata [Fig. 2], accompagnata dai blasoni varaneschi, municipali e pontifici [Figg. 3ad], documenta con estrema nitidezza, registrando l’incedere di un nuovo status, marcato dal ritorno di Martino V a Roma nell’autunno del 1420 dopo gli esiti del Concilio di Costanza. Tramite l’epigrafia e con un riuso classico forse a presunta effigie, espediente il cripto-ritratto caro alla committenza del Colonna piuttosto incline al culto della propria immagine4, appare il pontefice a inedito attore sulla ribalta ginesina, spia premonitrice di un cambiamento negli equilibri locali che fatalmente vedranno, nel volgere di breve tempo, il crollo del dominio varanesco e il declino di San Ginesio nello scacchiere regionale di metà Quattrocento. Di fatto la facciata della collegiata si erge fisicamente a crinale tra un trascorso per molti versi glorioso e un futuro ben più dimesso, per certo lontano dai disegni maturati nei due secoli precedenti. Eppure era stata la stessa autorità pontificia a dettare la fortuna di questo abitato d’altura, ormai sottodimensionato rispetto all’imponenza del circuito murario duecentesco, nonché lentamente emarginato dai traffici commerciali vuoi appenninici vuoi tesi a privilegiare il corridoio adriatico, qui sotto l’egida di Venezia. Ma va da sé che alla metà del XIII secolo altre erano le volontà del Papato, diversi i protagonisti in campo. Rimangono ancora oscure per quali vie si fosse costituito l’incastellamento intorno all’anno Mille e il perché la pieve di San Ginesio – pur conferendogli il toponimo – fosse rimasta esterna al primitivo insediamento, acquartierato lassù nell’area del Caput castri5, mentre le vicende dell’istituzione religiosa prendono sostanza nel corso della seconda metà del XII secolo6, allorché il fenomeno sinecistico che aveva alimentato la modesta realtà urbana era nella sua fase discendente7. È verosimile che in assenza della lunga e travagliata stagione sveva, resasi acuta negli anni Quaranta con l’istituzione dei vicariati per ampie porzioni dell’Italia centrale sottratte al controllo della Chiesa, le sorti della cittadina avrebbero potuto prendere una diversa piega. Invece l’essere da sempre sistemata ai limiti meri4 L. Di Calisto, Per una ricostruzione dell’iconografia di Martino V, in Martino V. Genazzano, il pontefice, le idealità. Studi in onore di Walter Brandmüller, cur. P. Piatti - R. Ronzani, Roma 2009, pp. 109-125. 5 F. Cortella, Da incastellamento a città: le mura urbane, in La chiesa collegiata di San Ginesio cit., pp. 15-47: 17-24, cui si rinvia anche per la precedente bibliografia. 6 Cicconi, Notizie storiche cit., p. 65. 7 Cortella, Da incastellamento a città cit., pp. 24-27.
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dionali della Marca Camerte, a stretto contatto con quanto sopravviveva del presidiato farfense allora controllato per conto di Federico II dal casato dei Brunforte8, ne faceva suo malgrado un sito strategico nelle frizioni tra Papato e Impero nella landa picena. Tuttavia il riflesso di tali eventi sull’immagine di San Ginesio non è più riconoscibile, almeno fino ai fatti del settembre 1250. D’altronde le carte anteriori a quella data non consentono che una navigazione a vista9. È da ritenere che già nei decenni iniziali del Duecento fosse stato allargato il circuito murale includendo finalmente anche la pieve [Fig. 4], per quanto in posizione decentrata rispetto all’andamento delle mura che non era includevano ancora il Borgo delle Ripe. Sono comunque le carte notarili a informare che la plebs, retta da un ristretto collegio di canonici, già dal XII secolo confinava con uno spiazzo ombreggiato da olmi e aveva un portico in facciata10. Se in forma embrionale una platea alberata si estendeva davanti l’edificio di culto [Fig. 5], in parallelo si ha notizia pure dell’esistenza dell’attiguo palazzo Defensorale (o palatium communis) che, provvisto di atrium, era sede dell’autorità civica già da tempo operativa11, ma che a ridosso della metà del Duecento vedeva incunearsi tra le sue file le prime sostanziali ingerenze del potere varanesco12. Finora nessun documento consente di affermare quanto l’ascesa dei da Varano nel quadro politico locale sia stata determinante o meno per il nuovo assetto urbano. Nondimeno il salto di qualità teso a tramutare San Ginesio in un abitato, la cui dilatazione murata non aveva pari nell’entroterra piceno, si verificava in quel frangente e per giunta in una fase cruciale dello scontro tra Papato e Impero. Pertanto l’approvazione del disegno da parte del Rettore della Marca, il 7 settembre 1250, esplicita per conto di chi si metteva in atto un’impresa ben al di sopra delle portata della comunità ginesina, come per altre vie hanno a dimostrare i documenti tre e quattrocenteschi relativi alla manutenzione o al parziale aggiornamento dello stesso dispositivo difensivo13.
8 D. Pacini, Fildesmido da Mogliano, un Signore del secolo XIII nella Marca, «Studi Macerates», 6 (1972), pp. 185-214; inoltre J. Rossetti, L’architettura residenziale fortificata dei Brunforte, in C. Tartabini - J. Rossetti, I Signori di Brunforte. I loro castelli e il Comune di Sarnano, San Ginesio 2009, pp. 51-127: 57. 9 Da ultimo, cfr. lettura del materiale archivistico da parte di Cicconi (Notizie storiche cit., pp. 59-121) e per l’analisi delle mura Cortella, Da incastellamento a città cit., pp. 39-47. 10 Cicconi, Notizie storiche cit., p. 65. 11 Sul Palazzo Defensorale, cfr. M. Ficari, La “platea”. Dinamiche economiche e politiche nello spazio cittadino, in La chiesa collegiata di San Ginesio cit., pp. 51-58: 53-55. 12 Ivi, p. 56 e nota 29. 13 Cortella, Da incastellamento a città cit., pp. 33-38.
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Talvolta passate inosservate, le disposizioni definiscono senza mezzi termini i punti salienti di un’operazione messa in moto presumibilmente all’indomani del 1248 con l’adesione ginesina alla lega antisveva14, di cui si aspettava il decisivo benestare del cardinale Pietro Capocci: «de apparatu terre vestre intus et extra, tam in platea, quam fossatis et muris faciendis de portis etiam claudendis et aperiendis auctoritate simili confirmamus»15. L’approssimarsi dello scontro con Federico II rendeva necessario accelerare la riconfigurazione in chiave urbana di San Ginesio, avendo un occhio di riguardo per le mura e la conseguente integrazione del quartiere orientale che da allora – così come lo è ancora oggi – rimarrà quasi del tutto spopolato. E qui, a protezione di siffatta propaggine detta Burgus Riparum, andava a dispiegarsi in forme piuttosto regolari, poiché agevolata dal terreno in leggero pendio, la nuova addizione muraria [Fig. 6], munita della principale porta cittadina con rivellino, ovvero porta nova [Fig. 7], e di torri rettilinee rompitratta [Fig. 8], il tutto preceduto da un fossato, artificio inedito nella classe delle fortificazioni urbane, non solo picene ma anche del Medioevo peninsulare. Già questo elemento, il fossato, ripreso a fatica dalla più aggiornata ingegneria militare messa in campo dalla Corona capetingia dapprima a Carcassonne nella conquista dell’Occitania e a Cesarea Marittima nell’Oltremare crociato, quindi di riflesso negli anni Settanta in poche realtà della Francia settentrionale, tra cui Provins, e addirittura nella cittadella angioina di Lucera in Capitanata16, si dimostra un indicatore inoppugnabile di un progetto calato dall’alto e per motivi strettamente bellici anziché di passiva difesa da assedio. Se poi vi si associa la lettura del manufatto, nonché le tecniche costruttive in blocchetti di arenaria come le soluzioni
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14 Nel marzo del 1248, congiuntamente a Tolentino e ad altri centri del Camerte, San Ginesio aderiva all’alleanza antimperiale istituita da Camerino e Matelica e nel settembre del 1250 sanciva di nuovo l’alleanza con Tolentino, come sottolinea S. Corradini, Gli Svevi ed il triste epilogo della politica del Comune di Camerino, «Studi Maceratesi», 6 (1972), pp. 215-227: 218-219. 15 San Ginesio, Archivio Storico del Comune (d’ora in poi ASCSG), Fondo pergamenaceo, capsa I, 4/38. Il documento è menzionato anche da G. Salvi (Memorie storiche di Sanginesio in relazione con le terre circonvicine, Camerino 1889, p. 123 nota 2) e, in precedenza, dal canonico Severini (T. Benigni, Istoria della Terra di S. Ginesio nella Marca del Canonico Marinangelo Severini in volgar lingua tradotta, in Delle Antichità Picene dell’Abate Giuseppe Colucci patrizio camerinese, ed. A. Rossi, XXXIV, Ripatransone 1994, p. 23). 16 N. Tomaiuoli, Lucera, il Palazzo dell’Imperatore e la Fortezza del Re, Foggia 2005; P.F. Pistilli, Architetti oltremontani al servizio di Carlo I d’Angiò nel regno di Sicilia, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze-Colle di Val d’Elsa 7-10 marzo 2006), cur. V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 263-276.
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funzionali in spessore di muro, si conferma per l’impresa una cronologia lungo tutto il terzo quarto del Duecento, probabilmente condotta in appalto, segmento dopo segmento. Venuta quindi meno una fondazione prototrecentesca della cinta, sostenuta su incerte basi ancora di recente17, ciò non toglie – documenti alla mano – che alcuni settori fossero rivisitati in maniera consistente sia nel XIV che nel XV secolo, mentre altri tentativi di ampliamento e regolarizzazione dell’impianto murato, avviati parallelamente all’impresa di Borgo delle Ripe, siano poi abortiti anche per la chiusura del conflitto con gli Svevi. Così è da inquadrare l’area a ridosso della “mura di San Nicola”, ulteriore addizione abbandonata in corso d’opera, della quale resta memoria lo sconnesso ingresso urbano da Settentrione18 [Fig. 9]. Tuttavia, a caricare l’autorizzazione del cardinale Capocci di un valore più elevato sulle sorti future dell’abitato, è in particolare il riferimento alla platea [Fig. 5], da identificare senz’ombra di dubbio nell’olmata che con scrupolo notarile è registrata presso la pieve ginesina fin dalla metà del XII secolo19 e dove da sempre si concentravano i commerci cittadini. L’attenzione riposta al cuore urbano e luogo di fiera, fin da inizi Duecento non più coincidente con il sito dell’incastellamento originario, non offrirebbe ulteriori spunti oltre alla sua ragionevole risistemazione, se non intervenissero in aiuto per i due monumenti cardine, che qui trovavano sede (la plebs e il palatium communis), i dati archeologici e la tradizione grafica ottocentesca, talvolta inedita20. Quanto sopravvive in forma di palinsesto murario nella fascia inferiore della fronte dell’attuale collegiata, nel fusto del campanile, al pari degli schizzi carducciani del palazzo Defensorale prima della sua demolizione, documenta in anni prossimi al 1250 una ricostruzione dei maggiori edifici urbani volta a dare alla pede platee un fondale architettonico all’altezza di un centro in procinto di assumere il ruolo di civitas. Si tratta di pochi frammenti, tuttavia eloquenti per riportarne la realizzazione al periodo federiciano. Mi riferisco innanzitutto all’impiego standardizzato dell’arco con estradosso scalettato, applicato sia nel parato del campanile [Fig. 10] che
17 A. Paoloni, Le porte fortificate e le mura di San Ginesio, «Castella Marchiae», 8-9 (2004), pp. 62-76. 18 Cortella, Da incastellamento a città cit., pp. 29-30 e 42. 19 Cicconi, Notizie storiche cit., pp. 65-66. Non è un caso che tra i documenti citati dall’autore, solo dopo il 1255 entri in uso il termine platea a sostituire i prope ulmos o sub ulmis adoperati negli atti notarili dal XII secolo fino al 1249. 20 Ficari, La “platea” cit., pp. 51-58.
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un tempo nel palazzo civico21, impronta di un bagaglio tecnico-costruttivo estraneo alla modesta tradizione locale e per contro informato su modelli italomeridionali in risalita oltre il corso del Tronto. D’altro canto è un dato ormai scontato che altre regioni dell’Italia mediana (dalla Toscana all’Umbria, sino alla Tuscia romana), allora piegate sotto il maglio del dominio svevo, fossero state colonizzate negli anni Quaranta da maestranze specializzate provenienti dal Regno di Sicilia22. Si pensi all’aulico esempio del castello di Prato, il cui cantiere era affidato nel 1246 al magister Riccardo da Lentini operativo un decennio innanzi nella Sicilia orientale, da Milazzo a Catania fino al Castel Maniace di Siracusa23; per giunta la medesima fabbrica – quella pratese –, dov’è consuetudine ravvisare le prove giovanili di Nicola de Apulia in terra Toscana. Ciò che invece è sorprendente nel caso marchigiano, risiede nell’allargamento del tratto artistico-culturale pure a patronati di più basso regime e soprattutto di taglio politico diametralmente opposto, forse a registrare un naturale radicamento dell’idioma meridionale lungo la fascia centro Adriatica, perché strumento spesso privo di implicazioni propagandistiche. E non poteva essere altrimenti visto che, rispetto al versante tirrenico, la via Adriatica sin dall’età ottoniana e salica si prestava come tramite privilegiato volto a collegare il contesto settentrionale (germanico, oltre che padano) con la regione più vitale dell’Italia mediterranea: la Puglia. Si tratta di un fenomeno ancora certificato nel pieno XV secolo con la discesa in massa di maestranze alemanne, trovando di nuovo in posizione privilegiata San Ginesio e la fabbrica della pieve24. Dunque le più antiche testimonianze materiali della platea non scendono sotto la metà del Duecento, quale invece palesa la documentazione archivistica. Al contempo dei due edifici finora presi in esame, la pieve e il palazzo Defensorale, causa la demolizione del secondo per far posto al teatro ottocentesco, soltanto il primo consente attraverso le sopravvivenze di ricostruirne le vicende tardomedievali. Malgrado ciò, le stesse offrono un quadro di conoscenze generali a tutto il fronte della piazza, l’unico ricostruibile a quell’altezza cronologica dato che là avevano operato in conso21 22
Ibid., p. 55. P.F. Pistilli, Dal Meridione verso il Settentrione: castelli di Federico II nel Regno, d’Italia, in Mezzogiorno e Mediterraneo. Territori, strutture, relazioni tra Antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale (Napoli 9-11 giugno 2005), cur. G. Coppola E. D’Angelo - R. Paone, Napoli 2006, pp. 168-181. 23 P.F. Pistilli, Sulle orme di Riccardo da Lentini, «prepositus novorum hedificiorum» di Federico II di Svevia, in Scritti in onore di Maria Andaloro, in corso di stampa. 24 Corso, Il frontespizio tardogotico cit., pp. 123-157.
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nanza l’istituzione religiosa e l’autorità civica, condividendo dopo il 1250 la torre campanaria. Dicevo in consonanza, perché in una data successiva al 1355 ai due monumenti se ne assocerà un terzo, altrettanto qualificante: la sede fisica del potere signorile25. Ma procediamo per gradi, tentando una lettura della pieve. Ad integrare le informazioni fornite dalle giustapposizioni murarie che costruiscono il piede un tempo porticato del prospetto, si aggiungono all’interno del santuario – perché stonacate – sia la controfacciata sia le pareti alte della navata centrale, sostenute da arcate su un’infilata di snelli pilastri, per lo più cilindrici [Fig. 11]. A chiusura del coro, anticipato da un finto transetto immisso, si elevano le cappelle rettilinee, di cui la centrale assai più ampia delle laterali [Fig. 12]. Sotto la zona presbiteriale è situata la cripta, in origine raggiungibile da una coppia di rampe servite dalle navatelle. Escludendo tutta la zona del coro costruita sul finire del Trecento26, e pertanto distinta dal corpo longitudinale, la pieve duecentesca doveva possedere un’estensione più modesta, priva di qualsiasi ambiente sotterraneo. Tuttavia, quanto informano le murature a vista, l’edificio costruito dalla seconda metà del XIII secolo fu il prodotto di una sorta di work in progress che ha creato una evidente distonia tra l’abito esterno, vincolato a modelli locali di sapore ancora tardoromanico, e lo sviluppo dell’interno, sicché è ragionevole ipotizzare che l’elaborazione in blocchetti di arenaria della fronte [Fig. 13] e del fianco settentrionale – l’unico ora visibile – avesse anticipato l’assetto in triplice navata. In sostanza il cantiere si sarebbe mosso dal versante della piazza, procedendo lentamente in direzione della zona presbiteriale, prassi piuttosto insolita che sottintende la volontà di tenere in vita (forse per questioni strettamente liturgiche) un primitivo edificio di culto contenuto entro il perimetro della costruenda chiesa. Se da sempre è la plastica architettonica a vincolare al passaggio tra il XIII e il XIV secolo la datazione della parte inferiore del prospetto in cui si apre il vano del portale [Fig. 14], a sua volta prolungamento dello spezzone murario di metà Duecento che si diparte dalla base del campanile, per una più precisa cronologia dello spazio interno – comunque in pieno 25 Ancora nel 1355 «in camera plebis dicte terre ubi residentiam fatiebat ipse dominus Rodulfus» (ASCSG, Fondo pergamenaceo, capsa VIII, 20/19), come dimostra la carta rinvenuta da Cicconi, Notizie storiche cit., p. 98 nota 169. 26 Come riporta per primo Cicconi (Notizie storiche cit., p. 104), il nuovo coro era in costruzione nel 1363, perché i lavori erano beneficiati da un lascito testamentario «pro aumentatione tribune ipsius ecclesie» (San Ginesio, Archivio Storico della Collegiata [d’ora in poi ASCollSG], fondo diplomatico, 120).
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trecentesco – ci si deve muovere con estrema cautela. Qui la scultura dei capitelli d’imposta, concepiti nell’anomala veste di basi rovesciate, dimostra talora tangenze con gli esiti del portale di facciata [Figg. 15a-b], a dimostrazione di un continuum edilizio che stride nel cambiamento del linguaggio tra il fuori e il dentro. Sono di fatto i palinsesti murari a determinare per la scatola architettonica almeno due fasi costruttive, tra loro non correlate. Evidentemente la prima andava a completare la fabbrica avviata dal prospetto e proseguita lungo il perimetro. Come registra l’impronta a capanna in controfacciata [Fig. 16], il prospetto della pieve raggiungeva in origine un’altezza inferiore all’attuale, esito invece del cantiere di secondo Trecento. Inoltre la stessa non possedeva finestrature nella fascia soprastante gli archivolti della corsia principale, il cui andamento risulta leggermente fuori asse rispetto alla fronte che, seppur modificata dal cantiere del 1421 e da ulteriori e successivi ripristini, non mostra tracce di eventuali aperture orbicolari che in precedenza altri avevano avventatamente ipotizzato27. Ne consegue che l’interno del santuario, dominato da una doppia serie di pilastri esili ma slanciati, assumesse un alzato a sala, benché rimanesse privo di volte in muratura, almeno sulla navata centrale. Dunque una parlata di ascendenza settentrionale, e in prima battuta derivante dal mondo mendicante, ne configurava la modernizzazione in una macchina architettonica finalmente gotica, al contempo semplice e dignitosa, facendo della pieve un incunabolo piuttosto che un modello in territorio piceno. E che si trattasse di una soluzione pressoché avulsa dal territorio e quindi non del tutto digerita dalla committenza, va ad attestarlo lo stravolgimento che il monumento subì negli ultimi decenni del secolo, preludio al più tardo intervento di età martiniana con il quale se ne ultimava la confezione medievale. Ovviamente non è dato sapere cosa avesse indotto i canonici a modificare in maniera sostanziale l’assetto terminale della chiesa, inserendo un coro rettilineo tripartito con sottostante cripta [Fig. 17], oltre che a risistemare in forme altrettanto tradizionali le pareti alte della navata centrale, la cui sopraelevazione – ora dotata di un numero limitato di finestre – implicava di riflesso pure un riallineamento in elevato del prospetto sulla piazza. L’osservazione diretta, nonché i pochi documenti a disposizione, non escludono che all’iniziativa si correlasse la riedizione della trasanna in facciata voluta nel 1367 da Rodolfo II da Varano in occasione della conferma del vicariato su San Ginesio e di cui dà ampia testimonianza il canonico 27
Marchegiani, Il frontespizio in terracotta cit., pp. 637-654.
