Festa e politica e politica della festa nel Medioevo - Atti del Convegno 2006

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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D'ASCOLI”

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FESTA E POLITICA E POLITICA DELLA FESTA NEL MEDIOEVO a cura di Antonio Rigon

Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno

Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-2 dicembre 2006

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2008


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III serie diretta da Antonio Rigon

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Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

Comune di Ascoli Piceno

Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno

Istituto storico italiano per il medio evo

© Copyright 2008 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO

Redazione: STEFANIA CAMILLI, CHIARA DI FRUSCIA, SILVIA GIULIANO, CLAUDIA GNOCCHI, ALESSANDRO PONTECORVI ISBN 978-88-89190-40-2 Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2008


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«Una passeggiata per le strade della città vecchia ascolana è come lo sfogliare a caso un volume di storia dell’arte e avere la fortuna di incontrare le illustrazioni più rappresentative e espressive dei vari periodi dell’arte italiana». Una felice definizione di Jean-Paul Sartre della nostra città, che vive di una storia bimillenaria. Una passeggiata lungo il vecchio incasato del centro storico, tra le sue rue, negli slarghi che si aprono improvvisi inondati dal sole, è come visitare un museo all’aperto che ci parla della storia e delle tradizioni di questa incredibile città. Ascoli vive del suo passato, del suo medioevo così presente nella severa architettura del travertino, delle sue bellezze monumentali. Un passato ed una storia che il Premio Internazionale Ascoli Piceno promuove sapientemente con tutto lo spessore culturale dei grandi protagonisti che si sono succeduti alla ribalta del Premio. Insegni studiosi di assoluta rilevanza internazionale che fin dalla prima edizione hanno sempre assicurato l’altissima rilevanza scientifica che Gianni Forlini volle dargli per promuovere Ascoli nel contesto internazionale facendone una tappa prestigiosa per la medievistica. Negli anni il Premio è cresciuto, diventando una importantissima vetrina per la nostra città nel panorama culturale europeo. Gli atti relativi alle varie edizioni sono pubblicazioni di assoluto valore scientifico e culturale, alle quali ora aggiungiamo quelli della XVIII edizione sul tema “Festa e politica della festa nell’Italia medioevale”. Un’edizione che ha visto assegnare il Premio Internazionale Ascoli Piceno al prof. Jurgen Miethke dell’Università di Heidelberg, la targa Gianni Forlini alla dott.ssa Sandra Di Provvido e al prof. Stefano Papetti per il libro Pietro Alamanno. Un pittore austriaco nella Marchia. Il premio Vito Fumagalli è stato assegnato alla tesi di laurea dal titolo La documentazione solenne dell’episcopato ascolano (secoli XI-XIII). Note di diplomatica vescovile ascolana di Martina Cameli. La prima delle menzioni speciali della giuria è andata all’Istituto di Ricerca delle Fonti per la Storia della Civiltà Marinara Picena per la rivista CIMBAS. Infine, la seconda delle menzioni speciali della giuria è stata conferita al prof. Giuseppe Avarucci responsabile dell’Istituto Storico dei Cap-


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puccini per il catalogo della Mostra San Serafino da Montegranaro nell’arte italiana dal XVII al XX secolo. I lettori avranno così modo di apprezzare gli interventi dei relatori che trattano di un tema importante come quello della “festa nel Medioevo”. Un periodo che non finisce mai di sorprendere. Niente affatto “buio” ma un mondo colorato e con una gran voglia di sognare.

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il Sindaco (Dott. Ing. Piero Celani)


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Fondazione = fondi in azione per dare valore aggiunto alla nostra comunità

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La Fondazione di Ascoli Piceno, soggetto privato ed autonomo, è piena espressione del Terzo Settore della nostra comunità. Nel perseguire le proprie finalità la Fondazione opera secondo due elementi fondamentali e determinanti: - la produzione del reddito; - utilizzo di tale reddito a favore della comunità locale. La produzione di reddito - e l’incremento del patrimonio nel corso del tempo - è elemento imprescindibile per l’adempimento delle finalità istituzionali: la Fondazione esiste ed ha motivo di esistere se dispone di patrimonio, e conseguentemente di utili, per poter realizzare le proprie finalità istituzionali. In sintesi, è un soggetto che opera dapprima per produrre utili a beneficio della comunità, assumendosi rischi e responsabilità, e poi per utilizzare tali denari in modo tale che alla comunità pervenga un beneficio di valore superiore a quello dei denari utilizzati. Nell’esercitare la prima funzione (quella di produrre denaro) la Fondazione svolge un’attività di raccordo e coordinamento con soggetti altamente professionali del settore finanziario atteso che, come noto, le azioni di maggioranza dell’azienda bancaria conferitaria sono state cedute e, quindi, la Fondazione deve trarre la maggior parte del suo reddito da investimenti di mercato. Nell’esercitare la seconda funzione (quella di utilizzare il denaro in modo tale che alla comunità pervenga un beneficio di valore superiore a quello del denaro utilizzato) la Fondazione pone in essere una dialettica continua ed a diversi livelli con tutta la nostra comunità, al fine di raccoglierne i segnali, di coglierne le opportunità e di favorire tutte quelle forme di collaborazione e coordinamento il risultato delle quali sia un beneficio collettivo. Così operando, la Fondazione rappresenta davvero un “valore aggiunto” per la nostra comunità: un ente che opera per produrre reddito e che lo utilizza in modo tale da moltiplicarne il valore sociale. Questi valori hanno spinto la Fondazione ad intervenire attivando, in qualità di Ente Fondatore, una proficua collaborazione con l’Istituto Studi Medievali Cecco D’Ascoli.


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Da tale collaborazione sono scaturite importanti iniziative, tra cui la pubblicazione degli Atti della XVIII edizione del Premio Internazionale Città di Ascoli Piceno, con la finalità di promuovere il patrimonio storico, artistico, culturale e folclorico di Ascoli e del territorio della Marca Medievale inserendolo nel circuito nazionale ed internazionale più qualificato.

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Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno


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PRIMA GIORNATA


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Introduzione ai lavori


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L’anno scorso, in occasione della XVII Edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, tracciavo le linee guida e sottolineavo i fondamenti culturali delle attività legate al Premio, sintetizzandoli in tre punti: 1) attenzione ai temi della cultura e della politica, intrecciati fra loro e calati nel vivo della società e delle istituzioni medievali; 2) coinvolgimento di studiosi italiani e stranieri di diversa formazione intorno a progetti e iniziative riguardanti la storia medievale; 3) valorizzazione della città e del territorio di Ascoli mediante un costante aggancio e dialogo con la tradizione picena: non per imboccare il vicolo cieco della storia locale, ma per trarre spunto dalla secolare vicenda di quest’area e riflettere su problemi di grande storia, affrontando tematiche innovative nel campo della medievistica, o, comunque, inserite in un dibattito storiografico di ampio respiro e di livello internazionale. Quel progetto, da attuare sulla base di una programmazione triennale, si sta realizzando. Se il passato convegno su Cecco, personaggio simbolo di Ascoli, si inseriva entro un quadro ampio, focalizzato su cultura, scienza e politica nell’Italia del Trecento, l’incontro di quest’anno torna a puntare su temi politici, declinandoli con quelli dell’universo ludico: Festa e politica e politica della festa nel medioevo. Si capisce subito come un simile argomento si colleghi con la realtà di Ascoli Piceno, la città della Quintana, animatrice di iniziative culturali relative ai giochi storici, che vanta un Centro studi impegnato in questo settore con varie pubblicazioni al suo attivo. Non a caso compare tra i relatori di questo convegno il dott. Bernardo Nardi fondatore del suddetto Centro. D’altra parte è altrettanto evidente l’interesse scientifico del tema Festa e politica, testimoniato da un’abbondante storiografia in materia, che copre tutto l’arco storico dall’antichità all’età contemporanea. Certo, non sono mancati i convegni attorno alla festa, vista nelle sue varie relazioni. In questo tipo di ricerche si tende a mettere in luce che «la festa medievale è cosa seria, non è mai occasione o momento di disimpegno», ma piuttosto dimostrazione di forza e solidarietà collettiva, «espressione di un bisogno di sentirsi insieme», momento in cui comunità cittadine e gruppi sociali acquistano coscienza di sé, fenomeno dinamico in cui simbologie e cerimoniali, stratificatisi attraverso i secoli, non sono mai ripetizione meccanica di gesti e di rituali, privi di un pre-

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ciso riferimento al presente. Raramente la festa medievale si caratterizza come evento di pura aggregazione spontanea: infatti è necessario ogni volta domandarsi a chi si possa ricondurre la direzione delle diverse cerimonie, quale sia lo scopo che si intendeva realizzare, quale uso si voleva fare della festa. Nel loro aspetto militare feste e giochi d’arme veicolano in varie forme messaggi politici e di potere: scenografie e spazi urbani sono predisposti e utilizzati a questo fine e alla scelta di insegne, simboli, immagini e colori sono delegati intellettuali e uomini di governo. Ai giochi d’arme e allo spettacolo si affiancano i banchetti che richiedono risorse finanziarie, impegno organizzativo, elaborazione progressiva di un’etichetta. Codificata in rituali di esibizione (tra potenti, tra reali, nelle città e nelle corti), ma anche di rovesciamento simbolico (il carnevale), la festa in rapporto alla politica ha anche la sua dimensione religiosa che può suscitare sospetti e censure da parte delle autorità ecclesiastiche a causa delle manifestazioni di lusso e per gli sprechi che poteva determinare. E, in tale prospettiva, a fare le spese di invettive, condanne e leggi repressive erano soprattutto le donne. Questi ed altri sono i temi delle relazioni che ascolteremo in questi giorni. Ma, secondo una prospettiva cara a Gherardo Ortalli, che desidero ringraziare per i suggerimenti e l’aiuto offerto nella progettazione del convegno, esso vorrebbe dare spazio anche al gioco e alla festa come tali, alla gioia, al divertimento, alla dimensione della ludicità, al ruolo che ebbero nella società medievale. È questo un modo concreto e innovativo di superare l’impostazione tradizionale della storiografia, tendente a confinare ai margini della ricerca storica gli aspetti giocosi della vita, ai quali solo per diletto e occasionalmente lo storico dovrebbe prestare attenzione. Viste sotto una simile angolatura queste giornate di studio rivestono un carattere di novità pienamente rispondente agli scopi che il Comitato Scientifico del Premio Ascoli si propone di raggiungere. La piena realizzazione di questi fini è affidata agli studiosi chiamati a dare il loro contributo di conoscenza su un tema certamente stimolante e importante come è quello della festa e della politica. È però doveroso ringraziare quanti hanno creato le condizioni perché questo Convegno e gli altri che verranno possano svolgersi. Grazie, dunque, all’Amministrazione Comunale e alla Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno, alla Provincia e alla Camera di Commercio. Rivolgo, infine, un cordiale ringraziamento e un augurio di buon lavoro al prof. Morganti, nuovo Presidente dell’Istituto superiore di studi medievali Cecco d’Ascoli, e ai suoi collaboratori, coordinati con dedizione e passione dall’infaticabile dott.ssa Elia Calilli. Anche grazie al loro impegno questo incontro di studio è giunto a felice realizzazione.


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Tornei fra festa e politica: ai primordi di una nuova etica europea


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«Deux choses sont, par la voulenté de Dieux, etablies au monde ainsi come .II. pilliers a soustenire les ordres des loy divines et humaines»1. Così comincia Le livre des fais del maresciallo di Francia Bouciquaut, composto nell’anno 1406 da un anonimo per esaltare le azioni e la vita di uno tra i più famosi cavalieri del tempo. Dio ha istituito due elementi che, in guisa di due pilastri, sostengono il mondo: la cavalleria e i giurisperiti. Nessun regno, nessun Impero può reggersi senza tali colonne portanti, perché quando la giurisprudenza è infranta gli uomini smettono di vivere secondo le leggi, mentre quando crolla la difesa, assicurata dalla cavalleria, i nemici iniziano a creare disordine e confusione.

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L’anonimo non è l’unico autore dell’epoca a celebrare con parole così incisive la cavalleria e i cultori della legge. Pochi anni avanti, nel 1391, Froissart, il grande Cronista della Francia, esaltava i “Chevaliers en armes” e i “Chevaliers en lois” col definirli le fondamenta sociali del regno, mentre qualche anno dopo, nel 1410, anche Christine de Pisan, nel suo “Livre des fais” consacrato al regno di Carlo V, vergava considerazioni analoghe2. Il periodo storico che esprime una stima tanto alta del ceto guerriero coincide, in definitiva, con quella porzione della storia, nella quale i fasti

* Ringrazio sentitamente Isabella Gagliardi per la revisione del testo italiano. Con un ta-

glio diverso mi sono occupato della problematica del Torneo nel volume La civiltà cavalleresca e l’Europa. Ripensare la storia della cavalleria. Atti del I Convegno internazionale di studi (San Gimignano, 3-4 giugno 2006), cur. F. Cardini - I. Gagliardi, Pisa 2007, pp. 91-106. 1 Le livre des Fais du bon Messire Jehan Le Maingre, dit Bouciquaut mareschal de France et Gouverneur de Jennes, ed. D. Lalande, Paris-Genève 1985 (Textes littéraires français, 331), pp. 6 ss. 2 Ibid., p. 7 apparato.


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della cavalleria erano ormai tramontati, pur se essa non aveva perduto del tutto la propria importanza militare. Del resto la prima grande sconfitta della cavalleria pesante francese contro gli arcieri inglesi, consumata ad Azincourt nel 1315, e la disfatta della cavalleria asburgica contro le alabarde della fanteria delle città svizzere, avvenuta nel medesimo anno a Morgarten, appartenevano oramai al secolo precedente. Comunque, nonostante la progressiva diminuzione della sua potenza bellica, la cavalleria, fino alla fine del medioevo, non perse la grande considerazione etico-sociale, di cui godeva e della quale si è conservata una flebile eco sino ai giorni nostri.

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Se, rispetto a quei primi del ’400 in cui il già ricordato anonimo descriveva la visione delle due colonne che sorreggevano il mondo, puntiamo lo sguardo indietro nel tempo, in direzione dei secoli delle origini della cavalleria medievale, riusciamo a cogliere una visione degli eventi e la formulazione di un giudizio sulla cavalleria del tutto opposte. Allora, negli ultimi decenni del secolo X, era stato proprio questo ceto di armati a cavallo, erano stati proprio i milites, con le loro rapine, con gli incendi e con ogni sorta di misfatti, a creare un tale caos nella società da suscitare il grande movimento della pace di Dio. La collaborazione tra i concili ecclesiastici e i poteri laici, inauguratasi negli anni 90 del X secolo, con lo scorrere dei decenni aveva potuto migliorare la situazione e porre le basi per una pacificazione sociale – ancorché estremamente fragile. Ancora alla fine del secolo XI, nella famosa predica di papa Urbano II a Clermont-Ferrand del 1095, i milites venivano apostrofati con gli epiteti di rapitori e ladri; di conseguenza venivano caldamente invitati a recarsi in Terra Santa per impegnare le loro energie nella liberazione del Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli: «nunc fiant milites, qui dudum extiterunt raptores – così il papa si rivolgeva ai suoi uditori – nunc rite contra barbaros pugnent, qui olim contra fratres et consanguineos dimicabant»3. Di fronte ad una simile parabola di giudizi, che dalla pessima considerazione dei milites testimoniata nei secoli X e XI si innalzava fino ai massimi elogi or ora citati di 300 anni più tardi, dobbiamo chiederci come sia potuta accadere una simile inversione di tendenza e interrogarci sulla natura di quali trasformazioni culturali e sotto l’influsso di quali ideologie si sia verificato un cambiamento di tal fatta.

3

Fulcherii Carnotensis Historia Hierosolimitana, ed. H. Hagenmeyer, Heidelberg 1913, I.3,7; cfr. J. Fleckenstein, Vom Rittertum im Mittelalter, Goldbach 1997, p. 160 con bibliografia.


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Per esplicitare subito la risposta: il grande cambiamento fu il frutto finale, o meglio l’esito di tre processi – rispettivamente tre fattori – che riuscirono a domare e a civilizzare la cavalleria sulla lunga durata.

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In prima istanza va considerata la progressiva pacificazione della società che avvenne per mezzo del movimento della pace di Dio, il contemporaneo, lento, rinvigorirsi dei poteri territoriali e la deviazione delle energie dei milites che furono orientate verso nuovi orizzonti. Istigati dalla predica di Urbano II, nel 1096, in effetti, migliaia di guerrieri si misero in cammino verso la Terra Santa dove avrebbero potuto riservare la loro vis bellica alla lotta contro gli infedeli. Bisogna altresì considerare che, dopo la caduta di Accone (nel 1291), furono organizzate le cosiddette voyages de Prusse, ovvero le spedizioni militari contro gli infedeli in Lituania. Nel Livre des fais di Boucicault, che combatté nel Mediterraneo per molti anni contro i musulmani – con grande dispiacere dei Veneziani –, la sua partecipazione a queste imprese prussiane ci viene descritta nei termini della guerra contro «les sarrasains»4. E, nel senso di una deviazione delle energie della cavalleria, dobbiamo valutare anche i tornei, ai quali torneremo subito. In seconda istanza, a parte la summenzionata deviazione delle energie, è necessario considerare un altro fattore culturale importante, in grado di provocare la civilizzazione dei milites: il fatto che i loro giochi guerreschi, ovvero i tornei, vennero legati alla corte, cioè alle migliaia di corti piccole e grandi della christianitas coeva e, di conseguenza, a quel formidabile indotto culturale rappresentato dalla vita di corte, appunto, comprensiva di atteggiamenti mentali e di regole comportamentali ben individuate. Finalmente, in terza istanza, dobbiamo riflettere sull’influenza della letteratura romanza in lingua volgare, che forgiava e proclamava nuovi ideali di comportamento. La scena centrale, sulla quale si dispiegarono gli ultimi due processi, fu rappresentata dalle corti e dagli eventi festosi ai quali partecipavano i milites, che presto avrebbero formato la nuova cavalleria. Il perno dello sviluppo, il centro intorno al quale girava tutto o, per dirla diversamente, il catalizzatore di quel cambiamento totale cui abbiamo accennato fu il torneo.

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Le livre des Fais cit., pp. 11, 8 ss.


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Per non trascurare troppo la politica, poiché essa – a parte le feste – sta al centro dell’interesse di questo Convegno, diciamo subito che l’ordito principale delle feste – durante le quali i tornei rappresentavano le ore più eccitanti, quasi il colmo dell’avvenimento festoso – era sempre costituito dall’azione politica. Alle feste e ai tornei veniva delegato un ruolo politico di primo livello: quegli eventi servivano infatti per placare gli animi del pubblico e dei partecipanti. La funzione di fungere da legame tra indigeni e forestieri esercitata appunto dal torneo è stata sottolineata dal Cronista di Saint Denis. Descrivendo la festa organizzata nel 1389 dal re di Francia, Carlo VI, in occasione dell’incoronazione della moglie Elisabetta di Baviera, l’autore osserva espressamente che il torneo aveva lo scopo di far stringere potenti alleanze e di conciliare al sovrano il favore degli stranieri5. La funzione primaria, o, per esser più cauti, una tra le funzioni primarie dei tornei era ovviamente la mise en scéne di gare eccitanti, ma al contempo i tornei intrattenevano gli spettatori e legavano gli uni agli altri avviluppandoli in un’emozione comune e, dopo la gara, assicuravano il rinsaldarsi del sentimento di “compagnonaggio” per mezzo dei fastosi e festosi banchetti finali e degli incontri interpersonali. Così si spiega anche perché i tornei costituivano un programma fisso dei matrimoni tra le case reali6 (come in occasione dello sposalizio di re Mattia Corvino d’Ungheria con Beatrice d’Aragona nel 1474), delle trattative internazionali (come l’incontro del margravio di Istria col conte della Carinzia a Frisach nel 12247), delle entrés royales (quale l’entrata del re di Francia Filippo VI nel 1328 a Parigi o nel 1355 a Tournai8 e così via), nonché di tante altre occasioni ufficiali e rappresentative (come le visite effettuate da Pietro re di Cipro: a Smithfield, nel 1363, per incontrare Edoardo III d’Inghilterra; a Praga, nel 1364, per trovare Carlo IV; a Vienna9, poco dopo, per raggiungere Rodolfo d’Austria e via dicendo). Questi esempi ci trasportano nel periodo di gloria dei tornei, nell’epoca in cui la cavalleria godeva ormai grande stima in Europa, quando la para-

5 Chronique du Religieux de St. Denis contenant le règne de Charles VI de 1380 à 1422, ed. L. Bellaguet, 1, Paris 1839-1852, pp. 568-598. 6 E. Fügedi, Turniere im mittelalterlichen Ungarn, in Das ritterliche Turnier im Mittelalter. Beiträge zu einer vergleichenden Formen- und Verhaltensgeschiche des Rittertums, cur. J. Fleckenstein, Göttingen 1985 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 80), pp. 390-400: 397. 7 R. Barber - J. Barker, Die Geschichte des Turniers, Düsseldorf-Zürich 2001, p. 68. 8 Ibid., p. 127. 9 Ibid., pp. 127-128.


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bola celebrativa, di cui abbiamo parlato all’inizio dell’intervento, era giunta al suo climax. Ma torniamo per un momento indietro, torniamo dunque al tempo delle origini della cavalleria e dell’idea cavalleresca e seguiamone, tappa per tappa, la cronologia dello sviluppo, almeno per quanto ci sarà possibile fare.

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Abbiamo detto che il perno del grande successo ideale della cavalleria coincise con il torneo cioè con un’esercitazione, un ludus militare che comparve, come sembra, sulla ricca scena dei giochi guerreschi intorno alla metà del secolo XI, per diventare presto l’evento più importante e più prestigioso di tutti. La varietà dei giochi disponibili era notevole, basti pensare, per limitarsi soltanto al caso dell’Italia dove la documentazione è più vasta, che ogni città e ogni regione aveva i suoi giochi e i suoi spettacoli ormai acquisiti alla tradizione perché antichi, come chiarisce il caso di Ravenna con i suoi ludi domenicali spesso cruenti, i medesimi che furono immortalati dal calamo di Agnello Ravennate nel IX secolo10. Su questo sfondo – che si potrebbe, fin ad un certo punto, presupporre anche per la Francia – la fortuna del nuovo gioco, cioè del torneo, a prima vista potrebbe sorprendere. Ma, osservandolo più da vicino, il suo successo appare quasi scontato: il ludus coinvolgeva infatti le persone che formavano il nerbo degli eserciti del tempo, la milizia pesante a cavallo, e implicava l’esercizio di quella nuova tattica bellica che, per quasi 200 anni, ebbe il potere di trasformare la cavalleria nell’arma più temibile degli eserciti.

Tutto sembra aver preso avvio nel nord-ovest della Francia, durante la prima metà del secolo XI, per irradiarsi da là in direzione nordest e nord, verso le Fiandre e l’Isola Britannica11, a Sud verso l’Italia e ad est verso la Germania. La nostra prima notizia si riferisce all’anno 1062, quando la nuova esercitazione era già praticata da anni, magari addirittura da un decennio o forse di più. Sta di fatto che una cronaca di Tours, del 1220 circa, ci racconta di un tradimento avvenuto ad Anger nell’anno 1062, tradimento nel corso del quale un certo Gaufridus de Pruliaco e altri baroni furono uccisi. Fra parentesi la fonte aggiunge che era stato proprio Gaufrido ad aver

10 Th. Szabó, Das Turnier in Italien, in Das ritterliche Turnier im Mittelalter cit., pp. 344-370: 348. 11 Barber - Barker, Die Geschichte des Turniers cit., p. 41.


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inventato i tornei: «hic Gaufridus de Pruliaco torneamenta invenit». Lasciamo da parte il fatto che la notizia sia del 1220 circa, cioè di circa 120 anni posteriore alla data dell’evento e, parimenti, non insistiamo sull’esistenza di attribuzioni di paternità discordanti, ovvero quelle tramandate da testi letterari poco anteriori dove l’invenzione del torneo è attribuita alla cavalleria in toto o addirittura ad Alessandro Magno12. La notizia trasmessa dalla Cronaca di Tours merita attenzione perché in essa l’invenzione del torneo non è l’oggetto principale del messaggio e, inoltre, perché dà notizie intorno a persone vissute e a fatti accaduti non lontano dalla città13.

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La parola latina torneamentum era una sorta di neologismo. In che cosa consistesse il torneamentum non ci viene spiegato puntualmente. Tuttavia, dato che il nesso etimologico della parola coi termini tornoi o tornei – che nel francese antico significavano “girarsi” o “volgersi” – è evidente, si è indotti a ritenere che torneamentum dovesse indicare una manovra, a sua volta divenuta eponima del nuovo gioco. Quest’ultimo, dunque, finiva per conservare nel nome il signum identificativo della propria origine: esso, con tutta probabilità, era scaturito dall’innovativa esercitazione militare eseguita a cavallo utilizzando una lancia più pesante delle precedenti. In definitiva il quadro che si è cercato di ricostruire sin qui è quello suggerito dalle scarse e rapsodiche notizie conservate delle fonti: le notizie precipue, infatti, restano frammentarie fino alla metà del XII secolo. La prima menzione dei tornei, che proviene dalle Fiandre e in particolare dalla cosiddetta pace di Valenciennes del 1114, parla infatti di «hastiludia, torneamenta aut consimilia»14, mentre la notizia trasmessa da Ottone di Frisinga si riferisce alle esercitazioni militari del 1127, avvenute sotto le mura di Würzburg, e accenna ad un «tyrocinium quod vulgo turneimentum dicitur»15. Si tratta, dunque, rispettivamente di ludi, di esercitazioni.

12 Cfr. U. Mölk, Philologische Aspekte des Turniers, in Das ritterliche Turnier im Mittelalter cit., pp. 63-174: 171 ss. 13 Chronicon Turonense magnum, in Recueil de Chroniques de Touraine, ed. A. Salmon, Tours 1854 (Société archéologique de Touraine. Collection de documents sur l’Histoire de Touraine, 1), p. 125: «Anno Henrici imperatoris VII et Philippi regis III fuit traditio apud Andegavos, ubi Gaufridus de Pruliaco et alii barones occisi sunt. Hic Gaufridus de Pruliaco torneamenta invenit»; Chronicon Turonense abbreviatum, ibid., p. 189; cfr. Mölk, Philologische Aspekte cit., pp. 172 ss. 14 Gisleberti Chronicon Hanoniense, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 29, Hannoverae 1869, Appendice II (Charta Pacis Valencenensis), p. 308. 15 Otto von Freising, Die Taten Friedrichs oder richtiger Cronica, ed. F.J. Schmale, Darmstadt 1965 (Freiherr vom Stein Gedächtnisausgabe, 17), I. 18, p. 159.


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Che si trattasse invece di una nuova tattica bellica traspare dalle parole della cronista bizantina, Anna Comnena, figlia del basileus Alessio Comneno. Anna Comnena, che doveva ben conoscere il valore tattico sia della cavalleria bizantina sia di quella dei popoli vicini, nota con ammirazione l’impressione suscitata nei contemporanei dalla cavalleria francese della prima crociata. La forza d’urto di una squadra di cavalieri franchi in attacco era così violenta, a detta di Anna Comnena, da aprire una breccia persino nelle mura di Babilonia16. Consideriamo come, da un lato, lo straordinario impatto dei cavalieri dovesse essere merito di un nuovo tipo di lancia, mentre, dall’altro, dovesse dipendere anche dalla tecnica d’uso della lancia medesima17. Tale lancia era, stando alle fonti, molto più pesante delle lance usate fino ad allora. Per l’esattezza, più che di una lancia propriamente detta si trattava piuttosto di un’asta, come è mostrato da un bassorilievo della cattedrale di Saint-Pierre di Angoulême scolpito intorno agli anni 11051128 circa. E la lancia doveva essere usata dalla cavalleria – questo sembrano suggerire le parole di Anna Comnena – in gruppo serrato. Desumo l’esistenza del gruppo serrato, perché proprio la sua costituzione e la manovra del girarsi contro l’avversario senza perdere la compattezza degli armati e senza perdere quindi l’enorme potenza d’urto assicurata dalla falange di aste puntate verso il nemico, darebbero senso alla parola torneamentum, che rimanda appunto al movimento del girarsi o del voltarsi. Questa interpretazione è confermata anche dal fatto che, ancora nella metà del XII secolo, i testi letterari usano i termini tornoi, tornoiement e tornoiier per indicare le azioni di guerra. Il significato di tali termini si restringe solo nei decenni seguenti, indicando da allora in poi gli spettacoli guerreschi18.

Non dobbiamo però ingannarci. Il torneo era, sí, un gioco, ma allo stesso tempo era uno spettacolo violento, molto simile alla guerra, che produceva feriti e spesso anche morti. Fu proprio in ragione di una simile violenza che presto i poteri civili ed ecclesiastici intervennero contro il torneo.

16 Annae Comnenae Alexias, edd. D.R. Reinsch - A. Kambylis, pars I, in Corpus fontium historiae byzantinae. Series berolinensis, XL/1, Berlin 2001, pp. 405 s., XIII 8 3 (= Leib, tome III, Paris 1945, p. 115). 17 J. Flori, Encore l’usage de la lance ... La technique du combat chevaleresque vers l’an 1100, «Cahiers de civilisation médiévale», 31 (1988), pp. 213-240. 18 W.H. Jackson, Das Turnier in der deutschen Dichtung des Mittelalters, in Das ritterliche Turnier im Mittelalter cit., pp. 257-295: 260 s.


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La pace di Valenciennes del 1114, rammentata poco fa, comminava pene severe a chi uccideva il suo avversario nel corso di giochi simili. Sedici anni più tardi, nel 1130, invece, il Concilio di Clermont vietava «detestabiles [...] illas nundinas vel ferias in quibus milites ex condicto convenire solent […] ad ostentationem virium suarum & audaciae […] unde mortes hominum et animarum pericula saepe proveniunt» – quelle detestabili nundine o ferie ove convengono i milites per ostentare la loro forza e audacia causando feriti e morti19.

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Di sciagure cruente, di feriti e di morti a causa dei tornei ci parlano le fonti fino alla fine del medioevo. Celebri sono i casi di Goffredo di Bretagna, figlio di Enrico II d’Inghilterra, che perse la vita in un torneo nel 1186 vicino a Parigi20, o di Leopoldo d’Austria che nel 1194, in occasione di un torneo di Graz, cadde dal cavallo e spirò a causa della frattura della tibia, o del torneo di Neuss sul Reno in Germania, nel 1241, ove morirono circa 100 cavalieri soffocati dalla polvere sollevata sul campo, o del figlio di Lodovico II di Baviera, Lodovico, che venne ferito a morte nel 1290 in un torneo allestito in occasione della dieta di Norimberga. Per portare un ultimo esempio, si pensi al torneo che si celebrò a Parigi, nel 1559, in occasione di un doppio matrimonio principesco, un torneo nel corso del quale re Enrico II di Francia venne ferito gravemente – da una lancia che gli sfondò l’elmo e gli trafisse la fronte – e morì dieci giorni più tardi21.

Il torneo, dunque, era un’esercitazione, un gioco cruento che provocava feriti e finanche morti. Ma in che cosa consisteva la sua attrattiva, in che cosa consisteva quel potente fascino in virtù del quale si continuava a praticarlo nonostante le pene comminate dai concili ecclesiastici e – come nel caso della pace di Valenciennes – dai poteri secolari? Il torneo era, per farla breve, la continuazione delle guerre private; era la continuazione del far bottino – in piena pace – o, per usare altri termini, il torneo era la guerra indetta – con il campo di battaglia e il giorno di

19 J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 21, FlorentiaeVenetiis 1759-1798, coll. 439 e 460 ss. 20 Gesta regis Henrici secundi Benedicti abbatis, ed. W. Stubbs, in Rerum Britannicarum medii aevi scriptores, Rolls Series, 49/1, London 1867, p. 350; cfr. W.L. Warren, Henry II, London 1973, p. 599. 21 Ph. Contamine, Les tournois en France à la fin du moyen âge, in Das ritterliche Turnier im Mittelalter cit., pp. 425-449: 426; Barber - Barker, Die Geschichte des Turniers cit., p. 176.


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guerra concordati – in tempo di pace. La sua grande attrattiva consisteva senz’altro nel fatto che riproponeva i momenti clou della guerra, la vittoria sul nemico e l’appropriazione di tutto quanto egli possedeva, nel fatto che consentiva di rivivere «quell’antica festa crudele», come ha sintetizzato Franco Cardini cercando di rendere espliciti i sentimenti e le emozioni suscitate dal guerreggiare in quei tempi lontani22.

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Le regole del gioco erano le medesime della guerra. Come in quella, lo scopo principale del torneo non consisteva soltanto nel vincere il nemico, ma anche e soprattutto nel procurarsi il bottino. Perché, al pari di quanto accadeva nella guerra vera, anche nel torneo il nemico sconfitto veniva catturato, imprigionato e il suo cavallo e la sua armatura diventavano bottino del vincitore al quale il vinto, per riacquistare la libertà, era tenuto a pagare una somma salata.

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Ai tornei, a queste guerre in piena pace, si era invitati tramite lettere circolari o indirizzate ai cavalieri dei territori vicini, concordando in anticipo tanto la data dell’incontro quanto il campo di battaglia. Un invito del genere è stato conservato dalla raccolta di lettere formali stilata da Boncompagno da Signa nel 1215. L’invito comincia con le parole: «Sonus per diversas partes Gallie iam exivit, quod aliquot principes et milites infiniti debent in proximo pentecoste ad torneamentum in Flandria convenire» e si chiude con l’esortazione «ad tante iocunditatis et exultacionis conventum venire nullatenus postponatis» – cioè non mancate di visitare questo raduno di gioia23.

Leggendo le fonti si riceve l’impressione di un ciclo ininterrotto di tornei indetti qua e là e frequentati da gruppi di armati, che talvolta formavano addirittura piccoli eserciti. Il nucleo di questi gruppi era costituito da cavalieri, seguiti di solito a loro volta da due, tre o più fanti. Le notizie maggiormente articolate su questo nuovo divertimento dei piccoli e grandi principi e del ceto armato ci vengono trasmesse dalla penna di Gisleberto di Mons, cancelliere del conte di Hainaut (Hennegovia),

22 F. Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla Grande Rivoluzione, Firenze 1987. 23 Boncompagno da Signa, Cedrus, in L. Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des eilften bis vierzehnten Jahrhunderts, München 1863 (Quellen und Erörterungen zur bayerischen und deutschen Geschichte, 9/1), p. 162.


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territorio che oggi costituisce una provincia del Belgio. L’attento osservatore e grande ammiratore del suo Signore passa in rassegna tutta una serie di tornei frequentati da Baldovino V tra gli anni ’60 e ’80 del secolo XII, descrivendo taluni nei dettagli reputati più interessanti dalla corte di Baldovino e dai contemporanei: vediamo perciò il conte spaziare dai dintorni di Parigi ad Est fino al Reno e ad Ovest fino a Magonza; dalle Fiandre nel Nord fino alla Borgogna nel Sud. In queste imprese Baldovino era accompagnato da un gruppo composto da 80 a 100 milites, cioè da cavalieri. Calcolando che ogni singolo cavaliere era accompagnato in battaglia da almeno due o tre fanti o servitori, il conte di Hainaut doveva recarsi a questi avvenimenti con un seguito dal numero oscillante tra un minimo di 240 a un massimo di 320 guerrieri24.

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Talora le cifre erano molto maggiori. Nel 1175, per esempio, quando gli orgogliosi cavalieri della Champagne e della Francia indissero un torneo contro Baldovino a Soissons, il conte comparve sul campo destinato alla battaglia con un seguito di 200 cavalieri e di 1200 fanti scelti. Questi numeri intimidirono talmente gli avversari da indurli all’immobilità: essi lasciarono Baldovino ad aspettare e fecero trascorrere il giorno prestabilito senza presentarsi alla lotta. Merita di essere riferita anche un’ulteriore parte del racconto di Gisleberto, poiché lascia percepire tanto gli umori dei partecipanti quanto l’aspetto cruento del nuovo sport praticato in tempo di pace. Con il calar della sera, continua il nostro cronista, le truppe di Baldovino cominciarono a sgomberare il campo. Ma a notte avanzata i cavalieri della Champagne e della Francia iniziarono ad inseguire gli Henegovesi ormai in ritirata. Vedendo ciò, Baldovino raccolse le sue truppe, mise l’avversario in fuga e lo inseguì per le valli e per i vigneti: «adversarios per valles et vineas in fugam convertit» scrive il cronista. Nel corso della lotta molti nemici furono uccisi, altri annegarono nel fiume vicino, e altri ancora finirono prigionieri. In tal modo il conte di Hainaut in piena notte ottenne la vittoria alla quale – aggiunge Gisleberto – contribuì non poco la claritas lune, la luce della luna piena. A fronte di un simile numero di partecipanti – sia che fossero stati in 240 come abbiamo calcolato nel primo esempio, sia che fossero 1500 come

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Gisleberti Chronicon Hanoniense cit., pp. 90 ss.


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invece riferisce il cronista nell’ultimo esempio – diventa chiaro che i tornei non erano meramente un misurarsi delle forze e del valore militare, non erano solo un avvenimento festoso e sportivo, bensì anche un investimento finanziario considerevole. Ciò traspare dalle parole di Gisleberto, quando racconta che in occasione del torneo vicino a Parigi, a Meaux, Baldovino sostenne a sue spese 80 cavalieri e, in occasione del giro della Borgogna, che durò cinque settimane, ben cento cavalieri.

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Tale investimento – quando si vinceva – era ampiamente ripagato dal bottino e dai denari versati in riscatto dagli avversari catturati. Dalla vita e dalle gesta versificati di Guillaume le Maréchal, un famoso torneatore della seconda metà del secolo XII – George Duby ne ha fatto un piccolo libro avvincente25 – apprendiamo che il protagonista in un periodo della sua attività collaborò con un cavaliere fiammingo, un certo Roger de Gaugi, e nello spazio di dieci mesi catturò 103 cavalieri e fece bottino delle loro armature, dei loro cavalli e dei bagagli26. Nella seconda metà del secolo XII intanto si avviò quel processo che avrebbe portato ad una trasformazione mentale della cavalleria e che avrebbe poi influito sui valori ideali dei tempi futuri.

Erano due i fattori che avviavano tale processo: il primo coincideva con lo spostamento dei tornei dalla piena campagna – dalle valli e vigneti – ai luoghi che assicuravano la presenza di un pubblico spettatore. Questa tendenza, che c’era già in principio – ricordiamoci della terminologia usata dal Concilio di Clermont, laddove si parlava di nundine vel ferie, cioè fiere – si rafforzava col tempo e collocava definitivamente i tornei nelle prossimità dei castelli e delle corti o davanti alle mura di città, cioè sotto gli occhi degli spettatori. Lo spostamento del torneo dal campo libero – dove i partecipanti restavano tra loro e dove l’unico scopo della lotta era la vittoria e il bottino – alle lizze circondate da un pubblico, da uomini e donne, da gentiluomini e dame, introduceva un elemento nuovo nella battaglia, vale a dire le aspettative del pubblico. Il cavaliere non era più tenuto soltanto a cercare

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G. Duby, Guglielmo il Maresciallo. L’avventura del cavaliere, Roma-Bari 1985. L’Histoire de Guillaume le Maréchal Comte de Striguil et de Pembroke Régent d’Angleterre de 1216 a 1219, ed. P. Meyer, 1, Paris 1891, vv. 3376 ss., 3420-3421.


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di vincere, ma era costretto a fare i conti pure con i sentimenti intimi e con i giudizi di merito formulati dal pubblico. E a questi sentimenti e giudizi, riservati tanto ai vincitori quanto ai vinti, dava forma e codificazione un nuovo genere letterario: il romanzo cortese in versi.

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Per rispettare i tempi concessi in questa sede ci limitiamo ad accennare ad alcuni autori e opere. Vanno rammentati Goffredo di Monmouth, che negli anni 30 del secolo XII scrisse l’Historia regum Britannie27, opera che incontrò grande successo di pubblico e che, tra l’altro, racconta la storia di un mitico Re Artù: coloro che seguirono Goffredo di Monmouth si ispirarono fortemente a questa storia. C’è Wace che nel suo Roman de Brut (1155) racconta la fondazione di Britannia operata da Bruto, che proveniva da Troia; e c’è poi Chrétien de Troyes (ca. 1160-1190) che scrisse i romanzi Erec et Enide, Lancelot ou le Chevalier à la charrette, Yvain ou le chevalier au lion e il Perceval, per nominare solo i titoli che riscossero un grande successo nella società coeva e che in seguito avrebbero profondamente segnato tutta la letteratura europea. Come esempi del successo di Chrétien de Troyes ricordiamo le traduzioni e le rielaborazioni dei suoi romanzi soltanto in mittelhochdeutsch, in medio alto tedesco: il Erec und Enide o l’Iwein di Hartmann von der Aue (ca. 1165-ca. 1215) o il Parcival di Wolfram von Eschenbach (1170ca. 1220), ma anche il Tristan und Isold di Gottfried von Straßburg (XII-XIII secolo) che segue l’opera dell’anglo-normanno Thomas. Siffatti romanzi-poemi raccontano le vicende di valorosi cavalieri che sono giovani, belli e ricchi, forti, coraggiosi e costanti. Seguendo il lungo corso delle avventure dei loro protagonisti, essi presentano personaggi e comportamenti che con la vecchia militia – alla quale si indirizzava la predica di papa Urbano II –, con i milites raptores di un tempo non hanno più niente in comune. Per formarsi un’idea di tale cambiamento sia sufficiente soffermarsi su un paio di scene del romanzo Erec et Enide nella versione presentata da Hartmann von der Aue.

Erec combatte non per il profitto materiale, ma per l’onore suo28 o per quello della dama. La prima grande scena del poema è tutta concentrata su

27 The «Historia Regum Britanniae» of Geoffrey of Monmouth. With contributions to the Study of its Place in Early British History, ed. A. Griscom, Together with a literal translation of the Welsh manuscript N° LXI of Jesus College, Oxford, ed. R. Ellis Jones, LondonNew York-Toronto 1929. 28 Cfr. Jackson, Das Turnier cit., p. 260.


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questo aspetto. Erec arriva in una piccola città per un torneo, il cui premio consiste in uno sparviero: l’animale è destinato al cavaliere accompagnato dalla dama più bella29. Erec, che ha appena conosciuto Enide, entra in lizza e chiede lo sparviero per lei. Gli si oppone il cavaliere Yders: anche lui reclama l’animale per la sua dama che, naturalmente, è meno bella di Enide. I due cavalieri si sfidano e ambedue combattono per l’onore delle loro dame. Peraltro in questo combattimento traspare l’idea del servizio presente anche in altre scene. Lo rintracciamo già nella Historia regum Britannie, dove l’autore racconta che i cavalieri di tutta Europa venivano alla corte di Re Artù per aver l’onore di poterlo servire30.

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Altrettanto inedito è il comportamento tenuto dai protagonisti durante i conflitti. Nel combattimento che avviene sulla piazza della piccola città sia Erec sia il suo avversario Yders mostrano virtù del tutto nuove: quando i due, dopo ore di combattimento, si stancano, Yders si rivolge a Erec e osserva che quello che stanno facendo (sferrare ormai i colpi soltanto nell’aria senza colpirsi) non è cavalleresco e consiglia pertanto di riposarsi. I due dunque si tolgono gli elmi, si riposano e dopo un po’ di tempo riprendono la gara31.

In occasione di un altro combattimento, quando Erec ormai sta vincendo e vuol uccidere il suo avversario, quest’ultimo gli chiede di essere risparmiato, promettendo di volerlo servire e asserendo di essere il re d’Irlanda. Erec gli risparmia la vita, i due si fasciano reciprocamente le ferite, si prendono per mano e si siedono a riposare sull’erba verde32. Il cavaliere presentato da Hartmann von der Aue – sulle orme di Chrétien de Troyes – non è esclusivamente un guerriero valoroso e magnanimo, bensì un gentiluomo che sa comportarsi adeguatamente anche a corte. In altre parole: accanto ai valori guerrieri compaiono – e sono altrettanto importanti – le buone maniere che ci si aspetta dall’uomo di corte. Perciò non sorprende che nei poemi in cui il protagonista è ritratto fin dagli anni giovanili, l’addestramento del cavaliere consista nell’insegnamento

29 Hartmann von Aue, Erec, in Hartmann von Aue, Erec, Iwein, ed. E. Schwarz, Darmstadt 1967, vv. 447 ss. 30 R.W. Hanning, Die gesellschaftliche Bedeutung des höfischen Romans, in Der altfranzösische Roman, cur. E. Köhler, Darmstadt 1978 (Wege der Forschung, 425), p. 191. 31 Hartmann von Aue, Erec cit., vv. 897 ss. 32 Ibid., vv. 4378 ss.


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delle buone maniere non meno che dell’uso delle armi. Rudolf von Ems nel suo Alexander scrive che Alessandro Magno, all’età di dodici anni, venne educato anche a comportarsi con cortesia33. Nel Parcival di Wolfram von Eschenbach la madre insegna al figlio ad onorare dame e damigelle, a chiedere il nome di quanti incontrerà sul suo cammino e a rispettare le chiese34. Nell’Erec und Enide di Hartmann von Aue il conte – che accecato dalla bramosia di possedere Enide apre la porta dell’albergo a pedate e sgrida l’oste – viene tacciato di scortesia35. E quando costui, ricolmo di ira, batte Enide in faccia, il poeta osserva che un comportamento del genere è stupido e scortese36.

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Nel poema di Hartmann la cortesia e le virtù ad essa connesse diventano una categoria generale, che contraddistingue non solo il cavaliere, ma anche gli animali quando assumono atteggiamenti – per così dire – “umani”: per esempio i cavalli impetuosi che Erec, nel corso di un combattimento, ha guadagnato e che passa a Enide, secondo il poeta sanno come ci si deve comportare nei confronti di un marescalco di tal fatta, perciò si mostrano dolci37. In un altro momento, quando Enide pensa che Erec sia morto e corre nella foresta per essere dilaniata dagli animali feroci, il poeta osserva che le belve, per quanta fame avessero avuto, di fronte a un dolore tanto intenso non sarebbero state capaci di uccidere Enide38.

Il trovatore Marcabru – attivo tra 1130 e 114939 – è stato il primo a cercare di definire l’essenza della cortesia. Saranno suoi i versi «De cortesia is pot vanar / Qui ben sap mesur’esgardar» («Di cortesia può vantarsi che ben sa serbar misura», traduce Andrea Fassò40) ai quali si ispireranno gli autori del secolo XIII, quando riprenderanno la riflessione sull’argomento. Tra costoro

33 Th. Szabó, Der mittelalterliche Hof zwischen Kritik und Idealisierung, in Curialitas. Studien zu Grundfragen der höfisch-ritterlichen Kultur, cur. J. Fleckenstein, Göttingen 1990 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 100), pp. 350-391: 381. 34 F. Cardini, La stoffa dei nostri sogni. Contro il Codice da Vinci e non solo, Firenze 2006, p. 85. 35 Hartmann von Aue, Erec cit., vv. 4046-4047: «nâch ungevüegem gruoze / sô stiez er mit dem vuoze». 36 Ibid., vv. 6507 ss., specialmente vv. 6519-6520: «zu grôzer tôrheite / und ûf grôzen ungevuoc». 37 Ibid., vv. 3450 ss., in particolare vv. 3460-3470: «wan daz vrou Saelde ir was bereit / und dazu diu gotes hövescheit [...] diu ros gerne und durch reht / ir ungestüemenz streben lân». 38 Ibid., vv. 5842 ss., in particolare vv. 5860-5868. 39 Cfr. L. Rossi, Marcabru, in Lexikon des Mittelalters, VI, München 1993, col. 219. 40 A. Fassò, Gioie cavalleresche. Barbarie e civiltà fra epica e lirica medievale, Roma 2005 (Biblioteca medievale. Saggi, 19), pp. 155 ss.


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è da citare Salimbene di Parma che, parlando di Federico II di Svevia, ne illustra le curialitates dicendo che il sovrano era solatiosus, iocundus, delitiosus e industrius41 ed è ancora Salimbene a dare, in un altro passo, una definizione del comportamento cortese: «ille vere censendus est curialis, qui libenter et yllariter sine spe retributionis suum servitium incognitis elargitur»42. La cortesia, dunque, è servizio nel senso più generale della parola, senza aspettarsi alcuna retribuzione in cambio. Egidio Romano, nel suo De regimine principum dedicato al re di Francia, Filippo il Bello, sostiene che «curialitas quodammodo omnis virtus est» – ovvero che la cortesia in un certo modo riassume interamente la virtù43. E Dante, nel De vulgari eloquentia riprende l’idea scrivendo: «curialitas nil aliud est, quam librata regula eorum, quae per agenda sunt»44.

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L’ideale cavalleresco e l’ideale cortese sono i due grandi temi che si intrecciano nei romanzi cavallereschi versificati dei secoli XII e XIII, gli stessi che incontrarono grande successo presso il pubblico cortigiano, al quale vennero cantati e letti; un successo testimoniato non solo da Bernardo di Clairvaux, che nel secolo XII metteva in guardia contro i «mimi et magi et fabulatores scurrilesque cantilenae» e le loro storie45, ma anche e anzitutto dalle centinaia di esemplari manoscritti che li tramandano.

L’enorme popolarità e il successo di questi romanzi non si spiegano soltanto con la trama, con il suo altalenare tra realtà e finzione, non si spiegano soltanto con la profonda psicologia e la bellezza del racconto, ma anche considerando il fatto che i loro protagonisti sono investiti di qualità che ogni uditore avrebbe desiderato possedere: bellezza, forza, capacità di prevalere in ogni conflitto, magnanimità pur nella presunzione di essere il più forte e ricco. Sono tali qualità che potremmo definire regie, come ha ricordato Andrea Fassò in un suo libro recente46. Poi c’è la stima nutrita dagli altri per le belle maniere, la compagnia delle dame più belle e il servizio. Ma nel combattimento c’era ancora di più: sia sul campo di guerra che nei tornei spariva la differenziazione sociale dei ranghi e quello che conta-

41 42 43 44 45

Szabó, Der mittelalterliche Hof cit., p. 382. Ibid., p. 381. Ibid., p. 383. Ibid., p. 384. S. Bernardi Abbatis De laude novae militiae ad milites Templi Liber, in Migne, Patrologia Latina, 182, Paris 1879, coll. 921-940: 926. 46 Fassò, Gioie cavalleresche cit., p. 135.


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va era solo il valore individuale. Questa esperienza che, relativamente alla virtù, considera il virtuoso sullo stesso piano del sovrano, che fa sparire la divisione sociale creata dalla ricchezza, dai ranghi e dal potere, ebbene anche questa esperienza era una delle grandi idee della cavalleria concepita da Wace. Nel suo Roman de Brut, scritto intorno al 1155 e dedicato a Eleonora d’Aquitania, appare quale elemento centrale e per la prima volta – come rileva Franco Cardini in un saggio recente – il motivo della Tavola Rotonda di Re Artù47. La Tavola Rotonda «dove», scrive Franco Cardini, «i signori prendevano posto, tutti cavalieri, tutti uguali. Essi avevano alla Tavola un seggio ciascuno uguale agli altri e venivano serviti alla stessa maniera. Nessuno poteva vantarsi di esser assiso su uno scranno più alto di quello di chiunque altro»48.

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L’uguaglianza è stata un’idea grandiosa, capace di unire i cavalieri non soltanto di una regione o di un paese, ma della cavalleria di tutta l’Europa. Idea i cui primi semi sbocciano, certo, nella guerra, ma essa, “addomesticata” e veicolata tramite il torneo, viene in contatto con la società par excellence del tempo, con la corte, e così va ad arricchirsi di nuovi elementi letterari. Possiamo dire che forse in nessun periodo della storia europea post-romana la letteratura ebbe un’inflenza maggiore sull’etica della società di quella che esercitò durante i secoli XII e XIII per mezzo del romanzo cortese. Gli ideali legati alla figura del cavaliere non tramontavano col tramonto della preminenza tattica e bellica della cavalleria pesante, piuttosto si trasformavano nella curialitas, nella “cortesia”, che custodiva in sé anche i valori espressi per la prima volta dalla cavalleria, il cui simbolo era il torneo, diffuso come elemento centrale della festa – non di rado con una valenza politica – in tutta l’Europa.

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A. Gier, Tafelrunde, in Lexikon des Mittelalters, VIII, München 1997, col. 421. Cardini, La stoffa dei nostri sogni cit., p. 85.


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Nel cerimoniale della festa, del “trionfo”, del torneo, della giostra, della parata, della processione «quello che conta non è mai la funzione (più o meno una invariante), bensì sempre e soltanto il linguaggio e gli strumenti del suo comunicare». Credo che si debba partire da questo concetto espresso da Amedeo Quondam1, per avanzare alcune riflessioni su come la festa armata rappresenti un mass medium di propaganda del potere nella società fra i secoli medievali e quelli della prima età moderna. Ogni festa che comporti la manifestazione mimetica della guerra riafferma la presenza, il ruolo e il peso di una parte della comunità: quella abilitata a portare le armi e a farne uso. Tornei, giostre e armeggerie sono la manifestazione del diritto a esercitare l’uso delle armi e, al tempo stesso, l’occasione di disciplinamento di quelle fasce (molto spesso societates iuvenum) che fanno dell’uso delle armi stesse il motivo aggregante e la cifra della loro appartenenza sociale. I giochi armati, le feste e le cerimonie cavalleresche costituiscono per i giovani della nobiltà (e per quanti, non nobili, si assimilano ai modelli aristocratici) altrettanti riti di passaggio e di iniziazione2. Giostre e armeggerie accentuano la visibilità sociale di persone e brigate e mandano messaggi di potere e di forza. Le armeggerie che accolgono, come apparato d’onore, illustri personaggi in visita in città sono, al tempo stesso, anche rituali dissuasori, com’è evidente, ad esempio, quando nel 1267 entra in Firenze il potente Carlo d’Angiò, ricevuto, racconta il Villani, dalla gioventù armata che scaramuccia fra sé ostentando, tuttavia, una capacità mili-

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A. Quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Roma 2003, p. 9. 2 Si veda su questo P. Ventrone, Cerimonialità e spettacolo nella festa cavalleresca fiorentina del Quattrocento, in La civiltà del torneo (sec. XII-XVII). Giostre e tornei tra Medioevo ed età moderna. Atti del VII convegno di studio, Narni 14-15-16 ottobre 1988, Narni 1990, pp. 35-53: 42-43.


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tare che può, all’occorrenza, essere rivolta verso chiunque attenti alla libertà della città o alle prerogative dei suoi ceti emergenti3. Tramite queste manifestazioni si possono celebrare rituali di rappacificazione fra famiglie. L’armeggeria d’amore che la notte del 14 febbraio 1464 Tommaso Benci mette in scena sotto le finestre della bellissima Marietta Strozzi (una esibizione cantata da poeti e cronisti anche per l’apparato ridondante, al limite della pacchianeria più sfacciata) è in realtà la mimesi del riavvicinamento fra la fazione pallesca dei Benci e quella antimedicea di Palla Strozzi del quale Marietta è nipote, come ha ben evidenziato il Trexler4 (a riprova: la bella fanciulla sposerà un altro). Perfino quella signoria collettiva che è il comune non si sottrae alla ritualità propria dell’aristocrazia, come fa la repubblica di Firenze che organizza giostre alle quali invita i signori di mezza Italia per essere poi, da questi ultimi, a sua volta re-invitata e comportandosi, in questo modo, come una corte signorile le cui virtù militari si identificano con l’intera comunità. Anche la scelta dello spazio nel quale queste manifestazioni si svolgono contribuisce a ribadire il concetto di un potere, tramite esse, ostentato: non mancano esempi di significative privatizzazioni dello spazio stesso, tanto più eclatanti quanto maggiore è il potere di chi le esercita. Nel 1315, a Orvieto, la giostra per il cavalierato del nipote di Bonifacio VIII si svolge sotto le finestre del festeggiato. A Perugia è la Piazza Grande a fare da scenario alla giostra per le nozze di Astorre Baglioni e Lavinia Colonna. E se in quest’ultimo caso si potrebbe obiettare che il Baglioni è, all’epoca, signore della città, si dovrà anche ricordare che, invece, una privatizzazione del genere si verifica a Orvieto nel 1330 , quando un altro neo-cavaliere si appropria per la giostra in suo onore dello spazio antistante alla chiesa di San Domenico5. A Firenze, Parte Guelfa organizza sotto le sue finestre l’armeggeria che celebra la conquista di Pisa nel 1406, e Parte Guelfa è, di fatto, un “partito politico” più che una vera e propria istituzione pubblica. La scelta degli spazi, insomma, non è mai casuale né solo determinata dalla maggiore o minore ampiezza. Quando, ancora una volta a Firenze, arriva in visita Pio II, nel 1459, Benedetto Dei ci lascia la testimonianza di una dislocazione delle feste in altrettanti punti urbanisticamente significa-

3 «Lo re Carlo (...) entrò in Firenze, il quale da’ Fiorentini fu ricevuto a grande onore co-

me loro signore, andandogli incontro il carroccio e molti armeggiatori» (Giovanni Villani, Nuova cronica, edizione critica a cura di G. Porta, I, Parma 1990, l. VIII, cap. 21, pp. 444-445). 4 R.C. Trexler, Public Life in Renaissance Florence, New York 1980, pp. 230-231. 5 F. Mezzanotte, Lo spazio urbano destinato ai tornei in Umbria, in La civiltà del torneo cit., pp. 137-148: 143.


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tivi e sensibili della città. Una giostra si svolge nel tradizionale scenario di Piazza Santa Croce, palcoscenico di tutte le manifestazioni civiche più importanti, ma il ballo che la accompagna si tiene in Mercato Vecchio (il più importante luogo della sociabilità fiorentina, come testimoniano le strofe del Pucci, canterino che di Mercato Vecchio fa il set dei suoi racconti); si fa una caccia in Piazza della Signoria, sotto le finestre dei signori, ma un’armeggeria si svolge in via Larga. Via Larga non è solo uno spazio (come dice il suo stesso nome) agevole a contenere manifestazioni del genere. È la strada dove sorgono le abitazioni dei Medici6. Ma i messaggi di potere che ogni festa armata veicola sono di più generi e sono rivolti sia all’interno sia all’esterno della società; sia a una fascia larga di destinatari (ai quali sono rivolti i contenuti più immediatamente percepibili) sia a una fascia ristretta, alla quale sono invece destinati contenuti più complessi. I primi (i destinatari di contenuti semplici e immediatamente percepiti) sono la generalità dei componenti della società, la massa degli spettatori (per così definirli) recettori di quella funzione narrativa del corteo che precede lo scontro e delle prodezze che lo scontro stesso mette in scena. Sono loro a recepire il messaggio del conflitto interno fra gruppi, famiglie e clan, ma metaforizzato, depotenziato, decantato nella forma di ludus e disinnescato del potenziale distruttivo. Sono ancora loro – la generalità degli spettatori – a identificarsi nell’apparato di forza militare ostentata e del quale ci si appropria inconsciamente come potenziale difensivo contro i nemici “esterni” alla comunità stessa. Sono, infine, ancora una volta loro a recepire il messaggio della ostentazione della ricchezza e ad avvertire in questo una ragione di legittimazione di chi occupa un posto preminente nella scala sociale e patrimoniale. I cronisti insistono, non casualmente, sugli aspetti del valore economico di vesti, armi, apparati e premi, perché questo aspetto è il più immediatamente comprensibile da parte di tutti, e quello che mette in grado chiunque di valutare e comparare il peso patrimoniale di chi indossa un abito o un’armatura. D’altra parte, che questo sia un elemento fondamentale nel veicolare il messaggio di potere è perfettamente avvertito da chi partecipa alla ostentazione. Nel 1421, a Firenze, racconta Bartolomeo del Corazza, si tiene una armeggeria preceduta dalla parata dei giovani vestiti con abiti lussuosissimi

6 P. Ventrone, Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, in Le tems revient. ‘l tempo si rinuova. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, a cura di P. Ventrone, Milano 1992, pp. 21-53: 26.


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e costosissimi. Alla fine della festa, le vesti vengono abbandonate “in elemosina” o, addirittura, stracciate perché, all’aspetto ostentatorio della parata e a quello della mostra del valore durante il combattimento, si assommi, come completamento, quello dello “spreco rituale” (ben noto agli studiosi di antropologia fin dagli studi di Lévy-Bruhl, come elemento riaffermativo della ricchezza e del potere che essa dà)7. Accanto ai contenuti semplici, però, ci sono, come si è detto, messaggi più complessi, per così dire “in codice”, rivolti a chi può – e soprattutto “deve” – capirli. Prendiamo, come esempio, le giostre di Lorenzo e Giuliano dei Medici alla fine del ‘400. In esse si ritrovano messaggi di iniziazione e di passaggio che possono essere percepiti da chi compartecipa della stessa cultura e dello stesso universo semantico e simbolico dei due rampanti rampolli. Quando Lorenzo inscena la giostra del 1469 ha vent’anni, e la cerimonia e il combattimento si configurano come riti di assunzione di responsabilità pubbliche. Ma proprio quest’ultimo aspetto è comunicato simbolicamente tramite una serie di codici recepibili dagli altri membri dell’aristocrazia fiorentina, da chi controlla le istituzioni cittadine e da chi, fuori della città, guarda comunque ad esse e al loro modellamento. Lorenzo di presenta in campo con una insegna che recita “Le tems revient”. La lingua scelta è il borgognone, volutamente recepito dalla tradizione cavalleresca fiorentina per collegare le virtù militari familiari con la cultura cavalleresca nordica. Il riferimento letterale è alla IV egloga di Virgilio, volgarizzata dal Pulci nel verso “Quando sarà ch’un secol mai tal venga?”. L’emblema che la accompagna è una ghirlanda d’alloro mezza secca e mezza verde a simboleggiare una nuova età dell’oro promessa e garantita dalla casa dei Medici. Qualche cosa di ancor più filosoficamente complesso è rappresentato dagli apparati e dai simboli che accompagnano la giostra di Giuliano del 1475. In questo caso, la simbolica della festa è dominata dalla personalità del Poliziano e dalla sua filosofia neoplatonica. Anche qui il messaggio è quello di un rito di passaggio e assunzione di un ruolo politico, tuttavia ciò su cui si accentua l’interesse è l’aspetto iniziatico direttamente riferibile ai contesti nordici dell’amore cortese, ma reso più complesso dalla simbologia dell’incontro platonico fra Giuliano e la Ninfa Simonetta, metafora del cammino verso la conoscenza, la sapienza e la saggezza dell’età matura8.

7 Diario Fiorentino di Bartolommeo di Michele del Corazza. Anni 1405-1438, ed. G. Corazzini, «Archivio Storico Italiano», ser. V, 14 (1894), pp. 276-278. 8 Si vedano, su questo, le considerazioni di Ventrone, Feste e spettacoli cit., pp. 21, 28,


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Mario Martelli, a suo tempo, rilevava le differenze degli apparati di queste due giostre e metteva in luce che, anche nei rispettivi cantori (Pulci e Poliziano), si avverte uno scarto sensibile di linguaggi e di tecniche di narrazione. Mentre la giostra del 1469 cantata dal Pulci rispetta, infatti, la tradizione canterina popolare e descrittiva espressa nell’ottava rima e nella terzina, quella del 1475, affidata al componimento del Poliziano, al contrario si esprime attraverso un linguaggio più complesso e filosoficamente più strutturato9. Sono, questi, messaggi diretti a “chi deve capire”, dentro e fuori dalla città di Firenze, nelle altre corti, per avvalorare e legittimare le aspirazioni di potere dei due Medici. Che le descrizioni delle due giostre siano destinate alle prime opere a stampa prodotte a Firenze non fa che avvalorare questa considerazione con la presa d’atto che, per divulgare all’esterno questi contenuti, non si esitava a fare ricorso alle tecniche più “all’avanguardia” come quella, appunto, della giovanissima stampa. Le giostre medicee vedono una partecipazione determinante – in termini di concetti – dell’intellettualità, con un coinvolgimento che era cominciato prima di quest’epoca (si consideri il ruolo del Petrarca come redattore delle “didascalie” sotto i ritratti degli uomini illustri che il signore di Padova si fa dipingere nel palazzo) e che sarebbe proseguita nella prima età moderna. Gli esempi potrebbero essere molti e riferirsi a più di un uomo di cultura (oltre a quelli già ricordati): dal Sannazzaro che avrebbe elaborato l’impresa dei Colonna di Napoli e di Sicilia (quei giunchi in mezzo a una palude spazzata dal vento con il motto “flectimur non frangimur undis”)10, al Giovio del quale nel 1555 viene pubblicato il Ragionamento sopra i motti et disegni d’arme et d’amore (un’opera che avrà un successo immediato, tanto da vedere una seconda edizione dopo appena un anno)11, a Baldassare Castiglione, designato a far parte dei maestri di campo della giostra gonzaghesca di Mantova nel carnevale del 152012. Sono proprio gli intellettuali a rivestire di messaggi ridondanti di classicità le stesse armi del torneo e della giostra; a fare, nel ‘500, delle arma-

51. Più in generale si faccia riferimento a Le temps revient. ‘l tempo si rinuova. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico cit. 9 M. Martelli, Simbolo e struttura delle “Stanze”, Alpignano 1979. 10 M. Tosi, Il torneo di Belvedere in Vaticano e i tornei in Italia nel Cinquecento. Documenti e tavole, Roma 1945, p. 53. 11 P. Giovio, Ragionamento sopra i motti et disegni d’arme et d’amore che comunemente chiamano imprese, Roma 1555, Venezia 15562. 12 M. Dall’Acqua, I tornei farnesiani e gonzagheschi tra tenzone e festa, in La civiltà del torneo cit., pp. 247-272: 252-253.


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ture altrettanti gioielli da indossare (nel momento in cui anche torneo e giostra hanno perduto molto della loro iniziale ruvidezza); a coinvolgere armature e elmi nella sfera dell’estetica e a riempirli di riferimenti a personaggi, dei e eroi della mitologia e della storia classica13 (per inciso: quegli stessi personaggi che cominciano a affollare i cicli pittorici che, con preciso programma iconografico, i signori e i governi sempre più spesso fanno affrescare nelle stanze dei palazzi privati e nelle sale di quelli pubblici. Ma l’analisi di questo parallelismo – ancorché, a mio parere, tutt’altro che disutile – ci porterebbe fuori dal tema di questa comunicazione). Gli umanisti compiono una vera e propria rivoluzione: quegli uomini abituati a maneggiare le armi, adesso possono (anzi: devono) saper maneggiare anche la penna, e nel loro bagaglio culturale può (anzi: deve) entrare anche la cultura classica da introiettare e imitare. L’uomo d’armi non è più il rude soldataccio medievale; perfino i soldati di professione (ora colonne portanti della costruzione dello stato e delle istituzioni militari stabili) non sono più descritti come banditi e tagliagole, ma sempre più frequentemente con la cifra dell’eroe classico. Si vedano, solo per fare pochi esempi, le vite dei condottieri scritte da Giovan Girolamo de’ Rossi e i “ritratti” degli uomini illustri del Giovio. Chi maneggia le armi, oltre che nobile, deve essere un gentiluomo che al valore sa assommare la cultura e la grazia: nel torneo di Piazza Navona in onore di Alessandro Wasa fratello del re di Polonia, tenutosi il 25 febbraio del 1634 (perdonatemi questa fuga in avanti), fra i premi che l’organizzatore – il cardinale Antonio Barberini – mette in palio, ce n’è anche uno che verrà conferito dalle dame a chi “comparirà masgalano” cioè più elegante14. I ruvidi torneatori del tempo di Guglielmo il Maresciallo sono lontani anni luce: il potere, ora, non si manifesta solo sapendo ben giocare di lancia e di briglia, ma soprattutto facendolo con garbo e grazia.

13 Si veda su questo T. Biganti, Il torneo nelle rappresentazioni iconografiche. Alcuni esempi italiani (secc. XIII-XVI), ibid., pp. 195-220: 220. Sull’importanza semantica dei fregi dell’elmo, l’elemento più immediatamente percepibile dell’addobbo e, al tempo stesso, del messaggio, si vedano le considerazioni di H. Zug Tucci, Insegne individuali e insegne di gruppo nel gioco militare, ibid., pp. 123-136: 126. Vedi anche Quondam, Cavallo e cavaliere cit., p. 89. 14 Tosi, Il torneo di Belvedere cit., p. 60.


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Per introdurre il tema della relazione, è opportuna una premessa che serve a contestualizzare quanto si dirà e a collocarlo in una prospettiva di ricerca volutamente transculturale, apparentemente contaminata, ma demarcata negli scopi e nei procedimenti e, quindi, non sincretistica. Quando, nel 1987, abbiamo dato vita al Centro Studi sui Giochi Storici ci siamo posti tre obiettivi: a) ricontestualizzare la Quintana, sottraendola al rischio, da un lato, di una deriva riduttivamente folklorica quale oggetto di invenzioni e improvvisazioni autodidattiche, dall’altro, di una erronea parvenza di neofondazione, con vocazione esclusivamente turistica e campanilistica; b) operare, a partire da essa, una rilettura della vita culturale cittadina attraverso il gioco e la festa, di cui la Quintana rappresenta una espressione composita di notevole spessore; il rapporto tra città e gioco è quindi metafora di vita, nel contrappunto tra storia e cronaca, tra la continuità calendariale della tradizione di giochi storici a cavallo allestiti ininterrottamente per la festa patronale dal medioevo ad oggi e la discontinuità dell’accadere agonistico, che si rinnova ad ogni edizione; c) investigare e focalizzare, mediante convegni e mostre monotematici, la tessitura di rimandi multidisciplinari (archivistici, storici, artistici, letterari, filosofici, religiosi, psicologici, antropologici, sociologici, sportivi, di scienze dei materiali, ecc.) che vedono nel gioco un universo complesso e polisemico1.

1

Per approfondimenti sulla genesi del Centro Studi si veda in Ricerca e Cultura. Dieci Anni del Centro Studi sui Giochi Storici di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 1997 (Quaderni dell’Ente Quintana, 9), con contributi di Bernardo Nardi, Laura Ciotti, Elia Calilli, Stefano Papetti, Clara Biondi, Aldo Pizzingrilli.


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In un celebre scritto il neurobiologo Gerard Edelman2 ha definito la coscienza umana come un’esperienza unica processuale, che non può essere condivisa direttamente o collettivamente. D’altro lato, essa consente di dare un senso unitario e integrato del sé, generando quel «presente ricordato» che attimo dopo attimo forma la consapevolezza di ogni persona. Ma su un’altra caratteristica dell’esperienza cosciente umana vale la pena soffermarsi: ed è la capacità autoriflessiva, metacognitiva, che ci permette di «essere coscienti di essere coscienti». Dunque, come hanno recentemente osservato altri autori, da Le Doux3 a Damasio4 e come io stesso ho avuto modo di sottolineare5, più che fornire un quadro oggettivo, una rappresentazione fedele della realtà, essa prioritariamente costruisce l’identità personale. Anche da un punto di vista neuropsicologico, noi siamo la storia che ci costruiamo, nei coloriti soggettivi immediati e spesso inconsapevoli e nelle trame narrative coscienti. D’altra parte, come discendenti dei Cro-Magnon, siamo portati a costruire rapporti sociali e la nostra stessa identità nasce nell’interazione con altri umani6. Esiste dunque anche un’identità sociale, un modo di costruire l’identità nel riconoscerci negli altri e, al tempo stesso, nel differenziarci da loro. Sentiamo di appartenere a un gruppo, a un contesto e ci differenziamo da esso. Come ha evidenziato Max Weber7, la memoria sociale ha lacune generazionali e va, quando non può essere ricordata attraverso le memorie orali, ricostruita attraverso indagini documentarie. La festa patronale ascolana – e, in essa, la Quintana – nella complessità di riti e cerimoniali, di individualità e collettività, di trame personali e collettive, di vicende uniche e irripetibili che si inseriscono in una continui-

2 G. Edelman, Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Torino 2004. 3 J. Le Doux, Il sé sinaptico, Milano 2002. 4 A.R. Damasio, Emozione e coscienza, Milano 2000. 5 B. Nardi, Processi psichici e psicopatologia nell’approccio cognitivo, Milano 2001; B. Nardi, Costruirsi. Sviluppo e adattamento del sé nella normalità e nella patologia, Milano 2007. 6 B. Nardi - I. Capecci, Evoluzione della conoscenza umana – Terza parte, filogenesi e ontogenesi, «Lettere dalla Facoltà. Bollettino della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche», 6 (2004), pp. 21-27. Sull’emergere delle capacità di simbolizzazione, si veda, in chiave antropologica, J.L. Arsuaga, I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, Milano 2000, e, in chiave nemolidogica, G. Rizzoletti - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchi, Milano 2006. 7 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958.


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tà storica secolare, esprime bene quest’armonia di contrasti e contrappunti e da essa rinnova, anno dopo anno, edizione dopo edizione, il suo fascino assolutamente unico. La storia della festa, rapportata al ciclo di vita umano, presenta una duplice opportunità: quella di lasciare spazio per le memorie personali, il che significa attingere al patrimonio psicologico e antropologico fatto di ricordi che viaggiano sul filo del soggettivo e dell’emozionale; e quella di cogliere le vicende sotto il profilo della riflessione e dell’indagine storica, con gli elementi per operare un’analisi sufficientemente distaccata e d’insieme su ciò che è accaduto. Il contesto del gioco: architettura della festa

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Venendo al tema specifico del mio intervento, la festa – entro la quale si colloca il gioco storico (come la giostra della Quintana, la giostra dell’Anello o il Palio a cavallo) – può essere considerata una delle più grandiose e complesse costruzioni di quel periodo che riduttivamente siamo soliti chiamare “Medioevo”: coloro che vissero in quei secoli altamente dinamici e per molti aspetti anche innovativi non avevano la consapevolezza né sarebbero stati probabilmente d’accordo con il fatto che la loro cornice storica sarebbe un giorno stata considerata una sorta di involutiva età di mezzo. Questa macchina così particolare lo è nei presupposti, in quanto la festa ha radici composite e connotazioni simboliche di cui solitamente ignoriamo il significato e che tendiamo a mistificare, senza ricostruirle mediante investigazioni rigorose e filologiche. Ma, d’altra parte, ha una scenografia, composta da una serie di rituali complessi e significativi, che le danno una unitarietà identificativa e si colloca in positio princeps all’interno degli eventi dell’anno. Nella festa medioevale, dunque, è individuabile una architettura complessa, una sorta di grande macchina teatrale, con radici composite arcaiche, classiche e cristiane. A. Le basi arcaiche rimandano ad una concezione ciclica della vita: la festa segna l’incontro dell’attualità con il tempo originario e originante sacro, quello del battesimo di sangue emidiano, principio di vita nuova, in cui l’eterno (non post-terreno, ma parallelo e dialogante) si incontra con il tempo ordinario. La festa è discontinuità e cesura rispetto al tempo lavorativo, in una ciclicità annuale che lega il mondo delle cose visibili, tangibili e, quindi, conoscibili, con il mondo dell’immateriale, del trascendente, del sacro.


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Dunque, le radici legate ad una antichissima cultura arcaica hanno il centro focale nella visione ciclica della vita. Ciclico non è sinonimo di ripetitivo, di qualcosa che ricomincia ogni anno sempre uguale; è, viceversa, un ricongiungersi periodicamente con un tempo sacro, quello delle origini, della ierofania, degli eroi eponimi, con quella dimensione oltre lo spaziotempo che è l’eternità. In questa ottica, storia è sinonimo di mito, un raccontare per ricongiungersi con il sacro, attraverso dei segni, che rimandano alla presenza del divino. Come direbbe Eliade, il tempo irreversibile longitudinale incontra e si rigenera in quello ciclico, in una sorta di “mito dell’eterno ritorno”8. La cultura arcaica attribuisce un valore di segni “mana” alle pietre ed ai luoghi; attraverso essi si può vedere concretamente l’invisibile (si ricorda che per gli antichi sumeri e accadi conoscere e vedere sono espressi dalla medesima parola, se-u, la cui radice è rintracciabile nell’inglese “see” e nel tedesco “sehen”)9; essi costituiscono quindi una ierofania, mediante la quale il trascendente si reincarna e materializza, una congiunzione tra città celeste e invisibile (rappresentata dalle reliquie del patrono, dalle pietre della cattedrale a Lui co-intitolata e dalla cattedra del vescovo, suo successore) e città terrena (rappresentata nel suo potere politico, economico e, nella sua universitas, estesa anche al comitato territoriale). La festa patronale è un modello paradigmatico di come tendiamo a conservare riti arcaici senza esserne minimamente consapevoli. Ad esempio, quando iniziamo i lavori di un edificio importante, facciamo ancora una cerimonia mana, quella della posa della prima pietra, ripetendo un rituale che data da millenni e che è più antico della comparsa dell’alfabeto e delle prime forme di scrittura. B. Le basi classiche sono rintracciabili anzitutto nella capacità di dare un senso all’anno e alla vita riflettendo meta-cognitivamente su di essa. Al tempo ciclico il pensiero classico ha sostituito quello lineare e irreversibile del logos, dell’esperienza della coscienza individuale. La storia serve ricordarla proprio in quanto non si rinnova, ma deve restare, per dirla con Tucidide, un possesso perenne, un ktema es aei, in continuo divenire. Su un piano più concreto, elementi della cultura classica sono rintracciabili nei cerimoniali e nei riti che caratterizzano la festa e le danno una organizzazione consolidata e nota; ma, d’altra parte, sono individuabili an-

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M. Eliade, Miti, sogni e misteri, Milano 1976. Dello stesso autore si vedano anche Mito e realtà, Milano 1974, e Il mito dell’eterno ritorno, Milano 1975. 9 G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civilta del vicino Oriente e le origini del pensiero greco, a cura di L. Sorbi, Milano 2001.