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Severini due secoli dopo . In quella circostanza forse si dettò l’avvio dei lavori anche sul versante della piazza [Fig. 18], di sicuro non la conclusione della fabbrica, come in tal senso registra la messe di donazioni private elargite nell’ultimo ventennio del XIV secolo e ancora al principio del successivo29. Altrettanto evidente è che la diretta partecipazione dei da Varano alle vicende edilizie della primaziale schiudeva una stagione del tutto inedita nella storia locale, dando ulteriore lustro alla pieve. Raggiunto definitivamente il controllo sopra il contado a discapito di ciò che sopravviveva della feudalità rurale con il possesso di Roccacolonnalta, tardivo ed effimero caposaldo dei Brunforte ai piedi dei Sibillini30, riconosciuta nel 1355 e ancora nel 1367 la signoria sulla cittadina, i da Varano con Rodolfo II – in virtù anche del rinsaldato rapporto preferenziale con la Curia romana – caricarono la pieve di una nuova e più forte centralità, tale da renderla anche visivamente strategica negli equilibri politici locali, quasi come se il tempio si innalzasse ad “ago della bilancia” delle sorti cittadine. È dunque in tale ottica, e nel portico in forma di primogenitura, che va letto il patronato di Rodolfo II, teso ora a collegare fisicamente – tramite la fronte del santuario – la residenza signorile [Fig. 19] al palazzo comunale e per giunta funzionale al corredo urbano di una piazza sempre più votata dal potere varanesco a sede di commerci, così come documento in pietra (ma si potrebbe dire più correttamente in cotto) sarà in seguito la facciata tardogotica creata dal maestro bavarese Herrigo31 [Fig. 20]. Entro questi due capi, e quindi nel corso di quasi cinquant’anni, tutto appare ruotare attorno alla pieve e molti devoti, singolarmente o in associazione, vi cercheranno ospitalità e protezione. Temporaneamente declassati i conventi mendicanti francescano e agostiniano, che un ruolo da primo attore avevano ricoperto sino alla metà del Trecento, l’evergetismo ginesino a ridosso del 1400 sembra rivolgersi incondizionatamente in direzione di questo spazio sacro32. Non solo allora si definiscono le forme architettoni-
28 M. Severini, Genesiae Historiae, Libri XII, ms. della seconda metà del XVI secolo presso Biblioteca Comunale di San Ginesio, ff. 187v-188r. 29 Cicconi, Notizie storiche cit., p.78. 30 Rossetti, L’architettura residenziale cit., p. 54. 31 L’attribuzione del progetto della facciata a Herrigo de Iapicho è certificato dagli accordi sottoscritti nel 1421 con il pievano Porfirio di Salimbene da Camerino, di cui sopravvive la minuta (ASCollSG, Scritture di carattere incognito 1358-1513, 1.13.1, fasc. 6) riletta da Cicconi, Notizie storiche cit., pp. 101-102. Sulla formazione in patria del maestro tedesco, cfr. ancora Corso, Il frontespizio tardogotico cit., pp. 131-143. 32 Cicconi, Notizie storiche cit., p. 78.
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che verso l’addizione duecentesca di Borgo delle Ripe, ma anche – e non fortuitamente sul medesimo fronte – vi si aggiungono ulteriori casamenti forse a scopo di ricovero o ospedaliero, come farebbe intendere la cosiddetta chiesa di San Sebastiano33 [Fig. 21]; e tenuto conto della lucida lettura di Frapiccini ancora qui, questa volta però nella cripta, troverà luogo idoneo il ciclo murale dedicato a san Biagio, affrescato nel 1406 da Lorenzo Salimbeni per una committenza, quella della corporazione dei Lanieri, fiera sostenitrice del fronte varanesco34. A questo punto si configura come un passo quasi scontato interpretare in chiave politica interna pure l’ultimo atto della vicenda medievale ginesina, vale a dire la facciata eretta nel 1421 che, e non è forse un caso, tralasciò di toccare l’ambulacro elevato da Rodolfo nel 1367. Non mi soffermerò sul riflesso oltremontano dell’impresa e sulla penetrazione di maestranze tedesche in questa landa dell’Italia adriatica, perché da tempo oggetto di attenzione. Tuttavia ricavo dalle recenti osservazioni di Giorgia Corso, e pertanto colgo in distillato esclusivamente un aspetto della sua lettura: la facciata della collegiata [Figg. 1 e 20] registra l’adozione di un tipo di prospetto caro ai Rathaus di primo Quattrocento35. Se così fosse, e gli esempi addotti sembrano confermarlo, si tratterrebbe non tanto del portato della cultura parleriana del maestro Herrigo, piuttosto di una scelta meditata da parte della committenza canonicale, dietro cui operava la regia dei da Varano. D’altronde piegata la funzione del prospetto a scopi di politica territoriale, disposti per coppia degli stemmi [Fig. 3a-d], già di per sé anomali sulla fronte di un edificio ecclesiastico, talvolta ripetuti e comunque associati a un’iscrizione tabellare [Fig. 2] che ha il sapore di un’epigrafe da broletto lombardo, il tutto manifestava l’apice di una dominazione signorile, sancita nel 1418 da precisi accordi con la Curia martiniana. Nulla faceva presagire il crollo varanesco del 1434, che avrebbe in breve tempo ricondotto San Ginesio in seno al rinascente centralismo pontificio, decretando per la cittadina dei Sibillini una lenta ed inesorabile agonia.
33 Il fabbricato ad aula e a terminazione rettilinea senza abside (ora adibito a Pinacoteca Civica) risulta addossarsi alla cripta tardo trecentesca della pieve. Di sicuro l’edificio aveva in origine altra destinazione o per lo meno una diversa intitolazione, se dai documenti editi da Cicconi si evince che fino al pieno Quattrocento a San Sebastiano era invece dedicato un oratorio ubicato sulla piazza presso la facciata della pieve (Notizie storiche cit., pp. 90-92). 34 D. Frapiccini, I Salimbeni, in La chiesa collegiata di San Ginesio cit., pp. 159-181. 35 Corso, Il frontespizio tardogotico cit., p. 137.
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Fig. 1 - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata
Fig. 2 - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: lapide del 1421
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Fig. 3b - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: arme di San Ginesio
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Fig. 3a - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: arme dei da Varano
Fig. 3c - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: arme del vescovo di Camerino Giovanni
Fig. 3d - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: arme pontificie
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Fig. 4 - Archivio di Stato di Roma, Catasto gregoriano, c. 245: San Ginesio e sue ville
Fig. 5 - San Ginesio, veduta aerea della collegiata della Ss. Annunziata con la piazza Alberico Gentili
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Fig. 6 - San Ginesio, Pinacoteca Civica “S. Gentili�, Quadro di S. Andrea: le mura duecentesche sul lato di Borgo delle Ripe
Fig. 7 - San Ginesio, cinta duecentesca sul lato di Borgo delle Ripe, Porta nova
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Fig. 8 - San Ginesio, cinta duecentesca sul lato di Borgo delle Ripe, torre
Fig. 9 - San Ginesio, “mura di San Nicola�, ruderi della porta urbana
Fig. 10 - San Ginesio, torre civica, portone
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Fig. 11 - San Ginesio, Ss. Annunziata, interno
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Fig. 12 - Planimetria della collegiata della Ss. Annunziata a San Ginesio e della cripta di San Biagio (Studio arch. Giuseppe Bocci, San Ginesio)
Fig. 13 - San Ginesio, Ss. Annunziata, facciata: fascia basamentale
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Fig. 14 - San Ginesio, Ss. Annunziata, portale di facciata
Fig. 15a - San Ginesio, Ss. Annunziata: lastra d’imposta di un pilastro
Fig. 15b - San Ginesio, Ss. Annunziata: lastra d’imposta del portale di facciata
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Fig. 16 - San Ginesio, Ss. Annunziata, controfacciata: la linea tratteggiata indica gli spioventi della facciata tardo duecentesca
Fig. 17 - San Ginesio, Ss. Annunziata, coro tardo trecentesco
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Fig. 18 - Collezione privata, acquarello “Morrichelli d’Altemps”, la piazza alla metà dell’Ottocento: da sinistra a destra la residenza varanesca, la pieve-collegiata e il palazzo Defensorale
Fig. 19 - San Ginesio, residenza varanesca a lato della Ss. Annunziata
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Fig. 20 - Archivio “Guglielmo Ciarlantini” di Leonardo Emiliozzi (San Ginesio): G.B. Carducci, Prospetto della Facciata della Insigne Collegiata di Sanginesio
Fig. 21 - San Ginesio, San Sebastiano (ora Pinacoteca Civica “S. Gentili”)
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La diffusione delle opere d’arte veneziane nell’area centro adriatica nel Trecento
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A partire dagli inizi del Trecento e fino al Settecento avanzato, almeno stando alle nostre attuali conoscenze, assistiamo a un singolare fenomeno che riguarda in particolare la pittura: ci troviamo infatti di fronte a una diffusione, si potrebbe dire capillare, di tavole e polittici, dovuti alla mano di pittori veneziani, lungo le due sponde del mare Adriatico, nelle città portuali e negli scali, ma anche, lungo le vallate, nei centri più interni. Un elemento legato, sembrerebbe ovvio, alle attività commerciali della flotta veneziana con i centri adriatici, attività, la cui più approfondita conoscenza consentirebbe anche agli storici dell’ arte di meglio analizzare questi fatti; poiché nemmeno molta luce portano i nomi dei committenti, che qua e là compaiono, ma non sembrano essere personalità di particolare spicco dei centri marchigiani. E del resto i dipinti, di cui si tratta e che sono arrivati fino a noi, erano stati per lo più eseguiti per chiese di paese o di piccoli centri, e non per committenze prestigiose. Né gli artisti sembrano essere legati a particolari ordini religiosi, perché le loro opere si trovano indifferentemente nei conventi domenicani, francescani, nei monasteri benedettini, nelle pievi e nelle parrocchie. È invece interessante che non si conoscano sinora dipinti veneziani eseguiti per i potenti signori della zona, né che gli stessi artisti abbiano eseguito per i centri marchigiani quadri di soggetto profano. Questa diffusione di opere è anche interessante, perché queste erano richieste e ricercate in terre che avevano una loro consolidata tradizione artistica ed erano ricche di opere d’ arte anche pittoriche, ma forse più di affreschi che di tavole. Forse le luminose, affascinanti e complesse tavole e i polittici veneziani erano diventati una sorta di moda, un oggetto particolarmente ricercato proprio per la ricchezza degli ori, lo splendore delle vesti, la luminosità dei colori, e la fantasmagorica ricercatezza delle cornici. In questa sede interessa puntualizzare questo particolare elemento, portando la nostra attenzione alla sponda italiana del mare e focalizzando
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in particolare il nostro obiettivo sulla regione Marche1, che è quella che conserva il maggior numero dipinti veneziani del basso medioevo. Mi soffermerò inoltre solo sui decenni che vanno circa dalla seconda metà del Trecento fino agli anni 20-30 del Quattrocento, per restare nei limiti cronologici imposti da questo convegno Ma poiché la presenza diffusa di opere veneziane riguarda tutta la civiltà costiera adriatica, sarà bene, per completezza, dare un’ occhiata, oltre alle Marche, anche alle altre regioni, a partire dalla Romagna per arrivare fino all’ estrema punta sud dell’ Italia, nel leccese. Come si è detto una diffusa presenza di tavole veneziane nelle zone adriatiche sembra iniziare con una certa regolarità attorno alla metà del Trecento. All’ inizio infatti del nostro excursus incontriamo le tavolette con le Storie della Vergine, conservate al Museo Civico di Pesaro, quasi certamente la predella di un complesso polittico, eseguito per qualche centro significativo del territorio pesarese: si tratta di uno dei capolavori giovanili di Paolo Veneziano, il più significativo pittore veneziano del Trecento [Fig. 1], databile agli inizi del quarto decennio del Trecento, che dimostra una stretta dipendenza iconografica dagli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Poco dopo la metà del secolo, arriva a San Severino Marche uno straordinario Polittico della tarda maturità di Paolo Veneziano [Fig. 2], ora conservato nella Pinacoteca Comunale della città, ad eccezione della tavola centrale con l’Incoronazione della Vergine, che si trova alla Frick Collection, e che reca un’iscrizione ove si legge la data di esecuzione, 1358 e il nome dei pittori, Paolo e il figlio Giovanni: il dipinto raffinatissimo e prezioso traduce in un elegante goticismo gli stilemi persistenti del linguaggio “bizantineggiante”. La committenza questa volta è alta, perché il Polittico fu dipinto per la chiesa del Convento dei Domenicani di San Severino. Nello stesso torno di anni o appena poco dopo arriva a Lecce nel monastero delle benedettine di San Giovanni, un
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Per la pittura veneta nelle Marche in particolare: P. Zampetti, La pittura nelle Marche dalle origini al primo Rinascimento, Firenze 1988, e in particolare il capitolo: Pittori veneti nelle Marche, pp. 266-273. E, per i pittori veneti del primo Quattrocento vedi M. Lucco, Venezia 1400-1430, in La Pittura nel Veneto. Il Quattrocento, I, cur. M. Lucco, Milano 1989, pp. 13-48. Utile anche il Catalogo della mostra Fioritura tardogotica nelle Marche, (Urbino, luglio ottobre 1998), cur. P. Dal Poggetto, Milano 1998. Per il problema relativo alla diffusione delle opere pittoriche veneziane nel Trecento e nel primo Quattrocento lungo le due sponde dell’Adriatico, vedi soprattutto Paolo Veneziano e la pittura tra Oriente e Occidente. Catalogo della Mostra (Rimini agosto dicembre 2002), cur. F. Flores d’Arcais - G. Gentili, Milano 2002; e in particolare: Flores d’Arcais, Paolo Veneziano e la pittura del Trecento adriatico, pp. 19-31.
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altro bellissimo Polittico, con ricchissima cornice dorata, attribuibile alla cerchia di Lorenzo Veneziano [Fig. 3], ora conservato al Museo Provinciale, con la Madonna e il Bambino e Santi: è questa l’ opera veneziana “più meridionale” tra quelle note, forse arrivata fin laggiù, perché proprio a Lecce vi era una fiorente colonia veneziana. Più modesto dal punto di vista stilistico è il dipinto eseguito per la chiesa di Santa Maria di Castelnuovo, borgo vicino a Recanati, conservato al Museo Diocesano, dovuto alla mano del mediocre pittore veneziano Guglielmo [Fig. 4]: ne conosciamo questa volta, oltre alla data (1382), la precisa committenza: la tavola infatti fu eseguita per un cittadino veneziano, tale Andrea Colussi che si fa ritrarre assieme al figlio al di sotto del trono della Madonna, e reca la seguente iscrizione: “MCCCLXXXII DEL MESE DE MARZO ADI VI FE FAR SER ANDREA DE CHOLUZO CITADIN DE VENEXIA QUESTO LAVORIER GUIELMUS PINXIT. Si tratta in questo caso di uno dei tanti cittadini veneziani che si erano stabiliti nelle cittadine marchigiane, dove avevano forse delle ditte, ma conservavano la cittadinanza veneziana e quindi i rapporti con la cultura pittorica lagunare. Nella residenza municipale di Montesampietrangeli, in provincia di Fermo, si conserva una piccola tavola, di linguaggio fortemente venezianeggiante, erroneamente attribuita anche a Paolo Veneziano, con la Madonna col Bambino, forse facente parte di un complesso pittorico articolato, di ignota provenienza. Forse dalla chiesa di San Gregorio Magno di Fermo, come ipotizza Alessandro Marchi2, proviene un Polittico, ora alla Pinacoteca Comunale della città, con una rara raffigurazione della Incoronazione della Vergine al centro e cinque Santi ai lati (uno evidentemente è andato perduto), attribuito a un pittore chiamato per convenzione “maestro di Elsino” [Fig.5], che si esprime in un linguaggio venezianeggiante, ma da qualche critico ritenuto invece uno dei pittori dalmati, fortemente influenzati dal linguaggio pittorico veneziano, e a loro volta attivi per i centri delle due sponde dell’ Adriatico; il nome deriva al pittore da un Polittico di provenienza ignota ora alla National Gallery di Londra che raffigura Miracoli della Immacolata Concezione, il cui culto era stato propugnato da un certo abate Elsino. E ancora un altro maestro, attivo sulle due sponde dell’ Adriatico, sembra essere il cosiddetto “maestro di Torre Palme”, autore anch’ egli di un Polittico, che conosciamo oggi solo attraverso le fotografie, perchè purtroppo rubato, proveniente dalla chiesa metropolitana di Torre Palme, in provincia di Fermo. 2