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che nel carattere più popolare e sfrenato dei balli, delle musiche, della trasgressione, riprendendo quegli aspetti transculturali che, mutuati dai baccanali greci e dai fescennini italici (cfr. fascino = qualcosa che avvinghia, lega) sono anch’essi eredità lasciata dal mondo romano. Molte feste romane erano estremamente vivaci, fino a rasentare l’orgiastico; la trasgressione serviva a vivere meglio il quotidiano, ma doveva essa stessa, oltre l’apparenza, avere delle regole. Le stesse regole – apparentemente paradossali e persino blasfeme ma tollerate – nel medioevo erano alla base, per fare un esempio, delle messe asinarie carnevalesche. Significati antichi, una sorta di incontro tra apollineo e dionisiaco, sono entrati nella complessità della macchina della festa, toccando le radici della conoscenza umana, dei suoi simboli, ma, prima ancora, delle sue emozioni e, quindi, dei suoi più intimi coloriti soggettivi. Infine, ma non certo ultimo per importanza, di derivazione classica è il titolo di patrono, attribuito a s. Emidio, mutuato da concetti latini come quelli di pater familias, di pater gentis, mentre i cives ascolani sono, conseguentemente, a pieno titolo, suoi familiares, clientes, amici. Sant’Emidio, patrono della città in quanto padre per antonomasia, diviene così pater della comunità che vi si riconosce e suo protettore (defensor civitatis). Nella celebrazione medioevale della sua festa egli in qualche modo torna e si riappropria della sua comunità, che di generazione in generazione in lui si rigenera a vita nuova. C. Le basi cristiane, più facilmente identificabili rispetto alle precedenti, trasformano le tracce arcaiche e classiche alla luce della rivelazione messianica, mentre la storia viene ad assumere il valore di percorso irreversibile individuale, connotato dalla libertà di scelta, procedendo verso l’incontro con Cristo, Signore del tempo e della storia. Alla sequela di Cristo, nella mistica medioevale, il Santo martire diviene il “campione”, colui che indica la via, il modello da seguire nella scelta dei valori positivi sostenuti dalla fede. Egli intercede con la preghiera per i suoi fideles, i quali nelle difficoltà contingenti dell’esistere si rivolgono a lui, così come si legge in più passi negli Statuti. Alla pietra “mana”, all’oggetto che localizza il divino in un luogo (“numero locale”), subentra un rapporto personale, per cui il Dio dei padri, “Elohim”, parla attraverso la sua incarnazione in Cristo e, conseguentemente, attraverso i martiri che a Cristo hanno reso testimonianza10. Dal regno dei cieli, conquistato con il martirio, ma dalla cripta della cattedrale, con le sue reliquie, s. Emidio fa da ponte tra eterno e quotidiano.

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J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia


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Questo patronus e defensor civitatis, potente e glorioso, è dotato, per la pietas popolare, di capacità sovrumane: raccoglie il capo reciso e va a seppellirsi da solo come martire cefaloforo (secondo una tradizione versosimilmente di origine francigena); è in grado di controllare e placare i terremoti (possiede dunque una vis tellurica); è in grado di operare guarigioni, ed è dunque medicus (come Esculapio); ancora oggi l’erba santa – il basilico, nota pianta medicinale, che cresceva miracolosamente nel buio delle catacombe di Campo Parignano, sulla sua tomba – viene venduta in grandi ceste sul sagrato della cattedrale, in occasione della sua festa. In questo modo, nel medioevo, s. Emidio, che già era certamente venerato dalla chiesa ascolana, divenne simbolo dell’unità culturale, etica e socio-politica cittadina, assurgendone a signum della memoria civica11. Così, il libero Comune ascolano, le cui origini vengono fatte risalire al 1183, quando consoli e senatori promossero l’elezione di un primo podestà nella persona di Berardo di Massio12, avvertì l’esigenza, analogamente a quanto accadde per molti altri Comuni italiani, di individuare e fissare nelle feste patronali il momento unificante centrale del calendario annuale. Tale fatto risulta chiaramente delineato nei documenti dell’Archivio segreto anzianale13 e negli Statuti civici del 1377, editi a stampa in volgare nel 1496, che così iniziano solennemente: «In nome de la Sancta et Individua Trinità del Patre, Figliolo et Spirito Sancto amen. Ad honore et reverentia de lu onipotente Dio et de la gloriosa vergine Maria sua matre et de li beati apostoli san Petro et san Paulo; et de lu gloriosissimo martire sancto Migno patrone, protectore et defensore de lu Comuno et ancora de la ciptà d’Asculi»14. La presenza di un polo religioso e di uno civile nella scansione della vita cittadina trova un puntuale riscontro in una duplice dimensione del sacro, che si concretizza in una concezione anche civica dell’oggetto di culto15. La 11

B. Nardi, Origine delle feste patronali ascolane e dei giochi storici in onore di S. Emidio, in Origine delle feste patronali e dei giochi storici ascolani in onore di S. Emidio, cur. B. Nardi, Ascoli Piceno 1987, pp. 25-29; B. Nardi - C. Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio in Ascoli, Teramo 1987², p. 18. 12 B. Ficcadenti, Sulle origini di un Comune medioevale: Ascoli Piceno, II, Ascoli Piceno 1978, pp. 2, 35-54. 13 Archivio storico del comune di Ascoli, Archivio Segreto Anzianale, pergamene G.II.1 (del 1255), I.I.4 (del 1277), G.V.1 (del 1297), G.IV.2 (del 1317), I.IV.1-2 (del 1318), I.II.1 (del 1319); ibid., Quinternone, cartulario cc. 287 (sec. XIII-XVI). 14 Statuti di Ascoli, Statuti del Comune, Libro I. Cfr. B. Nardi, Significati e significanti dei giochi storici ascolani, in Riti e cerimoniali dei giochi cavallereschi nell’Italia medioevale e moderna, cur. B. Nardi - F. Bettoni, Ascoli 1989, pp. 91-99. 15 F. Porsia, Lo spazio urbano, in Uomini, terre e città nel Medioevo. Vita civile degli Italiani, I, Milano 1986, pp. 84-106.


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simbiosi di umano e divino, di civile e religioso, della città intesa in senso architettonico (urbs) e in senso antropologico (civitas), è evidente soprattutto nella piazza dell’Arengo, ai lati della quale vennero realizzati la cattedrale con il battistero, i palazzi dell’episcopio, il palazzo civico e il palazzo del podestà (questi ultimi due ora inglobati nell’attuale municipio). E non è un caso che l’impianto del duomo ascolano derivi dalla trasformazione di un imponente edificio romano (forse una basilica) ben individuabile nell’attuale transetto16. Qui il vescovo Bernardo II fece costruire intorno al Mille la cripta e qui fece traslare le reliquie dell’antichissimo martire s. Emidio, già venerato, ma che da allora venne ad assumere anche sotto il profilo civico il ruolo di patrono della città e del suo comitato territoriale. Una riprova di questo mutato ordine di valori (ma non necessariamente anche della traslazione delle reliquie del patrono ascolano e dei suoi compagni martiri, che potrebbe essere avvenuta anche anteriormente alla costruzione della cripta) è in due diplomi, l’uno del 23 giugno 996, l’altro del 1 luglio 1052: il primo, di Ottone III, ignora nel nome della cattedrale s. Emidio; nel secondo, di Leone IX, la chiesa è intitolata S. Genetricis virg. Mariae et beatissimi Christi martyris Emigdii17. Il rinvenimento (inventio) miracoloso delle reliquie (che una leggenda vuole siano state identificate, appunto, grazie ad una rigogliosa pianta di basilico che miracolosamente cresceva nel buio della necropoli ipogea di S. Emidio alle Grotte) e la loro traslazione (translatio) in cattedrale (effettuata, come si è detto, al tempo della costruzione della cripta o forse già tra il 780 e l’822 ai tempi del vescovo conte longobardo Justolfo18, mentre del tutto senza riferimenti resta la tradizionale datazione all’episcopato di s. Claudio) rendo-

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U. Laffi, Storia di Ascoli Piceno nell’età antica, in Asculum, cur. U. Laffi - M. Pasquinucci, I, Pisa 1975, pp. LIV-LV e LXI-LXII nota 21. Si veda anche A. Benvenuti, Pellegrinaggio e culto dei Santi, in Uomini, terre e città nel Medioevo cit., pp. 152-170; A. Benvenuti, Sant’Emidio, “li tremuoti” e Ascoli, in A. Benvenuti, Pastori di popolo. Storie e leggende di vescovi e di città nell’Italia medievale, Firenze 1988, pp. 204-218. 17 A. Rodilossi, Ricognizione Canonica delle Sacre Reliquie di S. Emidio e Compagni Martiri, Ascoli 1959. Sulla passio di s. Emidio, si veda S. Prete, La passione di s. Emidio di Ascoli. Introduzione, testo, commento, Ancona 1972. 18 G. Bartocci, Ricognizione delle reliquie di S. Emidio, necropoli di S. Emidio alle Grotte, «Il Resto del Carlino» 28 e 30 novembre, 6 e 30 dicembre 1975. Secondo l’Autore, l’anello e la pergamena rinvenuti nell’urna del Santo durante la ricognizione del 14 luglio 1718 risalirebbero all’epoca di Justolfo: il primo sarebbe il suo sigillo, in quanto reca le iniziali; la seconda riporta molti nomi di chiara origine longobarda. Sulla questione restano aperti molti dubbi, sebbene diversi autori ritengano che la data più probabile della translatio sia quella della costruzione della cripta; cfr. G. Fabiani, Una pergamena indecifrabile, «Il Nuovo Piceno», 27 (1958); Prete, La passione di s. Emidio cit., pp. 9-11; U. Laffi, Storia di Ascoli cit., p. LVII.


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no dignità alla figura vescovile (s. Emidio è indicato come primo vescovo residente ascolano), danno rilievo storico alla sua cattedra e fanno del duomo sede di culto e di pellegrinaggio, ricca, come si è detto, di simbolici “mana”19. Le pietre romane su cui poggiano quelle medioevali acquisirono una più profonda sacralità, legata sul filo delle memorie al culto delle antiche generazioni anche attraverso rituali processioni che si svolgevano da S. Emidio alle Grotte al centro (effettuate per secoli la terza domenica di marzo, data in cui, secondo la tradizione, il vescovo s. Claudio avrebbe traslato, circa il 363, le reliquie). Dell’antica necropoli, inclusa dal 1721 nell’attuale tempietto giosafattiano, restano tre grotte, di cui quella est manomessa e trasformata in magazzino. Viceversa, fino alla costruzione della chiesa, le grotte erano più ampie, arrivando ad addossarsi ad un attiguo sacello (attualmente la romanica S. Ilario, con inseriti elementi romani di reimpiego, il cui fianco settentrionale scopre ancora il tufo su cui poggia), che aveva quindi funzione di culto e di ospizio per i pellegrini ad sanctos. Del resto, prima dei lavori di sbancamento della parete tufacea per far posto alla facciata di S. Emidio alle Grotte, l’ingresso originario dell’ipogeo era, come già detto, molto angusto, come è documentato dal seguente passo dell’Appiani, che così scriveva nel 1702: «Essendo l’adito, o foro di quelle grotte sì angusto e basso, come pur’oggi si vede, che non può penetrarvi un uomo se non carpone, e totalmente inchinato; se ne ampliasse allor [al passaggio del martire cefaloforo, ndr] per miracolo, e per ossequio decentemente l’ingresso, e dopo entratovi il martire, ritornasse subitamente alla forma della primiera natia bassezza, ed angustia»20. Così, la presenza di più luoghi di culto del santo (la cattedrale, l’antico cimitero delle grotte a Campo Parignano, l’edicola sorta sul luogo del martirio) venne ad affiancare ma anche ad esprimere la nascita di una autocoscienza civile, tracciando nuovi percorsi nella topologia urbana, dalla cerchia delle mura e delle porte, aperta e vigile sul comitato territoriale, al centro cittadino, dove pulsava una nuova vita civile e commerciale e dove tutti concorrevano nei giorni della festa del patrono. Come Asi, eroe eponimo, mitico fondatore pelasgo della città picena, Emidio la rifonda e rigenera annualmente, in comunione con la città celeste, continuando ad assicurarle una vita prospera e senza tramonto. 19 20

Benvenuti, Pellegrinaggio e culto dei Santi cit.; Porsia, Lo spazio urbano cit. P.A. Appiani, Vita di S. Emidio primo vescovo e protettore di Ascoli e martire, con un saggio della stessa città, Ascoli 1702; Santuari d’Italia, Milano 1931; G. Fabiani, Emidio, patrono di Ascoli Piceno, santo, martire, in Bibliotheca Sanctorum, IV, Roma 1964, coll. 1172-1177.


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Occorre, a questo punto, fare un’ultima considerazione a proposito della festa, indagandone il diverso significato che può rivestire quando essa è estemporanea, legata ad un evento irripetibile, oppure quando essa è tradizionale, ricorrendo quindi con regolarità circannuale nel calendario. Vanno in altri termini considerate distintamente le celebrazioni calendariali (come, appunto, la festa patronale), che ricorrono nella stessa data ogni anno, dalle cosiddette manifestazioni di apparato, cioè dagli eventi organizzati per nascite, nozze, per venute in città di personaggi famosi o per celebrare altre solennità.

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La città in festa che organizza il gioco

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Se la festa patronale marca una cesura periodica, a cadenza certa, del tempo ordinario lavorativo, non solo interrompendolo, ma anche segnando un nuovo inizio, un incipit di vita rinnovata, analogamente, nello spazio urbano, la cattedrale (dove la presenza del divino è espressa anche dalle reliquie del patrono e dalla cattedra del vescovo suo successore) segna la cesura con le abitazioni ordinarie degli uomini. In questo parallelismo, Ascoli esprime una forte connotazione dell’urbs (dei monumenti, quasi tutti in travertino ed armoniosamente rimaneggiati nei secoli) e dell’ethnos (i cives che di generazione in generazione le hanno dato voce ed anima), che si riflette nella festa per antonomasia, le dà tradizione (il valore per essere trasmessa e riattualizzata nelle nuove generazioni), modificandola, aggiornandola, ma non cambiandone le ragioni di fondo. In una città dagli spiccatissimi tratti di personalità, la festa patronale del 5 agosto è la massima espressione dell’identità e della memoria collettiva, rispondendo a quel bisogno profondo e inconsapevole che ha portato Max Weber a dire che le sue lacune producono patologia e sradicano, dando anche per questo dignità antropologica alla ricerca storica ed archivistica. D’altra parte, proprio questi aspetti della festa ricordano che esiste un primato dell’identità soggettiva (e collettiva) sulla oggettività conoscitiva: essendo primario mantenere la continuità dell’esperienza e sostenere le ragioni connesse con i significati personali profondi, deve esistere una memoria, magari anche con fraintendimenti e mistificazioni, nel bisogno autoreferenziale di costruire nelle trame narrative il senso con cui ci si identifica. Uno degli aspetti più interessanti – tuttora ampiamente inesplorato – delle indagini storiche sta proprio nella ricostruzione della valenza “relativa”, “soggettiva” e, dunque autolimitante di ogni traccia che riemerge dal passato, mentre troppo a lungo ad essa viene attribuito un astratto valore “oggettivo” e super partes.


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Chiavi di lettura della festa

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Come si è detto, la festa patronale è una complessa macchina dalla quale emerge una tessitura di valori religiosi e civili, di sacro (che si contestualizza) e di profano (che nella festa assume una sua sacralità): questo aspetto è ben evidente nella tripartizione degli eventi che la caratterizzano, i quali sono riferibili ad una matrice religiosa (messa solenne pontificale, processione), ad una matrice politica (offerta dei pali e dei ceri) ed economica (fiera franca) e ad una matrice ludica (Anello, Palio, corsa a piedi e Quintana), tra loro intrecciate. Torniamo così a confrontarci con i simboli e la loro valenza di cifra identificativa dell’identità, sia individuale che collettiva. Di essi è intessuto l’ordito della festa, dalle insegne (signa) alla nascita dell’araldica (legami di gruppo, marcatori delle relazioni di reciprocità, tipiche dei sapiens): si pensi alle bandiere e agli addobbi, ai suoni dei musici che l’annunziavano, con le loro casacche divisate e il cassero d’argento del comune, i cortei dell’aristocrazia magnatizia cittadina e dei rappresentanti delle terre e castelli del comitato territoriale, le processioni religiose, le sfilate delle compagnie e delle brigate cittadine, il disordinato muoversi del popolo negli spazi dove venivano apparecchiati i grandi eventi; colori e divise servivano e servono ancora a riconoscersi e identificarsi mediante l’appartenenza o meno ad un certo contesto (si pensi a quel grande oggetto di indagine sociologica che è il tifo calcistico). I simboli entrano nella complessità della festa e le danno linfa, la mantengono tradizionale, cioè qualcosa da tradere, da tramandare, ma le consentono anche – entro determinati limiti – di rinnovarsi anno dopo anno. Proprio per queste caratteristiche, essi complicano le cose a chi studia il gioco e pongono problemi di difficile soluzione quando si cerca di definire fino a che punto vada preservata la tradizione e vada quindi tollerata l’innovazione. Ad esempio, in giochi di consuetudine come quelli calendariali ascolani a cavallo, come si fa a cristallizzare con acribia filologica qualcosa che è andato evolvendosi e che è stato organizzato con continuità secolare, in occasione della festa patronale di s. Emidio, verosimilmente dal XIII secolo fino ad oggi? A quale contesto di gioco è più opportuno fare riferimento? A quello delle più antiche pergamene dell’Archivio segreto anzianale che citano i cerimoniali della festa patronale (XIII secolo), a quello dei primi statuti conservatisi (1377) o a quello dell’edizione a stampa in volgare (1496) che descrive analiticamente i vari giochi? O, ancora, alla giostra descritta nella cronaca – perduta ma letta dal Marcucci – che vide protagonisti Pardo Soderini, sua sorella Menichina e il conte bologne-


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se Ludovico Malvezzi o al contesto festoso dei pali del Cinquecento o del Seicento, quando cavalli e cavalieri venivano presentati da componimenti poetici fedelmente trascritti dagli estensori delle Riformanze? E non va neppure dimenticato che la cosiddetta edizione “moderna” della Quintana vanta già una sua storia di oltre mezzo secolo ed ha dunque essa stessa dignità propria. Esiste, in qualche modo, una autopoiesi, una autoreferenzialità della festa e delle manifestazioni che vivono in essa: proprio la loro vitalità indica che, in quanto vive, vitali incarnano esigenze condivise dalle nuove generazioni, per cui al tempo stesso si rinnovano ma rimangono presenti nei significati e nei segni. Nel momento in cui esprimono una coesione, rimandano alla gens urbana nelle sue diverse componenti, ma anche a quella extraurbana del comitato delle terre e dei castelli, con quel senso gioioso che troviamo negli statuti. La festa, nata per celebrare Sant’Emidio, va apparecchiata annualmente, come recitano gli Statuti, «con solempnità de jochi et de balli, alegramente». Ed è straordinariamente bello, intenso, pregnante questo avverbio, che sembra uscire dalla pergamena per investire gli spazi, le piazze e le rue, l’urbs delle pietre e la civitas dei cittadini che partecipa e si caratterizza in senso proprio di connotazione dell’identità. Sappiamo che senza memoria non c’è identità, non c’è personalità; ognuno di noi non sarebbe quello che è se non si riconoscesse nel tempo nonostante i cambiamenti che sperimenta. Max Weber ci ha ricordato che per la collettività avviene qualcosa di simile, e che siccome la memoria orale non va oltre qualche generazione, le lacune vanno ricostruite attraverso le indagini storiografiche. Questa concezione rimanda ad un significato più alto della ricerca storica, che non può essere la ricostruzione di una impossibile oggettività, dato che qualsiasi documento riflette comunque una soggettività, un punto di vista, un bisogno o un’esigenza particolare, mai generalizzabile. Un documento può essere vero o falso, attendibile o tendenzioso, ma comunque ha un senso proprio in quanto rimanda all’identità di chi lo scrive e, attraverso essa, all’identità della gens, della società, della trama di relazioni entro cui esso è nato e a cui dà voce e significato. Del resto è noto a chi si occupa di neuroscienze e neuropsicologia che la memoria, come la conoscenza, non risponde primariamente al bisogno di dare una rappresentazione interna oggettiva della realtà, quanto a quello di costruire e mantenere un senso coerente di identità, anche a costo di autoinganno. Conosciamo per continuare a sentirci noi stessi, nonostante i cambiamenti che sperimentiamo, ed è questa la cosa più interessante del nostro modo umano di conoscere, del nostro modo di essere e di prendere consapevolezza di noi e del mondo in cui viviamo.


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Gli eventi della festa

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Se la festa è un evento – ma anche un ludus – calendariale principale, il gioco nel suo contesto assume valenze nuove e diverse. Esso diviene rappresentazione scenica metaforica di sacro e profano; è, dunque, socialmente autentico anche nelle sue contraddizioni e non può essere valutato con acribia filologica, in quanto è eternamente rinnovante se stesso: non solo è una sorta di reperto persistente di una cultura arcaica legata al tempo ciclico o di un insieme di tradizioni mutuate dal mondo classico latino, ma è anche un processo autopoietico ed autoreferenziale: ha in sé gli elementi per rinnovarsi di anno in anno e attira su di sé valori e significati della cultura che lo esprime. In questo stanno la “serietà”, la “profondità” e la “totalità” del gioco legato all’ethnos21.

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1. Eventi come simboli Il senso sacro e civico del gioco, nell’ambito di un evento festivo – che discontinuava quindi il tempo ordinario – è antico quanto l’uomo e ben vivo nell’antichità classica. Ne è prova il panegirico scritto da Isocrate in occasione della centesima Olimpiade: «I fondatori delle nostre grandi feste sono giustamente apprezzati per averci trasmesso l’usanza per la quale, proclamata la tregua […] conveniamo in un unico luogo dove […] ci ricordiamo della parentela che esiste tra noi»22. In tali occasioni il vincitore entrava negli annali anche come campione della città di appartenenza, la quale era illuminata dalla sua fama e ne diventava in qualche modo custode. Per far riferimento poi a giochi nei quali il cavallo era protagonista, la loro popolarità nell’antica Roma era tale che Ammiano Marcellino, nelle sue Storie, scriveva che «quando arrivava finalmente il giorno delle corse, tutti si affrettavano verso il circo [stadio], prima del sorgere del sole, a grande velocità, come se volessero gareggiare con i carri; molti passavano le notti senza chiudere occhio, pieni di ansia per il risultato delle corse»23: con le

21 Sul senso e sulla “serietà” del gioco si veda F. Cardini, Riti e cerimoniali dei giochi cavallereschi nell’Italia medioevale e moderna: problematiche e prospettive, in Riti e cerimoniali dei giochi cit., pp. 13-15. Cfr. B. Nardi, I giochi storici ascolani: dal medioevo all’alba del terzo millennio, in B. Nardi - S. Papetti, La Quintana di Ascoli, Firenze 1996, pp. 9-15. 22 Isocrate, Panegirico in occasione della centesima Olimpiade, vv. 43-44. 23 Ammiano Marcellino, Rerum Gestarum Libri XXXI (Storie), ed. G. Viansino, Milano 2001-2002. Sui giochi nell’antichità classica, si veda Nike. Il Gioco e la Vittoria. Catalogo della Mostra omonima allestita a Roma nel Colosseo (4 Luglio 2003 - 7 Gennaio 2004), cur. A. La Regina - M.C. Guerrieri, Milano 2003.


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stesse parole si potrebbe esprimere lo stato d’animo dei sestieranti ascolani o dei contradaioli senesi per la gara. Se mai è la realtà cittadina, come viene definendosi dopo il Mille, a dare nuova linfa ad elementi che nei significati dei propri cerimoniali esprimono valori sostanzialmente universali. Il gioco viene calato nuovamente nel sacro, ma è il sacro identificato nella figura di un santo, imitatore di Cristo – e in quanto tale universale – ma anche, quasi nuovo atleta olimpico, campione e vessillo della sua gente, che l’ha scelto e innalzato a proprio patrono. Emblematico a tale proposito è il caso di s. Emidio per la gens picena. In poche città la festa patronale è sentita come avviene, da secoli, in Ascoli. Per comprendere questo aspetto, che va ben oltre la devozione religiosa in senso stretto, occorre fare riferimento alla struttura del Comune medievale, che nella festa del patrono celebrava anzitutto se stesso e i suoi valori, identificando nel santo scelto come defensor civitatis la figura simbolica che era vista come garante di tali valori e, in generale, dell’identità della città e del territorio ad essa afferente24. La festa di s. Emidio, annunziata dai banditori come l’evento principale del calendario, dai tempi del libero comune si è infatti articolata secondo precisi e complessi riti e cerimoniali, con un succedersi di eventi religiosi, civici, economici e ludici. S. Emidio divenne pertanto simbolo della potenza e dell’unità culturale, morale e socio-politica cittadina25. Come accadeva per altre città, più o meno importanti, soprattutto dell’Italia centrosettentrionale, la festa patronale del 5 agosto costituì l’evento unificante centrale della vita di Ascoli e di tutto il suo comitato territoriale. Quest’ultimo, che ricorda nel nome l’origine feudale (= terra del comes, ossia di un conte)26, comprendeva una zona circostante le mura cittadine (cortina o curtina, in quanto costituita da curtes appartenenti al clero, agli ordini religiosi e alle famiglie facoltose residenti in città) e il restante territorio, più o meno direttamente soggetto alla giurisdizione cittadina (senaite, dalla voce longobarda “snaida”, indicante il confine ultimo delle terre possedute)27. Nel medioevo la devozione per il santo patrono, con il consenso della chiesa locale e delle autorità civili, venne quindi a scandire il calendario annuale, analogamente alle grandi feste liturgiche e alle fasi fondamentali del ciclo rurale e confluì nel simbiotico intersecarsi di due culture, la mistica 24 Nardi, Significati e significanti dei giochi storici cit. 25 Nardi, Origine delle feste patronali ascolane cit. 26 G. Devoto, Dizionario Etimologico. Avviamento alla Etimologia Italiana, Firenze 1968. 27 S. Balena, Folklore piceno, Ascoli 1984.


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cristiana e la cavalleresca. Quest’ultima venne inserita a pieno titolo nella valorizzazione della festività, incanalando, da un lato, i giochi spontanei e le “compagnie di quartiere” altomedievali, dall’altro ridefinendo in chiave comunale il valore storico e sociale della cavalleria medievale28. Attraverso l’organizzazione di giostre incruente, il gusto delle gesta militari, lo spirito di avventura, la faziosità di parte trovarono una possibilità di espressione nel costume della festa cittadina, sublimando azioni che in altri periodi dell’anno erano spesso tragiche. Nella riconsacrazione della piazza pubblica dell’Arengo, chiamata ad un ruolo centripeto per i cittadini, ma anche per gli abitanti del contado e dei castelli e delle terre del comitato territoriale, la società medievale celebrava i propri valori fondamentali, strutturali e culturali, con un legame che nessuna rievocazione storica, per quanto fedele voglia e possa essere, è in grado di proporre nella realtà odierna. Accanto alla piazza dell’Arengo, cuore politico e religioso della vita cittadina, si ribadiva, in occasione della festa di s. Emidio, la funzione dell’intero tessuto territoriale, con la localizzazione dei ruoli religiosi, politici ed economici. In tal senso, la ripartizione dell’urbs intra moenia in quartieri e sestieri (con autorità, milizie, cavalieri e gonfaloni propri) esprimeva una situazione, al tempo stesso, umana ed architettonico-urbanistica. A questo proposito, come è noto, delle denominazioni dei sei sestieri in lizza nella Quintana odierna (S. Emidio, Piazzarola, Porta Maggiore, Porta Romana, Porta Solestà, Porta Tufilla) soltanto alcune corrispondono a quelle storiche, come pure nell’odierna toponomastica sopravvivono solo i quartieri, mentre i sestieri sono praticamente scomparsi29. Al tempo degli Statuti del 137730 la città era infatti divisa in quattro quartieri, di sei sestieri ciascuno: 1) Sancto Emidio (Sud-est); sestieri: a) Pedi de le chiaviche; b) Capo le chiaviche; c) Sancto Blaxio; d) Canneta; e) Pede la Ringa; f) Piaza; 2) Sancta Maria inter le vigne (nord-est); sestieri: a) Ponte Majore; b) Sancto Petro Adammo; c) Sancto Christofaro; d) Sancta Maria; e) Sancto Francisco; f) Sancto Anastasio; 3) Sancto Venantio (sud-ovest); sestieri: a) Grocte; b) 28 Nardi, Origine delle feste patronali ascolane cit. 29 Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit. 30 Statuti di Ascoli dell’Anno 1377, editi a stampa da fra’ Giovanni da Teramo il 9 apri-

le 1496 presso il convento di Santa Maria in Solestano di Ascoli (Archivio della Biblioteca Comunale di Ascoli Piceno). Una ristampa di tali Statuti è stata curata da L. Zdekauer - P. Sella, Statuti di Ascoli dell’anno 1377, Roma 1910. Statuti del Popolo, Libro II, Rubr. 6. Una nuova edizione, a cura di Giancarlo Breschi e Ugo Vignuzzi, è stata pubblicata dal Comune di Ascoli Piceno, in collaborazione con Regione Marche e Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno, nel 1999 dalla Fast Edit di Acquaviva Picena.


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Scaye; c) Secte soglie; d) Sancto Venantio; e) Sancto Augustino; f) Casale novo; 4) Sancto Jacobo (nord-ovest); sestieri: a) Porta Romana; b) Laco; c) Sancto Jacobo; d) Ponte Solestane; e) Pede de lu merchato; f) Tribio. D’altra parte, mentre la divisione della città in 4 quartieri e 24 sestieri era funzionalmente connessa con la struttura politico-amministrativa del comune, la costituzione dello Stato nazionale unitario, proiettando la città nella più ampia e complessa realtà politica, sociale ed economica italiana, ha determinato nuove esigenze, delle quali un esempio significativo è stato fornito dall’abbattimento delle barriere doganali. Così nei catasti post-unitari è scomparsa la divisione in sestieri che era invece presente, dal 1381 in poi, nei catasti più antichi31.

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2. La scansione della festa: un programma ritualizzato Come si è detto, nelle origini della festa patronale di s. Emidio appare ben evidente il confluire di due culture, quella mistica cristiana e quella cavalleresca, innestate nel nuovo spirito e nelle nuove esigenze dell’organizzazione comunale. Ciò è chiaramente delineato dagli Statuti del 1377, come emerge dal passo seguente: «Per reverentia et devotione de quillo che prega Dio ad omne hora per salute et defensione de lu comune et de lu populo d’Asculi, per lu presente devotissimo decreto havemo statuito et ordinato che lu capitanio et antiani de lu popolo de la dicta ciptà, per vigore de lu loro dato juramento et ad pena de cinquanta libre per ciascuno de loro, siano tenuti et debiano omne anno de lu mese de augusto, per veneratione et honore de la festa de lu beato Emindio martiro et confessore, patrone, protectore et defensore de lu commune et de lu populo d’Ascoli, comandare ad tucti et singuli gentili homini et acti ad jocare con l’aste et armigiare ad cavallo et ad tucti capitanj overo consuli de le arte de la dicta ciptà che se apparecchie a lu modo usato ad celebrare et honorare la dicta festa et che honore con reverentia epsa festa, con solempnità de jochi et de balli, alegramente, a la pena da imponerse per ipso capitanio la quale la faccia scotere per lu comune contra qualunqua che lo desprezasse overo non obedesse»32. La sera della vigilia della festa aveva luogo l’offerta dei ceri. I rappresentanti delle dodici arti principali («medici, advocati e procuraturi, merchatanti, plagerii, pellicciarii, calzolarii, muraturi, magistri de lignamo, magistri de preta, tesseturi, ferrarii, guarnellarii»)33, offrivano al patrono, per le mani del vescovo, «dudici cirj grossi», preceduti dal rappresentante del 31 32 33

P. Varese - G. Angelini Rota, Il Catasto Ascolano del 1381, Monza 1943. Statuti cit., Statuti del Popolo, Lib. II, Rubr. 6. Statuti cit., Statuti del Comune, Lib. III, Rubr. 64.


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Comune, che ne offriva uno maggiore. Al suono delle campane il corteo muoveva dal Palazzo dei Capitani; dopo i valletti e i trombettieri sfilavano «li signuri antiani, consiglieri de l’ordine, recturi, altri officiali e la Corporatione de le Arti». La scansione e l’organizzazione delle celebrazioni patronali, codificate nelle pergamene anzianali, negli Statuti e nei registri dei “bastardelli” e delle Riformanze come in uso “da tempo immemorabile” e per “antica consuetudine”, trovano riscontro negli ordinamenti di numerosi comuni coevi, anche marchigiani34. La festa prevedeva cerimonie religiose e civiche, accompagnate dalla grande fiera franca, ed era conclusa dallo svolgimento di alcuni giochi, il cui significato, come si è detto, veniva pertanto a trascendere il semplice fatto agonistico, per entrare nel novero di un’usanza da registrare e conservare negli annali cittadini. Uno degli atti pubblici più densi di significato era l’offerta al Comune di un palio (una stoffa pregiata, dall’elevato valore commerciale e simbolico) da parte delle «terre sottoposte la difesa overo protectione per forma de privilegj overo de pacti overo per qualunqua consuetudine»35. Terminato l’omaggio delle terre e dei castelli del comitato territoriale aveva luogo il solenne pontificale, durante il quale, da tempo immemorabile («ex antiqua consuetudine») poteva essere data libertà ad un condannato per qualsiasi reato, anche gravissimo e suscettibile di pena di morte («pro quocumque delicto vel pro quacumque causa etiam enormissima»)36. Genuflesso davanti all’altare maggiore, con in mano una palma, simbolo di pace e con una corona d’ulivo sul capo, il reo assisteva alla messa celebrata dal vescovo, al termine della quale tornava libero in quanto “donato a s. Emidio”. Questo privilegio della chiesa ascolana, all’inizio esteso anche al Venerdì Santo, fu poi modificato e ridotto per volere di diversi pontefici, ma rimase in vigore almeno fino al XVII secolo. Il potere di grazia delle autorità civili era invece più ristretto: in occasione della festa di s. Emidio (così come per il Natale, il Venerdì Santo e il Corpus Domini) gli Statuti prevedevano che poteva essere rimessa la pena ad un condannato per non più di 25 libbre di denari; tuttavia, se la differenza era poca, questa poteva essere pagata dal Camerlengo37.

34

C. Chelazzi, Catalogo della Raccolta di Statuti, Consuetudini, Roma 1955. D. Cecchi, Gli Ordinamenti di alcuni Comuni nel Secolo XV, Macerata 1979. Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit. 35 Statuti cit., cfr. nota 28. 36 Archivio Capitolare di Ascoli, Cap. VII, H, 2. 37 B. Nardi, Ascoli da S. Emidio alla Quintana, Ascoli 1982, p. 36.


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E le voci antiche tornano ad animarsi e ad accendersi ancora oggi con straordinario vigore nei giochi. Essi erano quattro, di cui uno a carattere eminentemente popolaresco (la corsa a piedi, poi divenuta la “corsa dei putti”, in quanto destinata ai ragazzi)38. Questa gara, che si svolgeva da Porta Romana a Piazza Arringo, aveva come premi un maiale, uno scudo ed una spada, assegnati rispettivamente ai primi tre concorrenti che riuscivano a toccarli: «Et compre a le spese de lu dicto comune lu dicto camorlingho uno porco, uno pavese over scudo et una spada de valore de uno fiorino de oro per ciascuno, li quali porco, pavese over scudo et spada li dicti capitanio et antiani incontinente ne lu dicto dì de la festa, nante che se corra lu pallio de scarlacto et da poi che alcuno haverrà guadagnato lu anello, faccialo ponere et tenere in ne lu dicto arengho, et qualunqua ad pede vorrà correre da lu dicto piano de porta Romana perfine a lu dicto arengho possano correre et guadagnare alcuno de li predicti. Et quillo de li dicti correturi a pede prima venerà et toccarà lu porco, guadagne et habia quillo; lu secundo che venerà da poi quello primo et toccarà la spada guadagne et habia quella, et lu terzo che venerà poi lu secundo et toccarà lu pavese over scudo guadagne et habia quillo, ad honore et reverentia de epsa festa»39. Nel Cinquecento la gara, definita pedester ad bravium, ebbe come premio un palio. I nomi di molti partecipanti sono riportati nei registri delle Riformanze. L’edizione del 1520, ad esempio, promossa dal neogovernatore Fabio di Cora, vide la partecipazione, tra gli altri, di Riccardo, servo del grande artista Cola d’Amatrice. Nella seconda metà del Cinquecento fu introdotta una corsa riservata ai ragazzi al di sotto dei 15 anni, con partenza in Piazza S. Agostino e arrivo in Piazza Arringo. In questa grara, nota come “corsa dei putti”, si rivelò Lanternino, servo del capitano Antonio La Nera, dominatore delle edizioni del 1599, del 1600 e del 160640. I giochi a cavallo venivano organizzati, come documentano gli Statuti del 1377, in Piazza Arringo41. Essi erano tradizionalmente legati alla festa patronale di s. Emidio (si tenevano nel pomeriggio del 5 Agosto), ma potevano essere organizzati anche in altri periodi dell’anno, per celebrare particolari avvenimenti, sia cittadini che legati a membri dell’oligarchia magnatizia. Dunque si trattava sia di giochi calendariali di consuetudine, sia di gio-

38 Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit. 39 Statuti cit., Statuti del Popolo, Lib. II, Rubr. 6. 40 Archivio di Stato di Ascoli, Archivio Storico del Comune di Ascoli, Riformanze (Regg.

90: 1456-1461, 1469-1473, 1477, 1482-1488, 1517-15211538-1808). Cfr. Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., p. 32. 41 Statuti cit., Lib. II, Rubr. 6.


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chi d’apparato (“apparecchiati” per rendere più splendide e solenni speciali circostanze, come la visita di qualche ospite illustre). Come è noto, essi consistevano nella giostra dell’Anello, nella corsa al Palio e nella giostra della Quintana. Le due giostre sono state effettuate fino almeno a tutto il Quattrocento; la Quintana è stata poi ripresa nell’edizione moderna a partire dal 1955. Il Palio è stato corso ininterrottamente dal medioevo a questo secolo; partiva da Porta Romana (dove avveniva la mossa, liberando i cavalli dai canapi) e giungeva in Piazza Arringo attraverso gli attuali corso Mazzini e corso Vittorio Emanuele, dopo la pericolosa curva del Carmine (detta di s. Rasino, dalla antica chiesa di S. Erasmo), dove solitamente si decideva la corsa. Di esso si conservano non solo i nomi di partecipanti e vincitori, ma anche una ricca antologia di versi con cui, tra il 1538 e il 1611, venivano presentati al pubblico cavalli e fantini. La Quintana e l’Anello, come detto, sono due giostre. Al contrario del torneo (che è un combattimento collettivo: mischia o “melée”, in origine assimilabile allo svolgimento di una vera battaglia), le giostre (dal latino juxtare = avvicinare), per le caratteristiche modali della formula (che prevede combattimenti o, meglio, armeggiamenti individuali a cavallo miranti non a nuocere all’avversario, ma a far emergere la propria abilità), cavallo, cavaliere e lancia sono tesi verso un obiettivo da centrare, nell’ambito di un tracciato (“lizza”) da percorrere al galoppo (“carriera”). Nella giostra dell’Anello il bersaglio (un anello di quattro once, di circa 10 cm, che costituiva il premio per il vincitore) era tenuto sospeso in Piazza Arringo mediante una fune e una catenella d’argento. Esso doveva essere centrato al galoppo dai cavalieri con la lancia. La giostra della Quintana deriva dall’esercizio che compivano i legionari romani nell’omonima via dell’accampamento: Vegezio riferisce che essi si addestravano a colpire in punti precisi, con la lancia o il giavellotto, un palo alto sei piedi, come se si trattasse del nemico. Nell’epoca feudale questo esercizio divenne un gioco di destrezza da farsi a cavallo e il bersaglio, dapprima fisso (un palo, successivamente rivestito da una botte – come nell’affresco quattrocentesco di S. Maria di Mevale presso Visso – poi fiancheggiato da uno scudo o divenuto supporto di un manichino) divenne mobile, ruotando intorno l’asse, con le sembianze di un saracino (“giostra del saracino”). Sulle specifiche caratteristiche modali della Quintana ascolana i documenti d’archivio a noi giunti non ci soccorrono, se non nel fatto che il bersaglio, contro cui i cavalieri dovevano spezzare le lance, era posto «in ne lu dicto Arengo». Nella società comunale, a partire verosimilmente dal Quattrocento, il gioco storico (definito anche “armeggeria a cavallo”, per distinguerlo dal


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combattimento vero e proprio) era, come si è detto, una dimostrazione di abilità e di destrezza, ma anche un’ostentazione di fasto e potenza, personale e della propria casata. Così in esso si potevano individuare due momenti ben distinti: 1) la “mostra”, cioè la sfilata del nobile cavaliere, della sua brigata e del suo seguito davanti al pubblico, effettuata indossando sopravvesti ricamate (quindi, anche con quelle che dal Cinquecento in poi diverranno le imprese e gli stemmi di famiglia) e divise dai colori ben identificabili; 2) l’armeggeria vera e propria (effettuata dal cavaliere dopo essersi tolto gli abiti da sfilata e aver indossato l’armatura o un farsetto o tunica più pratici), che consisteva nella rottura della lancia contro il bersaglio. Nei documenti del tempo, i giochi organizzati in occasione della festa di s. Emidio rivivono in una immediata cronaca quasi giornalistica, colorita dalla forte pregnanza di una voce, “alegramente”, che ne dà in pieno il senso di gioiosa partecipazione. E, quasi udissimo dal vivo le grida, dopo la giostra dell’Anello, la popolaresca corsa a piedi e il Palio a cavallo, ecco l’invito perentorio a “chi vorrà” (e, quindi, in primo luogo, a chi sarà sufficientemente abile per farlo) a correre «a la Quintana, la quale se ponga et ficcase in ne lu dicto Arengo». Persone, dunque, uomini ma anche donne. Non per nulla, proprio in un gioco tradizionale a cavallo tipicamente maschile, la giostra dell’Anello, eccelse nella seconda metà del Quattrocento una donna, sia pure (come è ovvio) appartenente ad una delle più illustri casate cittadine. E Menichina Soderini, femminista ante litteram in senso fattuale e non teorico, costituisce uno dei molti esempi di una società vivace ma mai dirompente, dove il nuovo si è sempre integrato col vecchio, senza drammatiche soluzioni di continuo42. Prendendo come riferimento la festa di s. Emidio, Ascoli può vantare una straordinaria continuità di svolgimento dei tradizionali giochi cavallereschi organizzati per tale solennità: Quintana, giostra dell’Anello e Palio hanno scandito come in un almanacco l’evoluzione della festa patronale e, al tempo stesso, dei costumi cittadini, riproponendo nel corso dei secoli, accanto alle celebrazioni civico-religiose e al fondamentale appuntamento economico costituito dalla grande fiera franca43, il valore sempre attuale del gioco, quale rappresentazione ed espressione della società44. Soprattutto grande continuità e successo ha goduto, tra Cinquecento e prima metà del Novecento, il Palio a cavallo, costantemente documentato nelle Riformanze e nei documenti pubblici, sia per quanto riguarda i cavalli 42 43 44

Nardi, I giochi storici ascolani cit. Nardi, Ascoli da S. Emidio alla Quintana cit. Cfr. nota 19.


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iscritti (leardi, bai, morelli, sauri, roani), sia per quanto riguarda i fantini (il primo vincitore ricordato fu Battaglino nel 1519 in sella al baio Villano, cieco ad un occhio, di Mariano da Camerino; famosi furono, tra Cinquecento e Settecento, Pasqualino, Merlettino, Morettino, il turco Baiazetto detto Ruggero, Farfaricchio, Incicco, Tommaso detto Cococcione, Francesco Fenerilli, Antonio Cervone, Andrea Cimini, Vincenzo di Ubaldo, Nicola di Giuseppe), sia infine per quanto riguarda i proprietari (come il cavaliere ascolano Francesco Mucciarelli, i cui cavalli vinsero svariate edizioni, la nobildonna perugina Ippolita Rainoria, Olimpia Pamphili, cognata di Innocenzo X, i cardinali Montalto, Aldobrandini, Giustiniani, Cesi, Farnese, Crescenzi, Borghese, i principi Santo Bono, Savelli, Peretti, il duca Giovanni Orsini)45. Il Palio partiva da porta Romana (dove avveniva la “mossa”, liberando i cavalli dai canapi) e giungeva in piazza Arringo attraverso gli attuali corso Mazzini e corso Vittorio Emanuele, dopo la pericolosa curva del Carmine (detta di s. Rasino, dalla antica chiesa di S. Erasmo), dove solitamente si decideva la corsa. La gara prende il nome dal drappo, un pregiato tessuto cremisi di velluto in seta, lungo nove braccia, che doveva essere «di vaga mostra» e che veniva acquistato, su delibera del Consiglio, di solito a Foligno o, meno spesso, a Napoli. Per l’acquisto e la confezione venivano pagati nei secoli XVI-XVII quaranta scudi46, mentre cinque fiorini erano destinati alla sistemazione del fondo su cui correvano i cavalli («per l’arena che fa bisogno nel correr de’ palii»)47. Proprio per il Palio, dal 1538 al 1611, fu prodotta una straordinaria raccolta di rime per presentare cavalli e fantini, ora in forma solenne, ora motteggiante, ora ironica, ora giustificativa; si tratta di rime che ridondano di citazioni bibliche, classiche e coeve e che in non pochi casi hanno una reale dignità letteraria. In generale, esse costituiscono un grande affresco della società del tempo e una preziosa guida per ricostruire molti rapporti, personali e collettivi, tra Ascoli ed altre realtà cittadine. Tra i tanti versi conservatisi, dei quali è stata recentemente pubblicata una edizione integrale48, si riportano alcuni esempi.

45 Per la storia del palio ascolano si veda Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., pp. 43-70. 46 Archivio Storico del Comune di Ascoli, Riformanze, 8 luglio 1519 c.204v; 2 agosto 1613, c.174; 15 luglio 1614, c.77v; 6 luglio 1619, s.n.; 16 luglio 1622, c. 211v. Cfr. Nardi Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., p. 44. 47 Archivio di Stato di Ascoli, Archivio Storico del Comune di Ascoli, Registrum B, 1551, c. 128; 1571, c. 219v. Cfr. Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., p. 44. 48 L’intero corpus delle rime composte in occasione del Palio ascolano è pubblicato in Nar-


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Se fortuna non m’è tanto nemica como me fu l’altro anno io vi prometto portarmi il premio di questa fatica49. Son como me vedete vechio et Zoppo, et vechio, et Zoppo come so spero vincer se ben corresse di galoppo50. Sol per venire al parangon de tanti destrier, il mar solcai con picciol legno e se l’ardir fu d’alta gloria degno spero darammi il corso preggio e vanti51. Baiardo è il nome, e messer Adriano l’ha qui condotto non per avaritia per honorar Santo Migno Ascolano52. Con lascivo manto errai disciolto fra vili armenti a fonti usato, all’herba, ma ne le Regie stalle i vissi accolto glorioso destrier che si riserba nel corso a mostrar premii, ora habbi volto sempre il desio, ch’in fronte alta e superba or mostro, e in questo Arringo alto d’honore spero vincer s’al fin lento cursore53. Così di pensier vostri alti, e sublimi spensierati miei l’ali avess’io come ho speme, e desio vincer gli emoli mei secondi, et primi54.

Le mode ed gusti del tempo, come pure le esigenze socio-politiche ed economiche hanno costantemente condizionato i costumi ed i cerimoniali dei giochi cavallereschi ascolani organizzati in onore di s. Emidio. Così, ad esempio, il Consiglio Generale del 25 luglio 1485 discusse la proposta di sopprimere le spese «pro balurdatores», cioè per quella folklo-

di - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., pp. 75-99. Nel testo proposto in questa sede sono stati riportati marginali ritocchi ortografici, al fine di agevolarne la comprensione. 49 Archivio Storico del Comune di Ascoli, Riformanze, 5 agosto 1564. Rime per il cavallo baio Zoppo del cavaliere ascolano Francesco Mucciarelli. 50 Ibid. 51 Ibid., 5 agosto 1569. Rime per il cavallo leardo “Non creduto” di Orazio Alvitreti. 52 Ibid., 5 agosto 1570. Rime per il cavallo baio sfacciato “A tribus” di Vespasiano Dell’Huomo di Norcia. 53 Ibid., 5 agosto 1588. Rime per il cavallo baio “L’alato Pegaso figlio dell’Aurora” di Battista Lenti di Ascoli. 54 Ibid., 5 agosto 1604. Rime per il cavallo Piccino del capitano Ottaviano Cardoni di Camerino, dedicate ai “Signori Accademici Spensieranti”.


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ristica armata di figuranti che accompagnava le cerimonie delle feste patronali, per devolvere i fondi così risparmiati a favore delle giostre («pro astiludio fiendo sive pro jostra»)55. Al mutato gusto del pubblico si deve se a poco a poco e per lungo tempo il Palio a cavallo soppiantò le giostre, così come se esso divenne, nella seconda metà dell’Ottocento, una “corsa di barberi”, cioè di cavalli “scossi” senza fantino; fenomeni questi che rispondevano a mode riscontrabili anche in altre realtà italiane56. Oggi, uomini e donne, dame e cavalieri, parlano in presa diretta nelle cronache agostane della Quintana (riaccesa, a partire dal 1955, in versione moderna, quando il Palio aveva ormai esaurito il suo fascinoso percorso). L’ascolano Giovanni Castelli fu il primo degli emuli dei cavalieri antichi. Così, da oltre sette secoli, i giochi storici a cavallo tornano a rivivere di anno in anno in un’epopea che si ripete col calendario e, ripetendosi, si rinnova. Dunque la storia, si tratti di persone o di pietre, non esiste senza memoria. La memoria ordina i fatti, assicura una continuità tra passato e futuro, lega gli eventi alla risonanza emotiva che hanno suscitato e continuano a suscitare. Anzi, non ci può essere identità, personale ma anche cittadina, senza memoria. E dato che l’identità è intimamente legata al senso stesso della vita, è primario mantenerla e alimentarla, perché persone e pietre continuino a parlare, nel vento sottile della storia, e a scaldare pensieri e sentimenti. Va pertanto sottolineato un aspetto fondamentale che ha caratterizzato fin dal medioevo la festa di s. Emidio e ne ha colorito il contesto dei giochi, che è dato dalla straordinaria partecipazione degli ascolani e degli abitanti del contado, nello spirito di quella frase degli Statuti del 1377 («con solempnità de jochi et de balli, alegramente») che trova riscontro in un detto popolare («la notte di santamidio sonete, cantete, ballete e magnete li taralli»)57. Musica e festa: dal medioevo ad oggi hanno rappresentato un binomio inscindibile; la storia della festa di s. Emidio è anche un almanacco di ensemble musicali e, in tempi recenti, di complessi bandistici (molti dei quali rinomati, come le bande di Loreto Aprutino, Pacentro, Alamo, “Città di Bisenti”, “Città di Chieti”, Introdacqua, Orsogna, Otessa, Castelli, Spoltore, Cepagatti, Sulmona, S. Vittoria, Macerata, Porto S. Giorgio, ecc.), che hanno allietato la ricorrenza calendariale a cominciare dall’inizio della novena.

55

Archivio di Stato di Ascoli, Archivio Storico del Comune di Ascoli, Bastardello B, c. 210v; cfr. Nardi - Ciaffardoni, Quintana, Giostra dell’Anello e Palio cit., p. 38. 56 Sulla corsa dei barberi ibid., pp. 66-68. 57 Nardi, Origine delle feste patronali ascolane cit., p. 29.


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Già nel medioevo e nel Rinascimento, ai suonatori del Comune (indossanti una «casacca divisata» rossa e celeste, con «berretta rossa» e con lo stemma di Ascoli o cassero d’argento e una cappa rossa)58 solevano unirsi quelli venuti da fuori città. Ad esempio, nel 1548, data la necessità di rinnovare i musici ed essendo nota la fama dei suonatori di Norcia, il Consiglio dei Cento e della Pace (su relazione di Giovan Battista Cauti) decise, con 42 voti a favore e 20 contrari, di assumere suonatori di tromba di quella città59. Il 26 luglio, s. Anna, all’inizio della novena, le bande ancora oggi entrano nella cattedrale e rendono omaggio al Patrono, uno degli appuntamenti di maggiore impatto emotivo e simbolico per gli ascolani di ieri e di oggi, con significati che rimandano a tradizioni antichissime, precristiane. Non è possibile riportare in questa sede le tante iniziative che hanno caratterizzato le feste patronali, da quelle sportive a quelle teatrali e ad altre, compresa la tradizionale tombola: al riguardo si rinvia alle pubblicazioni riportate nelle note e, in particolare, all’articolo La festa di S. Emidio nei secoli60 e al volume Ascoli da S. Emidio alla Quintana61. Lo stesso gioioso senso di festa ha scandito nel tempo le serenate, gli stornelli, gli alterchi amorosi, il “saltarello” al ritmo brioso dell’organetto e torna a rivivere anche nelle cene organizzate nei sestieri per la Quintana. Usanze antiche, almeno quanto quella di ornare con festoni di frutta e verdura il duomo e i principali monumenti, precorrendo i dipinti crivelleschi e di illuminare straordinariamente la città. Così come antica è l’usanza di tenere la famosa fiera, durante la quale (“da tempo immemorabile”) vigeva la franchigia per tutti i fuoriusciti. La fiera rappresentava un evento economico di notevolissimo rilievo, anche per gli scambi ed i contatti che si potevano avere con prodotti e realtà lontane (e rappresentava un rilevatore attendibile dell’andamento dell’economia cittadina). Nel Seicento fecero infine la loro comparsa i fuochi d’artificio. Dai documenti conservati risulta che furono organizzati a partire dalla festa patronale del 1655, quando li curò Consorte Consorti da Atri, che ricevette per tale motivo un compenso di 6 scudi62. Da allora, prestigiose ditte (Ana-

58 59 60

Archivio Storico del Comune di Ascoli, Riformanze, 28 luglio 1594, c. 39. Ibid., 8 agosto 1548, cc. 52-53. B. Nardi, La festa di S. Emidio nei secoli, «Flash. Periodico di Vita Ascolana», 23/24 (sabato 23 agosto 1980), pp. 10-34. Si veda anche in Nardi, Significati e significanti dei giochi storici cit. 61 Nardi, Ascoli da S. Emidio alla Quintana cit. 62 Archivio Storico del Comune di Ascoli, Riformanze, 6 agosto 1655.


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stasi e Silvestri di Ascoli, Alesi di Appignano, Pagani di Pagliare, Spagnolini e Mancini di Monteurano, Anastasi e Zuccarini di Corropoli, Cordoni e Vallone di Teramo, Tombolini di Fermo, Bottega di Ortona, D’Addazio di Francavilla a Mare) si sono alternate, rendendo “lo sparo di s. Emidio” uno dei più belli e spettacolari d’Italia. In sintesi, pur nel mutare nel tempo delle manifestazioni e dei contesti socio-culturali, ancora oggi è possibile cogliere l’antica voce delle manifestazioni medievali. Manifestazione composita, nei suoi aspetti religiosi, civici, economici e ludici ma, al tempo stesso, con una sua coerente ed integrata armonia. Del resto, nonostante la presenza di numerosi eventi calendariali simili, la festa di s. Emidio (e, in essa, la Quintana odierna) trae dalla storia e dalla cultura cittadina una costante e pur nuova unicità. In un universo dove uomini e pietre sono attori allo stesso modo, le celebrazioni attuali proseguono la tradizione di quelle più antiche, in qualcosa che per gli ascolani ha il senso di una riscoperta della propria storia e, oltre ancora, della propria identità. La storia la fanno le pietre e le persone. Le pietre fanno la storia perché resistono tenaci all’usura del tempo, e i segni che esso lascia non fanno che renderne più prezioso l’aspetto. Alle pietre, fin dall’origine dell’uomo come specie, è stato affidato il compito di essere strumento del vivere quotidiano e testimonianza della sua presenza, segno tangibile di civiltà non solo materiale. Così, è difficile non cogliere la sottile armonia che lega i monumenti del centro storico di Ascoli, nati nel corso di due millenni ma amalgamati e resi sintonici dal composto calore del travertino: forte, tenace, solenne e pure caldo, immediato, familiare; tratti quasi personologici, difficilmente distinguibili da quelli degli abitanti. Al travertino è legata la più antica testimonianza ascolana di un astiludio: quando non ci soccorrono più i documenti d’archivio, perché distrutti dal tremendo incendio di palazzo dei capitani della notte di natale del 1535, resta il racconto delle pietre: così, fermati nell’architrave di una nicchia in corso Mazzini, due cavalieri si confrontano armeggiando in una giostra all’incontro che risale al Duecento. La storia, che nel caso di Ascoli trova una straordinaria chiave di lettura attraverso il secolare dispiegarsi della festa di s. Emidio, è espressione di persone che nel tempo hanno dato anima alle pietre e che di generazione in generazione hanno costruito i frutti di una cultura fiera ma disponibile, gelosa dei propri valori quanto accogliente, rispettosa del sacro e impegnata nel quotidiano, quanto attenta a lasciare segni umani e architettonici, custode delle proprie tradizioni (tramandate «a lu modo usato», «ex antiqua consuetudine», «da tempo immemorabile»), ma anche pronta a rinnovarsi.


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Riprendiamo dunque alcuni elementi considerati, per completare l’ordito di questa straordinaria macchina che è la festa patronale e nella quale anche i giochi assumono connotazioni alte e complesse. Anzitutto, i tempi e i modi del gioco nella ritualità della festa rimandano ad un universo simbolico. Per questo, se la Quintana va preparata tutto l’anno, fin dal medioevo la festa andava annunziata per tempo, mediante banditori e musici. Con la festa si comparava l’autorevolezza e la prosperità cittadina, mentre la fiera era occasione di contatti dinamici tra gente diversa, per importare novità. Per questo era “franca”, per questo le bandiere rosse issate sul campanile della cattedrale, visibili dal contado, segnalavano la possibilità di un libero accesso anche agli sbanditi. Altra considerazione: la società che festeggia e che gioca è, fin dal medioevo, una società estremamente dinamica: ad esempio, scorrendo il corpus di rime con cui tra ‘500-‘600 venivano presentati cavalli e cavalieri che correvano il palio ascolano, ci imbattiamo frequentemente in cavalli e scudieri di personaggi famosi, nazionali e stranieri. Quindi la società in festa è una società che si incontra, che si scontra, che si confronta, ma anche che viaggia e che esprime una realtà estremamente vivace. La festa della città e la “serietà” dei suoi giochi è ben evidente nella secolare presenza, ai vari riti e cerimoniali, delle massime autorità religiose e civiche ascolane. Il Patrono simbolicamente è venuto a identificare tutti questi valori (religiosi, ovviamente, ma anche civico-economici e ludici), divenendo egli stesso signum dei valori in cui i cives si riconoscevano e continuano a riconoscersi; egli è dunque una sorta di autorità garante super partes, che dall’alto e dal profondo della sua cattedrale (ma anche nella periferia cittadina, dove sono i luoghi a Lui legati: la fonte dove battezzava; la “cona” del martirio in Sant’Emidio Rosso, che la gente vede ravvivarsi in occasione della sua festa; le catacombe di Sant’Emidio alle Grotte) tutela la sua città e la sua gente. Attraverso la sua figura c’è un contrappunto nella festa tra l’urbs e la civitas, solamente in parte reso meno leggibile dallo sviluppo urbanistico avvenuto dalla seconda metà del Novecento. Fino allora, il duomo svettava, ben visibile dalla campagna, come appaiono le cattedrali francesi nei dipinti fino a Monet e a van Gogh: la cattedrale che sovrastava nettamente i tetti delle abitazioni segnava in maniera ben visibile il senso “mana” dell’incontro tra umano e divino. La festa del Patrono ha dato unità ad un comprensorio culturale e geografico, ma lo ha spinto anche a confrontarsi, a commerciare e a competere con i contesti con cui è entrato in relazione. S. Emidio è assurto a rifondatore della città, come lo era stato Asi, l’eroe eponimo pelasgo che gli antichi autori volevano avesse fondato la


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città. Tra l’eroe antico e l’eroe nuovo proposto dal Cristianesimo esiste una corrispondenza di significati, recuperati all’interno della festa medievale, nella quale la concezione arcaica del tempo ciclico si incontra con quella nuova del tempo cristiano del libero arbitrio, mutuata dalla scoperta del logos avvenuta attraverso l’eredità del mondo greco-latino: l’irreversibilità nella continuità porta a confrontarci con il concetto fondamentale, metacognitivo, della libertà dell’individuo, nella sua unicità e irripetibilità. All’interno della ritualità della festa per antonomasia, i giochi (da quelli degli arcieri e degli sbandieratori all’astiludio a cavallo) assumono un significato anch’esso estremamente rigoroso, sono anzi quanto di più serio gli uomini abbiano creato: non sono solo una anticipazione della vita come quelli che fanno i bambini, ma mezzi che permettono una lettura emotiva immediata dell’esistenza, nei suoi sensi e nei suoi significati, ne sublimano l’aggressività, ne esaltano l’appartenenza alla gens, ridefinendo nella faziosità le relazioni di attaccamento, ne connotano l’identità. La festa calendariale è testimone attendibile della complessità e dell’evoluzione dei giochi. Essi scandiscono alcuni dei momenti più significativi della festa e ridisegnano gli spazi urbani, per cui tutta la città diventa contenitore e protagonista dell’evento, concorrendo, come nel percorso dell’antico palio, dalla periferia, dalla porta gemina romana e da piazza S. Agostino verso piazza Arringo, dove si affacciano la cattedrale con l’Episcopio e gli edifici dell’Arengo e del Podestà. Questo contrappunto ricorda che la festa è un evento dinamico, è una macchina scenica teatrale, è una rappresentazione che mescola il sacro e il profano, nelle componenti che si aggiungono nei secoli per giustapposizione, in deroga ad ogni rigore filologico, perché le generazioni di tutti i secoli si incontrano, anno dopo anno, con il Patrono e con i valori che Egli incarna. Questa rappresentazione, sempre uguale e pure sempre diversa, trova un riscontro appropriato forse solo nella tradizione del presepio napoletano settecentesco: dove popolani, ambasciatori con il loro seguito, nobili e mezzi caratteri convivono e nel quale da allora nuove mode e nuovi personaggi si inseriscono senza essere mai del tutto fuori luogo63. Tutto diventa co-presente; le incongruenze storiche e geografiche, apparentemente contaminanti, si decantano nell’incontro con la sacralità dell’evento calendariale, che rimanda al natale dell’incarnazione divina e, attraverso essa, al natale dell’ascesa al cielo del santo martire patrono. Di nuovo, è l’incon-

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Sugli aspetti e sui significati antropologici del presepio napoletano si veda in M. Niola, Il presepe, Napoli 2005.


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tro tra l’eterno che si incarna e il continuo divenire degli uomini, con le loro mode, le loro esigenze, i gusti che cambiano: ma che comunque entrano nella festa, danno vita ai suoi cerimoniali e giocano, inconsapevolmente animandone nel disincanto il continuum. Per questo la Quintana è antica e moderna al tempo stesso. Per questo una filologia su costumi, personaggi ed eventi è sempre auspicabile ma mai realizzabile fino in fondo. Perché anche ad essa il contemporaneo avanza le sue richieste, chiede uno spazio, sia pure estemporaneo, mentre il gioco resta quello di sempre: vivo, acceso, fazioso, ma anche solenne, sacro, immutabile. Come la vita.

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Nello specifico di Ascoli, il contrappunto tra festa patronale di sant’Emidio e giochi tradizionali che ne connotano la ricorrenza consente di sottolineare alcuni punti focali. La Quintana odierna64, che ne rappresenta la celebrazione più celebre e popolare, vive di momenti e tempi diversi, che ricalcano il percorso rituale delle antiche celebrazioni cittadine, puntualmente descritte negli Statuti e nei documenti anzianali medioevali: il giuramento, la lettura del bando, la “mostra” del nuovo Palio e il corteo il giorno di s. Anna, in coincidenza con l’apertura delle feste patronali; le gare degli sbandieratori e degli arcieri; le feste nelle taverne di sestiere; la cerimonia dell’offerta del cero grosso del Comune e dei ceri delle corporazioni al vescovo; la benedizione dei cavalieri da parte del vescovo e il sorteggio dell’ordine di assalto al saracino, la sera della vigilia della giostra; infine, il corteo storico al completo negli splendidi e curati costumi d’epoca (alcuni dei quali ispirati agli abiti dei dipinti del Maestro di Offida o di Carlo Crivelli) e la giostra al campo, la prima domenica di agosto. Dunque, oggi come ieri, la città vive dentro e fuori la sua manifestazione: dal vescovo e dal capitolo della cattedrale al sindaco e alle massime autorità locali, fino al più giovane dei sestieranti che già bambino comincia a crescere con la Quintana nel sangue. Accostarsi alla Quintana, nei suoi complessi cerimoniali, è immergersi in una ritualizzazione della vita pubblica di cui la festa rappresenta un elemento simbolico centrale, una sorta di chiave di lettura immediata, che solo in una città autenticamente “storica” diventa leggibile e, dunque, anche credibile e condivisibile.

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B. Nardi, Quintana. Sito internet ufficiale multilingua del Comune di Ascoli Piceno (2003), www.comune.ascoli-piceno.it/quintana/index.htm


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Nei suoi spazi maggiori (la piazza “pubblica” dell’Arengo; l’incomparabile bellezza di piazza del Popolo, da secoli armonioso “salotto” di vita cittadina; la «piazza de socto», intitolata a Ventidio Basso, da cui muove ogni anno il corteo storico) e nei suoi spazi minori (le piazzette rionali e la trama di vie e rue, di chiese, case e torri), la tipologia urbanistica ascolana, chiusa dalla cerchia delle mura ma, attraverso le porte, aperta e attenta alle terre ed ai castelli del comitato territoriale, si presta all’organizzazione dell’apparato scenico che fa da riferimento alla festa ed ai relativi cerimoniali: addobbi, luminarie, musiche e, come segno d’impatto immediato, i colori: quelli dei drappi, dei gonfaloni, delle bandiere e dei costumi di sestiere, quelli del Palio. Oltre al fascino che riesce a trasmettere anche a chi vi si accosta digiuno di conoscenze specifiche e alla passione che accende la gara, la Quintana è dunque espressione complessa e composita di elementi ludico-rituali diversi, che trovano l’elemento unificante nella festa patronale di s. Emidio. Essa torna a rivivere ogni anno in uno spazio umano e monumentale, nella civitas dei suoi abitanti e nell’urbs storico-architettonica, in cui persone e pietre sono attori allo stesso modo e ridefiniscono reciprocamente un’identità che appare una sorta di monade irriducibile. Così il fascino della manifestazione è nel suo saper essere magicamente antica e moderna: attuale e palpitante nel gioco che si fa cronaca, passione, animosità, sport; antica nel suo ricollegarsi ad una tradizione secolare, nel suo sapersi specchiare nei monumenti di uno dei più bei centri storici italiani. La Quintana rinasce e irrompe nel tempo ordinario dalle notti del medioevo, quando la festa di s. Emidio era celebrata «con solempnità de jochi et de balli, alegramente». Alegramente, appunto: non inconsapevolmente, incoscientemente, ma con la fierezza e la consapevolezza di una civiltà che ha saputo esprimere valori umani, culturali ed artistici davvero unici. La festa – in particolare quella calendariale dedicata al Santo Patrono, di cui la memoria di sant’Emidio in Ascoli è esempio paradigmatico – appare dunque come una universitas, in cui varie radici e varie componenti, come la mistica cristiana, lo spirito cavalleresco, il bisogno di ritualità e quello antitetico di libertà e trasgressione confluiscono in un amalgama sostanzialmente unitario e coerente. In questa universitas, dunque, come in un complesso ordito sinfonico, il contrappunto tra uomini e pietre, tra civitas e urbs, tra effimero e duraturo (il travertino-mana) rende questi elementi co-protagonisti e mutuamente, reciprocamente necessari, in un caleidoscopico fondersi di attualità e consuetudine, tradizione e invenzione, rigore e commistione, ritualità e sfrenatezza.


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All’interno di una secolare tradizione, viva in quanto capace autoreferenzialmente di mantenersi pur rinnovandosi, gli eventi della festa calendariale per antonomasia sembrano configurarsi in una apparentemente paradossale antitesi: quella di essere sempre nuovi eppure sempre gli stessi. Questi aspetti simbolici, espressione della identità dei singoli, ma anche di quella della collettività che in essi si riconosce, è la matrice della impossibile armonia tra antico e nuovo. Il gioco storico, rimandando ad una concezione ciclica del tempo, non è replica, non è novità decontestualizzata, ma è un rinnovarsi in cui antico e moderno, immanente e trascendente si fondono; da questa fusione nasce l’armonia di una città composita ma unitaria, la civitas dei cives e l’urbs monumentale, in cui nuovi attori prendono il posto di quelli antichi, ma si pongono in continuità con e tra loro attraverso la continuità delle pietre mana. È in questo impercettibile, invisibile filo il senso dell’identità: la riscoperta dell’io più autentico, che è un io irreversibilmente e discriminatamente individuale ma, al tempo stesso, è anche un io coralmente e culturalmente collettivo.


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Nella ritualità degli incontri tra sovrani nel Medioevo, il consumo in comune di un pasto costituiva un momento rilevante. Pur non avendo, naturalmente, un ruolo determinante, feste e banchetti costituivano importanti occasioni di sociabilità a latere di incontri legati allo svolgimento di trattative diplomatiche o alla conclusione di un accordo1. La loro importanza scaturiva dalla funzione legata all’occasione di trovare un accordo o arrivare ad una mediazione, scongiurando un conflitto o persino arrivando ad una soluzione dello stesso. Le spese sostenute per un banchetto costituivano spesso la voce più rilevante nei costi organizzativi di un incontro tra sovrani, superando le spese per regali, abiti o altri oggetti d’arte. Anche quando l’occasione non coincideva con un evento di grande portata, i banchetti assumevano comunque una funzione centrale. Anche solo il grande impegno finanziario, organizzativo e logistico lascia intendere il rilievo che avevano. Feste e celebrazioni accompagnavano e completavano gli incontri tra i sovrani e potevano essere interpretate come indicatori dell’atmosfera e dei rapporti politici. Solo in situazioni eccezionali i sovrani non partecipavano alla tavola comune, con un atto che sul piano simbolico significava un dissenso politico e personale profondo. L’importanza dei momenti conviviali nel medioevo e la composizione estetica delle feste come atti rilevanti sul piano socio-politico erano già

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Sugli incontri fra sovrani cfr. I. Voss, Herrschertreffen im frühen und hohen Mittelalter. Untersuchungen zu den ostfränkischen und westfränkischen Herrschern im 9. und 10. Jahrhundert sowie der deutschen und französischen Könige vom 11. bis 13. Jahrhundert, Köln-Wien 1987; W. Kolb, Herrscherbegegnungen im Mittelalter, Bern u.a. 1988; Ph. Contamine, Les rencontres au sommet dans la France de XVe siècle, in Im Spannungsfeld von Recht und Ritual. Soziale Kommunikation in Mittelalter und früher Neuzeit, cur. H. Duchhardt - G. Melville, Köln-Weimar-Wien 1997, pp. 273-289; G. Schwedler, Herrschertreffen des Spätmittelalters. Formen – Rituale – Wirkungen, Ostfildern 2008.


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state riconosciute in studi risalenti ai primi del Novecento. Nel 1919, Jan Huizinga sottolineava come per l’uomo medievale tutte le azioni e i tutti i momenti della vita compresi tra la nascita e la morte, e dunque anche i momenti conviviali, erano soggetti ad una graduale regolamentazione, ad una codificazione simbolica2. Negli stessi anni, altri studiosi, come Kurt Enke, misero in evidenza la correlazione tra comportamento sociale e politica, dando avvio ad un fertile campo di ricerche sulle feste e gli spettacoli, concentrandosi non solo sul passaggio dalla festa cortese del tardo medioevo alla mise-en-scene dell’età rinascimentale e del barocco, ma anche individuando le forme e le funzioni delle feste medievali come sistema iconologico, rituale e estetico sui generis3. A questo proposito, il concetto di “ritualizzazione” proposto da Catherine Bell risulta illuminante. Durante le feste si manifestano egemonie sociali che possono essere rappresentate attraverso formule, regole, strutture stabili. La frequenza e la tradizione consolidata dei banchetti nella vita di corte faceva sì che questa “grammatica” cerimoniale divenisse familiare a coloro che vi partecipavano, che potevano così sviluppare una sensibilità relativamente alle diverse sfumature che assumevano le varie feste o celebrazioni: the sense of ritual4. Certamente questa non era la principale finalità sottesa all’organizzazione dei banchetti, ma l’aspetto politico è innegabile5. Al riguardo, la questione che ci proponiamo di approfondire è la seguente: in quale modo imperatori e re interpretavano banchetti e convivi come strumenti dell’organizzazione politica? Consideriamo in particolare il significato della festa e dello spettacolo in occasione di incontri tra sovrani nel tardo Medioevo in Europa occidentale. Per l’analisi utilizziamo esempi compresi tra il 1250 e il 1450, un periodo in cui gli incontri tra sovrani sembrano verificarsi con maggiore fre2

J. Huizinga, Herbst des Mittelalters, Stuttgart 197511, p. 368, ed. or. Herfsttij der middeleeuwen, 1919; K. Enke, Deutsche höfische Festlichkeiten um die Wende des 15. Jahrhunderts, München 1924. 3 Non è questa la sede in cui approfondire l’argomento. Mi limito a segnalare il recente M. Maurer, Feste und Feiern als historischer Forschungsgegenstand, «Historische Zeitschrift», 253 (1991), pp. 101-130. Vedi inoltre W. Haug, Das Fest. Politik und Hermeneutik, München 1989; J. Heers, Fêtes, jeux et joutes dans les sociétés d’Occident à la fin du Moyen Âge, München 19822. 4 C. Bell, Ritual Theory, Ritual Practice, New York-Oxford 1992; C. Bell, Ritual. Perspectives and Dimensions, New York-Oxford 1997, pp. 80-83. 5 M. Tangheroni, Le feste come strumento di governo. A proposito del dogato di Giovanni dell’Agnello a Pisa e a Lucca (1364-1368), in Cultures et civilisations médiévales XI. Villes et sociétés urbaines au moyen âge. Hommage à M. le Professeur Jacques Heers, cur. M.T. Caron, Paris 1994, pp. 33-44.


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quenza rispetto ai secoli precedenti o successivi6. Il circolo dei monarchi include imperatori romani e i re di Francia, Inghilterra, Aragona, Castiglia, Maiorca, Sicilia, Ungheria, Boemia e Polonia. Dalle cronache, dagli annali o dai resoconti risulta che nel periodo di tempo considerato si tennero oltre duecento incontri tra teste coronate7. La gran quantità di esempi di convivi reali in Europa occidentale è dovuta essenzialmente ai dettagliati resoconti conservati8. D’altra parte gli incontri dei re di Polonia, Boemia e Ungheria avvenivano generalmente in contesti meno sfarzosi e per questo motivo non abbiamo molte testimonianze. Fanno eccezione il congresso di Wysherad tenutosi nel 1335 con tre re9, ed il congresso di Cracovia nell’anno 1364, organizzato con un notevole sforzo economico e al quale presero parte in qualità di ospiti tre re e l’imperatore Carlo IV10. Come avvenivano in concreto, dunque, i convivi a cui partecipavano due o più sovrani? Si poteva trattare di un pasto semplice, consumato entro una cerchia ristretta di principi e nobili, oppure di un grande banchetto di stato con migliaia di ospiti. In occasioni come la stipula di una pace, una tipologia di incontro durante il quale sarebbe stato poco pratico celebrare un vero banchetto, ci si limitava a qualcosa di simbolico. Così accadde, ad esempio, nell’incontro tra Carlo VI di Francia e Riccardo II d’Inghilterra il 27 ottobre 1396, in una regione di confine fra i possedimenti inglesi di Calais e il territorio francese. Il momento era critico. Si era in una fase delicata della Guerra dei Cento Anni e si trattava di firmare una pace tra i due sovrani. Dopo settimane di preparativi, l’incontro venne fissato. Duecento cavalieri per ciascuna parte si disposero in cerchio, con al centro i due re. Al momento del primo saluto tra i due, sancito dal bacio cerimoniale, i cavalieri si inginocchiarono e i principali nobili presenti, i

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Cfr. Schwedler, Herrschertreffen cit. Ibid., con 204 esempi di incontri tra monarchi. Straordinamente documentato è l’incontro fra l’imperatore Carlo IV e Carlo V di Francia, Chronique des règnes de Jean II et de Charles V, ed. R. Delachenal, 2, Paris 1910, pp. 193-277; [Ein zeitgenössisches] Memorandum zum Staatsbesuch Kaiser Karls IV. in Paris, ed. H. Thomas, in Zwischen Saar und Mosel. Festschrift für Hans-Walter Herrmann zum 65. Geburtstag, cur. W. Haubrichs - W. Laufer - R. Schneider, Saarbrücken 1995 (Veröffentlichungen der Kommission für Saarländische Landesgeschichte und Volksforschung, 24), pp. 99119. 9 J. Leniek, Kongres Wyszegradzki w roku 1335, «Przewodnik Naukowy i Literacki», 12 (1884), pp. 264-271, 356-360; J. Spìváèek, Jan Lucemburský a jeho doba 1296-1346, Praha 1994, pp. 523 ss.; S. Szczur, Zjazd wyszehradzki z 1335 roku, «Roczniki Historyczne», 35 (1992), pp. 3-18. 10 S. Szczur, Krakowski zijad monarchów w 1364 roku, «Roczniki Historyczne», 64 (1998), pp. 34-58; R. Grodecki, Kongres Krakowski w roku 1364, Krakow 1938.