A. Marchi, Maestro d’ Elsino, scheda n. 58, in Paolo Veneziano cit., pp. 216-217.
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Un epigono della pittura veneziana del Trecento è Jacobello di Bonomo: il suo linguaggio, pur legato e debitore dei modi di Lorenzo Veneziano, si muove anche subendo un riflesso della tarda statuaria trecentesca di Venezia, con un recupero della fisicità dei personaggi e una viva attenzione alle fisionomie rese con attenzione nei volti carichi di espressività. Le sue opere circolano lungo le due sponde adriatiche: sul versante italiano gli viene attribuito un Polittico che era nella chiesa di San Michele a Fermo [Fig. 6], e oggi è nel Museo Civico della città, caratterizzato appunto da un solido impianto plastico delle figure. E sempre di Jacobello sarà da tener presente, nel vicino entroterra adriatico, nella Collegiata di Sant’ Arcangelo di Romagna, una delle opere più preziose: il grandioso Polittico, firmato e datato 1385, che mostra analoghi accenti di volumetria e una certa solennità nell’ impianto scenico, in particolare nel trono della Vergine, oltre ad una sottile attenzione, in chiave quasi naturalistica, ai volti aggraziati dei personaggi. Allo stesso torno di anni si può assegnare un rovinato Polittico che ora presenta solo al centro la Madonna in trono col Bambino e lateralmente quattro mutili Santi, conservato nella parrocchiale di Altidona presso Ascoli Piceno, di autore ancora ignoto, anche se si tratta o di un pittore veneziano o di un artista molto fortemente influenzato dal linguaggio pittorico lagunare. A partire dai primissimi anni del Quattrocento si ha tuttavia un momento molto significativo della diffusione delle opere su tavola veneziane, e in questo momento sono proprio le Marche ad assumere un ruolo privilegiato, e soprattutto lo sono i centri rivieraschi della regione. Attivi nelle Marche o per le Marche sono ora i protagonisti veneziani di quel movimento di stile chiamato “gotico internazionale”: Nicolò di Pietro, Jacobello del Fiore e, poco più tardi, Michele Giambono e infine Zanino di Pietro. Come e perché questi artisti, che la storia dell’ arte considera tra i protagonisti della svolta gotica in Venezia, abbiano lavorato per così dire in provincia e non a Venezia, non è ancora chiaramente spiegabile. A Venezia dogavano prima Michele Steno (dal 1400 al 1413), che fu il protagonista della conquista continentale dello stato veneziano, successivamente Tommaso Mocenigo (1414-1423) e poi Francesco Foscari (1423-1457) . Tutti e tre sembrano privilegiare artisti più moderni, non veneziani. A Venezia nei primi decenni del nuovo secolo sono infatti presenti il lombardo Michelino da Besozzo, poi Gentile da Fabriano e infine Pisanello. Con lo Steno cominciano ad arrivare scultori toscani, che poi, sotto i suoi successori, il Mocenigo e soprattutto il Foscari, saranno tra i protagonisti delle maggiori opere scultoree veneziane, a partire dal coronamento gotico della
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Basilica di San Marco. In quegli anni a Venezia in scultura si parla un linguaggio rinnovato, sul crinale di un embrionale rinascimento, mentre in pittura l’ apertura “moderna” sarà rappresentata soprattutto dall’arrivo tra le lagune di Andrea del Castagno nel 1442. Forse in questa politica di aperture e in queste novità di linguaggi, la pittura propriamente veneziana, ancora legata a moduli troppo tradizionali non era più molto richiesta dalla raffinata committenza della città lagunare. Lo stesso Jacobello del Fiore che era una sorta di soprintendente del Palazzo Ducale, non vi dipinge, ma nella sala del Maggior Consiglio lavorano Gentile da Fabriano e Pisanello. Negli stessi anni evidentemente i centri delle regioni adriatiche rimangono ancorati ai modi stilistici di un goticismo per taluni versi bizantineggiante, ma splendente di luce e di ornamenti dorati. E proprio sotto questo angolo visuale le Marche presentano, come si è accennato sopra, un osservatorio privilegiato Jacobello del Fiore, è artista che parla un linguaggio raffinatissimo ed elegante, legato ancora a moduli per così dire “bizantineggianti” nelle figure allungate e piuttosto piatte, interpretate però con una particolare ricerca di effetti preziosi nelle stoffe delle vesti, con una linea morbida e ondulata e con una sofisticata compiacenza nel ritrarre minutamente erbe e prati fioriti. Lo vediamo molto attivo nel territorio pesarese, con una serie di dipinti alcuni dei quali sicuramente eseguiti a Venezia e spediti nelle chiese del contado pesarese. Jacobello è documentato a Venezia nel 1400, già maggiorenne e nominato pittore, e nel 1401 esegue e manda a Pesaro per la chiesa di San Cassiano un polittico oggi perduto, la cui parte centrale, una Madonna dell’ umiltà qualche critico vorrebbe riconoscere in una tavola conservata al Museo provinciale di Lecce. Nel 1407 dipinge per la Confraternita della Madonna della Misericordia di Montegranaro un elegante trittico [Fig. 7], purtroppo emigrato in Svizzera. Del 1408 è il Crocifisso eseguito a Venezia assieme all’ intagliatore Antonio di Bovesin per la parrocchiale di Casteldimezzo; del 1409 è il polittico della Beata Michelina [Fig. 8], oggi al Museo di Pesaro, che reca nella tavola centrale la figura scolpita in legno della Santa, secondo una moda molto diffusa a Venezia e proposta anche, appunto, dagli artisti veneziani nelle opere eseguite nelle due sponde dell’ Adriatico. Jacobello arriva fino all’ Abruzzo dove esegue per il Duomo di Teramo un complesso monumentale polittico [Fig. 9], giunto intatto, anche nella sua fioritissima carpenteria: un’opera come questa, grandiosa e ricchissima nella abbondanza degli ori, non solo negli sfondi, ma negli orli dei manti e delle vesti, può veramente spiegarci il successo che le tavole veneziane potevano avere, anche prescindendo dalla qualità, più o meno alta, dello stile, in queste terre.
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Alla tarda attività di Jacobello si attribuiscono due complessi pittorici per due chiese di Fermo: il primo è un polittico per la chiesa di San Pietro, ora smembrato, e il secondo è una serie di elegantissime Storie di Santa Lucia [Fig. 10], provenienti dalla omonima chiesa, che potevano essere sportelli di un armadio per reliquie o altro, e oggi anch’esse si trovano nella Pinacoteca della città: le raffinatissime tavolette, dove la narrazione della vita della santa assume toni fabulistici in chiave di raffinatezza cortese, preziosissime nei colori, negli ori delle vesti adatti alle dame di corte, e impaginate entro paesaggi felici di piantine lussureggianti o fantasiose architetture colorate, costituiscono il massimo raggiungimento di Jacobello del Fiore in chiave gotica e si pongono al pari degli esiti dei fratelli Salimbeni, che sono da considerarsi i grandi protagonisti di questa stupenda stagione pittorica marchigiana. La vasta e varia produzione marchigiana di Jacobello del Fiore non lascia trasparire particolari committenze; come negli altri casi di dipinti veneziani, si tratta sempre di opere di soggetto sacro, per chiese o conventi, quindi, evidentemente, si tratta sempre di una committenza religiosa, ma di cui ancora non abbiamo precise notizie; nè Jacobello mostra di essere legato in modo particolare a qualche ordine religioso, perché le sue opere hanno una destinazione assai varia. Non così pare sia accaduto a Nicolò di Pietro, il secondo dei protagonisti del “gotico internazionale” veneziano, attivo anch’egli nelle Marche e proprio vicino a Pesaro. Il pittore sembra essere legato all’ordine degli Agostiniani per i quali nel 1404 esegue una Croce (firmata e datata) per la chiesa del convento di Verucchio e oggi alla Pinacoteca di Bologna [Fig. 11]; e ancora forse proprio per la chiesa degli Agostiniani di Pesaro un Polittico, di cui restano al museo civico della città quattro figure di Santi [Fig. 12], di un verismo sapido e ai limiti del grottesco nei volti pungenti, e quattro tavolette vivacissime con le Storie di Agostino, oggi nella Pinacoteca Vaticana [Fig. 13], anch’esse caratterizzate da animate scenette piene di brio. Un altro pittore di ambiente veneziano attivo nelle Marche, è Zanino di Pietro, personalità di non alto respiro, al quale dobbiamo un Trittico proveniente da Valcarecce di Cingoli, oggi al Museo diocesano di Camerino, un fioritissimo polittico per il convento del Beato Sante presso Mombaroccio [Fig. 14] e una tavola con la Madonna in trono e il Bambino nella parrocchiale di Sant’Angelo in Vado, che ricorda i modi e le eleganze di Giambono. Possiamo chiudere questa carrellata con il Polittico, proveniente dal Santuario al Ponte sul Metauro e ora alla Pinacoteca civica di Fano, di
LA DIFFUSIONE DELLE OPERE D’ARTE VENEZIANE
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Michele Giambono [Fig. 15]. È questi un pittore di ben altro livello stilistico, la cui personalità emerge tra gli altri artisti definiti rappresentanti “del gotico internazionale”. Ma la sua opera, di raffinata eleganza e di squisite invenzioni tecniche nell’ uso dei colori e nel gioco degli ori, ha ormai il sapore di quel “rinascimento umbratile” – la definizione è di Longhi – che segna il passaggio a Venezia verso il linguaggio rinnovato e moderno anche in pittura.
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IS Fig. 1 - Paolo Veneziano, Incontro di Gioachino e Anna presso la Porta aurea, Pesaro, Museo Civico
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Fig. 2 - Paolo Veneziano, Polittico, San Severino Marche, Pinacoteca Comunale
Fig. 3 - Ambito di Lorenzo Veneziano, Polittico, Lecce, Museo provinciale
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Fig. 4 - Guglielmo Veneziano, Madonna col Bambino e Santi, Recanati, Museo Diocesano
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Fig. 5 - Maestro di Elsino, Polittico dell’Incoronazione, Fermo, Pinacoteca Civica
Fig. 6 - Jacobello di Bonomo, Polittico dell’Incoronazione, Fermo, Pinacoteca civica
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Fig. 7 - Jacobello del Fiore, Trittico, Collezione privata svizzera
Fig. 8 - Jacobello del Fiore, Polittico della Beata Michelina, Pesaro, Museo Civico
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Fig. 9 - Jacobello del Fiore, Polittico, Teramo, Duomo
Fig. 10 - Jacobello del Fiore, Santa Lucia al sepolcro di Sant’Agata, Fermo, Pinacoteca Civica
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IS Fig. 11 - Nicolò di Pietro, Crocifisso, Bologna, Pinacoteca nazionale
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Fig. 12 - Nicolò di Pietro, San Nicola da Tolentino e san Pietro, Pesaro, Museo civico
Fig. 13 - Nicolò di Pietro, Battesimo di sant’Agostino, Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana
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Fig. 14 - Zanino di Pietro, Polittico, Mombaroccio, Convento del Beato Sante
Fig. 15 - Michele Giambono, Polittico, Fano, Pinacoteca civica
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LECTIO MAGISTRALIS DEL PREMIATO 2011
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Il maestro di Offida
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Come è nato l’interesse per il problema del maestro di Offida? È questa la ragione fondamentale per la quale l’Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” mi ha offerto questo riconoscimento. Come è nato l’interesse da parte mia? Il maestro di Offida era lì e non era certo passato inosservato. Quando cominciai ad occuparmi di cose relative a questo ambiente e a questo tipo di produzione, il maestro di Offida era identificato con Andrea da Bologna, secondo un’ipotesi di Berenson, il quale lo teneva d’occhio già dal principio del secolo scorso. La presenza nelle Marche di opere firmate di questo maestro bolognese della seconda metà del Trecento aveva costituito il punto di riferimento e di aggancio per le ricerche di Berenson, il quale, tuttavia, nei confronti della cultura dell’Italia centrale, a esclusione di Firenze, mostrava persino derisione. Longhi ricordava che tanti pittori umbri del Trecento erano ricondotti da Berenson a un maestro “Squalliduccio da Bettona”. Tale atteggiamento dà la misura di come Berenson fosse disposto nei confronti di questa produzione: egli riuscì ad accettare l’identificazione del maestro di Offida con Andrea da Bologna, che non era certo un “da Bettona”, non era confondibile con le cose medio-adriatiche, e acquistava dignità dall’accostamento a un nome preciso e a opere certificate. Si trattava di un’attribuzione sbagliata ma significativa, perché un uomo come Berenson, che veniva a suo modo da lontano e considerava la pittura umbra non solo “squalliduccia”, ma riducibile entro l’ambito stretto del borgo di Bettona, riteneva il maestro legittimabile solo se fregiato di un nome, di un cognome e di date certe. Questa era la situazione agli inizi degli anni ’60, quando, alla fine di un primo decennio di attività, io incominciavo a occuparmi delle cose connesse con questo problema. Ricordo che dopo aver lasciato la Soprintendenza napoletana, ovvero – più precisamente – dopo aver completato il trasferimento della
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Pinacoteca Nazionale dal Museo Archeologico, dov’era sostanzialmente immagazzinata, al Palazzo Reale di Capodimonte, ero passato all’insegnamento presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, e di lì ero passato a quella di Roma, dove insegnai per un anno. Durante il periodo trascorso presso l’Accademia di Roma conobbi il pittore e incisore Diego Pettinelli (solo ieri sera ho saputo che Pettinelli era il genero di De Carolis, l’allievo di Aristide Sartorio, autore del fregio che decora l’aula di Montecitorio, sede del Parlamento italiano), a suo modo considerato come un personaggio vivificante nell’ambito dell’Accademia romana. Fu questo pittore, nativo di Montefiore dell’Aso, che mi parlò degli affreschi che si trovano nella chiesa di San Francesco appunto a Montefiore dell’Aso, una chiesa di cui si è molto parlato stamattina a proposito della tomba dei genitori del cardinale Partino e della tomba del cardinale stesso, personaggio del maggior rilievo non solo nella curia romano-avignonese del Trecento, ma della intera cultura europea. Mi affrettai ad andare a Montefiore per vedere questi dipinti. Mi accorsi facilmente che si trattava di un ciclo di pitture di grande importanza, da considerare “con asterischi ripetuti” nella graduatoria dei problemi da affrontare e districare in fatto di pittura trecentesca. Inoltre i rapporti sembravano strettissimi proprio con le pitture di Offida, delineando la fisionomia di un maestro che per una decina d’anni è stato per me il “maestro di Offida e di Montefiore dell’Aso”. Fu più tardi che l’allora mio allievo, e oggi professore universitario di rango, Pierluigi Leone de Castris, mi sottopose le fotografie di un trittico che era stato restaurato in Basilicata, che apparteneva alla chiesa di Tursi e proveniva dalla Rabatana. Non tardai ad accorgermi che esisteva un rapporto molto stretto con le figure dipinte dal maestro di Offida a Offida ed avanzai l’ipotesi che si trattasse proprio del maestro di Offida. A questo punto il maestro incominciò a prendere una fisionomia ben precisa (benché qualcuno ancora oggi insinui qualche dubbio, che io respingo): si tratta di una ricerca pittorica importante, da collegare a due cicli altrettanto importanti e da rimettere in un ordine cronologico che ponga dapprima Montefiore, quindi Offida. A Offida, per altro, vanno individuate due fasi successive e distinte, in considerazione del fatto che gli spicchi delle absidiole laterali della cripta non sono contemporanei tra di loro. Veniva prendendo forma un maestro che nel frattempo avevo individuato anche fra gli affreschi sparsi sulle pareti delle navate del duomo di Atri, e finalmente anche in quelli della parrocchiale di Canzano. Parlandone con Pierluigi, la figura prendeva corpo e assumeva rilievo nel contesto di questi ambiti pittorici che erano inizialmente piceni, ma che si erano presto indirizzati verso la zona territoriale che autonomamente e
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legittimamente si può chiamare aprutino-picena. Le Marche sono ‘tante’: quella che qui ci interessa è la Marca meridionale, che ha a che fare con un Abruzzo particolare, quello teramano settentrionale. La regione aprutinopicena è quella dalla quale il nostro pittore trae le sue radici. Nel 1984 misi in evidenza in un contributo queste proposte: ne emergeva abbastanza chiaramente, attraverso il trittico di Tursi, il rapporto con gli affreschi che intanto erano stati identificati nel coacervo della decorazione del Duomo di Atri, visti nella prospettiva degli affreschi di Canzano e delle pitture di Offida, dai quali si era partiti. Ne emergeva una situazione molto complessa che comportava riferimenti ad almeno altre due situazioni culturalmente significative in quel contesto: i rapporti con la pittura bolognese, che aveva fatto sentire la sua presenza fino a Fermo – dunque abbastanza addentro nella Marca meridionale –, e dall’altra parte i rapporti con la cultura post-giottesca rappresentata soprattutto da Maso di Banco. A Maso di Banco Longhi aveva dedicato vari accenni e studi già abbozzati subito dopo la grande mostra giottesca del 1937. Longhi aveva misurato i suoi ‘pensamenti’ con quelli di Richard Offner, il quale aveva ricostruito una figura rivelatasi in seguito identica a quella di Maso giovane: insomma ne era venuta fuori la fisionomia di un Maso ‘antico’, precedente non solo agli affreschi della Cappella Bardi di Vernio in Santa Croce a Firenze, che toccano gli anni ’40, ma anche all’opera napoletana. Maso aveva operato a Napoli al seguito di Giotto, negli anni in cui Giotto, accettato l’invito di Roberto d’Angio, aveva deciso di trasferire tutta la sua bottega a Napoli, città regia e di grande reputazione nel contesto della geografia politica e socio-economica del momento. A Napoli aveva operato nella Cappella Palatina del Maschio Angioino, dove Petrarca, parlandone nell’Itynerarium Siriacum, scrisse che aveva lasciato segni di sé il suo conterraneo Giotto, il maggior pittore di quei tempi, e ne raccomandava la visione a quanti passassero per Napoli recandosi in Palestina. Nella Cappella Palatina, per altro, Giotto non aveva lavorato da solo, ma – come s’è detto – con l’intera sua bottega trasferita da Firenze. Malauguratamente, la massima parte degli affreschi così eseguiti è andata perduta a causa delle dissennate iniziative di altri sovrani, gli Aragonesi, che regnarono a Napoli nel Quattrocento avanzato. Uno studioso moderno – per la verità molto discusso, ma che in questo caso si è rivelato particolarmente attento, Mario Salmi – è giunto a una conclusione condivisibile in relazione alla presenza negli sguanci di uno dei finestroni della cappella di brani di pittorici da restituire proprio a Maso giovane (vale a dire fra il 1328 e il 1333). Come è noto, Giotto torna a Firenze all’indomani della famosa alluvione descritta da Matteo Villani. La
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reggenza comunale decide infatti di richiamare il maestro in città al fine di affidargli la direzione del restauro di Firenze sconvolta dall’inondazione. In questa situazione, è evidente che ciò che si poté vedere a Napoli negli svolgimenti tratti da Maso dall’opera di Giotto poteva diventare un importante elemento propulsivo per la cultura artistica dell’Italia centromeridionale e non meno di quella centro-settentrionale. Infatti poco dopo, e proprio nelle Marche, appaiono due componenti importanti della cultura fiorentina post-giottesca: una identificata in Puccio di Simone, a sua volta identificato con il pittore definito da Offner maestro di Fabriano – è infatti sulla base di un importante trittico di questo pittore conservato a Fabriano che si ricostruisce un ramo altamente significativo della cultura fiorentina nelle Marche –, e l’altra è la cultura masiana, entrata nella Marche anche per la via di Arezzo (tali passaggi sono stati più volte studiati dal compianto Luciano Bellosi). Il maestro di Offida, specialmente nei modi di Montefiore dell’Aso, risultava così un adepto della cultura masiana centro-italiana rispecchiata nell’Italia meridionale – di qui la presenza del trittico in Basilicata, ovvero in una regione che aveva tutte le possibilità per risentire sia della situazione napoletana, sia di quella marchigiana –, specularmente a quanto aveva fatto Puccio di Simone, portando con sé la cultura giottesca della fase successiva, ravvisabile nell’evoluzione di un Bernardo Daddi. È in questa situazione che si inserisce il contributo originale del maestro, che era riuscito ad amalgamare tutti questi elementi disciogliendoli in una delicatezza pittorica straordinaria. Chi guarda oggi con attenzione le opere del pittore, resta colpito dall’estrema delicatezza del suo svolgimento pittorico, animato nello stesso tempo da un sentimento degli spazi organizzati di tipo giottesco-masiano, che gli permette di presentarsi in modi originali. Questi è il maestro di Offida. Interviene di nuovo, a questo punto, il professor Leone de Castris. Considerata la dislocazione geografica delle opere del maestro così delineato, il peso specifico del suo “corpus” si sposta nella direzione abruzzese: via Canzano, innanzitutto, ma per riparare ad Atri. E Atri suggerisce un nome; un nome che Luca da Penne – un antico giurista e storico della cultura, ma, in senso lato, anche storico dell’arte – aveva identificato in Luca d’Atri, un pittore celebrato e considerato pari a Giotto. Sorge così l’ultimo problema: Luca d’Atri può essere il maestro di Offida? Leone de Castris una sua linea l’ha scelta e gli argomenti che ha addotto sono interessanti, ma nello stesso tempo io credo che occorra aver pazienza, nell’attesa che emerga un punto di riferimento documentariamente più sicuro.