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duchi di Gloucester e Lancaster per la parte inglese e i duchi di Berry e di Borgogna per quella francese, portarono vino ed espices, qualcosa di dolce da mangiare11. In quel momento, consumare del cibo non aveva alcuna funzione pratica, ma costituiva una sorta di cornice simbolica ad un incontro finalizzato alla stipula di una pace, conferendo all’evento un significato religioso e rievocando l’atto centrale della liturgia cristiana: il pasto comune. L’assunzione di cibo era quindi un atto simbolico svolto sotto lo sguardo di quattrocento cavalieri in ginocchio12. Erano poi frequenti banchetti più ricchi e dispendiosi, imbanditi per i sovrani ed il loro seguito. Nel corso degli incontri, ci si accordava spesso per ricambiare l’ospitalità, accollandosi le rispettive, cospicue, spese e affermando la parità di rango13. Nelle occasioni in cui era in gioco l’equilibrio politico era abituale scambiarsi inviti14. Era dunque necessario, per i sovrani, portare con sé per gli incontri il personale adeguato e le attrezzature da cucina. Così, per il suo viaggio a Parigi nel maggio 1286, Edoardo I d’Inghilterra partì con otto navi e, durante il soggiorno in Francia, s’indebitò per 4.000 lire con banchieri italiani15. Per capire quanto i costi organizzativi incidessero rispetto ad altre spese basta ricordare l’incontro tra l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo e il re di Francia Carlo V. L’imperatore risedette a Parigi, insieme al figlio Venceslao e con un seguito di quasi sessanta persone, per quasi due settimane a spese del re di Francia. Le spese per i banchetti, i regali, le nuove uniformi, ammontarono, per la corona francese, a 60.000 franchi. Una cifra sufficiente a finanziare una campagna militare di circa tre mesi. Se si conside-

11 Jean Juvénal des Ursins, Histoire de Charles VI, Roy de France, edd. J.F. Michaud J.Poujoulat, Lyon-Paris 1857 (Nouvelle collection des mémoires pour servir à l’histoire de France, depuis le XIIIe siècle jusqu’à la fin du XVIIIe, 2), pp. 335-569: 405: «Et quand ils y furent, ils se baiserent et salverent l’un l’autre, en bonne amour paix et dilection, et lors on demanda les espices et le vin. Et servirent les ducs de Berry et de Bourgogne, et les ducs de Lancastre et de Colcestre». 12 Chronique du Réligieux de Saint-Denys contenant le règne de Charles VI de 1380 à 1422, ed. L. Bellaguet, II, Paris 1839-1852 (rist. Paris 1994), pp. 460-472. 13 Vedi per esempio l’episodio di Edoardo I e Alfonso III di Aragona a Oleron (1287): «[…] e un jorn menjava lo senyor re d’Arago ab lo rei d’Angleterra e altre dia lo rei d’Angleterra ab lo rei d’Aragon», Crònaca de Ramon Muntaner, in Les quatre grans cròniques, ed. F. Soldevila, Barcelona 1971, cap. 168, p. 818. 14 Bretigny (1360): «Et tous les jours donnoient li doy roy l’un l’autre à disner», Jean Froissart, Oevres, ed. J.M.B.C. Kervyn de Lettenhove, VI, Brussels 1867-1877, p. 301. 15 Records of the wardrobe and Household 1285-1286, edd. B.F. Byerly - C.R. Byerly, London 1977, n. 46, 51-55, 60, 65, 137, 140; M. Prestwich, Edward I, Berkeley-Los Angeles 1988, p. 323.


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rano le spese della corona francese per l’anno 1363, un anno ampiamente documentato, questa somma corrisponde ad un quinto delle spese totali16. Spesso si hanno indicazioni solo su chi sosteneva le spese nel loro complesso17. Talvolta anche le spese non irrilevanti venivano accollate ad altre istituzioni e personalità. Per questo ai banchetti potevano partecipare anche individui che, pur non essendo sovrani, potevano farsi carico di una parte delle spese e consolidare il loro rango. Così si trovano in prima linea parenti dei reali o principi di alto rango che si potevano far carico di un banchetto reale18. Anche persone borghesi potevano arrivare ad organizzare un banchetto in onore dei monarchi. John Stow narra come il Lord Mayor di Londra avesse invitato i re di Inghilterra, Cipro e Scozia19. Anche un cittadino di alto rango come Nikolaus Wierzinek aveva potuto ospitare tre re e un imperatore nel 136420. Le occasioni conviviali avevano inoltre una funzione di integrazione che si può cogliere, in negativo, qualora un sovrano si fosse rifiutato di prendere parte a un banchetto. Ma ciò accadeva raramente, dal momento che quel gesto sarebbe risultato senza dubbio scandaloso ed offensivo, non privo di qualche seria conseguenza. Così, ad esempio, quando Pietro III d’Aragona rifiutò, nel gennaio 1281, di partecipare ad un banchetto a Tolosa. Neppure l’intervento personale di Filippo III di Francia e di Giacomo II di Maiorca valse a persuadere il re aragonese a rivolgere la parola e condividere la tavola con il figlio di Carlo d’Angiò, re di Sicilia. Il conflitto nell’isola impedì la consumazione di un pasto comune e, nonostante la stretta parentela tra le due dinastie, Pietro non volle accettare l’invito e i rapporti si interruppero senza altre spiegazioni21.

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F. Šmahel, Cesta Karla IV. do Francie, Praha 2006, pp. 355-359 e 362 ss. Heinrich von Diessenhoven, 1316-1361, in Heinricus de Diessenhoven und andere Geschichtsquellen Deutschlands im späteren Mittelalter, ed. A. Huber, Stuttgart 1868 (Fontes rerum Germanicarum, 4), p. 55: Ludovico IV invitava Ludovico I di Ungheria e Albrecht di Habsburg a Vienna. 18 1313: Vita Clementis V, in Vitae paparum Avenionensium, edd. E. Baluze - G. Mollat, 1, Paris 1916, pp. 21 ss.; 1378: Chronique des règnes cit., 1, pp. 320 ss. 19 J. Stow, Survey of London, ed. R. Morley, Stroud 1994, p. 131: «Henry Picard, vintner, mayor 1357, in the year 1363, did in one day sumptuously feast Edward III, King of England, John, King of France, David, King of the Scots, the King of Cyprus, them all in England, Edward, Prince of Wales, with many other noblemen, and after kept his hall for all comers that were willing to play at dice and hazard». 20 Joannes Dlugossus, Annales, seu Cronicae incliti Regni Poloniae, edd. J. D¹browski et alii, Varsaviae 1978, lib. 9, pp. 516 ss. 21 «Si que lo rei de França e lo rei de Mallorca preseren un dia en la cambra el senyor


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Inoltre, era possibile rinunciare diplomaticamente ad un banchetto anche adducendo motivi di salute. Un episodio eccezionale, relativamente alle scuse addotte per non intervenire ad un banchetto, viene narrato da Michel Pintoin, che riferisce come nel 1398, in occasione dell’incontro di Reims tra Carlo VI di Francia e il re tedesco Venceslao, quando i duchi di Berry e di Borbone si recarono presso l’alloggio di quest’ultimo, lo trovarono “troppo ubriaco” per potere presenziare al banchetto di stato del re francese. I duchi, dunque, ripartirono a cavallo senza poter ottenere nulla, e il pranzo venne rimandato al giorno seguente. Si può anche supporre che questa versione fosse frutto di un’elaborazione francese, ma d’altra parte Venceslao era famoso per questo genere di episodi e già all’epoca circolavano racconti leggendari sul suo conto22. D’altro canto, il racconto di Pintoin non ha altri testimoni, sicché non possiamo sapere se si trattò di una scusa diplomatica per rinviare un banchetto che Carlo VI dovette poi annullare, costretto dalla sua depressione a lasciare Reims frettolosamente prima della conclusione delle trattative con Venceslao23. Realizzare un banchetto di stato con due o più teste coronate rappresentava una sfida particolare non solo per quanto concerneva le spese e l’organizzazione logistica, ma anche riguardo all’ostentazione delle gerarchie del potere. Un ruolo importante era svolto dai principi di integrazione e distinzione, funzionali alla definizione simbolica dei ranghi attraverso l’ordine d’ingresso, la disposizione attorno al tavolo, la precedenza nell’essere servito, etc. Il carattere formale di queste occasioni prevedeva comportamenti rigidamente codificati, distinti da quelli tenuti - dal re e dai sudditi - in occasione delle feste ricorrenti o periodiche. Anche presso le corti estere esistevano cerimoniali precisi. Se si considera che si trattava di un atto ritualizzato, funzionale alla definizione di gerarchie sociali consapevoli o inconsapevoli, si comprende come cerimonie significativamente diverse potessero comportare il rifiuto di partecipare. Determinati elementi o azioni, intesi

rei d’Aragon e li digueren com podia ésser que ell no parlava ab lo príncepque ben sabia ell que son parent era ben carnal, així com aquell qui era fill de sa cosina filla del comte de Proença, e d’altra part que havia per muller sa parenta carnal filla del rei d’Hongaria; e així que molts deutes hi havia. Sí que finalment ab ell no pogueren res acabar. Sí que el príncep convidá lo rei de França, e el rei En Pere e el rei de Mallorca; e anc el rei En Pere no ho volc pendre, per que lo convit hac a cessar», Crònaca de Ramon Muntaner cit., cap. 38, pp. 699 ss. 22 T. Kraus, König Wenzel auf der Reise nach Reims und die Hoffnungen König Richards II. von England auf die römisch-deutsche Krone 1397/98, «Deutsches Archiv», 52 (1996), pp. 599-615. 23 Chronique du Réligieux de Saint-Denys cit., 2, pp. 568 ss.


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come “lessico” o “grammatica” del linguaggio cerimoniale, dovevano essere adeguati alle situazioni specifiche. Modi e maniere relativi alla sistemazione, ai comportamenti e all’esborso finanziario dovevano rappresentare ed essere percepite non solo nel rapporto diretto tra monarchi, ma anche in relazione a duchi, conti e altri nobili. La corte e i principi più importanti venivano presentati all’ospite reale, che a sua volta presentava il suo seguito. Risulta dunque evidente come in un banchetto di stato la disposizione attorno alla tavola avesse un significato davvero rilevante, e che proprio in base a questa disposizione si deducessero le diverse sfumature nei ranghi, nelle funzioni, nelle dignità o anche in merito alla parentela o alla provenienza. Si doveva comunque evitare di suscitare il risentimento di un invitato collocandolo in una posizione che ne sminuisse il rango. Prendiamo ad esempio il banchetto del 6 gennaio 1378. Nel giorno dell’Epifania, l’imperatore Carlo IV e re Venceslao di Boemia si sedettero attorno ad un tavolo di marmo nella sala grande del palazzo della Cité24. Erano in compagnia dell’arcivescovo di Reims, Richard Picque, seduto alla destra dell’imperatore, mentre i vescovi di Brandeburgo, Parigi e Beauvais sedevano alla sinistra di Venceslao25. Dell’episodio è rimasta anche una rappresentazione nelle Grandes Chroniques de France, oggi cod. Paris BNF 231826. Al secondo tavolo sedevano, nell’ordine, il duca di Sassonia, l’erede al trono di Francia Carlo di Valois, il duca di Berry, il duca di Brabant, il duca di Borgogna, il figlio del re di Navarra, il duca di Bar, il duca di Brieg ed il cancelliere imperiale Nicola di Riesenburg. Altri ottocento cavalieri, secondo le indicazioni degli Araldi, si sedettero alle altre tavole della sala con par belle et bonne ordenace, senza alcun ulteriore indizio relativo al significato del loro posizionamento27. Era, dunque, sul tavolo di marmo, a cui sedevano solo persone consacrate, di rango regio o appartenenti alle alte gerarchie della Chiesa, che si concentrava l’attenzione cerimoniale.

24

La visita di Carlo IV è ampiamente documentata: ibid., pp. 193-277, traduzione in tedesco: J. Ritter von Rittersberg, Kaiser Karl IV und seines Sohnes König Wenzel Reise nach Paris in den Jahren 1377 und 1378, «Monatsschrift der Gesellschaft des vaterländischen Museums in Böhmen», 2 (1828), pp. 201-224 e 313-339. Per la tavola di marmo: M. Whiteley, Ceremony and Space in the châteaux de Charles V, King of France, pp. 178-197. 25 Arcivescovo di Reims, Charles IV, Charles V, Venceslao, Vescovo di Ermland (Heinrich III Sorbom), Vescovo di Paris (Aimery de Magnac), Vescovo di Beauvais (Milon de Dormans). Chronique des règnes cit., 1, pp. 235-238; Memorandum zum Staatsbesuch cit., pp. 111-113; cfr. Chronique des règnes cit., 5, pp. 95-99. 26 J. Fouquet, Die Bilder der Grandes Chroniques de France, Graz 1987; Šmahel, Cesta Karla IV. cit., pp. 230-235. 27 Chronique des règnes cit., 1, pp. 236-238; cf.: Šmahel, Cesta Karla IV. cit., pp. 304-314.


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Un altro aspetto significativo dei banchetti può essere colto nella distinzione tra i re e i principi. A tale scopo, in specifici momenti del banchetto erano i nobili principali ad incaricarsi direttamente del servizio al re. Al banchetto di stato del 6 gennaio 1378 venne anche introdotta una servitù simbolica. Al termine del pranzo, il duca di Berry e il duca di Brabant offrirono all’imperatore un dessert e il vino; i duchi di Borgogna e di Borbone servirono il re di Francia nello stesso modo28. L’autore delle Grandes Chroniques sottolinea come ciò non avvenisse in base ad una specifica tradizione, ma per ordine diretto del re, «par le commandement du Roy»29. E tuttavia, questo servizio reso da principi presenta una qualche analogia con il pasto per l’incoronazione tipico della tradizione tedesca. Nel dicembre 1356, a Metz, alla presenza del futuro re di Francia, Carlo V di Valois, Carlo IV di Lussemburgo mise in atto questo cerimoniale, che da allora entrò a far parte delle prescrizioni della Bolla d’Oro30. Questo servizio simbolico aveva la doppia funzione di consacrare, da un lato, l’incontestata preminenza del sovrano, mentre dall’altro indicava la prossimità dei principi allo stesso re, che in questo modo accordava loro un privilegio carico di significato per la costituzione dell’impero. Il servizio simbolico ed il diritto di elezione dell’imperatore erano, infatti, strettamente legati, ed anzi, questo atto rappresenta una delle spiegazioni dello sviluppo del diritto di elezione, esclusivo dei principi elettori di Germania. Non solo il rango dei nobili servitori, ma anche l’ordine seguito nel servire poteva essere utilizzato per ostentare forme di egemonia, così come le intende Pierre Bourdieu31. Ancora nel banchetto del 6 gennaio 1378, Venceslao di Boemia venne servito solo dopo l’imperatore ed il re di Francia, e solo da un conte e un cavaliere, pur se anche lui portava due corone, quella del regnum di Germania e quella del regnum di Boemia. La parte centrale del banchetto consisteva ovviamente nel pranzo, durante il quale si servivano pietanze prelibate. Anche questo rappresentava un indizio molto rilevante, significativo della considerazione di ospiti e ospitanti. Un segno del grande interesse che si nutriva per questo dettaglio anche lontano dalla comunità dei banchettanti viene dalla divulgazione di

28 29 30

Chronique des règnes cit., 1, p. 243. Ibid. Sul servizio ai delfini di Francia Chronographia Regum Francorum, ed. H. Moranvillé, II, Paris 1891-1897, p. 263; Regesta Imperii VIII, nn. 2555a, 2555b, 2572, 2573a, nn. 2581 ss.; cfr. F. Autrand, Charles V le Sage, Paris 1994, pp. 259-262; E. Werunsky, Geschichte Kaiser Karls IV. und seiner Zeit, III, Innsbruck 1892, pp. 150-152, 154 ss., 167-171. 31 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna 2006.


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memoranda relativi alle pietanze consumate e il loro inserimento in cronache32. La descrizione del pasto di Parigi tra Carlo V e Carlo IV giunse fino a Metz33. Anche la scelta delle pietanze poteva avere - ed in genere aveva - un preciso ruolo simbolico. Così il 5 gennaio 1378, il primo pranzo di saluto si aprì con una zuppa tedesca, «un broet d’Alemaigne»34. Solo dopo gli ospiti tedeschi vennero stupiti - secondo la descrizione del cronista - con pietanze francesi. Certo le specificità culinarie delle tradizioni locali dovevano avere minore importanza rispetto alla rarità, al pregio e al gusto di alcuni ingredienti35. Spesso nell’intenzione di attribuire un significato alle pietanze entrava il valore simbolico attribuito nelle abitudini di corte e le considerazioni dietologiche o teoriche dell’ordine con cui servire le pietanze36. Sappiamo, in particolare, di dolci e dessert carichi di valore simbolico nel banchetto del 1416 a cui intervennero Sigismund di Lussemburgo e Enrico V d’Inghilterra. Le tre subtleties erano formate da un impasto di zucchero, miele e gelatina37: vi si rappresentava S. Giorgio nell’atto di ricevere le sue armi dalla Vergine Maria; S. Giorgio nella battaglia col dragone; S. Giorgio entrando con un anello in un castello insieme ad una principessa, significando la pace fra Inghilterra e Francia38. Il significato attribuito dal cronista non ci pare, tuttavia, così evidente39. La disponibilità stagionale o le regole delle festività religiose influenzavano la scelta dei generi alimentari. Così ad esempio durante l’incontro di

32 Memorandum zum Staatsbesuch cit., pp. 116-118. 33 Die Metzer Chronik des Jaique Dex über die Kaiser und Könige aus dem Luxemburger

Hause, ed. G. Wolfram, Metz 1906 (Quellen zur lothringischen Geschichte, 4), p. 313. 34 Memorandum zum Staatsbesuch cit., pp. 116-119. 35 Così anche nel XIV secolo: J.-L. Flandrin, Internacionalisme, nacionalisme et régionalisme dans la cuisine des XIVe et XVe siècle, in Manger et boire au Moyen Âge. Actes du colloque de Nice (15-17 octobre 1982), 2, Cuisine, manières de table, régimes alimentaires, Paris 1984 (Publications de la Faculté des Lettres et Sciences humaines de Nice, 28), pp. 75-91. 36 J.-L. Flandrin, Brouets, potages et bouillons, «Médiévales», 5 (1983), pp. 5-14; J.-L. Flandrin, Fêtes gourmandes au Moyen Âge, Paris 1998; J.-L. Flandrin, L’ordre de succesion de mets au XVIIe et XVIIIe siècles, in Mahl und Repräsentation. Der Kult ums Essen. Beiträge des internationalen Symposions in Salzburg, 29. April bis 1. Mai 1999, cur. L. Kolmer - C. Rohr, Paderborn 20022, pp. 167-187: 167-169. 37 J. Stow, Three fifteenth-century Chronicles with historical Memoranda by John Stowe, the Antiquary, and contemporary Notes of Occurrences written by him in the Reign of Queen Elizabeth, ed. J. Gairdner, London 1880 (Camden Series NS, 28), p 55. 38 «The therde sotilte was a castell and Seint George and the kynges doughter ledyng the lambe in to the castell gate», ibid. 39 Binding, Art. “Agnus Dei 2. Ikonographie”, in Lexikon des Mittelalters, I, München 1977, coll. 215 ss.


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Venceslao e Carlo VI, per rispettare i precetti della Quaresima la carne venne sostituita con il pesce. Il cronista scrive che ogni giorno si consumavano dieci tonnellate di aringhe e ottocento carpe40. Su un altro piano, di maggiore forza espressiva rispetto a menù carichi di numerose portate, si ricorreva in alcuni casi a pantomime o brevi pieces teatrali, entre mets o tableau vivant, funzionali anche a comunicazioni politiche. Erano frequenti i soggetti religiosi, letterari o storici, rappresentati da persone in costume. Inoltre si potevano utilizzare statue o gruppi lignei, sovrastrutture e carri mascherati. Anche a questo proposito una testimonianza è offerta dal banchetto del 6 gennaio 1378. Durante il pasto venne rappresentata la pantomima della presa di Gerusalemme di Goffredo di Buglione, durante la prima crociata. Gerusalemme era rappresentata da una costruzione in legno lunga 24 e larga 12 piedi, davanti alla quale veniva spinta una imbarcazione in legno finemente decorata ed entro la quale si agitavano gli attori e addirittura veniva imitato il canto di un Muezzin. Goffredo di Buglione in qualità di nobile francese e di principe tedesco (duca di bassa Lorena) era la personalità politica giusta per una siffatta rappresentazione della virtù cavalleresca franco-tedesca41. Dalla sagoma di una nave, insieme a dodici cavalieri, Goffredo espugnava la fortezza di Gerusalemme. La rappresentazione consisteva in una lunga scena di battaglia, che si concludeva quando «i saraceni perdono la loro bandiera e i loro sette prodi per mano di Goffredo», secondo quanto riportato dall’Autore delle Grandes Chroniques. Si utilizzavano storie mitiche e memorie di guerra come sfondo per richiamare simbolicamente una comune appartenenza, un’affermazione politica rappresentata in una messinscena teatrale spettacolare. Al termine del banchetto erano talvolta previste danze, a cui partecipavano anche i sovrani42. Danze che, in modo più efficace rispetto al rigido cerimoniale del banchetto, offrivano maggiore possibilità di movimento e permettevano di sottolineare l’unità e la sintonia dei presenti, smorzando o dissimulando le tensioni43. Nelle rime di Oswald von Wolkenstein si rife-

40 Chronique du Réligieux de Saint-Denys cit., II, p. 569; Jean Froissart, Chroniques, ed.

J. M. B. C. Lettenhove, 16, Bruxelles 1867-1877, pp. 83-87. 41 G. Despy, Godefroid de Bouillion. Mythes et réalités, «Bulletin de la Classe des Lettres et des Sciences Morales et Politiques», 71 (1985), pp. 249-275: 272. 42 R. Braun - D. Gugerli, Macht des Tanzes – Tanz der Mächtigen. Hoffeste und Herrschaftszeremoniell 1550-1914, München 1993. 43 A. Descalzo, La música en la corte de Pedro IV el ceremonioso (1336-1387), «Acta historica et archaeologica mediaevalia», 11/12 (1990), pp. 401-419.


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risce come durante il banchetto di Sigismund di Lussemburgo e Ferdinando I di Aragona, nel settembre 1415, furono eseguiti canti da un gruppo di mori44. D’altra parte, proprio queste costose rappresentazioni, con i loro attori e le effimere strutture realizzate per la festa come nel caso della presa di Gerusalemme, potevano mettere in gioco la riuscita del banchetto, e dunque venivano separati dal vero e proprio pasto. Lo storico aragonese Ramon Muntaner ricorda l’incontro fra Giacomo I d’Aragona e Alfonso X “el Sabio” di Castiglia e descrive uno spettacolo con una battaglia navale45. Nel 1274, sotto un limpido cielo, galere e navi da guerra venivano sospinte dal vento. Le rappresentazioni scherzose delle battaglie anticipavano i tornei e le giostre con lance. Anche in occasione della conferma di un trattato di pace o di un armistizio venivano organizzati tornei campali. Nonostante i divieti della Chiesa, in particolar modo durante la Guerra dei Cent’Anni, succedeva che cavalieri inglesi e francesi organizzassero tornei. Come i banchetti, anche i tornei rivestivano una funzione rappresentativa. Il mettere in scena l´abilità in battaglia ed il valore faceva onore non solo al singolo cavaliere ma anche al sovrano. Non solo il numero delle lance rotte aveva un significato, ma anche il generale piacere di guardare dimostra il grande gusto per lo sfarzo e l’ostentazione dei monarchi che per lo meno vi prendevano parte come spettatori46. Durante l’incontro del re Albrecht von Habsburg con Filippo IV di Francia nel dicembre del 1299 si tenne un torneo campale nella zona di confine presso la Mosella. Ottokar von Steiermark riferisce che questo torneo era stato organizzato fin dall’inizio. Si erano incaricati i nobili partecipanti di comparire armati per il torneo a cavallo e a piedi47. Certo alcuni riportavano ferite48. I re non potevano combattere gli uni contro gli altri. Solo con l’inizio dell’età moderna si tenne un vero duello fra re. Francesco

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«Pfeiffen, trummen, saitenspiel, / die moren sumpern slügen, / dortzu ain volgk, gerichtet vil, / die türn und vesten trügen, / mit engeln, wolgezieret schon; / die sungen, klungen mangen don, / ir ieslicher besunder, / mit fremder stimme wunder». Oswald von Wolkenstein, Lieder, edd. K.K. Klein - W. Neiß - N. Wold, Tübingen 1962 (Altdeutsche Textbibliothek, 55), Nr. 18, V, pp. 54 ss. 45 Crònaca de Ramon Muntaner cit., cap. 23, p. 686. 46 Chronique des quatres premiers Valois, ed. S. Luce, Paris 1862, p. 25. 47 Ottokars Österreichische Reimchronik, ed. J. Seemüller, in M.G.H., Deutsche Chroniken, 5, Hannoverae 1890-1893, pp. 986, vv. 74790 ss. e 988, vv. 74943 ss. 48 Ibid, p. 991, v. 75190: «[…] dâvon fourt maniger dan / biule an dem houbt».


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I di Francia ed Enrico VIII d’Inghilterra nel 1520 si affrontarono a duello. Questi due re del Rinascimento si incontrarono nel Field of the Cloth of Gold, che non era molto lontano da dove un tempo i predecessori Riccardo II e Carlo VI avevano stipulato una pace. Enrico VIII perse il primo giro e gli fu rifiutata una rivincita49. Per il tardo medioevo, invece, non sono documentabili duelli diretti fra sovrani50. Meglio piuttosto una competizione a chi centra il bersaglio! Pietro III d’Aragona e Giacomo II di Maiorca lanciarono pugnali sulle arance. Ramon Muntaner riporta a questo riguardo: «Ognuno di loro lanciò tre pugnali su di una arancia e l’ultimo stiletto era grosso come una lancia»51. In conclusione, la festa era il centro di una solennità e, dunque, non si limitava alla sola funzione di svago, né era un puro capriccio dei potenti. Pur senza essere un atto sacro, le feste avevano una patina religiosa. Proprio come evento estetico e sociale potevano scatenare forze distensive e aggreganti all’interno di una sfera non quotidiana ed essere utilizzate per perseguire scopi politici. Anche se gli incontri si tenevano per motivi politici o familiari, il banchetto soddisfaceva la voglia di vedere e di ostentare, la curiosità per il non quotidiano e la spettacolarità. Ma è la rappresentazione delle strutture di potere egemoniche e della costellazione politica a dover essere vista come il fulcro delle feste di corte reali. La ritualizzazione dell’atto festivo talvolta faceva passare in secondo piano l’assunzione comunitaria del cibo. Analogamente al significato e alla tensione dell’occasione e quanto più alto era il vincolo del diritto, tanto più limitato rimaneva il margine di variazione nello svolgimento del banchetto. I banchetti accompagnavano, completavano e davano forma agli incontri fra sovrani e potevano essere considerati come importanti indicatori della stima e della benevolenza politica.

49 A. Sydney, Le Camp du drap d’or et les entrevues d’Henri VIII et de Charles V, in Fêtes et cérémonies au temps de Charles V, a cura di J. Jacquot, Paris 1960, pp. 113-135: 127. 50 L. Vones, Un mode de résolution des conflits au bas Moyen Age: le duel des princes, in La guerre, la violence et les gens au Moyen Âge, cur. Ph. Contamine - O. Guyotjeannin, 1, Paris 1996, pp. 321-332. 51 «Que cascun d’ells hi viu tirar jo; mas per cert, lo senyor rei En Pere e el senyor rei de Mallorca se ‘n llevaven la flor de tots quants ane n’hi viu tirar. E per tots temps hi hiraven cascun d’ells tres estils e una taronja; l’estil de rera era tan gros con una asta d’atzagaia; e tota hora los dos primers sobrepujaven gran cosa lo taulat per alt, que fos, e el darrer feria e’l taulat. E aprés hi féu e hi ordonà taula redona, e los hómens de mar seus feeren dos llenys armats fer, d’aquelles plates qui van per lo riu; en què veérets batalla de taronges, que del regne de Valéncia n’havien fetes venr ben cinquanta càregues», Crònaca de Ramon Muntaner cit., p. 810, cap. 155.


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Guardare o mettere pubblicamente in mostra erano due dei più importanti aspetti della rappresentazione pubblica della regalità. Jean Froissart, storico francese del Quattrocento, ha sottolineato il significato della visualizzazione nella sua descrizione del banchetto tenutosi dopo la ratifica del trattato di pace di Bretigny (1360). Il banchetto si rivelò così spettacolare che offrì un piacevole quadro agli spettatori, e fu un grand plaisance [pour] toutes gens au regarder52.

52 «Et étoient en reviaulx et récréations ensemble si ordonnement que grand plaisance prenoient toutes gens au regarder», Les chroniques de sire Jean Froissart: qui traitent des merveilleuses emprises, ed. J.A. Buchon, 1, Paris 1900, p. 441.


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Il “mondo a rovescio” costituisce un tema affascinante e molto ben rappresentato nel corso del medioevo e dell’età moderna. In questo contenitore si riversa un universo di simboli e di relazioni sociali, le quali spesso si contraddistinguono per il fatto di essere vissute in un clima di festa. Appartengono a questo tema i miti del paese di Cuccagna, delle fontaines de jouvence e dell’Isola dell’Eterna Giovinezza, che sono tutti mondi alla rovescia; le feste dei folli e il carnevale, che sono invece tempi alla rovescia, e ancora gli ioca monachorum, le beffe, i travestimenti, l’elevazione simbolica degli umili ai gradi più alti della gerarchia, le feste goliardiche degli studenti universitari1. Ma la festa, nel medioevo e in generale durante tutto l’antico regime, non è soltanto un gioco, nel modo in cui possiamo pensarlo oggi. La festa può essere, e spesso lo è davvero, anche un tempo crudele. E dunque appartengono al mondo all’incontrario anche gli charivari, cioè i chiassosi cortei di giovani che si svolgevano per colpire chi veniva giudicato al di fuori della comunità, in quanto conduceva stili di vita non conformi2; o il saccheggio delle residenze dei grandi, del doge, del papa, dei cardinali, che avveniva subito dopo la loro morte3, o ancora, la riduzione in stato di miseria di coloro che fino a un momento prima erano stati potenti, l’esposizio-

1 Si veda in generale J. Heers, Fêtes des fous et carnavals, Paris 1983, n. ediz. Paris 2007. 2 Le charivari. Actes de la table ronde organisée a Paris (25-27 avril 1977) par l’EHESS

et le CNRS, cur. J. Le Goff - J.-Cl. Schmitt, Paris 1981. 3 C. Ginzburg, Saccheggi rituali. Premesse a una ricerca in corso, «Quaderni storici», 65 (1987), pp. 615-636; vedi oggi A. Rehberg, “Sacrum enim opinantur, quicquid inde rapina auferunt”. Alcune osservazioni intorno ai ‘saccheggi rituali’ in seguito all’elezione di un nuovo papa, in Pompa Sacra. Lusso e cultura materiale alla corte papale nel Basso Medioevo (14201527). Giornata di studi, Istituto Storico Germanico di Roma, 15 febbraio 2007, in corso di stampa.


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ne al pubblico ludibrio dei devianti e dei perdenti, la loro raffigurazione pittorica in pose infamanti4, fino all’esecuzione delle condanne a morte di fronte al popolo. La morte, infatti, suscita risate, è parte della festa. Si pensi alle tricoteuses, alle popolane parigine che assistevano, lavorando all’uncinetto, alle esecuzioni durante la Rivoluzione francese, e che alzavano la testa ridendo di gioia e di rivincita a ogni testa che cadeva5. Soprattutto, la festa non è un divertimento disordinato. Essa, infatti, è un tempo liturgico, che si serve di rituali formalizzati: tutte le conferenze di questo convegno lo mettono bene in evidenza. Nel corso dei miei studi, mi sono avvicinato a questo tema percorrendo tre sentieri molto differenti, che si distendono lungo il medioevo, il che mi ha portato a formulare alcune considerazioni in forma non sistematica: considerazioni che mi permetto di proporre in questa sede. Nel mio primo sentiero di ricerca mi sono imbattuto in una singolare festa romana, le cosiddette laudes cornomannie6. In questa festa, attestata tra IX e XI secolo in una fonte di uso prevalentemente liturgico, si rinvengono molti elementi che appartengono al mondo rovesciato e al tema dell’inversione dei ruoli. Vi si trovano descritti gli arcipreti delle diaconie romane, potenti chierici cittadini, i quali si cimentano in un gioco di abilità di fronte al papa, sedendo al contrario sopra un asino e tentando di afferrare dei denari posti dentro un bacile che viene tenuto davanti all’animale. Accanto agli arcipreti c’è il loro mansionario, cioè il sacrestano, che danza agitando un lungo sonaglio di bronzo, che canta dei versi privi di significato e che ha la testa incoronata da una corona di fiori a forma di corna. I chierici, dunque, celebrano una liturgia divertente, nella quale irridono se stessi. Nel mio secondo percorso di ricerca, invece, mi sono interessato agli antipapi e alla sorte che hanno subito7. Gli antipapi sono dei perfetti rappresentanti del “mondo a rovescio”, e lo dimostra lo stesso prefisso “anti” che è stato apposto al loro titolo dalla parte avversa e vincitrice. Vi sono di-

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1979.

G. Ortalli, “Pingatur in Palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma

5 D. Godineau, Citoyennes Tricoteuses. Les femmes du peuple à Paris pendant la Révolution Française, Aix-en-Provence 1988; D. Godineau, Citoyennes, boutefeux et furies de guillotine, in De la violence et des femmes, cur. C. Dauphin - A. Farge, Paris 1997, pp. 33-49. 6 T. di Carpegna Falconieri, Gioco e liturgia nella Roma medievale (Dal Liber polipticus del canonico Benedetto, del secolo XII), «Ludica. Annali di storia e civilità del gioco», 3 (1997), pp. 51-64. 7 T. di Carpegna Falconieri, Soprannomi di antipapi nel secolo XII, «Rivista italiana di onomastica», 8/1 (2002), pp. 161-163.


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verse testimonianze del fatto che gli antipapi, una volta ridotti in stato di cattività, siano stati i protagonisti, in un clima di spietata festa popolare, del rituale del rovesciamento del loro potere. Si tratta della “umiliazione rituale” del papa scismatico e del capo perdente, che una volta catturato, viene posto sopra un somaro, oppure dietro un cavallo (a Burdino toccò montare su un cammello), con le mani legate sotto la coda dell’animale8. Questa processione è una parodia e un’inversione della cerimonia del “possesso” pontificio, cioè della cavalcata trionfale del nuovo papa9. Come il papa prende possesso della città cavalcando tra il Vaticano e il Laterano, così l’antipapa perde ogni traccia della sua autorità e sacralità cavalcando un animale al contrario. E come il papa, nel momento dell’elezione, assume un nuovo nome, così agli antipapi vengono assegnati, soprattutto tra XI e XII secolo, nomi e soprannomi ingiuriosi, cosicché anche il rito della mutatio nominis trova il suo equivalente contrario: ricordiamo Benedetto IX, detto Minchio, Gregorio VIII, detto Burdinus, cioè Somarello, Vittore IV Carnicorvus, cioè Carogna, e Vittore V Dismantacompagnus, cioè, letteralmente, colui che ha levato il manto pontificio dal suo collega cardinale, quello che è stato eletto papa legittimo. Infine, il terzo percorso di ricerca mi ha portato nel Trecento, a ragionare sulle figure emblematiche di Cola di Rienzo e del cosiddetto “re Giannino”10. Cola di Rienzo, innamorato di Roma antica e intenzionato a riportarla alla sua antica grandezza, cadde dalle altezze vertiginose del suo miraggio e fu linciato dal popolo. In un primo momento, al tempo della

8 Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire, ed. L. Duchesne, II, Paris 1955 (rist. anast. 1981), p. 252: Pietro prefetto di Roma, esposto al ludibrio da papa Giovanni XII; p. 323 e p. 326 nota 23: l’antipapa Gregorio VIII-Burdino, esposto al ludibrio da papa Gelasio II. 9 A. Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII, Roma 1996, pp. 18-25. 10 T. di Carpegna Falconieri, Cola di Rienzo, presentazione di G. Arnaldi, Roma 2002; T. di Carpegna Falconieri, L’uomo che si credeva re di Francia. Una storia medievale, Roma-Bari 2005, 20052; T. di Carpegna Falconieri, Il mercante che si credeva re, «Medio Evo. Un passato da riscoprire», 101, giugno 2005, pp. 70-74; T. di Carpegna Falconieri, Il carisma nel medioevo: una considerazione e due casi di studio (Cola di Rienzo e «re Giannino»), in Il carisma nel secolo XI. Genesi, forme e dinamiche istituzionali. Atti del convegno (Fonte Avellana, 29-30 agosto 2005), Negarine di S. Pietro in Cariano 2006, pp. 219-242; T. di Carpegna Falconieri, Rappresentazione del potere e sistemi onomastici. Il caso di Cola di Rienzo, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, cur. A. Mazzon, Roma 2008 (Nuovi Studi storici, 76); T. di Carpegna Falconieri, Giannino “roi de France” et Louis le Grand: un cas de diplomatie imaginaire, in Diplomacy in the countries of the Angevin dynasty in the thirteenth-fourteenth centuries – La diplomatie des États Angevins au XIIIe et XIVe siècles. Atti del convegno internazionale, Szeged-Visegrad-Budapest, 13-16 settembre 2007, Budapest, in corso di stampa.


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sua caduta nel dicembre 1347, fu linciato solo simbolicamente, perché era riuscito a fuggire. Cola di Rienzo fu raffigurato sul muro di Campidoglio, «collo capo de sotto e colli piedi de sopra a muodo de cavalieri»11. La seconda volta, invece, l’antico tribuno fu appeso davvero. L’8 ottobre 1354 il suo corpo straziato fu trascinato dal Campidoglio a San Marcello, lungo la via Lata. L’Anonimo romano afferma che il popolo, inferocito, giocava con il cadavere: «onneuno ne sse iocava»12: un elemento che vale la pena di ricordare in questo contesto. Il corpo, ormai senza testa, fu agganciato per i piedi a un balcone. E anche allora i bambini ci si misero a giocare, tirandogli le pietre: «li zitielli li iettavano le prete»13. Cola di Rienzo, dunque, divenne l’uomo a testa in giù, l’arcano maggiore dei tarocchi che rappresenta il mondo all’incontrario, l’ultimo atto di un macabro carnevale. Settecento anni dopo, Mussolini conobbe la stessa sorte14. Collegato al caso di Cola di Rienzo, vittima della liturgia del rovesciamento dei poteri, è il caso, se si vuole ancora più straordinario, di Giannino di Guccio, mercante senese del Trecento che si convinse di essere il re di Francia, e che per riconquistare il trono girovagò per tutta Europa, per poi terminare i suoi giorni in prigione a Napoli. Nella vicenda di re Giannino, gli elementi che stiamo analizzando si presentano numerosi, a cominciare dal fatto che egli stesso costituisce, per coloro che non credono in lui, un “potere rovesciato”, in quanto è ritenuto un impostore, un uomo che ha sfidato l’ordine naturale. Nella Istoria del re Giannino di Francia troviamo il nostro protagonista convinto di essere il re in quanto vittima di uno scambio in culla. E questo è già un primo elemento significativo: la sua vita, secondo lui, era stata condizionata da un ingiusto scambio, ovvero da una inversione dei ruoli, avvenuti proprio all’inizio della propria esistenza. Tornato a Siena, sua patria, dopo una prima serie di viaggi, Giannino fu vittima di una beffa collettiva da parte dei suoi concittadini: di fronte al Consiglio generale del comune, venne ufficialmente (direi liturgicamente) dichiarato che, poiché egli si dichiarava re di Francia, da allora in poi sarebbe stato chiamato “il signor Giovanni”, ma che, per la stessa ragione, non sarebbe più stato cittadino di Siena e non avrebbe più potuto rivestire cariche pubbliche. E dunque il rovesciamento è evidente: re per burla, non può contare nulla in città.

11 12 13 14

Anonimo romano, Cronica, ed. G. Porta, Milano 1979, p. 209. Ibid., p. 264. Ibid., p. 265. Cfr. S. Bertoldi, Piazzale Loreto, Milano 2001, pp. 251-254.


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Storie di questo genere costituiscono un tema caratteristico della novella italiana medievale e rinascimentale, al quale Boccaccio dedica due intere giornate, la settima e l’ottava del Decamerone. La “beffa collettiva” consiste nel creare intorno alla vittima un mondo fittizio e parallelo, servendosi di molti complici e facendole spesso credere di essere una persona diversa da quella che è in realtà: famose sono le avventure di Calandrino, vittima dei suoi amici Bruno e Buffalmacco, la Novella del Grasso legnaiolo, le novelle Il Bianco Alfani e infine Mattano da Siena, il quale diventa una sorta di “re dei folli”15. Una volta catturato in Provenza, Giannino continua a essere considerato un re per burla: dopo un suo tentativo di fuga, il vicario di Marsiglia riesce a convincere il popolo del fatto che egli è un falsario e un sodomita: due accuse che lo pongono anch’esse, e pienamente, all’interno del tema dell’inversione. Allora il popolo lo vuole morto, arso, bollito, messo sopra una macchina di tortura. Ennesima inversione dei ruoli, vengono inventate sul suo conto delle laide canzoncine, nelle quali lo si chiama “la regina Giovanna di Francia”. Giannino, in quell’occasione, la scampò per un pelo. Che cosa gli sarebbe accaduto altrimenti? Senza dubbio sarebbe stato vittima di una liturgia del rovesciamento dei poteri, simile a quella che toccò a un calzolaio boemo che dichiarava di essere il re Andrea di Napoli, e la cui sorte è raccontata nella stessa Istoria del re Giannino di Francia: il calzolaio fu preso, gli furono tagliate orecchie, naso, capelli e barba, fu appeso a una colonna in pubblico per tre giorni e infine fu cacciato dal regno d’Ungheria16. Dopo l’esposizione di questi casi di studio, sui quali naturalmente vi sarebbe da dire ancora moltissimo, mi permetto di proporre alcune considerazioni non sistematiche. La prima riguarda le tipologie che si possono incontrare nelle liturgie del rovesciamento. Mi sembra che i tipi siano essenzialmente due, ben diversi l’uno dall’altro. Potremmo chiamare il pri-

15 Giovanni Boccaccio, Il Decamerone, ed. A. Ottolini, Milano 1973; La Novella del Grasso legnaiolo, in Novelle del Quattrocento, ed. G.M. Ferrero - M.L. Doglio, Torino 1975, pp. 583-628; G. Sermini, Mattano da Siena, ibid., pp. 184-197; P. Veneziano, La novella del Bianco Alfani, ibid., pp. 629-652; cfr. A. Rochon et al., Formes et significations de la «beffa» dans la littérature italienne de la Renaissance, Paris 1972-1975. 16 Istoria del re Giannino di Francia, ed. L. Maccari, Siena 1893, pp. 66-67. Il sedicente re Andrea compare anche in Monumenta Hungariae Historica. Magyar Diplomacziai Emlékek az Anjou Korbòl, Acta extera, II (1342-1369), cur. G. Wenzel, Budapest 1875, p. 568. Vedi in proposito É. G. Léonard, Histoire de Jeanne Ire reine de Naples comtesse de Provence (1343-1382), III, Le règne de Louis de Tarente, Monaco-Paris 1936, pp. 437 ss.; G. Lecuppre, L’imposture politique au Moyen Âge. La seconde vie des rois, Paris 2005, pp. 42, 140.


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mo tipo “liturgie dei poteri rovesciati”. Lo incontriamo ogni qualvolta ci si trova, in una festa, di fronte a un rituale in cui i protagonisti vengono a ricoprire un ruolo diverso da quella che è la loro posizione sociale usuale. Pensiamo allora, per fare alcuni esempi, al nostro Carnevale, e poi ai Saturnalia romani, durante i quali veniva eletto il Saturnalicius princeps e si invertivano i ruoli, tra schiavi e liberi, tra legionari e comandanti17. Esempi tipicamente medievali sono, naturalmente, le laudes cornomannie, di cui si è detto qualcosa, in cui l’inversione riguarda il clero, ma anche la cosiddetta “festa dei folli”, la “festa degli asini”, la tradizione inglese della reginetta di maggio, le feste degli studenti universitari, e ancora e soprattutto la liturgia dell’episcopellus, cioè del vescovo bambino, eletto tra i chierici di grado più basso verso il principio di dicembre, ammantato delle vesti episcopali, in carica fino alla festa dei Santi Innocenti, 28 dicembre18. A questo stesso mondo dei poteri rovesciati, e a questo rovesciamento liturgico, appartiene anche il nano di corte travestito da re, oppure il giullare, cioè il buffone rituale, cui è permesso di dire al re cose vietate ai sudditi, di prenderlo in giro. In età romana è lo schiavo che sta sulla biga insieme all’imperatore in trionfo e che gli sussurra all’orecchio quanto sia breve la vita; nel medioevo è quella parte della liturgia dell’intronizzazione pontificia, nella quale viene ricordato al papa che egli è fatto di carne e che la sua gloria è breve: «sic transit gloria mundi». Insomma è il modello del contadino Bertoldo, che non ha paura di dire al re la verità delle cose19. Perché naturalmente questi poveri, questi folli, dicono e sono il vero: come lo scemo del villaggio in Russia, come l’Innocente che piange nell’ultima scena del Boris Godunov di Musorgskij20. Infine, come Francesco «giullare di Dio» e come gli stulti propter Christum di Paolo21. Nell’inversione dei ruoli si afferma il paradosso secondo cui ciò che all’apparenza è distorto, in verità è diritto: ma su questo punto si ritornerà alla fine della relazione. 17

G. Vaccai, Le feste di Roma antica: miti, riti, costumi, Roma 1986 (rist. anast. dell’ediz. or. Torino 1902). 18 Argomento sul quale si veda M. Grinberg, L’episcopus puerorum, in Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all’età moderna, cur. O. Niccoli, Firenze 1993, pp. 144-158; e oggi gli studi di Y. Dahhaoui, Enfant-évêque et fête des fous: un loisir ritualisé pour jeunes clercs?, in Temps libres et loisirs du 14e au 20e siècles, cur. H.G. Gilomen - B. Schumacher - L. Tissot, Zürich 2005, pp. 33-46; Y. Dahhaoui, Voyages d’un prélat festif. Un “évêque des Innocents” dans son évêché, «Revue historique», 308/3 (2006), pp. 677-694. 19 G.C. Croce, Astutie sottilissime di Bertoldo […], Bologna 1606. 20 M.P. Pagani, Lo scemo del villaggio in Russia, «La Ricerca Folklorica», 44 (2001), pp. 117-126. 21 1Cor 4, 10-13; vedi anche 1Cor 1, 27-28.


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E arriviamo al secondo tipo di liturgia del rovesciamento dei poteri, che ho una certa difficoltà a conciliare con il primo. Si tratta di tutti quei casi nei quali una situazione che è stata reale e giudicata negativa viene ribaltata, e in cui questo ribaltamento della situazione viene mostrato attraverso una rappresentazione, una liturgia: dunque i casi degli antipapi, di Cola di Rienzo, di re Giannino, ma anche la liturgia della scomunica (in cui vengono spente le candele), della degradazione, o della deposizione, della condanna, della beffa feroce, dello charivari e dell’abiura in pubblico, cui seguiva l’obbligo di mostrarsi per le strade con il cosiddetto habitello. La differenza tra il primo e il secondo tipo di liturgia del rovesciamento è forte. Nel primo tipo, infatti, ci troviamo di fronte a un rituale nel quale non vi è una vittima, ma un gruppo che, attraverso un rito di inversione, ottiene una aggregazione sociale: non vi è derisione, ma casomai allegria e complicità nella risata. E infatti questo rituale del rovesciamento dei poteri è tipico dei gruppi culturalmente omogenei: i cittadini, la corte, i soldati, i monaci, i chierici delle scholae e delle università. Nel secondo caso, invece, abbiamo una vittima: qui il rituale di rovesciamento sancisce l’esclusione del deviante o del perdente, che viene fatto uscire di scena, potremmo dire, obbligandolo a camminare a ritroso: l’ordine originario viene, in questo modo, ricostituito. Il mondo di coloro che vivono nell’ordine sociale irride colui che è posto al di fuori di esso. Qui c’è davvero derisione da parte di tutti, poiché il rovesciamento significa infamia. Il messaggio politico-sociale, non assente nel primo tipo, in questo secondo è la chiave principale di lettura: e ciò per il fatto che la legittimazione e il suo contrario passano entrambi e sono entrambi compresi, soprattutto nel medioevo, quasi soltanto attraverso gesti rituali, simboli espliciti, rappresentazioni solenni. Lo stesso concetto di “liturgie del rovesciamento dei poteri”, allora, potrà significare tanto integrazione nel, quanto esclusione dal corpo sociale. Nel primo tipo, siamo di fronte a una finzione, a una imitazione, a una parodia, nel secondo caso siamo di fronte alla denuncia di una falsificazione. Si tratta dunque della stessa cosa? È legittimo analizzare insieme queste due tipologie? Queste domande mi portano all’interno della seconda riflessione generale che propongo, la quale è relativa al nostro modo di rapportarci con queste testimonianze. Infatti, gli studi sull’argomento dei rituali, in particolare sui riti dell’inversione dei ruoli, sono compiuti tanto dagli storici sociali quanto dagli antropologi culturali. Nell’una e nell’altra disciplina accade a volte di notare che la chiave iniziale di interpretazione è formata a partire da una mera curiosità per ciò che è strano, diverso, esotico rispetto a noi. Si scrive allora di sincretismi tra culture, si impiegano


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categorie di giudizio quali “derisione”, “divertimento”, “parodia”, che non sempre appaiono sufficienti. A volte si propongono delle astrazioni su principi generali, chiamando in causa concetti quali ordine e caos, principio maschile e femminile, fecondità e sterilità, bene e male. Non si esclude che queste affermazioni siano inutili alla conoscenza; certamente, però, esse non trovano quasi mai una possibilità di verifica diretta nelle fonti, mentre a volte paiono esprimere soprattutto le convinzioni dell’autore, della sua epoca e della sua scuola di pensiero. Soprattutto, manca spesso, in questo tipo di studi, una analisi delle coordinate spazio-temporali, cosa che porta, a mio avviso, a sovrainterpretazioni, se non a vere fantasticherie. Solo per questa ragione, riflettendo sul tema dell’inversione dei ruoli, ho ritenuto opportuno proporre alcuni casi concreti che conosco un po’ meglio, considerando che sia metodologicamente non scorretto porsi le domande a partire dalle fonti, e cercare le risposte dentro di esse, oltre che dentro noi stessi. Questo pensiero mi riporta a un’ultima considerazione, in parte provocatoria: se il mondo alla rovescia è ritualizzato, se è compreso in una liturgia, si può davvero dire che sia un mondo al contrario? Seneca scrisse: «Semel in anno licet insanire», e Orazio e Agostino espressero concetti molto simili22. Ma se una volta all’anno è permesso impazzire, allora dove sta il disordine? La ritualizzazione, infatti, non può fare altro che regolare e normalizzare. E, senza dubbio, nel corso del medioevo è diffusa l’idea che il mondo possa essere rimesso in ordine agendo su di esso attraverso un principio equivalente e contrario. Se i fisici moderni dicono che a un’azione corrisponde una reazione contraria, Dante applica sistematicamente ai suoi dannati la pena del contrappasso23. Il problema di fondo, l’interrogativo profondo con il quale mi congedo, sta nel considerare che il concetto di mondo a rovescio è, nel medioevo, un concetto normativo e che questa norma è presa direttamente da un’auctoritas che non si può discutere. Questa autorità dalla quale si ritiene scaturire ogni ordinamento e ogni diritto è la vita di Gesù Cristo. Il cri-

22 Seneca, De senectute; Agostino, De Civitate. Dei, VI, 10: «Tolerabile est semel anno insanire»; Orazio, Carmina, IV, 12, 28: «Dulce est desipere in loco». 23 D’altra parte, spesso gli studiosi contemporanei hanno attribuito a queste feste proprio il ruolo di valvole di sfogo proposte dal potere costituito, che lascia ai sottoposti la libertà in un brevissimo tempo scandito, per poter così affermare la sua legittima supremazia nel tempo restante: vedi, per es., Ch. Humphrey, The Politics of Carnival. Festive Misrule in Medieval England, Manchester-New York 2001, pp. 11-36.


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stianesimo è, con piena coscienza e volontarietà, ribaltamento assoluto dei valori, e nel medioevo, dove pure costituisce la norma e la dottrina, continua a essere compreso anche in questi termini. Si pensi allora al rapporto tra Adamo, colui che ha peccato per la prima volta, e Cristo, colui che ha ricostruito l’alleanza con Dio, e che è il nuovo Adamo. Così l’albero della conoscenza del bene e del male è quello che ha dato, secondo la leggenda, il legno della vera croce. Il modello cristologico è onnipresente, anche in questo tema del mondo all’incontrario, all’apparenza così esotico, così altro, così pagano: i cristiani adorano Dio che si fa uomo. Adorano il figlio di una Vergine. Adorano un re bambino, riconosciuto solo dai pastori e dai magi stranieri. Adorano un re povero, che non ha né panni né fuoco. Adorano il figlio di Dio, che lava i piedi ai suoi discepoli: notevolissima inversione dei ruoli, che entra nella liturgia. Adorano un profeta che dichiara le beatitudini degli umili e dei poveri di spirito e che afferma che non entrerà nel regno dei cieli chi non ritornerà come un bambino. Il Cristo debole, il Cristo povero, diviene Francesco, alter Christus e giullare di Dio. I cristiani adorano un re sofferente e deriso, ammantato di un mantello scarlatto, con una corona di spine e una scritta infamante che lo deride come re dei Giudei. Adorano la croce, che è simbolo di infamia, che equivale alla forca, e che proprio nel rovesciamento liturgico diventa il più alto simbolo di gloria eterna: strumento di morte che sconfigge la morte. E così è ancora Paolo a fornire per primo, a quanti lo leggeranno da allora in poi, il senso di questo rovesciamento, per esempio quando scrive, nella prima lettera ai Corinzi: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini»24. Torniamo allora a due casi di inversione dei poteri attestati nel medioevo: la prima è la storia del “re Giannino”, che viene deriso e che rischia di essere giustiziato, perché dichiara di essere il cristianissimo re di Francia. Ma, mentre viene sbeffeggiato, mentre sta in prigione ed è pieno di pidocchi, Giannino è convinto di svolgere un ruolo messianico, si ispira al modello di Cristo, re povero e perseguitato, si ingarbuglia in una strana imitatio Christi, poiché sa che anche l’apparente fallimento sulla terra può rappresentare una vittoria. Il secondo degli esempi è quello dell’episcopellus, cioè del vescovo bambino. Nel corso dei riti che si celebrano intorno all’episcopellus, si cantava: «Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles» (“depose i potenti dal trono ed esaltò gli umili”). Ovviamente ci si riferisce

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1Cor, 1, 18 ss., qui 1, 25.


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alla sorte fortunata di quel piccolo chierico ammantato delle vesti pontificali. Ma allo stesso tempo, che cosa vi può essere di più evangelico di questa frase? Quelle parole, infatti, sono contenute nel Magnificat. In definitiva, il medioevo cristiano ha trovato il rovesciamento dei poteri nel testo più canonico che ci sia. E questo è davvero un grande paradosso, sul quale certamente si potrà dire ancora qualcosa.


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Quasi sempre, nelle occasioni in cui per qualche ragione si viene chiamati ad evocare la festa del Carnevale, sembra inevitabile l’associazione del mascheramento al contesto dei festeggiamenti carnascialeschi. La maschera è l’elemento di più forte impatto, che caratterizza il Carnevale moderno e contemporaneo. Il tipo di fonti che ci attestano l’uso della maschera nel tempo del Carnevale, non anteriori al XV secolo, sono di tipo vario: ma se la moda della pratica della maschera durante il Carnevale potrebbe essere stata inaugurata nelle corti italiane nel sec. XV, l’uso di essa, successivamente, viene regolato da strettissimi regolamenti e vietato in frequenti occasioni, nei secoli XVI e XVII. A Bologna, nella prima metà del XVI secolo, si registrano casi frequenti di divieto della maschera durante la festa carnevalesca, regolati dalle autorità giudiziarie a causa di qualche delitto perpetrato, appunto, durante lo svolgimento del Carnevale, mentre per il secolo XVII il divieto della maschera carnevalesca, in questa città, è pressoché costante1. Per il Carnevale medievale, invece, dalla sua ipotetica istituzione (X secolo) fino al Quattrocento, non disponiamo di notizie sull’uso della maschera durante lo svolgimento della festa. Parlare di Carnevale nel Medioevo, nelle principali città italiane (Roma, Firenze e Bologna, dal XII al XV secolo)2, significa fare riferimento ad un ludus, che si esprime attraver-

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Nel primo “Bando sopra le maschere, publicato in Bologna alli 3 di febraro MDCI” il Ms. Orazio Spinola, Vicelegato di Bologna, bandiva alla cittadinanza intera, sotto pena di 200 scudi, «che in tutto il Carnevale sarà proibito l’andare in maschera, ò travestito nelli giorni di Venerdì per tutto il giorno, & la notte fino al Sabbato mattina, e le Domeniche, e le feste comandate […]». 2 Nella città felsinea la prima traccia dell’istituzione di una giostra pubblica, denominata “Giostra del Rincontro”, risale all’anno 1147, come ci testimonia il manoscritto Bolo-


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so la moda di giostre e tornei. Il Carnevale romano – il primo Carnevale di cui abbiamo memoria – così come ce lo testimonia il Canonico Benedetto nel suo Liber Polypticus3, è un eloquente esempio di questa tendenza; ma un’indagine adeguata delle molteplici relazioni del Carnevale descrittoci da Benedetto con la cultura e le istituzioni della Curia romana del IX secolo getta ulteriore luce sulla probabile cronologia dell’istituzione della festa carnevalesca. Esistono prove evidenti di una scissione tra il teatro alto-medievale (in cui si registrano le prime testimonianze del riuso della maschera4) e lo svolgimento della festa del Carnevale medievale durante il quale, vale la pena ripeterlo, non possiamo dimostrare atteggiamenti di tipo teatrale per i secoli medievali; mentre è dimostrata la persistenza di spettacoli di tipo mimico durante le festività denominate Libertates Decembris (26-28 dicembre), durante le quali aveva luogo il festum hypodiaconorum5, consuetudine festosa culminante nell’elezione di un Episcopus stultorum6, meglio noto

gna, Biblioteca Universitaria di Bologna, 774, la cosiddetta cronaca Ghiselli del XVII secolo (t. III, in anno 1147). In questa stessa cronaca si attesta che nel 1590 la giostra del Rincontro era organizzata in occasione della festa del Carnevale (t. III, in anno 1590), ma che già nel 1561 e nel 1562 si erano organizzate giostre in occasione della festa del Carnevale. Per il caso romano, non avendo effettuato uno studio delle cronache locali, rimando al fondamentale studio di F. Clementi, Il Carnevale romano nelle cronache contemporanee dalle origini al secolo XVII, Città di Castello 1939. 3 Cfr. P. Fabre, Le polyptique du chanoine Benôit (Étude sur un manuscrit de la Bibliothèque de Cambrai), «Travaux et mémoires des Facultés de Lille», 1/3 (1889), p. 3. Il Liber Polipticus è scritto probabilmente nell’anno 1140. 4 Cfr. M. Oldoni, La scena nel Medioevo, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1: Il Medioevo latino, II: la circolazione del testo, Roma 1994, pp. 489-535: 510-522 e J.D.A. Ogilvy, Mimi, scurrae, histriones. Entertainers of the Early Middle Age, «Speculum», 37/4 (1963), pp. 603-619: 610-611. 5 Cfr. C. Du Cange, Glossarium ad scriptores Mediae et Infimae Latinitatis, IV, Parisiis 1733, p. 481 sub voce Kalendae: «Festi Hypodiaconorum nomen inditum, non quod revera soli Subdiaconi has scelestas choreas ducerent; sed quod hac joculari appellatione nostri indicare voluerint, festivitatem hanc fuisse ebriorum Clericorum seu Diaconorum […] Cujusmodi autem fuerit, et quibus inepti constiterit, docet Beletus lib. de Divin. Offic. cap. 72 his verbis: Festum Hypodiaconorum quod vocamus Stultorum, a quibusdam perficitur in Circumcisione, a quibusdam vero in Epiphania, vel in ejus octavis. Fiunt autem quatuor tripudia post Navitatem Domini in Ecclesia, Levitarum scilicet, Sacerdotum, Puerorum, id est minorum, aetate et ordine, et Hypodiaconorum, qui ordo incertus est». Cfr. anche V. De Bartholomaeis, Origini della poesia drammatica italiana, Torino 1952, pp. 177-184. 6 Cfr. Du Cange, Glossarium cit., p. 481: «Inter ludicra hujus festivitatis praecipuum locum obtinebat electio Abbatis vel episcopi stultorum, cujus ludibria hic perstringere placet ex Caeremoniali MS. Eccl. Vivar anno 1365 exarato fol. 153. Die 17. Decembris conveniunt omnes sclafardi et clericuli ut Abbatem eligant».


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come «Episcopus Puerorum […] Episcopus Innocentium, Hypodiaconorum, Scholariorum, Follorum, Stultorum, Schulbischof e Schulabt da’ Tedeschi, Episcopinus o Episcopellus dagli Italiani»7 o Obispillo nella tradizione festiva iberica8, un mimo licenzioso, turpe ma lecito, caratterizzato, oltre che dalle sconcezze degli astanti, chierici e laici, da un dissacrante mascheramento parodico. Alcune tracce di questo mascheramento, benché attenuato, sono intuibili nella festa Cornomannia, istituita a Roma nel IX secolo. Il Carnevale medievale

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L’unico elemento indiscutibile sull’istituzione della festa del Carnevale è la sua relazione liturgico-allegorica con l’avvento della Quaresima. È da questa finalità istituzionale che la festa del Carnevale adotta la sua denominazione latina: ludus Carnelevari. La formula più accertata da cui deriverebbe la parola è carnem levare (ben rispecchiato dal siciliano carnilivari, dal calabrese carnelevare, dal genovese carleva e dal piemontese carlevè)9 e dovrebbe indicare l’ultimo giorno di tripudio e festa che precede l’avvento della Quaresima. Questo dato ci viene confermato dalla ricca e svariata terminologia romanza del Carnevale, alla cui base vi è quasi ovunque non già l’idea dell’ebbrezza e del godimento dell’oggi, quanto la mortificazione e la privazione del domani. Basta pensare allo spagnolo carnestolendas (dal latino caro e tollendus), al catalano carnistoldes o carnestoldes, oppure alle forme analoghe rappresentate dallo spagnolo antruejo (dal latino introitus)10, o dal latino carnis privium o carnis capium. Non sembra possibile poter parlare di Carnevale anteriormente ai secoli IX-X: la prima prova dell’esistenza di un ludus che avesse a che fare con la mortificazione simbolica della carne è contenuta negli Acta Sublacensia11 (X secolo); di due secoli successiva è invece la prima fonte reale che ci descrive, sebbene laconicamente, lo svolgimento di un ludus che

7 De Bartholomaeis, Origini della poesia cit., p. 178. 8 Cfr. J.C. Baroja, El Carnaval, Madrid 1965, pp. 297-306. 9 Definizione di “Carnevale” in Enciclopedia dello spettacolo, Roma 1975, pp. 64-78. 10 Baroja, El Carnaval cit., pp. 40-45. 11 La prima attestazione documentaria che certifica l’esistenza di un rituale festivo che

avesse a che fare con il fatto di “togliere la carne” per accingersi ad entrare in un periodo di penitenza, l’abbiamo negli atti di Subiaco del 965. Tale riferimento documentario lo troviamo in G. Ciappelli, Carnevale e Quaresima, Roma 1997, p. 47.


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avesse come finalità l’introduzione simbolica dei fedeli ad un periodo di digiuno e penitenza. Nel Liber Polypticus (qualcosa di simile ad un Liber Censuum12), il canonico Benedetto ci descrive l’Ordo Romanus delle feste di inizio anno che avevano svolgimento a Roma nel tempo in cui il canonico visse nell’Urbe. Il canonico Benedetto ci parla di un ludus Carnelevari che aveva svolgimento presso Testaccio nella domenica dimissionis carnium, ossia nella domenica prima dell’avvento della Quaresima:

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In Dominica dimissionis carnium, surgunt equites et pedites post prandium, bibunt inter se. Postea pedites, depositis scutis, eunt Testacium, prefectus cum equitibus vadit Lateranum. Domnus papa descendit de palatio et equitat cum prefecto et equitibus usque Testacium, ut, sicut ibi habuit civitas principium, sic ibi in illo die delectatio nostri corpori habeat finem. Faciunt ludum in cospectu pontificis, ut nulla lis inter eos oriatur. Occidunt ursum, occiditur diabulus id est tentator nostre carnis, occiduntur juvenci: occiditur superbia nostre delectationis, occiditur gallus: occiditur luxuria lumborum nostrorum ut deinceps caste et sobrie vivamus in agone anime ut ad Pascha mereamur digne corpus domini suscipere13.

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L’Ordo Romanus testimoniatoci da Benedetto comprende, oltre al ludus Carnelevari, altri due ludi: il ludus in Vigiliae Kalendarum (anteriormente conosciuto come Kalendae Ianuarii) e il ludus de Sabbato in Albis o Cornomannia. Del ludus in Vigiliae Kalendarum e del ludus de Sabbato in Albis o Cornomannia è possibile dimostrare l’esistenza a Roma nei secoli VIII-IX. Delle due feste menzionate il ludus in Vigiliae Kalendarum è di certo la festa che ha origini più antiche, è per questo che non pare del tutto inverosimile affermare che la presenza di questa festa nel calendario festivo romano è, probabilmente, il frutto di un annoso e tormentato processo di assimilazione di un’antichissima festa pagana14. Proprio per il caso romano, disponiamo di un’importante testimonianza dello svolgimento di questa festa nell’Urbe, pervenutaci attraverso una lettera di san Bonifacio15 indiriz-

12 13 14

Cfr. Fabre, Le polyptique cit., pp. 25-26. Ibid., pp. 25-26. Un esempio indicativo ci proviene dagli atti del IV concilio di Toledo (633), cfr. Isidori Ispaliensis De ecclesiasticis officiis, edd. E. Gauder - P. Tomber - R. Van der Plaetze, Turnhout 1989, (CCSL, 63A), p. 215. Per un approfondimento generale sull’importanza della festa della Kalendae Ianuarii cfr. M. Meslin, La fête des kalendes de janvier dans l’empire romain, Bruxelles 1970 e Y. Hen, Culture and religion in Merovingian Gaul A. D. 481751, Leiden-New York-Köln 1995, pp. 162-172. 15 S. Bonifati et Lulli Epistolae, ed. M. Tangl, in M.G.H., Epistolae Selectae, I, Berolini 1916, p. 84.


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zata al papa Zaccaria (741-752), in cui il santo appuntava costernato ciò che accadeva a Roma durante queste festività: Et quia carnales homines idiotae, Alamanni uel Baioarii uel Franci, si iuxta Romanam urbem aliquid facere uiderint ex his peccatis, quae nos prohibemus [...] in Romana urbe et iuxta aecclesiam sancti Petri in die uel nocte, quando Kalendae Ianuarii intrant, paganorum consuetudine chorus ducere per plateas et adclamationes ritu gentilium et cantationes sacrilegas celebrare.

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Dell’esistenza del ludus de Sabbato in Albis o Cornomannia già dal secolo IX, invece, disponiamo di un importante documento: i Versiculi Iohannis diaconi de Cena Cypriani, testo meglio noto come Cena Iohannis16, un noto rifacimento della Cena Cypriani17 scritta da Giovanni Immonide, diacono romano, nell’876. Giovanni Immonide completa la sua rielaborazione in ritmo (settenario trocaico catalettico) della Cena Cypriani dotando la sua opera di un prologo, un epilogo e una suppositio eiusdem Iohannis ad papam, tre frammenti testuali che contengono interessanti informazioni storiche. Nel prologo del rifacimento giovanneo leggiamo: Hac ludat papa Romanus in albis paschalibus, / Quando venit coronatus scolae prior cornibus, / Ut Silenus cum asello derisus cantantibus, / Quo sacerdotalis lusus designat misterium18.

«In albis paschalibus» e «venit coronatus scolae prior cornibus» fanno intuire che il diacono si riferisse alla festa della Cornomannia, secondo la descrizione che ne dà Benedetto nel Liber Polypticus19. Come ha dimostra-

16 Cfr. Iohannis Diaconi versiculi de Cena Cypriani, ed. K. Strecker, in M.G.H., Poetae Latini aevi Carolini, IV, 2-3, Berolini 1923, pp. 857-900. L’edizione di K. Strecker include anche un’edizione critica della Cena Cypriani. 17 Per gli studi che riguardano questo breve testo e i suoi rifacimenti cfr. C. Modesto, Studien zur Cena Cypriani und zu deren Rezeption, Tübingen 1992. 18 Cfr. Iohannis Diaconi versiculi cit., prologo, stanza n. 3, p. 870. L’edizione di K. Strecker si basa su di un numero basso di manoscritti. Nel manoscritto London, British Library, Harley 2773, f. 60v leggiamo: «Hac ludat papa Romanus in albis paschalibus, / Quando venit coronatus scolae prior cornibus, / Ut Silenus cum asellum derisus cantantibus, / Quo sacerdotalis lusus designat inpium misterium». Strecker tralascia l’aggettivo impium, che potrebbe gettare luce sufficiente sulla percezione che aveva il diacono romano del ludus Cornomanniae, e questo ci potrebbe far capire in che modo la curia romana percepisse questo tipo di novella istituzione. 19 Cfr. Fabre, Le polyptique cit. pp. 18-20: De laudibus de Cornomannie: «Sabbato de albis, quando laudes Cornomannie canende sunt domino pape hoc modo. Omnes archipresby-


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to G. Arnaldi, la scrittura della Cena Iohannis è dettata con molta probabilità dalla venuta di Carlo il Calvo a Roma per ricevere la corona imperiale. Giovanni, sempre nello stesso prologo, fa riferimento al suo lavoro che avrebbe potuto essere stato utile a Carlo il Calvo: Hanc exibeat convivis imperator Karulus, / In miraculis gavisus, prodigus in vestibus, / Quando victor coronatur triumphatis gentibus, / Ut imperialis iocus instruat exercitum20.

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Se i primi tre versi di questa quartina potrebbero far pensare allo svolgimento di un mimo conviviale davanti alla presenza dell’appena incoronato imperatore e che la Cena Iohannis (evocata dall’hanc collocato all’inizio della stanza) fosse stata scritta per allietare le bevute dei Francigeni poetae e dei Gallis bibentibus21, l’«imperialis iocus instruat exercitum» merita maggiore attenzione22; non sembra infatti facile attribuire, a prima vista, un’identificazione reale all’imperialis iocus attraverso il quale, secondo Giovanni, l’Imperatore addestrava il suo esercito. L’«imperialis iocus» e il Carnevale

L’unico riferimento possibile a questa ipotetica e innovativa pratica per addestrare l’esercito di Carlo il Calvo proviene da un frammento degli Historiarum Libri IV di Nitardo (lib. III, cap. 6, ll. 13-23):

Nam convivia erant illis (sc. militibus) penae assidua, et, quodcumque precium habebant, hoc alter alteri perhumane dabant. Una domus erat illis convivii, et una somni, tractabant tam pari consensu communia quam et privata, non quicquam

teri XVIII diaconiarum, post prandium predicti diei, sonant campanas et omnis populus sue parrochie cucurrit ad ecclesiam. Mansionarius, indutus tunica vel camiso et coronatus corona de floribus cornuta, habens in manum phinobulum hujus operis: est quidam caulus ereus, concavus unius brachii longitudo, a medietate et supra plenus tintinnabulis. Archipresbyter vero, indutus pluvialem, cum clero et populo it Lateranum, et omnes expectant in campo dominum papam, ante palatium sub Folloniam. Cum autem noverit domnum papam omnes venisse, descendit de palatio ad destinatum locum, ubi accepiende sunt laudes Cornomannie». 20 Cfr. Iohannis Diaconi versiculi cit., prologo, p. 871. 21 Ibid., epilogo, p. 899. 22 Attraverso una lettera indirizzatami da J. Le Goff sull’importanza della Cena Iohannis in relazione alla scoperta della eventuale esistenza di un Carnevale romano già nel IX-X, mi veniva fatto notare: «Il (Cena Iohannis) représente en effet un des primiers textes pouvant évoquer le Carnaval romain, bien que l’époque du IXe siècle soit tres ancienne».


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aliud quilibet horum ab altero petebat, nisi quod utile ac congruum illi esse censebat. Ludos etiam hoc ordine saepe causa exercitii frequentabant. Conveniebant autem quocumque congruum spectaculo videbatur, et subsistente hinc inde omni moltitudine, primum pari numero Saxonorum, Wasconorum, Austrasiorum, Brittonorum, ex utraque parte, veluti invicem adversari sibi vellent, alter in alterum veloci cursu ruebat hinc pars terga versa protecti umbonibus, ad socios insectantes evadere se velle simulabant; at vice versa iterum illos quos fugiebant, persequi studebant; donec novissime utrique reges cum omni iuventute ingenti clamore, equis emissis, astilia crispantes exiliunt, et nunc his, nunc illis terga dantibus, insistunt23.

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Lo svolgimento di questo ludus militaris, nella maniera in cui ce lo racconta Nitardo24, ha luogo presso gli accampamenti di Carlo il Calvo in Warmatia, ad un anno di distanza dai giuramenti di Strasburgo (14 febbraio 842). Il fatto che Giovanni Immonide faccia riferimento a questo tipo di ludo fa supporre che questa specie di gioco di addestramento avesse una certa importanza presso l’esercito franco e che a Roma se ne avesse potuto avere una certa conoscenza. Il collegamento testuale tra la quarta stanza del prologo e il passo citato degli Historiarum Libri IV riserva altre considerazioni: l’«Hanc exibeat convivis imperator Karulus» si collega alla «domus erat illis convivii, et una somni, tractabant tam pari consensu communia quam et privata» di cui ci parla Nitardo, laddove avrebbe avuto luogo lo spectaculo richiamato da Giovanni Immonide con «imperialis iocus». Anche se il diacono Giovanni capisce l’importanza di questa istituzione ludico-militare, non ci offre dati ulteriori su questo iocus. Analisi dei due ludi

Benché i milites che partecipano al ludus descritto da Nitardo fossero disarmati, l’azione di guerriglia simulata è verosimilmente qualcosa di comparabile ad una simulazione di guerra, un gioco di astuzia e di coordinazione nonché una vera sessione di allenamento («Ludos […] causa exercitii frequentabant»). La finalità di questa specie di spettacolo militare, ma senza armi, oltre ad un esercizio fisico sembra anche un momento collet-

23 Cfr. il lib. III, cap. 6 dei Nithardi Historiae libri IV, ed. G.H. Pertz, M.G.H., Scriptores, II, Hannoverae 1829, pp. 649-672: 667. Ho consultato anche l’unico documento da cui è redatta l’edizione delle Historiae di Nitardo, il Paris, Bibliothèque nationale, lat. 9768, f. 14r. 24 Cfr. J. Flori, La Chevalerie, Paris 1998, p. 63.


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tivo di aggregazione sociale. Ed è molto probabile che Giovanni Immonide si riferisca a questo quando parla dell’«imperialis iocus» di Carlo il Calvo. La Cena Iohannis è importante anche perché è la prima fonte che testimonia l’esistenza a Roma della festa della Cornomannia nel secolo IX («[…] albis paschalibus, / Quando venit coronatus scolae prior cornibus»)25, ma le caratteristiche precipue dello svolgimento di questa festa ci vengono illustrate solo nel passo specifico del Liber Polypticus dedicato ai ludi romani. Lo stesso accade per il ludus Carnelevari, del quale abbiamo solo tenui e fragili testimonianze prima della descrizione, che ci fa il canonico Benedetto. Ma, analizzando le dinamiche di questo ludus Carnelevari, sembra che qualche aspetto dell’«imperialis iocus», di cui ci parla Giovanni Diacono, possa essere sopravvissuto a Roma. Dalla comparazione tra il ludus militaris di Nitardo e il ludus Carnelevari descrittoci da Benedetto, emerge un parallelismo non trascurabile tra i due tipi di ludi: in primo luogo, a sottolineare il carattere ludico del gioco interviene il fatto che in entrambi i contesti i partecipanti si cimentano in prodezze senza l’uso delle armi: equis emissis, astilia crispantes exiliunt, et nunc his, nunc illis terga dantibus, insistunt (Historiarum Libri IV, cap. 6, l. 22); equites et pedites post prandium, bibunt inter se, postea pedites, depositis scutis, eunt Testacium (Fabre, Le polyptique du chanoine Benôit, p. 25).

In secondo luogo è molto forte l’aspetto conviviale e aggregativo dei due eventi:

Nam convivia erant illis [sc. militibus] penae assidua, et, quodcumque precium habebant, hoc alter alteri perhumane dabant. Una domus erat illis convivii (Historiarum Libri IV, cap. 6., ll. 11-13);

equites et pedites post prandium; bibunt inter se (Fabre, Le polyptique du chanoine Benôit, p. 25).

Il carattere militare-giocoso dei due ludi è alquanto evidente. Ma la descrizione del ludus Carnelevari, ad ogni modo, viene completata attraverso una disamina di tipo religioso. L’icasticità dell’evento è caratterizzata dalla lotta contro il peccato e

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Cfr. Iohannis Diaconi versiculi cit., prologo, p. 870.


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dall’azione di “levare” la carne in questo festeggiamento collettivo anteriore all’avvento della Quaresima: Occidunt ursum: occiditur diabulus id est tentator nostre carnis, occiduntur juvenci: occiditur superbia nostre delectationis, occiditur gallus: occiditur luxuria lumborum nostrorum (Fabre, Le polyptique du chanoine Benôit, p. 26).

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In questo elemento di carattere simbolico-religioso il ludus Carnelevari si collega con la Cornomannia, secondo la descrizione che ne fornisce Benedetto; i rappresentanti di tre diaconie di Roma offrono dei doni simbolici al papa che ricambia il gesto con la consegna di monete d’oro: Archipresbyter Sancte Marie in Via Lata coronam et vulpeculam non ligatam, que fugit, et papa dat archipresbytero unum bizantium et dimidium. Archipresbyter Sancte Marie in Aquiro coronam et gallum, et accipit bizantium et quartam, archipresbyter Sancti Eustachii coronam et domulam, et accipit unum bizantium et quartam (Fabre, Le polyptique du chanoine Benôit, p. 22).

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La Cornomannia e il Carnevale hanno uno scenario pressoché affine: entrambe le feste sono presentate sottoforma di un ludus, irrisorio per la Cornomannia26 e militare per il Carnevale. Entrambe le feste si concludono con la liberazione o l’uccisione di animali. Nella Cornomannia i tre animali liberati (vulpecula, gallum e la domula interpretata da Fabre, p. 22, con il daino) hanno un valore ambiguo. Il gallo, che con molta probabilità rappresenta in entrambi i ludi il peccato della lussuria (ne siamo sicuri per il Carnevale, mentre per la Cornomannia non ne abbiamo prove certe), ricorre in entrambe i ludi. Nella Cornomannia, però, ricorrono due animali differenti e la loro presenza all’interno della festa, così come accade per il gallo, dovrebbe avere un fine strettamente allegorico. Se per la presenza nella Cornomannia del daino è possibile addurre una spiegazione, in quanto la simbologia di questo animale è legata all’agiografia di Sant’Eustachio, per la volpe possiamo congetturare che abbia avuto un ruolo affine a quel-

26 Vale la pena riportare alcuni passi delle dinamiche licenziose di questo gioco, in quanto a prestarsi al gioco come partecipanti sono gli arcipreti delle singole diaconie (Fabre, Le polyptique cit., pp. 21-22): «Tunc unusquisque archipresbyter, cum suis clericis et populo, facit rotam et incipit cantare: Eyra preces de loco, Deus ad bonam horam. Et alios subsequentes versos latinos et grecos. Mansionarius vero in medio saltat in girum sonando phinobolum et cornutum caput reclinando. Finitis laudibus, surgit quidam archipresbyter, retrose ascendit asinum preparatum a curia: quidam cubicularius tenet in capite asini bacile cum XX solidis denariorum; predictus archipresbyter, inclinans se retro tribus vicibus, quos potest tribus brancatis tollit et habet sibi».


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lo del gallo: liberare la volpe potrebbe aver voluto dire liberare la diaconia di S. Maria in via Lata dal peccato che questo animale rappresentava27, ma la spiegazione a tal riguardo è tutt’altro che semplice28. Emerge, per quanto ci interessa un forte parallelismo tra le due feste, due varianti distinte della maniera di percepire uno spazio ludico nascente nell’Urbe romana, cosa che ci spinge a intravedere nell’istituzione dei due ludi un lasso cronologico non troppo marcato. Il simbolismo del Carnevale romano e le sue connotazioni militari

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Fin dalle prime attestazioni, dunque, questo ludus celebrato il giorno prima dell’avvento della Quaresima ha funzione esclusivamente catartica. Catarsi che liturgicamente si esprime con lo spegnimento dei peccati, in forma simbolica, attraverso l’uccisione degli animali di cui si è fatta menzione. Nella fisicità di questi animali, che vengono portati poi sulla scena di Testaccio, c’è la rappresentazione diretta del peccato: un orso, dei torelli ed un gallo; animali che assumono un valore molto forte per tutto l’arco della tradizione carnevalesca medievale e rinascimentale, non solo relativa a questi giochi romani, che nel XII secolo assumeranno la denominazione di “ludi di Agone e di Testaccio”29, ma a tutta l’area europea. La caccia ai tori costituisce uno degli aspetti più spettacolari e drammatici delle feste dei giochi romani, mescolando l’aspetto simbolico-religioso a quello militare, almeno secondo la descrizione delle fonti, così come curata da Clementi. Anche il gallo assume un forte valore simbolico durante la celebrazione del Carnevale30; si tende generalmente ad associarlo con la copula e con il peccato della lussuria ed è per questa sua funzione irriverente che la presenza del gallo nella celebrazione del Carnevale 27

Riguardo alla simbologia della volpe nel medioevo, letteraria e allegorica, cfr. l’interessante e completo studio sul bestiario medievale di J. Ziolkowski, Talking animals. Medieval Latin Beast Poetry, 750-1150, Philadelphia 1993, pp. 171-193 et passim. 28 Fabre, Le polyptique cit., p. 22: «Je n’ai pu pas découvrir non plus pourquoi l’archiprêste de Sainte-Marie in Via Lata amenait un renard, tandis que celui de Sainte-Marie in Aquiro apportait un coq. J’entrevois mieux le lien entre la diaconie de saint Eustache et l’offrand du daim». 29 Cfr. Clementi, Il Carnevale cit, p. 44: «E dunque alcuni giorni prima della festa, un toro ornato faceva il giro del rione con dietro i giocatori e i cittadini. Il sabato prima della Carnelevare i giostratori davano caccia ai tori nella piazza del Campidoglio». 30 La figura del gallo viene associata comunemente alla lussuria. Esemplificazione di tale assunto ci viene dai canti dei Goliardi e dagli scritti dell’istituzione di Compagnie del Gallo, dal tema decisamente erotico.


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(specialmente in Età Moderna, vale la pena specificare) assume particolare importanza31. Infine anche la caccia all’orso, animale che rappresenta, nei contesti in cui viene fatto oggetto di caccia, il diavolo, anche sotto forma di mascherata32, è lungamente attestata dalle tradizioni carnevalesche europee. Conclusioni

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L’istituzione del ludus Carnelevari apre un campo di indagine che si spinge nella Roma dei secoli IX e X. La descrizione del ludus Carnelevari offerta dal canonico Benedetto, contenuta nell’Ordo Romanus del XII secolo, ci ha dato la possibilità di analizzare congiuntamente e sottolineare le differenze tra Carnevale e Cornomannia. Sebbene sia difficile dimostrare con certezza le ragioni dell’istituzione a Roma di rappresentazioni ludiche di stampo mimico-teatrale (Cornomannia) o ludico-militare (Carnevale), non si esclude che dietro all’istituzione di queste due feste romane si possa celare un’eredità carolingia. Se infatti Giovanni compone la sua Cena per una pubblica audizione romana, con il fine di allietare gli illustri astanti33, il diacono romano fa altresì esplicita menzione dell’impiego della sua Cena presso la corte carolingia di Carlo il Calvo e, facendo questo, evoca una scena di carattere conviviale consueta all’imperatore e il iocus attraverso il

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Abbiamo una larga testimonianza del successo che incontrano nell’area spagnola certi spettacoli, quali le “corridas de gallos” e l’istituzione di un “rey del gallo” (soprattutto nella letteratura del Siglo de Oro con Gongora e Quevedo), che al loro interno sembrano conservare lo stesso significato; cfr. Baroja, El Carnaval cit., pp. 67-82. Baroja dedica un intero capitolo alla simbologia del gallo nel carnevale moderno spagnolo. Si distinguono infatti, come si è appena detto, “el rey del gallo” e la “corrida del gallo”, momenti di speciale carattere ludico e popolare. 32 P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1955, pp. 134-136; riportiamo un passo che a tal proposito sembra illuminante: «Il carnevale talvolta viene personificato in un animale, uno di questi è l’orso. Il Van Gennep riconosce appunto nella maschera dell’orso e nelle scene a cui ad essa dà luogo una delle personificazioni del carnevale […]. In Italia la comparsa dell’orso per le feste del carnevale non è molto frequente, ma tuttavia è riscontrabile in molte regioni e noi dobbiamo tenerne conto, anche se l’identificazione orso-carnevale è resa difficile dall’attenuarsi e dal degradarsi dai primitivi caratteri di quest’usanza». 33 L’invito a prendere parte all’irrisione e al divertimento provocato dalla lettura di questo testo da parte del balbus Crescenzio si estende su due piani: la corte carolingia e la Curia romana, della quale Giovanni evoca solennemente il pontefice (Giovanni VIII). È proprio a questi che Giovanni dedica la sua Cena attraverso la ‘Suppositio eiusdem Iohannis ad papam’ (cfr. Iohannis Diaconi versiculi cit., p. 900) esortandolo al riso («Ludere me libuit; ludentem papa Iohannes / accipe; ridete, si placet, ipse potes»).


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quale il nuovo imperatore addestrava l’esercito. Nitardo nell’Historiarum Libri IV descrive un interessante esempio di spettacolo militare a sfondo ludico; ciò rende possibile il collegamento tra la menzione giovannea e l’esistenza effettiva di una simile pratica presso la corte di Carlo il Calvo. Dalla descrizione di Benedetto, di tre secoli posteriore alla Cena Iohannis e agli Historiarum Libri IV, si potrebbe percepire che l’eredità carolingia di un ludus in armi venisse raccolta a Roma e trasformata in un ludus Carnelevari – una festa dall’alto valore allegorico e religioso – la cui istituzione, romana, non sembra troppo lontana da quella della Cornomannia e cioè riconducibile al X secolo34.

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Un ringraziamento speciale va alla prof.ssa D.ña Carmen Codoñer Merino a cui dedico questo lavoro.


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Ordinare e guidare: poteri laici e predicazione nella gestione della festa nell’Italia di tradizione comunale


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I secoli XIII-XV segnarono, nell’Italia di tradizione comunale, lo sviluppo di formazioni statuali più ampie e complesse del declinante stato cittadino, sia dal punto di vista delle dinamiche interne che dei rapporti con l’esterno. A questa particolare congiuntura storico-politica la festa non rimase estranea (intendendo con essa tutti quegli eventi pubblici, variamente connotati, all’interno dei quali il ludus assunse parte importante insieme ai rituali civici e religiosi); anzi rifletté spesso le vicende e le trasformazioni in atto “giocando” e poi modificando il suo ruolo. Per questo la festa poté assumere nel periodo considerato un preciso contrassegno politico, richiedendo perciò l’attenzione e il controllo da parte di coloro che (per funzioni e compiti ad essi delegati) furono gli interlocutori e punti di riferimento privilegiati all’interno delle comunità locali: autorità pubbliche e uomini di Chiesa. Molte attestazioni e di segno diverso confermano il nesso festa/politica per il periodo e l’area in esame. Ogni momento importante per gli equilibri interni ed esterni di una comunità determinava il più delle volte un’immediata “risposta” di sentita partecipazione collettiva: festeggiamenti istituiti per l’occasione o da ripetersi annualmente (riconfermando, così, l’attaccamento ai valori tradizionali) per sottolineare l’importanza di un evento o le “virtù” di un signore, per procurare consensi o celebrare un “buon governo”. Sarebbe più corretto dire che quasi mai si ricordavano spettacoli e pubbliche manifestazioni senza richiamarne i pretesti che andavano ben oltre la volontà di organizzare momenti di puro svago e intrattenimento: c’era quasi sempre qualcos’altro che s’intendeva mettere in evidenza. Semmai il testimone attento poteva annotare la mancanza di tali “risposte”, come era accaduto a Parma nel marzo del 1331. La città si trovava alla vigilia della sua dedizione a Giovanni di Boemia, ma all’arrivo del sovrano nessun


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atto di omaggio o cortesia, nessun festeggiamento fu organizzato per l’occasione1, come, si aggiungeva, «erat consuetum fieri in adventu aliorum regum». La presenza di re Giovanni in città aveva suscitato, invero, opposti sentimenti («De eius, domini regis, adventu quidam visi sunt non bene gaudere, et quidam multo gavisi sunt»), ragione plausibile perché gli abitanti si fossero astenuti da accoglienze diverse. Pochi giorni soltanto e l’atmosfera era mutata radicalmente: per una settimana, allora, non si fece che ballare, notte e giorno, come mai, secondo il testimone, era avvenuto neppure a carnevale; e, ancora, armeggerie, fuochi notturni, campane a festa e un accorrere di uomini e donne «in plateam ecclesie maioris […] tamburis et aliis instrumentis», che gridavano «Vivat dominus res». La ragione del repentino cambiamento era stata l’importante decisione politica per le sorti del comune, presa dal consiglio generale unanimiter, di consegnare «dicto domino regi civitatem et districtum Parme»2. Le occasioni per far festa erano tante: si trattava degli eventi che avevano una ricaduta immediata sull’intera comunità (la conclusione di una pace o di un’alleanza, il ritorno alla tranquillità interna, la sigla di un accordo, la concessione di privilegi, la sconfitta di un nemico o la vittoria di un collegato, l’acquisto di un nuovo territorio, un atto di dedizione, il cambio di regime, la sottomissione a un nuovo signore, il ritorno di fuoriusciti …); ma poteva trattarsi anche di circostanze attinenti ai suoi leader politici (nascite o battesimi di un erede, matrimoni, visite importanti, passaggi significativi, assunzioni di cavalierato, incoronazioni o investiture da autorità superiori …). Altrettante erano anche le forme per manifestare: dalle più spontanee, a quelle che potevano richiedere uno sforzo organizzativo ed economico da costringere la cittadinanza a dei sacrifici3. Rientravano così, nel numero, i falò notturni, le danze e i canti, i “concerti” di musica stru-

1 In particolare, nessun cavaliere gli era andato incontro con bandiere o gonfaloni; nessuno avrebbe dovuto arrischiarsi di gridare «Viva il re, viva il re!», sotto pena di essere duramente percosso; e ancora nessuno, in segno di onore e di rispetto, gli aveva posto il palio sulla testa o, ancora, aveva chiuso bottega o suonato le campane o acceso falò al sopraggiungere della sera: insomma nessuna manifestazione pubblica di gioia e partecipazione collettiva, da registrare, a sottolineare il regale ingresso. 2 Per i fatti di Parma cfr. Chronicon Parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, ed. G. Bonazzi, Città di Castello 1902-1904 (Rerum italicarum scriptores2, 9/9), pp. 212-213. 3 Come avvenne per il matrimonio di Giangaleazzo Visconti con Isabella di Francia, per il quale Galeazzo, padre dello sposo, fu costretto a imporre a Milano, già vessata, tributi straordinari: cfr. Annali di Alessandria […] dall’anno dell’origine sua sino al MDCLIX […] publicati da Girolamo Ghilini, Milano 1666, p. 71.


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mentale o delle campane a festa, i conviti; e, ancora, giochi non meglio identificati, altri d’arme (bagordi e armeggerie), messinscene di contenuto sacro e profano, le grandi feste cavalleresche: giostre, tornei e soprattutto il palio, che di quest’Italia di tradizione comunale seguì passo passo le vicende e la lotta politica fra le parti. Festeggiamenti infamanti (palii soprattutto, ma talora anche tornei e giochi d’arme)4 si aggiungevano all’elenco: interrompevano atti di guerra, ma con volontà offensiva non inferiore, preferendo la ritualizzazione ludica del conflitto al confronto diretto.

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I testimoni del tempo non solo consentono, a posteriori, di rintracciare il nesso esistente tra festa e politica, ma rivelano anche di averne avuto chiara coscienza. Così Giovanni Villani non lasciava dubbi allorché dichiarava che i festeggiamenti organizzati dal duca d’Atene a Firenze nella primavera del 1343 (giostre, «brigate per fare festa», il palio di san Giovanni opportunamente innovato) avevano lo scopo di «recarsi all’amore della Comune e popolo minuto»5. E non è il solo. Non molto diversa era la consapevolezza di Sercambi quando annotava che l’assunzione della signoria in Bologna da parte di Giovanni Bentivoglio nel marzo del 1401 era stata preceduta, fra l’altro, da «cene et deznari et cortezie a coloro che li pareano acti a doverlo servire»6. Seppure in altro contesto rispetto a quello in esame (a ulteriore riprova del nesso festa/politica per i tempi), anche le giostre e gli spettacoli d’armi cui partecipò la nobile gioventù napoletana nell’autunno del 1381 furono organizzati, secondo il cronista, «per farsi grata al re», Carlo III di Durazzo7. Non era sufficiente, tuttavia, bandire corte o tener festa perché i promotori ottenessero la ricaduta sperata in termini di memoria, propaganda o consenso: spettacoli e pubblici eventi nell’Italia di tradizione comunale risentirono spesso, nell’accoglienza e negli esiti, delle congiunture del mo-

4 Come la giostra voluta da Guido da Montefeltro, capitano di Forlì, il giorno di san Mercuriale del 1281 durante l’assedio posto dai Francesi alla città, per dimostrare che «non avesse paora» (Leone Cobelli, Cronache forlivesi ab u.c.-1498, edd. G. Carducci - E. Frati, con notizie e note di F. Guarini, Bologna 1877, pp. 59-60); o, ancora, le «giostre e badalucchi», finite in un’«aspra battaglia», organizzate dai Pavesi, mel maggio del 1356, contro i Milanesi assedianti (Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani, ed. G. Porta, I, Parma 1995, p. 743). 5 Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. Porta, III, Parma 1991, p. 315. 6 Giovanni Sercambi, Le croniche, ed. S. Bongi, III, Roma 1892 (Fonti per la storia d’Italia, 19-21), pp. 31-32. 7 Giovanni Antonio Summonte, Historia della città e Regno di Napoli […] dalla sua edificazione fin a tempi nostri […], III, nella stamperia di Domenico Vivenzio, Napoli 17481749, pp. 424-425.


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mento. Così, ritornando al duca d’Atene, la macchina festiva messa in piedi per attirare a sé il favore del popolo fiorentino (e disertata dai più che «cominciavano a dispiacere i suoi processi»), aggiungeva Villani (certo col senno di poi), «poco gli valse al bisogno»8; e a proposito della «festa grande» organizzata in occasione della signoria conferita su Pisa e Lucca da Giovanni Agnello ai figli Gualtiero e Francesco Acuto, Sercambi ricordava sì «l’alegrezza che dimostrava esser in Pisa», ma precisava anche che «dentro da’ chuori di ciascuno era somma tristizia a dire che i fanciulli fussero stati facti signori […] per quel modo»9. Il convergere delle testimonianze su questo o quel pubblico evento, conferma l’importanza di tali manifestazioni per la società di comune, nella quale avevano assunto la funzione di “segnalare” valori e posizione di regime, di un ceto dominante o, ancora, delle parti in lotta. La festa avrebbe consegnato alla gloria e agli onori, tra le memorie da trasmettere, l’oggetto delle sue celebrazioni. Perciò il testimone, col quale bisogna sempre fare i conti, anche in tali circostanze poneva cura nel registrare o tacere, consapevole del valore della sua testimonianza; e nulla potrebbe chiarire meglio di quelle in disaccordo, come si riscontra, caso emblematico, per la contrastata incoronazione a re di Germania di Ludovico di Baviera avvenuta a Milano nel maggio del 1327. Congiuntura critica – sia per gli avversari guidati dal pontefice Giovanni XXII, che, di lì a poco, per i collegati ghibellini (primi fra tutti gli stessi Visconti) –, riflessa fra l’altro nel racconto della storica circostanza. Così il senese Agnolo di Tura del Grasso (il più contraddittorio, ma forse il più attendibile), raccontando dell’incoronazione, avvenuta per mano di tre vescovi scomunicati in assenza dell’arcivescovo di Milano e col concorso di molti signori ghibellini fra i quali quello di Verona e di Ferrara, segnalava (come a presagio delle imminenti difficoltà nello schieramento ghibellino) che «picola festa v’ebe», ma non taceva, d’altra parte, del «grande onore» tributatogli dal signore milanese, Galeazzo Visconti, con «molti presenti e doni di denari», e con una «bella e grande giostra». Ai poli opposti da una parte la testimonianza dell’Anonimo senese che ricordava soltanto il «grande onore […] di presenti e di denari», i «grandi chonviti di chacciagioni e desinari e giostre» promossi dal signore di Milano; dall’altra il racconto di Giovanni Villani, guelfo convinto, che richiamava anch’esso l’incoronazione per mano di scomunicati, la presenza di molti «caporali di parte d’imperio e Ghibellini di Italia» e «però»

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G. Villani, Nuova cronica cit., III, p. 315. Sercambi, Le croniche cit., I, p. 132.


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soprattutto che «piccola festa v’ebbe», senza minimamente accennare, diversamente dai precedenti, alla festa organizzata in onore del duca di Baviera da Galeazzo Visconti10. Non deve sorprendere, inoltre, se le doti del signore, nuovo referente del governo cittadino, si “fissassero” nella memoria grazie anche a simili eventi, come appare dai resoconti che lo vedono spesso promotore e protagonista di feste e pubbliche manifestazioni11, ma anche vincitore, ad esempio, di gare o ludi equestri12 (fosse anche ad ogni costo)13; e se da alcuni giochi era bene che egli si astenesse14, altri contribuirono finanche a tracciarne il profilo di “uomo di stato”. Così introducendo nel racconto Mastino I della Scala, Giovanni Villani lo descriveva fra l’altro come «grande e forte della persona e azzuffatore e giucatore». Aiuta a comprendere meglio l’Anonimo romano, il quale, proprio del signore veronese (uno «delli maiuri tiranni de Lommardia»), ritraendolo con gli assoggettati (che vole-

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10 Cfr., successivamente, Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta la cronaca maggiore, in Cronache senesi, edd. A. Lisini - F. Iacometti, 2 voll., Bologna 19311939 (Rerum italicarum scriptores2, 15/6), I, pp. 253-564: 455; Cronaca senese dei fatti riguardanti la città e il suo territorio di autore anonimo del secolo XIV, ibid., I, pp. 39-172: 133; G. Villani, Nuova cronica cit., II, Parma 1991, p. 543. 11 Gare e spettacoli concorrevano a stabilire l’iconografia del potere signorile: notissimo l’esempio di palazzo Schifanoia a Ferrara, dove, per mano di Francesco Cossa, Borso d’Este è rappresentato, fra l’altro, come promotore di corse. 12 Il palio che i Fiorentini facevano correre a san Giovanni nel 1431 fu vinto, come si racconta, dal cavallo del signore di Faenza, mentre quello «di santo Giovanni, secondo, cioè il dì ‹di› santo Lo‹renzo›, ebelo il signore di Mantova»: cfr. Bartolomeo del Corazza, Diario fiorentino 1405-1439, ed. R. Gentile, Roma 1991, p. 35. 13 Il cronista Luca Landucci racconta di un significativo testa a testa, durante un palio di Siena, fra due cavalli, Draghetto e Lucciola, entrambi campioni, appartenenti l’uno al fratello Gostanzo e il secondo addirittura al Magnifico. Di pochissimo, ma tutti furono concordi nel ritenere che la vittoria spettasse al cavallo di Gostanzo. Un verdetto “addomesticato”, emanato dai giudici per non “disgustare” il potente signore di Firenze, proclamò, invece, vincitore il suo cavallo. Gostanzo «per reverenza di Lorenzo» non fece ricorso e, così, il palio toccò al signore di Firenze. Queste e altre imprese di Draghetto in D. Balestracci, La festa in armi. Giostre, tornei e giochi del Medioevo, Roma-Bari 2001, pp. 224-226. 14 L’azzardo anzitutto. Elencando le consuetudini di Luchino Visconti nella prima metà del Trecento, un grande estimatore dei signori milanesi, annotava che «ludum taxillorum […] abstulit»; diversamente aggiungeva che fu «magnificus in […] falconibus […] cytaristis, histrionibus»; anche di Alfonso I di Aragona, diciottenne, si ricordava la sua promessa (mantenuta) «che mai più giucherebbe». Cfr., in ordine, Galvanei de la Flamma ordinis praedicatorum Opusculum de rebus gestis ab Azone, Luchino et Johanne Vicecomitibus ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCXLII, ed. C. Castiglioni, Bologna 1938 (Rerum italicarum scriptores2, 12/4), p. 35, e Vita di Alfonso I re d’Aragona e di Napoli scritta da Vespasiano da Bisticci, con documenti e note, «Archivio storico italiano», 4 (1843), pp. 381-427: 396-397.


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va tenere «sì per forza sì per amore»), precisava: «Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate, che elli teneva con seco e davali granne provisione». E proseguiva: «Molti erano li baroni, molti erano li sollati da pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti so’ li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra»; e, ancora: «Granne era lo armiare […] conviti esmesurati; tromme e cerammelle, cornamuse e naccare sonare. Vedese […] iostre e tornii e bello armiare, cantare, danzare, saitare, onne bello e doice deletto fare»15. E non fu il solo. Anche di Francesco Gonzaga si diceva che avesse vinto spesso «in giostre, et altri iochi militari contra exercitatissimi» e che il suo amore per i cavalli lo avesse condotto a migliorarne la razza importandone da ogni dove, cosicché «in tutti corsi publici li gonzaici barbari, il premio et palma riportarono»16. Neppure i signori di Milano sfuggirono a tali ritratti. In un lamento per la morte di Bernabò Visconti (avvenuta nel 1385) non si dimenticava di ricordare: «Dov’è le giostre e belli torniamenti? / Di tucto ‘l mondo venia imbasciatori, / Buffoni, giocolari e altre genti, / Della tua corte erano i be’signori»17. E si potrebbe continuare. Feste e giochi erano assunti, dunque, a simbolo per lasciar memoria dell’uomo / simbolo dello stato. E non ingannino i severi e noti moniti petrarcheschi: a Ugo d’Este di astenersi dai «puerili giuochi cavallereschi pieni di danno e di pericoli [Periculosis autem ac damnosis et puerilibus […] ludis equestribus abstine]», nei quali non vi è «nulla di utile e di glorioso[ubi pericoli plurimum, utilitatis aut glorie nichel est]», esclusiva piuttosto di quanti «non possono, e […] non sanno far nulla di meglio [Linque illis hos ludos qui nichel maius possunt, nichel melius sciunt]»18; o a Francesco da Carrara di non curarsi di spettacoli, mostre, fiere e quant’altro, cose gradite a quel “falso estimatore” che è il popolo, ma di cui un principe non deve darsi pena19. Sarà sempre lui, a fianco del doge veneziano (Lorenzo Celso),

15 G. Villani, Nuova cronica cit., III, p. 202, e Anonimo romano, Cronica, ed. G. Porta, Milano 1981 (Piccola biblioteca Adelphi, 125), p. 35. 16 Mario Equicola, Chronica di Mantua, s.n.t., 1521 [?], ff. V 4v-5r. 17 Il lamento in rima di autore anonimo per la morte di Bernabò Visconti è riportato da Sercambi, Le croniche cit., I, in particolare pp. 336-337. 18 Per l’originale latino dell’epistola a Ugo d’Este cfr. F. Pétrarque, Lettres de la vieillesse. Rerum Senilium, ed. E. Nota, traduzione di F. Castelli - F. Fabre - A. de Rosny - L. Schebat, presentazione, notizie e note di U. Dotti, III: ll. VIII-XI, Parigi 2004, pp. 378-381 (Seniles, XI, 13); per la traduzione italiana si rinvia, invece, a F. Petrarca, Lettere senili volgarizzate e dichiarate con note da G. Fracassetti, II, Firenze 1870, pp. 176-177. 19 Pétrarque, Lettres de la vieillesse cit., IV: ll. XII-XV, Parigi 2006 (Seniles, XIV, 1) e Petrarca, Lettere senili cit., II, p. 357: «Del lusso nei banchetti, nei teatri, nella mostra di belve estranie e feroci, ed in altrettanti spettacoli che nulla apportano di vantaggio, e recan


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con un capovolgimento di prospettiva ad applaudire e poi ricordare le feste “più solenni”, di cui si serbi memoria («factum est quantum fieri per hominem Deo potest, sacris celeberrimis»), offerte dalla città lagunare per la vittoria su Creta del 1364. Dopo una “magnifica” processione («processione insigni […] habita»), cui presero parte clero e popolo veneziano, e altre manfestazioni di religiosa pietà, fu la volta dei giochi e delle gare («in ludos ac spectacula versi omnes»). Due, in particolare, colpirono il poeta: una corsa (probabilmente all’anello) e un torneo. Nonostante il gran concorso di gente, tutto si svolse con ordine e senza incidenti e dappertutto solo gioia e cortesia, concordia e amore («nullus […] tumultus, nulla confusio, nullus rancor, sed omnia plena letitie, plena gratie, plena concordie atque amoris»), e, ancora, magnificenza e fasto, non disgiunte da moderazione e sobrietà («Et sic magnificentia regnum suum tenuit, ne inde modestia ac sobrietas exularent»). Del resto, chiariva Petrarca, quale migliore spettacolo si poteva offrire del tripudio “giustissimo” di una città «non già per guasti fatti sulle terre dei vicini, o per prevalenza di cittadine gare, siccome altrove si suole, ma solo per il trionfo della giustizia [non de vicinorum iniuriis, non de simultatibus civium aut rapinis ut reliquas, sed de sola iustitia]»? Venezia insomma, commentava l’autore, non esultava per la propria vittoria, ma per quella che aveva ottenuto la giustizia, riproponendo uno dei miti più fecondi della città lagunare: «Esulta l’augusta città di Venezia, unico albergo a’ dì nostri di libertà, di giustizia, di pace […] Esulta Venezia […] non della propria vittoria, ma di quella che ottenne la causa della giustizia [Augustissima Venetorum urbs, que una hodie libertatis ac pacis et iustitie domus est […] non de sua sed de iustitie victoria, glorietur ac gaudeat]». E siccome, proseguiva, la vittoria fu rapida e incruenta (e qui poco importa che le cose non fossero andate proprio in questo modo), giusti erano la gioia e il trionfo manifestati («Hinc ergo gaudium, hinc triumphus»). E ribaltando il luogo comune di biblica memoria secondo il quale alla gioia segue sempre il dolore, al gioco e alla festa il pianto, concludeva dicendo che finiti gli spettacoli si auspicava che non s’interrompessero la pubblica esultanza e la serie dei felici successi20. Qual miglior suggello di

solo breve, non sempre onesto né di animi onesti degno diletto, comeché assai se ne piaccia quel falso estimatore delle cose ch’è il volgo, io son d’avviso non doversi un buon principe dare alcun pensiero». 20 Cfr., ancora, Pétrarque, Lettres de la vieillesse cit., II: ll. IV-VII, Parigi 2003, pp. 5669 (Seniles, IV, 3), e Petrarca, Lettere senili cit., II, pp. 227-234; si veda anche (disponibile, al momento, solo per quest’ultima delle lettere citate) l’edizione, F. Petrarca, Le senili, ed. E. Nota, traduzione a cura di U. Dotti, Torino 2004.


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questo alle celebrazioni per la vittoria veneziana? Petrarca insomma non stigmatizza più feste e pubblici spettacoli, perché ciò che conta è, soprattutto, chi e perché li promuove: le virtù, prime fra tutte la giustizia, esercitate da un signore, da uno stato consentono anche di mettere sulla scena giuste celebrazioni. Governanti e pubblici spettacoli

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Controllare giochi e pubblici spettacoli divenne, per il governo comunale, questione urgente, risolta trasformandosi in promotore e assumendone in molti casi la gestione: il palio – di cui non sono chiari gli antecedenti e che soltanto a partire dal secolo XIII assunse le caratteristiche che lo contraddistinsero alla fine dell’età di mezzo – offrì l’occasione per antonomasia, diventando materia da normare21. I comuni italiani individuarono così la “loro” festa da promuovere, controllare e gestire, facendole progressivamente assumere carattere pubblico, veste simbolica e rituale. E il palio, trasformandosi in festa di comune, acquistò anche funzione e dimensione politiche. L’ottica della normativa era quella comunale: era lo stato cittadino che lo istituiva o se ne faceva carico, assumendosene anzitutto le spese; ed era sotto la giurisdizione dei magistrati cittadini che la corsa doveva avere luogo. L’intento promozionale era evidente soprattutto laddove la normativa si sforzava di assicurare lo svolgimento e la correttezza della gara: introducendo, per esempio, l’obbligo di bandire la corsa per tempo anche fuori dal comune; o di esporre il premio in luoghi predeterminati e di rilievo pubblico; o, ancora, di vincolare gran parte della comunità, a vario titolo, a prendere parte alla festa; o, infine, di non ostacolare o, al contrario, di non favorire i concorrenti. La normativa non faceva, in realtà, che sancire, rilanciandola, una tradizione: alla fine del medioevo la corsa, normalmente in onore di un santo, spesso arricchita di un preciso significato politico per l’onore conquistato sul nemico (i palii istituiti per celebrare una vittoria esterna o interna), si rivelava uno strumento adatto e riconoscibile della memoria cittadina, soggetta, peraltro, a cambiamenti e oblii. Segno tangibile, allora, di come una comunità aggiornasse la memoria del proprio pas-

21 Per gli aspetti più salienti del palio nell’Italia di tradizione comunale si rinvia ad A. Rizzi, Ludus/ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, Treviso-Roma 1995 (Ludica: collana di storia e civiltà del gioco, 3), pp. 171-204.


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sato è dato anche dalla “rimotivazione” e, perciò, “riqualificazione” di una gara o dalla sua sostituzione con un’altra, legata a una nuova circostanza significativa22. Talora era l’evento politicamente rilevante (una vittoria, una pace …), e che la festa andava a commemorare, a offrire il pretesto per celebrare un santo. Ambedue le circostanze fornivano al palio l’occasione per esercitare la propria funzione politica: promuovere le tradizioni civiche, laiche e religiose insieme. Il carattere ambivalente del palio, associato com’era alla celebrazione del santo locale e alla vittoria politico-militare, si rispecchiava anche nella complesssa liturgia cittadina, di cui la corsa era soltanto un momento, seppure importante. E a conferma della sua funzione politica, l’interdizione della gara a chiunque fosse apparso «inimicus, rebellis vel condennatus […] Comunis», e soprattutto, l’auspicio che tutto si svolgesse, per esempio, «ad honorem et leticiam et bonum statum partis regentis», come pure «per salute et defensione del comune»23. Era normale, allora, che i momenti di crisi del regime tardo comunale avessero effetti anche sullo svolgimento della gara: il palio, allora, rappresentava bene un’età in cui realtà politiche diverse si opponevano per rivendicare la propria individualità e autonomia. E non era casuale, inoltre, che le comunità ricollegassero spesso le origini della propria corsa alla crisi del tardo impero, quando furono costrette a fronteggiare da sole (abbandonate com’erano da uno stato in disfacimento e potendo contare esclusivamente sulle proprie forze e sull’intervento del santo locale) l’urto di popoli che premevano alle porte, difendendo autonomia e libertà essenziali alla propria sopravvivenza: un modo per ricollegare il palio a quel periodo a cui ciascuna città si sarebbe, poi, rivolta per creare il mito della propria indipendenza; un modo, infine, per eleggere il palio a festa del comune, in quanto testimone delle origini dello spirito di indipendenza, della capacità di coesione e della coscienza civica di una comunità. Nel corso del secolo XV, tuttavia, i valori di riferimento della società contemporanea e le forme spettacolari della loro trasmissione mutarono: non erano più (o non solo) libertà e autonomia da poteri esterni, coesione

22 23

Per gli esempi si rimanda ibid., pp. 181-184. Cfr., in ordine, I. Calabresi, Montepulciano nel Trecento. Contributi per la storia giuridica e istituzionale. Edizione delle quattro riforme maggiori (1340 circa-1374) dello statuto del 1337, Siena 1987, p. 228 (cap. 4); Statuti di Verona del 1327, edd. S.A. Bianchi - R. Granuzzo, con la collaborazione di G.M. Varanini - G. Mariani Canova, presentazione di G. De Sandre Gasparini, I, Roma 1992 (Corpus statutario delle Venezie, 8, I), p. 159 (l. I, cap. 51); Statuti di Ascoli Piceno dell’anno MCCCLXXVII, edd. L. Zdekauer - P. Sella, Roma 1910, p. 321 (l. II, cap. 6).


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interna, “soggezione” al santo locale (finora ben rappresentate dal palio), ma munificenza e splendore dei nuovi principi, che si volevano, ora, segnalare con duelli armati nelle tradizionali manifestazioni cavalleresche, ripensate come eventi spettacolari, di cui ciascun signore voleva indire o disputare il più bello e degno di memoria. La valenza e funzione politiche attribuite a feste e pubblici spettacoli non sfuggirono, infine, allo stato cittadino nella fase di conquista di una fisionomia politico-territoriale superiore. I nuovi regimi si trovarono a fare i conti non solo con altri modelli politico istituzionali, ma anche con altre usanze e tradizioni, quelle festive incluse; e gli interventi si modularono a seconda delle circostanze fra il mantenimento dei costumi locali – come strumento per facilitare ad esempio l’inizio di un nuovo rapporto, di un nuovo assoggettamento –, e la ridefinizione o l’avvicendamento delle feste tradizionali con altre più consone alle nuove congiunture e ai nuovi poteri24.

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Predicatori e pubblici spettacoli

La Chiesa attraverso gli ordini mendicanti operò all’interno delle comunità contemporanee interagendo con l’autorità pubblica. I predicatori, come è noto, perseguirono in maniera radicale due priorità fondamentali: l’evangelizzazione dei fedeli (riguardante la sfera più strettamente religiosa), ma soprattutto (a partire dal secolo XV) il disciplinamento dei costumi (pubblici e privati) contemporanei, ponendosi il problema dell’attuazione concreta della dottrina; obiettivo, peraltro, che non mancò di condizionare, talora, anche la loro personale elaborazione teorica o interpretazione dei principi giuridico-teologici a cui facevano riferimento25. Essi intrapresero, anzitutto, un’azione pastorale basata sulla predicazione e la confessione annuale, avendo come obiettivi ricorrenti alcune questioni importanti per le comunità del tempo: usura, sodomia, ebrei, vanità muliebri e,

24

Alcuni esempi, soprattutto per Venezia, su questo modo di operare in A. Rizzi, Il gioco della “battagliola”, in Pace e guerra nel Basso medioevo. XL Convegno storico internazionale (Todi, 12-14 ottobre 2003), Spoleto 2004 (Atti dei Convegni del Centro italiano di studi sul basso medioevo - Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale, 17), pp. 219-254: 251-252; A. Rizzi, La regolamentazione del gioco nelle comunità italiane minori alla fine del medioevo, «Ludica», 11 (2005), pp. 113-131: 123-124. 25 Così anche G. Ceccarelli, Il gioco e il peccato. Economia e rischio nel Tardo Medioevo, Bologna 2003, pp. 330 ss., a proposito dell’azione dei predicatori francescani osservanti contro l’azzardo. M. Montesano, Aspetti e conseguenze della predicazione civica di Bernardino da Siena, in La religion civique à l’èpoque médiévale et moderne (chrétienté et islam).


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non ultimo, giochi e pubblici spettacoli: era inevitabile, pertanto, che governanti e predicatori si confrontassero da vicino anche su quest’ultimi26.

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Nell’Italia di comune la festa era insieme manifestazione civica e ricorrenza religiosa, ciascuna con i suoi momenti e i suoi “riti”, ma, fanno intendere spessissimo i contemporanei, vissute e percepite in sintonia: come a Parma dove, si racconta, il giorno dell’Assunta del 1315 fu celebrato fra l’altro «magnis bagordis et gaudiis»; o come a Perugia, dove l’Ascensione del 1430 fu festeggiata, oltre che con una processione, con «balli e molti altri giochi»27. Così le feste – istituite magari per commemorare una vittoria propiziata, come spesso si diceva, da un santo – riunivano insieme eventi ludici e atti di pietà e devozione (processioni, offerte di ceri, celebrazioni eucaristiche …), collocando la festa tra fede e politica: a Firenze, per ricordare soltanto uno degli esempi più noti, la festa di san Vittore, istituita per commemorare la vittoria sui Pisani del 1364 avvenuta durante la ricorrenza religiosa, avrebbe visto associare celebrazioni e offerte al santo a una corsa a cavallo28. Anche nei palii di dispregio per disonorare il nemico in guerra prendendo quasi sempre a pretesto l’anniversario patronale, è possibile riconoscere la duplice fisionomia assunta dalla festa nell’Italia di comune; ma anche, andando più nel particolare, in quelle armeggerie di «molti giovani ghuelfi […] per la città di Firenze» (nel gennaio del 1383) per onorare sant’Antonio in Santa Reparata, a un anno esatto da che «rie-

Colloque organisé par le Centre de recherche «Histoire sociale et culturelle de l’Occidente. XIIe-XVIIIe siècle» de l’Université de Paris X-Nanterre et l’Institut universitaire de France (Nanterre, 21-23 juin 1993), cur. di A. Vauchez, Roma 1995 (Colection de l’École Française de Rome, 213), pp. 265-275: 273-275, aggiunge, peraltro, che tali obiettivi potevano non essere tenuti distinti (come, ad esempio, nell’azione condotta da Bernardino da Siena nei riguardi del gioco a Perugia nel 1425), a dimostrazione di una preoccupazione «per la vita pubblica in quanto tale, intesa, cioè senza una reale distinzione tra sfera “religiosa” e sfera “civile”». 26 Dell’azione mendicante nei confronti di spettacoli e giochi pubblici si è già detto soprattutto in Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 132-147, ma si vedano anche A. Rizzi, Il gioco fra norma laica e proibizione religiosa: l’azione dei predicatori fra Tre e Quattrocento, in Gioco e giustizia nell’Italia di Comune, cur. G. Ortalli, Treviso-Roma 1993 (Ludica: collana di storia del gioco, 1), pp. 149-182, e A. Rizzi, Dal divieto alla moralizzazione: il gioco e la predicazione al tramonto del medio evo, «Ludica», 1 (1995), pp. 157-170. 27 Cfr. Chronicon parmense cit., p. 142; Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1491 nota col nome di Diario del Graziani […], ed. A. Fabretti, in Cronache inedite della città di Perugia dal 1150 al 1563, «Archivio storico italiano», ser. I, 16/1 (1850), pp. 69-750: 343. 28 M. Villani, Cronica cit., II, pp. 737-738 (continuazione di Filippo Villani): «ogni anno di san Vittore, come a patrone di Guelfi […] vi fanno solennemente celebrare la sua festa con bella offerta della parte, e.ppoi nel giorno fanno correre u. ricco palio».


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bono lo stato e gli onori»29. E nell’accorta registrazione di religiosi a feste dal netto profilo politico, la riprova che la festa era percepita e vissuta come momento unitario, appannaggio di tutti, a prescindere dallo status: così, ad esempio, alle «giostre […] desinari e cene e balli», organizzati a Siena nel 1385 in occasione della riforma che aveva portato all’elezione di Dieci Priori, si segnalava pure la presenza di frati e monache30. E non è tutto. La convergenza di valori (laici, civici, religiosi) nei festeggiamenti delle comunità tardomedievali risaltava anche maggiormente qualora un ludus hastarum31 o «nuovi […] giuochi»32 avessero luogo per celebrare o accogliere un alto prelato, magari inviato in missione speciale. E ancor più che nelle città collegate o del dominio della Chiesa, è a Roma che dimensione laica e religiosa potevano trovarsi accomunate nella festa pubblica: non solo la rinuncia dell’antipapa Felice al soglio pontifico (nell’aprile del 1449) fu accolta facendo correre un palio; anche la ricorrenza dei santi Pietro e Paolo nel 1473 sarebbe stata festeggiata con una corsa analoga seguita però, subito dopo, da sacre rappresentazioni33. L’attività pastorale dei predicatori tre-quattrocenteschi rivolta alla correzione dei costumi contemporanei prevedeva, fra l’altro, la censura del modo

29 Alle bocche della piazza. Diario di anonimo fiorentino (1382-1401), edd. A. Molho F. Sznura, Firenze 1986, pp. 44-45; analogamente alla notizia che Jacopo dal Verme, nel 1391, aveva intercettato i Fiorentini (con cui i Senesi erano in guerra), prendendo loro gran parte dei rifornimenti, furono organizzate in città («el dì di san Tomé») «grandissima festa» e solenne processione: Cronaca senese conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri (Continuazione - Anni 1381-1431), in Cronache senesi cit., I, pp. 687-835: 742. 30 Ibid., p. 711. 31 Come quello organizzato, ad esempio, per l’arrivo a Bologna nel 1360 del cardinale Egidio Albornoz: Cronica gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononiae, edita a frate Hieronimo de Bursellis (ab urbe condita ad a. 1497) […], ed. A. Sorbelli, Città di Castello 1912 (Rerum italicarum scriptores2, 23/2), p. 49. Ma armegiossi anche a Firenze nel 1370 per il cardinalato concesso al concittadino Piero di Tommaso Corsini (Diario del Monaldi, ristampa dell’edizione procurata dal can. Antonio Maria Biscioni con note ed indici, Milano 1845, p. 434); e, in precedenza, feste e bagordi avevano seguito l’elezione di Ugolino Rossi a vescovo di Parma nel 1323 (Chronicon parmense cit., p. 171). 32 In più ricordano quelli visti il calendimaggio del 1304 mentre Niccolò da Prato si trovava a Firenze per porre pace fra neri e bianchi fuoriusciti. Fra i giochi è ricordata una sorta di “messinscena infernale” («fecionvi la somiglianza e figura dello ’nferno») sul ponte alla Carraia, che per il gran concorso di folla cadde provocando molti morti: cfr. Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso cit., p. 281; G. Villani, Nuova cronica cit., II, pp. 131-132; e Paolino Pieri, Cronica delle cose d’Italia. Dall’anno 1080, fino all’anno 1305. Pubblicata […] dal cavaliere Anton Filippo Adami, nella stamperia di Giovanni Zempel presso Monte Giordano, Roma 1755, p. 78. 33 Stefano Infessura, Diario della città di Roma, ed. O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti


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di trascorrere la solennità religiosa e d’intendere svago e divertimento in generale, spettacoli inclusi. Essi adducevano, a motivo, lo sperpero di denaro che tali manifestazioni comportavano, e che si sarebbe potuto donare, invece, ai poveri o al più «per fare conviti o feste» in onore di Dio34 (considerazioni, non va tralasciato, che s’inserivano in una più ampia riflessione sulle attività economiche idonee alla societas christiana, fra l’altro stigmatizzando ogni uso improprio del denaro); ma condannavano anche la pericolosità e, quindi, l’insensatezza di molti spettacoli, con particolare riferimento a quelli d’armi (altrettanto importante per l’uomo di Dio era difendere la “sacralità” e incolumità del corpo, creato a difesa dell’anima). Il predicatore, tuttavia, lamentava soprattutto la “distrazione” che feste e spettacoli producevano dalla condotta e pratica cristiane. Quante volte ne diede conto da un secolo all’altro; il messaggio era lo stesso, semmai si alzavano i toni. Così, Domenico Cavalca (nei primi decenni del Trecento) sosteneva che «la letizia del secolo è una impudica nequizia», come, fra le altre cose, «stare agli spettacoli e fuggire ogni cosa di Dio»; un po’ più tardi Girolamo da Siena dichiarava, invece, che si opponeva al precetto domenicale chi, al contrario, frequentava «giuochi, danze, corti, giardini, balli, canti», impegnando il tempo «in offesa di Dio»; alla fine del Quattrocento, infine, Savonarola, immaginando che fosse Iddio a parlare direttamente ai fanciulli fiorentini durante la quaresima del 1497, gli faceva dire: «santificate le mie feste comandate, state nelle chiese [...] a onorare il nome mio, non a vedere le donne […] non andate a vostre feste e balli […] ma santificate tutta la mia festa»35. E forse il predicatore, senza troppo esagerare, non faceva che cogliere intorno a sé segnali di cambiamento: e se non di disaffezione alle cose di Dio, quantomeno di affezione anche ad altre. Quanto registrato a Ferrara nel 1486 durante la ricorrenza di san Giorgio, potrebbe esserne una conseguenza: quel giorno si tennero «giostre e balli», e così, rilevava il testimone, in pochi si recarono ad ascoltare la predica che Bernardino da Feltre stava tenendo in contemporanea con i giochi36.

per la storia d’Italia, 5), pp. 48 e 78 (dell’edizione è disponibile anche una ristampa anastatica: Torino, Bottega d’Erasmo, 1966). 34 È questa, ad esempio, una delle raccomandazione del predicatore alla buona moglie per le sue spese: Giovanni Dominici, Regola del governo di cura familiare, Firenze 1927, p. 97. 35 Cfr., in ordine, Domenico Cavalca, Medicina del cuore overo trattato della pazienza ridotto alla sua vera lezione da Giovanni Bottari, Milano 1838, p. 265; Girolamo da Siena, Il soccorso dei poveri, citato in Prosatori minori del Trecento: scrittori di religione, ed. G. De Luca, Milano-Napoli 1954, pp. 310-311; e Girolamo Savonarola, Prediche sopra Ezechiele, ed. R. Ridolfi, II, Roma 1955, pp. 278-279. 36 Autore del commento è Bernardino Guslino, Vita del B. Bernardino da Feltre. Prima edi-


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Parte integrante dell’azione pastorale del santo uomo, sarebbe stato, allora, accertarsi se il penitente avesse assolto al terzo comandamento: «Item domandi», suggeriva sant’Antonino, «in che si exercita i dì delle feste cioè se è ito alla chiesa agli uffici divini a udire le prediche, se ha facto l’altre operationi pie di dare helemosine o visitare infermi o andare a perdonanze il perché sono ordinate le feste, o veramente se se dato a giucare o taverneggiare, bestemiare o mormorare o stare otioso»37. La stigmatizzazione della festa poteva portare anche a ritenerla emanazione diabolica. Così giudicò, ad esempio, Bernardino da Feltre gli spettacoli del carnevale: un ribaltamento (come per Bernardino da Siena lo era stato l’azzardo) di quanto stabilito da Cristo per l’uomo, attraverso un periodo di festeggiamenti che riproduceva, travisandone i contenuti, il periodo chiave per la cristianità della quaresima (con la sostituzione, ad esempio, del “triduo” pasquale con quello carnevalesco)38. Va detto, peraltro (come in parte è emerso), che i contemporanei non facevano che raccontare di giostre, tornei, bagordi in onore di papi e alti prelati, dei quali celebravano più il potere temporale, che l’autorità religiosa. Così in seno alla Chiesa da una parte si condannavano gli spettacoli, ma dall’altra si dava motivo alla loro diffusione. Comuni, predicatori e disciplina della festa: contrasti e risultati L’ingerenza dei predicatori nel panorama festivo tradizionale, suggerendo di trascorrere feste e pubbliche celebrazioni in maniera cristianamente consona, divenne più assidua nel corso del secolo XV, durante il quale da una parte la Chiesa avvertì un bisogno di maggiore osservanza al suo interno e di controllo sociale, dall’altra i nuovi regimi suggerirono modelli più referenziali di manifestazione del potere: più che un’affermazione di libertà e indipendenza dello stato cittadino, la festa d’ora in avanti sarebbe stata una “messa in scena” delle virtù e qualità dei nuovi organismi politici e dei loro signori.

zione integrale con note illustrative di Alberto Ghinato, «Le Venezie francescane», 27 (1960), pp. 1-24: 20. 37 Tractato volgare di frate Antonino arcivescovo di Firenze che è intitolato Curam illius habe, [in fine] impresso in Firenze, per ser Lorenzo de’ Morgiani et Ianni di Piero di Maganza, oggi questo dì XXIII di maggio 1493, c. 10r. 38 Si veda anche, con i relativi esempi, Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 34-38 e 136-139.


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L’azione del predicatore quattrocentesco nelle comunità del tempo si fece, dunque, più incisiva39; e ne indicava la direzione quando insisteva coi governanti sulla necessità di legiferare contro i vizi del tempo, suggerendo quello che si sarebbe rivelato uno dei risultati più significativi del rapporto stabilitosi tra comuni e ordini mendicanti alla fine dell’età di mezzo40. Già dal Trecento l’uomo di Dio lamentava l’incapacità delle autorità pubbliche di regolamentare fra l’altro giochi e feste: non si trattava solo di carenza di leggi, ma anche di inadeguatezza degli ufficiali pubblici a far rispettare quelle vigenti. È colpa delle Signorie, accusava il Savonarola, «che non fanno che ne’ loro territori sieno fatte buone leggi, e che si viva costumatamente», perché fra l’altro non vogliono ancora «levare via e’ giuochi». E, ancora, «voi siete creati magistrati per levare via li vizi e li peccati; voi lasciate il fine, e non imparate di fare quello che è vostro ufficio»41. E semmai il predicatore fosse riuscito ad ottenere leggi adeguate, era consapevole che non appena fosse uscito di scena le cose sarebbero tornate come prima, magari con l’aiuto di podestà accondiscendenti a rilasciare grazie speciali. Il contrasto, tuttavia, giungeva alle estreme conseguenze quando l’uomo di Dio non chiedeva generici divieti, ma si adoperava contro precise

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Sul complesso rapporto tra predicatori mendicanti e società italiana alla fine del medioevo, ancora per diversi aspetti da indagare, i contributi sono molti; se ne segnalano solo alcuni recenti, utili a inserire in un contesto più ampio l’argomento qui trattato: A. Vauchez, Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990 (raccolta di saggi già pubblicati e ora in versione italiana); B. Paton, Preaching Friars and the Civic Ethos: Siena, 1380-1480, Londra 1992; P.F. Howard, Beyond written word: preaching and theology in the Florence of archbishop Antoninus 1427-1459, Firenze 1995; A. Thompson, Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo, Milano 1996; Predicazione e società nel medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento. Preaching and society in the middle ages: ethics, values and social behaviour. XII Medieval Sermon Studies Symposium (Padova, 1418 luglio 2000), cur. L. Gaffuri - R. Quinto, Padova 2002. Incentrati, invece, su figure particolari di predicatori: Montesano, Aspetti e conseguenze cit.; C. Iannella, Giordano da Pisa. Etica urbana e forme della società, Pisa 1999; F. Mormando, The preacher’s Demons. Bernardino of Siena and the Social Underworld of Early Renaissance Italy, Chicago-Londra 1999. Su alcuni aspetti della predicazione nella società del tempo, si rimanda alle raccolte: La parole du prédicateur Ve-XVe siècle, cur. R.M. Dessì - M. Lauwers, Nizza 1997; Medieval Sermons and Society: Cloister, City, University. International Symposia at Kalamazoo and New York, cur. J. Hamesse et al., Louvain-La-Neuve 1998; Prêcher la paix et discipliner la société: Italie, France, Angleterre, 13-15 siècle, cur. R.M. Dessì, Turnhout 2005. 40 Sulla normativa influenzata dai predicatori quattrocenteschi relativa a feste, pubblici spettacoli e gioco in generale (primo fra tutti l’azzardo) si rinvia a un’analisi più ampia in Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 109-120 e 139-146. 41 Girolamo Savonarola, Prediche sopra Ruth e Michea, ed. V. Romano, I, Roma 1962, p. 228.


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manifestazioni ritenute pericolose o motivo di indebita “distrazione” del denaro pubblico. Alcuni casi documentati già per il secolo XIV42 testimonierebbero che l’ingerenza del predicatore sortisse risposta (l’interdizione di uno spettacolo, una gara …), soltanto quando il suo intervento risultasse alle autorità cittadine un utile supporto nella regolamentazione e disciplina della festa. Tuttavia è soprattutto nel corso del secolo successivo che aumentò la pressione dei predicatori sui responsabili di governo relativamente a spettacoli e giochi pubblici: si ebbero, infatti, non solo più frequenti interventi di condanna e richieste d’abolizione, ma anche una produzione normativa riconducibile ad essi. Il caso, per ora, meglio attestato riguarda gli Statuta Bernardiniana, ispirati e connessi con la predicazione di Bernardino da Siena a Perugia nel 1425, che portarono, fra l’altro, all’abolizione della battaglia coi sassi (alla quale il frate aveva dedicato un intero sermone)43, un’usanza che, vanamente, le autorità pubbliche avevano cercato di bloccare già dalla metà del secolo XIII, optando alla fine per un’azione più che altro di contenimento. Gli Statuta Bernardiniana arrivarono, in effetti, a un risultato legislativo mai raggiunto in precedenza: la totale interdizione (per chiunque e in qualunque luogo, con qualsiasi arma) di tale pratica44. Esemplare inoltre, stando almeno a un suo biografo, l’impegno profuso da Bernardino da Feltre nella lotta ai pubblici spettacoli, che raggiunse, peraltro, risultati diversi. A Siena, nel 1488, ad esempio, le insistenze del predicatore di abolire la tauromachia per la festa di Maria Maddalena, ritenuta troppo pericolosa, si scontrarono con l’opposizione di un rappresentante dell’aristocrazia cittadina, il quale ottenne che lo spettacolo continuasse ad avere luogo perché ricordava l’ascesa al potere della sua fazione: perciò la protesta del frate invece di produrre bandi d’interdizione vide, al contrario, promuovere ulteriormente l’usanza locale. A Brescia, invece, nel 1494 ottenne che le autorità ordinassero la sospensione delle corse per l’Assunta, richiesta con la speranza che le somme stanziate fossero devolute all’istituendo Monte di Pietà; le gare, a dire il vero, furono sostituite da giostre d’armi per dare maggior lustro ai giovani delle fa-

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Per i quali si rimanda a Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 139-142. Riassunto da D. Pacetti, La predicazione di S. Bernardino da Siena a Perugia e ad Assisi nel 1425, «Collectanea Franciscana», 10 (1940), pp. 167-169. 44 Salvo poi riapparire ancora a fine Cinquecento. Sulle vicende legislative della litomachia perugina e i suoi esiti, si vedano C. Cardinali, Il santo e la norma: Bernardino da Siena e gli statuti perugini del 1425, in Gioco e giustizia nell’Italia di Comune cit., pp. 183-192: 190-191; A.A. Settia, La “battaglia”: un gioco violento fra permissività e interdizione, ibid., pp. 121-132: 131-132; Rizzi, Il gioco della “battagliola” cit., pp. 245-246.


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miglie gentilizie cittadine45. Gli esempi potrebbero anche continuare. Non c’erano dubbi: le feste e in particolar modo quelle ordinate dalla Chiesa per il predicatore andavano celebrate diversamente, santificandole con atti di devozione cristiana.

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Il confronto fra autorità pubbliche e predicatori su feste e giochi pubblici portò a dei risultati. Anzitutto (come è già emerso) ad alcuni decreti d’interdizione: in questo modo l’uomo di Dio poteva disporre di un canale aggiuntivo, legislativo, per pronunciare con maggior forza il suo messaggio di conversione religiosa e dei costumi46. Le autorità pubbliche, per parte loro, erano intenzionate, in linea di principio, a preservare e anzi a promuovere la festa pubblica e assecondavano il religioso solo nelle richieste che ritenevano plausibili. I predicatori, infatti, riuscivano a ottenere dalle autorità pubbliche l’abolizione di uno spettacolo, solo se questo non fosse risultato più compatibile con l’ordine sociale e gli equilibri interni, o non fosse appartenuto più al circuito della memoria e dell’identità civiche47. In sostanza le rivendicazioni dell’uomo di Chiesa, per andare a buon fine, avrebbero dovuto accordarsi col programma di disciplinamento promosso dall’autorità civile. È possibile, allora, che i predicatori offrissero alle autorità comunali pretesto per una manovra repressiva nei riguardi di talune manifestazioni pubbliche che, forse, non erano state in grado o non era stato sufficiente attuare da sole. Non è inverosimile, peraltro, che i responsabili di governo individuassero nel predicatore un importante canale per l’organizzazione del consenso – in un periodo in cui, ad esempio, la situazione interna era compromessa da lotte e tensioni – e quindi ne accogliessero le sollecitazioni anche a costo di qualche rinunzia significativa, come avvenne sempre a Perugia nel 1425 su pressione di san Bernardino, per alcune specificità dei culti cittadini: gli Statuta Bernardiniana, accogliendo le richieste del senese, proibivano infatti anche le danze, i giochi e i canti che si svolgevano durante la festa di sant’Ercolano (cioè quelle espressioni del

45 Cfr., rispettivamente, Guslino, Vita del B. Bernardino da Feltre cit., «Le Venezie francescane», 28 (1961), pp. 1-24, 81-104: 92 e V. Meneghin, Bernardino da Feltre e i Monti di Pietà, Vicenza 1974, pp. 515-516. Altri episodi, ancora, dell’azione di Bernardino da Feltre contro alcune manifestazioni pubbliche in Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 144-145. 46 Così anche Montesano, Aspetti e conseguenze cit., p. 267. 47 Non si trattava inoltre (com’era chiaro anche agli stessi predicatori) di abolizioni definitive: lo dimostrano le revisioni delle norme appena emanate (che reintroducevano, magari “ripuliti” dai tratti più pericolosi, giochi e pratiche inutilmente aboliti) o le discussioni incontrate nei consigli cittadini dalle proposte di legge (alle quali non si dava, in definitiva, alcun seguito).


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culto locale, non strettamente connesso con l’evento religioso, che altrimenti, forse, si sarebbe preferito salvaguardare)48. Il tentativo di disciplinare giochi e manifestazioni pubbliche condotto da autorità laiche e uomini di Chiesa doveva, poi, fare i conti con la realtà che, in genere, opponeva resistenza a divieti o limitazioni. Non si può escludere, tuttavia, che tale opera di regolamentazione non soltanto esprimesse tendenze generali e, talora, condivise da entrambi i fronti, ma avesse anche un’influenza sul lungo periodo, almeno per quel che concerne la spettacolarizzazione di talune pratiche.

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La condanna dell’uomo di Chiesa per feste e pubbliche manifestazioni non era pronunciata soltanto, come sembra, per ragioni d’ordine morale. Egli era perfettamente consapevole della loro valenza politica e importanza presso i governanti. Pio II, a proposito della sua visita a Firenze nel 1459, ricordava che, dei 14.000 fiorini raccolti per l’occasione, la maggior parte era stata trattenuta dalle autorità fiorentine e il resto era andato, invece, per sostenere il seguito di Galeazzo Maria Sforza (figlio del duca di Milano), anch’egli in città; per rendere omaggio a lui, invece, o per l’organizzazione di giochi, non si era certo largheggiato («Impensa erga Pontificem minima fuit, nec in apparandis ludis magni sumptus facti»). Le precisazioni del Piccolomini non servivano, certo, soltanto per una mera constatazione di eccessivo “attaccamento” al denaro di Firenze («videntur ad rem plus aequo attenta»); semmai, fra le righe, è possibile riconoscere la consapevolezza che in quell’occasione ai Medici (primo fra tutti Cosimo il Vecchio, da un anno unico signore della città) importasse sottolineare i buoni rapporti con lo Sforza (già da qualche tempo collaudati), piuttosto che quelli col pontefice49. Con chiarezza, invece, quasi disarmante, il Savonarola, parlando del reggi-

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Le manifestazioni ludiche della festa di sant’Ercolano furono abolite dalla rubrica XIII degli Statuta. Su questo ulteriore motivo dell’assenso assicurato, talora, dall’autorità comunale alle richieste avanzate da un predicatore, cfr. anche Montesano, Aspetti e conseguenze cit., p. 275. 49 Enea Silvio Piccolomini, I Commentarii, ed. L. Totaro, I, Milano 1984, pp. 364-365 (all’episodio rimanda anche G. Ortalli, Politica e festa: un risvolto nell’ambito dell’universo ludico, in questo stesso volume). Da una parte, forse, a Cosimo premeva “legittimarsi” ulteriormente col signore milanese per il modo in cui aveva assunto il potere (e che non risparmiò le critiche di Pio II); dall’altra, a partire dalla fine degli anni Quaranta, fra Firenze e Milano era iniziata una sorta di alleanza contro Venezia – di cui si temevano, forse soprav-


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mento di Firenze accusava: «E molte volte, massime in tempo di abondanzia e quiete, lo occupa [riferendosi al popolo fiorentino] in spettacoli e feste, acciò che pensi a sé e non a lui»; e, non bastasse, continuava: «e che similmente li cittadini pensino al governo della casa propria, e non si occupino nelli secreti del Stato, acciò che siano inesperti e imprudenti nel governo della città, e che lui solo rimanga governatore, e para più prudente a tutti»50.

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L’impressione, allora, è che i tempi siano mutati. Si è rotta l’antica solidarietà comunale anche per quel che riguarda la festa pubblica: essa non sembra rappresentare più, al meglio, l’armonia di istanze civiche e religiose. Per questo, forse, dall’uomo di Dio è demonizzata e additata come fattore di scristianizzazione della società contemporanea. E non a caso, forse, i toni si alzano proprio nel corso del Quattrocento, quando l’esperienza comunale lascia definitivamente la strada a nuove realtà più complesse: la festa non avrebbe più (o non solo) significato politico perché riflesso delle diverse vicende di una comunità, ma in quanto (come lascia intendere il Savonarola) “opererebbe” più che all’interno, al di sopra di essa con funzione di controllo. La festa, agli occhi del predicatore quattrocentesco, non accomunerebbe i molteplici valori di una comunità, ma riuscirebbe soltanto a opporre una condotta di vita a un’altra; e, ancora, non farebbe memoria con linguaggi diversi (civico e religioso) di uno status raggiunto, ma distrarrebbe dalla realtà. Il pericolo morale ad essa sotteso e a lungo denunciato sembra tramutarsi ora, a Quattrocento inoltrato, in pericolo politico. Da qui la preoccupazione dell’uomo di Dio. Sarà sempre il Savonarola a dire: «queste recreazioni e quietudini oggidì sono male usati»51. Non poteva, allora, che essere una diretta conseguenza di tal timore e consapevolezza manifestati dal predicatore quattrocentesco il radicalizzarsi, nel secolo della riforma cattolica, della lotta contro i pubblici spettacoli, promossa dai rappresentanti dei nuovi ordini religiosi.

valutandole, le mire espansionistiche –, prolungatasi anche dopo la pace di Lodi e la costituzione della Lega italica (1454-1455), che avevano dato avvio a una fase di difficili equilibri diplomatici. E, ritornando ai festeggiamenti del 1459, anche da un’autorevole testimonianza di parte fiorentina, l’impressione che effettivamente gli onori riservati al pontefice («ogni honore, reverenzia, e pompa», si ricordava, era stata «apparata con ogni excellenza») non furono superiori a quelli per lo Sforza (definiti addirittura «expectaculo bellissimo): cfr. R.C. Trexler, The Libro Cerimoniale of the Florentine Republic by Francesco Filarete and Angelo Manfidi. Introduction and text, Ginevra 1978, pp. 74-77. 50 Girolamo Savonarola, Prediche sopra Aggeo con il trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, ed. L. Firpo, Roma 1965, p. 459. 51 Girolamo Savonarola, Prediche sopra Giobbe, ed. R. Ridolfi, II, Roma 1957, p. 112.


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Del resto, va anche detto, proprio la Chiesa dava prova dell’uso sapiente della festa: lo confermano le invettive del predicatore che dal secolo XIV continuavano a colpire alti prelati che organizzavano conviti per i ricchi piuttosto che donare ai poveri; lo confermano (come è emerso) le cronache del tempo, che riferivano di continui festeggiamenti in onore di papi e insigni esponenti del clero; lo conferma soprattutto il grande Pio II descrivendo, per esempio, la festa del Corpus Domini svoltasi a Viterbo il 17 giugno del 1462. Promossa dal Piccolomini, vide una “galleria” di autorità ecclesiastiche mettersi in “mostra” con ricchezza e dispendio di apparati, a significare il potere e l’onore di ciascuno, ma fra tutti spiccarono, come è ovvio, quelli del pontefice. E la folla, concludeva l’attento regista di tal messa in scena, accorse in massa, attratta «indulgentiae causa», ma anche «ad spectaculum»52.

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Predicatori e governanti nell’Italia di tradizione comunale percepiscono la valenza politica della festa. L’azione dei primi nei riguardi di giochi e pubblici spettacoli all’interno delle comunità col tempo evidenzia il mutare del suo significato e modo d’intenderla. Momento in cui convivono istanze e valori diversi, con l’evoluzione del comune cittadino si “adatta” a rifletterne i mutamenti, diventando, alla fine, spettacolo per (e di) nuove élite e nuovi signori. Così l’uomo di Dio, avvertendone la pericolosità in termini politici (e non più soltanto morali), ne prende le distanze intravedendo una divisione fra festa laica e religiosa. Alcuni segnali sembrerebbero inconfondibili. A Verona, nel 1480, ad esempio, le autorità pubbliche «commisero […] ad un altro giorno feriato» la giostra per san Giovanni, su sollecitazione della predicazione di Bernardino da Feltre in cattedrale, perché lo spettacolo «non s’havesse a fare, et spetialmente nel giorno di festa»53. Ancora. S’infittiscono gli attacchi del predicatore contro il palio, festa tradizionale di comune. Lo stesso Bernardino da Feltre, si è detto, ottenne che a Brescia le corse dell’Assunta fossero interdette. A più riprese il Savonarola a Firenze si scagliò contro il palio di san Barnaba e san Giovanni: «pare a voi ch’el sia tempo da palio? Io dico che gli è tempo da piangere, e non da ridere», meglio sarebbe devolvere i denari spesi per i poveri, facendo cosa più gradita ai santi54; e in effetti apprendiamo che dal gior-

52 53

Enea Silvio Piccolomini, I Commentarii cit., II, pp. 1595-1613. Guslino, Vita del B. Bernardino da Feltre cit., «Le Venezie francescane», 26 (1959), pp. 1-47: 17. 54 Così a Firenze il 29 maggio del 1496: Savonarola, Prediche sopra Ruth e Michea cit., I, p. 270. Una settimana più tardi (il 5 giugno) il frate ripeteva le stesse cose: «questo è tempo da piangere non da fare feste, non da correre palii» (ibid., pp. 285-286).


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no di san Giovanni del 1494 (e fino alla morte del frate) non si tenne più «festa veruna se non le processioni e l’offerta di San Giovanni»55. Sembrano davvero lontani i tempi delle corse in onore del patrono locale, magari in terra straniera, di fronte al nemico assediato, per propiziarsi il santo favore e ottenere, così, l’onore di guerra. Ma anche quelli in cui, come avvenne a Forlì l’ultimo di maggio del 1314, per onorare la morte di un sant’uomo (il «beato Jacomo veniciano de l’ordine de’ frati predicatori»), si organizzavano «una fera e mercato libero […], ove dovessero venire mercatanti a portare loro mercantie», insieme a «una bella hoferta con una bella festa»56. Tempi in cui per l’uomo di Dio il palio, la corsa prefiguravano quella intrapresa dal buon cristiano per ottenere la ricompensa eterna; ora, invece, dallo stesso giungeva solo il deprezzamento per un’usanza che aveva ben rappresentato un’epoca in cui i simboli della società laica si mescolavano con quelli della comunità religiosa rinsaldandosi a viceversa. Età ormai giunta al tramonto. La festa religiosa, dunque, prendeva le distanze da quella laica. E l’evento ludico, momento imprenscindibile di qualsiasi festa civica, diventava per lo stato spettacolo, intrattenimento per i più e pretesto di esibizione per pochi; per l’uomo di Chiesa, invece, rivalutato come esercizio d’armi, si trasformava in un utile strumento educativo per l’uomo destinato al governo, novello difensore della societas christiana57.

55

Come riferiva un ammiratore del Savonarola, Luca Landucci, nel suo Diario: citato da P. Gori, Le feste fiorentine attraverso i secoli. Le feste per san Giovanni, Firenze 1989 (rist. anast. ed. 1926), p. 97. 56 Cobelli, Cronache forlivesi cit., p. 87. 57 Sulla definitiva rivalutazione del ludus come esercizio d’armi si rinvia anche ad A. Rizzi, Regulated play at the end of the Middle Ages: the work of mendicant preachers in communal Italy. Convegno “Athletes and Athletics in the Early Modern Period, 1000-1650 A.D.” (Toronto 17-19 giugno 2004), in corso di pubblicazione.


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Altri contributi a questo volume hanno già introdotto una serie di elementi che ci sarà occasione di riprendere ma non sarà più necessario presentare e definire, a partire dalla categoria storiografica di ludicità (Gherardo Ortalli). L’angolazione almeno in parte diversa da cui vorrei guardare al sistema delle relazioni fra festa e politica, affiancandola per farla interagire con quelle presentate da altri, è lo specchio della trattatistica. Un’altra specificità del mio punto di osservazione è quella di essere studioso del Rinascimento, dunque del crepuscolo del periodo qui preso in esame; dato però che di quattrocento parlano ripetutamente anche altri autori in queste pagine, uno sguardo all’indietro che prende le mosse dal primo quarto del cinquecento non risulterà da questo punto di vista dissonante rispetto agli altri contributi. Facendo mia anche la consuetudine invalsa in altri interventi ad esplorare il retroterra metodologico e storiografico entro cui si inscrivono e acquistano il loro senso compiuto determinate prospettive critiche, sarà il caso di menzionare che fino a una o due generazioni fa lo studio della corte occupava un ruolo relativamente marginale all’interno del campo della storia politica, e che è soprattutto nell’arco degli ultimi trent’anni, fra l’altro a partire dalla tardiva circolazione internazionale delle discusse tesi di Norbert Elias, che quel luogo e quella dimensione del potere hanno acquistato una nuova centralità1. E di aggiungere che questi nuovi indirizzi di ricerca si sono distinti per il ricorso a una strumentazione metodologica almeno in parte ispirata alla teoria sociale, fra l’altro investigando la sfera della politica con chiavi di lettura che ne sottolineavano la natura di com-

1 Ci si riferisce essenzialmente a N. Elias, La società di corte, Bologna 19802 (ed. or. 1975). Per un saggio di rilettura critica, J. Duindam, Norbert Elias e la corte d’età moderna, «Storica», 16 (2000), pp. 7-30.


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portamento ritualizzato2. Ne furono esempi pionieristici il libro di Edward Muir sul rituale civico nella Venezia del Rinascimento, e quello parallelo di Richard Trexler sul caso di Firenze3. A partire da intuizioni di Frances Yates, poi sviluppate fra gli anni ’70 e gli anni ’80 fra gli altri da Roy Strong, questo sguardo alle forme e manifestazioni del potere ha prestato sistematica attenzione alla varietà di espressioni (quali feste, spettacoli, trionfi) di volta in volta assunte dai cerimoniali – liturgie sacre così come secolarizzate dell’autorità regia o imperiale: strumenti di propaganda, certo, ma anche terreni di elaborazione di nuove strategie da parte di strutture politiche in corso di trasformazione4. Così, negli anni ’90, è stato possibile che si concepisse uno speciale progetto di ricerca internazionale per sottoporre a un intenso programma di riedizione e di studio la sfera delle pubblicazioni effimere legate all’allestimento di entrate reali in determinate città e territori e in simili occasioni festive5. Se dalla sfera vistosa di ludi e trionfi ci spostiamo alla dimensione – non meno pubblica ma più riservata nella sua collocazione sociale e realizzazione spaziale – del ruolo del gioco nella vita quotidiana dell’ambiente delle corti rinascimentali, pagine stimolanti sono state scritte da uno storico economico sui generis come Guido Guerzoni, che sta esplorando con ricchezza di dettagli il sistema anche tecnico e organizzativo dell’allestimento delle feste rinascimentali; ma che, più in generale, ha sottolineato la contrappo-

2 Cfr. The Princely Courts of Europe: Ritual, Politics, and Culture under the Ancien Regime, 1500-1750, cur. J. Adamson, London 1999; J. Duindam, Vienna e Versailles: le corti di due grandi dinastie rivali (1550-1780), Roma 20042 (ed. or. 2003). 3 Cfr. R. Trexler, Public Life in Renaissance Florence, New York 1980; E. Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 19842 (ed. or. 1981). Si veda anche M. Casini, I gesti del principe: la festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia 1996. 4 F.A. Yates, The Valois Tapestries, London 1959; F.A. Yates, Astrea: l’idea di impero nel Cinquecento, Torino 19782 (ed. or. 1975); R. Strong, Arte e potere: le feste del Rinascimento, 1450-1650, Milano 19873 (ed. or. 1973, 19842), che contiene ulteriori indicazioni bibliografiche. 5 Ci si riferisce al progetto “Europa triumphans”, che aveva il suo centro nell’università di Warwick. Pubblicazioni prodotte da quell’équipe di studiosi (anche prima che assumesse quella specifica cornice istituzionale) includono: Spectaculum Europaeum: Theatre and Spectacle in Europe, 1580-1750, cur. P. Béhar - H. Watanabe-O’Kelly, Wiesbaden 1999; Court Festivals of the European Renaissance: Art, Politics and Performance, cur. J.R. Mulryne - E. Goldring, Aldershot 2002; Europa Triumphans: Court and Civic Festivals in Early Modern Europe, cur. J.R. Mulryne - H. Watanabe-O’Kelly - M. Shewring, Aldershot 2004. È anche per evitare la facile attrazione esercitata dalla ricca e più nota documentazione offerta dai due poli fiorentino e veneziano che la principale pubblicazione prodotta all’interno di quel progetto (l’ultima citata) selezionò, per esemplificare il caso italiano, un campione di materiale genovese: cfr. Festivals in Genoa in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, cur. M.I. Aliverti, in Europa Triumphans cit., I, pp. 217-370.