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Qualche precisazione sugli affreschi tardogotici in Santa Maria della Rocca a Offida
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Gli affreschi quattrocenteschi presenti nell’abside della chiesa di Santa Maria della Rocca ad Offida sono parte di una vicenda critica, anche recente, che necessita di alcune indispensabili precisazioni che saranno qui presentate in forma sintetica per ovvi motivi di spazio, rinviando il tutto ad una più ampia trattazione sulla pittura tardogotica tra Marche meridionali e Abruzzo in corso di completamento. Nonostante la loro qualità sicuramente alta, la presenza di qualche dato di riferimento cronologico e di committenza e le particolarità linguistiche della loro declinazione stilistica, i murali di cui ci occupiamo sono stati infatti oggetto di attenzione ed interesse quasi esclusivamente in funzione di alcune indiscutibili somiglianze con la decorazione, più o meno coeva, della chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, distante in linea d’aria un po’ meno di 100 km. Nella letteratura più recente essi vengono attribuiti “senza dubbio”1 al cosiddetto, appunto, maestro del Giudizio di Loreto Aprutino e confusi in un coacervo un po’ eterogeneo di opere di cui tra breve farò cenno. Qualche dubbio però, a mio avviso, sarebbe saggio – e sicuramente più corretto dal punto di vista metodologico – farselo venire. Nonostante siano stati ricordati più e più volte in opere di carattere generale e in contributi su altri contesti2, questi murali non sono stati 1
È quanto testualmente affermato in C. Pasqualetti, Per la pittura tardogotica ai confini settentrionali del Regno di Napoli: sulle tracce del ‘Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino’. II, «Prospettiva», 117-118 (2005), pp. 63-99: 65. 2 Elenco qui i principali contributi che costituiscono la storia critica dei murali offidani: R. van Marle, The Development of the Italian Schools of Painting, V, The Hague 19231928, pp. 459-460: E. Carli, Arte in Abruzzo, Milano 1998, pp. 204-208 (già pubblicato come Per la pittura del Quattrocento in Abruzzo, «Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte», 9 [1942], pp. 164-211); G. Crocetti, Gli affreschi di S. Maria della Petrella, «Notizie da Palazzo Albani», 8 (1979), pp. 15-45; S. Dell’Orso, Considerazioni intorno agli affreschi della chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, «Bollettino d’ar-
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oggetto di una trattazione specifica e forse proprio a ciò si deve una certa approssimazione nella definizione della loro specificità stilistica. Ma procediamo con ordine e passiamo in rassegna i dati oggettivi a nostra disposizione, relativi alla fase quattrocentesca di quello che a buon diritto può essere definito uno dei più interessanti complessi pittorici dell’ultimo Medioevo centroitaliano3 [Fig. 1]. Essi, per fortuna, sono un po’ meno scarsi di quanto non avvenga solitamente per contesti analoghi. Il punto di partenza per la collocazione storica degli affreschi dell’abside della chiesa superiore è un’iscrizione dedicatoria, che trasmette la memoria di una committenza da parte Baldassarre Baroncelli nel 1423 e che si trova al di sotto del lacerto di un’immagine della Madonna in trono con il Bambino [Fig. 2], verosimilmente in origine accompagnata da altre figure di santi4. Al di sotto della iscrizione, si scorgono i resti – in tutti i sensi – di tre defunti, forse i familiari del Baroncelli. Queste immagini fanno parte di un palinsesto, che nello strato inferiore mostra parti di un’altra iscrizione e le figure di due committenti inginocchiati, per motivi stilistici riferibili al secolo precedente [Fig. 3].
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te», ser. VI, 73/49 (1988), pp. 63-82: 68-70; F. Aceto, La chiesa di San Francesco a Campli, in Documenti dell’Abruzzo Teramano. IV/ 2, Le valli della Vibrata e del Salinello, Pescara 1996, pp. 429-441: 439-440; F. Bologna, Per una storia delle arti medievali e moderne nel Mezzogiorno continentale, in Storia del Mezzogiorno, XI, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’età moderna, IV, Napoli 1993, pp. 217-242: 235-236; Aceto, La chiesa di San Francesco a Campli, in Documenti dell’Abruzzo Teramano cit., pp. 429-441; S. Papetti, Gli affreschi trecenteschi e quattrocenteschi, in Santa Maria a Pie’ di Chienti, cur. G. Avarucci, Montecosaro 1999, pp. 129-149; Bologna, Giudizio Universale e altri affreschi. Chiesa di Santa Maria in Piano. Loreto Aprutino, in Documenti dell’Abruzzo Teramano. VI/1, Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Pescara 2003, pp. 352-365; C. Pasqualetti, Affreschi del Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino. Chiesa di Santa Maria de Erulis. Ripattoni, in Documenti dell’Abruzzo Teramano. VII/1, Teramo e la valle del Tordino, Teramo 2006, pp. 454-460; Pasqualetti, Per la pittura tardogotica ai confini settentrionali del Regno di Napoli: sulle tracce del ‘Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino’. I, «Prospettiva», 109 (2003), pp. 2-26; Pasqualetti, Per la pittura tardogotica II cit.; Pasqualetti, Affreschi del Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino. Chiesa di Santa Maria de Erulis. Ripattoni, in Documenti dell’Abruzzo Teramano cit., pp. 454-460; M. Minardi, Lorenzo e Jacopo Salimbeni. Vicende e protagonisti della pittura tardogotica nelle Marche e in Umbria, Firenze 2008, pp. 126-127; G. Pellini, Il rinnovamento tardogotico di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, in Universitates e Baronie. Arte e architettura in Abruzzo e nel regno al tempo dei Durazzo. Atti del Convegno di Studi (Guardiagrele-Chieti 2006), cur. P.F. Pistilli - F. Manzari - G. Curzi, Pescara 2008 (Mezzogiorno medievale, 5), II, pp. 69-92. 3 A Santa Maria della Rocca, com’è noto, è attivo anche il cosiddetto Maestro di Offida, importante ma purtroppo sconosciuto, pittore attivo tra Marche e Abruzzo, per la cui opera rimando al contributo di P. Leone de Castris, in questi stessi Atti. 4 Se ne veda la trascrizione in A. Salvi, Iscrizioni medievali nel territorio ascolano, Ascoli Piceno 2010, pp.144-147.
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Occupiamoci ora brevemente di Baldassarre, il committente, la cui figura storica merita un po’ attenzione5. Questi nacque in Offida intorno al 1380, forse nella stessa famiglia di Francesco Baroncelli, che nell’Urbe succedette a Cola di Rienzo come “tribunus”. Intraprese sin dalla giovinezza il mestiere delle armi, per usare il titolo di un noto film di Ermanno Olmi, combattendo contro gli Ascolani in difesa della propria città. Fu poi al servizio del re di Napoli, Ladislao di Durazzo, forse in cerca di maggior gloria militare e probabilmente di maggiori guadagni; nel 1423 è nella capitale angioina Napoli come luogotenente dei conti di Carrara. La sua fama di condottiero crebbe in questi anni, e papa Martino V lo nominò capitano della Montagna Bolognese il 16 novembre 1427; nel 1433 venne insignito da papa Eugenio IV della carica di connestabile e condottiero delle truppe pontificie di fanteria, guadagnandosi subito la carica di capitano della guardia inferiore e di vicecastellano di Castel Sant’Angelo. Il 29 Maggio 1434 scoppiarono a Roma tumulti che portarono al potere un governo del popolo, diretto da sette cittadini autoproclamatisi gubernatores libertatis. Ne seguirono eventi drammatici per l’Urbe: la cattura da parte di rivoltosi del cardinale camerlengo Francesco Condulmer, nipote del papa, la fuga del papa stesso da Roma e quindi un assedio a Castel Sant’Angelo. Il Baroncelli svolse bene i propri doveri militari: organizzò la difesa del castello, compì incursioni all’esterno e bombardò gli assedianti con l’artiglieria. Infine, riuscì a catturare alcuni capi dei rivoltosi, la cui liberazione fu scambiata con quella del Condulmer. Papa Eugenio IV chiamò a Firenze Baldassarre Baroncelli premiandolo con l’inserimento nell’ordine dei milites, nominandolo senatore di Roma il 12 gennaio 1435 e attribuendogli il titolo miles et comes. Poco tempo dopo divenne podestà di Bologna e, insieme con Francesco Sforza, Sigismondo Malatesta e altri condottieri, partecipò alla riconquista dei territori della Chiesa, espugnando Forlimpopoli, Forlì e il castello di Lugo (agosto 1436). Avendo organizzato un attentato nei confronti di Francesco Sforza, che però era fallito, il Baroncelli fu fatto prigioniero dallo Sforza stesso e fu torturato per ottenerne una confessione. Fu poi tenuto prigioniero a Fermo, dove fu ucciso alla fine di quello stesso anno. Un personaggio senz’altro notevole, nel bene e nel male. Ma torniamo alla storia dell’arte. La stessa data 1423, riguardante la committenza del Baroncelli, riappare nella cripta, o meglio, nella chiesa inferiore di Santa Maria della Rocca: 5
Cfr. R. Capasso, ad vocem, in Dizionario biografico degli Italiani, VI, Roma 1964.
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sulla parete sinistra, o meridionale, rispetto all’attuale ingresso, un’altra iscrizione, posta al di sotto di una Madonna con il Bambino e sant’Antonio (il Santo Stefano, appartiene chiaramente alla fase trecentesca della decorazione e a un’area stilistica affine a quella del già ricordato maestro di Offida) reca di nuovo la data 1423, il nome del committente “Antonio di Cicco Ceri” e la ragione della sua committenza, impetrare la salvezza per la propria anima e quella dei suoi figli (i corpi sono sepolti nel pavimento). Il terzo decennio del XV secolo sembra segnare dunque una tappa importante nella plurisecolare storia dell’edificio e della sua sua decorazione. Storia che forse sarà utile ripercorrere per sommi capi. Le prime notizie sulla chiesa risalgono infatti all’XI secolo: nel 1039 Longino di Azzone donava all’abbazia di Farfa diversi possedimenti, tra cui il castello di Offida e la chiesa di Santa Maria che si trovava al suo interno6. I monaci si stabilirono nel loro possedimento solo dopo la morte di Longino (1050), che aveva continuato a dimorare all’interno del castello, costruendovi un monastero7. Ipotizzare quale fosse la struttura del primitivo impianto ecclesiastico è particolarmente arduo, forse dovevano esserne parte la cripta attuale e la torre campanaria, almeno per quanto riguarda la parte inferiore8. Il cenobio era costruito sul lato meridionale dell’edificio, probabilmente si componeva di quattro bracci, posti perpendicolari tra loro, in cui erano presenti tutti gli ambienti necessari a condurre la vita monastica, al centro del chiostro era posta una cisterna, ancor oggi riconoscibile9. Si può ipotizzare che la struttura fosse costituita da un piano terra porticato ed uno superiore con le celle, infatti nella torre campanaria sono visibili gli spicchi di due volte a botte; inoltre si può scorgere l’innesto delle strutture lignee di copertura10, sul lato orientale del monastero si può presumere che l’ordine delle logge fosse triplice11. L’edificio ecclesiastico anche in origine doveva disporsi, come detto, su due livelli: probabilmente il piano superiore era alla stessa quota di quello attuale, mentre la cripta, divisa in tre navate da pilastri a sezione circolare
6 G. Allevi, A zonzo per Offida, in Offida, origini e storia, cur. G. Allevi, Grottammare 1997, p. 311. 7 M. Vannicola - V. Tozzi - G. Premici, Santa Maria della Rocca, Grottammare 2001, p. 24. 8 Ivi, p. 101. 9 Ivi, p. 102. 10 V. Petrocchi, Santa Maria della Rocca – Offida, dall’estraniazione ambientale al degrado, Tesi di Laurea discussa presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” ChietiPescara, a.a. 1981-1982, relatore M. Civita, pagine non numerate. 11 Vannicola -Tozzi - Premici, Santa Maria cit., p. 111.
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che sorreggono volte a crociera, è stata inglobata nell’attuale più ampio ambiente ipogeo12. L’edificio assunse forme più maestose, simili alle stesse oggi visibili, a seguito di una ricostruzione avvenuta tra la metà del XIII secolo e il 1330. La decisione di ampliare la chiesa fu probabilmente dovuta all’arrivo da Farfa, nella metà del Duecento, delle reliquie di san Leonardo di Noblat; il 1330, anno di chiusura dei lavori, è attestato da un’epigrafe, attualmente murata all’esterno, che riporta anche il nome del capo cantiere, maestro Albertino e del priore dell’epoca, Francesco13. Nell’ampliamento vennero conservate parte delle mura laterali del primitivo impianto, attualmente visibili nella cripta parallelamente alle nuove mura; lo spazio di risulta maggiore fra le due pareti fu adibito a cimitero14. La cripta fu interessata da lavori di ampliamento, tant’è che giunse ad occupare l’intera estensione della chiesa primitiva assumendo forma a croce latina con tre navate per ogni braccio, l’accesso era possibile grazie ad un portale aperto in corrispondenza dell’abside centrale15, e attraverso altri tre ingressi: due posti a sud riservati ai monaci, di cui uno direttamente dal cenobio, ed uno a nord, utilizzato dai fedeli16. La chiesa superiore ha una pianta a croce latina con transetto leggermente aggettante, terminazione triabsidata, di cui la centrale maggiore e il corpo longitudinale ad aula unica. Essa fu, fin dal Trecento, interessata da interventi decorativi, di cui manca ancora una mappatura precisa, che credo non si debba ulteriormente rinviare perché appare ricca di preziose testimonianze figurative ancora da indagare a fondo. È quanto intendo fare in un prossimo futuro. Gli affreschi dell’abside – ai quali comunque vanno accomunati anche lacerti sparsi lungo le pareti dell’aula – come dicevo in apertura, sono stati attribuiti, sia pure con motivazioni e gradi di convinzione diversi, al cosiddetto maestro del Giudizio di Loreto Aprutino, al quale da ultimo è stato anche – senza fondamento né utilità alcuna – assegnato il nome di Antonuccio, in base ad un sillogismo la cui premessa è tutta da dimostrare17. Questo nome compare infatti in un’iscrizione frammentaria18 che 12 13 14 15 16 17 18
Ivi, p. 102. Salvi, Iscrizioni medievali cit., p. 134. Petrocchi, Santa Maria cit. Vannicola -Tozzi - Premici, Santa Maria cit., p. 104. Petrocchi, Santa Maria cit. C. Pasqualetti, Per la pittura tardogotica II cit., p. 73 e ss. Se ne veda il testo in Salvi, Iscrizioni medievali cit., p. 74; l’iscrizione fornisce anche il nome del committente Cole Trisiclii d(e) Castign(ano) e parte di una data MCCCCX.
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corre lungo il bordo inferiore di un affresco conservato nella chiesa di San Pietro Apostolo a Castignano e raffigurante un Giudizio Universale; poiché quest’opera viene attribuita allo stesso pittore che eseguì il Giudizio di Loreto Aprutino, automaticamente anche quest’ultimo viene riferito ad Antonuccio. Sin qui tutto bene, almeno sul piano logico; rimane però da vedere se le due opere siano effettivamente riferibili ad uno stesso maestro. Contro questa ipotesi si era già autorevolmente espresso Ferdinando Bologna, il quale, parlando del murale di Castignano aveva affermato testualmente: «Un ultimissimo punto dovrebbe riguardare un ulteriore problema mal posto dalla critica del Giudizio di Loreto: quello del rapporto che occorre presumere fra questo e il Giudizio Universale ritrovato nella chiesa di San Pietro Apostolo a Castignano, non lontano da Offida. Ma su tale questione occorre essere drastici: l’affresco non “appartiene alla stessa mano o per lo meno alla stessa scuola pittorica” di Loreto, tanto meno lo precede, come pure è stato detto. Il dipinto rileva dall’affresco lauretano più di un motivo, ma non l’orientamento stilistico, che invece fa pensare addirittura a quanto di un Pietro da Montepulciano passò in un Giacolo da Recanati, in esclusiva terra picena»19. L’ipotesi attributiva cui fa riferimento il Bologna è quella di E. Marighetto20, ripresa e sviluppata pochi anni dopo, come si è detto, da Cristina Pasqualetti21. Ma analizziamo ora brevemente la questione stilistica. Ciò che colpisce a prima vista è l’intervallo qualitativo che separa i due affreschi. Come giustamente abbiamo appena visto rilevato dal Bologna, il pittore di Castignano prende molto, sul piano iconografico e compositivo da quello di Loreto Aprutino, ma ben poco su quello stilistico. Alcuni confronti e contrario – che non amo in modo particolare ma che qui sono necessari – lo dimostrano con evidenza. Basterà, per esempio, osservare come la ricca eleganza delle vesti degli angeli di Loreto sia semplificata e resa con un ductus evidentemente più secco e abbreviato [Figg. 4 e 5], privo anche degli 19
F. Bologna, Giudizio Universale e altri affreschi. Chiesa di Santa Maria in Piano. Loreto Aprutino, in Documenti dell’Abruzzo Teramano. VI/1 cit., pp. 352-365: 364-365. 20 E. Marighetto, Santa Maria in Piano. Visioni dell’Oltretomba. Loreto AprutinoPescara, Sambuceto 2002, p. 132. Un’ipotesi in questa direzione era peraltro già stata avanzata da S. Papetti, Vicende di santi e di pittori: cicli pittorici tardogotici fra le Marche meridionali e l’Abruzzo teramano, in Lorenzo e Jacopo Salimbeni di Sanseverino e la civiltà tardogotica. Catalogo della mostra (San Severino Marche 1999), cur. V. Sgarbi, Milano 1999, pp. 57-64:61. Su Castignano cfr. inoltre D. Ferriani, I Giudizi Universali di Castignano e di Loreto: iconografie a confronto, in Immagini della Memoria Storica. Atti del Convegno di Studi, Anno V (Montalto Marche 1999), Montalto Marche 2000, pp. 13-43. 21 Pasqualetti, Per la pittura tardogotica II cit., p. 73 e ss., senza peraltro citare l’ipotesi in questione.
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svolazzanti nastri dorati, o come, al di là del diverso stato di conservazione e di qualche somiglianza iconografica, il Cristo giudice lauretano sia reso in forme di gran lunga più plastiche e volumetriche – verrebbe da dire stereometriche – rispetto al rigido, asciutto e nervoso Cristo castignanese [Figg. 6 e 7]. E, ancora, la torre che accoglie i beati a Castignano mostra lontananze tali dall’analoga immagine a Loreto Aprutino, soprattutto nei rapporti tra architettura e figure, da far pensare non solo ad una assoluta diversità di mano, ma anche ad una esecuzione discretamente più tarda. Peraltro anche i personaggi raffigurati nell’affresco marchigiano appaiono privi delle delicate eleganze decorative squisitamente tardogotiche e della grazia che animano e rendono prezioso il complesso aprutino. A Castignano, invece, corpi pesanti e lineamenti un po’ grossolani, indicano che l’opera si deve a un pittore di diversa formazione, in grado solo di cogliere gli aspetti macroscopici della composizione aprutina senza essere in grado di riprodurne le sottigliezze di resa formale. Un ultimo confronto è lampante, quello dei due angeli intenti alla pesa delle anime: mentre a Loreto la figura è segnata da un morbido e sinuoso tratto linearistico, a Castignano si nota una pesantezza di modellato che non può essere sottovalutata. Tutto, insomma, nel Giudizio aprutino appare caratterizzato da una ricchezza ornamentale diversa e molto più accentuata rispetto all’omologo marchigiano e da una diversa sensibilità per il gusto decorativo tardogotico. E si potrebbe andare avanti ancora per molto, ma de hoc satis. Dunque al maestro Antonuccio spetta soltanto il Giudizio di Castignano, come si evince dalla sottoscrizione, mentre quello di Loreto dovette servire a questo pittore solo come fonte di ispirazione, in un modo così evidente che non si capisce come le due opere possano essere accomunate dal punto di vista stilistico22. Più sottile e problematico è il rapporto tra gli affreschi dell’abside di Santa Maria della Rocca a Offida e il Giudizio di Loreto Aprutino. Tra questi due complessi decorativi, infatti, le somiglianze ci sono – e in misura non irrilevante – a partire dall’elevato livello qualitativo che contraddi-
22 Altre opere nel territorio ascolano sono state riferite ad “Antonuccio”, in particolare un affresco staccato con raffigurante una Madonna dell’ermellino con i ss. Pietro e Paolo, due angeli e un donatore già in Santa Maria della Petrella, due tavole del Museo Nazionale d’Abruzzo con San Bartolomeo e i ss. Quirico e Giulitta, una Vergine con il Bambino e santa Caterina in collezione privata, i murali di Santa Maria in Erulis a Ripattoni, il Giudizio universale di San Francesco ad Amatrice, insieme ad altre opere di diversa matrice stilistica, a formare un corpus davvero eterogeneo e nel quale sarà a breve necessario fare un po’ d’ordine; cfr. Pasqualetti, Per la pittura tardogotica. I cit., pp. 2-26; Pasqualetti, Per la pittura tardogotica. II cit., p. 73 e ss.
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stingue entrambe le opere. Punto questo su cui sembra essere concorde tutta la letteratura critica23. Una lettura stilistica più approfondita di quanto sia stato fatto da questa stessa letteratura ci rivela però alcune significative variazioni, che mi inducono a sottoporre all’attenzione del lettore qualche considerazione avversa ad un’attribuzione tout-court onnicomprensiva di ambedue i complessi pittorici ad un unico maestro, tanto meno al ben più debole maestro “Antonuccio” che firmò l’affresco nella chiesa di San Pietro Apostolo a Castignano. Una prima, evidentissima differenza la si riscontra nell’esuberanza – verrebbe da dire ridondanza – decorativa dei murali offidani rispetto a quelli aprutini. Basti confrontare, ad esempio, la ricchezza e complessità dell’intaglio ligneo dei troni dei Profeti [Figg. 8-9] nell’ombrello absidale di Santa Maria della Rocca e la semplicità delle strutture analoghe a Loreto, come appare evidente soprattutto nel trono del Cristo giudice [Fig. 10] o nell’edificio che accoglie i beati sulla sinistra della composizione [Fig. 11]. Analoga maggiore sobrietà si riscontra anche nella resa fisionomica dei volti: più espressionisticamente caratterizzati, in qualche caso arcigni se non addirittura grifagni, e con abiti, copricapi e ornamenti marcatamente orientaleggianti quelli di Offida [Fig. 12]; mentre a Loreto gli abiti appaiono sì ricchi e preziosi, ma senza dubbio più semplicemente eleganti [Fig. 13]. In altre parole gli affreschi offidani sono caratterizzati da un gusto più marcato per l’ornamentazione e per l’accentuazione fisionomica dei volti, che sfiora a volte la bizzarria. Ma quella che abbiamo definito ridondanza si mostra anche nelle partiture spaziali delle superfici; complesse colonnine tortili, mensole scalettate [Fig. 14] e vari generi di incorniciature disegnano complessi percorsi che trovano le loro origini altrove rispetto alla decorazione di Santa Maria in Piano [Fig. 15]. Per quanto riguarda quest’ultima, peraltro, si dovrà a mio avviso cominciare a distinguere la personalità dominante nell’affresco del Giudizio dagli altri membri della bottega che lavorarono nel resto della chiesa e chiedersi se le due parti della decorazione siano state eseguite contemporaneamente o se tra di loro possa anche correre un breve intervallo di anni24. 23 24
Si veda la bibliografia citata a nota 2. Non è questa la sede opportuna per questo tipo di indagine, che rimando ad una mia prossima pubblicazione sulla pittura tardogotica del Medio Adriatico; per un’ipotesi in questo senso cfr. Paqualetti, Messale dei Duchi d’Acquaviva. Museo Capitolare. Atri, in Documenti dell’Abruzzo Teramano. V/1, Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara, Pescara 2001, pp. 477-488: 487 nota 2; in seguito la studiosa, come si è detto, attribuirà tutta la decorazione di Loreto al maestro Antonuccio.
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È fuor di dubbio che gli affreschi di Santa Maria della Rocca facciano a pieno titolo parte di una koinè stilistica medioadriatica che fonde temi stilistici autoctoni con modi linguistici provenienti dal Settentrione, nella fattispecie veneto. Numerosi sono gli esempi in tal senso e abbastanza indagati dalla letteratura specialistica25. Ma ciò realmente che caratterizza gli affreschi offidani è la capacità di elaborazione di linguaggi di diversa origine che trovano qui compiuta fusione in modi assolutamente originali. Tra questi linguaggi vi fu certamente quello parlato dai murali di Loreto Aprutino, giunto qui forse per conoscenza diretta dell’opera da parte del capobottega, che diresse l’impresa di Offida, o attraverso pittori che là avevano lavorato, sia pure in posizione subordinata. Se dunque è lecito sostenere l’esistenza di comune background linguistico, si dovrà porre attenzione a non raggruppare opere tra loro diversamente caratterizzate sotto un’unica denominazione o in un unico gruppo; si dovranno invece individuare opere che siano realmente più vicine agli affreschi offidani e, in questo senso, un buon punto di partenza mi sembra la miniatura a piena pagina raffigurante la Madonna con il Bambino nel Missale de Firmonibus, conservato nel Tesoro del Duomo di Fermo. È questo uno straordinario manoscritto, illustrato da diversi miniatori, in fasi diverse: una ante 1421, anno della morte del committente Johannes de Firmonibus che nell’incipit viene ricordato come ancora vivente; l’altra collocabile nel 1436, secondo quanto affermato in un’iscrizione che correda la miniatura a c. 296v e che reca anche il nome del miniatore Giovanni di Ugolino da Milano26. La pagina raffigurante la Madonna con il Bambino [c. 176v; Fig. 16] mostra i due personaggi divini incorniciati da un’edicola la cui bizzarra ed elegante conformazione trova un parallelo – nel senso di una comune radice linguistica e non di una comune paternità – negli scranni dei Profeti a Santa Maria della Rocca; non è anche troppo dissimile dalla architettura
25 Un quadro generale di riferimento, cfr., tra gli altri, A. De Marchi - T. Franco, Il Gotico internazionale: da Nicolò di Pietro a Michele Giambono, in Pittura veneta nelle Marche, cur. V. Curzi, Cinisello Balsamo 2000, pp. 85; contributi più specifici si trovano in Fioritura tardogotica nelle Marche. Catalogo della mostra (Urbino 25 luglio-25 ottobre 1998), cur. P. Dal Poggetto, Milano 1998; Il Gotico internazionale a Fermo e nel fermano. Catalogo della mostra (Fermo 28 agosto-31 ottobre 1999), cur. G. Liberati, Livorno 1999 e gli utili volumi dell’Atlante del Gotico nelle Marche, cur. S. Papetti, Milano 2004. 26 Su questo manoscritto cfr. M. G. Ciardi Dupré dal Poggetto, scheda n. 8, in Gotico internazionale a Fermo cit., pp. 177-179 e C. Z. Laskaris, Un monumento da sfogliare. Il Messale de Firmonibus di Fermo, Roma 2013.
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dell’Oratorio dalla Santissima Annunziata a Riofreddo, come giustamente osservato da De Marchi27, il quale riteneva anche che Giovanni di Ugolino si fosse formato nelle Marche e non nella natia Milano. Ancora una volta dunque sembrano confermarsi la vivacità della temperie pittorica tardogotica nel territorio ascolano e la necessità di affrontare la sua analisi con mente sgombra da tesi preconcette.
27 A. De Marchi, Gli affreschi dell’oratorio di San Giovanni presso Sant’Agostino a Fermo. Un episodio della pittura tardogotica marchigiana, in Il Gotico internazionale a Fermo cit., pp. 48-69: 68, 69 nota 42.
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Fig. 1 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside
Fig. 2 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, iscrizione del 1423
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Fig. 3 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, pannello con i committenti
Fig. 4 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, Angelo
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Fig. 5 - Castignano, San Pietro Apostolo, Giudizio, Angeli
Fig. 6 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, Cristo giudice
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Fig. 7 - Castignano, San Pietro Apostolo, Giudizio, Cristo giudice
Fig. 8 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, Profeta
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Fig. 9 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, Profeta
Fig. 10 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, Cristo giudice, particolare
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IS Fig. 11 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, Torre dei beati
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Fig. 12 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, Profeta
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IS Fig. 13 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, Angelo musicante
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IS Fig. 14 - Offida, Santa Maria della Rocca, chiesa superiore, abside, Profeta
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IS Fig. 15 - Loreto Aprutino, Santa Maria del Piano, Giudizio, particolare della incorniciatura a mensole
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IS Fig. 16 - Fermo, Tesoro del Duomo, Missale de Firmonibus, c. 176v, Madonna con il Bambino
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IM E INDICI
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a cura di Maria Zaccaria
IM E Avvertenza
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Le fonti archivistiche e codicologiche sono indicizzate secondo l’ordine alfabetico delle città in cui ha sede l’istituzione che le conserva; sotto ciascuna città, le varie istituzioni sono state indicizzate anch’esse secondo l’ordine alfabetico, e sempre in ordine alfabetico compaiono le singole voci sotto ogni istituzione. Nel caso in cui la fonte compaia solo nelle note, e non nel testo, di una pagina, a fianco del numero della pagina è segnata una “n” (= nota). I nomi di persona sono stati indicizzati di preferenza in base al cognome del personaggio; ciò vale anche nei casi di nomi di famiglie o dinastie derivanti da toponimi (es. Carrara). Sono stati indicizzati invece sotto il nome proprio i santi, i beati e i personaggi designati attraverso un generico riferimento di parentela (es. “Giovanni di Balduccio”) o attraverso il toponimo d’origine (non appartenenti a dinastie particolari: “Andrea da Bologna”). Tali toponimi ricorrono anche come voci a sé, con rinvio al personaggio (“Bologna, v. Andrea da Bologna”); si è cercato di segnalare tutte le diciture sotto le quali ciascun personaggio compare nel testo, rinviando poi alla voce corrispondente. Nel caso in cui il personaggio compaia solo nelle note, e non nel testo, di ogni pagina, a fianco del numero della pagina è segnata una “n” (= nota). I nomi di luogo sono affiancati dalla provincia di riferimento indicata tra parentesi, nel caso di luoghi italiani non capoluoghi, dallo stato di appartenenza nel caso di città straniere. I nomi di luoghi o istituzioni che si trovano in città o paesi sono stati indicizzati come loro sottovoci (es. “Santa Maria Assunta in Cielo, cattedrale” sotto “Fermo”). Nel caso in cui il toponimo compaia solo nelle note, e non nel testo, di una pagina, a fianco del numero della pagina è segnata una “n” (= nota).
Il contributo di Alessandro Tomei, pervenuto alla Redazione in ritardo, è stato inserito nel volume ad indicizzazione già avvenuta e pertanto non compare nelle seguenti pagine di indici.
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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ASCOLI PICENO Biblioteca Comunale Codice 22, 202n
ASSISI (PERUGIA)
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Archivio del Sacro Convento G (1748-1764), 252n Ms. 27, 252n Ms. 31, 252n Ms. 32, 252n
ATRI (TERAMO)
Archivio Capitolare A.2, 169n A.19, Messale d’Acquaviva 176n
BLACKBURN (GRAN BRETAGNA)
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Hart Museum Hart 20918, 176
CITTÀ DEL VATICANO
Archivio Segreto Vaticano A.A., Arm. C 389, 250n Arm. XXV.20, Registro della Marca di Ancona 167n, 168n Collectoriae, 313A, 248n, 249n