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sizione fra giochi patrizi e giochi plebei, la centralità dei primi per l’identità nobiliare, il loro uso rituale quale forma di “spreco virtuoso”6. Passiamo allora ad alcune fonti. La festa e il gioco sono dimensioni che appartengono pressoché intrinsecamente, quasi a definirli, ai luoghi e ai tempi dell’esistenza delle corti degli stati italiani così come si vengono a connotare a seguito dell’evoluzione signorile delle forme politiche medievali. Se, come punto d’osservazione per guardare all’indietro, prendiamo il capolavoro della letteratura che ha elaborato il codice e lo stile di vita di quell’ambiente socio-culturale, Il libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, la dimensione ludica attraversa e impregna di sé tutto il corpo del testo, a partire dal fatto che il dialogo ambientato nelle serate urbinati è un gioco di società, attraverso il carattere giocoso della conversazione e l’insistenza su di un tema come le facezie, per arrivare all’importanza attribuita alla competenza che al perfetto uomo e donna di corte si richiedono su tutto il ventaglio delle arti, con particolare riguardo per quelle dello spettacolo7. Nonostante queste indubbie sottolineature – per le quali anche la successiva fortuna europea del Cortegiano rappresentò, fra l’altro, un fondamentale veicolo per la circolazione di queste forme culturali elaborate dal Rinascimento italiano – l’immagine che ci si fa dell’opera e del progetto culturale dell’autore rischierebbe di risultare deformata se non si tenesse conto di un fondamentale aggiustamento di prospettiva che il lettore incontra all’inizio dell’ultimo libro. Dopo una famosa pagina nostalgica sui bei tempi trascorsi a Urbino, e un ricordo dei personaggi del dialogo che nel frattempo se ne sono andati, vi prende la parola Ottaviano Fregoso, non senza esitazioni nell’avvio della conversazione (su cui tornerò fra breve). Egli prende le mosse dal modello del cortigiano perfetto, così come è stato tratteggiato nel corso delle prime due serate. Ma annota senza mezzi termini (Cortegiano, IV, 4): «se con l’esser nobile, aggraziato e piacevole ed esperto in tanti esercizi il cortegiano non producesse altro frutto che l’esser tale per se stesso, non estimarei che per conseguir questa perfezion di cortegiania dovesse l’omo

6 Cfr. G. Guerzoni, Playing Great Games: the Giuoco in Sixteenth-Century Italian Courts, «Italian History and Culture», 1 (1995), pp. 43-63; G. Guerzoni, «Ei non distingueva i giuochi patrizi da i plebei»: note sul gioco aristocratico e cortese tra Quattro e Cinquecento, «Ludica», 2 (1996), pp. 45-60. Ma si veda anche il suo saggio a cui si fa riferimento oltre, nota 17. 7 Sul tema si possono vedere: S. Kolski, Music and Dance in the Cortegiano, «Italian Studies», 53 (1998), pp. 1-19; S. Lorenzetti, Musica e identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento, Firenze 2003.


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ragionevolmente mettervi tanto studio e fatica, quanto è necessario a chi la vole acquistare; anzi direi che molte di quelle condicioni che se gli sono attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e giocare, fossero leggerezze e vanità, ed in un omo di grado più tosto degne di biasimo che di laude»8. Fra quelle elencate per ridimensionarne il valore, la danza acquista un sapore particolare se si tiene presente che è proprio l’attività in cui Ottaviano al suo arrivo ha sorpreso intenti gli altri cortigiani (al punto che gli ha suggerito una battuta: la sera precedente alcuni interlocutori avevano espresso opinioni poco lusinghiere sulla dignità delle donne, ma ora sembra abbian fatto con loro la pace). Il riferimento alle donne non è qui dettaglio di poco conto se si ricorda che, nella serata precedente, lo stesso Fregoso era apparso in prima fila fra gli interlocutori antifemministi all’interno della querelle des femmes. Così, il carattere effimero e vano delle competenze e dei divertimenti di corte assume delle decise connotazioni di genere nella frase immediatamente successiva: «perché queste attillature, imprese, motti ed altre tai cose che appartengono ad intertenimenti di donne e d’amori, ancora che forse a molti altri paia il contrario, spesso non fanno altro che effeminar gli animi, corrumper la gioventù e ridurla a vita lascivissima»9. «Utilissime e degne d’infinita laude» le operazioni del cortegiano diventano invece se «indrizzate a […] bon fine»10, che è quello di entrare nelle grazie del principe per poi ben consigliarlo negli affari di stato. Quello di Castiglione è un testo dalla composizione travagliata, ma lungo tappe che ci sono ben documentate: ce le ha rese oggi più riconoscibili uno studio appassionato di Amedeo Quondam. Una nutrita tradizione critica ha visto nel quarto libro, e nella svolta che vi vede introdurre un tema serio e impegnativo come quello politico, una certa rottura e forzatura. Dato che nelle due redazioni precedenti a quella che Castiglione dà alle stampe l’opera si articolava in tre, piuttosto che in quattro libri, si è voluto vedere in questa modifica tardiva un ripensamento che viene a introdurre un tema estraneo a quello che aveva inizialmente ispirato l’autore. Gli studiosi di conseguenza si sono schierati nel difendere o mettere in dubbio l’unità d’assieme dell’opera; e hanno fatto notare come il cambiamento di tono e temi sia proposto da Castiglione facendo ricorso a particolari espedienti stilistici che ne sottolineerebbero l’eccezionalità nel corpo del testo: Otta-

8 B. Castiglione, 9 Ibid. 10 Ibid.

Il libro del Cortegiano, ed. W. Barberis, Torino 1998, pp. 357-358.


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viano Fregoso, che ha avuto l’incarico di fungere da oratore principale della serata, tarda a presentarsi in pubblico; al punto che gli altri cortigiani danno inizio a intrattenimenti alternativi, dando ormai per persa la prosecuzione della conversazione. A quel punto Fregoso si presenta, e alla fine, dopo qualche esitazione e insistenza, ci si decide ad avviare quella che sarà l’ultima serata raccontata dall’autore11. Ma la rilevanza della registrazione di tutto questo cade in gran parte se si tiene ora presente quanto è emerso dalle indagini testuali di Quondam: anziché essere il risultato di rimaneggiamenti tardivi, quello del cortigiano come consigliere del principe è punto presente fin dal nucleo originale dell’opera; faceva parte provvisoriamente del terzo libro, e viene poi spostato nel quarto, dove il materiale nuovo che vi viene aggiunto è l’orazione di Pietro Bembo sull’amore platonico. La circostanza non è irrilevante per il nostro discorso dato che, a giudizio di Quondam, Castiglione nei primi anni ’20 del cinquecento diede sì corso a un terremoto testuale che coinvolgeva il senso stesso dell’opera e il suo rapporto con la scena politica a lui contemporanea. Ma questo non andava nel senso dell’introdurre il topos dell’institutio principis, che – si diceva – era già presente ed era motivo alquanto tradizionale, in cui la letteratura umanistica si era esercitata (non senza cadere in forme di servilismo nei confronti del potere); all’opposto, questo è l’aspetto che verrebbe invece ridimensionato proprio dall’introduzione del discorso del Bembo, che con il suo afflato filosofico suggerirebbe una prospettiva in grado di far uscire da quel vicolo cieco in cui proprio in quegli anni gli equilibri politici e le vicende militari delle guerre d’Italia stavano conducendo il paese. Non sarà un caso allora se proprio il passo che si citava prima contiene una delle più esplicite e amare lamentazioni di Castiglione sul destino dell’Italia, che segue immediatamente l’annotazione circa il rischio che le arti cortesi effeminino gli animi e corrompano la gioventù: «onde nascono poi questi effetti che ’l nome italiano è ridutto in obbrobrio»12.

11 Cfr. L.V. Ryan, Book Four of Castiglione’s Courtier: Climax or Afterthought?, «Studies in the Renaissance», 19 (1972), pp. 156-179; W.A. Rebhorn, Ottaviano’s Interruption: Book IV and the Problem of Unity in Il Libro del Cortegiano, «Modern Language Notes», 87 (1972), pp. 37-59 (poi rielaborato nel suo Courtly Performances: Masking and Festivity in Castiglione’s Book of the Courtier, Detroit 1978, pp. 177-204). 12 Castiglione, Il libro del Cortegiano cit. L’annotazione su «effeminar gli animi, corrumper la gioventù», Amedeo Quondam ricostruisce essere microriutilizzazione che proviene da una collocazione molto distante (nelle precedenti versioni del testo), ed è trasposta in questo luogo a precisare i termini negativi del modello cortigiano da scartare: si veda A. Quondam, «Questo povero Cortegiano»: Castiglione, il Libro, la Storia, Roma 2000 (Biblioteca del Cinquecento, 100), p. 195 e passim.


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Il medesimo luogo in cui Fregoso «ripercorrendo le qualità che deve avere il cortigiano, cerca di rifunzionalizzarle tutte rispetto all’etica del rapporto cortigiano-principe» era stato ricordato anche da Mario Baratto ad un congresso di italianisti francesi tenutosi a Nanterre nel 1978, in cui il contesto era il rapporto fra intellettuale e principe nella vita culturale italiana del tempo, e la conciliazione fra il mezzo festivo e il fine etico-politico, proposta nel libro del Castiglione, veniva presentata come «fittizia, più retorica che logica: strano destino – scriveva Baratto –, quello del cortigiano, se deve diventare un intellettuale mondano per avere il coraggio di dire la verità politica al principe: una sorta di ascesi attraverso il diletto»13. Il tema del dire la verità – in quanto obbligo morale del cortigiano –, a cui si riferiva nel passo citato Baratto, è quello del capitolo immediatamente successivo del Castiglione. E può offrirci lo spunto per ricollocare il testo del primo cinquecento nel contesto a cui appartiene; inserirlo cioè in una tradizione e segnalare dei precedenti e punti di riferimento, dato che si tratta di un capitolo che Claudio Scarpati ha sottoposto ad una attenta ricostruzione, che ne ha segnalato i sensibili rimaneggiamenti subiti a opera dell’autore. A proposito di modelli di ispirazione, Scarpati segnala, oltre agli autori classici a cui più o meno direttamente si rifà tanta letteratura rinascimentale, il De principe di Giovanni Pontano, un autore che «riportato in auge nel 1518 dai tre volumi di opere pubblicati dagli eredi di Aldo e dai sei volumi giuntini del 1520, era l’auctoritas più vicina al Castiglione per altezza d’ingegno, per autorevolezza di intellettuale e di diplomatico, per consistente e continua fortuna editoriale»14. E Scarpati ritiene possibile ipotizzarne una lettura tardiva da parte del Castiglione, contemporanea, e in parte ispiratrice, del rifacimento del Cortegiano in quella terza redazione che venne effettivamente data alle stampe. Il nome del Pontano ci rinvia a uno scenario particolarmente interessante per il nostro discorso, quello dell’umanesimo napoletano strettamente associato alla corte d’Aragona. Nel ventaglio delle forme istituzionali presenti nell’Italia del quattrocento, si trattava della costituzione monarchica in senso più stretto, e dunque di un cantiere privilegiato per l’elaborazione di una riflessione teorica sul principe. Gli studi sulla politica e la cultura della

M. Baratto, La vie culturelle en Italie au début du XIVe siècle: l’intellectuel et le prince, «Chroniques italiennes», 10 (1987), pp. 37-54: 48-49; disponibile (con diversa impaginazione) anche all’url http://www.univ-paris3.fr/recherche/chroniquesitaliennes/PDF/10/Intellectuel.pdf 14 C. Scarpati, Dire la verità al principe. Cortegiano, IV, 5, in Scarpati, Dire la verità al principe: ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano 1987, pp. 9-44: 39. 13


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Napoli rinascimentale, e in particolare un volume di Jerry Bentley, hanno mostrato che autori come Pontano e Giuniano Maio riprendono la tradizione degli specula principis e la adattano alle rinnovate condizioni del tardo quattrocento. Con il termine speculum principis si designa quella tradizione tardo-medievale della letteratura di institutio del sovrano, che oggi tendiamo un po’ a ricordare soprattutto per il fatto che il Machiavelli del Principe ne rovescia il consueto contenuto (e, provocatoriamente, lo fa proprio nel suo scritto in cui apparentemente ne adotta la forma)15. La tradizione degli specula attribuiva al principe ideale una serie consolidata di virtù quali giustizia, liberalità e clemenza. Nelle condizioni del rafforzamento dei principati italiani e delle monarchie europee caratteristiche del periodo che stiamo considerando, un modello aggiornato viene ad affiancarvi delle virtù adatte ad accrescere autorità e statura del sovrano, come magnificenza e maestà16. La elaborazione di tali virtù presentava salde radici classiche, che le qualificava come eminentemente pubbliche (dello stato, piuttosto che del signore in quanto privato), e giustificava sulla scorta della loro valenza politica l’investimento economico che richiedevano, altrimenti passibile di venir giudicato uno spreco. Proprio alla seconda metà del quattrocento è stato fatto risalire uno slittamento che le avrebbe trasformate, da habitus condiviso dai gruppi sociali privilegiati, in monopolio specifico dei principi17.

15

Un’aggiornata scelta di indicazioni bibliografiche sull’argomento si può trovare in M.L. Picascia, La pace e la guerra negli Specula principum del primo Quattrocento francese, in Pace e guerra nel basso Medioevo. Atti del XL Convegno storico internazionale. Todi, 1214 ottobre 2003, Spoleto 2004, pp. 131-152 (una segnalazione per cui ringrazio Alessandra Rizzi). Per la tesi secondo cui a quel genere l’opera di Machiavelli apparterrebbe appieno cfr. A. H. Gilbert, Machiavelli’s Prince and its Forerunners, Durham 1938; una sua netta confutazione è in D. Quaglioni, Il modello del principe cristiano. Gli «specula principum» fra Medio Evo e prima Età Moderna, in Modelli per la storia del potere politico, I, Firenze 1987, pp. 103-122: 121 (che rinvia a Gennaro Sasso). Un giudizio più articolato sul confronto e l’apparentamento istituito da A.H. Gilbert fra il Principe e la letteratura precedente è in F. Gilbert, Il concetto umanistico di principe e Il Principe di Machiavelli, in Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna 19772, pp. 171-208: 198-199 (ed. or. 1939) – nei cui confronti dichiara il suo debito sull’argomento Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, I, Il Rinascimento, Bologna 1989², p. 230 (ed. or. 1978). 16 Cfr. J.H. Bentley, Politics and Culture in Renaissance Naples, Princeton 1987, specialmente p. 208. 17 Così G. Guerzoni, Liberalitas, Magnificentia, Splendor: le origini classiche del fasto rinascimentale, «Cheiron», 31-32 (1999), pp. 49-82 – una ricerca fine anche per le osservazioni di semantica storica (ne ho consultato la versione inglese: Liberalitas, Magnificentia, Splendor: The Classical Origins of Italian Renaissance Lifestyles, in Economic Engagement with Art, cur. N. De Marchi - C.D.W. Goodwin, Durham 1999, pp. 332-378: annotazione specifica a p. 358).


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Le ritroviamo come oggetto di una serie di trattatelli specifici del Pontano – che si affiancano alla sua parallela discussione, nel De principe e nel De obedientia, dei doveri reciproci del governante e dei suoi sudditi – e sono comunemente noti come i suoi libri delle virtù sociali. Si tratta, in cinque brevi testi latini diversi per datazione e dedicatario, delle virtù della liberalità, della beneficenza, della magnificenza, dello splendore, e di quella conviviale. Il Pontano vi rielabora numerosi spunti classici, non senza manifestare un interesse personale per la classificazione e segnalare quando una scelta linguistica o definizione sia frutto della sua propria elaborazione. Così, distingue la beneficenza in quanto consiste in opere da una liberalità che concerne l’uso del denaro. Il testo che qui interessa più direttamente è il De magnificentia, databile al 1486. In apertura l’autore segnala affinità e differenze fra magnificenza e liberalità. La prima implica la seconda ma non viceversa, e, mentre l’uomo liberale dona, quello magnifico spende. La ragione che guida la liberalità è l’utilità altrui; la magnificenza vi aggiunge l’obiettivo del “piacere” altrui («ad aliorum voluptates faciant»), «come quando – ecco qui una prima introduzione della sfera di attività che qui più specificamente interessa – allestiscono giochi e spettacoli nei teatri ed offrono pubblici spettacoli di caccia nei campi»18. La dimensione del piacere dei cittadini (civium voluptas) si presenta dunque come un valore aggiunto, differenza specifica che «i giochi, le cacce e gli altri generi di spettacoli» presentano rispetto ai pur utili lavori ed edifici pubblici, perché ricercano «il sollievo dell’animo dalle attività e dalle fatiche»19. La rassegna sulle opere dell’uomo magnifico arriva più avanti a trattare in un capitoletto specifico de ludis publicis. La categoria è piuttosto generica se funge per il Pontano da contenitore, da un lato, delle feste che «si fanno per motivi religiosi» (pietatis gratia), così nell’antichità come, ai suoi tempi, con la festa del Corpus Domini; dall’altro quelle che «si fanno per il piacere del popolo, come le giostre e le rappresentazioni che hanno come fine il piacere degli spettatori», «unde spectacula sunt dicta»20. Le cacce nel circo e le naumachie sono i primi fra gli esempi classici che l’autore 18 G. Pontano, La virtù della magnificenza a Gabriele Attilio vescovo di Policastro, in Pontano, I libri delle virtù sociali, ed. F. Tateo, Roma 1999 (Biblioteca del Cinquecento, 88), pp. 163-219: 167. Sul testo cfr. C. Kindell, Pontano: Poet & Prime Minister, London 1991, pp. 270-271; C. Finzi, Re, baroni, popolo: la politica di Giovanni Pontano, Rimini 2004, pp. 111-119. Per parte delle fonti citate qui e nel seguito e della bibliografia ad esse relativa mi è stata preziosa la consultazione di Cambridge Translations of Renaissance Philosophical Texts, II, Political Philosophy, cur. J. Kraye, Cambridge 1997. 19 Pontano, La virtù della magnificenza cit., p. 169. 20 Ibid., pp. 198-199.


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richiama al lettore. Temi affini affronta il Pontano quando, nei capitoli successivi, passa in rassegna trionfi, nozze e funerali, e così pure negli altri trattati della serie, come quelli sullo splendore e sul convivio. A proposito del De magnificentia del Pontano è ancora stimolante leggere qualche considerazione proposta più di trent’anni fa da Francesco Tateo. Rilevato il limite sociale di un’operetta che, più che le altre, tratta di un attributo esclusivo di principi e sovrani, egli soggiungeva che, «appunto perché la circostanza eccezionale, nella quale vuol vedersi realizzata questa eccezionale virtù, permette di prescindere da ogni considerazione del mondo pratico ed economico, la trattazione assume una prospettiva estetica […]. Fu proprio del Rinascimento […] sentire e colorire edonisticamente l’ideale etico dell’uomo, avvertendo la bellezza e la grazia come il segno tangibile della virtù. […] L’esser “magnifico” comporta come prima cosa non curarsi del denaro, ma preoccuparsi soltanto dell’esito assolutamente bello della propria opera […]. Lo spostamento in senso estetico della trattazione morale si rivela in questa operetta a proposito della traduzione del principio etico della virtù fine a se stessa, in quello della bellezza, della ammirazione, che sola deve giustificare l’opera grandiosa di un principe. Il suo è un dovere morale, ma sorretto da un ideale di gloria, di fama, da un desiderio di pura ammirazione […]. Il principe non deve tenere il conto delle spese»21. Il tema della magnificenza vantava una lunga tradizione, antica e recente. Si poteva far risalire perlomeno ad Aristotele, che gli dedicava un capitolo dell’Etica nicomachea (IV, 2, 1122a-1123a). Veniva ripreso fra gli altri, negli anni ’70 del quattrocento, nel De regno et regis institutione di Francesco Patrizi, che la definiva «maxima in regibus principibusque virtus» e portava l’esempio degli spettacoli allestiti da Cesare; ed ancora da Filippo Beroaldo (De optimo statu), che ricordava la magnificenza di Traiano lodata da Plinio (Panegyricus, 51). Non avrebbe mancato di far capolino anche nel Principe di Machiavelli, che include l’indicazione (XXI, 28) che il principe deve, fra l’altro, «ne’ tempi convenienti de lo anno – il riferimento, dunque, è a periodi specialmente deputati, come il carnevale – tenere occupati e’ populi con feste e spettaculi»22.

21 F. Tateo, Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Lecce 1972, pp. 170-171. Evidentemente, questa logica non mancava di scontrarsi, nella sensibilità di qualche autore e di parte del pubblico del tempo, con le preoccupazioni classiche e cristiane in materia di superbia. Su tale vizio, rinvio a C. Casagrande - S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000, pp. 3-35; ma si tengano presenti anche le problematiche morali ed economiche passate in rassegna da Guerzoni, Liberalitas cit. (con ricca bibliografia). 22 N. Machiavelli, Il Principe, ed. G. Inglese, Torino 1995, p. 153; cfr. Gilbert, Machia-


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Poco dopo il Pontano, «de la magnificenza» si occupa anche un capitolo in volgare del De maiestate di Giuniano Maio, dedicato a Ferrante d’Aragona nel 1492 e rimasto successivamente inedito fino alla sua pubblicazione da parte di Franco Gaeta. Punti di riferimento dell’autore fin dalla definizione del suo oggetto sono l’Etica nicomachea, il De officiis di Cicerone e gli exempla di Valerio Massimo. Sulla scorta di Aristotele, insiste sulla necessità che le opere siano proporzionate alla dignità dell’interessato, un criterio che veniva a calibrare ad personam un giusto mezzo, al quale ci si doveva attenere evitando sia eccessi sia difetti nell’esternazione del proprio status sociale, che avrebbero confuso il valore relativo dei singoli. Anche Maio prevede tanto la classe delle opere edilizie quanto l’insieme degli spettacoli. Avverte però che le attività di questa seconda sfera sono «fatte più tosto a celebritate che a necessario uso» – marcandovi negativamente, a differenza del Pontano, l’assenza di pubblica utilità. Vi ci vede più «laudare la dannosa lussuria che la mediocritate», sono indirizzate «a la presente voluttate e non a la utilitate futura»; «et imperò tale suntuositate acquista laude populare, piacendo a la indotta turba più che ad omini de più sincero iudizio ornati»23. Come esempi di magnificenza, Maio propone poi, prima, che «sopra un cavallo in tua maiestà sedendo, siei lo più vigoroso princepe e lo più possente cavalero de omo che manegia cavalli», quindi la caccia; ma il manoscritto poi termina lasciando la lista incompleta. La sua messa in guardia contro la condiscendenza nei confronti della volgarità degli spettacoli destinati al popolo si inscrive in una lunga tradizione che, alla consapevolezza dell’efficacia dell’offerta di panem et circenses, aveva affiancato una riflessione critica sulla moralità di tale consuetudine di governo. L’esprimeva, fra gli altri, l’epistola scritta da Francesco Petrarca ad Arquà nel 1373 a Francesco da Carrara De republica optime administranda (Seniles, XIV, 1), che rilevava il contrasto fra il piacere che banchetti, ludi ed esibizione di animali curiosi suscitava nel volgo e l’inde-

velli’s Prince cit., pp. 91, 177. Si tenga presente però, all’interno dello stesso Principe, il rovesciamento della tradizionale virtù della liberalità, con la raccomandazione a tener sotto stretto controllo le finanze, soprattutto nella fase iniziale di un principato, su cui richiama l’attenzione Guerzoni, Liberalitas cit., pp. 367-368. 23 I. Maio, De maiestate: inedito del sec. XV, cur. F. Gaeta, Bologna 1956, cap. XIX, pp. 223-231: 228. Una demarcazione nel giudizio nei confronti della magnificenza negli edifici di pubblica utilità, commendabile, contro quella che allestisce strutture destinate alla pura ricreazione, deprecabile, era già in Cicerone: cfr. Guerzoni, Liberalitas cit., p. 350. Per una coeva declinazione del motivo della magnanimità in ambiente veneziano si veda M. L. King, Personal, Domestic, and Republican Values in the Moral Philosophy of Giovanni Caldiera, «Renaissance Quarterly», 28 (1975), pp. 535-574: 547-548.


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gnità di tutto ciò honestis oculis24. Cronologicamente a valle della serie storica di questa tipologia di testi, in quella che «può a buon diritto essere considerata l’ultimo e più compiuto esempio della tradizione dello speculum principis», l’Institutio principis Christiani, Erasmo non si sarebbe discostato molto dal tono di queste preoccupazioni, da un lato prevedendo che «in tutto ciò che è di carattere pubblico, il principe non deve essere né fastoso né prodigo – una medietas memore della lezione aristotelica –, però sempre splendido: così per esempio negli edifici, nei giochi pubblici, nel ricevere ambascerie»; dall’altro identificando la sfera ludica come l’oggetto di uno specifico caveat che intende guidare la formazione del futuro reggitore della cosa pubblica («colui che ha passato i suoi primi anni fra adulatori e donnicciole, corrotto prima dalle false opinioni e poi dai falsi piaceri, nel gioco, nelle danze, nella caccia […]»)25. Altri contesti geo-politici presentano indubbiamente variazioni sul tema. Risulta particolarmente interessante il fatto che gli umanisti stessi fossero consapevoli della necessità di adeguare il loro discorso alle specificità locali. Così Nicolai Rubinstein e altri hanno studiato le metamorfosi di un testo del Platina dei primi anni ’70 del quattrocento, prima steso come De principe e inviato a Federico Gonzaga, poi rimaneggiato in dialogo De optimo cive e dedicato a Lorenzo de’ Medici, con uno slittamento dall’ordine del discorso della maestà a quello della libertà che evidentemente tiene conto della cultura e costituzione politica fiorentine26. In apertura ho adottato la metafora dello specchio per suggerire da quale visuale mi proponessi di analizzare l’interazione fra festa e politica. È chiaro però che la letteratura che ho rivisitato non propone in alcun modo un puro e semplice rispecchiamento della realtà sociale che le è contemporanea. In primo luogo andrà sottolineato una volta per tutte, a scanso di equivoci, che si tratta di testi normativi che si propongono di tratteggiare

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F. Petrarca, Rerum Senilium Liber XIIII ad Magnificum Franciscum de Carraria Padue Dominum, Epistola I: Qualis esse debeat qui rem publicam regit, ed. V. Ussani, Padova 1922, p. 25; cfr. I. Bejczy, The State as a Work of Art: Petrarch and his Speculum Principis (Sen. XIV, 1), «History of Political Thought», 15 (1994), pp. 313-321: 318. 25 Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano, ed. M. Isnardi Parente, Napoli 1977, pp. 153-154. L’annotazione è di Quaglioni, Il modello del principe cristiano cit., p. 121. 26 Cfr. N. Rubinstein, Il De optimo cive del Platina, in Bartolomeo Sacchi il Platina (Piadena 1421-Roma 1481). Atti del convegno internazionale di studi per il V centenario. Cremona, 14-15 novembre 1981, cur. A. Campana - P. Medioli Masotti, Padova 1986, pp. 137-144. Bartholomaei Platinae De principe, cur. G. Ferraù, Palermo 1979 (pp. 141-142 per il tema degli spettacoli e di altre manifestazioni della magnificenza).


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un modello a cui ci si dovrebbe ispirare, piuttosto che fotografare la realtà così com’è. Lo possono fare anche servendosi di esempi passati e presenti che danno spessore e rendono più immediatamente riconoscibili le loro proposte; ma anche la loro casistica è per sua stessa natura selettiva, indicando al lettore quei personaggi ed episodi storici che di volta in volta si possono proporre come esempi rappresentativi di comportamenti da seguire, oppure da evitare. Fatta questa precisazione, i modelli in sé – chiarito che non vanno scambiati sic et simpliciter per la pratica politica corrente – rivestono comunque un interesse per lo storico culturale che può opportunamente seguirne le metamorfosi e metterle in relazione con il variare delle condizioni storiche in cui si sono inseriti ed a cui (i modelli stessi) hanno offerto delle risposte. Nell’operare questo confronto va scontata per lo meno una seconda tara che rischia di condizionare il giudizio: quella delle costrizioni che ad un testo sono imposte dalle sue circostanze di produzione e circolazione, e in modo particolare dal suo genere letterario di appartenenza, che in misura non indifferente può dettare le regole retoriche di quello che è consentito dire, e definire i codici attraverso i quali l’audience a cui erano destinati avrà interpretato quei testi e reagito ai loro messaggi. Il microsondaggio che si è qui proposto ha incontrato nella sfera della festa e dello spettacolo un terreno di riflessione della trattatistica rinascimentale non privo di problematicità: da un lato, vi abbiamo incontrato una valorizzazione dell’importanza ed efficacia di queste forme di attività e della comunicazione politica che fa presagire gli sviluppi della festa barocca; dall’altro, come s’è visto, non mancano negli stessi scrittori perplessità intorno allo spreco e al carattere effimero di quelle spese ed occupazioni fino al dubbio, esplicitato dal personaggio del Castiglione, che solo un giusto ed elevato fine possa restituire un senso a una vita di corte altrimenti ridotta ad esercizio di pura e vana mondanità quotidiana.


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Il modo di vestire di uomini e donne che vivevano non a corte ma nelle città tra la fine del Medioevo e la prima Età moderna, testimoniato dalle fonti, è prevalentemente, per non dire inevitabilmente, quello della festa. L’abito quotidiano medievale è raramente rappresentato dall’iconografia e ancora più raramente considerato nelle fonti documentarie: nei testamenti, nelle doti, nelle norme suntuarie o nelle fonti letterarie. L’abito degno di nota, quello che dava sostanza alle doti, che attraeva l’interesse dei legislatori e che meritava le rampogne dei moralisti era quello della festa, perché costoso, accurato, suscitatore di sguardi ammirati e magari inadeguato alla condizione sociale di chi lo indossava. Le occasioni

Le occasioni di festa coincidevano in buona misura con le feste religiose e cioè con la domenica, la Pasqua, il giorno del santo patrono e così via. A queste occasioni si aggiungevano i riti principali relativi alla vita personale e cioè feste per nascite, matrimoni o funerali. Poi c’erano gli arrivi illustri: un bando emanato a Spoleto nel 1459, ad esempio, concedeva alle donne, in occasione della visita del papa, di sfoggiare liberamente ogni sorta di ornamento1. Non vanno dimenticate le feste pubbliche e quelle politiche, ad esempio l’incoronazione della dogaressa a Venezia. Quanto più la città era importante, capitale di una corte o centro strategico, tanto più erano frequenti le feste.

1 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria, cur. M.G. Nico Ottaviani, Roma 2005 (Ministero per i Beni e le Attività culturali. Dipartimento per i Beni archivistici e librari. Direzione generale per gli Archivi. Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 43), p. 653.


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Il Vecellio, parlando dell’abito della “Gentildonna a feste publiche”, scriveva che «Quando le donne nobili sono invitate a conviti o spettacoli dove intervenga qualche gran personaggio, come bene spesso accade in Venetia, si concede loro che senza rispetto alcuno delle leggi, o pregiudicio loro possano addobbarsi et ornarsi come più loro piace»2 e le descriveva vestite di bianco, con il capo ornato di perle e altre gioie e con gioielli al petto, alle spalle e sulle vesti. Stando sempre alla descrizione del Vecellio, le donzelle della città di Mantova quando andavano alle feste pubbliche rinchiudevano i capelli entro reti d’oro ben fatte, portavano orecchini di perle e al collo «lattughe oneste». Le vesti avevano «strascini lunghetti» e i tessuti erano damaschi, sete e broccati d’oro. A Mantova, a suo dire, «costumano molto gli balli, le feste più forsi che altri luoghi d’Italia»3. Sempre in tema di feste pubbliche il Vecellio raffigurava anche il modo di vestire delle spose di Padova «nel tempo che il serenissimo re di Francia fu a Venetia»: perle in capo e al collo, sopravveste aperta di broccato, sottana di velluto verde, catena d’oro in cintura e così via4. Nella generalità dei casi le occasioni per vestire con particolare cura, se non proprio pomposamente, erano le feste religiose e i matrimoni. In tutte le città, anche nei centri minori, ci si agghindava per andare a messa alla domenica o nei giorni di festa. Si trattava di un’interpretazione discutibile del passo della prima lettera a Timoteo 2,8 dove si dice «Voglio che gli uomini preghino in ogni luogo elevando pure le mani senza ira e senza dissenzione. Similmente le donne preghino in abito ornato, ornandosi con verecondia e sobrietà e non con dei capelli ritorti, nè con oro o perle o margherite e con vesti preziose». Giovanni da Capestrano, consapevole dell’interpretazione impropria del passo operata da molti, aveva chiarito nel suo Trattato sugli ornamenti delle donne (composto fra il 1434 e il 1438) che «le parole “in abito ornato” vanno intese da alcuni per l’abbigliamento corporale; però sembrerebbe ridicolo che l’Apostolo volesse indurre le donne ad ornarsi nel tempo della preghiera»5. Sta di fatto che di domenica dentro e fuori dalle chiese si dovevano vedere donne superbamente ornate. Per questa ragione a Bologna, come peraltro altrove, era nei pressi della chiesa che si appostavano gli ufficiali incaricati di verificare il rispetto delle leggi suntuarie, ema-

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C. Vecellio, Habiti antichi et moderni di Diverse Parti del Mondo, Bologna 1982 (edizione parziale sulla base dell’edizione del 1590, Venezia, presso Damian Zenaro), p. 56. 3 Ibid., p. 81. 4 Ibid., p. 93. 5 Giovanni da Capestrano, Degli ornamenti specie delle donne, cur. A. Chiappini, Siena 1956, p. 41.


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nate ininterrottamente dalla seconda metà del XIII secolo fino alla Rivoluzione francese6. Gli appostamenti miravano a cogliere in fallo gli eventuali o, più frequentemente, le eventuali inadempienti. Le leggi suntuarie – qui faremo riferimento soprattutto a quelle emanate dal XIII al XVI secolo in Emilia-Romagna ed in Umbria – si occupavano molto di vestiti, direi che si occupavano soprattutto di vestiti e di ornamenti connettendo frequentemente il tema alla festa, che fosse la domenica o l’occasione del matrimonio. Lo scopo era quello di colpire il lusso eccessivo o almeno di moderarlo. A Bologna era regolarmente di domenica che si appostavano davanti alle Chiese gli ufficiali incaricati del controllo. Fermavano le persone, leggevano loro la lista delle proibizioni, tanto per rinfrescare le idee a chi ignorava o fingeva di ignorare le restrizioni, per poi chiedere se avevano qualcosa o qualcuno da denunciare. Una domenica di maggio dell’anno 1300 nei pressi della chiesa bolognese di San Francesco vennero escussi alcuni testi che, interrogati circa il rispetto delle norme suntuarie richiamate alla loro memoria con una lettura dei capitoli, dissero regolarmente tutti di non sapere niente: «testis iuratus dicere veritatem […] ante dictam ecclesiam examminatus super dicta inquisitione sibi lecta, dixit se inde nichil scire»7. Di domenica in domenica, da maggio a ottobre, vennero reiterate le interrogazioni di decine di persone, sempre uomini, e tutti dissero di non sapere assolutamente niente. Sicuramente le trasgressioni c’erano, ma sembra di capire che non ci fosse un grande interesse a denunciarle. Forse le cose cambiarono un po’ quando si stabilì di destinare una quota della multa a chi denunciava. Dunque andare a messa alla domenica era occasione di esibizione per eccellenza ma era anche il momento del “redde rationem”, occasione cioè per essere colte in fallo. Conferma l’esibizione domenicale quanto si legge nel Confessionale del XVI secolo di Bernardino da Feltre al nono comandamento, là dove compare la domanda «se le andato alla chiesia per vaghezare»8. L’opera da svolgere di domenica o in un giorno festivo per controllare il rispetto delle norme poteva essere tutt’altro che agevole. Sempre a

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La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna, cur. M.G. Muzzarelli, Roma 2002 ((Ministero per i Beni e le Attività culturali. Dipartimento per i Beni archivistici e librari. Direzione generale per gli Archivi. Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 41), p. 119. 7 Ibid., p. 61. 8 Bernardino da Feltre (attribuito a), Confessione generale molto utilissima, s.l. s.a., Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, Incunabolo S.15 III 9.


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Bologna, quando nel 1286 l’incaricato della verifica cercò di misurare la “coda” della gonnella verde di tal Francesca, moglie di un drappiere bolognese, che, stando all’accusa del nunzio del comune, era più lunga di quanto concesso dagli ordinamenti statutari, si imbatté in un muro di persone che gli impedirono la misurazione. Come si legge nel documento, il notaio «propter tumultum gencium» non poté verificare la lunghezza dello strascico della veste sfoggiata da Francesca nel giorno di San Domenico e fu proprio nei pressi della chiesa di san Domenico che il notaio del podestà cercò, peraltro invano, di misurare lo strascico9. Da quanto siamo riusciti a ricostruire, i “ministrales” delle cappelle avevano il compito di mettere per iscritto la denuncia di chi derogava e il podestà, sulla base di tale denuncia, doveva promuovere un’inquisizione. Anche chi, camminando per la strada, vedeva una donna vestita in maniera non lecita era tenuto a denunciarla e il fatto che una parte della multa andasse al denunciante si può presumere abbia favorito la delazione. Nei giorni di festa c’era dunque convenienza a tenere gli occhi ben aperti per individuare i colpevoli di mancato rispetto delle regole suntuarie. Scorrendo un lungo elenco di multe in materia suntuaria (luglio 1365 – giugno 1366) si ricava che le donne colte con chiusure vietate – bottoni o fibbie, d’oro o d’argento dorato –, con catenelle smaltate, con cordelle dorate o con altri ornamenti preziosi vietati ma anche con guarnacche di velluto rosso o verde o con in capo una corona di perle, furono viste qualche volta nel palazzo del Comune o genericamente per le vie della città ma perlopiù nei pressi delle chiese principali10. Nei dintorni delle chiese ma anche dentro alle chiese doveva dunque essere uno spettacolo vedere tante donne vestite a festa! Ecco quanto si legge in una Riformanza emanata a Foligno nel giugno del 1567: «Magnifici signori mi trovai l’altro dì alla messa tra certi forestieri dove vennero certe donne con camorre di velluti e trini d’oro et altre donne con altre veste ma non di drappo, li forestieri […] dimandorno perché quelle portavano il velluto et l’altre donne non» e fu risposto loro che le donne in velluto erano le più nobili in città. Il fatto è che le altre, per non apparire come le serve delle prime, di lì a pochi giorni avrebbero sfoggiato «velluti cremisini et ori et altre cose chi mi faranno stommacar»11. A entrare in chiesa si poteva dunque rischiare di restare confusi se non addirittura “stommacati”da velluti e ori.

9 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., 10 Ibid., pp. 84-101. 11 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 512.

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Conferma il fatto che la domenica fosse la giornata degli sfoggi anche quanto si legge in un altro documento: «Domenica che furonsi tre di agosto ho visto una giovane della nostra città, figliuola di un cittadino del consiglio, portare una vesta di seta quale ha fatto mormorare tutta Foligno e io ho udito parlare questo et quello che diceva: Mo’ semo per andare in precipitio, che oltre le altre spese che si fanno in maritare una giovane, non ci manca altro che di cominciare a mettere questa maledetta usanza di far vesti di drappo […] che non si martaria una giovane che pria che uscisse di casa non facesse vesti et zimarra di velluti sia o povero o ricco»12. Se uscire per andare in chiesa era un’occasione di sfoggio che esponeva però al rischio di essere colti in fallo, il pericolo di essere scoperti come disobbedienti lo si correva anche indossando entro le mura domestiche vesti proibite. Come si legge nei provvedimenti suntuari bolognesi del 1376 i notai e gli ufficiali incaricati del controllo erano tenuti a recarsi nelle case in cui avevano luogo le feste nuziali «et diligenter inquirere de contrafacientibus contra formam […] statuti»13. In questa stessa normativa si legge che il podestà doveva disporre acciocché un notaio e un ufficiale “discretum” si appostassero nei giorni di festa nei pressi delle chiese «et specialiter ad ecclesiam ubi festum singolare vel solemne fieret seu sacerdos novellus misam primam celebraret»14. Agli ufficiali era suggerito di agire con discrezione. Non potevano arrestare nessuna donna e nemmeno parlare con loro ma solo investigare “honesto modo” per appurare l’identità della donna per potere successivamente chiamare in giudizio il marito o il padre. Fuori casa / dentro casa

Dunque quanti amavano i lussi e mal sopportavano le norme restrittive non erano al sicuro nemmeno nelle loro case. Le leggi suntuarie vietavano infatti non solo l’esibizione ma anche il possesso di capi e ornamenti sontuosi senza peraltro precisare come si sarebbe potuto attestare il semplice possesso. Una strada poteva essere quella di un pressante interrogatorio dei sarti che risultano occupare una posizione delicata. Costretti a rifiutarsi di confezionare abiti inadeguati alla condizione del cliente a costo di rimetterci, erano sottoposti, se non rispettavano le restrizioni, a punizio-

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Ibid., p. 515. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 109. Ibid., p. 108.


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ni spesso severissime15. A seguito di una denuncia, ma forse anche senza, pare che esistesse la possibilità di piombare nella casa di un privato magari nel corso di una festa. Un certo “Magister Valdesera”, ad esempio, fu colto in flagrante a Bologna mentre aveva in casa sua, nel corso di una festa nuziale, più invitati di quanti non ne consentisse la legge16 . Come si legge negli Statuti di Bologna del 1376, i notai e gli ufficiali del comune erano tenuti a entrare nelle case «tempore nuciarum […] et diligenter inquirere» e andava dato credito a quanto relazionato dagli ufficiali17. Nessuno poteva proibire l’accesso all’ufficiale del comune e a sua volta l’ufficiale inadempiente poteva essere denunciato da chiunque18. Più di un bando bolognese chiarisce che le cose proibite, ad esempio «all’orecchie perle, gioie, pendenti, smalto o altra cosa simile», erano vietate sia che fossero vere sia che fossero false (dunque la bigiotteria era già in uso) e che era proibito indossarle «tanto in casa come fuor di casa»19. Questo valeva tanto a Bologna come a Modena dove gli Statuti del 1327 chiarivano, a proposito degli strascichi, che «nulla mulier nupta vel non nupta possit […] portare extra domum vel in domo in civitate Mutine […] aliquam caudam»20. Un bando emanato a Perugia nel 1595 proibiva universalmente, vale a dire a uomini e donne di qualsiasi condizione sociale, di portare vesti o accessori con oro o argento «per casa o fuori di casa»21. I capi già fatti «con detti intessimenti e guarnitioni d’oro et d’argento si possano portare et usare solo per tutto il mese di giugno 1595, dandosi questo tempo acciocché possa ciascuno, con minore incommodo provedersi d’altri abiti non vietati»22. Niente ori e argenti per le feste in casa o comunque per ricevere e nemmeno travestimenti per carnevale. La distinzione fra spazi pubblici e spazi privati non era dunque netta e le restrizioni previste dalle leggi suntuarie

15 M.G. Muzzarelli, Il corpo spogliato. Multe, scomuniche e stratagemmi per il rispetto delle leggi suntuarie, in Le corps et sa parure / The Body and Its Adornment, Firenze 2007 (Micrologus. Natura, Scienze e Società Medievali, 15), pp. 399-423. 16 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 89. 17 Ibid., p. 109. 18 Ibid., pp. 132, 134 e 135. 19 Ibid., p. 217 e p. 253 dove si legge da un bando del 1582 che «tutte le cose prohibite come di sopra s’intendano proibite cos’ì in casa come fuori et tanto sul territorio quanto nella città». 20 Ibid., p. 391. 21 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 241. 22 Ibid.


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valevano anche per chi, pur non varcando la soglia della propria casa, avesse deciso di travestirsi a carnevale. Carnevale

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Per carnevale era infatti diffuso il gusto di indossare panni altrui. Anche nei casi in cui si coglie nella normativa suntuaria un atteggiamento concessivo in occasione del carnevale, nei riguardi dei travestimenti fioccano i divieti. Fino al primo giorno di Quaresima le norme bolognesi del 1565 consentivano ad ogni persona di qualsiasi condizione di «servirsi et usare vestimenti, gioie et tutti gli altri ornamenti» liberamente, «così delle persone come dei cochii»23 ma la concessione non faceva cenno a travestimenti e maschere che destavano preoccupazione. Nemmeno in casa ci si poteva mascherare per carnevale, come si legge nelle norme emanate a Città di Castello nel 1561. La proibizione valeva per chi «intendesse travestirsi d’altro abito che del suo proprio e naturale né in compagnia de’ suoi congiunti et attinenti né d’altri e questo per toglier via l’occasione del far male e del vivere impudicamente»24. Niente maschere a Carnevale anche a tenore di provvedimenti presi a Gualdo Tadino nel 152225. Ad Amelia nel 1577 era proibito a tutte le donne «né per tempo de carnevale né per altro tempo de l’anno, in casa, fuor de casa, far alcuna sorte de maschara né travestirsi d’altro habito che del suo proprio et naturale né in compagnia dei suoi congiunti et attinenti né d’altri et questo per togliere via l’occasione del far male et del vivere impudicamente». I 30 ducati di multa per gli inadempienti erano destinati per metà alla comunità, per un quarto all’esecutore e per l’ultimo quarto all’accusatore «et se fosse alcuna che non potesse pagare dicta pena se li dia una scopatura per tutta la città»26. Ecco un caso di pena riabilitativa in forma di contrappasso: chi ha voluto far festa paghi il fio con un umiliante e faticoso lavoro. Anche a Orvieto nel 1468 ci si occupò dei travestimenti di carnevale per proibirli: uomini vestiti da donne o da sacerdoti erano malvisti e soprattutto erano temuti i volti celati «ex quo non possunt cognosci ex qui-

23 24 25 26

La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 210. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 333. Ibid., p. 570. Ibid., p. 933.


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bus multa maleficia, odia, suspictiones, latrocinia, dispendia, sacrilegia, adulteria stuprum et peccatum sodomiticum et multa alia peccata committuntur»27. Uomini in vesti muliebri o donne vestite da uomo erano colpiti, se scoperti, da una multa di 10 fiorini che per tre quarti sarebbe stata devoluta al Monte di pietà28. Ai Monti Pii in più casi risulta concesso il godimento delle multe29: il Monte, e quindi i poveri meno poveri, facevano festa, metaforicamente parlando, quando la festa impazzava. Bernardino da Feltre ha usato parole severissime nei confronti del “carnasal” «che te farà deventar una bestia». Per carnevale non uno ma ben tre condottieri inducevano a suo dire al peccato: «Uno ha piantato una bandiera de saltanti et chorizanti. L’altro ha messo uno squadrone de papanti e ingurgitanti. Et terzo va intorno cum una brigata de stravestiti et mascherati. El bisogna descazar questa bestia che fa tanto male»30. Predicando a Pavia giusto per carnevale, «tempus che tuti va in festa», Bernardino ricordava ai suoi uditori che «carnisprivium più straza che non conza tota quadragesima» e che essendo fatto l’uomo ad immagine di Dio «fu fatto mascara propter peccatum». La prima maschera, sempre a suo dire, era comparsa in Paradiso quando l’uomo fu costretto a coprirsi con una pelle d’animale. Ricordava inoltre che Dio ha proibito all’uomo di vestirsi da donna e viceversa come sta scritto nel Deuteronomio (Dt 22,5): «Non induetur mulier veste virili, nec vir utetur veste femminea. Abhominabilis enim apud deum est qui facit hoc»31. Senza far cenno al Carnevale, un bando bolognese del 1545 proibiva alle donne di mostrarsi in pubblico in abiti inadatti alla loro modestia e perciò vietava di portare fuor di casa abiti da uomo32. Se il carnevale era per eccellenza occasione d’allegria, i funerali sono scontatamente momento di tristezza, eppure erano anche occasione di sfoggio e un alto numero di norme suntuarie è dedicato a regolamentare i funerali occupandosi anche dei vestiti, tanto del morto quanto di chi partecipava alla cerimonia funebre.

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Ibid., p. 1027. Ibid., p. 1029. Ibid., pp. 1026, 1038, 1042, 1044. Sermoni del beato Bernardino Tomitano da Feltre, ed. C. Varischi da Milano, I, Milano 1964, sermone 1, p. 5. 31 Ibid., sermone 2, p. 15. 32 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 185.


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Ad accompagnare il morto

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Sarebbe improprio dire che partecipare a un funerale era una festa, ma non appare inappropriato soffermarsi su quanto faceva del funerale un’occasione per ostentare ricchezza e potenza33. Contro tali manifestazioni tentavano di agire i legislatori limitando tra l’altro il numero delle persone alle quali era concesso vestire a lutto o a corrotto (da cuore rotto per il dolore). Negli Statuti bolognesi del 1376 si faceva esplicito riferimento alla volontà di contenere le vanità delle donne che si manifestavano non solo in occasione dei matrimoni ma anche per i funerali, nel corso dei quali era proibito a tutte «habere vel portare vestes lugubres vel viduales foderatas de vario vel varota, armellino, dossis de vario, squiratulis vel marturelis aut velos in capite et pro ornatu capitis ipsius mulieris vidue […] maioris precii ad plus decem librarum»34. La pena prevista per le inadempienti era di 100 lire, 50 delle quali erano destinate ai denuncianti35. Le norme maggiormente restrittive consentivano solo alla vedova di vestire di nero: «Quod nulla persona occasione mortis alicuius faciat vel portet de novo nigras vestes, capucium sive capelinam excepto uxore defunti»36. Di regola il lutto era concesso a moglie, figli e pochi altri stretti parenti e solo se convivevano con il defunto. Nessuna donna, si legge in un decreto emanato a Perugia nel 1475, «tempore quo moriuntur homines», né prima per quattro giorni né dopo per un anno potrà vestire di nero, bigio, verde o altro panno nuovo a meno che non si tratti di moglie, figli, o di genitori o fratelli conviventi con il defunto37. Dunque la morte era anche un’occasione per vestirsi a nuovo e non necessariamente di nero. Chi aveva il permesso di vestirsi di nuovo era tenuto a impiegare tessuti di «panno grosso et ex viliori sorte quam fiunt in civitate» e l’abito poteva arrivare sino a terra solo se si trattava di cavalieri, nobili o dottori38. In nero per il funerale, solo la moglie del morto «et famuli duo ad plus» si intimava nel XIV secolo a Narni39. 33

V. Pinchera, Vestire la vita, vestire la morte: abiti per matrimoni e funerali, XIV-XVII secolo, in Storia d’Italia. Annali, 19: La moda, cur. C.M. Belfanti - F. Giusberti, Torino 2003, pp. 221-259: 250-259. 34 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 109. 35 Ibid. e p. 115. 36 Ibid., p. 59; cfr. anche, relativamente a Perugia: La legislazione suntuaria. Secoli XIIIXVI. Umbria cit., p. 133. 37 Ibid., p. 143. 38 Ibid. 39 Ibid., p. 945.


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Giustifica il collegamento delle cerimonie funebri a una festa quanto si legge in una Riformanza di Foligno del 1541 dove si parla di funerali talmente “illuminati” da sembrare «la processione della sera della ottava della festa del nostro san Felitiano» e per ricondurre a debite proporzioni la cerimonia il provvedimento riduceva a 12 le torce da accendere per la morte di un appartenente al consiglio dei dieci, vale a dire per le persone di più elevato profilo sociale, mentre per i “cittadini dell’ordine del priorato” erano concesse solo 8 torce40. Ad Amelia nel 1577 si vietava alle donne «di portare per coroccio cioppa con trascino più de quattro mesi» dal che si deduce che per l’occasione si indossava questa veste speciale41. È noto peraltro che a Venezia i nobili in caso di lutto si facevano confezionare un’apposita veste “a bruno” che consisteva in un manto lungo fino a terra con un lungo strascico che, dopo qualche giorno dal funerale, veniva sollevato internamente all’abito e legato in vita e successivamente tagliato e quindi eliminato mentre la veste continuava ad essere usata42. Le norme suntuarie si occupavano anche dell’abito del morto che non poteva essere sepolto vestito di scarlatto a meno che non si trattasse di un cavaliere o di un dottore43. Una norma emanata a Bologna nel 1376 proibiva di vestire il morto di scarlatto o di panno francigeno o di altro panno che valesse più di 30 soldi44. La festa “lunga”

Una delle più importanti occasioni di festa per le persone di qualsiasi condizione sociale era il matrimonio e si trattava di una festa lunga, in quanto cominciava prima del giorno dello scambio degli anelli e durava, per quanto riguardava alcune concessioni nel campo dell’abbigliamento, anche alcuni anni45. 40 41 42 43

Ibid., p. 456. Ibid., p. 933. D. Davanzo Poli, Abiti antichi e moderni dei veneziani, Venezia 2001, p. 75. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 52 e p. 77. Cfr. A. Campanini, Vesti, colori e onore: la scala del rosso, in Identità cittadina e comportamenti socio-economici tra Medioevo ed Età moderna, cur. P. Prodi - M.G. Muzzarelli - S. Simonetta, Bologna 2007, pp. 145-155. 44 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 103. 45 D. Owen Hughes, Il matrimonio nell’Italia medievale, in M. De Giorgio - C. Klapisch-Zuber, Storia del matrimonio, Roma-Bari 1996, pp. 5-61.


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Prima del giorno dello scambio dell’anello c’erano cerimonie ed usi che implicavano consegne di doni regolarmente disciplinati dalle leggi suntuarie. Lo scambio dell’anello segnava il momento dell’ufficialità. Si legge in una Riformanza emanata ad Amelia nel 1577 che «non sia licito ad alcuna donna novamente maritata o da maritarse […] andare a casa de loro mariti o parenti delli mariti fintanto non sirrà sposata co l’anello»46. Per le nozze e per due anni dopo il matrimonio erano concessi alle spose gioielli usualmente proibiti e cioè, stando a un bando emanato a Bologna nel 1572, un vezzo di perle, due pendenti e una o più catene d’oro di qualsiasi lunghezza e foggia purché non valesse, fattura compresa, più di 50 scudi47. Dopo due anni la sposa, non più novella, avrebbe potuto portare, come si legge in una Provvisione emanata nel 1557, solo la catena «et non altro dichiarando che possino in ogni tempo mentre che seranno spose come quando seranno col marito portare alli gibellini le teste d’oro et li ventagli con li manichi d’oro con la catena d’oro et le scuffie lor d’oro» ma proibendo loro pellicce di zibellino o di lupo cerviero e berrette di giorno per la città con o senza piume48. Ovviamente correvano molte differenze fra le spose d’ambiente popolare e quelle dei ceti più elevati49 e fra queste ultime sono testimoniate dall’iconografia spose vestite di rosso o di rosato50, ma sappiamo che a Venezia alla fine del Quattrocento le spose vestivano di bianco come di bianco vestivano le gentildonne della migliore nobiltà in occasione di solenni eventi quali le visite illustri. Stando al Vecellio le spose veneziane avevano vesti bianche «volendo imitar la Dea della castità» e per un anno lasciavano cadere i capelli sulle spalle fermati con un cerchietto. Al collo potevano finalmente sfoggiare un vezzo di perle che erano vietate alle nubili ed alle cortigiane che ricorrevano a tondini d’argento o di madreperla che assomigliavano alle perle51. A Terni nel 1573 si concedeva alle spose di ornarsi il capo con fettucce di seta o altri nastri purché gli ornamenti non fossero d’oro, d’argento o di perle. Al collo solo un vezzo di coralli, perle «et altra mistura che non passi la somma di ducati diece di moneta per ciasche vezzo et non ne possa

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La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 931. Ibid., p. 225. Ibid., p. 196. Pinchera, Vestire la vita, vestire la morte cit. B. Witthoft, I riti nuziali e loro iconografia, in De Giorgio - Klapisch-Zuber, Storia del matrimonio cit., pp. 119-148. 51 Davanzo Poli, Abiti antichi e moderni cit., pp. 72-73.


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havere più di uno per sposa»52. Ai piedi «pianelle di qualsivoglia drappo, purchè non siano ornate d’oro o di argento» e in vita (“per cegnere”) niente oro, argento, smalto, vetro, alabastro né altri metalli o coralli o reticelli di seta «ma solo cente napoletane o di taffetane cremisino o di altro drappo purchè non siano ornate d’oro o di argento». Non più di tre anelli d’oro, niente bracciali (“maniglie”) d’oro o d’argento e vietati “pendenti alle orecchie”. Le pene per i trasgressori erano molto severe: perdita della cittadinanza e scomunica53. Le sposate, secondo la normativa di Perugia del 1571, per un anno dopo il matrimonio potevano portare un filo di perle che prima di essere usato andava denunciato, presentato cioè ai giudici «et da quelli preso in nota»54. Ad Amelia solo in occasione delle nozze erano concesse vesti che toccassero terra, proibite in tutti gli altri casi. La sposa che andava nella casa del marito non poteva portare con sé più di 7 vesti, fra capi nuovi e usati, oltre alle vesti nuziali55. A tenore di norme emanate a Perugia nel 1564 le donne dopo il primo anno di matrimonio non potevano portare seta eccetto ormesino e taffettà56 «ma quel anno però le dette spose possino portare le dette veste di sopra d’ogni sorte di seta, eccetto che di velluto cremesino»57. La concessione alle spose di portare vestiti di ogni sorta di drappo di seta è ribadita nel 159558. Anche a Gubbio le concessioni alle spose fatte intorno alla metà del XVI secolo duravano per un anno: «Non sia licito alle spose andare in abito da sposa più di un anno dal dì che serano andate a marito et haveranno consumato il matrimonio»59. Donne vestite a festa

Secondo Roberto Caracciolo da Lecce, niente è più pericoloso del vedere una donna ornata pronta a partecipare una festa. Meglio incontrare 52 53 54 55 56

La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 871. Ibid. Ibid., p. 216. Ibid., p. 918. Cfr. M.G. Muzzarelli, Seta posseduta e seta consentita: dalle aspirazioni individuali alle norme suntuarie nel basso Medioevo, in La seta in Italia dal medioevo al Seicento. Dal baco al drappo, cur. L. Molà - R.C. Mueller - C. Zanier, Venezia 2000, pp. 211-232. 57 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 214. 58 Ibid., p. 241. 59 Ibid., p. 601.


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un leone feroce o una serpe o un lupo piuttosto che imbattersi nella «feminam vanam et ornatam que est illa saltatrix balarina»60. Pericolosa come non mai, nelle parole del nostro predicatore, ma anche bella come il sole, come attesta la copertina della Biccherna relativa alla legislazione suntuaria senese61. I predicatori temevano fortemente la donna vestita e ornata a festa per la forza seduttiva sprigionata dai luccichii dell’oro o dai veli impalpabili. Per i legislatori andava contenuto lo spreco di risorse e soprattutto andava appropriatamente ricondotto il lusso del loro abbigliamento alla categoria sociale di appartenenza. Panni cremisi o bordature di pelliccia dovevano servire a distinguere le mogli di cavalieri e dottori da quelle di mercanti o artigiani. Colpendo le donne e i loro lussi si mirava a disciplinare i consumi della famiglia ma si finiva con il limitare il genere femminile anche in questo settore62. Le donne hanno mostrato d’essere consapevoli del fatto di dover subire il volere altrui senza poter discutere le restrizioni giacché non sedevano nei consigli dove si prendevano le decisioni: «noi disgraziate donne non semo in consiglio che non meno havessemo provisto al caso nostro che voi al vostro», si legge in una “Polizza” emanata a Foligno nell’agosto del 155463. L’oggetto del contendere era in quel caso l’ornamento dei capi delle donne (una coppia o più di “pannetti”) in caso di vedovanza e di morte di consanguinei. Come risulta dalla nostra documentazione, almeno in un caso però a qualcuno venne in mente di consultare le donne chiedendo loro un parere in merito ai provvedimenti che le avrebbero dovute riguardare e che rischiavano di guadagnare loro la scomunica. Ogni anno, si legge in una Riformanza di Foligno del 1561, il signor vicario si deve dare un gran daffare «per absolvere le donne scomunicate per li ornamenti et ogni anno sonno quelle medesime e tante più quante spose vi si fanno di nuovo» : da ciò l’opportunità di assumere provvedimenti dopo aver preso consiglio «da donne di giudizio o da altri in modo tale che le cose sieno chiare et che la legge non sia né licenziosa a fatto né mancho tanto stuta che faccia ricor60 Su quanto predicò Roberto Caracciolo nella Quaresima del 1455 a Padova (Sermo tripudii et quando licet tripudiare) cfr. O. Visani, Pubblico e temi del Quaresimale padovano del 1455 di Roberto Caracciolo da Lecce, «Giornale storico della letteratura italiana», 157 (1980), pp. 541-556. 61 Le Biccherne di Siena: arte e finanza all’alba dell’economia moderna, cur. A.Tomei, Azzano San Paolo 2002, pp. 176-177. 62 D. Owen Hughes, Le mode femminili e il loro controllo, in Storia delle donne in Occidente, II: Il Medioevo, cur. C. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1990, pp. 166-193. 63 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 475.


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rere nel medesimo inconveniente nel quale si è incorso per il passato»64. In ogni tempo la legge, se si vuole che venga rispettata, deve essere ragionevolmente restrittiva. Le donne che non avessero rispettato le prescrizioni, se trovate con indosso cose proibite, avrebbero potuto «esser chiamate da qualsivoglia persona con alcuni nomi ignominiosi convenienti a donne impudiche et inhoneste et non possino dolersi»65: agghindarsi a festa esponeva dunque a un pericolo del genere. Le restrizioni servivano anche a questo: a distinguere le categorie sociali e a sceverare le donne per bene da quelle di malaffare. La vanità è femmina, secondo il parere almeno di chi nel 1568 a Foligno si rivolse al Consiglio per raccomandare l’osservanza delle norme suntuarie denunciando il fatto che le donne rischiavano di mandare in rovina la città. A preoccuparlo era stato quanto aveva osservato «la mattina di pascha Rosata in san Feliciano», quando comparve «una delle figliole di un cittadino con un camurrino di seta con fila d’argento, cosa proibita […] et domenica ci vennero tutte tre le figliole, tutte con li camorrini medesimi di seta, cosa che fa nausa a molti cittadini, et se non ci si rimedia, la città nostra è guasta, perché in poco tempi si farà secondo parrà alle donne»66. Un anno prima sempre un abitante di Foligno aveva denunciato il pericolo, anzi la «ruina di questa nostra povera città a lassarsi governare dalle donne di casa»67. La «insolentia pannorum mulierum»68 consisteva in lunghezze eccessive, in luccichii di ori ma anche in vividi panni rossi. Il colore come festa

Il rosso era il colore della festa e tanto il velluto cremisi come il rosato erano emblemi della festa. «La corte romana», si legge in una Polizza di Foligno del 1580, «nelle più solenne feste fa piena fede dimettendo ogni altre drappo et se veste de rosato»69. Come il rosso rappresentava festa, così il verde la gioventù. Invecchiare, nelle parole di Petrarca, era «lassar le ghirlande e i verdi panni» (Canzoniere, XII) e sempre per il Petrarca bellezza era indossare vesti colorate e acconciare accuratamente i capelli: «Verdi

64 65 66 67 68 69

Ibid., p. 490. Ibid., p. 508. Ibid., p. 518. Ibid., p. 515. Ibid., p. 1025. Ibid., p. 527.


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panni, sanguigni, oscuri o persi / non vestì donna unquancho / né d’or capelli in bionda treccia attorse, / sì bella com’è questa che mi spoglia / d’arbitrio, et dal camin de libertade / seco mi tira» (Canzoniere, XXIX). Il bruno invece si addiceva ai vecchi e al lutto. A Reggio Emilia, nelle prime consuetudini risalenti al 1242, accanto a limitazioni delle doti si imponeva in città ai più abbienti il possesso di almeno una veste a colori per accrescere il prestigio del Comune, «pro honore et utilitate comunis Regii»70. La veste poteva essere di qualunque colore ma non bigia. Sempre nel nome del riconoscimento del carattere festoso del colore venne emanato a Ferrara nel 1528 un proclama da Alfonso I in occasione dell’arrivo della nuora Renata di Francia. Il proclama imponeva ai cittadini di deporre le vesti luttuose per i morti causati dalla peste per non rattristare l’illustre madama «che può più l’allegrezza della venuta di lei che la memoria de la propria tribulatione»71. Il provvedimento consuona con quanto risulta fosse accaduto a Venezia dove un’antica legge suntuaria aveva vietato l’uso del nero temendo un’influenza negativa di tale colore sul morale72. Nonostante ciò il nero, entrato nel gusto veneziano del tempo, fu fra i colori più usati nella città lagunare. I colori rappresentavano, come è noto, anche le parti politiche e per questa ragione una Riformanza perugina del 1376 vietava di portare qualunque indumento, cappuccio, mantello o coppa che fosse «duorum pannorum diversi coloris simul sutorum que vulgariter appellantur ‘divise’»73. Al massimo due colori potevano comparire nelle fodere di cappucci o cioppe. Vietate anche una scarpa di un colore e l’altra di un altro. Che il divieto di portare abiti “divisati”, stigmatizzati anche dai predicatori, avesse la finalità di contenere le discordie è dichiarato esplicitamente in una Riformanza emanata a Perugia nel 1394, nella quale venivano prese di mira le calze a più colori indossate soprattutto dai giovani74. A sua volta Bernardino da Siena postulava che l’abito “divisato” «dimostra che l’anima tua è variata come il corpo»75. La festa poteva dividere, fomentare discordie, dar luogo a tumulti e per questa ragione i legislatori ponevano attenzione anche ai colori delle vesti così come dosavano il numero degli invitati ai convivi.

70 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., p. 581. 71 Ibid., p. 308. 72 Davanzo Poli, Abiti antichi e moderni cit., p. 75. 73 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 87. 74 Ibid., p. 99. 75 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena. 1427, cur. C. Delcorno, II, Mi-

lano 1989, p. 1074 (predica XXXVII, Come ogni cosa di questo mondo è varietà, pp. 1068-1098).


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Gli ebrei vestiti a festa

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Gli ultimi secoli del Medioevo sono caratterizzati da una forte propensione per i colori accesi accostati fra loro in abiti e calze. Sono noti e testimoniati accostamenti di colori contrastanti quali rosso e verde, rosso e celeste, verde e azzurro, bianco e nero “paonazzo e cupo”, rosso e viola, nero e scarlatto, “nuvolato e verde”. Siamo informati di ciò dall’elenco di vesti portate a far bollare a Bologna nel 140176. I gusti successivamente cambiarono e il nero si affermò sempre più come colore non solo di lutto. Alla fine del Medioevo e nella prima Età moderna solo ai parenti più stretti, come abbiamo visto, era concesso vestire a lutto e la concessione probabilmente non riguardava gli ebrei. Ciò si ricava indirettamente dal fatto che alla vedova e al figlio dell’ebreo Matasia venne concessa a Perugia nel 1383 di vestire «nigris coloris […] in signum tristizia»77. Sembra di intendere che usualmente agli ebrei non era dato vestire a lutto e si pone l’interrogativo circa l’estensione o meno agli ebrei delle restrizioni suntuarie78.

Un paio di rappresentazioni iconografiche di cui disponiamo attestano che nell’occasione forse più festosa nell’economia di una vita, e cioè per il matrimonio, gli ebrei italiani ricchi vestivano con una pompa analoga a quella dei ricchi cristiani della stessa epoca con i quali condividevano anche gusti e stile: panni rosati, vesti color cremisi, pellicce, smisurate ampiezze e via dicendo. Panni cremisi ma anche segno distintivo ben in vista79. Le ordinanze suntuarie volute per gli ebrei dagli ebrei riuniti a congresso a Forlì nel 1418 attestano l’uso di abiti maschili e di vesti e acconciature muliebri eleganti, costose e simili a quelle dei cristiani: sete, ricami, pellicce. Le norme suntuarie emanate dai rabbini delle comunità padane nel

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Le vesti già confezionate al tempo dell’emanazione della legge suntuaria bolognese del 1401 per poter essere ancora indossate necessitavano di una “bollatura”. È giunto fino a noi il registro degli abiti che vennero denunciati e bollati il 25 e il 16 gennaio 1401: La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna cit., pp. 137-148. Cfr. Belle vesti, dure leggi. “In hoc libro […] continentur et descripte sunt omnes et singole vestes”, cur. M.G. Muzzarelli (bozzetti di L. Zurla), Bologna 2003. 77 La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Umbria cit., p. 94. 78 A.Toaff, La prammatica degli ebrei e per gli ebrei, in Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, cur. M.G. Muzzarelli - A. Campanini, Roma 2003, pp. 91-105. 79 A.Toaff, La vita materiale, in Storia d’Italia. Annali, XI: Gli ebrei in Italia, 1: Dall’alto medioevo all’età dei ghetti, cur. C.Vivanti, Torino 1996, pp. 237-263.


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1507 vietavano fra l’altro ai giovani di partecipare a feste da ballo con indosso calzamaglie molto attillate e criticavano gli eccessi delle acconciature femminili fatte di bende di tessuto prezioso e di reti d’oro e d’argento. Le delibere miravano a limitare lo sfarzo esibizionista nelle feste e nei conviti, in occasione di nascite, circoncisioni e nozze e un interesse particolare era riservato all’abbigliamento e ai gioielli80. Ci si è chiesti per quale ragione gli ebrei emanarono loro norme suntuarie: perchè quelle dei cristiani non li riguardavano? In effetti sono rare le menzioni degli ebrei nelle prammatiche sul lusso, tanto da potersi ipotizzare la loro eccettuazione da questo tipo di restrizioni. Erano noti come ebrei e spesso distinguibili per il segno che portavano, dunque non era indispensabile sottoporli alle regole che valevano per i cittadini, anche perchè erano cittadini “sui generis”81. I casi in cui si fa riferimento a loro, a Bologna nella normativa del 1474, confermerebbero l’assunto: le norme li riguardavano quando esplicitamente menzionati, mentre in tutti gli altri casi non li riguardavano. Secondo Ariel Toaff è paradossale pensare che agli ebrei fossero concessi sfarzi proibiti invece ai cristiani. Anche secondo Simonsohn gli ebrei erano tenuti ad osservare le regole suntuarie anche se non ricevevano uno specifico trattamento82. In realtà appare paradossale anche varare una specifica normativa per gli ebrei se valeva anche per loro la normativa emanata dalle autorità cristiane. Diciamo che la questione è ancora aperta. Sta di fatto che gli ebrei amavano le feste e amavano vestire a festa, esattamente come i cristiani, e che i più ricchi tra loro, i banchieri e le loro famiglie, apprezzavano velluti, rasi e damaschi di ogni colore, come attestano i corredi di fanciulle benestanti83 e come prova l’iconografia. Cristiani ed ebrei avevano anche in comune severi censori pronti a colpire soprattutto le donne che trovavano nelle vesti e negli ornamenti una piccola compensazione alle molte restrizioni patite. Cos’è la festa, se non l’appropriazione a termine, limitata cioè a un particolare momento, del principio del piacere che è estraneo alla vita di tutti i giorni? Della festa l’abito è segno ma anche parte. Non c’era dunque speranza per i legislatori e per i moralisti di vedere durevolmente accettate le

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Toaff, La prammatica degli ebrei e per gli ebrei cit., p. 94. S. Simonsohn, La condizione giuridica degli ebrei nell’Italia centrale e settentrionale (secoli XII-XVI), in Gli ebrei in Italia cit., pp. 95-120. 82 Toaff, La prammatica degli ebrei e per gli ebrei cit., p. 101. 83 M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna 1999, in partic. pp. 59-68.


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loro restrizioni. C’è da immaginare che lo sapessero anche loro, ma hanno fatto il loro dovere ricordando agli uomini e alle donne che tutto ha un prezzo, materiale e morale, anche le feste e le vesti da festa.


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Lungo tutto il Quattrocento i duchi di Savoia videro nella festa e nel rituale di corte un mezzo imprescindibile d’affermazione del proprio potere; e la maggiore capacità rappresentativa fu uno degli elementi che concorsero a segnare la loro preminenza su principati vicini e più deboli per estensione territoriale, risorse economiche e peso internazionale, quali i marchesati di Monferrato e di Saluzzo. Assunse così un certo rilievo l’uso politico e propagandistico della festa nelle sue due accezioni, “pubblica” – che vide la festa intrecciarsi e confondersi col rituale principesco1 – e “privata”, di intrattenimento prevalentemente ludico del principe e della sua cerchia. Per quanto riguarda il primo aspetto, in questa sede accennerò solo di sfuggita a occasioni cerimoniali che certo rivestivano aspetti festivi (tornei, joyeuses entrées …), ma delle quali ho trattato altrove2, per soffermarmi invece sui festeggiamenti per un’investitura del 1424; tralascerò inoltre gli aspetti materiali e organizzativi delle feste, oggetto di studi ben documentati da parte di altri3. Mi pare più opportuno spostare l’accento sulla festa, in particolare sul banchetto, come luogo della diplomazia e laboratorio di un’etichetta, di un codice di comunicazione volto a definire gerarchie interne alla corte e alla familia principesca.

1 Termini di confronto col caso sabaudo sono reperibili in Fêtes et cérémonies aux XIVe-XVIe siècles. 34es rencontres du Centre Européen d’Études Bourguignonnes (Lausanne, 23-26 septembre 1993), Lausanne 1994. 2 Cfr. L.C. Gentile, Riti ed emblemi. Processi di rappresentazione del potere principesco in area subalpina, XIII-XVI secolo, Torino 2008, cap. I; L.C. Gentile, Il cerimoniale come linguaggio politico nelle corti di Savoia, Acaia, Saluzzo e Monferrato, in L’affermarsi della corte sabauda. Dinastie, poteri, élites in Piemonte e Savoia fra tardo medioevo e prima età moderna, cur. P. Bianchi - L.C. Gentile, Torino 2006, pp. 55-76. 3 Cfr. in particolare A. Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry: the Courts of Anjou, Orleans and Savoy in the later Middle Ages, Ph.D. thesis, University of Edinburgh, 1989, cap. V (Feast and fête).


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La scelta del Quattrocento come limite cronologico permette di impostare il discorso alla luce di vicende politiche di segno alquanto differente. È un secolo aperto dal principato di Amedeo VIII, periodo di costruzione e consolidamento di quel Paßtaat che è lo Stato sabaudo4. Su quanto eredita dai predecessori, Amedeo innesta una forte espansione territoriale dello Stato e il rafforzamento della propria autorità: si pensi all’accrescimento del prestigio internazionale riconosciuto dall’imperatore con l’investitura ducale del 1416, all’acquisizione del Genevese, e del Piemonte in seguito all’estinzione dei cugini Savoia-Acaia (1418), con la conseguente svolta politica verso l’Italia padana; o al ruolo di mediatore più volte assunto da Amedeo sui due versanti delle Alpi, vuoi per i legami di parentela coi principi francesi (Berry e Armagnac, Borbone, Borgogna), vuoi per la rete di alleanze variabili coi principi e gli Stati dell’Italia del nord; o ancora, alla sua elezione papale come Felice V (1439) da parte del concilio di Basilea; si pensi alla prevalenza del potere principesco sulle altre forze sociali, in specie l’aristocrazia, e al consolidamento interno dello Stato nei settori che vanno dall’amministrazione al diritto, con la promulgazione degli Statuta Sabaudiae del 14305. Amedeo sa fare un uso sapiente del fasto di corte diretto ad alleati, ospiti e sudditi, elaborando una politica d’immagine in cui s’integrano l’attenzione al cerimoniale, il nuovo lustro dato all’Ordine del Collare, rivitalizzato come strumento di controllo dell’aristocrazia, l’impulso alle devozioni dinastiche (vedasi il culto di san Maurizio), il mecenatismo artistico, architettonico e musicale, l’emblematica e l’araldica, la promozione di una storiografia ufficiale e financo, come vedremo più avanti, la cucina. La costruzione statale del primo duca di Savoia non era però definitiva, ed era destinata alla crisi dopo il suo ritiro dalla vita pubblica nel 1434 e l’avvicendamento al potere del figlio Ludovico, prima come luogotenente, poi – all’elezione del padre al soglio pontificio – come duca. La scarsa autorevolezza di Ludovico era vieppiù minata dalle ingerenze paterne nella gestione del principato: e dagli anni ’40 in poi prese l’avvio un drammatico periodo di fazioni e rivolte nobiliari, contrasti tra il duca e i cadetti della dinastia, rivendicazioni d’autonomia da parte delle varie “patrie” che com-

4 Si vedano da ultimi G. Castelnuovo - I. Massabò Ricci, Le Alpi occidentali sabaude alla fine del Medioevo: una civiltà principesca?, in Corti e città. Arte del Quattrocento nelle Alpi Occidentali. Catalogo della mostra, cur. E. Pagella - E. Rossetti Brezzi - E. Castelnuovo (Torino, 7 febbraio - 14 maggio 2006), Milano 2006, pp. 5-13: 9-12 e approfondimenti bibliografici (p. 13). 5 Cfr. Amédée VIII - Félix V, premier duc de Savoie et pape, 1385-1451, cur. B. Andenmatten - A. Paravicini Bagliani, Lausanne 1992.


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ponevano il ducato, ingerenze esterne di Francia, Borgogna e Milano, forte declino economico alimentato dal continuo stato di guerra. Né la situazione migliorò con l’arrivo al trono del figlio epilettico di Ludovico, Amedeo IX (1465-1472), affiancato dalla sposa Iolanda di Francia: si aprì una serie di brevi principati, reggenze, crisi dinastiche6. In tale contesto, così differente da quello iniziale, la festa resta inalterata come strumento politico, pur assumendo valenze differenti, con la preminenza delle forme “interne” alla corte e l’utilizzo della rappresentazione festiva da parte di forze centrifughe. Lo studio di questi mutamenti è facilitato da un corpus documentario cospicuo, vere e proprie serie archivistiche contabili di una continuità (seconda metà del XIII secolo - XVI secolo) e di una consistenza eccezionali: i conti dell’hôtel (l’hospitium, che comprendeva il personale dedito alla persona del principe) dei conti e duchi di Savoia e i conti della tesoreria generale di Savoia7. Si tratta però di fonti che per loro natura non sono descrittive, per quanto offrano mille dettagli concreti sulla quotidianità della corte. Dal canto loro, le fonti narrative sono di una laconicità assoluta. Propaganda e controllo della festa: Amedeo VIII e la politica dei banchetti I predecessori di Amedeo VIII gli lasciarono in eredità strumenti cerimoniali e forme festive che egli avrebbe potenziato e rinnovato, pur sempre entro il quadro generale di una rappresentazione del potere tramite i codici della cavalleria. Un esempio può essere il torneo, che agli occhi dei conti di Savoia del XIV secolo dovette sembrare la festa politica per eccellenza, e di cui fu grande promotore su scala locale Amedeo VI (1343-1383), il conte Verde. La cultura cavalleresca di cui Amedeo VI era imbevuto - nella maturità si sarebbe esplicata nell’adesione alla crociata bandita da Urbano V e nella 6

Per queste vicende, oltre a Castelnuovo - Ricci, Le Alpi occidentali sabaude cit., pp. 12-13, cfr. A. Barbero, Il ducato di Savoia. Corte e amministrazione di uno stato franco-italiano (1416-1536), Roma-Bari 2002. 7 Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Camerale Savoia, inv. 16, Conti della Tesoreria generale di Savoia; inv. 38, Conti dell’hôtel dei conti e dei duchi di Savoia; inv. 40, Conti dei tesorieri generali dei principi d’Acaia. Sull’interesse di queste serie documentarie per lo studio della corte, cfr. i recenti contributi di C. Guilleré, Le financement de la cour savoyarde du milieu du XIIIe siècle au début du XVe: essai de typologie des dépenses de cour, in L’affermarsi della corte sabauda cit., pp. 145-161 e G. Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince»: l’hôtel de Savoie et ses métiers à la fin du Moyen Âge, ibid., pp. 23-53.


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contestuale fondazione dell’Ordine del Collare8 - era nutrita sin dalla giovinezza da una vera e propria passione tornearia. Il valore del torneo quale adunata di signori e vassalli è palese nei ludi equestri tenutisi a Bourg-enBresse per l’Epifania del 1353, a poca distanza da una vittoriosa spedizione nel Vallese e dall’addobbamento cavalleresco del conte diciannovenne. I partecipanti erano tutti potenti alleati o grandi signori savoiardi, bressani e svizzeri, e i dati documentari rivelano l’alto numero di dame e cavalieri accorsi e ospitati presso privati, i cavalli chiesti al balivo di Mâcon o il destriero donato da Galeazzo Visconti, cognato del conte, i festeggiamenti con banchetti e accompagnamento di menestrelli e, finalmente, le vesti verdi che per la prima volta Amedeo indossava intenzionalmente9. Non meno significativo era l’uso politico del torneo da parte di rami minori della dinastia. Amedeo d’Acaia, cugino di Amedeo VI, vi ricorse come strumento d’intesa col conte di Savoia, suo alto signore, invitato quale ospite d’onore a giostre tenutesi a Torino e Carignano, a confermare una fedeltà che sino a pochi decenni prima non era scontata. Non mancavano rapporti cavallereschi con i Visconti e gli Este, parenti e vicini: la contabilità del principe d’Acaia registra diversi scambi di arnesi e cavalli da giostra, e contatti – infruttuosi – con altre signorie padane sotto il medesimo pretesto; tentativi, questi, da contestualizzare entro la ricerca di un proprio spazio politico nell’Italia settentrionale, affrancato dalla tutela dei conti di Savoia10. Amedeo VIII non rinunciò a tale genere di spettacolo, praticato su più larga scala: sono ingenti le tracce contabili lasciate dal torneo di Thonon (1422) in onore di Filippo il Buono. Fu l’occasione non solo per accogliere il duca di Borgogna, ma, come tradizione, per ribadire legami di alleanza e vassallaggio attraverso il coinvolgimento nei preparativi – in specie il prestito di cavalli – del duca di Lorena, di Milano, del marchese di Monferrato, del marchese Saluzzo (che era stato da poco costretto a prestare omaggio, a conclusione di una secolare contesa), dei principali ecclesiastici del ducato e del vescovo di Vercelli, che di lì a cinque anni sarebbe en8

Cfr. P. Datta, Spedizione in Oriente di Amedeo VI conte di Savoia, Torino 1826; D. Muratore, La fondazione dell’Ordine del Collare della SS. Annunziata, Torino 1909; L. Ripart, Du Cygne noir au Collier de Savoie: genèse d’un ordre monarchique de chevalerie (milieu XIVe - début XVe siècle), in L’affermarsi della corte sabauda cit., pp. 93-113. 9 I dati documentari su questo torneo, il più celebrato dalla mitologia dinastica, sono pubblicati in D. Muratore, La prima giostra del Conte Verde, in Miscellanea di Studi Storici in onore di Antonio Manno, II, Torino 1912, pp. 595-608; E. L. Cox, The Green Count of Savoy. Amadeus VI and Transalpine Savoy in the Fourteenth Century, Princeton 1967, pp. 97-98 e 362-364. 10 Gentile, Riti ed emblemi cit., cap. I; Gentile, Il cerimoniale cit., pp. 66-67.


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trato a far parte del ducato11. La novità risiede nel fatto che le occasioni di pubblico giubilo si moltiplicano e si articolano, e dalla contabilità ducale emerge una nuova coscienza dell’utilità della festa, con una regìa cui partecipano professionalità differenti: artisti e artigiani12, musici13, araldi14, cuochi, sotto la direzione dei maîtres d’hôtel preposti all’amministrazione della casa ducale, al decoro e all’accoglienza degli ospiti illustri15, e degli “scudieri di scuderia”16; il tutto nel quadro di una riorganizzazione della corte in termini rappresentativi su modelli francesi, poi sancita dagli Statuti del 143017. Amedeo segna con la festa i principali successi della sua vita politica: l’investitura ducale da parte di Sigismondo di Lussemburgo a Chambéry (1416) e l’incoronazione papale come Felice V a Basilea (1440). Dai conti della tesoreria si evince che i preparativi per l’investitura imperiale del 1416 furono senza precedenti: le spese per gli appartamenti del castello di Chambéry da destinare all’imperatore e per le sale di rappresentanza coprono i mesi da dicembre 1415 a febbraio 1416, ma già a luglio il pittore veneziano Gregorio Bono era stato incaricato di decorare la cappella del castello18; al cuoco ducale, Pierre Morel detto Boquet, pare venisse commissionato un dolce che voleva rappresentare i rilievi montuosi del nuovo ducato, una sorta di antenato del Mont blanc19. Ingenti somme vennero spese per l’argenteria e per i doni da destinare all’imperatore e alla sua cerchia, i primi in termini di importanza da impressionare con l’esibizione di ricchezza.

11 Dati contabili pubblicati in M. Bruchet, Le château de Ripaille, Paris 1907, pp. 459-463. 12 Cfr. G. Castelnuovo - M.A. Deragne, Peintres et ménétriers à la cour de Savoie sous Amé-

dée VIII (1391-1451). Salaires, statuts et entregent, in Regards croisés. Musiques, musiciens, artistes et voyageurs entre France et Italie au XVe siècle, cur. N. Guidobaldi, Paris 2002, pp. 31-59. 13 Cfr. R. Bradley, Courtly Secular Music-Making at Savoy, 1420-1450, in Musique à la cour de Savoie au XVe siècle, cur. M.T. Bouquet Boyer, Genève 1994 («Les Cahiers de l’I.R.H.M.E.S.», 2), pp. 31-67; Castelnuovo - Deragne, Peintres et ménétriers cit.; L.C. Gentile, Musica, musicisti e riti del potere principesco tra Savoia e Piemonte (fine XIV- inizio XVI secolo), in L’istituzione «cappella musicale» fra corte e Chiesa nell’Italia del Rinascimento. Atti del convegno (Camaiore, 21-23 ottobre 2005), Firenze 2007, in corso di stampa. 14 Gentile, Riti ed emblemi cit., cap. II. 15 Decreta Sabaudie ducalia, Torino 1477 (facsimile, Glashütten-Taunus 1973), cc. 114v115v. Per le loro funzioni cfr. Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince» cit., p. 35; E. Pibiri, Être reçu à cour: l’accueil des ambassadeurs étrangers par les ducs Amédée VIII et Louis de Savoie, in L’affermarsi della corte sabauda cit., pp. 77-92: 82. 16 Costoro erano addetti dalla normativa ducale «ad honorificationem nostri status»: Decreta Sabaudie cit., cc. 119r ss.; cfr. infra. 17 Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince» cit., pp. 35 ss. 18 Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 32. 19 Cfr. R. Brondy - B. Demotz - J.-P. Leguay, La Savoie de l’an Mil à la Reforme, XIedébut XVIe siècle, Rennes 1984, p. 301.


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Quanto all’incoronazione papale, Agostino Paravicini Bagliani ci ha restituito lo sfarzo dell’adventus papae celebrato in Basilea nel 1440, con un corteo caratterizzato in senso fortemente temporale e dinastico, dal quale Amedeo emergeva come «un pape des Etats de Savoie»20. Un’autorappresentazione lungimirante, visto che pochi anni dopo gli Stati sabaudi sarebbero rimasti pressoché gli ultimi ove si dichiarava obbedienza a Felice. Il duca di Savoia sapeva che le feste, in specie i momenti conviviali, sono il luogo ove stabilire e manifestare le gerarchie. Vi è un documento che pone in evidenza la concezione del potere di Amedeo VIII e la traduzione in gesti e segni della struttura della corte, colta nel pieno delle sue funzioni di rappresentanza. È un’istruzione per l’investitura dei figli, il primogenito Amedeo a principe di Piemonte e il secondogenito Ludovico a conte di Bâgé21, tenutasi il 15 agosto 1424 a Thonon: il testo contiene le disposizioni da impartire ai figli del duca (i due avevano all’incirca 12 e 11 anni) su «le mode et contenance» che d’ora in avanti avrebbero regolato i loro rapporti formali22. Creato otto anni prima duca di Savoia da Sigismondo di Lussemburgo in riconoscimento della sua fedeltà, Amedeo inaugurava un modo spettacolare per esercitare la propria sovranità, concedendo pubblicamente appannaggi ai figli e titoli comitali ai principali vassalli. In tali occasioni egli si palesava ai grandi del ducato come sola fonte dell’onore: l’istruzione del 1424 prevede che, immediatamente dopo aver investito i figli, il duca «donera l’ordre de chivalerie» a coloro che gli saranno presentati dai due principini, ed è signi-

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A. Paravicini Bagliani, Félix V et le cérémonial pontifical, in Fêtes et cérémonies cit., pp. 11-18. 21 Nel 1427 Ludovico verrà creato conte di Ginevra (cfr. genealogia in A. Page, Vêtir le Prince. Tissus et couleurs à la Cour de Savoie (1427-1447), Lausanne 1993, p. 215). L’estensore del documento – fitto di correzioni effettuate in corso di stesura – aveva in un primo momento assegnato ai due fratelli il titolo di conte di Piemonte (riconosciuto ad Amedeo VIII dall’investitura imperiale del 1416: cfr. AST, Protocolli ducali, n. 69, c. 425v) e conte di Ginevra, poi corretti in principe di Piemonte l’uno e conte di Bâgé l’altro. Sorge quindi il dubbio che il nostro documento sia una copia posteriore d’almeno tre anni di un originale del 1424. 22 AST, Protocolli ducali, n. 2, cc. 130r-133v. L’istruzione è rilegata all’interno di uno dei protocolli dei notai ducali, immediatamente prima di un altro testo quattrocentesco che descrive il fregio araldico realizzato nel 1310 in onore di Enrico VII nel castello di Rivoli. Il documento venne pubblicato una prima volta da L.E. Piccard, Ceremoniale prescritto dal duca di Savoia Amedeo per la funzione fissata al 15 agosto 1424 per la collazione dei titoli di principe di Piemonte e di duca del Genevese [sic] ai due suoi figliuoli Amedeo e Ludovico, «Mémoires et documents publiés par l’Académie Chablaisienne», 10 (1896), pp. XV-XXII. In appendice si propone una nuova trascrizione. Alla cerimonia e all’etichetta prescritta per l’occasione fanno riferimento anche F. Cognasso, Amedeo VIII, I, Torino 1930, pp. 126-128 e 207-209, e Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., pp. 33 e 362 nota 126.


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ficativo il fatto che François de Challant, primo tra i vassalli a ricevere un titolo per concessione ducale, sia stato creato conte nello stesso torno di tempo23. Non è difficile immaginare a chi sia indirizzato sul piano internazionale questo spiegamento di sfarzo. Sul palco, ai lati del duca, insieme all’arcivescovo di Tarantasia Jean Bertrand24, primo ecclesiastico del ducato di Savoia, vi è un «arcevesque de Colloce», che parrebbe identificabile con l’arcivescovo di Kalocza (Ungheria), il neoeletto Giovanni Buondelmonti, più che con un arcivescovo di Colossi25. Se così fosse, si potrebbe pensare che il presule fosse a Thonon a nome di Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria oltre che dei Romani; proprio nel 1424 Amedeo si atteggiava a mediatore - in funzione antiviscontea - tra la Serenissima e Sigismondo, del quale si era sempre mostrato il più fedele sostenitore in Italia26. Ma vi sono due altre presenze significative: gli ambasciatori di Borgogna e Inghilterra, che rinviano all’altro campo d’azione diplomatica del duca, le trattative tra i principi francesi in piena guerra dei Cent’Anni27. L’evento cerimoniale e festivo è quindi pretesto per abboccamenti e negoziazioni, come confermeranno dieci anni dopo i festeggiamenti nuziali per Ludovico di Savoia e Anna di Cipro. Il documento mostra in filigrana la corte – ufficiali ducali inclusi - nella sua funzione glorificatrice del principe e nella sua composizione sociale: «prelatz, barons, banderes, chevaliers et escuiers noutables» nominati insieme ai «conseillers»28 fanno da coro alla cerimonia. D’altra parte, nella disposizione spaziale del pubblico sulla piazza di Thonon sembra leggersi an-

23 A. Barbero, Principe e nobiltà negli stati sabaudi: gli Challant in Valle d’Aosta tra XIV e XVI secolo, in “Familia” del principe e famiglia aristocratica, cur. C. Mozzarelli, Roma 1988, pp. 245-276, ora in A. Barbero, Valle d’Aosta medievale, Napoli 2000, p. 193. 24 Arcivescovo di Tarantasia dal 1418 al 1432: cfr. P.B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Leipzig 1931, p. 829. 25 Ibid., p. 372: il Buondelmonti sarebbe stato consacrato il 15 novembre. Dal 1410 si erano avvicendati, come arcivescovi o come amministratori della diocesi di Kalocsa, prelati di origine italiana: Branda Castiglioni, Andrea Berzi, uno Scolari (www.epa.aszk.hu; www.asztrik.hu/hivatal/tortenelem.htm). Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 208 traduce invece «Colossi». 26 Cfr. Brondy - Demotz - Leguay, La Savoie cit., pp. 299-301. 27 Dal 1423 al 1435 si susseguirono conferenze e abboccamenti tra le due parti in lotta, sotto la presidenza o dietro istigazione del duca di Savoia, con la stipulazione di tregue. Cfr. Cognasso, Amedeo VIII cit., II, pp. 45-62; H. Baud, La correspondence entre le roi Charles VII et le duc Amédée VIII pendant la guerre des Cent ans, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 247-257: 251 e, in generale, H. Baud, Amédée VIII et la guerre des Cent ans, Annecy-Thonon 1971. Sull’andirivieni di ambasciatori stranieri alla corte sabauda in relazione alla rete diplomatica di Amedeo, cfr. E. Pibiri, En voyage pour Monseigneur. Ambassadeurs, officiers et messagers à la cour de Savoie (1370-1465), Lausanne 2008 e Pibiri, Être reçu à cour cit. 28 AST, Protocolli ducali, n. 2, cc. 130v-131r.


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cora una distinzione tra chi appartiene alla corte per nascita e chi per ufficio: ambasciatori, baroni, cavalieri e scudieri a destra, prelati, consiglieri e ufficiali ducali a sinistra. La volontà di assegnare a ciascuno il suo spazio gerarchico («chescun selon ce qu’il appartiendra»29) è evidente, e informata dallo stesso spirito delle prescrizioni suntuarie degli Statuti del 1430: a ben vedere, in entrambi i casi quella che si vuole rappresentare sul piano delle apparenze è una società astratta, mentre molte distinzioni vengono nei fatti a cadere con la sovrapposizione di ruoli e provenienza sociale tra «ufficiali» e «gentiluomini», per dirla con Guido Castelnuovo. Proprio in questo torno di tempo (anni ’20 del XV secolo), la corte sta assumendo una più complessa articolazione, poi codificata negli Statuta Sabaudiae del 143030, parzialmente visibile nel nostro documento. Gli scudieri di scuderia, distinti dai generici «escuiers noutables» del pubblico, precedono il duca nel corteo di apertura e nel corso della cerimonia costituiscono una sorta di “servizio d’ordine” di eccezione: essi sono infatti preposti agli spostamenti e alla sicurezza del principe, ma anche a mansioni diplomatiche, cavalleresche o militari, occupandosi di tutto ciò che è necessario «ad statum guerre»31. Tra loro è tal «Martillet Martel»32, incaricato di reggere la spada di giustizia dinanzi al duca nel corteo, e che resterà in piedi alla destra del trono, sempre tenendo la spada appoggiata alla spalla. Sul palco, in piedi alla sinistra del duca, è il cancelliere, Jean de Beaufort33, che chiama i due piccoli principi alla presenza del padre e impartisce loro un breve discorso morale. Primo per importanza tra i consiglieri ducali, supervisore dell’attività del Consilium cum domino residens e dell’emanazione dei documenti34, il cancelliere ribadisce con la sua presenza la pubblicità e la rilevanza politica dell’atto d’investitura (una frase poi cancellata disponeva che si provvedesse a registrare il tutto in «lectres opportunes»)35.

29 30 31

Ibid., c. 131r. Cfr. G. Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince» cit., pp. 35 ss. Decreta Sabaudie cit., c. 119r; Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince» cit., p. 36. 32 Una trentina d’anni dopo (1452) è a corte un Jean Martelli, scudiero, forse imparentato con Martillet: Pibiri, Être reçu à cour cit., p. 78. 33 Esponente della piccola aristocrazia signorile della Tarantasia, cancelliere dai primi del Quattrocento al 1440: G. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini. La società politica sabauda nel tardo medioevo, Milano 1994, passim, in specie alle pp. 164 e 218. 34 Sulle funzioni e la figura del cancelliere cfr. A. Barbero - G. Castelnuovo, Governare un ducato. L’amministrazione sabauda nel tardo Medioevo, «Società e storia», 57 (1992), pp. 465-511: 498-500. 35 AST, Protocolli ducali, n. 2, c. 132r.


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Poiché d’investitura si tratta, non manca l’entourage militare del duca, costituito dai quattro cavalieri indicati come «conduyseurs» o «presenteurs» dei due principini, tutti esponenti dell’antica aristocrazia territoriale all’interno del Consilium domini: un habitué delle corti francesi, il bressano Jean de la Baume, signore di Valusin, ciambellano del re di Francia, del duca di Orléans e di quella di Borgogna36; il fratellastro del duca, Umberto, bastardo di Savoia37; Gaspard II di Montmayeur, maresciallo di Savoia38 e Manfredo Saluzzo di Cardè, futuro maresciallo39. Di costoro, il maresciallo di Montmayeur assume il ruolo di intermediario tra il duca e i principi nell’atto stesso dell’investitura: è lui che passa al duca le due spade utilizzate per investire i figli; è lui che illustra ai giovani Amedeo e Ludovico le «defferences» che d’ora in avanti permetteranno di distinguere le loro rispettive insegne araldiche da quelle del padre, come da questi disposto40. Il rilievo dato al maresciallo ricorda come, in seno al consiglio ducale, egli fosse secondo solo al cancelliere per importanza, e fosse il primo ufficiale militare del ducato41.

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Cfr. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini cit., ad indicem, in part. p. 163. Jean de la Baume era dal 1404 cavaliere dell’Ordre du Camail (Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 211). Egli aveva militato al servizio di Ludovico I d’Angiò, che l’aveva creato conte di Sinopoli, ed era divenuto balivo del Vaud e luogotenente generale della Bresse nel 1398-1399; per queste sue cariche e per gli onori ricevuti nelle corti francesi cfr. Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 441 nota 17. 37 Cfr. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini cit., ad indicem e in part. alle pp. 273-276; G. Castelnuovo, Humbert le Bâtard: un seigneur itinérant au service de son prince, in L’itinérance des seigneurs (XIVe-XVIe siècles), cur. A. Paravicini Bagliani - E. Pibiri - D. Reynard, Lausanne 2003 (Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, 34), pp. 5-25; A. de Riedmatten, Humbert le Bâtard. Un prince aux marches de la Savoie (1377-1443), Lausanne 2004 (Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, 35). 38 Cfr. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini cit., ad indicem, in part. p. 164; G. Castelnuovo, Les maréchaux en Savoie au bas Moyen Âge, in La société Savoyarde et la guerre. Huit siècles d’histoire (XIIIe-XXe siècles). Actes du XXXVIe congrès des sociétés savantes de la Savoie (Montmélian, 21-22 septembre 1996), cur. C. Sorrel, «Mémoires et documents publiés par la Société Savoisienne d’Histoire et d’Archéologie», 100 (1998), pp. 91-99: 95 nota 17 e 97 nota 29. 39 Nominato alla carica due anni dopo (C. Gardet, Le maréchal de Savoie Manfred de Saluces, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 259-262; Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini cit., ad indicem; Castelnuovo, Les maréchaux en Savoie cit., p. 95 nota 17 e p. 97 nota 29). 40 AST, Protocolli ducali, n. 2, c. 131r: Amedeo porterà d’ora in avanti lo scudo paterno (di rosso alla croce d’argento) differenziato con un lambello – figura geometrica che contraddistingue le armi dei primogeniti vivente il padre – azzurro, di tre pendenti; il cimiero sarà lo stesso ceffo di leone alato del duca, differenziato anch’esso dal lambello apposto alle ali. Ludovico aggiungerà allo scudo con la croce una bordura dentata d’azzurro, e assumerà come cimiero un leone nascente d’ermellino, coronato d’oro. 41 Cfr. Castelnuovo, Les maréchaux en Savoie cit., in part. alle pp. 96-97.


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Altri personaggi di rilievo: i tre «maistres», maestri o precettori di Amedeo e Ludovico, che, insieme agli scudieri addetti alle loro persone, li seguono da vicino in una circostanza che include passaggi formativi e didascalici, e che in quanto investitura si configura come rito di passaggio; e mastro Raphaël dell’Ordine dei Predicatori, che dopo la cerimonia pubblica solennizzerà la festa liturgica – è il giorno dell’Assunzione della Vergine – con un sermone42. Non manca una schiera di servitori minori, portieri, camerieri o uscieri, addetti alla sorveglianza dei vari settori della piazza. Tra il personale inferiore, araldi, trombetti e menestrelli, consueti figuranti della magnificenza ducale, hanno la funzione di annunciare l’arrivo dei principini o del duca nei due cortei, di allietare il banchetto finale e celebrare ritualmente la «largesse» del principe: ad ogni buon conto, restano in secondo piano anche là dove – ad esempio nell’annunzio pubblico del nuovo stemma di Amedeo e Ludovico – ci si aspetterebbe un intervento degli araldi, a riprova della funzione cerimoniale e non “tecnica” che tali personaggi rivestivano a corte43. Da ultimo, i bambini, una presenza frequente nei solenni ingressi per motivi ad un tempo apotropaici e scritturali44, ad ogni buon conto coetanei dei due piccoli principi e dei loro fratelli minori. Dall’investitura traspare una precisa concezione del potere. La sacralità della cerimonia è inquadrata entro due momenti liturgici – la messa grande del mattino e i vespri – e confermata dalla presenza dei due arcive-

42

«Maistres» così traduce anche Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 208. Cfr. l’espressione «le maistre de monseigneur le prince» riferita nel 1441 al maestro di scuola del futuro Amedeo IX: N. Blancardi, Les petits princes. Enfance noble à la cour de Savoie (XVe siècle), Lausanne 2001 (Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, 28), pp. 16 e 182. Da quanto sappiamo sulla struttura della corte di Amedeo VIII e sulla composizione del seguito dei piccoli principi di Savoia verso la metà del secolo (ibid., pp. 55-59) è da escludere che i «maistres» del documento siano maîtres d’hôtel al servizio particolare di Amedeo e Ludovico. Quanto al domenicano Raphaël, Eva Pibiri mi segnala che potrebbe trattarsi di Rafael de Cardona, compagno di Vincenzo Ferrer, attestato nel convento di Barcelonnette e a Lione nel 1421; dal 1423 è in Svizzera e predica a Friburgo, Romont, Aubonne e Ginevra (1430): cfr. F. Morenzoni, Vincent Ferrier et la prédication mendiante à Genève au XVe siècle, in Mirificus praedicator. À l’occasion du sixième centenaire du passage de saint Vincent Ferrier en pays romand. Actes du colloque (Estavayer-le-Lac, 7-9 octobre 2004), cur. P.B. Hodel - F. Morenzoni, Roma 2006, pp. 285-302: 289-290. 43 Cfr. L.C. Gentile, Du héraut au blasonatore. Les “techniciens” de l’héraldique et l’évolution de leur fonction dans les états de Savoie, du Moyen Age au XIXe siècle, in Généalogie et héraldique. Actes du XXIV Congrès International des Sciences Généalogique et Héraldique (Besançon, 2-7 maggio 2000), II, Paris 2002, pp. 97-110. 44 S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze 1991, pp. 72-73.


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scovi. Come si è già rilevato, tanto nell’allestimento della piazza45 quanto nella predisposizione dei cortei d’entrata e d’uscita e nel corso di tutto il rito, vi è un’attenzione meticolosa nell’assegnare a ciascuno spazi e distanze. Altrettanto peso hanno le insegne del potere: Amedeo VIII si fa rivestire dell’«habit ducal»46, vale a dire del manto e del berretto ducale rosso, foderato d’ermellino – così ce lo consegna la scarna iconografia pervenutaci47 – per tornare alle vesti consuete a rito concluso, prima dell’inizio dei festeggiamenti. Cambio opportuno, dato che siamo a metà agosto; ma, fatto ben più rilevante, gli Statuti del 1430 specificheranno che il duca deve rivestire le sue insegne «in exequendo actus ducales solennes»; «aliis vero temporibus et diebus iuxta nostre dignitatis decentiam, honesta vestimenta […] nullaque superflua vel immoderata somptuositate seu minus decenti preciositate, aut aliis inepta compositione notanda»48: dettami che riflettono la necessità di manifestare la propria dignità e al contempo di contenere ogni lusso non necessario. Altro Herrschaftszeichen è la spada di giustizia, che il duca fa portare davanti a sé in corteo e che rimane presso di lui nel corso di tutta l’investitura, e non va confusa con le due spade con le quali Amedeo investe i figli: simbolo del potere esecutivo, tra i più amati dai conti e dai duchi di Savoia, la spada di giustizia non è – come le vesti ducali – un’introduzione del 1416, ma ha una sua tradizione più antica49. Amedeo VIII ha un alto concetto di un altro linguaggio visivo del potere, l’araldica, che verrà anch’essa inclusa nelle prescrizioni suntuarie degli Statuti: si spiegano così i ben due paragrafi del documento dedicati alla proclamazione pubblica da parte del maresciallo, come primo ufficiale militare del ducato, degli stemmi personali che i due principi assumono al momento dell’investitura. Complemento necessario della cerimonia sono i festeggiamenti che si svolgono dopo il vespro: l’eventuale giostra in presenza delle dame e la cena, seguita da danze e canti con rinfresco finale di vino e spezie. È in questo contesto che s’inserisce la sezione forse più interessante del documento: l’insegnamento ai figli del duca dell’etichetta che il padre vuole si applichi d’ora in poi tra loro50. Una codificazione senza precedenti documenta45

Le spese effettuate per l’occasione vennero pubblicate da Piccard in coda all’istruzione: cfr. Piccard, Ceremoniale prescritto cit., pp. XXI-XXII. 46 AST, Protocolli ducali, n. 2, c. 130v. 47 A. Vadon, Amédée VIII - Felix V dans l’ iconographie, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 105-119: 109. 48 Decreta Sabaudie cit., cc. 153v e 154r. 49 La prima attestazione in un contesto cerimoniale è data dai funerali di Amedeo VI (1383), ma l’uso è probabilmente più antico (Gentile, Riti ed emblemi cit., cap. 3). 50 AST, Protocolli ducali, n. 2, c. 133r-v.


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ri in ambito sabaudo, e senza successive attestazioni sino almeno al ducato di Carlo II (1504-1553), attento quanto l’avo Amedeo all’affermazione simbolica del potere51. Ma la rilevanza del documento supera i confini del ducato alpino, imponendo un confronto con la fonte più nota per la conoscenza del cerimoniale della corte di Borgogna: il trattatello di Eleonora di Poitiers, dama della contessa di Charolais e di Maria di Borgogna. Jacques Paviot ha restituito all’opera, già conosciuta con il titolo moderno Les honneurs de la cour, il suo titolo originale, Les États de France52. Giacché quello che Eleonora illustra con esempi borgognoni è il cerimoniale della corte di Francia («les honneurs royaulx qui se doibvent faire et entretenir en cours des princes, chascun selon son estat»)53, mutuato dai principi del sangue a imitazione di chi incarnava la regalità. La stesura del libretto risale agli anni ’80 del Quattrocento, ma l’autrice, giunta a corte bambina intorno al 1450, attinge alla propria esperienza personale e a quella di due o tre generazioni precedenti54. Ora, il parallelismo tra l’etichetta savoiarda del 1424 e il trattato di Eleonora era stato già rilevato nel 1931 da Francesco Cognasso, che l’aveva interpretato quale testimonianza di una generale adozione di uno stile cortese borgognone da parte di Amedeo VIII (genero di Filippo l’Ardito)55. Certo vi erano forti contatti tra i due ducati, ma mi pare che l’archetipo vada cercato a monte, in quella corte di Francia alla quale guardava la stessa Borgogna – poi isolata dalla storiografia come caso paradigmatico56 – e alla quale il mondo savoiardo era legato da vincoli dinastici plurigenerazionali, politici e amministrativi, culturali. Infine, non si deve perdere di vista la causa prima, politica dell’adozione progressiva in Savoia di siffatte innovazioni rituali: l’assunzione della dignità ducale per investitura imperiale nel 1416. Dall’istruzione appaiono chiaramente un prima, la consuetudine sinora praticata («comme l’ont acoustume»; «comme l’on fait maintenant») e un dopo introdotto dalla vo-

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Per le poche notizie che si hanno su cerimoniale ed etichetta ducali, successive al matrimonio di Carlo II con Beatrice di Portogallo, cfr. Castelnuovo, «À la court et au service de nostre prince» cit., p. 31 nota 41; Barbero, Il ducato di Savoia cit., pp. 252 ss.; Gentile, Riti ed emblemi cit., cap. 1. 52 Cfr. l’introduzione a Éléonore de Poitiers, Les États de France (les honneurs de la cour), cur. J. Paviot, «Annuaire-bulletin de la Société de l’Histoire de France», 1996, Paris 1998, pp. 75-137: 76-81. 53 Ibid., p. 84; cfr. inoltre l’introduzione a p. 80. 54 È il caso di Giovanna d’Harcourt, contessa di Namur (n. 1372), proprietaria di un «grand livre, en quoy estoient escrit tous les estats de France»: ibid., p. 106. 55 Cfr. Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 128. 56 Cfr. Castelnuovo, L’hôtel de Savoie cit., p. 27.


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lontà ducale, rappresentato da prescrizioni volte al futuro. Gli appellativi, innanzitutto: a voce e per iscritto, fratelli e sorelle dovranno rivolgersi al principe di Piemonte come monseigneur mon frere, venendo ricambiati con beau frere, belle soeur, che già adoperano tra loro57. Nelle precedenze il principe di Piemonte, previi reciproci inviti, incederà prima del secondogenito Ludovico, sopravanzandolo di «ung petit pas» onde poterlo tenere per mano58. Qui come in Eleonora di Poitiers l’«aller devant» indica una posizione onorifica59, mitigata dalla familiarità e dall’uguale condizione significate dal tenersi per mano60. Analogamente, a cavallo il giovane Amedeo precederà Ludovico, anche se di poco, «du coul de son cheval». Altro ambito regolamentato è, ovviamente, la tavola: prima del pasto, il principe di Piemonte inviterà fratelli e sorelle a lavarsi le mani e prendere vino e spezie insieme a lui, il che toccherà per prima alla sorella primogenita, Maria61, «sanz creance», vale a dire senza assaggio previo da parte di un ufficiale o di un servitore dell’hôtel; tutti gli altri insieme, «sanz creance» se presente il principe, se assente «chescun a creance» come già fanno, ma sempre dopo Maria. Nel caso savoiardo il servizio a tavola «à creance [previo assaggio] et couvert [col piatto coperto d’un tovagliolo]» è un altro discrimine tra il principe e i fratelli, che ne potranno godere, come già fanno, solo in assenza del primogenito: anche nelle corti francesi condividere o meno le spezie, gli assaggi, la lavanda delle mani e il servizio coperto è segno onorifico62. Vengono poi le regole di conversazione: il

57

Esempio analogo in Eléonore de Poitiers, Les États de France cit., p. 97, e p. 116, ove si raccomanda l’uso di «beau» e «belle» per i pari grado, a voce come per iscritto. A un campo parallelo, quello dell’attribuzione di titoli e appellativi nobiliari a chi di diritto, sono dedicati quattro paragrafi degli Statuti del 1430 (Decreta Sabaudie cit., c. 163r); cfr. inoltre Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 126 per le formule adoperate dalla cancelleria regia di Francia all’indirizzo del duca di Savoia. 58 AST, Protocolli ducali, n. 2, c. 131r: così è già avvenuto nel corteo dell’investitura appena impartita, ove i due marciavano «soy menant par les mains, ung dimy pas alant Amé monseigneur plus avant». 59 Cfr. l’introduzione di J. Paviot a Éléonore de Poitiers, Les États de France cit., p. 82; e J. Paviot, Les marques de distance dans les “Honneurs de la Cour” d’Aliénor de Poitiers, in Zeremoniell und Raum. 4. Symposium der Residenzen-Kommission der Akademie der Wissenschaften in Göttingen (Potsdam, 25-27 September 1994), cur. W. Paravicini, Sigmaringen 1997, pp. 91-96. 60 Esempi in Éléonore de Poitiers, Les États de France cit., pp. 85, 92, 95, 117; vedasi anche il glossario a p. 128. 61 Maria era maggiore di un anno rispetto ad Amedeo. Per un esempio di precedenza, nel quale si teneva conto anche della primogenitura femminile, ibid., p. 86. 62 Esempi in Éléonore de Poitiers, Les États de France cit., pp. 86, 96, 97 (distinzioni nel servizio delle spezie), 94, 117 (assaggio, «essay», o «credence» riferito al vino), 85, 94 (la-


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saluto comporterà una lieve genuflessione da parte di fratelli e sorelle dinanzi al principe di Piemonte, che ricambierà con un cenno della testa e delle spalle; mentre tra loro gli altri principini non adotteranno alcun gesto formale, come s’è praticato sinora. Quando il primogenito si rivolgerà ai fratelli, questi si leveranno il cappuccio per primi, imitati poi da Amedeo che se lo rimetterà immediatamente, «et leur apres»; le sorelle si inchineranno come si confà. Da ultimo, le precedenze in presenza del padre, sempre separato dai figli dai «chevaliers» (presumibilmente i grandi aristocratici della corte): se i cavalieri saranno dinanzi al duca, i principi precederanno i cavalieri, e, quando incederà per primo il duca, seguiranno i cavalieri prima, i principi poi. Dalle prescrizioni del 1424 si evince quale fosse l’importanza accordata ai banchetti, che permettevano di mettere in scena la ricchezza del padrone di casa, o dare l’illusione della coesione dell’aristocrazia intorno al principe. Di qui la commissione al maître de cuisine del duca, Chiquart Amiczo, d’un trattato che fosse la summa dell’arte culinaria praticata a corte. Ne nacque nel 1420 il Du fait de cuisine63, centrato intorno alla pianificazione di un banchetto di quattro pasti da sei portate ciascuno, attraverso il dettaglio di luoghi, addetti, alimenti. L’arte dei cuochi sabaudi si esplicò in una delle occasioni festive più memorabili della corte di Savoia, rimasta paradigmatica grazie alla penna di Johan Huizinga64: le nozze di Ludovico, ormai principe di Piemonte, con Anna di Cipro a Chambéry nel 1434, ultimo tentativo da parte di Amedeo VIII di costruire una politica mediterranea65.

vanda delle mani), 94, 97 (servizio a piatto coperto). Per le espressioni «credence», «essay» e «à couvert» cfr. il glossario a p. 127. L’assaggio previo di cibi e bevande da parte di un ufficiale dell’hôtel e il servizio con pane e piatti coperti sono documentati da Olivier de La Marche nel suo Estat de la Maison du duc Charles de Bourgoingne, dit le Hardy (dal 1473 in avanti): J. Paviot, Ordonnances de l’hôtel et cérémonial de cour aux XVe et XVIe siècles, d’après l’exemple bourguignon, in Höfe und Hofordnungen 1200-1600. 5. Symposium der Residenzen-Kommission der Akademie der Wissenschaften in Göttingen (Sigmaringen, 5-8 ottobre 1996), cur. H. Kruse - W. Paravicini, Sigmaringen 1999, pp. 167-174: 172 e 173. 63 T. Scully, Du fait de cuisine par Maistre Chiquart, 1420 (ms S 103 de la Bibliothèque Supersaxo, à la Bibliothèque Cantonale du Valais), «Vallesia», 40 (1985), pp. 101-231; T. Scully, Chiquart’s “On Cookery”. A Fifteenth-Century Savoyard Culinary Treatise, New York-BernFrankfurt 1986; T. Scully, Maître Chiquart. Du fait de cuisine (scheda), in Corti e città cit., p. 36 e relativa bibliografia; A. Salvatico, Il principe e il cuoco. Costume e gastronomia alla corte sabauda nel Quattrocento, Torino 1999. 64 J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, Milano 1998 (tit. originale Herfsttij der Middeleeuwen, Haarlem 1919), p. 386. 65 Brondy - Demotz - Leguay, La Savoie cit., p. 304.


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L’anonima Chronica latina Sabaudiae, avversa a Ludovico e ai favoriti ciprioti della moglie66, liquida le feste in poche righe: «Hic patre vivente duxit in uxorem Annam filiam regis Cipri, eiusque nuptias in Chamberiaco Amedeus pater mirabiliter solemnisavit»67, annotando che erano presenti Ugo cardinale di Cipro, zio della sposa, Renato d’Angiò, Filippo il Buono e «principes et proceres quamplurimi cum amirabili triumpho». Sappiamo da una fonte più loquace e ammirata, l’araldo borgognone Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, che erano a Chambéry anche i conti Giovanni di Nevers (della casa di Borgogna) e Giovanni di Clèves (futuro duca), il principe d’Orange (Guglielmo di Chalon-Arlay), il marchese Ludovico I di Saluzzo, il conte Giovanni di Friburgo, gli ambasciatori di Francia con il fiore dell’aristocrazia borgognona e savoiarda68. «Car, a la verité, ce fut une grande et noble assemblee de princes et grans seigneurs»69, convenuti per sondare il terreno per eventuali accordi, dietro proposta di Amedeo VIII che si poneva come mediatore, scrivendo per l’occasione a Carlo VII e al duca di Bedford, reggente d’Inghilterra70. Renato d’Angiò era stato peraltro incaricato dal re di Francia, insieme agli ambasciatori ufficiali, di sondare le pretese del duca di Savoia di presiedere una negoziazione da effettuarsi nella Bresse. Il 12 febbraio, il giorno stesso delle nozze, Filippo il Buono siglò un trattato d’alleanza con Amedeo VIII contro il sire di Borbone (figlio del duca Carlo) per una questione di omaggi rifiutati. Anche il principe d’Orange avrebbe avuto i suoi motivi per trattare con gli ambasciatori francesi, dati i suoi tentativi di riconquistare il principato, rafforzare i dominii nel Delfinato ed espandersi tra basso Rodano e Giura71. In sostanza, tra un banchetto e l’altro si intrecciarono trattative e abboccamenti, alcuni nello stretto interesse del padrone di casa, altri di respiro più ampio. Questi, unitamente alla mediazione dei padri conciliari di Basilea, avrebbero portato alla riconciliazione tra Borgogna e Borbone nella pace di Arras (1435)72. Può sembrare un paradosso che la descrizione delle nozze ci sia pervenuta non dalle fonti sabaude, ma dalla penna di Jean Le Fèvre, araldo del

66 67

Cfr. Barbero, Il ducato di Savoia cit., pp. 164-165. Chronica latina Sabaudiae, ed. D. Promis, in Historiae Patriae Monumenta, Scriptores, I, Torino 1840, coll. 599-678: 616. 68 Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, Chronique, ed. F. Morand, II, Paris 1881, p. 288. 69 Ibid., p. 297. 70 Cognasso, Amedeo VIII cit., II, p. 161. 71 Ibid., p. 64. 72 Ibid., pp. 161-165; Baud, La correspondence cit., p. 256; Baud, Amédée VIII et la guerre des Cent ans cit.


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Toson d’Oro al seguito di Filippo il Buono73; in realtà è la dimostrazione di quale fosse l’effetto – e lo scopo – di queste manifestazioni pubbliche di largesse sulla valutazione degli ospiti. Jean Le Fèvre ci ha tramandato non solo la precisa distribuzione dei commensali in sette tavolate74 ma anche lo svolgimento dei nove banchetti successivi, distribuiti su cinque giorni e punteggiati da splendidi entremets: una forma spettacolare sulla quale Chiquart aveva fatto scuola, che evolveva dai magnifici intermezzi culinari ideati dai mastri di cucina. Le Fèvre ne ricorda diversi: cigni sormontati da bandiere con le armi dei gran signori presenti; araldi del duca di Savoia seguiti da trombetti e da dodici gentiluomini che caracollavano su «chevaulx d’artifice», con le bandiere dei vari dominii del duca; sirene che cantavano «tres gracieusement» al seguito di un veliero, dal quale veniva scaricato del pesce; un cavallo camuffato da elefante con una torre in groppa, dalla quale il dio d’Amore dardeggiava sulle dame rose bianche e vermiglie; uomini selvatici che entravano portando un giardino di rose in cera, in mezzo al quale era legato uno stambecco dalle corna dorate; un uomo travestito da aquila che spuntava da un grande pâté, con uno stormo di colombe che si levarono in volo nell’istante in cui alzò le ali75. Non mancarono moresche e momeries, tra cui una moresca di folli inscenata da 18 cavalieri e scudieri vestiti di giallo – il colore del disordine sociale e mentale. Dai conti di tesoreria si evince che per preparare il materiale “scenico” vennero convocati pittori non solo locali, ma anche provenienti da Lione, Montluel, Grenoble, Romans per un totale di 283 giornate lavorative76. Nel materiale rientravano bandiere, pennoni, scudi di cartapesta. Poiché forte è nei banchetti, come in tutte le feste in generale, l’insistenza sulla veicolazione araldica di messaggi politici: Chiquart chiede ad esempio che, per onorare al meglio il padrone di casa e gli ospiti, il cuoco s’informi sui loro nomi e sui loro stemmi, che farà raffigurare su bandiere da installare su teste di cinghiale che verranno collocate di fronte a ciascun invitato77, e tale principio venne rispettato negli entremets delle nozze di Anna e Ludo73

Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, Chronique cit., pp. 287-297. Altri dati riportati in Bruchet, Le château de Ripaille cit., pp. 164 ss.; tratta dei festeggiamenti Cognasso, Amedeo VIII cit., II, pp. 141-145. 74 Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, Chronique cit., p. 290: al primo tavolo sedevano il cardinale di Cipro, il duca di Borgogna, la sposa, la regina di Sicilia, Renato d’Angiò, Giovanni di Clèves e Giovanni di Nevers; il duca di Savoia sedeva nella terza, con l’ambasciatore del re di Francia e diversi grandi signori borgognoni e savoiardi. 75 Ibid., pp. 291-296. 76 Cfr. Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 207. 77 Cfr. Scully, Chiquart’s “On Cookery” cit., p. 24.


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vico. Ancora nel 1476, il pittore Galliot preparerà per un banchetto a Chambéry in onore della figlia del marchese di Mantova, fidanzata al Delfino, nove castelli di cartapesta, difesi da 60 polli con tanto di elmo, stendardi e scudi alle armi di Luigi XI, Filiberto di Savoia, il Delfino e il marchese78. Altro aspetto interessante della politica festiva è la funzione rappresentativa della musica. L’araldo del Toson d’Oro ascoltò con emozione l’esibizione della cappella ducale il giorno successivo alle nozze, durante la messa celebrata dal vescovo di Moriana «tant melodieusement que c’estoit belle chose a oyr», e specifica che la cappella era ritenuta «la meilleur du monde»79; aggiungiamo, anche grazie alla direzione di Guillaume Dufay, che il giorno dopo avrebbe fatto cantare la sua messa Et in terra o Des Quaremiaux80. La festa era occasione per un vero e proprio raduno di menestrelli, trombetti, re d’armi, araldi e apprendisti araldi (poursuivants), che tornando ai loro signori, previa un’elargizione in denaro, avrebbero dato la dovuta risonanza all’evento81. È quindi in termini di propaganda che pare risolversi il rapporto tra festa e politica alla corte sabauda: al di là di una generica cornice cortese e cavalleresca, né dalle sintetiche fonti contabili, né dal dettagliato racconto di Jean Le Fèvre si coglie nei temi dei banchetti quella complessità allegorica riferita a precise congiunture politiche che s’incontra nella vicina Borgogna, o nei banchetti franco-imperiali illustrati in questa stessa sede da Gerald Schwedler. Altro tratto distintivo della coscienza dell’importanza della festa sotto Amedeo VIII è l’idea della necessità del controllo del fasto, palese negli Statuta Sabaudiae. In essi il duca coniuga il tentativo di unificazione giuridica delle differenti consuetudini dei suoi dominî82 con un progetto di società volto a disciplinare moralmente dall’alto i costumi e a collocare ciascuno all’interno di una gerarchia di classi e funzioni83. Sin dal prologo del libro V, «De statu Domini et sue domus inclite»84, il fine delle prescrizioni 78 Cfr. L. Ménabréa, Chroniques de Yolande de France, Paris 1859, p. 215; Rosie, Ritual,

Chivalry and Pageantry cit., p. 206. 79 Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, Chronique cit., p. 293. 80 Cfr. Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., pp. 61 e 181. 81 Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, Chronique cit., p. 292: vi erano i re d’armi del Toson d’Oro (l’autore stesso), d’Austria, Savoia, Francia e contea di Ginevra. 82 Con un rafforzamento effettivo della lex principis a fronte dei diritti locali: cfr. I. Soffietti, Problemi relativi alle fonti del diritto negli stati sabaudi (secoli XV-XIX), Torino 1988, p. 19. 83 Cognasso, Amedeo VIII cit., I, p. 226; R. Levi Pisetzky, Moda e costume, in Storia d’Italia, V: Documenti, Torino 1973, p. 940; R. Comba, Les Decreta Sabaudiae d’Amédée VIII: un projet de société?, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 179-190: 186 ss.; N. Bulst, La législation somptuaire d’Amedée VIII, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 191-200: 195-196. 84 Decreta Sabaudie cit., cc. 153v ss.


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suntuarie è definire il posto di ognuno in una società il cui vertice è il duca, esempio egli stesso di prudenza e moderazione85. Particolarità, secondo Neithard Bulst86, rispetto a tutta la legislazione suntuaria del tempo è l’approccio sistematico, che resta ineguagliato sino alle Reichspolizeiordungen imperiali del Cinquecento. Tanta preoccupazione si spiega anche con l’intuizione che il fasto e la festa potevano divenire strumenti pericolosi nelle mani dell’alta aristocrazia, con l’assunzione di modelli comportamentali concorrenziali con quello del principe; e vedremo oltre come fosse una preoccupazione giustificata. Si comincia dunque dal duca e dai suoi successori, che rivestiranno gli abiti e le insegne ducali esclusivamente «in exequendo actus ducales solennes», mentre negli altri giorni porteranno «honesta vestimenta», e si procede con prescrizioni per gli altri ceti, restituendo un’immagine parzialmente deformata, piramidale, della società87. Non mancano le prescrizioni che interessano lo svolgimento delle feste. Nel paragrafo «De moderatione numeri personarum et ferculorum nuptialium»88, si statuisce ad esempio che se il padre della sposa è un banderese e allestisce il banchetto a casa sua, non s’invitino più di dodici uomini e altrettante donne scelti tra parenti e amici, e dodici uomini della cerchia del genero, senza contare la servitù; se sarà il marito a organizzare le nozze, la sposa non conduca con sé più di sei donne. Altre disposizioni vertono su estrazione sociale degli invitati, numero delle portate e presenza del «vinum ipocratis seu pigmentum», ammesso tra Pasqua e Ognissanti; il numero degli invitati e delle portate varia a seconda che si tratti delle nozze di vavassores, tesorieri, segretari, in sostanza aristocratici o ufficiali, oppure cittadini borghesi, mercanti, notai e altri89. Un altro paragrafo istruttivo reca il titolo

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«Hec statuta pomparum et superfluitatum vestimentorum, ornatuum et conversationum restrictiva duximus salubriter edicenda a culmine nostri status inchoando, per singulos gradus personarum ordinato statum cuiuslibet regulando, ut quisque dicat se ipsum conoscere, superioribus revereri, inferioribus condescendere, et omnes iniciis suarum facultatum terminis debitam humilitatem servare», ibid. 86 Bulst, La législation cit., p. 192. 87 Ibid., p. 195. Per il rapporto tra gerarchie vestimentarie e status sociale negli Statuta, in specie per quanto riguarda la posizione degli ufficiali ducali, cfr. G. Castelnuovo, Société, politique et administration dans une principauté du bas Moyen Âge. Les officiers savoyards et le Cheshire Cat, in Les noms que l’on se donne. Processus identitaire, expérience commune, inscription publique, Paris 2001, pp. 121-136: 121-127. 88 Decreta Sabaudie cit., cc. 159v-160r. 89 Per le categorie superiori si prevede un limite massimo di invitati (otto uomini e otto donne) da parte di chi allestisce la festa, e otto uomini della cerchia dell’altro coniuge (se è la sposa, non porterà con sé più di quattro donne); non si ammetteranno se non «duo fercula ad duas assisas». Nel caso di borghesi, mercanti, notai e altri si tollereranno quattro uo-


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«De moderatione conviviorum ad que dominus invitatur»90, che concerne l’accoglienza del principe nelle case dei suoi sudditi: il magister hospicii deve badare a che non entrino a pranzare «nisi vocati et electi», gli altri sederanno a tavola in un «tinellum commune» esterno all’edificio in cui si tiene il convivio; non si porteranno in tavola più di «duo fercula dupla cum uno intermisso ad duas assisas». Ad analogo spirito di moderazione sono ispirati i paragrafi «De modestia aliorum conviviorum inter amicos fienda» e «De moderatione commensationum et visitatione puerperarum»91. Prescrizioni anche queste con una tradizione alle spalle: Bulst ricorda analoghe leggi a Strasburgo all’inizio del Duecento e un’ordinanza di Filippo l’Ardito del 127992. Dinanzi alla minuziosità del legislatore, resta aperto un problema: quale fu l’applicazione reale di queste norme? Secondo Neithard Bulst93 l’apparente assenza di ammende nelle fonti contabili ducali non autorizza a dedurre che gli Statuta non venissero applicati. Inoltre, il proposito unificatore del preambolo degli Statuti trovava un limite nel rispetto dichiarato per le consuetudini di alcune province (segnatamente Aosta e Vaud) che costituivano una considerevole porzione dello Stato. Crisi dello Stato e tendenze centrifughe

Ludovico, figlio di Amedeo VIII, salito al potere dapprima come luogotenente del padre (1434), poi come duca all’abdicazione di Amedeo eletto papa (1439), governa con scarsa autorità, ma a corte mostra uno sviluppato gusto artistico e per l’intrattenimento, che gli verrà rinfacciato a fine secolo dalla Chronica latina Sabaudie. L’anonimo cronista enuncia una vera e propria damnatio memoriae di Ludovico: «non curabat de Deo neque de iusticia subditorum, sed gloria sua erat in habendo cantores, musicos in numero copioso et sumptuoso, et sagittarios picardos, quibus dabat quod habebat et quod non habebat, et gloriabatur audire quotidie cantus et cantilenas, nec non baladas, iocositates “falsas” vulgariter appellatas: adeo erat istis deditus, quod non curabat tractare de iusticia neque de bono sive sta-

mini, quattro donne tra parenti o amici dell’invitante e quattro uomini tra quelli dell’altro coniuge (quattro donne se questi è la sposa), e due portate semplici. 90 Decreta Sabaudie cit., c. 160r-v. 91 Ibid., c. 160v. 92 Bulst, La législation cit., p. 191. 93 Ibid., pp. 197-200.


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tu dominiorum suorum, ita quod potius voluisset perdere unum bonum castrum, quam perdere unam iocositatem»94. Fatte salve le entrate solenni95, sembra che da Ludovico in poi i duchi abbiano puntato non tanto sulle feste pubbliche in ordine alla propaganda, quanto sulla magnificenza interna alla corte e ai suoi intrattenimenti. La cappella musicale, di cui già Amedeo VIII aveva di che andare fiero e che tanta importanza aveva nell’apparato festivo, cresce in numero e struttura, soprattutto sotto Iolanda96; la corte stessa raddoppia i suoi numeri, e sintomatico è il ricorso sempre più insistito al meccanismo del dono per sottolineare rapporti di amicizia con i principi che inviavano i loro ambasciatori97 e di protezione e fedeltà con l’entourage principesco. Istruttive sono le liste delle strenne che venivano distribuite durante le feste di inizio anno, secondo Alison Rosie da 100 nel 1413 al doppio nel 1433, a 617 nel 1460 sotto Ludovico e Anna, per tornare su 200-240 sotto Amedeo e Iolanda. Come dire che la magnificenza della corte, anziché esplicitare il potere, «was a façade to cover its vacuum at the centre»98. Si può immaginare come tutto ciò andasse a detrimento delle finanze ducali, in un periodo già travagliato di per sé. Eppure, ai richiami del padre che da Losanna nel 1449 gli scrive di tagliare le spese (se ci avesse pensato prima, «res hodie melius se haberent»!), Ludovico risponde che, dinanzi all’andirivieni di nobili condotti a Torino da guerre ed ambasciate, è tenuto a rispettare le apparenze99. Di fatto, la pressione sociale inchioda il duca alla largesse. Lo stesso vuoto di potere cui accenna Alison Rosie origina in parte l’uso concorrenziale del linguaggio cerimoniale e festivo da parte di forze centrifughe: i cadetti della dinastia, che nei loro appannaggi indicono feste

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Chronica latina Sabaudiae cit., col. 621. Un’altra feroce requisitoria contro il duca Ludovico che «non diligebat suos, sed potius extraneos, non milites, non doctores, non nobiles, non doctos viros secum habere», ma «cantores, ioculatores farsarum, sagittarios picardos, buffones» è a col. 616. 95 Per le quali cfr. Gentile, Riti ed emblemi cit. 96 Cfr. M.-T. Bouquet, La cappella musicale dei duchi di Savoia dal 1450 al 1500, «Rivista italiana di musicologia», 3 (1968), pp. 233-285; M.-T. Bouquet, Étude comparative des chapelles musicales de Chambéry, Turin et Genève de 1440 à 1535, in Chemins d’Histoire Alpine. Mélanges dédiés à la mémoire de Roger Devos, cur. M. Fol - Ch. Sorrel - H. Viallet, Annecy 1997, pp. 427-433; Musique à la cour de Savoie au XVe siècle, cur. M.T. Bouquet-Boyer, Genève 1994 (Les Cahiers de l’I.R.H.M.E.S., 2). 97 Cfr. Pibiri, Être reçu à cour cit., pp. 85 ss.; Pibiri, En voyage pour Monseigneur cit. 98 Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 42. 99 E.H. Gaullieur, Correspondance du pape Felix V (Amédée VIII) et de son fils Louis, duc de Savoie, au sujet de la ligue de Milan et de l’acquisition du Milanais (1446-1449), «Archiv für Schweizerische Geschichte», 18 (1851), pp. 269-364: 345.


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e tornei non meno splendidi di quelli ducali, entro un più ampio fenomeno di rivendicazione d’autonomia delle singole “patrie” di cui si compone lo Stato sabaudo; e l’alta aristocrazia, ad esempio i valdostani signori di Challant, che imitano modi e tenore di vita principeschi e il cui rapporto con il duca, come scrive Alessandro Barbero, lungi dall’essere improntato a un’incondizionata fedeltà vassallatica, si basa piuttosto su una sorta di alleanza100. Il problema dei cadetti, a dire il vero, era stato aperto dallo stesso Amedeo nel 1424, con l’assegnazione del Piemonte al primogenito Amedeo e di Bâgé, poi del Genevese al secondogenito Ludovico, che trasmise il secondo appannaggio al fratello Filippo quando egli stesso divenne principe di Piemonte. Ludovico a sua volta, avendo generato una decina di figli maschi, assegnò ad alcuni di loro degli appannaggi: il Genevese a Giano nel 1456, Romont (Vaud) a Giacomo e la Bresse a Filippo nel 1460, con grave danno delle finanze ducali. Negli ultimi anni di governo di Ludovico i tre fratelli emergono come punti di riferimento del malcontento della grande aristocrazia nei confronti del duca e dei suoi favoriti prima, e sotto il successore, l’epilettico Amedeo IX, nei confronti della reggente francese, Iolanda. Nel 1466 Filippo di Bresse e Giano del Genevese, reso omaggio al fratello Amedeo IX, fanno la loro entrata a Ginevra «in triumpho et apparatu mirabili»; qui Giano celebra solennemente le proprie nozze con la figlia del conte di Saint-Pol, connestabile di Francia, con tornei e giostre in cui si distingue mirabilmente il fratello Filippo, tra morti e feriti101. Nel tenere i festeggiamenti a Ginevra – dominio vescovile e non sabaudo – anziché ad Annecy, capitale del suo appannaggio, Giano si pone in linea con gli antichi conti di Ginevra. Poco dopo lo stesso Filippo si reca nella Bresse, suo dominio, e fa il suo solenne ingresso a Bourg-en-Bresse102. È questo il periodo in cui la joyeuse entrée – cerimonia in parte calcata sull’adventus imperiale tardoantico, nella quale il principe prende possesso di una città come Cristo in Gerusalemme – viene utilizzata dai principi subalpini, come dagli altri principi europei per affermare la sacralità del proprio potere e il legame con le comunità103. Anche gli Challant ne fanno uso, stan-

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Cfr. Barbero, Principe e nobiltà cit. Chronica latina Sabaudiae cit., col. 640. Ibid. Sulle joyeuses entrées nel Medioevo cfr., tra gli altri, B. Guenée, Les entrées royales françaises de 1328 à 1515, in B. Guenée, Politique et histoire au Moyen Âge, Paris 1981, pp. 127-149; R. Strong, Art and Power. Renaissance Festivals, 1450-1650, Los Angeles 1984, pp. 7-11, 44-50, 176 ss.; Les entrées. Gloire et déclin d’un cérémonial. Actes du Colloque tenu au


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do alla Chronique de Challant stesa da Pierre Du Bois104, che insiste fortemente sullo stile di vita principesco dei suoi signori. Nel descrivere le prese di possesso dei loro castelli, Du Bois usa le categorie del solenne ingresso. Vediamo alcuni esempi. Jacques de Challant, signore di Aymaville e già patrono di Du Bois – che ne traccia un ritratto eroico –, rientra in Val d’Aosta dal pellegrinaggio alla Vergine di Losanna: ad Aosta si annuncia il suo arrivo, e, come si usa per gli ingressi di principi e vescovi, dalla città gli vengono incontro più di 120 notabili a cavallo. Il corteo si apre con Piemont, araldo del duca, e un araldo di Jacques, Tout Monde; vengono poi due trombetti e quattro gentiluomini, con le vesti alle armi di Challant; dodici balestrieri, sei arcieri, Jacques stesso e dietro due paggi, tutti con la sua livrea e il suo emblema. Il paragone fatto dal cronista, che era presente, è inequivocabile: «Il entra si honestement en la cité d’Aouste que, s’il fust esté filz d’ung duc de Savoye, je ne scay que plus il eust faict, ne plus grandement accompaignié»105. La prima tappa in città, come d’uso nelle entrate solenni, è in una chiesa: San Francesco, la necropoli di famiglia, ove Jacques prende messa; segue una visita alla cattedrale, e infine l’approdo al suo alloggio. «Et adont eult suffit si le duc de Savoye fust arrivé de la Bresse», ribadisce Du Bois, e, a giustificare il parallelismo, ricorda gli antichi diritti pubblici degli Challant sulla città: Jacques viene ad Aosta «comme en son hostel. Car ceulx de Challand sont visconte d’Aouste anciens»106, e siede poi a consiglio con i gentiluomini e gli ufficiali ducali, in un’azione cioè di governo che ricorda in qualche modo il posto degli Challant nelle udienze dei pari della Valle, nelle quali primeggiavano per importanza e rivendicazioni a fronte del duca107. Il cronista sente qui il bisogno di lodare l’assoluta fedeltà del conte di Challant al suo principe, ma inevitabilmente la scena evoca un rapporto quasi paritario. Dopo i festeggiamenti di Aosta lo schema si ri-

Château de Pau les 10 rt 11 mai 1996, sous la présidence du prof. B. Guenée, cur. C. Desplat - P. Mironneau, Biarritz 1997; G. Kipling, Enter the King. Theatre, Liturgy and Ritual in the Medieval Civic Triumph, Oxford 1998. Per l’aspetto sacrale e cristomimetico dell’entrata principesca, insieme all’ascendenza classica, cfr. S. Bertelli, Il corpo del re cit. 104 Sull’ideologia nobiliare della Chronique de Challant cfr. G. Castelnuovo, Les noblesses et leurs pouvoirs dans les Pays de Savoie au Moyen Âge, in Noblesses en Savoie, cur. M. Messiez, «L’histoire en Savoie», 132-133 (décembre 1998 - mars 1999), pp. 9-81: 9-15 e soprattutto G. Castelnuovo, Un idéal nobiliaire dans la Savoie du XVe siècle: la Chronique de la Maison de Challant, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 117/2 (2005), pp. 719-779. 105 Pierre Du Bois, Chronique de la Maison de Challant, a cura di O. Zanolli, «Archivum Augustanum», 4 (1970), pp. 1-136: 95. 106 Ibid., p. 96. 107 Barbero, Valle d’Aosta medievale cit., pp. 186 ss.


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pete nella prosecuzione del viaggio verso i dominii propri di Jacques, Aymaville e Châtillon. Quivi il conte giunge con un corteo di un centinaio di cavalieri, al suono delle campane, arriva dinanzi alla chiesa, bacia devotamente le reliquie (come usuale nelle entrate solenni); si reca al castello dove è accolto dai suoi ufficiali e dai notabili al grido di «vive Challant»108 e dopo la declamazione di versi d’occasione – riportati da Du Bois in calce alla cronaca109 – viene posto in pacifico possesso delle sue terre. La cronaca sembra dire che l’efficacia del fasto si misura su due piani: a casa propria e all’estero. Lo spiegamento di ricchezza e di magnificenza dinanzi a testimoni stranieri, anche se sotto pretesto di difendere l’onore del proprio principe, alimenta il prestigio personale. Jacques è ritratto da Pierre Du Bois come il campione dell’onore del duca di Savoia tra le corti del duca di Orléans (che gli conferì l’Ordre du Camail), di Borbone, di Borgogna e di Milano110; alla lista va aggiunto il Delfino, che nel 1451 lo nominò suo consigliere e ciambellano111. Pagine e pagine romanzate vengono dedicate alla sua partecipazione al Pas de l’Arbre de Charlemagne (Digione 1443)112 «pour l’honneur du pays de Savoie, de l’hostel dont estoit party et aussi pour son honneur»; e tornano i paragoni principeschi: «là tenoit court ouverte et estat de prince comme s’il fust esté filz au duc de Savoye»113. La frequentazione assidua dei principi stranieri, il coinvolgimento nel loro sistema degli onori (vedi il Camail), l’incarnazione di valori cavallereschi e nobiliari contribuiscono alla costruzione di un credito politico internazionale, difficilmente discutibile sia in patria, ove Jacques è capofila dell’aristocrazia avversa a Ludovico di Savoia, sia all’estero, ove il conte si è rifugiato con gli altri congiurati per sfuggire al bando del duca114. Nella cronaca di famiglia non manca nemmeno un cenno al banchetto come esibizione di potenza. Pierre Du Bois rammenta la parata degli Challant che si trovarono un giorno a convito «a la court de messire Guillaume de Challand evesque de Losaine»115: oltre al vescovo, il conte François, il cardinale Antoine de Challant, il maresciallo Boniface de Challant e i due 108 109 110 111 112 113 114

Pierre Du Bois, Chronique cit., p. 97. Ibid., pp. 116-118. Ibid., p. 77. Barbero, Valle d’Aosta medievale cit., p. 201. Pierre Du Bois, Chronique cit., pp. 63-73. Ibid., pp. 63-64. Cfr. Barbero, Il ducato di Savoia cit., pp. 164 ss.; sulle leghe nobiliari all’epoca del duca Ludovico, cfr. anche A. Barbero, Les ligues nobiliaires pendant les dernières années d’Amédée VIII, in Amédée VIII - Félix V cit., pp. 229-245. 115 Pierre Du Bois, Chronique cit., p. 47.


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figli, Aimé e François signori di Ussel e Saint-Marcel. Si calcolò per l’occasione la spesa annua di tutti i presenti: circa 100.000 fiorini, a riprova della potenza del clan. Questo per quanto riguarda l’aristocrazia: al principe, comunque, la festa continua ad apparire indispensabile complemento del potere. A fronte della laconicità delle cronache sopravvissute, viene da chiedersi quanto la nostra percezione delle feste alla corte di Savoia – filtrata per questo periodo dai conti di tesoreria – sarebbe differente se ci fosse pervenuta la cronaca della vita di Amedeo VIII di Perrinet Dupin, segretario della duchessa Iolanda. Incaricato ufficialmente di comporre un testo destinato a un pubblico elitario (la duchessa, il giovane erede Filiberto e il suo governatore), e quindi d’intenti non propagandistici ma pedagogici116, Dupin redasse un memoriale, o questionario in 56 punti per la raccolta delle testimonianze scritte e soprattutto orali che sarebbero confluite nella sua opera117. Diversi punti concernono l’apparato festivo, probabilmente con fini didattici: insegnare al giovane principe la magnificenza dei suoi predecessori, necessaria al suo stato. Ad esempio, le informazioni da raccogliere intorno all’incoronazione papale di Basilea del 1440 vertevano su «le tryomphe que on mena a ceste fete cy faire, les dons qui furent donnez et a qui on les donna; l’assiepte qui fut faicte en table des haulx princes et signeurs, la forme des entremes, maurisques et exbatemens, les noms des maistres d’ostels, de sale, et de cuysine, s’il y eu nul joustes, aussi qui furent les jousteurs, le point qu’ilz vindrent sur les rans, ceulx qui gaignerent les pris»118. Si è detto della preminenza, nella seconda metà del Quattrocento, delle feste “interne” alla corte: un fenomeno generalizzato ed esemplificato a fine secolo dalla vicina corte di Ludovico il Moro119. Il concorso di nuovi strumenti artistici, teatrali, musicali (gli indoor entertainments di Alison Rosie) nell’esplicitazione del potere rientra in una tendenza generale, riscontrabile anche nel campo cerimoniale: la crisi politica stimola il ricorso a nuovi linguaggi simbolici120. Tradizioniali o nuovi che fossero, erano linguaggi effi-

116 117

Cfr. Barbero, Il ducato di Savoia cit., pp. 188 ss. Ibid., pp. 190 ss.; sul questionario anche D. Chaubet, Une enquête historique en Savoie au XVe siècle, «Journal des Savants», 1984/1, pp. 93-125. Il testo fu pubblicato da L. Cibrario, Storia della monarchia di Savoia, I, Torino 1840, pp. XXXI-LX e da F.E. Bollati di Saint-Pierre nell’edizione di Perrinet Dupin, Chronique de Savoie, Torino 1893, pp. 8-28. 118 Citato da Chaubet, Une enquête cit., p. 115. 119 Cfr. P. Racine, Fêtes à la cour de Ludovic le More, in Fêtes et cérémonies cit., pp. 203220: 216-217. 120 Per considerazioni in campo cerimoniale, cfr. Gentile, Il cerimoniale cit., p. 76 e Gentile, Riti ed emblemi cit.


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caci: la passione festaiola della corte sabauda doveva sortire un qualche effetto sugli ospiti, se l’ambasciatore milanese Antonio Appiano, dopo aver celebrato il Natale con la corte a Vercelli nel 1471, tra messe e banchetti scriveva: «queste feste se solennizzano tanto quasi non se parla de cosa alcuna se non de officii, predichi et fare festa et bona ciera»121. È probabile che nel “fare festa” rientrasse la forma ludica con cui la corte di Savoia festeggiava il Natale, riscontrabile anche Oltralpe: l’elezione del Re e della Regina della Fava nella Dodicesima notte, la notte dell’Epifania122. Tra i nuovi elementi del fasto ducale che maggiormente colpivano i duchi di Milano vi era l’affezione di Ludovico prima e di Iolanda poi per la cappella musicale: il primo richiamò a corte Dufay, e Iolanda si adoperò per la riorganizzazione e la creazione nel 1469 di un Collège des Innocents. Mosse vincenti in una storia non certo costellata di successi, tant’è che Galeazzo Maria Sforza e gli Este chiesero più volte a servizio i cantori dei Savoia123. Un nuovo linguaggio della festa emerge soprattutto sotto il governo di Iolanda, sorella del re di Francia e sposa di Amedeo IX, che pure deve fronteggiare le mire del fratello, del duca di Borgogna, degli Sforza e dei cognati Savoia in un contesto drammatico. È con Iolanda che l’intrattenimento interno alla corte conosce un impulso inedito, soprattutto sul versante musicale, coreutico e teatrale. Dal 1465 in poi abbiamo notizia di sacre rappresentazioni a Chambéry, alcune delle quali allestite nel cortile del castello: la decollazione di San Giovanni Battista, «la Transfiguration des Trois Rois», «la moraslité de Saincte Suzanne»; nella sua biblioteca la duchessa conserva esemplari del Jeu de Barlaam, del Jeu de sainte Marie a personnaiges, dell’Histoire Saint Alexis a personnaiges, della Destruction de Jerusalem a personnaiges124. A corte si fanno frequenti i farceurs, attori professionali e stabili, di pari passo con l’affermarsi della farce come perfetto intrattenimento cortigiano: priva di grandi allegorie politiche, ridicola, di costi contenuti quanto ad allestimento, la farce si basa su poche situazioni

121 Cfr. E. Colombo, Iolanda duchessa di Savoia (1465-1478), «Miscellanea di Storia Italiana», 31 (1894), pp. 1-306: 69, nota 5. 122 Cfr. Ménabréa, Chroniques de Yolande cit., pp. 166-167 e 214; M.C. Daviso di Charvensod, La duchessa Iolanda (1434-1478), Torino 1935, p. 166 e Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., pp. 172-173. 123 Cfr. L. Lockwood, Strategies of Music Patronage in the Fifteenth Century: the Capella of Ercole d’Este, in Music in Medieval and Early Modern Europe, cur. I. Fenlon, Cambridge 1981, p. 233; D. Hay - J. Law, Italy in the Age of the Renaissance. 1380-1530, London 1989, p. 339. 124 Cfr. Daviso di Charvensod, La duchessa Iolanda cit., p. 169; Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 191.


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e personaggi topici. Il favore di cui godono siffatti spettacoli permette carriere come quella di Perinet de Normes, che viaggia tra le corti di Borgogna e di Savoia, ove gode del titolo di maitre des farses o joyeur des farses de monseigneur, e quella di Renato d’Angiò, ove termina i suoi giorni125. Non sono meno apprezzati i divertimenti profani che comportano un mascheramento, cui possono partecipare, se non la duchessa, i figli, gli ospiti e dame e cavalieri della corte: momeries (pantomime in maschera: prima occorrenza ai festeggiamenti di Thonon nel 1422) e moresche (nelle quali i danzatori vestivano da mori, ornati di campanelli: prima occorrenza sotto Amedeo VII, con un «solacium vocatum la moresche»). Se ne contano una trentina almeno nei soli anni 1465-1478126. Moresche e momeries presentano temi più o meno sviluppati a seconda della circostanza, dai nani e i giganti a Davide e Golia, passando per sirene e selvatici. In breve, tra farse e moresche ci si astrae per qualche momento da una realtà precaria e preoccupante, ma si dimostra anche ad eventuali ospiti stranieri che la duchessa detiene ancora i mezzi economici necessari per affermare la sua autorità. Ciò non significa che Iolanda non sia capace di organizzare feste su larga scala, che poco hanno da invidiare a quelle di quarant’anni prima. Nel febbraio del 1475 Federico d’Aragona, principe di Taranto e promesso sposo di Anna, figlia della duchessa, viene accolto a Torino con un seguito di 500 persone, il cui vitto e alloggio viene pagato da Iolanda per i primi tre giorni «a grant triumphe et toute oultrance»; i 75 membri della cerchia del principe sono alloggiati nel palazzo vescovile. Le sole spese del banchetto tenutosi il 7 febbraio in onore dell’ospite ammontano a 400 fiorini, e il disegno della festa si evince dalle annotazioni del tesoriere generale127. Intorno alla sala pendono bandiere alle armi di Savoia, re Ferrante

125 126

Ibid., pp. 187-190. Ibid., pp. 194 ss.; cfr. anche A. Rosie, “Morisques”and “Momeryes”: Aspects of Court Entertainment at the Court of Savoy in the Fifteenth Century, in Power, Culture and Religion in France: c. 1350-c. 1550, cur. C.T. Allmand, Woodbridge 1989, pp. 57-74. Esempi tratti dalla contabilità ducale si hanno in Ménabréa, Chroniques de Yolande cit., pp. 67, 73, 78, 96, 119, 123, 124, 125: i festeggiamenti onorano di volta in volta l’ambasciatore di Venezia, quelli di Sicilia, Monferrato, Milano e Borgogna, il fratello del duca di Milano, la marchesa di Monferrato; altre volte si festeggiano le nozze di principesse (Caterina di Ginevra, 1471) o di gentiluomini della corte (Aleramo Provana, 1475). 127 Sul banchetto per il principe di Taranto cfr. Ménabréa, Chroniques de Yolande cit., pp. 129-131; Daviso di Charvensod, La duchessa Iolanda cit., pp. 168-169; Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., pp. 198-199, 207, 213-216 e R. Bordone, Mangiare al castello. Fonti scritte e fonti archeologiche sull’alimentazione al castello di Moncalieri tra medioevo ed età moderna. Prime considerazioni, in Il sapere dei sapori. Cuochi e banchetti nel castello di Moncalieri, cur. G. Pantò, Torino 2005, pp. 41-67: 59.


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(padre del promesso sposo), Borgogna e Milano, un rinvio alla rete di alleanze forzate del momento: il dicembre del ’74 aveva visto riuniti al castello di Moncalieri gli ambasciatori di Sicilia, Milano e Borgogna; e il 30 gennaio dell’anno successivo Iolanda aveva siglato il trattato con i suoi due potenti vicini128. In questo quadro, Federico è visto come un’alternativa, oltre che come alleanza di sangue regio, e l’accoglienza deve disporlo nel migliore dei modi nei confronti della futura suocera. Il tema del banchetto, sotto la regìa dello scudiero Lancillotto di Lanzo, è il castello d’amore, appropriato per la circostanza, e a due pittori pinerolesi vengono affidati i materiali “di scena”: nove sirene, un uomo selvatico, un orso, un serpente, un cinghiale e un leone, 100 bandiere e 400 pennoncelli, una fontana d’amore. Per i preparativi, iniziati il 25 gennaio, si è affittata una casa nei pressi del castello di Torino per produrre e immagazzinare i vari artifici. Il castello d’amore, realizzato con drappi bianchi e gialli sostenuti con catene dai cantori della cappella, è munito di quattro torri, in ognuna delle quali siede una dama che getta monete d’oro al pubblico; ogni torre è custodita da una fiera o da un animale chimerico, in compagnia di tre orchi con torce, e alla porta è di sentinella un uomo selvatico. Altri due selvatici attaccano un drago meccanico, mosso da quattro uomini, che esce da un bosco. Al centro del castello è un giardino d’amore, ove si trovano un albero e un serpente e siedono un’imperatrice e due regine. Da ciascuna delle quattro torri zampillano ippocrasso, acqua di rose e acqua ardente alimentata con canfora. Al centro del banchetto è un montone d’oro – ma è difficile pensare a un nesso effettivo col Tosone borgognone, pur protagonista di un entremet molto simile offerto agli ambasciatori del duca di Borgogna nel 1467129 – che porta al collo le insegne dell’Ordine di Savoia (futuro dell’Annunziata). Altri dieci collari sono stati realizzati per essere infilati al collo di altrettante lepri servite per entremet. Qui risiede forse il solo richiamo palese alla politica, oltre agli stendardi araldici: in questo periodo l’Ordine del Collare è dormiente, e la sua presenza si spiega unicamente come mezzo per mantenere i Savoia sullo stesso piano dell’ospite. Come rilevato da Alison Rosie, re Ferrante aveva fondato l’ordine dell’Ermellino, di cui aveva insignito Galeazzo Maria Sforza, il nuovo alleato di Iolanda; l’anno successivo ne sa-

128 Ménabréa, Chroniques de Yolande cit., p. 124; Colombo, Iolanda cit., § 5; Daviso di Charvensod, La duchessa Iolanda cit., pp. 201 ss.; Bordone, Mangiare al castello cit., p. 58. 129 Daviso di Charvensod, La duchessa Iolanda, pp. 167-168: il montone d’oro, col collare dell’ordine borgognone, era in mezzo a una lettiga ornata a mo’ di giardino, portata a spalle da cinque uomini vestiti dei colori della duchessa e preceduta dalle bandiere di Francia e Savoia.