Biblioteca Apostolica Vaticana Reg. lat. 165, 174, 175 Reg. lat. 2050, 164, 164n Ross. 276, 172n
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
EL ESCORIAL (SPAGNA) Real Biblioteca del monasterio de San Lorenzo Cod. h.IV.9, 174, 175
FABRIANO (ANCONA)
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Archivio Storico Comunale Pergamene, Carte diplomatiche, b. XII, 15n
FAENZA (RAVENNA)
Archivio di Stato Archivi delle Congregazioni religiose, Padri della Congregazione di Fonte Avellana in S. Maria Foris Portam, Libri degli Istrumenti, Libro n. 2, 231n, 232n
FERMO
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Archivio di Stato Carte di Mitarella, n. 73, 226n – , n. 74, 226n Fondo diplomatico Hubert, n. 136, 225n – , n. 255, 224 – , n. 266, 223n – , n. 429, 226n, 230n – , n. 503, 224n
FOLIGNO (PERUGIA)
Biblioteca Comunale ms. F. 55-1-257, 22n
Sezione Archivio di Stato Riformanze, 24, 16n
GUBBIO (PERUGIA) Sezione di Archivio di Stato Fondo comunale, Riformanze 1, 92, 93
INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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Fondo comunale, Riformanze 2, 93 – , Riformanze 4, 92, 93, 94 – , Riformanze 5, 94
L’AQUILA
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Archivio Diocesano A2, 168n, 169n, 175
MANTOVA
Archivio di Stato A.G. 1603, fasc.3, 221n
NEW YORK
Pierpont Morgan Library Glazier 16, 173, 173n, 174
PARMA
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Biblioteca Palatina Ms. 670, 163, 163n, 164, 165, 166, 166n, 167, 168, 169, 170, 170n, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177
PERUGIA
Archivio di Stato Archivio Storico del Comune di Perugia, Consigli e riformanze, 5/3, 84n – , Statuti, 12, 89n
ROMA Biblioteca Nazionale Centrale Vitt. Em. 1167, 164, 165n
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
SAN GINESIO (MACERATA) Archivio Storico del Comune Fondo pergamenaceo, capsa I, 4/38, 280n – , capsa VIII, 20/19, 283n Archivio Storico della Collegiata Fondo Diplomatico, 120, 283n Scritture di carattere incognito 1358-1513, 1.13.1, fasc.6, 285n
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Biblioteca Comunale M. Severini, Genesiae Historiae, Libri XII, 285n
SAN PIETROBURGO (RUSSIA)
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Hermitage ORr-23, 176
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
_~êíçäçãÉç= Çá= qçãã~ëçI= ã~ÖáëíÉêI= OPI OQI=OQåI=ORI=OUI=NSVå _~êìÅÅ~=dKI=SNåI=SQåI=SRå= _~ëáäáÅ~í~I=NNOI=POQI=POS _~ííáëí~I=îK dáçî~ååá=_~ííáëí~I=ë~åíç= _~ííáëí~=Çá=açãÉåáÅçI=éáííçêÉI=OVI=OVå _~ííáëíÉääá=cKI=NVQå _~îáÉê~I=êÉÖáçåÉ=íÉÇÉëÅ~I=ONM _~ñ~åÇ~ää=jKI=NOPå= _~ñíÉê=aK^KI=NONå= _ÉÅÅÜÉííá=máÉíêçI=ÄÉ~íçI=OT _ÉÅâ=gKI=USåI=UTå _ÉÑÑá=EÑê~òáçåÉ=Çá=^ÅÅá~åçI=iÛ^èìáä~FI îK j~Éëíêç=Çá=_ÉÑÑá _Éä~êÇá=jKI=UMå _Éä~êÇá=mKI=VMå _ÉäÅ~êá=oKI=UTå _Éääçëá= iKI= UTåI= NOMI= NOMåI= NOSI= NOTåI NPNI= NPNåI= NVQåI= OQUåI= ORUåI= OSSåI POS= _Éå~ÇÇìÅá=dKI=QUå= _Éå~íá=aKI=NSSåI=NTRå= _Éå~òòá=dKI=NQåI=NVå== _ÉåÉÇÉííç= uf= EkáÅÅçä∂= Çá= _çÅÅ~ëëáçFI é~é~I=OPMåI=ORUI=ORUåI=ORVI=OSS= _ÉåÉÇÉííçI=éêÉéçëáíç=Çá=p~å=p~äî~íçêÉ=~ `~åò~åçI=NMVI=NNN _ÉåÉÇÉííçI=ë~åíçI=NSR _ÉåáÖåá=qKI=OUMå _ÉåòçåáI=Ñ~ãáÖäá~I=OOUI=OOUå J=^åíçåá~I=ãçÖäáÉ=Çá=dáçî~ååá=sáëÅçåíá Ç~=läÉÖÖáçI=OOPI=OOPåI=OPO _Éê~êÇç= Ç~= qÉê~ãçI= ãáåá~íçêÉI= NNMI NNNI=NNO _ÉêÉåëçå=_KI=NMRåI=POP _Éêå~êÇáåç=Ç~=páÉå~I=cê~íÉ=jáåçêÉI=NOU _Éêå~êÇáåç=Çá=máÉíêç=Ç~=`~êçå~I=~êÅÜáJ íÉííçI=OMP _Éêå~êÇçI=éêáçêÉ=Çá=p~å=cÉÇÉäÉ=Çá=páÉå~I OQUå _Éêí~ÅÜáåá=dáçî~ååáI=Öáìêáëí~I=OOSå _ÉêíÉääá=`KI=OORå= _Éêíçòòá=oKI=NVQå _Éëçòòç= Es~êÉëÉFI= îK jáÅÜÉäáåç= Ç~ _Éëçòòç _Éííç=_KI=TOå
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363
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
_çòòá=cKI=VMå _ê~ÅÅá=pKI=QQå _ê~ÅÅáç=Ç~=jçåíçåÉI=NRI=OSI=QUI=QV _ê~åÅçåÉ=sKI=OQRåI=OQTå _ê~åÇá=`KI=NTå= _ê~åÇãΩääÉê=tKI=OTUå= _ê~óÉI= EmáÅÅ~êÇá~I= cê~åÅá~FI= îK dìáää~ìãÉ=ÇÉ=_ê~óÉ _êÉåâ=_KI=VMå= _êÉååÉêçI=é~ëëçI=ONM _êÉëÅJ_~ìíáÉê=dKI=OSQå= _êÉëÅÜá=dKI=QRåI=UOå _êÉëÅá~I=OOP _êìÑ~åá=pKI=NSQå _êìåÑçêíÉI=Ñ~ãáÖäá~I=OTVI=OUR _êìåá=EÇÉÛF=^åÇêÉ~I=éáííçêÉI=SN _ìÅÅçäáåá=cKI=NVRå _ìÇ~I=é~êíÉ=~åíáÅ~=ÇÉääÛ~ííì~äÉ=_ìÇ~éÉëí EråÖÜÉêá~FI=OQS _ìÑÑ~äã~ÅÅçI=éáííçêÉI=NOS _ìçê~=jKI=ONNå _ìêÖìë=oáé~êìãI=îK _çêÖç=ÇÉääÉ=oáéÉ _ìëÅ~êÉíç= EçÖÖá= Ñê~òáçåÉ= Çá= lëíê~ sÉíÉêÉI=^åÅçå~FI=Å~ëíÉääçI=OOQå
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
J=p~å=dáìäá~åçI=éçêí~I=OOS J=p~å=dêÉÖçêáç=j~ÖåçI=ÅÜáÉë~I=SOI=PMP J=p~å=jáÅÜÉäÉ=^êÅ~åÖÉäçI=ÅÜáÉë~I=SOI=PMQ J=p~å=máÉíêçI=ÅÜáÉë~I=SOI=NVUåI=PMS J=p~å=wÉåçåÉI=ÅÜáÉë~I=SQI=NVUå J=p~åíÛ^åíçåáçI=éçêí~I=OOS J=p~åí~=`~íÉêáå~I=éçêí~I=OOS J=p~åí~=iìÅá~I=ÅÜáÉë~I=SOI=PMS J= p~åí~= j~êá~= ^ëëìåí~= áå= `áÉäçI= Å~ííÉJ Çê~äÉI= RNI= ROI= SQI= SSI= NVRI= NVSI= NVTI NVVI=OMMI=OOSI=OOSåI=OOTI=OOTåI=OPMX Å~ééÉää~=Çá=p~å=dáçî~ååáI=OOSI=OOSåI OOTåI=OOUX=Å~ééÉää~=ã~ÖÖáçêÉI=OOTå J=p~åí~=j~êá~=ÇÉää~=jáëÉêáÅçêÇá~I=ÅÜáÉJ ë~I=SQ J=ëçÄÄçêÖç=Çá=p~åí~=`~íÉêáå~I=OOS
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
cêìÖçåá=`KI=UI=Uå= cìÄáåá=oKI=QQå cìäÖáåÉìãI=îK cçäáÖåç d~ÄÄá~åçI= Ñê~òáçåÉ= Çá= `çêêçéçäá EqÉê~ãçFI=NNN J=p~å=_ÉåÉÇÉííçI=ãçå~ëíÉêçI=NNN d~ÑÑìêá=iKI=OQPåI=OQQåI=OQUåI=ORMå== d~ä~ëëç=dKI=OMåI=QQåI=QTå d~ääìëI=ã~ÉëíêçI=OMP d~äî~åÉìë= ÇÉ= ä~= cä~ãã~I= îK= cá~ãã~ d~äî~åç= d~ãÄÉêáåá=^KI=NTåI=QOå d~åÖÉãá=cKI=NSUåI=OMSå= d~êÇåÉê= gKI= OQQI= OQQåI= OQUåI= ORNåI ORRåI=ORSåI=ORTåI=ORUåI=ORVåI=OSNå d~êáÄ~äÇá=sKI=UQå d~êãë=gKI=ORTå= d~ëé~êÉ= Çá= dáçî~ååáI= ~êÅáéêÉíÉ= Çá= p~å máÉíêç=Çá=cÉêãçI=SO d~î~ëÅá=j~êá~åçI=OMUå d~îáåá=fK`KI=OMRå dÉåÉí=gKJmKI=NTåI=QQå dÉåçî~I=TRå J=cçåí~å~=j~êçë~I=TRå J=éçêíçI=TRå J=oáé~I=TRå dÉåëáåá=pKI=RVå dÉåíáäÉ= Ç~= c~Äêá~åçI= éáííçêÉI= OVI= SOI PMQI=PMR dÉåíáäÉ=Ç~=oáé~íê~åëçåÉI=ã~ÉëíêçI=NNM dÉåíáäá=dKI=OMUåI=ONNåI=PMOå dÉåíáäáë= ÇÉ= jçåíÉ= cäçêìãI îK m~êíáåç dÉåíáäÉ=EÇ~=jçåíÉÑáçêÉF dÉê~= ÇÛ^ÇÇ~I= òçå~= ÇÉää~= éá~åìê~= äçãJ Ä~êÇ~I=OON dÉêã~åá~I=ONM dÉëª= `êáëíçI= NORI= NOSI= NOUI= NOVI= NQUI NRMI= NRNI= NSRI= NSSåI= NSTI= NVUI= OMVI OMVåI=OOUI=OOVI=OOVåI=OPPI=OQRI=PMQ dÜÉê~êÇá=^KI=QQå dÜáëëá=cê~åÅÉëÅìÅÅáç=Çá=`ÉÅÅçI=éáííçêÉI SN dá~ÅçãçI= ~êÅáéêÉíÉ= Çá= p~å= cä~îá~åç= ~ dáìäá~åçî~I=NNN
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
dáçî~ååá= máë~åç= Edáçî~ååá= Ç~= máë~FI ëÅìäíçêÉI= OMI= OMåI= UQI= UQåI= UTI= VMåI ORUåI=OSR dáçî~ååá=Çá=m~çäç=sÉåÉòá~åçI=éáííçêÉI=PMO dáçî~ååá= uuff= Eg~ÅèìÉë= aì≠òÉ= ç ÇÛbìëÉFI=é~é~I=OQUå dáçî¨=j~êÅÜáçäá=kKI=RQåI=UQå dáçîáç=mKI=OORå= dáêçä~ãç=Ç~=^ëÅçäáI=îK káÅÅçä∂=fs dáìäá~åç=^KI=UTå dáìäá~åç=Ç~=oáãáåáI=éáííçêÉI=NRMI=NRN dáìäá~åçî~=EqÉê~ãçFI=NNN J=p~å=cä~îá~åçI=ÅÜáÉë~I=NNN dáìäáç=ff=Edáìäá~åç=ÇÉää~=oçîÉêÉFI=é~é~I OMP dáìëÉééÉI=ë~åíçI=NTM dáìëíç=bKjKI=OQRå dáìëíç= ÇÉää~= oçë~I= ÇáëÅÉéçäç= Çá qçãã~ëëìÅÅáç=Ç~=cçäáÖåçI=NRP dä¨åáëëçå=gKI=QQå dçåò~Ö~I=Ñ~ãáÖäá~= J=iìÇçîáÅçI=OS J=rÖçäáåçI=OON dççÇïáå=`KaKtKI=NPå= dçì¨ÇçJqÜçã~ë=`KI=TQå dçòòçäá=_ÉåçòòçI=éáííçêÉI=NOR dê~ã~íáÅ~=EÇÉF=cKI=ONNå dêÉÉå=iKI=NPåI=OORå= dêÉÖçêáç=fu=ErÖçäáåç=Çá=^å~ÖåáFI=é~é~I NQU dêÉÖçêáç= uf= EmáÉêêÉ= oçÖÉê= ÇÉ _É~ìÑçêíFI=é~é~I=QR dêÉÖçêáç=uff=E^åÖÉäç=`çêêÉêFI=é~é~I=QV dêçíí~ã~êÉ=E^ëÅçäá=máÅÉåçFI=OOPå= dêçíí~òòçäáå~=EcÉêãçFI=RT dì~Ç~Öåá= jáÖäáçêÉI= éçÇÉëí¶= Çá= cÉêãçI QRå dì~äáåç= `~íÉêáå~I= ë~åí~I= îK j~Éëíêç ÇÉää~=p~åí~=`~íÉêáå~=dì~äáåç= dì~êÇá~ÖêÉäÉ= E`ÜáÉíáFI= îK káÅçä~= Ç~ dì~êÇá~ÖêÉäÉ dìÄÄáç= EbìÖìÄáìãI= mÉêìÖá~FI= OOI= OSI TPI=TPåI=TUI=TVI=UMI=UMåI=VOI=VPI=VQ J=_çíí~ÅÅáçåÉI=~ÅèìÉÇçííçI=UMå J= cçåí~å~= ÇÉä= m~ä~òòç= ÇÉá= `çåëçäá Ecçåí~å~=ÇÉääÛ^êÉåÖçI=cçåë=^êÉåÖÜá=ç
IS
IM E
dá~Åçãç= ÇÉääÛ^Åèì~I= îK f~ÅçÄç= Çá s~ååá=rÖçäáåá dá~Åçãç=ÇÉää~=j~êÅ~I=ë~åíçI=ST dá~Åçãç=Çá=káÅçä~=Ç~=oÉÅ~å~íáI=éáííçêÉI SP dá~ãÄçåç= jáÅÜÉäÉI= éáííçêÉI= PMQI= PMSI PMT dá~åå~íáÉãéç=iμéÉò=jKI=NSTåI=NVPå= dáÖäá=líí~îáçI=OSQå= dáäÄÉêí=`KI=OORå= dáå~íÉãéç=jKI=QNå dáåÉëáçI=ã~êíáêÉ=É=ë~åíçI=OTT dáç~ååá=pKI=NPå= dáçêÖÉííá=`KI=NORå dáçêÖáç=Ç~=`çãçI=ã~ÖáëíÉêI=NVTI=NVTåI NVUI=NVVå= dáçêÖáç=Çá=pÉÄÉåáÅçI=ëÅìäíçêÉI=~êÅÜáíÉíJ íçI=OMMI=OMMå dáçííç= EgçÅíìëFI= éáííçêÉI= UI= NNQI= NNRI NNRåI=NOTI=PMOI=PORI=POS dáçî~ååá= ^åÖÉäç= ÇÛ^åíçåáç= EfçÜ~ååá ^åÖÉäç=ÇÛ^åíçåáçFI=~êíáëí~I=PM dáçî~ååá=_~ííáëí~I=ë~åíçI=NRMI=NRNI=NSRI OMO dáçî~ååá=Ç~=máë~I=îK dáçî~ååá=máë~åç dáçî~ååá= Ç~= sáÅÉåò~I= cê~íÉ mêÉÇáÅ~íçêÉI=NOU dáçî~ååá= ÇÉ= cáêãçåáÄìëI= îÉëÅçîç= Çá cÉêãçI=SR dáçî~ååá=Çá=_~äÇìÅÅáçI=ëÅìäíçêÉI=OORå= dáçî~ååá=Çá=`~ãÄáçI=éçÇÉëí¶=Çá=cÉêãçI QRå dáçî~ååá= Çá= `çä~I= ã~ÖáëíÉê= ä~éáÇìã= Éí éáÅíçêI=OO dáçî~ååá= Çá= `çêê~ÇìÅÅáçI= ã~ÉëíêçI= OTI OU dáçî~ååá=Çá=`çëã~I=ëÅìäíçêÉI=OPMå dáçî~ååá= Çá= dìÖäáÉäãç= ÇÉääÉ= j~ÅáÖåÉI Ñáå~åòá~íçêÉ= ÇÉää~= ÅÜáÉëÉíí~= Çá= p~å dáçî~ååá=Çá=cÉêãçI=SP dáçî~ååá= Çá= rÖçäáåç= Ç~= jáä~åçI= ã~ÉJ ëíêçI=SS dáçî~ååá= Çá= sÉåáãÄÉåÉI= ëáÖåçêÉ= Çá ^ëÅçäáI=RQ dáçî~ååá= bî~åÖÉäáëí~= Egç~ååÉë bî~åÖÉäáëí~FI=ë~åíçI=OOUI=OOUå
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
f~ÅçÄç= Çá= s~ååá= rÖçäáåá= Edá~Åçãç ÇÉääÛ^Åèì~FI=ã~ÉëíêçI=UR f~ÅçÄìë=dÉçêÖááI=ã~ÖáëíÉêI=OMMå= f~Åçãç= ÇÉää~= dÜìÉêÅ~I= îK g~Åçéç= ÇÉää~ nìÉêÅá~= f~Åçéç=Ç~=s~ê~òòÉI=NNVå= f~ÅçîÉääá=^KI=OROå= fãçä~=E_çäçÖå~FI=OOPåI=OPO J=îK qçê~=Ç~=fãçä~ fååçÅÉåòç= sf= E°íáÉååÉ= ^ìÄÉêíFI= é~é~I OONI=OOPI=OOQI=OPO fååçÅÉåòç=sff=E`çëáãç=ÇÉÛ=jáÖäáçê~íáFI é~é~I=QRI=QVI=RV fçÜ~ååá= ^åÖÉäç= ÇÛ^åíçåáçI= îK dáçî~ååá ^åÖÉäç=ÇÛ^åíçåáç fë~~Åë=hKI=NSå fëçäÇá=cKI=NRå fí~äá~I=NPI=NRI=NSI=NVI=OMI=ONI=OOI=OSI=QNI QNåI=QPI=QQI=QQåI=QTI=QUI=RVI=TNI=TPåI TQI= TSåI= UMI= UMåI= UOI= UQI= VNåI= NNVI NSPI=OMTI=ONMI=OOPI=OPMåI=OQPåI=OQUåI OSNI= OSPI= OSQåI= OTUI= OUOI= OUSI= PMOI POPI=POS
IM E
cçåë=^êÉÖåáFI=TVI=UMI=UMåI=UNI=VOI=VPI VQ J=é~ä~òòç=ÇÉä=mçéçäç=Eé~ä~íáìã=mçéìäáF EÇÉííç= ÇÉá= `çåëçäáFI= TVI= UMI= UMåI= VOI VQ J=é~ä~òòç=mêÉíçêáçI=UMå J=éá~òò~=ÇÉä=`çãìåÉI=UMI=VOI=VQ J=èì~êíáÉêÉ=Çá=p~å=máÉíêçI=VQ J=èì~êíáÉêÉ=Çá=p~åíÛ^åÇêÉ~I=VOI=VQ J=p~åí~=`êçÅÉ=ÇÉ=sÉñáëI=ÅÜáÉë~I=VQ J=pÉòáçåÉ=Çá=^êÅÜáîáç=Çá=pí~íçI=VO dìÅÅáç=Çá=j~åå~á~I=çê~ÑçI=OQUI=OQUå= dìÉêòçåá=dKI=NPå= dìÖäáÉäãç=EdìáÉäãìëFI=éáííçêÉI=PMP dìáÇÉêçÅÅÜáI=Ñ~ãáÖäá~I=NRM J=^ëíçäÑç=àìåáçêI=NRM J=jçåí~åÉ~I=NRM J=káÅçäìÅÅáçI=NRM J=oáÅÅ~êÇçI=NRM dìáÇçåá=bKI=URå dìáÉäãìëI=îK dìÖäáÉäãç dìáää~ìãÉ=ÇÉ=_ê~óÉI=Å~êÇáå~äÉI=OSNå= dìáääÉêãÉ=^KI=TQå dìáåáÖáI=Ñ~ãáÖäá~I=NR
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IS
e~áåÉë=jKI=ORUå= e~ää=gKI=NNVå e~êÑJi~åÅåÉê=iKI=NVå e~êîÉó=hKI=NONå eÉÉêë=gKI=TRI=TRåI=UOI=UOå= eÉêâäçíò=fKI=ORTå= eÉêêáÖç= ÇÉ= g~éáÅÜç= Ef~éáÅÜçFI= ã~ÉëíêçI OMTI=OMTåI=OMVI=OURI=OURåI=OUS eçÅÜ=^KpKI=UNåI=OQQI=OQQåI=OQVå eçÑÑã~ååJ`ìêíáë=hKI=NTå= eçÜÉåëí~ìÑÉåI=Çáå~ëíá~I=QTI=OUN J=cÉÇÉêáÅç=ffI=OTVI=OUM eμã~å=_KI=OQSå eçêå=bKI=OQSå eçïÉää=jKI=TVå eìÉÅâ=fKI=OQVåI=ORVåI=OSPI=OSPå== eìåí=^KI=NPMå f~ÅçÄáåá=^KI=NVPå=
g~ÅçÄÉääç= ÇÉä= cáçêÉI= éáííçêÉI= SOI= PMQI PMRI=PMS g~ÅçÄÉääç=Çá=_çåçãçI=éáííçêÉI=SOI=PMQ g~Åçéç= Ç~= `~ãÉêáåçI= cê~íÉ= jáåçêÉI OSQå= g~Åçéç=ÇÉä=qçåÇçI=cê~íÉ=jáåçêÉI=ORNå= g~Åçéç= ÇÉää~= cçåíÉI= îK g~Åçéç= ÇÉää~ nìÉêÅá~ g~Åçéç= ÇÉää~= nìÉêÅá~= Ef~Åçãç= ÇÉää~ dÜìÉêÅ~I=g~Åçéç=ÇÉää~=cçåíÉFI=ëÅìäíçJ êÉI=USI=UTI=UTåI=UU g~Åçéç=p~äçãçåÉI=ÄÉ~íçI=OPP g~ããÉ=^KI=QQå g~åëÉå=mÜKI=QTI=QTåI=QUåI=ROå gÉëá=E^åÅçå~FI=NVTåI=OOQå J=Å~ííÉÇê~äÉI=NVTå gç~ååÉë= ÇÉ= läÉÖÖáçI= îK sáëÅçåíá= Ç~ läÉÖÖáçI=dáçî~ååá gç~ååÉë= bî~åÖÉäáëí~I= îK dáçî~ååá bî~åÖÉäáëí~I=ë~åíç gçÅíìëI=îK dáçííç
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
IS
IM E
gçÜ~ååÉë= ^åíçåáìë= `~ãé~åìëI= îK iÉåíáåá= Epáê~Åìë~FI= îK oáÅÅ~êÇç= Ç~ `~ãé~åç=dáçî~ååá=^åíçåáç= iÉåíáåá gçÜå=e~ïâïççÇI=QU i¨çå~êÇ=°KdKI=OQSå iÉçå~êÇçI=ë~åíçI=NSQ iÉçåÉ= ÇÉ= `~ëíêáë= mKI= NMRåI= NMSåI= NMTI h~Ñí~ä=dKI=NRPå= NMTåI=NMUåI=NMVåI=NNMåI=NNNåI=NNOåI hÉääÉê=eKI=ORUåI=ORVå== NNPåI= NNQåI= NNRåI= NNVåI= NQTI= NQTåI hÉääó=pKI=ORQå OQUåI=OQVåI=ORMåI=ORPåI=ORQåI=ORRåI háÉëÉïÉííÉê=^KI=OQSå POQI=POS háÉî=ErÅê~áå~FI=SO iÉçåçêá=jK`KI=SRå= häÉáåëÅÜãáÇí=_KI=OROå= iáÄÉê~íá=dKI=SNåI=SQåI=NVSå h∏êíÉ=tKI=ONNå= iáÄÉê~íá=jKI=OMQå= hê∏åáÖ=tKI=OMOå iáåÇ~ì= E_çÇÉåëÉÉF= EdÉêã~åá~FI= îK iìò îçå=iáåÇ~ì iáëÅá~=_Éãéçê~Ç=aKI=NPMå= iÛ^èìáä~I=UOI=UPI=UUI=UVI=VMI=NNOI=NSUåI iáîÉê~åá=jKI=ORMå= NTPåI=NTQI=NTQåI=NTRI=OMPå içåÇê~=EiçåÇçåI=dê~å=_êÉí~Öå~FI=PMP J=^êÅÜáîáç=aáçÅÉë~åçI=NSUåI=NTR J=k~íáçå~ä=d~ääÉêóI=PMP J= cçåí~å~= ÇÉääÉ= kçî~åí~åçîÉ= Å~ååÉääÉ içåÖÉåÄ~ÅÜ=bKjKI=UNå= EÖá¶=cçåíÉ=ÇÉää~=oáîÉê~FI=UOI=UTI=UUI=UV içåÖÜá=oKI=NNQI=NNQåI=PMTI=POPI=POR J= jìëÉç= k~òáçå~äÉ= ÇÛ^ÄêìòòçI= NNOI içêÉåòÉííá=^ãÄêçÖáçI=éáííçêÉI=US NTR içêÉåòç=sÉåÉòá~åçI=éáííçêÉI=PMPI=PMQ J=èì~êíáÉêÉ=m~Ö~åáÅ~I=NTR içêÉíç= ^éêìíáåç= EmÉëÅ~ê~FI= NSUI= NTMI J=p~å=açãÉåáÅçI=ÅÜáÉë~I=OMPå NTNI=NTO J= p~å= páäîÉëíêçI= ÅÜáÉë~I= îK j~Éëíêç= ÇÉä J= p~åí~= j~êá~= áå= má~åçI= ÅÜáÉë~I= NSUI jÉëë~äÉ=lêëáåá NTNX=Å~ééÉää~=Çá=p~å=qçãã~ëçI=NTN J= p~åí~= j~êá~= m~Ö~åáÅ~I= ÅÜáÉë~I= NSUåI J=îK j~Éëíêç=Çá=içêÉíç=^éêìíáåç NTPåI=NTRI=NTRå iìÅ~= ÇÛ^íêá= EiìÅ~ë= ^íêá~åìëFI= îK J=råáîÉêëáí¶I=NTQå j~Éëíêç=Çá=lÑÑáÇ~ J=îK píÉÑ~åç=ÇÉääÛ^èìáä~ iìÅ~=Ç~=mÉååÉI=Öáìêáëí~I=NNQI=NNQåI=NNRI i~ãÉííá=iKI=OVå NNRåI=POS i~åÅá~åç=E`ÜáÉíáFI=OMRå iìÅ~=Çá=m~çäçI=éáííçêÉI=PM J=p~åí~=j~êá~=j~ÖÖáçêÉI=ÅÜáÉë~I=OMRå iìÅ~ë=^íêá~åìëI=îK iìÅ~=ÇÛ^íêá i~åÅçåÉääá=^KI=TPåI=TSå iìÅÅ~I=RNI=OQVI=ORNI=ORNå i~åòçåÉ=cKI=OPNå= iìÅÅç=jKI=PMOå i•ëòäμ= h•åI= îçîçáÇ~= Çá= qê~åëáäî~åá~I iìÅÉê~=EcçÖÖá~FI=OUM OQSå iìÅÜÉêáåá=sKI=OQTå i~ìÇ~Çáç=sKI=UI=ORMå iìÅá~I= ë~åí~I= NNVI= NOMI= NOQI= NOSI= NPNI i~ìêÉåí=jKeKI=OQUå NPQI=NRP i~ï=gKbKI=NQå= iìÇçîáÅçI=ë~åíçI=NNM= i~òáçI=TQI=NSS iìÇçîáÅç=Ç~=máÉíê~äìåÖ~I=cê~íÉ=jáåçêÉI i~òò~êáåá=fKI=OSå OROå= i~òò~êáåá=jKqKI=UTå iìÇçîáÅç=Çá=qçäçë~I=ë~åíçI=ORQ iÉÅÅÉI=PMOI=PMPI=PMR iìáëá=oKI=Uå= J=jìëÉç=mêçîáåÅá~äÉI=PMPI=PMR iìåÖÜá=bKI=OTå J=p~å=dáçî~ååáI=ãçå~ëíÉêçI=PMO iìçåÖç=^KI=VO
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
373
IS
IM E
iìëëÉãÄìêÖçI= îK páÖáëãçåÇç= Çá j~ä~íÉëíá= Ej~ä~íÉëí~FI= Ñ~ãáÖäá~I= NRI= ORI iìëëÉãÄìêÖç QS iìíò=îçå=iáåÇ~ìI=QU J=bäáë~ÄÉíí~I=PMI=PMå= J=d~äÉçííçI=QSI=ROI=RQ J=m~åÇçäÑç=fffI=ORI=ORå= j~ÅÉê~í~I=QTI=NVS J=oçÇçäÑç=fsI=PM J=Å~ííÉÇê~äÉI=NVS j~ä~íÉëí~I=ÑçêíÉI=îK `~ëëÉêç=~=j~êÉ j~Ççåå~I=îK j~êá~=sÉêÖáåÉ j~åÅáåá=cKcKI=NQåI=VMå= j~Éëíêç= ÇÉä= `êçÅáÑáëëç= Çá= híçåI= îK j~åçééÉääç=EmÉëÅ~ê~FI=OSPå j~Éëíêç=Çá=p~åíÛbäëáåç J=p~åí~=j~êá~=Çá=^ê~Äçå~I=ÅÜáÉë~I=OSPå= j~Éëíêç= ÇÉä= `êçÅáÑáëëç= Çá= sáëëçI= áåí~J j~åëÉääá=oKI=NSQå= Öäá~íçêÉI=OSS j~åíçî~=Ej~åíì~FI=OSI=OONå j~Éëíêç=ÇÉä=jÉëë~äÉ=lêëáåá=Eç=Çá=_ÉÑÑáI J=^êÅÜáîáç=Çá=pí~íçI=OONå ç=Çá=p~å=páäîÉëíêç=~ääÛ^èìáä~FI=ãáåá~íìJ j~åíì~I=îK j~åíçî~ êáëí~I=NTPI=NTPåI=NTQ j~åò~êá= cKI= NSPåI= NSQåI= NSRåI= NSSåI j~Éëíêç=ÇÉä=éçäáííáÅç=Çá=^ëÅçäáI=éáííçêÉI NSTåI=NSUåI=NTOåI=NTPåI=NTQåI=NTRåI NMUI=NMUåI=NRN NTSåI=OMQå j~Éëíêç= ÇÉää~= j~Ççåå~= Çá j~ê~åÉëá=cKI=SQå p~åíÛ^ÖçëíáåçI=ëÅìäíçêÉI=ORUå= j~ê~åç=EçÖÖá=`ìéê~=j~êáííáã~F=E^ëÅçäá j~Éëíêç= ÇÉää~= p~åí~= `~íÉêáå~= dì~äáåçI máÅÉåçFI=OOPå áåí~Öäá~íçêÉ=É=éáííçêÉI=OSS j~êÅ~= Çá= ^åÅçå~= Ej~êÅÜá~FI= UI= QOI= QPI j~Éëíêç=Çá=_ÉÑÑáI=îK j~Éëíêç=ÇÉä=jÉëë~äÉ QRI=QSI=QTI=QUI=QVI=RUI=SRI=OOPI=OOPåI lêëáåá OOQåI=OOTI=OOUI=OOUåI=OOV OOVåI=OQPI j~Éëíêç=Çá=bäëáåçI=éáííçêÉI=PMP OSPåI=OSQI=OTVI=POR j~Éëíêç= Çá= c~Äêá~åçI= îK mìÅÅáç= Çá J=îK=dá~Åçãç=ÇÉää~=j~êÅ~ páãçåÉ j~êÅÉääá=cKI=OTåI=OUåI=NSTå j~Éëíêç= Çá= içêÉíç= ^éêìíáåçI= éáííçêÉI j~êÅÉääáåçI=îÉëÅçîç=Çá=^ëÅçäáI=NQU NSUå j~êÅÜÉI=UI=QNI=QNåI=QOI=QPI=QQI=QSI=QTI=SNI j~Éëíêç=Çá=lÑÑáÇ~=EiìÅ~=ÇÛ^íêáFI=éáííçJ SPåI= TQI= TUI= NMRI= NMUI= NNPI= NNQI= NPNI êÉI=SI=TI=UI=VI=QNI=NMRI=NMSI=NMTI=NMUI NQUI=NSPI=NSQI=NSRI=NSSI=NSTI=NTSI=NTTI NMUåI= NNMI= NNNI= NNOI= NNPI= NNQI= NNRI NVQI=NVQåI=NVRåI=NVSI=NVTåI=OMMåI=OMNI NNVI= NOMI= NOQI= NOSI= NOTI= NOUI= NPMI ONNI=ONOI=OPOI=OPPI=OSNI=OSOI=PMOI=PMOåI NPNI= NPOI= NPPI= NPQI= NPRI= NQTI= NQTåI PMQI=PMRI=PMSI=POPI=PORI=POS= NRNI=NROI=NRQI=OTTI=POPI=POQI=PORI=POS j~êÅÜÉÖá~åá= `KI= OMNåI= OMOåI= OMPåI j~Éëíêç=Çá=p~å=dáçî~ååáI=ëÅìäíçêÉI=ORUå OMRåI=OTTåI=OUQå j~Éëíêç= Çá= p~å= páäîÉëíêç= ~ääÛ^èìáä~I= îK j~êÅÜá= ^KI= NRNI= NSTåI= NVTåI= NVUåI j~Éëíêç=ÇÉä=jÉëë~äÉ=lêëáåá OMMåI=PMPI=PMPå j~Éëíêç= Çá= p~åíÛbäëáåç= Eç= j~Éëíêç= ÇÉä j~êÅÜá~I=îK j~êÅ~=Çá=^åÅçå~ `êçÅÉÑáëëç=Çá=híçåFI=éáííçêÉI=SO j~êÅç=Ç~=jáä~åçI=ã~ÉëíêçI=OMNå j~Éëíêç=Çá=qçêêÉ=m~äãÉI=éáííçêÉI=PMP j~êÅç=Çá=m~çäç=sÉåÉòá~åçI=éáííçêÉI=SN j~Éëíêç=ëçííáäÉÒI=îK içêÉåòç=j~áí~åá= j~êÖÜÉêáí~= Ç~= `çêíçå~= Eqáí~FI= ÄÉ~í~I j~ÜãçìÇ=bäëÜÉáâÜ=pKI=URå NORI=NRP j~áêÉ=sáÖìÉìê=gK`KI=NPåI=OMåI=QTåI=TOåI j~êá~= sÉêÖáåÉI= ë~åí~I= OPI= SOI= UOI= NORI NVRå NOSI= NOUI= NPMI= NPOI= NRMI= NRNI= NROI j~áí~åá= içêÉåòçI Ej~Éëíêç= ëçííáäÉÒ\FI NSRI=NSSåI=NTMI=OMMåI=OMVI=OMVåI=OOVI ëÅìäíçêÉI=ORUåI=OSS OQRI=PMPI=PMQ
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
jÉåáÅÜÉääá=^KI=NPå jÉåáÅÜÉííá=^KI=UMå jÉêÅ~íÉääç= ëìä= jÉí~ìêç= EmÉë~êç= É rêÄáåçFI=NQT jÉêÅìêÉääá=p~ä~êá=mKI=ORPå= jÉêâÉä=`KI=NONå= jÉêäá=pKI=TOåI=TQåI=UQåI=VMå= jÉêäáI=Ñ~ãáÖäá~I=NQTI=NQV jÉëë~=mKI=OTå= jáÅ~äáòòá=mKI=TVåI=UMI=UMå jáÅÜÉäÉ=Ç~=`ÉëÉå~I=cê~íÉ=jáåçêÉI=ORRå= jáÅÜÉäáå~I=ë~åí~I=PMR jáÅÜÉäáåç=Ç~=_ÉëçòòçI=éáííçêÉI=PMQ jáÅÜÉäçííá=_áçêÇçI=Å~éáí~åç=Çá=îÉåíìê~I NR jáÅçòòá=dKI=OMOåI=OMPI=OMPåI=OMQå jáÇÇÉäÇçêÑ=hçëÉÖ~êíÉå=^KI=ORRåI=ORSåI ORUåI=ORVåI=OSNI=OSNå jáÖäáçê~íá=iìÇçîáÅçI=ëáÖåçêÉ=Çá=^åÅçå~ É=cÉêãçI=QVI=RNI=RVI=SPI=SRI=SS jáä~åÉëá=dKI=ONå= jáä~åçI=OOI=OONI=OONåI=OOOI=OOOåI=OOPI OOPåI=OORI=OOS J=p~å=dçíí~êÇç=áå=`çêíÉI=ÅÜáÉë~I=OOR J=îK=dáçî~ååá=Çá=rÖçäáåç J=îK j~êÅç=Ç~=jáä~åç jáä~òòç=EjÉëëáå~FI=OUO jáå~êÇá=jKI=NSTå= jáåìÅÅá=^åÇêÉ~I=Å~êÇáå~äÉI=NVT jçÅÉåáÖç= qçãã~ëçI= ÇçÖÉ= Çá= sÉåÉòá~I PMQ jçäÉí~=sKI=OQVå jçäÜç=^KI=NSå= jçää~í=dKI=QQå jçãÄ~êçÅÅáç=EmÉë~êç=É=rêÄáåçFI=PMS J=_É~íç=p~åíÉI=ÅçåîÉåíçI=PMS jçåÉääá=^KI=SRå jçåí~åáI=Ñ~ãáÖäá~I=RT jçåíÉÅ~äîç= ÇÉä= `~ëíÉää~åç= E^ëÅçäá máÅÉåçFI=NRM jçåíÉÑÉäíêáI=îK jçåíÉÑÉäíêç=EÇ~F= jçåíÉÑÉäíêçI=êÉÖáçåÉ=ëíçêáÅ~I=OOQå jçåíÉÑÉäíêç= EÇ~F= EjçåíÉÑÉäíêáFI= Ñ~ãáJ Öäá~I=NRI=OOI=OSI=RM J=dìáÇ~åíçåáçI=NSI=OOI=OS J=lÇÇ~åíçåáçI=OS
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j~êá~åç=ÇÉ=pÉåáëI=çêÉÑáÅÉI=SR j~êá~åç= cKI= RPåI= NVQI= NVQåI= NVVåI OMMå j~êíÉI=éá~åÉí~I=NVå= j~êíáå=cKI=ORNåI=ORPå j~êíáåÇ~äÉ=^KI=OQVå j~êíáåÉääá=dKI=SQå j~êíáåá=páãçåÉI=éáííçêÉI=ORMI=ORNI=ORQI ORRI=ORRå j~êíáåç=fI=é~é~I=ORM j~êíáåç=fs=Epáãçå=ÇÉ=_êáçåFI=é~é~I=NS j~êíáåç=s=ElííçåÉ=`çäçåå~FI=é~é~I=OSI QVI=OTU j~êíáåçI= éêÉéçëáíç= Çá= jçêêç= ÇÛlêçI NNM j~êíáåç=Çá=qçìêëI=ë~åíçI=ORM j~ëÅÜáç= ^åÖáçáåçI= îK k~éçäáI= `~ëíÉä kìçîç j~ëáÖå~åá=pKI=NVQåI=OSSå j~ëç=Çá=_~åÅçI=éáííçêÉI=PORI=POS j~ëë~= jKI= NMSåI= NVRåI= NVTåI= OMQåI OOVå j~ëë~=j~êáííáã~=EdêçëëÉíçFI=TPI=TPåI=UN J=cçåíÉ=kçî~I=UN j~ëëáãáåçI=ÖçîÉêå~íçêÉ=êçã~åçI=NNV j~ëëìÅÅáJqêáÅçåáI=Ñ~ãáÖäá~I=RT j~íÉäáÅ~=Ej~ÅÉê~í~FI=PMI=NVRI=OUMå J=p~åíÛ^ÖçëíáåçI=ÅÜáÉë~I=NVR j~ííÉçI= éêÉéçëáíç= Çá= p~å= _ÉåÉÇÉííç= Çá d~ÄÄá~åçI=NNN j~ííÉç= ÇÛ^Åèì~ëé~êí~I= cê~íÉ= jáåçêÉI OQUåI=ORT= j~ííÜá~É=dKI=NMRå j~ìêç= jKI= RNåI= SRåI= OOQåI= OORåI= OOSI OOSå j~òò~äìéá=jKI=NSTå j~òòçäáåá=oKdKI=NOOå jÅkÉáää=mKI=NOOå jÉÇáÅ~=jKI=OPOåI=ORTå jÉÇáÅáI=Ñ~ãáÖäá~I=PM J=`çëáãçI=PM J=dáçî~ååá=Çá=`çëáãçI=PM J=içêÉåòç=Eáä=j~ÖåáÑáÅçFI=OR jÉÇáå=dK`KI=OOOå jÉá=jKI=NSSå jÉåÉëí∂=bKI=RQåI=NNVåI=NSQåI=OMPå
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
íçêÉI=NNMI=NNO= jìòò~êÉääá= jKdKI= NONåI= NOOåI= NOPåI NOUåI=NPMåI=NPOåI=NPPåI=NPQå= k~éçäÉçåÉI=îK káÅÅçä∂=fffI=é~é~ k~éçäáI= VI= NRI= OMI= OVI= QOI= QQI= ROI= NNMI NNOI= NNRI= NNRåI= OROI= ORQI= OSPåI= POQI PORI=POS J=^ÅÅ~ÇÉãá~=ÇÉääÉ=_ÉääÉ=^êíáI=POQ J= `~ëíÉä= kìçîç= Ej~ëÅÜáç= ^åÖáçáåçFI NNRI=PORX=Å~ééÉää~=é~ä~íáå~I=NNRI=POR J=jìëÉç=^êÅÜÉçäçÖáÅçI=PMSI=POQ J=jìëÉç=Çá=`~éçÇáãçåíÉI=ORQI=POQ J=máå~ÅçíÉÅ~=k~òáçå~äÉI=POQ J=p~å=içêÉåòç=j~ÖÖáçêÉI=ÅÜáÉë~I=ORQ J=p~åí~=`Üá~ê~I=ÅÜáÉë~I=NNRI=OSPå J=îK oÉÖåç=Çá=k~éçäá k~éçäáí~åç=dáçêÖáçI=R kÉääá=líí~îá~åçI=éáííçêÉI=OOI=ORI=OSI=OT kÉäëçå=gKhKI=NPå= kÉêá= iìë~åå~= bKI= NMSåI= ORPåI= ORUåI OSPI=OSPåI=OSQå kÉêçåÉI=áãéÉê~íçêÉ=êçã~åçI=RP kÉëëá=pKI=NVåI=OQåI=ORåI=OQVå kÉï=bK^KI=OSQå= kÉï=vçêâ=Epí~íá=råáíá=ÇÛ^ãÉêáÅ~FI=NTP J=cêáÅâ=`çääÉÅíáçåI=PMO J=máÉêéçåí=jçêÖ~å=iáÄê~êóI=NTP= káÅÅç=c~ëçä~=dKI=NTåI=UQå káÅÅçä∂=fff=Edá~åÖ~Éí~åç=lêëáåáFI=é~é~I OROåI=ORUI=ORUåI=ORVI=ORVåI=OSMI=OSOI OSQåI=OSS káÅÅçä∂= fs= Edáêçä~ãç= j~ëÅá= ç dáêçä~ãç=Ç~=^ëÅçäáFI=é~é~I=NQUI=OMOI OMPI=OMPåI=OQUI=OQUå káÅÅçä∂= ÇÉää~= qìÅÅá~I= ëíçêáÅç= îáíÉêÄÉëÉI TT káÅÅçä∂= Çá= _çÅÅ~ëëáçI=îK _ÉåÉÇÉííç=ufI é~é~ káÅÅçä∂= Çá= j~êÅçI= Å~åçåáÅç= Çá= p~å p~äî~íçêÉ=Çá=cçäáÖåçI=OP káÅç=líí~îá~åá=jKdKI=NPOå= káÅçä~I=îÉëÅçîç=Çá=^íêáI=NNN káÅçä~=Ç~=dì~êÇá~ÖêÉäÉI=çêÉÑáÅÉI=NTRå= káÅçä~=Ç~=páÉå~I=éáííçêÉI=NSVå
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376
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
J=ÇìçãçI=OSRI=OSS J=Ñçåí~å~=Çá=p~åíÛ^åÖÉäçI=TNå J=êáçåÉ=Çá=p~åíç=píÉÑ~åçI=TNå J=p~å=açãÉåáÅçI=ÅÜáÉë~I=OSMå lëáãç=E^åÅçå~FI=SP lëáç=iKI=OSå lííçåáI=Ñ~ãáÖäá~I=PM m~ÅÅ~Öåáåá=dKI=OQVå= m~ÅÅá~åç=Em~Åá~åçFI=ãçåíÉ=åÉá=éêÉëëá=Çá mÉêìÖá~I=UQ J=îK mÉêìÖá~I=~ÅèìÉÇçííç m~ÅÉ=sKI=UVåI=NMSåI=OQUå= m~ÅÉ=_çåÉääá=iKI=UMå m~Åá=oKI=QSå= m~Åáåá=aKI=OTVå= m~Åáåç=Çá=_çå~ÖìáÇ~I=éáííçêÉ=É=ãáåá~íçJ êÉI=NSP m~ÅáçÅÅç=oKI=NSQåI=NSRåI=OMNå m~Ççî~I=UI=VI=OVI=QVI=NTPåI=OPM J=`~ééÉää~=ÇÉÖäá=pÅêçîÉÖåáI=UI=PMO J=îK ^åíçåáç=Ç~=m~Ççî~I=ë~åíç m~Öå~åá=dKI=STåI=OMUåI=ONNå= m~äÉëíáå~I=POR m~äãÉêáìëI=ã~ÖáëíÉêI=NVVI=NVVå m~äçòòá=iKI=NVQåI=NVTåI=NVVåI=OMMåI=OSQå= m~åÅáåç=`KI=NOOå m~åÇáåç=E`êÉãçå~FI=OONI=OONåI=OOP J=Å~ëíÉääçI=OONI=OONå m~åáÅ~äÉ= EmÉêìÖá~FI= îK _çäÇêáåç= Ç~ m~åáÅ~äÉ m~åçÑëâó=bKI=NOTI=NOTå m~åë~=jìòáçI=ãÉÇáÅç=É=äÉííÉê~íçI=NNQå m~åòáåá=cKI=NVQå m~çäá=rKI=TQå m~çäç= Çá= qçãã~ëçI= çê~Ñç= É= Åêçåáëí~I UTå m~çäç=sÉåÉòá~åçI=éáííçêÉI=PMOI=PMP m~çäçåá=^KI=OUNå m~çåÉ=oKI=OUOå m~éÉííá=jKI=SOå m~éÉííá=pKI=SNåI=NMSåI=NMTI=NMTåI=NMUåI NNVåI=NQTåI=NRNåI=NROåI=NSTåI=NSUåI NVRåI=NVSåI=OOVå m~éáåá=kKI=ORPå=
IM E
káÅçä~=Ç~=qçäÉåíáåçI=ë~åíçI=SR káÅçä~=ÇÉ=^éìäá~I=îK káÅçä~=máë~åç káÅçä~=máë~åç=EkáÅçä~=ÇÉ=^éìäá~FI=ëÅìäJ íçêÉI=OMI=OMåI=UOI=UQI=UQåI=UTI=OSRI=OUO káÅçä∂=Çá=máÉíêçI=éáííçêÉI=PMQI=PMS káÅçä∂=Çá=s~ääÉ=`~ëíÉää~å~I=ãáåá~íìêáëí~I NNQI=NSUå káÉíç=pçêá~=gKjKI=QQå kçÅÅá~åç=EmÉëÅ~ê~FI=NMRI=NNO J=p~åíá=içêÉåòç=É=sáííçêáåçI=ÅÜáÉë~I=NNO kçÅÉê~=rãÄê~=EmÉêìÖá~FI=NRI=NRP kçêã~å=aKI=OROå= kçî~ê~I=OOP kìòá=^ääÉÖêÉííçI=éáííçêÉI=SNI=NNPI=NNQåI NRQ kìòòç=^KI=QRå
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lÛj~ääÉó=jKI=NPåI=OMå lÅÅáí~åá~I= ~êÉ~= ëíçêáÅçJÖÉçÖê~ÑáÅ~= ÇÉää~ cê~åÅá~=ãÉêáÇáçå~äÉI=OUM lÑÑáÇ~=E^ëÅçäá=máÅÉåçFI=RI=SI=UI=VI=QOI=QSI RTI= NMRI= NMTI= NMTåI= NMUI= NMVI= NNRI NNVI= NOMI= NOQI= NPOI= NQTI= NSRI= NSTI NSUI= NSVI= NTMI= NTNI= NTOI= NTPI= NTQI NTQåI=NTRI=NTSI=NTTI=POQI=POR= J=é~ä~òòç=Åçãìå~äÉI=V J=p~åí~=j~êá~=ÇÉää~=oçÅÅ~I=ÅÜáÉë~=É=ÅêáéJ í~I=UI=VI=NMRI=NMTI=NNVI=NOQI=NORI=NPOI NQTI=NSRI=NSSI=NSSåI=NSUI=NTT J=îK `çêê~Çç=Çá=lÑÑáÇ~ J=îK=j~Éëíêç=Çá=lÑÑáÇ~ lÑÑåÉê=oKI=PORI=POS läÉÖÖáç=`~ëíÉääç=Ekçî~ê~FI=OOO J=îK sáëÅçåíá=Ç~=läÉÖÖáç läáîìÅÅáç= Çá= `áÅÅ~êÉääç= E`~êäç= Ç~ `~ãÉêáåçFI=éáííçêÉI=NSTI=NSTå= lêëáåáI=Ñ~ãáÖäá~ J=_ÉêíçäÇçI=NR J=dá~åÖ~Éí~åçI=îK káÅÅçä∂=fffI=é~é~= J=dáçî~åå~I=NR J=îK j~Éëíêç=ÇÉä=jÉëë~äÉ=lêëáåá lêëçä~I=ë~åí~I=NOQI=NOSI=NPM lêí~ääá=dKI=RQI=RQåI=UNåI=UQåI=VNå lêîáÉíç= EqÉêåáFI= TNåI= TPI= ORTI= OSNåI OSRI=OSS
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