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rebbe stato insignito Carlo il Temerario130; i duchi di Borgogna avevano il loro Tosone. In questo complesso sistema degli onori i Savoia non possono mostrarsi sguarniti, anche se, di fatto, lo sono. Circondata da vicini desiderosi di impadronirsi del ducato, Iolanda sa ricorrere in modo creativo alla festa, per affermare che il potere e i suoi necessari complementi simbolici sono ancora saldi nelle sue mani.

130 Cfr. D.’A. J.D. Boulton, The Knights of the Crown. The Monarchical Orders of Knighthood in Later Ledieval Europe: 1325-1520, Woodbridge 1987, p. 404; Rosie, Ritual, Chivalry and Pageantry cit., p. 216.


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1424, agosto 15, Thonon

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[Archivio di Stato di Torino, Protocolli ducali, 2, cc. 130r-133v]. Edizione del testo – Nell’ortografia sono stati seguiti i criteri proposti dall’École des Chartes (F. Vielliard - O. Guyotjeannin, Conseils pour l’édition des textes médiévaux, I, Paris 2001): si sono posti gli accenti acuti sulle parole la cui ultima sillaba è accentata, fatte salve quelle terminanti in -ee, -ez o -es. Punteggiatura, apostrofi, maiuscole seguono l’uso moderno. Per non appesantire la trascrizione con un numero eccessivo di note, sono state indicate solo le correzioni più significative rispetto alla precedente trascrizione del Piccard, Ceremoniale cit. (vedi supra, nota 22), che comportavano mutamenti di significato del testo. Lo stesso criterio di economia è stato seguito nella segnalazione delle numerose cancellature o correzioni presenti sull’originale.

S’ensuyt le mode qui se doit tenir quant monseigneur donra tiltre a Amé et Loys messeigneurs, qui se doit faire a l’ayde Nostre Seigneur le jour de la feste Assumpcion Nostre Dame, XVe d’aoust mil CCCC XXIIIIe. Et car toutes chouses vertueuses se doyvent commencer a l’onneur et loange de Dieu, monseigneur l’arcevesque de Tharentaise dira la grant messe devant monseigneur et mes ditz seigneurs ses enfans, et s’accomencera a VIII heures. Item sera aprestee, tappissee et tenduee la louge1 qu’est faite en la place de Thonon, et sera mise une cathedre sur le tribunal au mylieu, haournee comme il appartient, plus haulte que le dit tribunal d’ung degré, qui fera le marchepié. Item se mectrent2 deux scabeaulx a dextre et a senestre, couvert comme il appartient, et sur le bout des degres seront aprestees II quarreaux, et seront mises II espees couvertes au l’arier dextre de la cathedre de monsei-

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Piccard, p. XV, r. 9: la longe@@@ 2 Sic. Piccard, p. XV, r. 14: se mestront@@@


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gneur. En oultre seront fait banchs bas au pies du tribunal, ou se puissent seoir cent ou VIXX personnes, et garderont les pourtiers la premiere barriere, et les chambriers la secunde, que nulli ne soit si hardy d’entrer dedans, jusques a l’entree de monseigneur. / [c. 130v] Item que une heure apres my jour, monseigneur soit en sa chambre apresté en habit ducal, et descendra en la chambre de parament, ou seront les prelatz, barons, banderes et aultres notables chevaliers et escuiers. Item se mectront devant, pour aler au dit tribunal, premierement les escuiers; secundement Martillet de Martel escuier d’escuirie, qui pourtera l’espee devant monseigneur; tiercement monseigneur ensemble les arcevesques de Tharentaise et de Colloce; quartement les ambaixeurs d’Engleterre et de Bourgogne3. Ensemble, les aultres prelatz, barons, banderes, chevaliers et escuiers noutables, qui entreront dedans la seconde louge, et nul aultre, et autres gentilz hommes et noutables personnes desmoront en la premiere louge; et le peuple dehors autour de la dicte louge. Et lors desmouront a la garde de la secunde barriere les huissiers de monseigneur. Item montera premier au tribunal l’escuier d’escuirie et se mectra a la dextre de la cathedre tenant continuelment l’espee sur l’espale. Apres monteront monseigneur et les arcevesques de Tharentaise et Colloce, puis monseigneur le chancellier, qui desmourra a la senestre de la cathedre de monseigneur. Et estres4 montes, se asseira monseigneur sur sa cathedre, l’arcevesque de Tharentaise sur le scabel a la destre et l’arcevesque de Colloce sur l’aultre scabel a la senestre. Et lors desmouront bas aux pies des degres, les escuiers d’escuirie a garder que nulli ne monte au tribunal ne se tienc sur les degres, forsques ceulx qui comme se suira y seront ordonnes. / [c. 131r] Item fera lez asseoir tous ambaisseurs, prelatz, barons, conseillers, et aultres chevaliers et escuiers noutables, chescun selon ce qu’il appartiendra se faire se puet, les ambaisseurs, barons, chevaliers et escuiers noutables a la destre, les prelatz, conseillers et officiers de monseigneur a la senestre. Item se fera une voye ou IIIIe5 personnes joinctes puissent aler au long de la louge, sanz aucun empeschement. Et en cest moyen seront messires en la sale vestiz et haournes le mieulx que faire se pourra, acompaignies du seigneur de Valefin6, du bastard de Savoye, du mareschal de Montmeur, et de messires Manfroy de Saluces etc. Et de la se partiront premierement heraulx, trompetes et menestries. Secundement tous les enfans.

3 Richiamato a margine sinistro, poi depennato: heraulx, trompets et menestries iusques a l’entree de la derreniere louge, et le suiront@@@ 4 Sic. Piccard, p. XVI, r. 22: estans@@@ 5 Piccard, p. XVII, r. 4: IIIIC@@@ 6 Piccard, p. XVII, r. 8: Valesin@@@


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Tiercement mes ditz seigneurs soy menant par les mains ung dimy pas, alant Amé monseigneur plus avant, et decousté eulx les ditz IIII chevaliers. Et apres eulx leurs III maistres, et ensuyvant leurs escuiers serviteurs, et aultres noutables qui les vouldront acompaignier, et demouront, et se tiendront heraulx, trompetes et menestriers au dehors la secunde barrie<re>, et les enfans qui vont devant entreront dendans la II barriere. / [c. 131v] Item entreront mes dits seigneurs ensemble les IIII chevaliers conduysans jusques au premier degré du tribunal; la s’agenolieront, et feront leur reverence estant en geneux, jusques monseigneur les faise demander par le chancellier, et se leveront les prelatz de sur leurs scabeaulx, et tous les aultres, si toust que messeigneurs entreront par la IIe barriere. Item monteront mes ditz seigneurs ensemble jusques au plus hault degré avec leurs IIII conduyseurs et plus bas leurs III maistres, sanz aultres, et s’ageneulierent7 sur les deux quarreaulx qui seront aprestes; et lors monseigneur les fera lever, et les feront monter sur le tribunal les II arcevesques, estans en pié continuelment, et desmouront les ditz IIII chevaliers presenteurs en pies sur le plus hault degré, et derreinier eulx les III maistres. Lors par le commandement de monseigneur commencera le chancellier une breve collacion appartenant a la matiere, laquelle collacion faite se rageneulieront mes dits seigneurs ensemble les IIII chevaliers presenteurs, dont le seigneur de Valefin8 respondra par messeigneurs que a l’ayde de Dieu ilz en suyvront les ovres et commandemens qui leur ont esté fait, dictes par la bouche du chancellier, par maniere que Dieu et le monde9 l’auront agré, et monseigneur en aura bon rapport, et aultres bonnes paroules qu’il saura bien dire a ce convenables, en le remerciant de l’onneur, bien et exaltacion qu’il plait a monseigneur de leur vouloir fere. Ces chouses esté dictes, monseigneur leur demandera: «Amé et Loys, fa10 res vous les chouses que le seigneur de Valefin a dictes de vostre part?» Lors respondront mes dits seigneurs tous deulx: «Oy monseigneur, a l’ayde de Dieu et mieulx se faire le pouras11», et lors l’escuier d’escuirie baillera les deux espees au mareschal, lequel12 / [c. 132r] la premiere bailliera toute nue en la main de monseigneur, de laquelle sera envesty Amé monseigneur de la princee de Piemont13; apres bailliera semblablement l’aultre espee a monseigneur, de laquelle il envestira Loys monseigneur de la conté de Bagié14; et ce

7 Sic. Piccard, p. XVII, r. 29: s’ageneuileront@@@ 8 Piccard, p. XVIII, r. 6: Valesin@@@ 9 le monde: corretto sopra (…) monseigneur et tous les presens@@@ 10 Piccard, p. XVIII, r. 16: Valesin@@@ 11 Sic (sing.). Piccard, p. XVIII, r. 18: pourrons (plur.)@@@ 12 et lors … lequel:

corretto sopra pranra (…) l’escuier d’escuirie l’espee qu’il tiendra a la cathedre, le pomeaux dessus, et pranra les deux espees qui seront messieurs et@@@ 13 de la princee de Piemont: corretto sopra du conte de Piemont@@@ 14 de la conté de Bagié: corretto sopra de la conté de Geneve@@@


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fait, les feront lever et baillieront les espees dont seront envestys chescun a son maistre15, auxquelx le mareschal16 bailliera les feurres17. Item leur sera dit par le mareschal de Montmeur que, affin qui soyt difference d’eux quant ilz seront en fait d’armes et soyent cogneux l’ung de l’aultre, veult monseigneur que Amé de Savoye18 pourte en ses armes et enseignes les armes de Savoye, et par defference III lembeaulx d’azu, ainsi que les ont acoustume de pourter les esnes filz, et le tymbre dessur l’eaume19 sera parelement que le pourte monseigneur, excepté par defference III lembeaux d’azu, sur l’ar(…) des eles20. Item dira le dit mareschal que pour semblables raysons monseigneur veult que les armes de Loys de Savoye21 soyent les armes de Savoye et par defference le bour22 de l’escuz d’azu endenté, et le tymbre sera ung demy lyon rampant d’armenes couronné d’or. / [c. 132v] Item se aucuns chevaliers se veulent faire, messeigneurs23 descendront vers eulx, et les presenteront a monseigneur sur le tribunal, et la monseigneur se levera en pies et leur donera l’ordre de chivalerie; et commencant faire les chivaliers sonneront trompetes et menestrier. Complies ces chouses, se partira monseigneur, heraulx, trompetes et menestries devant, les escuiers apres, l’escuier et l’espee devant monseigneur, puis monseigneur et les deux arcevesques, apres messeigneurs, et ensuyant les ambaisseurs, prelatz, barons et aultres chivaliers et24 escuiers, et se retraira monseigneur en sa chambre pour soy vestir de ses robes acoustumees. Item entant que monseigneur se desabillera, pour la solempnite de la feste sera apprestee une cathedre en la louge ou preschera maistre Raphael de l’ordre des Preschieurs, et en bas seront apprestees25 la cathedre pour seoir monseigneur, les seiges par messeigneurs26 et aussi des deulx arcevesques, et se reasseront si seront aussi en leurs places les ambaisseurs etc. Item furny le sarmon, menera monseigneur messeigneurs27 ensemble les prelatz ouyr vespres. Vespres dictes, ceulx que monseigneur ordonnera parleront a messeigneurs ses enfans le moude28 et contenance qu’il veult qu’ilz tiennent ensemble, qui seront telles. /

15 Piccard, p. XVIII, r. 25: a son soy mestre@@@ 16 le mareschal: corretto sopra, su l’escuier d’escuirie cancellato@@@ 17 Segue, cancellato: Et repranra son [sic] l’espee et de monseigneur comme la tenoit par avant. Et de ces chouses admendera monsiegneur a faire lectres opportunes@@@ 18 Segue, depennato: conte de Piemont@@@ 19 Piccard, p. XIX, r. 4: dessus l’eausme@@@ 20 Piccard, p. XIX, r. 6: sur l’armon des cles@@@ 21 Segue, depennato: conte de Geneve@@@ 22 Piccard, p. XIX, r. 9: bout@@@ 23 Segue, depennato: les contes@@@ 24 et mancante in Piccard, p. XIX, r. 21@@@ 25 Segue, depennato: les sieges de monseigneur, des@@@ 26 Segue, depennato: les contes@@@ 27 Segue, depennato: les contes@@@ 28 Piccard, p. XX, r. 4: monde@@@


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[c. 133r]29 Premierement que tous messeigneurs et damyselles appelleront en plain et escrivant30 Amé monseigneur «monseigneur mon frere», et lui les appellera «beau frere» et «belle suer», et aussi les aultres appelleront l’ung l’aultre «beau frere» et «belle suer» comme ilz ont acoustume. Item en alant a pies, faites31 tousiours les semonsses appartenans, Amé monseigneur ira devant Loys monseigneur ung petit pas, par maniere que a son ayse il le puisse tenir par la main, et en chevauchant le passera du coul de son chival. / [c. 133v] Item a laver les mains et a pranre vin et espieces, Amé monseigneur semondra mes aultres seigneurs et damoyselles, et apres aucunes semonsses ma damoyselle Marie, sanz creance a elle, lavera et pranra vin et espieces avec luy; tous les aultres laveront et pranront vin et espices, en sa presence sanz creance ensamble, et en son absence chescun a creance comme font maintenant, tousiours servant ma dicte damoyselle Marie devant. Item a table, quant seront ensemble, les servira32 Amé monseigneur premier a creance et couvert, et tous les aultres apres sans creance et couverte, et en son absence les servira chescun a couvert et a creance, comme l’on fait maintenant. Et quant a leur contenances, en conversant ensemble, en venant et prenant congié, tous mes aultres seigneurs et damoyselles s’enchineront33 ung petit des geneulx devant Amé monseigneur. Et lui semblablement envers eulx de la teste et des espales, et les aultres entre eux n’en feront riens, jusques comme l’ont acoustume. Et tousiours quant Amé monseigneur semondra mes aultres seigneurs, ils ousteront leur champirons et lui aussi, puis le remectra et leur apres, et mes damoyselles s’enchineront34 comme il appartient. Item quant les cas aviendront que les chevaliers devront aler35 devant monseigneur, que messeigneurs iront devant, et quant les chevalliers iront derrierement messeigneurs iront apres. / [c. 133r] Et s’il avoit aucuns bons compaignions envoyous de rompre l’ung sur l’aultre aucunes lances a la jouste36, encontinent apres vespres, ilz seroyent regardes des dames. Item a V heures sera apreste le soupper, et apres feront tant messeigneurs que heraulx, trompetes et menestries crieront «largesse!», puis iront

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La sezione seguente (da Premierement a iront apres) consta di sei paragrafi a fine testo, inseriti mediante un segno di richiamo@@@ 30 In luogo di en plain et escrivant Piccard, p. XX, r. 7: chevaliers plein et estomant@@@ 31 faites: mancante in Piccard, p. XX, r. 11@@@ 32 Segue, cancellato: ma damoyselle Marie@@@ 33 Piccard, p. XX, r. 30 : se sousleveront@@@ 34 Piccard, p. XXI: s’enteineront@@@ 35 devront aler corretto sopra seront. Piccard, p. XXI, r. 5: demouront@@@ 36 Piccard, p. XXI, r. 10: jourte@@@


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avec monseigneur ensemble mes damoyselles en la louge, ou sera aprestĂŠ pour danser et pour chanter; puis seront demandes vin et espieces, et pranra de monseigneur congiĂŠ qui vouldra pour aler dormir.


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1. Il gioco e i falsi sillogismi

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Prima di entrare nel merito del tema che devo trattare mi permetterei qualche breve considerazione di carattere generale e metodologico, insistendo anzitutto sull’importanza che un convegno dedicato alla festa e al suo ruolo politico può oggi avere, soprattutto se pensiamo non tanto alla dimensione della politica, da sempre ben solida e scontata in ambito storiografico, ma alla dimensione della ludicità: solitamente oggetto di assai poco interesse e che in ogni caso, quando ammessa o permessa dalla ricerca “dabbene”, resta comunque rinchiusa nell’ambito della marginalità, fra le cose curiose che di tanto in tanto anche lo studioso serio si può permettere. Credo che lentamente questa visione molto tradizionale stia incrinandosi. Il fatto stesso che in una sede scientificamente qualificata si organizzi questo convegno su “Festa e politica e politica della festa” ne è una riprova. Ne sono convinto. Le cose lentamente cambiano. Ma è anche vero che mantiene quasi integra la sua forza il curioso sillogismo che relega il gioco e la giocosità con tutte le sue espressioni in un piccolo angolo. Il ragionamento è facilmente riassumibile. Siccome – si dice – il gioco è strutturalmente altra cosa dal serio, il gioco non è serio e, dunque, non è serio studiare il gioco con le sue diverse declinazioni. È davvero un sillogismo traballante se si pone mente a come proprio nel gioco e per i giochi (quali che siano) si possano scatenare le passioni più accese e bruciare antiche fortune, si riescano a mobilitare masse ed energie enormi, ci si trovi disposti a rovinare se stessi e tutto quanto. E via dicendo1.

1

Di questo falso sillogismo ho già parlato in G. Ortalli, Ludicidad medieval: tendencias historiográficas y temas de investigación, «Temas medievales», 9 (1999), pp. 177-202: 178179.


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In sostanza, quello che occorre ormai accettare è l’enorme ruolo ricoperto dal gioco, dalla festa, dal passatempo nel quadro della vita (e dunque della storia) delle società nel corso del tempo. Del resto per rendersene conto basta guardare all’oggi osservando come il “tempo libero” (addirittura “il problema” del tempo libero!) sia un elemento essenziale con un ruolo crescente nel vivere odierno. Ma qui l’oggi non c’interessa più di tanto. Va fatta piuttosto un’altra considerazione importante per definire meglio i limiti delle inclinazioni storiografiche preminenti, anche quando siano disposte a trattare di giochi, feste, passatempi. In genere l’attenzione viene rivolta a specifici eventi o fenomeni. Ci si occupa dell’azzardo o del torneo, della festa o dell’ingresso del sovrano, della sagra o degli aspetti grotteschi e derisori nelle pratiche liturgiche, dell’una o dell’altra attività che oggi chiamiamo sportiva e di altro ancora. Tutti temi non soltanto più che legittimi ma anche importanti. Nondimeno spesso sfugge la loro appartenenza ad un sistema complessivo di cui quelle manifestazioni sono soltanto parziale espressione. Voglio dire che per lo più si perde il senso di appartenenza dei singoli fenomeni ad una sfera fondamentale del comportamento umano: quella della ludicità. È questo, per esempio, il limite evidentissimo di un filone di ricerca oggi molto battuto specialmente (ma non soltanto) dalla storiografia inglese e americana: quello legato alla storia degli sport che si organizza robustamente attorno a riviste specializzate, istituzioni culturali, cattedre universitarie e convegni di studio. Isolando dal generale contesto ludico le pratiche sportive così come noi oggi le concepiamo, si finisce con l’impoverirle perdendone molti essenziali collegamenti e togliendo loro lo spessore del passato2. Non si riesce nemmeno più a percepire i termini del loro percorso evolutivo. Si prenda, per capirci, il fortunato e ancora attuale volume che Richard D. Mandell dedicò nel 1984 alla «storia culturale dello sport»: su quelle pagine, giustamente citatissime, il medio evo sembra non essere mai esistito3. In sostanza, un grande buco nero marca come privi di sport i lunghi secoli dal primissimo alto medio evo fino all’età moderna. Potrebbe anche sembrare giusto pensarla in questo modo, ma allora ci troveremmo a rinunciare, per esempio, alle produttive rimeditazioni (ancora abbondantemente da sviluppare) sulla fine delle pratiche agonistiche dell’età tardo-antica, o sulle peculiarità da riconoscere al diporto fisico nelle società medievali. E ugualmente dovremmo rinunciare, sempre per

2 3

Ibid., pp. 184-188. R.D. Mandell, Sport: A Cultural History, New York 1984.


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esempio, al vivace dibattito sul rapporto da istituirsi tra il gioco delle società di antico regime e lo sport contemporaneo, ossia su quel processo straordinario che si sintetizza nello Sportifizierung des Spiels, ossia nel grande passaggio dal gioco allo sport, segno primario dell’affermarsi di nuovi assetti generali nelle strutture delle società. E parimenti dovremmo chiudere il discorso sulla genesi dello sport moderno e sulla importanza anche concettuale del record come chiave di volta in quel processo genetico, materia tuttora di estremo interesse dal momento che, fra l’altro, tocca la natura stessa delle organizzazioni sociali, come mostrano gli studi di Henning Eichberg o di Allen Guttmann o, paradossalmente, dello stesso Mandell.4. In sostanza, credo che festa, sagra, scherzo, carnevale, azzardo, passatempo e quant’altro possano essere davvero compresi nel quadro di una categoria interpretativa più ampia che è quella della ludicità.

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2. I secoli della marginalità del gioco e il recupero della ludicità

A mio parere proprio il recupero della complessa articolazione del sistema ludico può garantire il salto di qualità nelle ricerche del settore. Non è cosa scontata. In fondo, per restare all’esempio assunto, ossia allo sport “sezionato” e scisso dai più ampi contesti, a fronte delle numerose riviste ad esso dedicate ne conosco soltanto due che rispondano (o lo abbiano fatto in passato) ai requisiti sopra indicati. E per di più la prima nata, “Homo Ludens”, che dal 1991 veniva edita in ambito universitario dal “Mozarteum” di Salisburgo, ha cessato di uscire nel 20005. Rimane dunque soltanto “Ludica”, sostenuta da una Fondazione privata di ricerca. In sostanza, mirare alla dimensione del gioco nel suo insieme non è per ora 4

In proposito ricordo fra gli altri, con posizioni diverse: H. Eichberg, Auf Zoll und Quintlein. Sport und Quantifizierungprozess in der frühen Neuzeit, «Archiv für Kulturgeschichte», 56 (1974), pp. 141-176; H. Eichberg, Der Weg des Sports in die industrielle Zivilisation, Baden Baden 19732; H. Eichberg, Vom Fest zur Fachlichkeit. Über die Sportifizierung des Spiels, «Ludica», 1 (1995), pp. 183-200; A. Guttmann, From Ritual to Record. The Nature of Modern Sports, New York 1978; R. D. Mandell, The Invention of the Sports Record, «Stadion», 2 (1976), pp. 250-264; A. Krüger - A. Ito, On the Limitations of Eichberg’s and Mandell’s Theory of Sport and Their Quantification in view of Chikaraishi, ibid., 3/2 (1977), pp. 243-256. Soprattutto, si vedano le raccolte di saggi: Die Veränderung des Sports ist gesellschaftlich. Die historische Verhaltensforschung in der Diskussion, cur. W. Hopf, Münster 1990; Ritual and Record. Sports Records and Quantification in Pre-Modern Societies, cur. J.M. Carter - A. Krüger, Westport 1990. 5 Cfr. G. Ortalli, Riviste e ludicità/Learned journals and ludicity, «Ludica», 9 (2003). pp. 7-8.


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affatto scontato. Proprio la mancanza di collegamento al sistema ludico generale dei fenomeni specificamente sportivi oppure legati a un particolare tipo di gioco (siano le carte o gli scacchi o la gara di tiro a segno o altro ancora) è, a mio parere, la ragione della modesta e talvolta modestissima caratura scientifica delle molte riviste, anche accademiche, a cui facevo cenno. E non a caso le eccezioni in questi casi di analisi programmaticamente settoriali le troviamo soltanto quando andiamo a vedere i periodici dedicati esclusivamente o soprattutto all’età antica6. Penso in specifico, e per esempio, alla tedesca «Nikephoros». Benché mirata alla storia dello sport è una rivista di altissimo livello, ma la cosa è quasi inevitabile se si pensa al ruolo fondamentale che l’antichità classica riservò al diporto fisico, allo sport, allo spettacolo, alle grandi feste e, pur in chiave diversa, all’otium. A nessuno ne sfugge la percezione. Davvero per gli antichisti, e soprattutto per gli studiosi dell’età classica, la storia della società nel suo complesso non può prescindere dal gioco nel senso più ampio. Si tratta di un’attitudine quasi inevitabile per chi voglia conoscere seriamente quell’epoca. E non a caso «Nikephoros» ha come sottotitolo «Zeitschrift für Sport und Kultur im Altertum». Lo sport, in questo caso, pur restando oggetto primario dell’interesse, non è pensato prescindendo dalla cultura del tempo intesa nel senso più ampio. Ma non sarà sempre così7. Col medio evo troveremo un diverso clima. Dunque, se ci rivolgiamo all’età di mezzo, quella che qui ci interessa, le cose cambiano e il gioco sembra sparire. Il grande equivoco sta nel ritenere che dopo la crisi del mondo tardo-antico la ludicità nelle sue diverse espressioni sia di fatto uscita di scena o comunque sia diventata un aspetto marginale, sostanzialmente irrilevante nelle pratiche e nei comportamenti dell’epoca, quasi che la gente dei secoli di mezzo avesse rinunciato al gioco o alla festa, spegnendo pulsioni notoriamente innate. In realtà si era entrati in un periodo in cui i fenomeni ludici nel quadro generale della società, ben lungi da una impossibile scomparsa, scontavano un processo di marginalizzazione che tuttavia non significò affatto un loro annullamento. Volendo assumere un termine cronologico/simbolo per l’avvio di questa diversa stagione, possiamo riferirci al 393, quando per decreto dell’imperatore Teodosio il Grande cessò la pratica olimpica. I giochi si erano 6 7

Cfr. Ortalli, Ludicidad medieval cit., p. 186. Ricordo anche «Stadion. International Zeitschrift für Geschichte des Sports», altra buona rivista il cui orizzonte non ha limiti cronologici come «Nikephoros» e, dunque, può risultare più utile per lo studio del medio evo, benché lo spazio che esso vi trova sia pur sempre modesto.


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svolti con cadenza quadriennale per ben 292 volte e il fatto che finissero non era davvero cosa da poco. Si era usciti dai secoli in cui le grandi feste e i giochi panellenici, quelli per i quali venivano persino sospesi i conflitti armati, avevano segnato il tempo essendo assunti sulla scorta di Timeo di Tauromenio e di Eratostene come termini per datare gli eventi, E poi, seppure in logica culturale molto diversa, c’era stato l’affiancamento delle grandi celebrazioni festive del mondo romano8. Nel 393 ovviamente non era cambiato tutto d’un tratto il mondo, ma siamo comunque nel pieno di un’epoca di mutamenti radicali. Inutile perdere tempo a ricordarli ragionando del drammatico passaggio dalla tarda antichità al medio evo. Voglio soltanto dire che ci troviamo nei contesti in cui la nuova cultura cristiana stava marciando spedita verso l’assunzione di un ruolo egemone e quel Teodosio il Grande di cui si è appena detto – ultimo sovrano a regnare su un impero unificato – è lo stesso che poco tempo prima di vietare i giochi di Olimpia aveva messo fuorilegge ogni cerimonia pagana persino nei templi extraurbani. Si era aperta una nuova stagione segnata col cristianesimo da una grande cultura profondamente diversa da quella del passato. A mio parere sbaglia – come sostengo da tempo – chi per l’alto medioevo collega alla nuova dottrina cristiana che veniva trionfando un’effettiva opera di compressione od esclusione o repressione dei comportamenti ludici. Piuttosto converrà insistere su come la ludicità nei nuovi contesti stesse perdendo il suo antico statuto, la sua posizione tradizionale fra le attività socialmente riconosciute e praticate, senza che peraltro se ne precisasse una nuova collocazione9. I problemi più urgenti erano altri. A partire dalla drammatica crisi del mondo tardo-antico occorreva soprattutto reagire ad un generale tracollo. Si trattava di rimettere ordine in situazioni strutturalmente dissestate e contestualmente urgeva provvedere ad una vigorosa risistemazione etico-culturale complessiva, affrontando i problemi più “seri” (quelli della fede, della morale, della nuova prospettiva sociale, del riassestamento economico ...) piuttosto che occuparsi dell’otium, del tempo libero, del gioco, della festa: tutte cose per loro intrinseco carattere “non serie” e quindi destinate a restare nella nebbia, in una fascia di ambi-

8

Riprendo qui la periodizzazione già proposta in G. Ortalli, Tempo libero e medio evo: tra pulsioni ludiche e schemi culturali, in Il tempo libero. Economia e società (Loisirs, Leisure, Tiempo Libre, Freizeit). Secc. XIII-XVIII, cur. S. Cavaciocchi, Firenze 1995, pp. 31-54, e in G. Ortalli Uncertain Thresholds of Tolerance: Games and Crisis in the Middle Ages, «Ludica», 1 (1995), pp. 56-68. 9 Anche qui devo rimandare a miei lavori citati alla nota precedente.


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gua marginalità. In sostanza, al sistema ludico veniva a mancare il ruolo che in passato gli era stato proprio negli schemi della valutazione complessiva, senza che per lungo tempo se ne determinasse veramente uno nuovo. Ma le pulsioni ludiche non erano affatto scomparse! Il medio evo non rimase senza gioco. Ludicità. Il suo recupero in sede storiografica oggi non è semplice. Ma già è difficile in generale far passare il concetto. Quando nel 1992, nel presentare il progetto della rivista «Ludica» il cui primo numero sarebbe poi uscito nel 1995, si scriveva e parlava di «ludicità», non ci si rendeva conto di usare un termine ancora pressoché inesistente. L’idea di un universo ludico non era scontata come si poteva credere e soltanto dopo tempo ci siamo accorti che la lingua italiana non riconosceva (e ancora oggi ufficialmente non riconosce) quel termine/concetto che – del resto – i sistemi di scrittura computerizzati continuano implacabilmente a segnare in rosso. Ma ormai lo si comincia ad usare. Allo stesso modo nelle traduzioni che accompagnavano la redazione di “Ludica” si veniva realizzando che il termine/concetto non esisteva nemmeno in francese, o inglese, o spagnolo, o tedesco, o portoghese e via dicendo. Quando serviva, toccava volta per volta inventarlo! Oggi sia pure a fatica, lo si comincia invece a trovare usato dagli scrittori di madre lingua e l’inglese ludicity o (più a fatica) il francese ludicité o ludicidad o ludicidade stanno entrando se non nei vocabolari almeno, per il momento, negli scritti di storici, sociologi e antropologi10. Se propongo queste considerazioni in fondo marginali è soltanto per insistere su come fatichi davvero a decollare la ricerca sul sistema ludico inteso come elemento articolato ma omogeneo di grande rilievo per lo studio delle società e dei loro sviluppi nel corso del tempo. E dunque, per tornare al punto di partenza, occorre ribadire l’importanza della scelta ascolana di organizzare un incontro di studio su festa e politica per il quale – a mio parere, come già accennato – l’aspetto davvero innovativo può essere colto nel riferimento alla festa piuttosto che alla politica. Non è il primo convegno che in Italia (e fuori) si fa su argomenti di questo genere. Voglio ricordare per esempio – ma è un caso con pochi riscontri – il congresso organizzato dall’Istituto “Datini” di Prato nel 1994 su «Il tempo libero», ma

10

Significative le considerazioni di M.C.O. Lopes, Ludicidade, contributo para a busca dos sentidos do Humano, Aveiro 2004, e in particolare Ludicity – a theoretical term, consultabile in www.csuchico.edu/kine/tasp/06prespapers/lopes (last modified 2007), p. 4, ove si indica «In Portuguese, the language in which I first formulated my thinking on these issues, there is no entry for “ludicity” in the dictionary. Nor does the word exist in English, French, German, Italian or Spanish».


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nella grande marea convegnistica le occasioni del genere rimangono ancora oggi davvero poche, specialmente per quanto riguarda il medio evo11. Mi rendo conto di avere detto molto, forse troppo, sulla ludicità e pressoché nulla sulla festa e il suo rapporto col potere e coi poteri. Ma mi sembrava preminente inquadrare il tema nelle sue coordinate storiografiche prima di aggiungere qualcosa al molto che da altri interventi potrà emergere. E qui è indispensabile qualche riferimento più preciso sul nesso fortissimo esistente tra la festa con la sua gestione da un lato e la politica dall’altro. In effetti da sempre la festa è uno degli strumenti attraverso i quali l’agire politico si esprime in un vivace processo dialettico. Va da sé. Vorrei allora rapidamente richiamare con qualche esempio una possibile (e parzialissima) casistica dei modi per i quali la festa diventa un mezzo forte di esercizio del potere (o dei poteri). Si tratterà di una corsa limitata e a volo d’uccello, utile soprattutto per giungere poi a qualche conclusione finale.

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3. I messaggi politici e le dialettiche dei rituali festivi

La premessa scontatissima è che con la festa si possono lanciare messaggi e affrontare situazioni di ogni genere, muovendo verso obiettivi molto articolati. Così l’evento festivo serve alla politica e specificamente a chi la gestisce tanto nel rapporto interno, coi sudditi, quanto verso l’esterno: con gli alleati, così come con gli avversari. Sul piano dei rapporti interni l’aspetto più evidente è quello per cui nella celebrazione festiva chi è depositario del potere politico trova un modo di straordinaria evidenza per affermare il proprio ruolo, facendo partecipi i sudditi dei grandi momenti istituzionali e puntando a coinvolgere la comunità in iniziative che ben guidate puntino a compattare nel segno dell’autorità legittima e maestra del gioco i partecipanti. Proprio per questo troveremo la festa trasformarsi in obbligo come nel caso dei ludi pubblici dell’Agone e del Testaccio, proposti «pro honore Rei publice Romanorum», per cui le persone scelte per lo svolgimento del gioco scontano una pesante multa se ... non stanno al gioco e chiunque recusavit ludere rifiutando di prendervi parte sarà esclu-

11 Il tempo libero. Economia e società cit.; il convegno era comunque fortemente orienta-

to verso l’età moderna. Lo stesso vale per l’importante volume Les Jeux à la Renaissance, cur. P. Aries - J.-C. Margolin, Paris 1982. Più mirati al medio evo, per esempio, i lavori presentati al CXVI congresso delle Sociétés savantes francesi organizzato a Chambery nel 1991; cfr. Jeux, sports et divertissements au Moyen Âge et à l’Âge classique, Paris 1993. Qualche maggiore indicazione di carattere generale in G. Ortalli, Ludicidad medieval cit., pp. 179-184.


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so per un quinquennio da ogni ufficio; e per rendere più solenne e dunque coinvolgente l’evento, si impone da parte delle località vicine l’invio di adeguati partecipanti12. Naturalmente i passaggi istituzionali hanno un peso decisamente più rilevante che non gli eventi del normale calendario festivo replicato anno dopo anno (come per i ludi dell’Agone e del Testaccio), e in particolare le cerimonie di incoronazione o comunque connesse all’assunzione di un ruolo egemone sono sempre occasioni fondamentali per consolidare gli equilibri esistenti. Ma per valutare davvero i caratteri dei festeggiamenti che a quelle straordinarie occasioni si accompagnavano, conviene tenere presente che nella partita i giocatori erano due: il sovrano e i sudditi. E così, a fronte dei segnali di potere o dei gesti legittimanti e identitari che l’autorità superiore intendeva proporre, stavano i modi dell’accoglienza predisposti dalle comunità per i loro signori, specialmente al momento delle loro “entrate” e / o presentazioni in pubblico. Erano, in sostanza, anche l’occasion d’un dialogue per i sudditi13, e quando si trattava delle città potenti o delle grandi capitali, come per esempio nel caso di Parigi, i rituali, i gesti e i simboli messi in essere dalle autorità locali servivano a evidenziare la propria legal personality, quasi da signore a signore14. I due giocatori della partita, in ogni caso, non si collocavano sullo stesso livello e ad avere davvero in mano le carte era il sovrano. Non soltanto la salita al trono o le entrate erano occasione di ben studiati festeggiamenti: questo valeva anche per tutta una serie di altri momenti importanti: matrimoni, nascite, investiture, persino le morti. Va da sé e non è necessario spenderci parole. Piuttosto va detto che non sempre le cose filavano lisce. Il clima di festa rende sempre l’aria frizzante e i comportamenti più liberi, dunque si prospetta l’esigenza primaria di mantenere l’ordine, ma ci sono anche rischi di segno diverso, come quello di passare la misura rite-

12 Statuti della città di Roma, ed. C. Re, Roma 1880 (Biblioteca dell’Accademia storico-giuridica, 1), l. II, cap. 48, p. 109; anche l. III, capp. 78-80, pp. 241-242. Cfr. A. Pontecorvi, “Quod nemo ludat”. Il gioco d’azzardo negli statuti del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia. Con alcune osservazioni sulla città di Roma (secoli XIII-XIV), in Roma donne libri tra Medioevo e Rinascimento. In ricordo di Pino Lombardi, Roma 2004, pp. 43-78: 69 (nota 124 per gli inviati dai centri vicini). 13 Così già B. Guenée - F. Lehoux, Les Entrées royales françaises de 1328 à 1515, Paris 1968, p. 7. 14 In generale L.M. Bryant, The Medieval Entry Ceremony at Paris, in Coronations. Medieval and Early Modern Monarchic Ritual, cur. J.M. Bak, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1990, pp. 88-118: 100. Tutti i saggi contenuti nel volume sono comunque interessanti per i nostri temi.


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nuta giusta dalla collettività con ricadute pericolose o imbarazzanti, o di rischiare anche qualcosa di più, come avvenne nel 1301 quando il re di Francia Filippo il Bello fece il suo giro nelle Fiandre di cui si era fatto signore recandovisi «tamquam novus princeps et dominus»15. Quel giro faceva parte del rituale di presa di possesso e le entrate nelle città avevano regole precise anche se non scritte. Quando si recò a Gand (segnata da divergenze interne) fu accolto in modo per certi versi strepitoso sicché, per esempio, i ricchi doni, le giostre e gli intrattenimenti di vario genere in suo onore costarono la straordinaria cifra di 27.000 lire, ma al suo ingresso la comunità pretese rumorosamente l’abolizione dei carichi fiscali specialmente su birra e idromele e capitò pure di peggio a Bruges dove, nonostante le severe misure preventive di patriziato e scabini perché non si ripetessero i fatti di Gand, l’accoglienza risultò gelida, le proteste per le spese furono dure e «facta est commotio magna et dissensio», tanto che il capopopolo, un tessitore di nome Pietro, con i suoi compagni fu messo in prigione da dove fu fatto uscire a forza dalla comunità nonostante il sospetto e la malevolenza del patriziato16. Tutto sommato il caso di Bruges non fa testo. Nel complesso le entrate erano trionfali e festose e i soldi spesi dai pubblici poteri per occasioni festive di solito non creavano malcontenti. Piuttosto potevano farsi sentire le critiche in senso opposto. Se su Gand mi sono soffermato è perché propone un bell’esempio non usuale di quella dialettica che con la festa comunque si istituiva tra il signore e la collettività, anche se chi aveva le redini in mano era poi sempre il signore. Ma il gioco poteva prendere vie impreviste e voglio notare che l’anonimo cronista ci dice che il re era venuto in Fiandra ludendi causa, ma quel ludus (il termine è eloquente) iniziato in pompa magna era poi finito assai male, riferendosi con ciò alla clamorosa sconfitta subìta l’anno successivo a Rocroi ad opera delle milizie delle città fiamminghe che erano insorte: «ludus iste sibi et suis postea fuit causa tristissimi et gravissimi eventi»17. Non sempre il gioco finisce bene, ma la normalità degli eventi ludici non è il conflitto o l’amarezza.

15 Annales Gandenses. Annals of Ghent, ed. H. Johnstone, Oxford 1985 (Oxford Medieval Texts), p. 12. 16 Ibid., pp. 13-14. Per un cenno alla vicenda (a p. 57), ma soprattutto per un’occasione che per Filippo il Bello andò decisamente meglio, cfr. anche E.A.R. Brown - N.F. Regalado, ‘La grant feste’. Philip the Fair’s Celebration of the Knighting of His Sons in Paris at Pentecost of 1313, in City and Spectacle in Medieval Europe, cur. B. Hanawalt - K. Reyerson, Minneapolis-London 1994 (Medieval Studies at Minnesota, 6), pp. 56-86. 17 Annales Gandenses cit., p. 12.


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Qui un elemento da tenere presente per quanto riguarda le occasioni festive e i possibili rischi (o meglio le garanzie) quanto al mantenimento dell’ordine pubblico va indicato in quello che chiamerei il sovrapporsi dei calendari. Specialmente per le occasioni festive ordinarie, quelle che anno dopo anno si ripropongono, il calendario della solennità laica coincide in larga misura con quello liturgico. Si pensi al dì del santo patrono o all’anniversario della grande vittoria legata spesso al nome del santo del giorno. La coincidenza dei calendari faceva sì che insieme alle autorità civili, al mantenimento dell’ordine fossero interessate pure quelle ecclesiastiche, impegnate dunque ad operare attivamente per evitare che l’occasione festiva trascendesse in disordine. Del resto in un intreccio consono alla sensibilità del tempo, la gestione politica della ricorrenza o dell’evento sa bene come usare le potenzialità offerte dagli strumenti della fede. In proposito basterà un cenno alle processioni e all’uso delle immagini sacre. La tradizione è lunga. Volendo si potrebbe risalire alle icone che gli imperatori bizantini portarono in cortei fin dal VII secolo, ma – pur restando a Costantinopoli – è più coerente ai tempi che maggiormente ci interessano riferirsi ad esempio a quel 15 agosto 1261 che vide la trionfale processione con cui Michele VIII Paleologo, spento l’Impero latino d’Oriente con il ritorno della supremazia bizantina, rese grazie alla preziosissima immagine di Maria Odighitria che si voleva dipinta da san Luca, seguendola a piedi scalzi in testa al corteo, e la celebrazione lanciava un forte messaggio politico se si pensa che durante il periodo della venetocrazia l’icona era stata sottratta al culto18. Ma naturalmente il ricorso alle immagini sacre in occasioni di festività di matrice e primario interesse laico non fu un artificio (o piuttosto un’attitudine) esclusiva di imperatori e sovrani. Basti pensare al ruolo politico che in Siena ebbe il riferimento alla Vergine – la grande alleata e protettrice della città – nelle celebrazioni organizzate dalle autorità comunali19.

18

R.L. Wolff, Footnote to an Incident of the Latin Occupation of Constantinople. The Church and the Icon of Hodegetria, «Traditio», 6 (1948), pp. 319-328: 319-321, 325. H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Roma 2001, pp. 101-104 (ediz. originale: Bild und Kult: eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, München 1990, pp. 87-91). 19 Fra gli altri: B. Kempers, Icons, Altarpieces, and Civic Ritual in Siena Cathedral, 1100-1530, in City and Spectacle cit., pp. 89-136; anche G. Ortalli, “Pingatur in palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979, pp. 27-28 per il trasferimento della Maestà di Duccio in Duomo.


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4. Una politica della festa per la Chiesa

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Al di là dell’intreccio con le realtà e i poteri laici, anche per le strutture ecclesiastiche si imposero attenzioni per la dimensione ludica, ovviamente con standard e finalità proprie, e conviene non dimenticare quelle pratiche in grado di coinvolgere i fedeli con funzione di compattamento, anche al di fuori delle funzioni e delle liturgie proprie della celebrazione religiosa20. Qui la mente va subito ai rituali di tipo paraliturgico legati alle grandi ricorrenze dell’anno cristiano (Natale in primo luogo), che si spingevano a comportamenti per molti versi ambigui: poco graditi alle gerarchie, di lontana tradizione e trascinatisi per secoli anche quando si moltiplicarono ostilità e divieti, fino al momento critico rappresentato dal Concilio di Trento ed anche oltre21. Penso alle fête des fou o des innocents, o alle Feste dell’Asino (in ricordo del biblico asino di Balaam) o alle Laudes coromannie, con inversioni dei ruoli e forti componenti dall’impronta licenziosa, o con risvolti burleschi, ironie e irriverenze spesso al limite del blasfemo, in un quadro comunque connotato da elementi di carattere religioso o parasacramentale. Attori di quelle celebrazioni erano specialmente i giovani chierici dei capitoli delle cattedrali, con un coinvolgimento di molti fedeli che inevitabilmente rafforzava l’integrazione tra sfera ecclesiastica e laicato nel clima liberatorio della festività22. Tuttavia, e ovviamente, non era quel tipo di celebrazione ludico-religiosa (che non avrebbe trovato mai spazio nelle chie-

20

G. Ortalli, Games in the Street, in Die Strasse. Zur Funktion und Perzeption öffentlichen Raums im späten Mittelalter, cur. G. Jaritz, Wien 2001 (Forschungen des Instituts für Realienkunde des Mittelalters und der frühen Neuzeit. Diskussionen und Materialien, 6), pp. 193-196. 21 Le riserve erano di lunga data. Già nel secolo XII il teologo e liturgista francese Jean Beleth nel ricordare queste pratiche le giudicava negativamente: «Videtur tamen laudabilius esse non ludere». Johannis Beleth Summa de ecclesiasticis officiis, ed. H. Douteil, II, Turnhout 1976 (Corpus Christianorum. Continuatio medievalis, 41A), cap. 120a, p. 223; anche capp. 72a, 121a, pp. 133, 228. 22 Su queste pratiche paraliturgiche si vedano ad esempio J. Heers, Fêtes des fous et Carnavals, Paris 1983; A. Benvenuti Papi, Il culto degli Innocenti nell’immaginario medievale, in Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all’Età moderna, cur. O. Niccoli, Firenze 1993, pp. 113-143: 136-139; M. Grinberg, L’Episcopus puerorum, ibid., pp. 144-158; T. di Carpegna Falconieri, Gioco e liturgia nella Roma medievale. Dal Liber polipticus del canonico Benedetto, «Ludica», 3 (1997), pp. 51-64; Y. Dahhaoui, Enfant-évêque et fête des fous: un loisir ritualisé pour jeunes clercs?, in Freizeit und Vergnügen vom 14. bis 20. Jahrhundert. Temps libre et loisirs du 14e au 20e siècle, cur. H.-J. Gilomen - B. Schumacher, Zurich 2005, pp. 33-46.


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se nate dalla riforma protestante) il più rassicurante e controllabile per le autorità ecclesiastiche. Per il mondo ecclesiastico altre sono le feste che maggiormente interessano in questa sede e il nesso si rivela ben più forte quando passiamo dalla dimensione liturgica o dalle necessità di ordine spirituale a quelle del potere temporale nelle quali peraltro la Chiesa era strutturalmente coinvolta. Qui l’assonanza con la sfera dei poteri mondani si fa più stretta, con intensità crescente in parallelo al rafforzarsi del ruolo sovrano del pontefice23. Per fare un esempio, basterà il richiamo alla spettacolare fastosità dell’incoronazione romana di papa Alessandro VI Borgia nel 1492. Il tripudio di archi trionfali, arazzi, addobbi, scenografie e immagini a beneficio della città plaudente erano il segno forte di una ideologia del principato che si presentava in diretta continuità con l’impero romano, con un “imperatore” che era tale ancora più di Giulio Cesare: ille vir ma iste Deus. E coerentemente gli anni del pontificato avrebbero visto nelle feste e nelle cerimonie le armature, le bombarde, i cavalli e il lusso degli abiti di papa, prelati ed ospiti prendere il sopravvento sulla croce. Di più ancora. In questa logica papa Borgia volle imporre il proprio segno su molte tradizionali feste e spettacoli laici, con operazioni che in fondo avevano già funzionato per esempio con papa Paolo II «ricordato con ammirazione nelle cronache cittadine per avere incrementato i giochi e i palii»24. Nei casi appena citati la dimensione del “secolo” ci appare davvero preminente rispetto a quella dello spirito. Un qualsiasi signore laico avrebbe potuto agire in termini analoghi. Tuttavia è possibile recuperare anche esperienze di festività profondamente clericale, addirittura programmaticamente antagonistiche rispetto a quelle del laicato. Un caso esemplare, per di più fortemente connesso con le esigenze dalla gestione politica della comunità, è senz’altro quello della Firenze di Girolamo Savonarola e lo stacco è evidentissimo se si pensa che teneva dietro alla esuberante e raffinata cultura della festa di casa Medici, rispetto alla quale si poneva in esplicito contraddittorio25. La qualità del passaggio si riconosce bene nel carnevale savonaroliano, con una rigida moralità favorita dalla vocazione al gio-

23 Penso in particolare agli sviluppi chiaramente indicati da P. Prodi, II sovrano pontefice, un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982. 24 Per tutto questo: A. Modigliani, Uso degli spazi pubblici nella Roma di Alessandro VI, in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI. Atti del convegno (Roma 1999), cur. M. Chiabò et al., Roma 2001, pp. 521-548; p. 538 per Paolo II. 25 Sulla fase immediatamente pre-savonaroliana cfr. N. Carew-Reid, Les fêtes florentines au temps de Lorenzo il Magnifico, Firenze 1995 (Quaderni di “Rinascimento”, 23).


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co dei fanciulli trasformati in controllori e custodi dei buoni comportamenti nei confronti degli adulti, con altari e crocefissi per le vie e i gruppi di invadenti ragazzini che quasi non facevano passare se nelle loro bacinelle non cadeva l’elemosina per i poveri vergognosi26. E si badi: qui non c’è la negazione della festa ma piuttosto una festa di tipo diverso (potremmo dire: un grande carnevale dei fanciulli!), coerente a un progetto di gestione pubblica molto chiaro pur nella sua durezza. Si potrà pensare a una festa non più festa, dai toni nel complesso severi se non addirittura cupi, ma la presenza di forti elementi ludici anche in questi trionfi di altari e crocefissi piuttosto che di maschere e leggerezze rimane. Vorrei aggiungere che una grande manifestazione del sistema ludico (che concettualmente ci importa) possiamo riconoscerla persino in quella che forse più di ogni altra ci si presenta come iniziativa antagonista rispetto al gioco, al divertimento, all’evasione, al “non-serio”: il rogo delle vanità che segnò il culmine dal carnevale del 1498. A bruciare in Piazza dei Signori dopo «la processione de fanciugli» con tabernacoli e croci e ulivi, furono «figure ignude e tavolieri, libri eretici, Morganti, specchi e molte cose vane» raccolte nel capannuccio di legno accuratamente predisposto. Davvero in tanti buttarono molto tra le fiamme se il diarista ne stimò il valore in «migliaia di fiorini», e anche la contestazione di chi non condivise lo spirito del rituale agì nella logica della ludicità gettando sulla pira (il capannuccio) «gatte morte e simile lordura»27. Il falò non era affatto una invenzione del Savonarola. Abbondantemente proposto dai grandi predicatori quattrocenteschi, nella stessa Firenze forse restava memoria almeno del grande precedente del 1424, voluto da frate Bernardino da Siena al cui appello avevano allora risposto «parecchie migliaia» di uomini e donne della città e del contado28. Per di più il cumulo delle cose vane si poteva collegare alla vecchia tradizione carnevalesca nel riferimento ai capannucci che nell’occasione venivano normal-

26 Così nel febbraio 1496, come attesta la lettera di un agente di Ludovico il Moro: P. Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, con l’aiuto di nuovi documenti, Firenze 1861, I, pp. 372-373; II, pp. XC-XCI. 27 Il capannuccio fu comunque custodito da guardie armate per evitare guasti da parte di «certi tiepidi» rispetto all’iniziativa. Luca Landucci, Diario fiorentino: dal 1450 al 1516 continuato da un anonimo fino al 1542, ed. A. Lanza - I. Del Badia, Firenze 1883 (ristampa anastatica Firenze 1985), p. 163. Il Morgante di Luigi Pulci, assunto a simbolo dei libri sconvenienti, uscito nel 1478-1483, era stato oggetto degli attacchi del Savonarola. 28 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, ed. C. Cannarozzi, II, Pistoia 1934, pp. 8788. Più in generale sui falò delle vanità A. Rizzi, Ludus/ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, Roma-Treviso 1995, pp. 126-130.


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mente montati29. In ogni caso quei roghi di strumenti per il gioco, cosmetici, libri e quant’altro di disonesto poteva esserci, capaci di richiamare migliaia di persone riempiendo le piazze, erano senza dubbio un atto di estremismo religioso ma insieme una rappresentazione fantastica e coinvolgente, in grado di affascinare gli spettatori non meno delle altre grandi messe in scena festive. Viene da dire che anche il rogo dell’eretico così come la decapitazione del traditore possono diventare spettacolari eventi accuratamente gestiti da chi ha il potere di decidere anche di vita e morte30. Tuttavia non era certamente attraverso l’esasperazione dei grandi falò che la Chiesa preferiva operare. La devozione può essere guidata in tanti modi e non sempre è facile contenere i risvolti spettacolari e festosi, spesso anche crudi e al limite della brutalità, ma si andava piuttosto in direzione dell’ordine e della misura. Per intenderci: piuttosto dei cortei di battuti o flagellanti, meglio le processioni di confraternite che nei giorni della festa sfilavano secondo un ordine fermamente precostituito mescolando alle liturgie il pasto dei confratelli, con portamenti tanto più rassicuranti e preferibili e non a caso vincenti con l’avanzare del medio evo. 5. Nell’Italia di comune: il palio e gli affari

Tornando a quanto si diceva a proposito di papa Paolo II e dell’approvazione ricevuta per le sue scelte in materia di giochi pubblici, conviene riprendere il tema del palio, sicuramente una della manifestazioni di maggiore impegno e successo nel sistema ludico del pieno e tardo medio evo, a cui si ricorse con sistematicità nelle pratiche festive di carattere pubblico nell’Italia di comune. Le testimonianze in proposito sono numerosissime e il suo eventuale collegamento ad una festività religiosa non ne limitava i forti risvolti politici, se non altro dovuti al fatto che erano i titolari del potere ad occuparsi della gestione dell’evento. E il tutto poteva valere non soltanto in modo generico, come occasione per offrire alla comunità un

29 M. Plaisance, Florence: le Carnaval à l’époque de Savonarole, in Les fêtes urbaines en Italie à l’époque de la Renaissance: Vérone, Florence, Sienne, Naples, cur. F. Decroisette - M. Plaisance, Paris 1993, pp. 9-30: 11; Carew-Reid, Les fêtes florentines cit., p. 131. 30 La cosa è scontata, ma vorrei ricordare almeno L. Puppi, Lo splendore dei supplizi. Liturgia delle esecuzioni capitali e iconografia del martirio nell’arte europea dal XII al XIX secolo, Milano 1990; in particolare (p. 16) insiste su come le esecuzioni fossero eventi pubblici, miseen-scénes, spettacolari cerimonie che rendevano gloria all’armonia fra potere politico e pietà religiosa: pro fide et patria. Anche D. Balestracci, Il gioco dell’esecuzione capitale: note e proposte interpretative, in Gioco e giustizia nell’Italia di Comune, Roma-Treviso 1993, pp. 193-206.


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momento di incontro e coesione tendenzialmente identitaria. Spesso gli obiettivi erano contingenti e molto puntuali nel messaggio che si intendeva lanciare. Poteva, per esempio, essere il segno forte di un importante passaggio politico. Così, per esempio, dagli anni Cinquanta del Duecento i palii che si correvano a Padova e a Vicenza rispettivamente il 20 giugno e nel giorno di San Michele celebravano la liberazione delle città dal dominio di Ezzelino III da Romano. A Firenze il palio di San Vittore ricordava il trionfo su Pisa il 29 luglio 1364 e prima ancora quello nel giorno di San Barnaba era corso in memoria del trionfo di Campaldino del 128931. Naturalmente non occorreva l’anniversario di un evento specifico per organizzare la festa ed erano soprattutto il Cristo, Maria, i Santi ad essere celebrati con la grande gara, ma l’onore per il santo o per la Vergine si confondeva con quello della comunità, e tuttavia la preminenza del riferimento al sacro fu tale che anche i palii organizzati a permanente memoria di eventi politici si riconobbero nel nome del protettore della giornata. Ma glorificare la figura celeste non escludeva che la manifestazione tornasse ad onore anche della città e di chi la reggeva. Il concetto talvolta venne anche reso esplicito, come nel caso di Bologna dove nel Duecento il capitolo statutario che stabiliva il nuovo percorso del palio per la festa di San Pietro si apriva dichiarando la volontà di «honori publico providere et ad hoc ut honor omnium sit comunis»32; e in Verona il rispetto per la Santa Trinità, la Vergine Maria e il patrono san Zeno era affiancato all’«honorem et leticiam et bonum statum partis regentis Veronam, que est comune Verone et erit in secula seculorum, Deo dante»33. La logica valeva quale che fosse il regime in carica e così se nella Verona due e trecentesca s’intendeva sostenere il regime dei signori Scaligeri, a Montepulciano nel 1373 il palio di san Giovanni d’agosto veniva corso in omaggio alla festività religiosa e, insieme, al governo di popolo: «popularis status eiusdem atque ampliorem magnificentiam ipsius»34.

31

A. Rizzi, Le jeu dans les villes de l’Italie médiévale, «Histoire Urbaine», 1 (2000), pp. 47-64. In generale: Rizzi, Ludus/ludere cit., specialmente al cap. «Pro bravio sive palio currendo: un gioco promosso nell’Italia dei comuni», pp. 171-204. 32 Statuta communis Bononiae ab ann. MCCL ad ann. MCCLXVII, in Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, ed. L. Frati, I, Bologna 1863 (Monumenti istorici pertinenti alle provincie della Romagna, Ser. I, Statuti, 1), l. VII, cap. 118 del 1250 (add. 1262, 1264, 1267). 33 Statuti di Verona del 1327, edd. S.A. Bianchi - R. Granuzzo, con G.M. Varanini - G. Mariani Canova, I, Roma 1992 (Corpus statutario delle Venezie, 8/1), p. 159, l. I, cap. 51. Il passo compariva già nella redazione statutaria del 1276; cfr. A. Rizzi, Statuta de ludo, Roma-Treviso, in stampa, nn. 1794 (statuti del 1276: l. I, cap. 67), 1795 (per il 1327). 34 I. Calabresi, Montepulciano nel Trecento: contributi per la storia giuridica e istituzionale, Siena 1987, pp. 229-230.


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Al palio non ci si affidò soltanto per messaggi politici di segno positivo, proposti come occasione di orgoglio civico o festa della memoria con evidente potenzialità di sostegno per gli equilibri esistenti. Si andò anche nel senso opposto: quello del discredito e dell’insulto nei confronti di un avversario esterno, come nel caso del palio fatto correre su ordine dei comandanti delle milizie fiorentine e veneziane «per dispetto e vergogna» di Mastino della Scala nel 1338 davanti alle porte di Verona assediata35. Volendo poi rendere più grave l’offesa si poteva procedere con qualche variante come fu con il palio organizzato nel 1330 dai fiorentini a un tiro di balestra dalla porta di Lucca assediata, quando organizzarono pure una corsa fra le meretrici al seguito dell’esercito, garantendo persino un salvacondotto per chi dalla città nemica avesse voluto assistere o addirittura prender parte alle gare, «onde molti n’uscirono a vedere la festa»36! Quella volta la pratica ludica aveva preso per qualche attimo il sopravvento sulla guerra, ma del resto il gioco è proprio la pausa fra i momenti della serietà, anche quelli più drammatici. Benché il fine fosse derisorio e infamante piuttosto che celebrativo, manifestazioni del genere ricordato conservavano tutte le possibili ricadute positive per chi aveva le responsabilità di ordine politico e anzi il risultato in questi casi era duplice: confermare se stessi e colpire gli avversari. In altre parole, ma è cosa ovvia, l’utilizzo politico della festa era calibrabile non soltanto in funzione degli equilibri interni ma pure (cosa del tutto evidente) dei rapporti con l’esterno: tanto per schernire e infamare i nemici quanto e soprattutto per onorare amici e alleati. Esemplari da questo ultimo punto di vista erano le cerimonie organizzate per l’arrivo di principi, ambasciatori, alti prelati, personaggi comunque di rilievo e qui penso naturalmente - non agli atti d’omaggio al sovrano che si recava nei luoghi del suo dominio, ma a quelli resi da soggetti dotati di autonomia (città, stato ...) che accoglievano un’autorità esterna. La dimensione ludica dell’ospitalità aveva spazi deputati nelle sedi proprie del potere o nei palazzi patrizi, ma a rendere onore agli ospiti illustri era chiamata anche l’intera comunità con ruoli precisi nel rituale di accoglienza, a partire da quello più semplice ma comunque indispensabile di spettatore partecipe dell’evento. Qui va detto che gli approntamenti trionfali, le architetture effimere, i suoni, gli apparati, le scene viventi, i cortei, i drappi esposti e in sostanza tutto quanto rende fastoso il percorso, viene crescendo man mano che dal medio

35 Rizzi, Le jeu dans les villes de l’Italie cit., p. 55. 36 Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. Porta, II, Parma 1991, l. XI, cap. 165, p. 728.

Su «I palii di guerra» v. soprattutto Rizzi, Ludus/ludere cit., pp. 176-180.


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evo ci si avvia verso il pieno Rinascimento. E il gioco politico diventa nel tempo sempre più sottile e calibrato. Anche costoso: con grandi investimenti e piccoli risparmi. Così papa Pio II Piccolomini al tempo della sua venuta in Firenze nel 1459 ebbe a lamentare la strettezza con cui fu accolto. Va precisato subito che la venuta del Piccolomini al pari di quella di Giangaleazzo Sforza in Firenze nello stesso 1459 si configurava anzitutto come il trionfo di Cosimo il Vecchio e della casata medicea che dopo le novità istituzionali dell’anno precedente aveva assunto il controllo della città, ma poi va aggiunto che al Medici in quella congiuntura premeva non tanto il legame col pontefice (con cui si poteva dunque andare al risparmio), quanto piuttosto il rapporto politico con lo Sforza in funzione antiveneziana37. E parlando di Venezia, da tempo la respublica aveva codificato le modalità dei rituali d’accoglienza con una sorta di “tariffario” rispondente tanto alla qualità degli ospiti quanto al vantaggio che questi politicamente potevano garantire, determinando di volta in volta i costi con l’attenzione propria di una società dai forti connotati mercantili38. Non c’è dubbio, in effetti, che la politica della festa è una politica di utili e costi anche finanziari e in proposito conviene ricordarli guardando pure ad altri rapporti di tipo sociale rispetto a quelli fin qui trattati, spostandoci al livello più modesto delle occasioni di vecchia tradizione e di antica data, come le sagre paesane e le festività annuali la cui origine si perdeva nel tempo, che in qualche occasione speciale (solitamente legata al calendario liturgico e, insieme, a un mercato fuori dall’ordinaria routine) portavano in comunità anche molto ridotte e marginali un’aria nuova. Per tutto il medio evo (e non solo) erano giorni in cui l’ambiente si faceva animato e insolito: merci più abbondanti, gente venuta da fuori, imbonitori, cavadenti, artisti di strada, autorità, borseggiatori ... La fisiologia della comunità in quelle congiunture pulsava vivace, con ritmi diversi e inusuali: quelli della rottura rispetto alla normalità troppo spesso piatta del quotidiano vivere39. Ebbene, con il consolidarsi delle strutture statuali, nel

37 M. Casini, I gesti del principe. La festa politica in Firenze e Venezia nell’età rinascimentale, Venezia 1996, pp. 189-191. 38 Con riferimento non soltanto alla realtà veneziana cfr. M. Pistoresi, Venezia-MilanoFirenze 1475. La visita in laguna di Sforza Maria Sforza e le manovre della diplomazia internazionale: aspetti politici e ritualità pubblica, «Studi veneziani», 46 (2003), pp. 31-98; M. Pistoresi, Tra festa e liturgia. Il baldacchino negli ingressi pubblici del tardo medio evo: Genova, Milano, Venezia e il possibile cerimoniale europeo, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali», 162 (2004), pp. 547 ss. 39 Perfetta la sintesi di F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVeXVIIIe siècle, II: Les jeux de l’échange, Paris 1979, p. 78: «La foire, c’est le bruit, le vacarme, les flonflons, la joie populaire, le monde à l’envers, le désordre, à l’occasion le tumulte».


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pieno e tardo medio evo si fa matura una politica della festa dai chiari risvolti finanziari40. Nella gestione dell’evento dal secolo XII e XIII le autorità superiori, e in specifico le capitali rispetto al contado, cominciano a occuparsi non soltanto dei problemi di ordine pubblico e di questioni del genere, ma anche degli introiti che da quelle occasioni si possono cavare. La presenza del potere in materia di festa si esprime non soltanto con la sua gestione politica (e in molti casi è davvero micropolitica da paese) ma pure economica. I modi sono più di uno. L’appalto dei banchi di vendita; la riscossione dei dazi specifici; perfino la concessione a pagamento della baratteria lucrando su quell’azzardo, altrimenti fermamente escluso, che dal Duecento in giro per l’Europa comincia ad essere gestito sotto controllo statale con l’invenzione delle case da gioco41. L’aspetto più interessante è tuttavia un altro: la riorganizzazione del sistema delle feste/mercati tradizionali con nuove dislocazioni rispondenti ai canoni del profitto. Anche qui conviene spiegarsi con un esempio concreto guardando a Vicenza e al suo territorio, entrati nel 1404 a far parte dello stato veneziano. I nuovi equilibri suggerirono una riorganizzazione degli assetti economici e di conseguenza la respublica nel 1426 provvide a modificare la rete delle maggiori fiere paesane, sia come numero che come luoghi, riducendole a dodici (da sedici) in undici centri (erano quattordici)42. Le decisioni per esigenze di politica economica e finanziaria non avevano comunque bisogno di riorganizzazioni complessive. Gli adeguamenti potevano ben mirare anche a un obiettivo molto specifico. Così quando nel 1249 Siena intervenne sugli assetti consolidati dei suoi territori spostando a Bagno di Petriolo il mercato che si teneva nella vicina Fercole, non si preoccupava tanto del complessivo circuito fieristico quanto, piuttosto, del potenziamento dei propri centri termali in cui il denaro girava più abbondante, portato in buona misura dai forestieri benestanti che arrivavano per cura e ristoro. Meglio sfruttare al massimo le potenzialità di un luogo in cui il clima festivo era la normalità. Lì si poteva addirittura permettere l’azzardo convenientemente appaltato, e lo stesso meccanismo era applicabile per

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In generale: G. Ortalli, Games, feasts, markets. The lifting of bans in small mediaeval communities, «Ludica», 11 (2005), pp. 96-108. 41 G. Ortalli, The Origins of the Gambler-State. Licenses and Excises for Gaming Activities in the XIII and XIV Centuries (and the Case of Vicenza), «Ludica», 3 (1997), pp. 108131. Per l’Italia in particolare sono ancora utili gli articoli (del 1886-1887, 1892 e 1893) raccolti in L. Zdekauer, Il gioco d’azzardo nel medioevo italiano, Firenze 1993. 42 L. Clerici, Fiere e mercati del Vicentino nel tardo medioevo e in età moderna, «Società


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altri cenri di forti frequentazioni esterne, come i porti, dove gli sbarchi della gente di mare dopo i lunghi viaggi favoriscono la domanda di svaghi e di festa. Porto o stazione termale: meglio che i soldi li perda chi viene da fuori e li lasci “festosamente” ai padroni di casa. Dunque anche a Talamone – località portuale importante – il governo senese poteva permettere quanto si faceva ai bagni di Petriolo43! 6. I nuovi ruoli dell’opinione pubblica e della ludicità per la festa e per il potere

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A questo punto conviene tentare di raccogliere le fila di quanto fin qui detto correndo da un tema all’altro sulla base di singoli esempi piuttosto che di sistematiche schedature, senza troppa preoccupazione di ferree linearità. Dunque è bene giustificarsi. Quanto ho cercato di proporre è una generale casistica di rapporti possibili tra festa e politica e viceversa. Il punto d’avvio sta nella convinzione della serietà del gioco (meglio: del sistema ludico) per gli assetti della società, sicché la festa non deve essere ridotta ad appendice secondaria e occasionale della politica sulla cui serietà invece nessuno naturalmente discute. I casi proposti avevano lo scopo, pur nella inevitabile loro frammentarietà, di mostrare quanti intrecci fra le due sfere siano non soltanto possibili ma effettivi, importanti e perseguiti. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e la casistica venire ampliata, ma quanto detto credo possa essere sufficiente. Piuttosto conviene tornare lì dove eravamo partiti: al parallelismo tra gli sviluppi della grande vicenda storica generale e quelli della ludicità. Avevamo insistito su come la profonda crisi del mondo tardo antico abbia corrisposto ad una altrettanto profonda modifica nel ruolo della ludicità. Il complicato riassestamento dell’alto medio evo, con la fatica di secoli per costruire equilibri più stabili e migliori condizioni di vita, corrispose a una messa in ombra delle espressioni ludiche senza che potessero naturalmente spegnersi pulsioni ineliminabili. Piuttosto la sfera del gioco in un mondo in fase di complessi mutamenti scivolò in una dimensione di marginalità (e sospetto) a fronte del peso di problemi senz’altro preminenti. In sostanza

e storia», 29/91 (2001), pp. 11-78: 45, 74-77; L. Clerici, Fiere e mercati: geo-economia degli scambi nel medioevo e in età moderna, in L’industria vicentina dal Medioevo a oggi, cur. G. L. Fontana, Padova 2004, pp. 127-186: 158, 168-174. 43 D. Boisseuil, Le thermalisme en Toscane à la fin du Moyen Âge: Les bains siennois de la fin du 13. siècle au début du 16. siècle, Rome 2002 (Collection de l’École française de Rome, 296), pp. 39, 49, 112, 123, 363, 377; Ortalli, Games, feasts cit., p. 104.


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la ludicità era venuta perdendo quel posto che nel quadro del vivere sociale la tradizione antica e in particolare la civiltà classica le avevano riservato. Così come la crisi, anche la ripresa della cultura della festa e del gioco avrebbe trovato spazio in parallelo con la grande ripresa della società a partire dal passaggio del millennio44. Le condizioni mutate riassegnavano nel quadro dell’organizzazione sociale un posto preciso alla ludicità che ora faceva i conti tanto con maggiori concessioni e con un’attenzione rinnovata quanto con orientamenti più precisi nel definire e punire ciò che si fosse giudicato improprio o pericoloso. Su queste premesse si può meglio intendere perché gli esempi portati nelle pagine precedenti risalgano nella quasi totalità a un medio evo maturo o addirittura declinante. Anche qui possiamo indicare – per quel che può valere – un termine cronologico / simbolo per il definitivo aprirsi di una diversa stagione: l’equivalente in positivo di quel riferimento iniziale in negativo al 393, alla fine dei giochi di Olimpia e a Teodosio. Penso una volta di più a Ugo di San Vittore e a come in maniera quasi sorprendente collocasse a pieno diritto fra le attività legittime il gioco, assegnandogli un posto fra le arti meccaniche. Come «il calore naturale dei corpi si alimenta di un movimento ben equilibrato» così «la gioia ristora lo spirito». E la «gioia» non è soltanto quella di chi partecipa attivamente al gioco, ma anche di chi vi assiste come spettatore. Ma c’è anche di più: è una esigenza di chiara profilassi sociale quella per cui «si deve raccogliere il popolo di tempo in tempo per il gioco», assicurandogli anche «luoghi predeterminati, al fine di evitare che la gente si riunisca in posti equivoci», magari «per compiervi atti riprovevoli o criminali»45. Il sistema ludico è diventato un problema, una quaestio che deve essere affrontata e risolta. Non basta più relegarlo tra le cose marginali; bisogna piuttosto determinare quale ludus sia da considerarsi onesto, utile, funzionale. Che il recupero di ruolo del gioco, del loisir, della ludicità fosse in atto ce lo dice dunque la nuova attitudine del grande maestro Ugo di San Vittore che, tuttavia, con il suo restare legato per altri versi a posizioni mol44

Penso di poter mantenere anche qui le periodizzazioni che avevo proposto per la prima volta in Tempo libero e medio evo cit. e in Uncertain Thresholds of Tolerance: mi paiono ancora valide. 45 Ugo di San Vittore, Didascalicon, l. II, cap. 27. in Migne, Patrologia Latina, 176, Parisiis 1880, coll. 762-763; il capitolo è intitolato alla theatrica scientia ma si occupa del ludus in generale; cfr. M. Lemoine, Le sport chez Hugues de Saint-Victor, in Jeux, sports et divertissements cit., pp. 131-141. Riprendo cose già dette in Ortalli, Tempo libero e medio evo cit., pp. 46-47; Ortalli, Ludicidad medieval cit., p. 193; Ortalli, Il faut bien que le menu peuple aussi puisse s’amuser, in Le petit peuple dans l’Occident médiéval. Terminologies, perceptions, réalités, Paris 2002, pp. 691-706: 698-699.


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to tradizionali indica come il passaggio non fosse semplice46. Ma l’aria stava cambiando e su questa considerazione conviene tornare direttamente al rapporto della festa con la politica. Il già denunciato riferimento sistematico a situazioni relativamente tarde non significa affatto che dati utili non siano reperibili anche nei periodi precedenti. Ci mancherebbe altro. Rimane però indiscutibile che il nesso tra politica e festa sia diventato molto più intenso nei secoli successivi al Mille. E non credo assolutamente che questo dipenda da una maggiore o minore disponibilità di fonti. La qualità della documentazione certamente incide, ma c’è anche ben altro a fianco dell’ampiezza dei nuovi spazi che si aprivano alla ludicità. Non si dimentichi come per la politica e per chi gestisce il potere la festa sia un modo d’intervento destinato a un pubblico da convincere e orientare nelle attitudini e nei comportamenti. Che questo pubblico esista e sia in grado di recepire i messaggi trasmessigli con le manifestazioni ludiche è dunque un dato fondamentale se non addirittura il requisito preliminare. Ora si pensi a come il pieno e basso medio evo avessero imposto la crescente necessità di tenere conto di quella che potremmo chiamare – pur con una certa dose di anacronismo – una opinione pubblica molto meno fragile di quanto non fosse nei secoli precedenti. Anche per questo mutamento mi è capitato di proporre una data simbolo: il 1095, quando il bando della crociata lanciato a Clermont da papa Urbano II scuote l’Europa e si trasmette con straordinaria efficacia e rapidità a un pubblico in grado di comprenderlo e farlo proprio. Ripeto anche qui che da un anno all’altro naturalmente nulla di decisivo può cambiare, ma l’evento del 1095 rimane significativo. Ci dice che non sono più i canali di trasmissione deboli e sordi dell’alto medio evo quelli sui quali ora corrono le notizie. C’è una capacità d’ascolto e di risposta che impone alla politica nuovi obblighi e strumenti più efficaci di quelli del passato. Si sta formando un nuovo pubblico di cui i poteri devono tenere conto, ricorrendo anche alla festa assunta come strumento di gestione politica47. 46 Penso per esempio all’attitudine verso il vero gaudium che è quello spiritale

che non si scioglie mai in riso: Ugo di San Vittore, In Salomonis Ecclesiasten Homiliae XIX, n° VIII, in Migne, Patrologia Latina, 175, col. 165: «sciendum est quod spiritale gaudium nequaquam animum ad risum dissolvit»; «risus error dicitur [...] a carnis blandimento concipitur». Cfr. J. Horowitz - S. Menache, L’humour en chaire. Le rire dans l’Église médiévale, Genève 1994, pp. 22, 34; Ortalli, Petit Peuple cit, n. 14. 47 G. Ortalli, Luoghi e messaggi per l’esercizio del potere negli anni delle sperimentazioni istituzionali, in Pensiero e sperimentazioni istituzionali nella ‘Societas Christiana’ (1046-1250). Atti della XVI Settimana internazionale di studi medievali, Mendola 2004, cur. G. Andenna, Milano 2007, pp. 761-800: 792-795, § 7 «Nuovo pubblico per nuovi messaggi».


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Credo che proprio dal combinarsi di questi due grandi motivi di novità, ossia da un lato la nascita di una opinione pubblica da orientare e di cui tenere conto e, dall’altro lato, il riconoscimento del ruolo della ludicità, credo proprio – dicevo – che dal convergere di questi due elementi sia uscito il nuovo rilievo che (rispetto alla sostanziale modestia dei tempi precedenti) la festa assume come strumento necessario e importante della politica.