J=^êÅÜáîáç=Çá=pí~íçI=UQåI=UVå J=~ÅèìÉÇçííç=Çá=jçåíÉ=m~ÅÅá~åç=EjçåíÉ m~Åá~åçFI=TPåI=UPI=UQ J= Ñçåí~å~= ÇÉ= éÉÇÉ= é~äÉÉI= UQåI= UUI= UVI UVåI= J=Ñçåí~å~=ÇÉä=máëÅáåÉääçI=TQå= J=cçåí~å~=j~ÖÖáçêÉ=Ecçåë=mä~íÉÉI=ÑçåJ í~å~= ÇÉ= Å~éáíÉ= é~äÉÉI= cçåíÉ= Çá= p~å içêÉåòçFI=NTI=NTåI=OMI=TOI=TUI=TVI=UOI UPI=UQI=UQåI=UTI=UUI=UVI=VMI=VMåI=OSR J=m~ä~òòç=ÇÉá=mêáçêá=Em~ä~òòç=mìÄÄäáÅçFI UUI=ORUå J=má~òò~=dê~åÇÉ=Emá~òò~=p~å=içêÉåòçFI UQI=UUI=UVåI=VMI=VMå J=má~òò~=oáî~êçä~I=VMå J=oçÅÅ~=m~çäáå~I=VM J=p~å=açãÉåáÅçI=Ä~ëáäáÅ~I=NPPI=ORUå J=p~å=cê~åÅÉëÅçI=ÅÜáÉë~I=NPP J=p~å=içêÉåòçI=Å~ííÉÇê~äÉI=VMå J=p~åíÛ^ÖçëíáåçI=ÅÜáÉë~I=NPPX=îK j~Éëíêç ÇÉää~=j~Ççåå~=Çá=p~åíÛ^Öçëíáåç J=p~åíÛbêÅçä~åçI=Å~ééÉää~I=UVå J= p~åíç= píÉÑ~åç= ÇÉä= `~ëíÉää~êÉI= ÅÜáÉë~I ORUå J=píìÇáç=ÖÉåÉê~äÉI=RV mÉêìëá~I=îK mÉêìÖá~ mÉë~êçI=NVQåI=OMRåI=OMSåI=PMOI=PMRI=PMS J=jìëÉç=`áîáÅçI=PMOI=PMRI=PMS J=p~å=`~ëëá~åçI=ÅÜáÉë~I=PMR J=p~å=açãÉåáÅçI=ÅÜáÉë~I=OMSå J=p~å=cê~åÅÉëÅçI=ÅÜáÉë~I=OMSå J=p~åíÛ^ÖçëíáåçI=ÅÜáÉë~I=PMS mÉëÅ~ê~I=ÑáìãÉI=NNR mÉíê~êÅ~=cê~åÅÉëÅçI=NNRI=POR mÉíêáÅáçäá=fKI=SOåI=OMMå= mÉíêìòòá=mKI=QUå mÉííáåÉääá=aáÉÖçI=POQ má~I= ÑçêíÉòò~= ëìä= ãçåíÉ= mÉä~ëÖáÅç= åÉá éêÉëëá=Çá=^ëÅçäá=máÅÉåçI=RO má~å~=^ÖçëíáåÉííá=`KI=TSI=TSåI=UMå= má~åÉää~=EmÉëÅ~ê~FI=NMRI=NNO J=p~åí~=j~êá~=j~ÖÖáçêÉI=ÅÜáÉë~I=NNO má~ííá=mKI=OTUå= má~òòçåá=^KjKI=NSRå máÅÅáêáääá=aKI=NMSI=NMSåI=NMTI=NMTåI=NMUI NMUå
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m~ê~îáÅáåá=_~Öäá~åá=^KI=TOåI=ORTå= m~êáÖá=Em~êáëI=cê~åÅá~FI=OQQ J=jìëÉç=ÇÉä=içìîêÉI=OSQå m~êã~I=NSP J=_áÄäáçíÉÅ~=m~ä~íáå~I=NSP m~êíáåç= dÉåíáäÉ= EÇ~= jçåíÉÑáçêÉF EdÉåíáäáë= ÇÉ= jçåíÉ= cäçêìãFI= Å~êÇáå~J äÉI= OQPI= OQPåI= OQQI= OQQåI= OQRI= OQRåI OQSI=OQSåI=OQTI=OQTåI=OQUI=OQUåI=OQVI OQVåI=ORMI=ORMåI=ORNI=OROI=OROåI=ORPI ORQI=ORRI=ORRåI=ORSI=ORSåI=ORTI=ORTåI ORUI=OSMI=OSNI=OSPI=OSPåI=POQ= m~êíåÉê=mKI=QQå m~ëÅ~ëáçI=ÅçåëçäÉ=êçã~åçI=NOM m~ëèì~äÉííá=`KI=NSUåI=NSVåI=NTQåI=NTSå m~ëíçêÉ~ì=jKI=NOOå m~ëíçêá=iKI=NRM m~íçå=_KI=NQå= m~ìäáÅÉääá=bKI=NOOå= m~î~åÉääç=dKI=USå m~îá~I=OS J=Å~ëíÉääçI=OS mÉÇ~ê~= Çá= oçÅÅ~= cäìîáçåÉ= E^ëÅçäá máÅÉåçFI=NOMI=NOS J=p~åíá=fééçäáíç=É=`~ëë~åçI=ÅÜáÉë~I=NOM mÉÇ~ëç=EcÉêãçFI=RT mÉä~ëÖáÅçI=ãçåíÉI=îK má~I=ÑçêíÉòò~ mÉääÉÖêáåá=iKI=NSQåI=OMNå mÉääáåá=dKI=NSUåI=NSVå= mÉåå~ÅÅÜá=cKI=OQQåI=OQRå= mÉååÉ=EmÉëÅ~ê~FI=NMRI=NNNI=NNOI=NNQ J=p~å=`çãáòáçI=ÅÜáÉë~I=NNO J=p~å=açãÉåáÅçI=ÅÜáÉë~I=NNO J=îK iìÅ~=Ç~=mÉååÉ mÉåíáã~I= Ñê~òáçåÉ= Çá= máçòò~åç Emá~ÅÉåò~FI=îK q~åÅêÉÇá=Ç~=mÉåíáã~ mÉéçäáI=Ñ~ãáÖäá~I=OON mÉêá=mKI=NPNå= mÉêçÖ~ääá=`KI=OORå mÉêçëÅá~I=îK mÉêìÖá~ mÉêêáÅÅáçäá=p~ÖÖÉëÉ=^KI=NNQå mÉêìÖá~=EmÉêìëá~I=mÉêçëÅá~FI=NRI=NTI=NTåI OMI= OOI= QQI= QRI= RVI= TOI= TPI= TPåI= TQåI TUI= TVI= UOI= UPI= UQI= UQåI= UTI= UUI= UUåI UVI= UVåI= TQåI= VMI= NPPI= OPMåI= OQVI OQVåI=OSMI=OSRI=OSS
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
oçëëá=cáå~ãçêÉ=bKI=NRå oçíáäá=jKI=NQT oçîÉêÉää~= i~íí~åòáçI= îÉëÅçîç= Çá= ^ëÅçäáI NQU oìÄÉìëI=ÑçåÇáíçêÉI=UQ p~Äáå~I=êÉÖáçåÉ=ëíçêáÅçJÖÉçÖê~ÑáÅ~I=OMS p~ÅÅÜÉííá=cê~åÅçI=éçÉí~=É=åçîÉääáÉêÉI=QUI QUå p~ä~êá~I=îá~=Åçåëçä~êÉI=OMS p~äÉêåçI=NS p~äáãÄÉåá=içêÉåòçI=éáííçêÉI=OUS p~äáãÄÉåá=Ç~=p~å=pÉîÉêáåçI=Ñê~íÉääáI=éáíJ íçêáI=SPI=NSTåI=PMS= p~äãá=jKI=POR p~äí~ê~=EmÉë~êçFI=NNQ J= p~å= cê~åÅÉëÅç= áå= oçîÉêÉíçI= ÅÜáÉë~I NNQ p~äìí~íá=`çäìÅÅáçI=QQI=QR p~äîá=^KI=RPåI=STåI=NRO p~äîá=dKI=OTTåI=OUMå p~å= `äÉãÉåíÉ= ~ä= sçã~åçI= ~ÄÄ~òá~I NMTå p~å=cä~îá~åçI=îK ^Åèì~îáî~ p~å=dáåÉëáç=Ej~ÅÉê~í~FI=NVRI=OMTI=OMTåI OMVI= OMVåI= ONNI= OTTI= OTUI= OTVI= OUMI OUMåI=OUNI=OUOI=OUPåI=OUQI=OURåI=OUS J= ^êÅÜáîáç= píçêáÅç= ÇÉä= `çãìåÉI= OUMåI OUPå J= ^êÅÜáîáç= píçêáÅç= ÇÉää~= `çääÉÖá~í~I OUPåI=OURå J=_áÄäáçíÉÅ~=`çãìå~äÉI=OURå J=ãìê~=Çá=p~å=káÅçä~I=OUN J= m~ä~òòç= aÉÑÉåëçê~äÉ= Eé~ä~íáìã= ÅçãJ ãìåáëFI=OTVI=OTVåI=OUNI=OUOI=OUR J=éá~òò~I=OUNI=OUOI=OURI=OUSå J=p~å=cê~åÅÉëÅçI=ÅÜáÉë~I=NVR J= p~å= pÉÄ~ëíá~åçI= ÅÜáÉë~= Eçê~= máå~Åç=J íÉÅ~=`áîáÅ~FI=OUSI=OUSå J=ppK=^ååìåòá~í~I=éáÉîÉ=É=ÅçääÉÖá~í~=EÖᶠp~å= dáåÉëáçI= éçá= p~å= _~êíçäçãÉçFI OMTI=OMTåI=OMVI=OMVåI=ONNI=OTTI=OTTåI OTUI= OTVI= OUNI= OUOI= OUPI= OUQI= OURI OUSI=OUSå J=íÉ~íêçI=OUO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
pÅÜï®ÄáëÅÜJdãΩåÇ= EdÉêã~åá~FI= ONMI ONMå= pÅá~ãã~ååáåá=oKI=NSQå= pÅêçîÉÖåá=båêáÅçI=UI=Uå pÉÄÉåáÅç=EŠáÄÉåáâI=`êç~òá~FI=îK dáçêÖáç Çá=pÉÄÉåáÅç= pÉåëá=jKI=OPåI=OQåI=OTåI=OUå pÉêÖá=dKI=UNå pÉêê~= iKI= NVQI= NVQåI= NVVåI= OMMåI= OMSI OMSåI= OMVI= OOVI= OOVåI= OPMI= OPMåI OPOåI=OPPI=ORRåI=OSNå pÉêê~=aÉëÑáäáë=^KI=OPOå= pÉííáë=pKI=TåI=NTåI=OMå pÉîÉêáåá=jKI=OUMåI=OURI=OURå pÑçêò~I=Ñ~ãáÖäá~I=SP J=^äÉëë~åÇêçI=SQ J=cê~åÅÉëÅçI=ORI=QTI=QUI=QVI=RNI=ROI=RRI SQI=SSX=îK=sáëÅçåíá=_á~åÅ~=j~êá~ J=d~äÉ~òòç=j~êá~I==RO J=iÉçåÉI=OR pÖ~êÄá=sKI=NSTåI=NSUå= pÜÉéÜÉêÇ=oKI=NPå= páÄáääáåáI=ãçåíáI=OMNI=OMTI=OMUI=ONNI=OTTI OURI=OUS páÅáäá~I=OUOX=îK=oÉÖåç=Çá=páÅáäá~ páÉå~I=NTI=NTåI=NVI=ONI=QQI=QRåI=SRI=TOI TRI= TSåI= TUI= UOI= URI= USI= UTI= UTåI= UUI VNåI=OQUåI=OSS J=cçåíÉ=_ê~åÇ~I=TRåI=TSåI=TU J=cçåíÉ=ÇÛlîáäÉI=TRI=TU J=cçåíÉ=Çá=cçääçåáÅ~I=TU J=cçåíÉ=Çá=mÉëÅ~á~I=TU J=cçåíÉ=d~á~=Ecçåë=d~áìëFI=UOI=URI=USI USåI=UTåI=UUI=UV J=cçåíÉ=kìçî~I=TU J=é~ä~òòç=mìÄÄäáÅç=Em~ä~òòç=`çãìå~äÉFI NTI=NTåI=ONI=USI=UU J=má~òò~=ÇÉä=`~ãéçI=URI=URåI=UTåI=UU J=mçêí~=lîáäÉI=TR J=p~å=açãÉåáÅçI=ÅçåîÉåíçI=TRå J=p~å=cÉÇÉäÉI=ãçå~ëíÉêçI=OQUå J=pçÅáÉí¶=ÇÉá=o~ÅÅçã~åÇ~íá=ÇÉä=`êçÅáÑáëëçI OQUå J=îK _Éêå~êÇáåç=Ç~=páÉå~ J=îK=j~êá~åç=ÇÉ=pÉåáë J=îK=káÅçä~=Ç~=páÉå~
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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q~ÇÇÉá=dKI=QPå q~ääçå=^KI=NTå=
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
rÇáåÉI=ONM J=ÇìçãçI=ONM rÖçäáåá=cKI=NUå rÖçäáåá=cK^KI=UQå räã~=EräãI=dÉêã~åá~FI=ONM rãÄÉêíç= Ç~= oçã~åëI= cê~íÉ= mêÉÇá=J Å~íçêÉI=NOU rãÄêá~I= ORI= QTI= QVI= TQI= TUI= NVRI= ORNåI OSMI=OSNI=OSRI=OUO= råÖÜÉêá~I=OQSI=OQVI=ORM rêÄ~åç= s= Edìáää~ãÉ= ÇÉ= dêáãç~êÇFI é~é~I=QOI=RN rêÄ~åç= sf= E_~êíçäçãÉç= mêáÖå~åçFI é~é~I=QOå rêÄáåçI=OSI=NST J=d~ääÉêá~=k~òáçå~äÉ=ÇÉääÉ=j~êÅÜÉI=NST ròòáåÉääá=kìÅÅáçI=ä~éáÅáÇ~I=OMM
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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383
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384
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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Indice generale
Saluti delle Autorità: Guido Castelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag.
Valerio Lucciarini De Vincenzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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VII
Antonio Rigon, Introduzione ai lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3
Jean-Baptiste Delzant, Per l’onore della città, per l’onore del signore. Circolazione di modelli politici e di artisti tra le signorie cittadine dell’Italia centrale (secolo XV) . . . . . . . . . . . . . .
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11
Francesco Pirani, Nelle Marche meridionali fra Tre e Quattrocento: città, regimi, committenza artistica . . . . . . . . .
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39
Attilio Bartoli Langeli - Sonia Merli, Un aspetto della committenza pubblica in ambito urbano: le fontane . . . . . . . . . .
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69
Pierluigi Leone De Castris, Il Maestro di Offida nell’Abruzzo teramano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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103
Maria Giuseppina Muzzarelli, Spunti dagli affreschi del maestro di Offida per osservazioni sulla moda nel Trecento e sullo studio della storia della moda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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117
Stefano Papetti, La chiesa di Santa Maria delle Donne: un palinsesto della pittura trecentesca ad Ascoli Piceno . . . . . . . .
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145
IM E
V
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Prima giornata
Seconda giornata
Francesca Manzari, Pittori e miniatori tardogotici tra Marche e Abruzzo: un Messale miniato destinato a Offida . . . . . . . .
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161
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191
Terza giornata Giorgia Corso, Scultura in pietra nella Marca meridionale: evoluzione e digressioni nei portali tardogotici . . . . . . . . . . . .
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219
Luca Palozzi, Talenti provinciali. Il cardinale francescano Gentile Partino da Montefiore e un’aggiunta alla scultura umbra del Trecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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241
Pio Francesco Pistilli, San Ginesio nel tardo medioevo e la vicenda della sua collegiata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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275
Francesca Flores D’Arcais, La diffusione delle opere d’arte veneziane nell’area centro adriatica nel Trecento . . . . . . . . . .
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299
Lectio magistralis del Premiato 2011 Ferdinando Bologna, Il Maestro di Offida . . . . . . . . . . . . . . .
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321
Alessandro Tomei, Qualche precisazione sugli affreschi tardogotici in Santa Maria della Rocca a Offida . . . . . . . . . . . . . . .
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327
Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .
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353
Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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359
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Graziano Alfredo Vergani, Un signore lombardo, uno scultore romagnolo e un sepolcro “alla veneziana” nelle Marche del Trecento: Bonaventura da Imola e l’Arca di Giovanni Visconti da Oleggio nel Duomo di Fermo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Indici
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IM E Composto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo
Finito di stampare nel mese di novembre 2013 dallo Stabilimento Tipografico ÂŤ Pliniana Âť Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG)
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1913
2013
dal 1913
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Atti del premio internazionale Ascoli Piceno - III serie
Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica nell’Italia del Trecento. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-3 dicembre 2005), a cura di A. Rigon (2007), pp. 362, tavv. 27.
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Festa e politica della festa nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-2 dicembre 2006), a cura di A. Rigon (2008), pp. 271. L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre1 dicembre 2007), a cura di A. Rigon - F. Veronese (2009), pp. 404. Condannare all’oblio. Pratiche della Damnatio memoriae nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2008), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon (2010), pp. 254. Fama e publica vox nel Medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2011), pp. 271, ill.
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Parole e realtà dell’amicizia medievale. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2012), pp. 292, ill. Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del maestro di Offida (secoli XIVXV). Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-3 dicembre 2011), a cura di S. Maddalo - I. Lori Sanfilippo (2013), pp. 386, ill.
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