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«Tages Arbeit, Abendgäste, / Saure Wochen, frohe Feste / Sei dein künftig Zauberwort» «Di giorno lavoro, la sera ospiti / Settimane dure, feste gioiose / Questa sia d’ora in poi la tua formula magica»1

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In questa poesia, Il cacciatore di tesori, Goethe dà espressione ad una esperienza esistenziale: la felicità non si trova nella ricerca di tesori nascosti. Piuttosto, essa si fonda su un giusto stile di vita, nella equilibrata mescolanza di lavoro e di festa. Questi due aspetti rimangono distinti, come è noto a tutti noi dalla nostra esperienza quotidiana. La domenica fa seguito ai giorni lavorativi, la festa al quotidiano. Differenziamo questi momenti già a partire dagli abiti che indossiamo, dai luoghi che frequentiamo, dalle persone che incontriamo per il lavoro e per la festa. Ma questa distinzione tra festa e lavoro è veramente inevitabile? Non è forse un impegno faticoso anche festeggiare? Certo si tratta di una fatica, quella della festa, che ci si sobbarca più volentieri del “tran-tran” della vita quotidiana, ma non conosce forse anche la quotidianità certi momenti particolari, che creano necessariamente un’atmosfera festosa? Se non pretendiamo di tracciare una rigida distinzione tra festa e lavoro, se non ci lasciamo sfuggire il mescolarsi del lavoro nella festa e della festa nel lavoro, troviamo nel passato concomitanze di festa e lavoro, che quantomeno aspiravano a raggiungere un compimento felice. Riunioni di uomini, che non si limitano a trovarsi insieme casualmente, ma che si riuniscono con un particolare fine, assumono spesso il carattere di una festa. Di sovente momenti festosi trascorsi insieme precedono, accompagnano o seguono il lavoro che costituisce il vero e proprio fine dell’incontro. Ed anche stasera si celebrerà festosamente la conclusione di questo convegno.

1 Der Schatzgräber, in J.W. von Goethe, Sämtliche Werke nach Epochen seines Schaffen (Münchener Ausgabe), cur. K. Richter (u.a.), 4/1: Wirkungen der Franzosischen Revolution (1791-1797), cur. R. Wild, München 1988, pp. 863 s.


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Anche nel Medioevo le cose non stavano diversamente. Rituali festosi accompagnavano le diete convocate dai sovrani, durante le quali venivano prese le decisioni politiche. Diete dei principi, placiti, sedute dei consigli comunali: tutte queste riunioni avevano caro il lavorare in un’atmosfera solenne e festosa insieme, nella consapevolezza del proprio ruolo, sottolineandolo con celebrazioni comuni, caratterizzate da rituali e cerimonie specifiche. Anche la Chiesa, che di continuo raduna le persone, vuole vedere la comunità riunita in un contesto festoso ed esprime questa atmosfera in modo plastico con liturgie particolari, in occasione di grandi festività, della ricorrenza della consacrazione di una chiesa o nel giorno del ricordo del patrono locale. Non solo la predicazione sottolinea il carattere specifico di tali occasioni, ma vi si accompagnano particolari manifestazioni musicali e teatrali, al punto che nell’Occidente musica e teatro hanno avuto stimoli fondamentali dalla liturgia.

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Come hanno dimostrato ancora una volta gli interventi del convegno appena concluso, le feste sono sempre un evento sociale, che nello stesso tempo svolge la funzione di rappresentare, di fronte a sé ed agli altri, un gruppo, che in questa rappresentazione di sé trova una delle chiavi del suo costituirsi, del suo esistere. Legami sociali già esistenti vengono infatti rafforzati e resi visibili all’esterno: a chi partecipa alla festa viene posta davanti agli occhi questa realtà già esistente o ancora da realizzare compiutamente, di modo che, attraverso la auto-rappresentazione, prenda coscienza di sé. È questa connessione che rendeva già nel Medioevo e rende tutt’oggi la festa funzionale a scopi politici. Ne siano esempi le feste organizzate dai giornali per legare a sé il pubblico dei lettori, le celebrazioni volute da una città per ricordare la sua fondazione, i giubilei festeggiati da aziende e da università, per rafforzare la consapevolezza di sé e del proprio compito. Le feste possono essere volutamente create per suscitare la percezione di doveri sociali o per conferire al gruppo che festeggia consapevolezza ed autostima. Il “Premio Ascoli Piceno” viene conferito nel contesto di un convegno che esige impegno, preparato da molti con duro lavoro. Tuttavia si compie in una cornice di imponente e festosa solennità, che fa comprendere al premiato ed al pubblico l’importanza del premio. Della ricca “cultura medievale della festa” oggi vorrei evidenziare solo un piccolo aspetto, rivolgendo la mia attenzione ad un esempio che fa parte dei miei interessi di ricerca. Spesso, quando si parla di feste religiose del medioevo, vengono trascurate le grande assemblee del tardo medioevo, per intenderci i “concilî ecumenici” del XV secolo. Queste assemblee hanno invece svolto un ruolo importante nella storia della chiesa e degli stati europei nel passaggio tra medioevo e modernità.


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I partecipanti ai Concilî

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È molto opportuno volgere l’attenzione a queste grandi assemblee della chiesa, se siamo interessati alle feste politiche ed alla rappresentazione della politica nella festa. La politica ha infatti bisogno di consapevolezza del gruppo per il quale viene messa in opera, necessita di un senso di appartenenza e deve suscitarlo, qualora esso risultasse manchevole. Una festa può avere lo scopo di rafforzare opinioni ed identità, costruire o rafforzare legami, rendere visibili strutture, nasconderne altre. Nella prossima mezz’ora cercherò di esemplificare questa tesi a partire dall’esempio dei concilî tardomedioevali. Procederò nel modo seguente: dapprima prenderò in considerazione il carattere rappresentativo di queste assemblee ecclesiastiche fornendo anche qualche indicazione sul numero dei partecipanti ai concilî, per rendere chiara l’importanza di questi “grandi eventi” della Chiesa per i contemporanei. Nella seconda parte dirò qualcosa sulla connessione tra festa e lavoro nei concilî.

Già nel 1907 lo storico della chiesa Albert Hauck ha identificato tre tipi di sinodi generali della chiesa cattolica. Egli distinse i concilî episcopali della chiesa antica, riuniti sotto la presidenza dell’imperatore, dai concilî dell’età moderna, che riuniscono esclusivamente la gerarchia ecclesiastica sotto la presidenza del papa, come è accaduto anche per il Concilio Vaticano II. Tra questi due tipi, secondo Hauck, si colloca il concilium generale medioevale, cui partecipavano cardinali, vescovi, prelati, abati, rappresentanti di singole chiese e di gruppi (capitoli cattedrali, chiese collegiate, ordini religiosi), ai quali si aggiungevano anche inviati dei re e dei principi cristiani, che discutevano e prendevano decisioni insieme, sotto la guida del vescovo di Roma, del papa o di suoi delegati. Questa composizione era già stata prevista da Innocenzo III quando convocò il cosiddetto concilio Lateranense IV (1215): venne invitata espressamente tutta la Chiesa. Nella lettera di convocazione si legge che «poiché queste questioni riguardano tutti i fedeli, vogliamo convocare un concilio generale secondo le antiche consuetudini»2; di conseguenza egli invitò non solo i vescovi, ma anche i capitoli, cattedrali e non, ad inviare un loro idoneo rappresentante3.

2 Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, cur. G.D. Mansi, Graz 1960-1961 [ristampa dell’edizione Paris-Leipzig 1901-1927], XXII, col. 961A. Cfr. PL, 216, col. 824: «Ut quia haec universorum fidelium communem statum respiciunt, generale concilium iuxta priscam sanctorum patrum consuetudinem convocemus». 3 Ibid., XXII, col. 961E: «Iniungatis autem vos, fratres archiepiscopi et episcopi, ex


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Questo invito di rappresentanti del clero non limitato ai vescovi era già prefigurato nei sinodi quaresimali papali dell’ XI secolo. Anche se in quelle circostanze non si trattava della Chiesa nella sua generalità, ma solamente delle diocesi suburbicarie, queste iniziative possono essere state di esempio per Innocenzo III. La decisione di Innocenzo, destinata ad avere conseguenze notevoli, fu ripresa in occasione dei concilî seguenti, con estensione maggiore. Infine, la proclamazione del Concilio di Vienne (che si sarebbe riunito tra 1311 e 1312) incluse un invito rivolto ad uno spettro molto più ampio di rappresentanti della Cristianità. Avrebbero dovuto partecipare non solo vescovi ed arcivescovi, patriarchi e cardinali, ma anche i re di tutti i regni cristiani, per ottenere una rappresentanza della Chiesa universale che comprendesse non solo il clero, ma anche i laici4, tenendo ovviamente conto, anche nel cerimoniale del Concilio, dello status e dei criteri di precedenza tra i laici di rango5. Allargando la base dei partecipanti, i papi andavano incontro ad un orientamento diffuso nella Chiesa, come si può constatare in molte fonti, come per esempio in Guglielmo d’Ockham, che certo non era favorevole al papa suo contemporaneo. Nella prima parte del suo Dialogus (completata at-

parte nostra universis ecclesiarum capitulis non solum cathedralium, sed etiam aliarum, ut praepositum vel decanum aut alios viros idoneos ad concilium pro se mittant». 4 Ibid., XXV, coll. 369D-388E: si trova tutta una serie di inviti di questo genere. Si veda per esempio l’invito a Filippo il Bello di Francia; in questo testo (col. 374B) vengono nominati per primi i membri della gerarchia ecclesiastica: «Unde venerabilibus fratribus nostris archiepiscopis, episcopis, ac dilectis filiis electis, abbatibus, prioribus, decanis, praepositis, archidiaconis, archipresbyteris, et aliis ecclesiarum prelatis, exemptis et non exemptis, eorumque capitulis et conventibus, per alias nostras litteras mandamus, ut […] ad huiusmodi concilium universale accesserint». In conclusione, tuttavia, ci si rivolge direttamente al re (col. 375A/B): «Caeterum quia multipliciter expedit, ut tam celebre concilium tua et aliorum catholicorum principum decoretur praesentia, ut salubri concilio et auxilio [!] fulciatur, serenitatem regiam rogamus et hortamur attentius […] quod praescriptis loco et termino in eodem concilio […] studeas personaliter interesse». 5 Così, per esempio, il luogo in cui sedeva il sovrano francese all’interno della cattedrale di Vienne durante la seconda seduta del Concilio, fu “alzato di un poco”: «Locus vero regis Francie fuit aliquantulum elevatus», F. Ehrle, Zur Geschichte des päpstlichen Hofceremoniells im 14. Jahrhundert, «Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte des Mittelalters», 5 (1889 [ristampa Graz 1956]), pp. 565-602, nello specifico p. 576; cfr. anche la nota 5, in cui è riprodotto un brano della Continuatio der Chronik des Guillaume de Nangis, ed. H.J. Géraud, 1, Paris 1843 (Publications de la Société de l’Histoire de France, 33), p. 389: «[…] celebratur […] sessio secunda concilii generalis, rege Franciae Philippo, qui circa quadragesimam illic cum filiis et fratribus suis multorum peritorum, nobilium ac magnatum decenti pariter ac potenti comitiva vallatus advenerat, una cum cardinalibus, patriarchis, praelatis et aliis […] a dextris summi pontificis prae caeteris omnibus, in sede tamen inferiori aliquantulum sedente».


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torno al 1334), il “Discepolo” chiede al “Maestro” se i laici (in concreto, re o principi cristiani) possano partecipare ad un concilio ecumenico. Il “Maestro” risponde dapprima, in modo evasivo, che una assemblea non può essere considerata un concilio generale solo perché viene convocata dall’autorità papale. Altrimenti ogni seduta del concistoro (che allora si teneva tre volte la settimana) della curia romana (cui partecipavano i cardinali al fine di trattare degli affari correnti della curia) dovrebbe essere considerato un concilio generale. Ockham respinge così una concezione, secondo la quale il carattere di universalità del concilio sarebbe conferita dalla sola presenza del pontefice romano. Infatti il Maestro prosegue: «Piuttosto si deve considerare un concilio ecumenico quella riunione in cui si radunano in modo legittimo diverse persone che rappresentano tutte le diverse parti della cristianità per trattare questioni che riguardano il bene comune»6. In questo modo, si rifiuta l’identificazione della rappresentanza di una comunità in una sola persona, per esempio nel papa. Secondo Ockham, una comunità come la Chiesa deve necessariamente essere rappresentata da una pluralità di persone. Questa definizione del concilio, famosa e spesso citata in seguito, comprensibile solo a partire dal principio di rappresentanza, era tutt’altro che superflua nel momento in cui Ockham componeva il Dialogus. L’abbiamo visto, Ockham non ha per nulla inventato questo orizzonte concettuale: i papi lo avevano anticipato, nelle loro lettere di convocazione dei concilî, a partire dal XIII secolo. Tuttavia, nei testi normativi, come per esempio nel Decretum Gratiani o nella raccolte di decretali, come anche negli autorevoli commenti dei canonisti, si trovavano poche e vaghe affermazioni relative alla natura di un concilio ed alle modalità della sua convocazione e celebrazione7. Certo, allora ad ogni esperto era ben chiaro che da modello

6 Guillelmus de Occam, Dialogus I, VI.85, Lyon 1498 (ora in Guillelmus de Occam, Opera plurima, 1, London 1962), ff. 97rb-va; riprodotto in Monarchia Sacri Romani Imperii, 2, Frankfurt am Main 1618 (rist. Graz 1960), p. 603: «Discipulus: [...] Dic an secundum hoc possit aliquo modo probari, scilicet quod reges et principes et alii laici ad generale concilium debeant si voluerint convenire. Magister: [...] Ostendam tibi quare secundum quosdam una congregatio dicatur et non alia concilium generale [...]. Dicitur autem quod congregatio quecumque non ideo solummodo vocatur concilium generale, quia auctoritate summi pontificis convocatur - tunc enim omne consistorium cum papa esset concilium generale. Illa igitur congregatio esset concilium generale reputanda, in qua diverse persone gerentes auctoritatem et vicem universarum partium totius christianitatis ad tractandum de communi bono rite conveniunt». Il capitolo 85 è stato reso disponibile, senza edizione critica, da George Knysh all’indirizzo www.britac.ac.uk/pubS/dialogus/wtc.html. Sulla teoria conciliare di Ockham cfr. soprattutto H.J. Sieben, Die Konzilsidee des lateinischen Mittelalters: 847-1378, 1, Paderborn et alibi 1984, (Konziliengeschichte, Reihe B: Untersuchungen), pp. 410-469. 7 Cfr. per esempio la famosa Margarita Decreti seu tabula Martiniana di Martin von


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dovevano fungere i concilî ecumenici della chiesa antica, ed in particolare i primi quattro, per dirla con Gregorio Magno «quattro come i quattro vangeli»8. Le decisioni di questi concilî godevano quindi di un’autorità incontestata: tuttavia, era possibile discutere sulla composizione, sul diritto a partecipare, ma anche sui compiti e le competenze giuridiche di un concilio.

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La definizione di Ockham era particolarmente funzionale, perché individuava nella rappresentatività la caratteristica essenziale dei concilî e perché in quel modo la validità delle decisioni poteva essere giustificata in modo indipendente dalla Rivelazione (nei cui testi, in effetti, ben poco si poteva trovare sui concilî). A questo proposito, il Tardo Medioevo aveva interpretato come principio costituzionale generale una massima del diritto romano, «Quod omnes tangit, ab omnibus debet approbari» (ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti)9, originariamente valida solo nel campo del diritto privato. Questa massima costituisce lo sfondo, a partire dal quale vanno interpretate le idee di allora riguardanti la rappresentanza. Ciò che una assemblea rappresentativa decideva, doveva avere valore vincolante anche per tutti i rappresentati, che non si potevano sottrarre alle conseguenze anche economiche di quelle decisioni. Una volta che fosse rispettato il criterio della rappresentatività, le delibere erano valide anche al di là della cerchia dei presenti all’incontro. Gli inviti papali non miravano quindi ad estendere l’ambito del pubblico dei concilî, piuttosto a rafforzare il carattere vincolante delle loro incisive deliberazioni10. Inoltre, si poteva sperare che la

Troppau, citato qui secondo l’appendice dell’edizione a stampa del Decretum Gratiani, Venetiis 1582, senza paginazione, s.v. concilium; alla diciannovesima indicazione (su venti) si trova il rimando: «Quod solius est papae privilegium posse congregare generale concilium, 17 Dist. c. 1 et c. sq., 2 q. 5‚ Ideo» (Cfr. Di.17 c.1 u. 2; C.2 q.6 c.17; edito in Corpus Iuris Canonici, I: Decretum Gratiani, ed. Ae. Friedberg, Leipzig 1879 (rist. Graz 1956), rispettivamente col. 50s. e 471). 8 P. es. Gregorius I., Epistula I.24, in: Decretum Gratiani cit., D.15 c.2, col. 35: «Sicut sancti evangelii quattuor libros, sic quattuor concilia suscipere et venerari me fateor» (Cfr. anche Corpus Iuris cit., I, D.16 c.8, col. 45). 9 Su questo tema esiste una vivace discussione tra gli specialisti, tra gli altri cfr. G. Post, A Romano-Canonical Maxim “Quod omnes tangit” in Bracton, «Traditio», 4 (1946), pp. 197252; il saggio (che riassume posizioni precedenti) di A. Marongiu, Il principio della democrazia e del consenso “Quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet” nel XIV secolo, «Studia gratiana», VIII (1962), pp. 553-575, ora in A. Marongiu, Dottrine e istituzioni politiche medievali e moderne, Raccolta, Milano 1979 (Università di Roma, Facoltà di scienze politiche 39), pp. 255-279. 10 Su questo si vedano in particolare gli studi fondamentali di Gaines Post, riassunti in G. Post, Studies in Medieval Legal Thought, Princeton 1994.


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“rappresentanza” facilitasse la diffusione delle decisioni, dal momento che esse venivano poi riportate dai partecipanti negli ambiti di provenienza11. I problemi scottanti ed il clima ecclesiologico connesso con l’esplosione del “Grande Scisma d’Occidente” diedero un nuovo stimolo ad un concilio che fosse rappresentativo di tutta la cristianità occidentale. Già all’inizio dello scisma alcuni cardinali italiani avevano richiesto un concilio che superasse lo scontro tra i papi12. Tra 1379 e 1381, due “intellettuali” tedeschi attivi come docenti a Parigi, Corrado di Gelnhausen ed Enrico di Langenstein, avevano fatto circolare l’idea secondo la quale la controversia doveva essere risolta con un concilio generale13. Evidentemente, allora i tempi non erano ancora maturi. Le palesi difficoltà di un concilio privo di un papa, gli enormi problemi della sua convocazione e della sua guida erano ancora troppo inusitati, perché potesse avere immediatamente successo l’idea di una via concilii. Assistiamo invece, nelle corti e nelle università, a discussioni infinite sui modi più diversi per giungere ad una soluzione dello scisma14. Tuttavia, dopo più di un tentativo fallito in direzioni diverse15, si imboccò la strada del concilio, che a Costanza riuscì a risolvere il problema dell’unità della Chiesa.

11 La circostanza che la trasmissione manoscritta dei decreti conciliari non si possa far risalire senza difficoltà alla mediazione di questi partecipanti non contrasta con questa tesi. A proposito delle difficoltà di verifica da parte dei ricercatori, si vedano, come esempio, le indagini di P. Johanek, Synodalia. Untersuchungen zur Statutengesetzgebung in den Kirchenprovinzen Mainz und Salzburg während des Spätmittelalters, Würzburg 1978; P. Johanek, Methodisches zur Verbreitung und Bekanntmachung von Gesetzen im Spätmittelalter, in Histoire comparée de l’administration (IVe-XVIIIe siècles), cur. W. Paravicini - K.F. Werner, Sigmaringen 1980 (Beihefte der Francia, 9), pp. 88-101 (ristampato in P. Johanek, Was weiter wirkt, Recht und Geschichte in Überlieferung und Schriftkultur des Mittelalters, cur. A. Sander-Berke - B. Studt, Münster 1997, pp. 211-224); ma si veda anche S. Unger, Generali concilio inhaerentes statuimus. Die Rezeption des Vierten Laterankonzils (1215) und des Zweiten Lugdunense (1274) in den Statuten der Erzbischöfe von Köln und Mainz bis zum Jahr 1310, Mainz 2004 (Quellen und Abhandlungen zur mittelrheinischen Kirchengeschichte, 114), in particolare pp. 48 s. 12 Su questo tema si veda per esempio G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Brescia 1981(Testi e ricerche di scienze religiose, 19). 13 Cfr. J. Miethke, Konziliarismus - die neue Doktrin einer neuen Kirchenverfassung, in Reform von Kirche und Reich zur Zeit der Konzilien von Konstanz (1414-1418) und Basel (1431-1449), a cura di I. Hlaváèek - A. Patschovsky, Konstanz 1996, pp. 29-59: 52-53. 14 Un canonista di Heidelberg ha elencato, secondo lo stile tipico della Scolastica, sotto forma di lista, tutte le proposte che vennero avanzate, raccogliendo alla fine non meno di 32 viae diverse: cfr. R.N. Swanson, A Survey of Views on the Great Schism, c. 1395, «Archivum Historiae Pontificiae», 21 (1983), pp. 79-103. 15 Qui va ricordato in particolare il concilio di Pisa, convocato da cardinali di entrambe le obbedienze, al quale presero parte numerosi inviati di principi cristiani, tra i quali


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Per il nostro intento è sufficiente constatare che nei quaranta anni che vanno dal 1409 al 1449 si sono tenute assemblee della Chiesa, a Pisa, a Costanza, a Pavia-Siena, a Basilea ed a Ferrara-Firenze, che sono state considerate concilî ecumenici16. Questi concilî, pur riconosciuti come tali, furono molto diversi tra loro, ebbero una partecipazione differenziata e una durata molto diversa, da alcune settimane (Pisa) a 18 anni o, per essere più precisi, 6579 giorni (Basilea)17.

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I concilî ecumenici erano o, meglio, volevano essere assemblee di tutta la Chiesa (latina). Le cifre dei partecipanti sono, in considerazione delle condizioni di vita e di comunicazione del Medioevo, notevoli18. Se per il concilio di Pisa una lista enumera 795 (settecentonovantacinque) partecipanti19, se per Costanza una valutazione delle liste conservate è giunta ad una stima di 3000 padri conciliari20, se per Basilea le liste di “incorporazione” dal 1431

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anche una ambasceria del tedesco “Re dei Romani” Ruperto del Palatinato, che espressamente mise in discussione la competenza del concilio. Su questo concilio ed i suoi problemi, in foma sintetica, cfr. A. Landi, Il papa deposto (Pisa 1409). L’idea conciliare nel Grande Scisma, Torino 1985 (Studi storici, 12), con ricche indicazioni bibliografiche; sulla questione della rappresentanza a questo Concilio si veda anche H. Millet, La représentativité, source de la légitimité du concile de Pise (1409), in Théologie et droit dans la science politique de l’État moderne, Rome 1991 (Collection de l’École française de Rome, 147), pp. 241-261. 16 La terza edizione dei Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cur. G. Alberigo - G.A. Dossetti - P.P. Joannou - C. Leonardi - P. Prodi, cons. H. Jedin, Bologna 19733, comprende soltanto due di questi (non quello di Pisa e non quello di Pavia-Siena), ma dovrebbero essere ricompresi tutti nella quarta edizione di questa autorevole raccolta. 17 Cfr. J. Helmrath, Kommunikation auf den spätmittelalterlichen Konzilien, in Die Bedeutung der Kommunikation für Wirtschaft und Gesellschaft, cur. H. Pohl, Stuttgart 1989 (Vierteljahreshefte für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Beihefte, 87), pp. 116-172, in particolare p. 123. 18 Ci è stata tramandata una lista dei partecipanti già per il IV Concilio lateranense, cfr. A. Luchaire, Un document retrouvé, «Journal de Savants», n. ser., 3 (1905), pp. 557-568, ristampato in C.J. Hefele - H. Leclercq, Histoire des conciles, V/2, Paris 1913, Appendix III, pp. 1722-1733. 19 Cfr. J. Leinweber, Ein neues Verzeichnis der Teilnehmer am Konzil von Pisa 1409. Ein Beitrag zu seiner Ökumenizität, in Konzil und Papst, Historische Beiträge zur Frage der höchsten Gewalt in der Kirche, Festgabe für Hermann Tüchle, a cura di G. Schwaiger, München et alibi 1975, 207-246: 221-246. 20 Cfr. J. Riegel, Die Teilnehmerlisten des Konstanzer Konzils. Ein Beitrag zur mittelalterlichen Statistik, Freiburg 1916 (stampato senza le liste contenute nell’appendice dell’originale, liste che sono tuttavia conservate in forma manoscritta e sono utilizzabili presso il Kirchengeschichtliches Seminar a Friburgo, nel Konstanzer Stadtarchiv di Costanza e presso l’Historisches Seminar di Heidelberg); a questo proposito si veda il contributo dello scopritore di queste liste T.M. Buck, Die Riegelschen Teilnehmerlisten. Ein wissenschaftsgeschichtliches Detail der Konstanzer Konzilsforschung, «Freiburger Diözesanarchiv», 118 [1998], pp. 347-356).


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all’agosto 1442 contano non meno di 3326 nomi21, è chiaro che queste cifre non comprendono tutti coloro che erano presenti nei luoghi in cui si riuniva il concilio. «Non avevano con sé nemmeno un cuoco?» viene da chiedersi con il lettore operaio di Bertolt Brecht22. Con tutta evidenza, in queste liste mancano la servitù dei signori, ma anche gli avventurieri e gli affaristi che cercavano di trarre vantaggio dalla situazione, per non parlare dei musicanti e dei rappresentanti dei banchieri italiani23. Una delle liste composte a Costanza descrive questo seguito così variegato: «189 scrivani della curia papale, 1500 cortigiani, 1700 semplici sacerdoti, 73 cambiavalute provenienti dalla Francia, 49 originari di Firenze […] 228 sarti, 45 araldi, 346 tra attori, suonatori di tromba e simili, 306 barbieri e simili». È evidente che si tratta di personale necessario per le celebrazioni ed i festeggiamenti solenni: a che altro, infatti, potevano servire araldi e trombettieri? Ed infine l’osservatore enumera «più, o comunque non meno di 700 mulieres communes», con il che appare anche qui, in occasione della assemblea ecclesiastica, la schiera delle vivandiere che di solito accompagnava gli eserciti24. Non può stupire, quindi, che il Cardinale Fillastre stimi a 400 persone la consistenza della nazione più numerosa presente al concilio, la francese, dichiarando esplicitamente di limitarsi alle «personae honestae», con il che lascia intendere la presenza di persone “non onorabili”25.

21 Cfr. D.L. Bilderback, The Membership of the Council of Basle, Washington 1966; cifre in parte discordanti in M. Lehmann, Die Mitglieder des Basler Konzils von seinem Anfang bis August 1442, Wien 1945 (dattil.); J. Helmrath, Das Basler Konzil 1431-1449, Forschungsstand und Probleme, Köln-Wien 1987 (Kölner Historische Abhandlungen, 32), p. 21. 22 Nella poesia Fragen eines lesenden Arbeiters [Domande di un lettore operaio] (1935): «Der junge Alexander eroberte Indien. / Er allein? / Cäsar schlug die Gallier. / Hatte er nicht wenigstens eine Koch bei sich?» [Il giovane Alessandro conquistò l’India / Da solo?/ Cesare sconfisse i Galli. / non aveva con sé nemmeno un cuoco?]; cito da Bertolt Brecht, Werke (Große kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe), cur. W. Hecht - J. Knopf - W. Mittenzwei - K.-D. Müller, 12 (Gedichte 2), Berlin-Weimar-Frankfurt am Main 1988, p. 29. 23 In modo sintetico Helmrath, Basler Konzil cit., pp. 169-170 ( a proposito dei musicanti) e 170-172 (a proposito dei banchieri). 24 Cito dalla lista contenuta nel famoso Codex Elstrawiensis (oggi a Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, cvp 5070), e stampata in H. von der Hardt, Magnum oecumenicum concilium Constantiense, 5-7, Frankfurt-Leipzig 1699, pp. 12-50. 25 Guilleaume Fillastre, Gesta concilii Constantiensis, a cura di H. Finke (con la collaborazione di J. Hollnsteiner), in Acta concilii Constantiensis, 2, Münster i. W. 1923, pp. 13170, nello specifico p. 23 (riferito agli inizi del marzo 1415): «Cum autem nacio Gallicana esset multum solenniter congregata, et ut apparebat prima facie maior omnium nacionum et in numero et in meritis personarum, cum haberet quadringentas personas honestas, voluit deliberare».


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Lavoro e festa ai concilî

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Le liste dei partecipanti al concilio comprendevano anche coloro che si facevano rappresentare, in assenza, da inviati o da procuratori per sottolineare il fatto che era “presente” la totalità della Chiesa; né, d’altra parte, e questo è significativo, nessun documento registra l’effettiva durata del soggiorno dei padri conciliari. Solo faticosi studi particolari ci consentono di ricostruire gli effettivi tempi di permanenza. A Basilea, come è ovvio, questi periodi variavano in modo notevole, dal momento che alcuni padri conciliari si trattennero per alcuni mesi (Juan de Palomar o Juan Gonzalez), altri per 17 anni (per esempio Juan de Segovia).

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Le persone registrate negli elenchi non furono mai presenti contemporaneamente: ciononostante, provvedere al mantenimento di tutti coloro che partecipavano ai concilî rimaneva una sfida grandiosa per le città ospiti: Costanza aveva, allora, dai 6000 ai 7000 abitanti, Basilea avrà avuto dai 1000 ai 2000 in più. Con queste basi di partenza, ospitare centinaia o, nei momenti più intensi, migliaia di persone implicava un grande impegno. Dovevano essere alloggiati, nutriti con il loro seguito e le loro bestie da trasporto e, nel tempo libero, intrattenuti e perfino fatti divertire.

Tutte le città ospiti di concilî affrontarono questo compito con notevole abilità, imparando le une dalle altre. Gli abitanti di Basilea chiesero informazioni a Costanza, non appena la loro città fu definitivamente scelta (1424) come sede del concilio26. Già costituivano un problema un controllo efficiente dei prezzi e degli affitti ed il procurarsi le derrate alimentari sufficienti. Non dovevano però essere sottovalutate le possibilità di guadagno aperte dalla presenza di ospiti paganti, senza trascurare l’attrattiva esercitata dagli eventi connessi alla celebrazione del concilio. I concilî celebravano le loro sedute ufficiali con cerimonie religiose nella più grande chiesa della città, il cui assetto, soprattutto quanto al mobilio, veniva profondamente trasformato dalla presenza dei padri conciliari. Anche le altre chiese della città servivano a scopi connessi con il concilio, sedute di commissioni, consultazioni delle singole nationes, incontri di natura assai diversa. Professori dell’Università di Parigi e cardinali, che si ricordavano del loro passato di professori, portavano dall’università il metodo che serviva ad una duplicazione non costosa dei testi, la dettatura di gruppo, la cosid-

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Cfr. R. Wackernagel, Geschichte der Stadt Basel, 1, Basel 1907, in particolare p. 483.


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detta pronuntiatio. In una chiesa un lettore incaricato dava pubblica lettura di una memoria conciliare che pareva importante al suo autore, procedendo lentamente e con chiarezza per consentire la lettura. Chi voleva, poteva sedersi e riempire interi quaderni, dal momento che talvolta i trattati erano assai lunghi. Queste dettature di gruppo duravano più giorni, talvolta settimane27.

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Immaginiamo quale incuriosito stupore coglieva i cittadini che la domenica ed i giorni di festa potevano vedere sfilare vescovi e chierici spesso vestiti con fogge del tutto inusuali, che avanzavano in gran numero per le strette strade della città! In effetti, chi era presente doveva farsi vedere. I signori di rango ed i prelati, negli spostamenti, facevano portare i loro stemmi, per farsi riconoscere: già solo questo aggiungeva sfarzo e pompa alle processioni. E che delizia per gli occhi l’elezione di un nuovo papa, nei conclavi di Costanza o di Basilea! Già quando gli elettori entravano in conclave, ed una processione invocava l’assistenza dello Spirito Santo, ma soprattutto quando veniva annunciato il risultato, ciò costituiva per una città tedesca del tempo uno spettacolo del tutto eccezionale, un grande evento indimenticabile. E con ciò non si è detto ancor nulla delle diverse attività degli ospiti di alto rango, che si invitavano vicendevolmente a banchetti e visite, tenevano riunioni ed ovviamente si dedicavano agli usuali divertimenti nobiliari. L’imperatore Sigismondo onorò per mesi la città di Costanza con la sua presenza, lasciando poi alla fine grandi debiti mai onorati. D’altra parte, giungendo nella città nel Natale del 1414, arricchì la solenne messa di Natale con un rituale particolare, stupefacente per gli abitanti di Costanza, quando, durante la lettura del vangelo di Luca, lesse egli stesso ad alta voce la frase «in quei giorni un decreto di Cesare Augusto […]», sfoderò la sua spada e sferrò come un grande colpo nell’aria, quasi a dimostrare a tutto il mondo di essere il successore di quell’imperatore. Anche la pompa, adeguata al loro status, con la quale i partecipanti al concilio si presentavano in pubblico, la vita di corte dei principi presenti in città e le ambasciate che vi giungevano,

27 Su questo tema si vedano le osservazioni generali di W. Wattenbach, Das Schriftwesen im Mittelalter, Leipzig 18963 (rist. anast. Graz 1956), pp. 563-565; al proposito si veda inoltre, p. es., J. Miethke, Die mittelalterliche Universität und das gesprochene Wort, Historische Zeitschrif », 251 (1990), pp. 1-44, in particolare pp. 23 ss. (ora in J. Miethke, Studieren an mittelalterlichen Universitäten. Chancen und Risiken , Leiden-Boston 2004 [Education and Society in the Middle Ages and Renaissance, 19], pp. 453-491, in part. pp. 469472, con ulteriori indicazioni bibliografiche).


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offrivano non scarsa materia di ammirazione, come si può desumere dalla cronaca del Concilio redatta dal cittadino di Costanza Ulrich di Richental28. Per un breve periodo di tempo città episcopali tedesche diventavano l’ombelico del mondo o – per lo meno – una delle capitali della Cristianità. Ciò risultava per le città ed i loro abitanti di importanza eccezionale ed aveva una forza di aggregazione paragonabile a quella di una festa. Concilium celebrare

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Anche i partecipanti al concilio vivevano la loro presenza come una celebrazione ed una festa. Concilium celebrare, questa espressione sempre ripetuta in riferimento ai concilî, si pone29, già con questa scelta linguistica, a metà tra una liturgia solenne ed una grande festa. La regolamentazione dei lavori, i protocolli delle votazioni e delle decisioni imitavano senza dubbio da sempre la liturgia, e come modello possono essere stati efficaci i sinodi diocesani, che i vescovi celebravano con il loro clero. Il Concilio iniziava con il canto Veni creator Spiritus. Ogni seduta ufficiale cominciava con una messa; omelie e sermoni religiosi erano spesso intercalati ai lavori, in modo più o meno ufficiale. L’assemblea conciliare era come permeata di liturgia e quindi di celebrazioni religiose30. Tuttavia i concilî tradomedievali riuscirono ad

28 Utilizzo l’edizione Ulrich (von) Richenthal, Chronik des Constanzer Concils, 1414 bis 1418, cur. M.R. Buck, Stuttgart 1882 (rist. anast. 1971); Thomas M. Buck lavora ad una nuova edizione. Sintetica la voce a firma di Dieter Mertens, in Verfasserlexikon, a cura di Kurt Ruh et al., 8 (1990), pp. 55-60; sarà pubblicata a breve una tesi di abilitazione presentata all’Università di Friburgo di Thomas M. Buck dedicata ai problemi della tradizione manoscritta della cronaca di Richental. Per ora cfr. G. Wacker, Ulrich Richentals Chronik des Konstanzer Konzils und ihre Funktionalisierung im 15. und 16. Jahrhundert, Aspekte zur Rekonstruktion der Urschrift und zu den Wirkungsabsichten der überlieferten Handschriften und Drucke, Tübingen 2001 (w210.ub.uni-tuebingen.de/dbt/volltexte/2002/520/, visitato per l’ultima volta il 12.05.2008). 29 Cfr. solo il decreto Frequens del Concilio di Costanza: Conciliorum Oecumenicorum Decreta cit., pp. 438-439 (riprodotto anche in Quellen zur Kirchenreform im Zeitalter der großen Konzilien des 15. Jahrhunderts, 1: Die Konzilien von Pisa [1409] und Konstanz [1414-1418], cur. J. Miethke - L.Weinrich, Darmstadt 1995 [Ausgewählte Quellen zur deutschen Geschichte des Mittelalters, Freiherr vom Stein-Gedächtnisausgabe, 38a], pp. 484-487 [n. XIII]). Il decreto fu accolto e di nuovo approvato a Basilea, già nel corso della prima seduta generale: Conciliorum Oecumenicorum Decreta cit., p. 456 (riprodotto anche in Quellen zur Kirchenreform cit., 2, Darmstadt 2002 [Freiherr vom Stein-Gedächtnisausgabe, 38b], pp. 178-181 [n. VII]). 30 A questo proposito si veda p. es. B. Schimmelpfennig, Zum Zeremoniell auf den Konzilien von Konstanz und Basel, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 49 (1969), pp. 273-292.


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andare al di là di una rigida proclamazione di canones nuovi o semplicemente rinnovati, una forma che aveva dominato ancora i sinodi riformatori dell’XI secolo31. Conosciamo regolamenti che hanno guidato in modo del tutto affidabile discussioni e decisioni per lunghi periodi di consultazioni, nel caso del concilio di Basilea per anni32. Per redigere tali regolamenti ci si rifaceva all’esperienza che molti dei partecipanti avevano fatto presso le corti dei principi, o al servizio di prelati, nei Comuni o nelle Università, confrontandosi con discussioni più o meno ordinate, con complessi sistemi di votazione e con difficili procedure decisionali. Inoltre, i canonisti si offrivano come punti di riferimento riconosciuti da tutti, della cui affidabilità nessuno dubitava. I concilî si orientarono quindi in generale secondo le regole del diritto canonico, di cui a loro volta promossero uno sviluppo. È molto raro che le fonti riferiscano di discussioni sul modo di procedere, anche se non era escluso che alcuni interessati perseguissero i loro scopi in modo particolarmente efficace, utilizzando in modo abile le regole a proprio favore e superando gli oppositori con sotterfugi. Nel complesso si dovrà riconoscere al concilio un modo di procedere corretto. La libertas dicendi, la libertà di discussione, che all’inizio era stata rivendicata con forza e di cui si andava fieri33, non portò al caos che alcune parti paventavano, ma a risultati visibili, anche se questi ebbero poi un successo molto differenziato nell’influenzare l’effettiva vita delle chiese europee.

31 Significativo a questo proposito soprattutto J. Laudage, Ritual und Recht auf päpstlichen Reformkonzilien (1049-1123), «Annuarium historiae conciliorum», 29 (1997), pp. 287-334. 32 Sulle norme procedurali adottate al concilio si veda soprattutto Helmrath, Basler Konzil cit., pp. 21-58; vanno prese in particolare considerazione la ricerca di P. Lazarus, Das Basler Konzil, seine Berufung und Leitung, seine Gliederung und Behördenorganisation), Berlin 1912 (Historische Studien, 100), rist. anast. Vaduz 1963, ed ora quella di S. Sudmann, Das Basler Konzil, Synodale Praxis zwischen Routine und Revolution, Frankfurt am Main et alibi 2005 (Tradition – Reform – Innovation, 8), che indaga in modo approfondito teoria e prassi della normativa procedurale del Concilio. 33 Questo aspetto risultò importante già per i partecipanti al Concilio di Costanza; lo dimostra Guilleaume Fillastre, Gesta cit., il quale narra (cfr. p. 23) che la chiusura delle porte della città disposta dall’imperatore Sigismondo per impedire la partenza dei padri conciliari dopo la fuga di papa Giovanni XXIII causò grave preoccupazione. Secondo questa fonte in questo modo fu impedita a Pietro Stefaneschi degli Annibaldi (Cardinale diacono di Sant’Angelo) anche la sua usuale passeggiata davanti alle porte della città; «et dicitur, quod coram tabellionibus fuit protestatus de vi et metu, et quod amodo illa que faceret essent metu et vi facta et quod volebat omnia facere in libertate». In questo brano si allude alla nullità legale degli atti che vengono compiuti per timore o subendo violenza; cfr. il passo di Ulpiano contenuto nel Corpus iuris civilis: Dig. 4.2.1: «[Ulpianus] Ait praetor: “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”. Olim ita edicebatur: “quod vi metusve causa” […]». Sul problema della libertas dicendi al concilio di Basilea si veda soprattutto Helmrath, Basler Konzil cit., pp. 27-29.


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L’euforia dei partecipanti al Concilio, fieri e contenti di essere stati presenti, emerge chiaramente da molte lettere e documenti. Questo segno di una coscienza “festosa”, per così dire, non si spiega solamente con il ricordo del lavoro svolto e dei risultati più o meno visibili raggiunti nelle consultazioni, ma sulla base della possibilità – fino ad allora inedita – di una comunicazione, che rendeva possibile incontrare da vicino conoscenti e sconosciuti, specialisti provenienti da diverse “nazioni” e regioni d’Europa. Prima di allora ciò era stato possibile, ed in misura molto più limitata, nelle corti dei sovrani più importanti ed alla curia papale: in questi luoghi si potevano incontrare delegazioni di altri paesi, ma solo a condizione di essere presenti contemporaneamente. Al Concilio invece era disponibile il tempo necessario ad allacciare contemporaneamente contatti con persone di diversa provenienza. In questo modo il Concilio offri un’opportunità che parve irripetibile: il cardinale Guillaume Fillastre annotò, durante il concilio di Costanza in un codice della Cosmographia di Claudio Tolomeo, le seguenti parole: «Io, Guglielmo, cardinale di San Marco, ho fatto copiare per me questo libro qui [a Costanza] dopo che per molti anni lo avevo cercato invano, avendone reperito una copia proveniente da Firenze; ora lo dono alla biblioteca della cattedrale di Reims, che prego di custodirlo con cura, perché penso che sia la prima copia giunta in Francia»34. In questa frase commossa cogliamo ancora la soddisfazione dei partecipanti al concilio, che avevano per la prima volta possibilità di scambio e discussione, di studio e di confronto, anche indipendentemente dalle consultazioni conciliari in senso stretto. Il mercato dell’informazione e del sapere apparve improvvisamente non avere confini. Dovettero percepirlo come una festa (intellettuale), che avrebbe arricchito il loro futuro lavoro. Qui mi fermo. Abbiamo gettato uno sguardo ai concilî del tardo medioevo per vedere in che modo hanno espresso il carattere festoso di una riunione rappresentativa ed in che rapporto stessero con il lavoro quotidiano dei padri conciliari. Ci siamo chiariti come hanno festeggiato ed abbiamo anche tentato di avvicinarci al fascino che una partecipazione poteva esercitare anche al di fuori delle effettive decisioni conciliari, e che in effet-

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Ms. Reims, Bibl. mun. 1320, f. 1r: «Ego Guillelmus cardinalis S. Marci hunc librum, quem habere multis annis prosequutus sum et habitum de Florencia transscribi hic feci, dono bibliothece ecclesie Remensis, quem bene custodiri precor; credo enim hunc librum esse primum in Galliis».


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ti esercitò sugli “intellettuali” europei del XV secolo. È vero che così facendo abbiamo messo a fuoco solamente un aspetto limitato della vita “conciliare”, ma penso che sia molto importante. Infatti, le celebrazioni conciliari hanno influenzato per decenni la politica europea, fornendole modelli e temi. Quando già l’era dei concilî era finita, il congresso dei principi di Mantova, al quale Pio II (Enea Silvio Piccolomini, egli stesso un protagonista del concilio, agli inizi della sua carriera) tentò inutilmente di convincerli ad una crociata contro i Turchi, si rifece, nelle forme esteriori, a quelle conciliari. La festa, che qui nel Convegno di Ascoli è stata al centro di tutte le riflessioni, nella sua manifestazione conciliare della prima metà del Quattrocento ha raggiunto migliaia di persone, influenzandone la formazione. L’Istituto Cecco d’Ascoli ci ha accolto tutti con un convegno preparato grazie ad un notevole lavoro. Mi ha procurato una grandissima gioia conferendomi il premio Ascoli Piceno, per il quale sono grato dal più profondo dell’animo. Inoltre ha inserito la premiazione nell’atmosfera di festa che oggi ci circonda. In questo modo l’Istituto e gli Enti che lo sostengono hanno svolto una funzione anticipata dai grandi concilî tardomedievali, unendo festa e lavoro, festa che suggella un lavoro ed un lavoro che si traduce in festa. Possa questo portare frutti per tutti noi anche in futuro. Ancora grazie di tutto cuore35.

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Non ho mutato nulla del testo che fu letto a Ascoli, il 2 dicembre 2006, in occasione del conferimento del Premio Internazionale Città di Ascoli; sono stati solamente reinseriti alcuni brani che erano stati tralasciati per ragioni di tempo. La traduzione, basata sulla prima redazione in tedesco, è del Prof. Roberto Lambertini, che ringrazio di tutto cuore.


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Avvertenza

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Nel redigere l’indice dei nomi di persona e di luogo del presente volume, sono state mantenute le modalità impiegate per l’indice del volume su Cecco d’Ascoli. Cultura, scienza e politica nell’Italia del Trecento; l’unica differenza significativa riguarda l’aggiunta della specificazione della nazione di appartenenza delle città non italiane (per indicazioni geografiche più generiche, riferentisi a regioni o simili, non si è aggiunto nulla). Inoltre, pur essendo un indice di nomi di persona e di luogo, sono stati inseriti anche i nomi propri dei cavalli menzionati nei vari contributi, sia perché alcuni personaggi non sono identificabili se non come padroni di un certo cavallo, sia per il loro ruolo nello svolgimento di molte delle occasioni di festa descritte. Sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni:

ambasc. = ambasciatore canc. = cancelliere canc. imp. = cancelliere imperiale cap. = capitano card. = cardinale cav. = cavaliere ciamb. = ciambellano conv. = convento cron. = cronista f. = figlio fam. = famiglia gov. = governatore gramm. = grammatico

imp. = imperatore lett. = letterato maresc. = maresciallo OFM = Ordo Fratrum Minorum OFP = Ordo Fratrum Praedicatorum OSA = Ordo Sancti Augustini scud. = scudiero segr. = segretario sig. = signore stamp. = stampatore stor. = storico v. = vedi vesc. = vescovo


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Angoulême (Francia), 19 Saint-Pierre, cattedrale, 19 Anna, santa, 61, 65 Anna di Cipro, moglie di Ludovico di Savoia, 179, 186, 187,188, 192 Annecy (Francia), 193 Anonimo romano, cron., 90, 117, 118 Anonimo senese, cron., 116 Antonino, santo, 126 Antonio abate, santo, 123 Aosta, 191, 194 San Francesco, chiesa, 194 Appiani P. A., 46 Appiano Antonio, ambasc. di Milano, 197 Appignano (MC), 62 Aquitania, v. Eleonora Aragona, 73, 74, 76, 144 e v. anche Federico; Ferrante I Arcangeli A., 137-150 Ariés Ph., 215 Aristotele, 147, 148 Armagnac (Francia), 174 Arnaldi G., 89, 104 Arquà Petrarca (PD), 148 Arras (Francia), 187 Arrigo VII, v. Enrico VII Arsuaga J. L., 40 Artù, mitico re di Britannia, 24, 25, 28 Asburgo (d’) Rodolfo IV, duca d’Austria, 16 Ascoli Piceno, 44, 47, 51, 53, 57, 58, 59, 61, 62, 65, 66, 236, 249 e v. anche Cecco Arengo, Arringo, 56, 57, 59, 64 Catacombe di Campo Patrignano, 44, 46 Corso Mazzini, 56, 58, 62 Corso Vittorio Emanuele, 56, 58 Palazzo dei Capitani, 54 Piazza del Popolo, 66 Piazza dell’Arengo, Piazza Arringo, 45, 52, 55, 56, 58, 64, 66 Piazza Sant’Agostino, 55, 64 Piazza Ventidio Basso (piazza de socto), 66 Piazzarola, sestiere, 52 Porta Maggiore, sestiere, 52

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E

A Tribus, cavallo, 59 Acaia, 176 Acaia (d’), Amedeo, 176 Accone (Acri, Israele), 15 Acquaviva Picena (AP), 52 Adamo, personaggio biblico, 95 Adamson J., 140 Adriano, padrone del cavallo Baiardo, 59 Agnello (dell’), Francesco Acuto, sig. di Lucca, 116 Agnello (dell’), Giovanni, sig. di Pisa e Lucca, 116 Agnello (dell’), Gualtiero, sig. di Pisa, 116 Agnello Ravennate, 17 Agnolo di Tura del Grasso, cron., 116 Agostino d’Ippona, santo, 94 Aimery de Magnac, vesc. di Parigi, 77 Alato Pegaso Figlio dell’Aurora (l’), cavallo, 59 Alberigo G., 241, 242 Albornoz Egidio, card., 124 Aldobrandini, fam., 58 Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 220 Alessandro Magno, 18, 26, 243 Alfonso I, re d’Aragona, 117 Alfonso III, re d’Aragona, 74 Alfonso X el Sabio, re di Castiglia, 81 Alighieri Dante, 27, 94 Aliverti M. I., 140 Allmand C. T., 198 Alpi, 174 Alvitreti Orazio, padrone del cavallo Non Creduto, 59 Amatrice (RI), v. Cola Amelia (TR), 159, 162, 163, 164 Amiczo Chiquart, maître de cuisine di Amedeo VIII di Savoia, 186, 188 Ammiano Marcellino, 50 Andegavi, v. Angers Andenmatten B., 174 Andenna G., 229 Andrea, sedicente re di Napoli, 91 Angelini Rota G., 53 Angers (Francia), 17, 18 Angiò, v. Carlo; Ludovico I; Renato I


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Sant’Emidio, sestiere, 52 Sant’Emidio alle Grotte, necropoli ipogea, 45, 46, 63 Sant’Emidio Rosso, tempietto, 63 Sant’Erasmo, v. Santa Maria del Carmine Sant’Ilario, chiesa, 46 Santa Maria del Carmine (antica Sant’Erasmo), detta San Rasino, chiesa, 56, 58 Santa Maria in Solestano, conv., 52 Asburgo (d’) Alberto (Albrecht), imp., 75, 81 Asi, mitico fondatore di Ascoli, 46, 63 Assisi (PG), v. Francesco Atene (Grecia), 115, 116 Atri (TE), 61 Aubonne (Svizzera), 182 Aue (Germania), v. Hartmann Austria, 189 Autrand F., 78 Aymaville (Svizzera), 194, 195 Azincourt (Francia), 14

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E

Porta Romana, sestiere e porta, 52, 55, 56, 58 Porta Solestà, sestiere, 52 Porta Tufilla, sestiere, 52 Sancta Maria inter le vigne, quartiere medievale, 52 Ponte Majore, sestiere medievale, 52 Sancta Maria, sestiere medievale, 52 Sancto Anastasio, sestiere medievale, 52 Sancto Christofaro, sestiere medievale, 52 Sancto Francisco, sestiere medievale, 52 Sancto Petro Adammo, sestiere medievale, 52 Sancto Emidio, quartiere medievale, 52 Canneta, sestiere medievale, 52 Capo le chiaviche, sestiere medievale, 52 Pede la Ringa, sestiere medievale, 52 Pedi de le chiaviche, sestiere medievale, 52 Piaza, sestiere medievale, 52 Sancto Blaxio, sestiere medievale, 52 Sancto Jacobo, quartiere medievale, 53 Laco, sestiere medievale, 53 Pede de lu merchato, sestiere medievale, 53 Ponte Solestane, sestiere medievale, 53 Porta Romana, sestiere medievale, 53 Sancto Jacobo, sestiere medievale, 53 Tribio, sestiere medievale, 53 Sancto Venantio, quartiere medievale, 52 Casale novo, sestiere medievale, 53 Grocte, sestiere medievale, 52 Sancto Augustino, sestiere medievale, 53 Sancto Venantio, sestiere medievale, 53 Scaye, sestiere medievale, 53 Secte soglie, sestiere medievale, 53 San Rasino, v. Santa Maria del Carmine

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Babilonia (Al Hillah, Iraq), 19 Bâgé (Francia), 178, 193, 203 Baglioni Astorre, sig. di Perugia, 32 Bagni di Petriolo (SI), 226, 227 Baiardo, cavallo, 59 Baiazetto detto Ruggero, fantino, 58 Bak J. M., 216 Balaam, personaggio biblico, 219 Baldovino V, conte di Hainaut, 22, 23 Balena S., 51 Balestracci D., 29-36, 117, 222 Baluze E., 75 Bar-sur-Aube (Francia), 77 Baratto M., 144 Barber R., 16, 17, 20 Barberini Antonio, card., 36 Barberis W., 142 Barbero A., 175, 179, 180, 184, 187, 193, 194, 195, 196 Barbo Pietro, v. Paolo II Barcellonette (Francia), conv., 182


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Bernardo di Clairvaux, santo, 27 Beroaldo Filippo, umanista, 147 Berry, 74, 76, 77, 78, 174 Bertelli S., 182, 194 Bertoldi S., 90 Bertoldo, contadino, 92 Bertrand Jean, vesc. di Tarantasia, 179 Berzi Andrea, vesc. di Kalocza, 179 Bettoni F., 44 Biganti T., 36 Bianchi P., 173 Bianchi S. A., 121, 223 Bilderback D. L., 243 Biondi C., 39 Bisenti (TE), 60 Blancardi N., 182 Boccaccio Giovanni, 91 Boemia, 73, 78 Boisseuil D., 227 Bollati di Saint-Pierre F. E., 196 Bologna, 99, 115, 124, 154, 155, 156, 158, 162, 163, 168, 169, 223 San Domenico, basilica, 156 San Francesco, basilica, 155 Bonazzi G., 114 Boncompagno da Signa, gramm., 21 Bongi S., 115 Bonifacio, santo, 102 Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 32 Bono Gregorio, pittore, 177 Boquet, v. Morel Pierre Borbone, fam. e regione, 76, 78, 174, 187, 195 Bordone R., 198, 199 Borghese, fam., 58 Borgia Rodrigo, v. Alessandro VI Borgogna, 22, 23, 74, 77, 78, 174, 175, 176, 179, 181, 184, 187, 188, 189, 195, 197, 198, 199, 200, 202 e v. anche Maria Boucicaut (Jehan le Maingre), maresc. di Francia, 13, 15 Boulton D’A. J. D., 200 Bouquet Boyer M. T., 177, 192 Bourdieu P., 78 Bourdin Maurice, v. Gregorio VIII

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E

Barker J., 16, 17, 20 Barnaba, santo, 132, 223 Baroja J. C., 101, 109 Bartocci G., 45 Bartolomeo del Corazza, cron., 33, 117 Basilea (Svizzera), 174, 177, 178, 187, 196, 242, 244, 245, 246, 247 Basso Ventidio, 66 Battaglino, fantino, 58 Baud H., 179, 187 Baviera, 117 Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria, 16 Beatrice di Portogallo, moglie di Carlo II di Savoia, 184 Beaufort (de) Jean, canc. di Amedeo VIII di Savoia, 180 Beauvais (Francia), 77 Bedford (Inghilterra), 187 Béhar P., 140 Bejczy I., 149 Beleth (Beletus) Jean, teologo, 100, 219 Belfanti C. M., 161 Belgio, 22 Bell C., 72 Bellaguet L., 16, 74 Belting H., 218 Bembo Pietro, personaggio del Cortegiano, 143 Benci, fam., 32 Benci Tommaso, 32 Benedetto, canonico, 100, 102, 103, 106, 107, 109, 110 Benedetto IX (Giovanni Mincio, detto Minchio), antipapa, 89 Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 43 Bentivoglio Giovanni, sig. di Bologna, 115 Bentley J. H., 145 Benvenuti Papi A., 45, 46, 219 Berardo di Massio, podestà di Ascoli, 44 Bernardino da Feltre, 125, 126, 128, 129, 132, 155, 160 Bernardino da Siena, 123, 126, 128, 129, 167, 221 Bernardo II, vesc. di Ascoli, 45


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Capecci I., 40 Capestrano (AQ), v. Giovanni Caracciolo Roberto, 164, 165 Cardinali C., 128 Cardini F., 13, 21, 26, 28, 50 Cardona (Spagna), v. Rafael Cardoni Ottaviano, cap., padrone del cavallo Piccino, 59 Carducci G., 115 Carew-Reid N., 220, 222 Carignano (TO), 176 Carinzia, 16 Carlo I, detto il Temerario, duca di Borgogna, 200 Carlo I, duca di Borbone, 187 Carlo III di Durazzo, re di Napoli, 115 Carlo IV di Lussemburgo, imp., 16, 73, 74, 77, 78, 79 Carlo V, re di Francia, 13, 73, 74, 77, 78, 79 Carlo VI, re di Francia, 16, 73, 76, 80, 82 Carlo VII, re di Francia, 187 Carlo d’Angiò, re di Sicilia, 31, 32, 75 Carlo il Calvo, imp., 104, 105, 106, 109, 110 Carnicorvus, Carogna, v. Vittore IV Caron M.-T., 72 Carpegna Falconieri T (di), 85-96, 88, 89, 219 Carrara (da) Francesco I il Vecchio, sig. di Padova, 118, 148 Carter J. M., 211 Casagrande C., 147 Casini M., 140, 225 Castelli (TE), 60 Castelli F., 118 Castelli Giovanni, 60 Castelnuovo E., 174 Castelnuovo G., 174, 175, 177, 180, 181, 184, 190, 194 Castiglia, 73 Castiglione Baldassarre, 35, 141, 142, 143, 144, 150 Castiglioni Brando, vesc. di Kalocza, 179 Castiglioni C., 117

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E

Bourg-en-Bresse (Francia), 176, 193 Brabante, 77, 78 Bradley R., 177 Brandeburgo, 77 Braudel F., 225 Braun R., 80 Brecht Bertolt, 243 Breschi G., 52 Brescia, 128, 132 Monte di Pietà, 128 Bresse, 181, 187, 193, 194 Bretigny (Francia), 74, 83 Brieg (Germania), 77 Britannia, 24 Brondy R., 177, 179, 186 Brown E. A. R., 217 Bruchet M., 177, 188 Bruges (Belgio), 217 Bruno, 91 Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg, v. Leone IX Bruto, mitico fondatore di Britannia, 24 Bryant L. M., 216 Buchon J. A., 83 Buck M. R., 246 Buck T. M., 242, 246 Buffalmacco, 91 Bulst N., 189, 190, 191 Buondelmonti Giovanni, vesc. di Kalocza, 179 Burdino, v. Gregorio VIII Byerly B. F., 74 Byerly C. R., 74

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Caetani Benedetto, v. Bonifacio VIII Caetani Giovanni, v. Gelasio II Calabresi I., 121, 223 Calais (Francia), 73 Calandrino, 91 Calilli E., 39 Camerino (MC), 59 e v. anche Mariano Campaldino (AR), 223 Campana A., 149 Campanini A., 162, 168 Cannarozzi C., 221


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Clementi F., 100, 108 Clerici L., 226, 227 Clermont-Ferrand (Francia), 14, 20, 23, 229 Clèves (Kleve, Germania), v. Giovanni Cobelli Leone, cron., 115, 133 Cococcione, v. Tommaso Codoñer Merino C., 110 Cognasso F., 178, 179, 181, 182, 184, 185, 187, 188, 189 Cola d’Amatrice (Nicola Filotesio), 55 Cola di Rienzo, 89, 90, 93 Colloce, v. Kalocza Colombo E., 197, 199 Colonna, fam., 35 – Lavinia, moglie di Astorre Baglioni, 32 Colossi (Turchia), 179 Comba R., 189 Comnena Anna, 19 Comneno Alessio I, imp. di Bisanzio, 19 Consorti Consorte, 61 Contamine Ph., 20, 71, 82 Conti Gregorio, v. Vittore IV Corazzini G., 34 Corrado di Gelnhausen, maestro a Parigi, 241 Corropoli (TE), 62 Corsini Piero di Tommaso, card., 124 Corvino Mattia, re d’Ungheria, 16 Cossa Baldassarre, v. Giovanni XXIII Cossa Francesco, pittore 117 Costantinopoli (Istanbul, Turchia), 218 Costanza (Svizzera), 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248 Cox E. L., 176 Cracovia (Polonia), 73 Crescenzi, fam., 58 Crescenzi (dei) Ottaviano, v. Vittore V Crescenzio, balbus, 109 Creta, 119 Crivelli Carlo, pittore, 65 Croce G. C., 92 Cro-Magnon (Francia), 40 Cronista di Saint-Denis, 16

IS IM

E

Cauti Giovan Battista, 61 Cavaciocchi S., 213 Cavalca Domenico, OFP, 125 Ceccarelli G., 122 Cecchi D., 54 Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), poeta e medico, 249 Celso Lorenzo, doge di Venezia, 118 Cepagatti (PE), 60 Cervone Antonio, fantino, 58 Cesi, fam., 58 Challant (AO), e fam., 193, 194, 195 Challant (de) Aimé, sig. di Ussel, 196 – Antoine, card., 195 – Boniface, maresc., 195 – François, sig. di Saint-Marcel, 196 – François, vassallo di Amedeo VIII di Savoia, 179, 195 – Guillaume, vesc. di Losanna, 195 – Jacques, sig. di Aymaville, 194, 195 Chalon-Arlay (Francia), v. Guglielmo Chambéry (Francia), 177, 186, 187, 189, 197, 215 Champagne, 22 Charolais, 184 Chartres (Francia), v. Fulcherio Châtillon (Francia), 195 Chaubet D., 196 Chelazzi G., 54 Chiabò M., 220 Chiappini A., 154 Chieti, 60 Chrétien de Troyes, 24, 25 Christine de Pisan, poetessa, 13 Ciaffardoni C., 44, 52, 54, 55, 58, 59, 60 Ciappelli G., 101 Cibrario L., 196 Cicerone, 148 Cimini Andrea, fantino, 58 Ciotti L., 39 Cipro, 16, 75, 187, 188 e v. anche Anna; Ugo Città di Castello (PG), 159 Clairvaux (Francia), v. Bernardo Claudio, santo, vesc. di Ascoli, 45, 46 Claudio Tolomeo, geografo, 248


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Draghetto, cavallo, 117 Du Bois Pierre, cron., 194, 195 Du Cange C., 100 Duby G., 23 Duccio di Buoninsegna, pittore, 218 Duchesne L., 89 Duéze Jacques, v. Giovanni XXII Dufay Guillaume, compositore, 189, 197 Duindam J., 139, 140 Dupin Perrinet, segr. di Iolanda di Francia, 196 Durazzo (Albania), v. Carlo III Durchhardt H., 71

E

D¹browski J., 75 Dahhaoui Y., 92, 219 Dal Verme Jacopo, condottiero, 124 Dall’Acqua M., 35 Damasio A. R., 40 Datta P., 176 Dauphin G., 88 Davanzo Poli D., 162, 163, 167 David II, re di Scozia, 75 Davide, biblico re d’Israele, 198 Daviso di Charvensod M. C., 197, 198, 199 De Bartholomaeis V., 100, 101 De Giorgio M., 162, 163 De La Marche Olivier, stor., 186 De Luca G., 125 De Marchi N., 145 De Riedmatten A., 181 De Rosny A., 118 De’ Rossi Giovan Girolamo, stor., 36 De Sandre Gasparini G., 121 Decroisette F., 222 Dei Benedetto, cron., 32 Del Badia I., 221 Delachenal R., 73 Delcorno C., 167 Delfinato, 187 Della Scala, fam., 223 – Mastino I, sig. di Verona, 117, 224 Demotz B., 177, 179, 186 Deragne M. A., 177 Descalzo A., 80 Desplat C., 194 Despy G., 80 Dessì R. M., 127 Devoto G., 51 Di Cora Fabio, gov. di Ascoli, 55 Diessenhofen (Svizzera), v. Heinrich Digione (Francia), 195 Dismantacompagnus, v. Vittore V Dlugossus Joannes, cron., 75 Doglio M. L., 91 Dominici Giovanni, OFP, card., 125 Dossetti G. A., 242 Dotti U., 118, 119 Douteil H., 219

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Edelman G., 40 Edoardo, princ. di Galles, 75 Edoardo I, re d’Inghilterra, 74 Edoardo III, re d’Inghilterra, 16, 75 Egidio Romano, OSA, 27 Ehrle F., 238 Eichberg H., 211 Eleonora d’Aquitania, regina di Francia e Inghilterra, 28 Eleonora di Poitiers, dama di corte di Maria di Borgogna, 184, 185 Eliade M., 42 Elias N., 139 Elisabetta di Baviera, regina di Francia, 16 Ellis Jones R., 24 Emidio, santo, patrono di Ascoli, 43, 44, 45, 46, 48, 49, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66 Emilia-Romagna, 155 Ems (Germania), v. Rudolf Enide, personaggio di Erec et Enide, 25, 26 Enke K., 72 Enrico II, re di Francia, 20 Enrico II, re d’Inghilterra, 20 Enrico V, re d’Inghilterra, 79 Enrico VIII, re d’Inghilterra, 82 Enrico (Arrigo) VII di Lussemburgo, imp., 18, 178 Enrico di Langenstein, maestro a Parigi, 241


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Ferrara, 116, 117, 125, 167, 242 Palazzo Schifanoia, 117 Ferraù G., 149 Ferrer Vincenzo, OFP, 182 Ferrero G. M., 91 Fiamma Galvano, cron., 117 Fiandre, 17, 18, 21, 22, 217 Ficcadenti B., 44 Filippo II l’Ardito, duca di Borgogna, 184, 191 Filippo III il Buono, duca di Borgogna, 176, 187, 188 Filippo I, re di Francia, 18 Filippo III, re di Francia, 75 Filippo IV il Bello, re di Francia, 27, 81, 217, 238 Filippo VI, re di Francia, 16 Fillastre Guillaume, card., 243, 247, 248 Filotesio Nicola, v. Cola d’Amatrice Finke H., 243 Finzi C., 146 Firenze, 31, 32, 33, 35, 99, 115, 117, 123, 124, 130, 131, 132, 140, 220, 221, 223, 225, 242, 243, 248 Mercato Vecchio, 33 Piazza della Signoria, 33, 221 Piazza Santa Croce, 33 Ponte alla Carraia, 124 Santa Reparata, antica cattedrale, 123 Via Larga, 33 Firpo L., 131 Flandria, v. Fiandre Flandrin J.-L., 79 Fleckenstein J., 14, 16, 26 Flori J., 19, 105 Fol M., 192 Foligno (PG), 58, 156, 157, 162, 165, 166 San Feliciano, cattedrale, 166 Fontana G. L., 227 Forlì, 115, 133, 168 Fouquet J., 77 Fracassetti G., 118 Francavilla a Mare (CH), 62 Francesca, moglie di un drappiere di Bologna, 156 Francesco I, re di Francia, 81-82

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E

Enrico (Heinrich) III Sorbom, vesc. di Ermland, 77 Equicola Mario, stor., 118 Erasmo da Rotterdam, 149 Eratostene, 213 Ercolano, santo, 129, 130 Erec, personaggio di Erec et Enide, 24, 25, 26 Ermland, 77 Eschembach (Germania), v. Wolfram Esculapio, 44 Este, fam., 176, 197 – Alfonso I, sig. di Ferrara, 167 – Borso, sig. di Ferrara, 117 – Ugo, 118 Europa, 16, 28, 72, 73, 90, 140, 226, 229, 248 Eustachio, santo, 107 Fabiani G., 45, 46 Fabre F., 118 Fabre P., 100, 102, 103, 106, 107, 108 Fabretti A., 123 Faenza (RA), 117 Fanfaricchio, fantino, 58 Farge A., 88 Farnese, fam., 58 Fassò A., 26, 27 Federico I d’Aragona, princ. di Taranto e re di Napoli, 198, 199 Federico II di Svevia, imp., 27 Felice V (Amedeo VIII di Savoia), antipapa, 124, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 182, 183, 184, 186, 187, 189, 191, 192, 193, 196 Feliciano, santo, patrono di Foligno, 162 Feltre (BL), v. Bernardino Fenerilli Francesco, fantino, 58 Fenlon I., 197 Fercole (GR), 226 Ferdinando I, re d’Aragona, 81 Fermo (AP), 62 Ferrante I d’Aragona, re di Napoli, 148, 198, 199


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Giacomo I, re d’Aragona, 81 Giacomo II, re di Maiorca, 75, 82 Giannino di Guccio, detto re Giannino (o regina Giovanna), 89, 90, 91, 93, 95 Gier A., 28 Gilbert A. H., 145, 147 Gilbert F., 145 Gilomen H. G., 92, 219 Ginevra (Svizzera), 178, 182, 189, 193 Ginzburg C., 87 Giorgio, santo, 79, 125 Giovanna d’Harcourt, contessa di Namur, 184 Giovanni, conte di Friburgo, 187 Giovanni, conte di Nevers, 187, 188 Giovanni, duca di Clèves, 187, 188 Giovanni, santo, 115, 117, 132, 133, 223 Giovanni I, re di Boemia, 113, 114 Giovanni II il Buono, re di Francia, 75 Giovanni VIII, papa, 109 Giovanni XII (Ottaviano dei conti di Tuscolo), papa, 89 Giovanni XXII (Jacques Duéze), papa, 116 Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa), antipapa, 247 Giovanni Battista, santo, 197 Giovanni da Capestrano, OFM, 154 Giovanni da Teramo, frate, 52 Giovanni Diacono, cron., 106 Giovanni Immonide, lett., autore della Cena Iohannis, 103, 104, 105, 106, 109 Giovio Paolo, stor., 35, 36 Girolamo da Siena, 125 Gisleberto di Mons, canc. del conte di Hainaut, 21, 22, 23 Giulio Cesare, 147, 220, 243 Giura, 187 Giusberti F., 161 Giustiniani, fam., 58 Gloucester (Inghilterra), 74 Godineau D., 88 Godunov Boris, zar di Russia, 92 Goethe Johann Wolfgang (von), 235 Goffredo di Buglione, 80 Goffredo di Monmouth, stor., 24

IS IM

E

Francesco d’Assisi, santo, 92, 95 Francia, 13, 16, 17, 21, 22, 27, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 90, 95, 114, 154, 175, 181, 184, 185, 187, 188, 189, 193, 197, 199, 217, 238, 243, 248 e v. anche Iolanda; Isabella; Renata Frati E., 115 Frati L., 223 Fregoso Ottaviano, personaggio del Cortegiano, 141, 142, 143, 144 Friburgo (Svizzera), 182, 187, 242, 246 e v. anche Giovanni Friedberg Ae., 240 Frisach (Austria), 16 Frisinga (Germania), v. Ottone Froissart Jean, cron., 13, 74, 80, 83 Fügedi E., 16 Fulcherio di Chartres, cron., 14

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Gaeta F., 148 Gaffuri L., 127 Gagliardi I., 13 Gairdner J., 79 Gallia, v. Francia Galliot, pittore, 189 Gams P. B., 179 Gand (Belgio), 217 Gardet C., 181 Gaspard II di Montmayeur, maresc. di Savoia, 181 Gauder E., 102 Gaullier E. H., 192 Gelasio II (Giovanni Caetani), papa, 89 Gelnhausen (Germania), v. Corrado Genevese, 174, 193 Gentile L. C., 171-206, 173, 176, 177, 182, 183, 184, 192, 196 Gentile R., 117 Geoffrey de Preuilly, (Gaufridus de Pruliaco), barone, 17, 18 Géraud H. J., 238 Germania, 17, 20, 78, 79, 116 Gerusalemme (Israele), 80, 81, 193 Gesù Cristo, 43, 45, 51, 92, 94, 95, 126, 193, 223


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14.52

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Hanawalt B., 217 Hanning R. W., 25 Harcourt (Francia), v. Giovanna Hartmann von Aue, lett., 24, 25, 26 Haubrichs W., 73 Hauck A., 237 Haug W., 72 Hay D., 197 Hecht W., 243 Heers J., 72, 87, 219 Hefele C. J., 242 Heidelberg (Germania), 241, 242 Heinrich von Diessenhoven, cron., 75 Helmrath J., 242, 243, 247 Hen Y., 102 Hennegovia, v. Hainaut Hlavàèek I., 241 Hodel P. B., 182 Hollnsteiner J., 243 Hopf W., 211 Horowitz J., 229 Howard P. F., 127 Huber A., 75 Huizinga J., 72, 186 Humphrey Ch., 94

IS IM

E

Goffredo II, duca di Bretagna, 20 Goldring E., 140 Golia, personaggio biblico, 198 Gòngora Luis (de), 109 Gonzaga Federico, sig. di Mantova, 149 – Francesco, sig. di Mantova, 118 Gonzalez Juan, 244 Goodwin C. D. W., 145 Gori P., 133 Gottfried von Straßburg, lett., 24 Gran Bretagna, 17 Granuzzo R., 121, 223 Graz (Austria), 20 Gregorio I Magno, papa, 240 Gregorio VIII (Maurice Bourdin, detto Burdino), antipapa, 89 Grenoble (Francia), 188 Grimoard (de) Guillaume, v. Urbano V Grinberg M., 92, 219 Griscom A., 24 Grodecki R., 73 Gualdo Tadino (PG), 159 Guarini F., 115 Gubbio (PG), 164 Guenée B., 193, 194, 216 Guerrieri M. C., 50 Guerzoni G., 140, 141, 145, 147, 148 Gugerli D., 80 Guglielmo il Maresciallo (Guillaume le Marechal), 23, 36 Guglielmo di Chalon-Arlay, princ. d’Orange, 187 Guglielmo di Ockham, OFM, 238, 239, 240 Guido da Montefeltro, cap. di Forlì, 115 Guidobaldi N., 177 Guilleré C., 175 Guslino B., 125, 129, 132 Guttmann A., 211 Guyotjeannin O., 82, 201 Hagenmeyer H., 14 Hainaut, 21, 22 Hamesse J., 127

Iacometti F., 117 Iannella C., 127 Ianni di Piero di Magonza, stamp., 126 Incicco, fantino, 58 India, 243 Infessura Stefano, stor., 124 Inghilterra, 73, 74, 75, 79, 179, 187, 202 e v. anche Thomas Inglese G., 147 Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni), papa, 237, 238 Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili), papa, 58 Introdacqua (AQ), 60 Iolanda di Francia, principessa del Piemonte, 175, 192, 193, 196, 197, 198, 199, 200 Ippona (Algeria), v. Agostino Irlanda, 25


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Isabella di Francia, moglie di Giangaleazzo Visconti, 114 Isidoro di Siviglia, vesc., 102 Isnardi Parente M., 149 Isocrate, retore, 50 Istria, 16 Italia, 17, 32, 51, 62, 109, 113, 115, 116, 123, 132, 143, 144, 154,174, 176, 179, 214, 222 Ito A., 211

263

Krüger A., 211 Kruse H., 186

IS IM

E

La Nera Antonio, cap., 55 La Regina A., 50 Laffi U., 45 Lalande D., 13 Lambertini R., 249 Lancaster (Inghilterra), 74 Lancillotto di Lanzo, scud., 199 Landi A., 242 Jackson W. H., 19, 24 Landucci Luca, cron., 117, 133, 221 Jacomo, OFP, 133 Langenstein (Germania), v. Enrico Jacquot J., 82 Lanternino, servo di Antonio La Nera, 55 Jaritz G., 219 Lanza A., 221 Jean de la Baume, ciamb. del re di Fran- Lanzo (TO), v. Lancillotto cia, 181 Laudage J., 247 Jean Le Fevre de Saint-Remy, araldo di Laufer W., 73 Borgogna, 187, 188, 189 Lauwers M., 127 Jedin H., 242 Law J., 197 Jehan le Maingre, v. Boucicaut Lazarus P., 247 Joannou P. P., 242 Le Doux J., 40 Johanek P., 241 Le Goff J., 87, 104 Johnstone H., 217 Lecce, 164 Justolfo, vesc. di Ascoli, 45 Leclercq H., 242 Lecuppre G., 91 Leguay J.-P., 177, 179, 186 Kalocza (Ungheria), 179, 202 Lehmann M., 243 Kambylis A., 19 Lehoux F., 216 Kempers B., 218 Leinweber J., 242 Kervyn de Lettenhove J. M. B. C., 74, Lemoine M., 228 80 Leniek J., 73 Kindell C., 146 Lenti Battista, padrone del cavallo AlaKing M. L., 148 to Pegaso Figlio dell’Aurora, 59 Kipling G., 194 Leonard É. G., 91 Klapisch-Zuber C., 162, 163, 165 Leonardi C., 242 Klein K. K., 81 Leone IX (Brunone dei conti di EgisKnopf J., 243 heim-Dagsburg), papa, 45 Knysh G., 239 Leopoldo V di Babenberg, duca d’AuKöhler E., 25 stria, 20 Kolb W., 71 Levi Pisetzky R., 189 Kolmer L., 79 Levy-Bruhl L., 34 Kolski S., 141 Lione (Francia), 182, 188 Kraus T., 76 Lisini A., 117 Kraye J., 146 Lituania, 15


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Marcucci F. A., 48 Margolin J.-C., 215 Maria, duchessa di Borgogna, 184 Maria Maddalena, santa, 128 Maria Vergine, 44, 45, 79, 95, 123, 128, 132, 182, 194, 218, 223 Mariano da Camerino, 58 Mariani Canova G., 121, 223 Marongiu A., 240 Marsiglia (Francia), 91 Martel Martillet, scud. di Amedeo VIII di Savoia, 180, 202 Martelli Jean, scud. alla corte dei Savoia, 180 Martelli M., 35 Martin von Troppau, cron., 239-240 Massabò Ricci I., 174, 175 Matasia, ebreo di Perugia, 168 Maurer M., 72 Maurizio, santo, 174 Mazzon A., 89 Meaux (Francia), 23 Medici, fam., 33, 34, 35, 130, 220 – Cosimo, detto il Vecchio, 130, 225 – Giuliano, 34 – Gostanzo, 117 – Lorenzo, detto il Magnifico, 34, 117, 149 Medioli Masotti P., 149 Mediterraneo, mare, 15 Melville G., 71 Ménabréa L., 189, 197, 198, 199 Menache S., 229 Meneghin V., 129 Mercuriale, santo, 115 Merlettino, fantino, 58 Mertens D., 246 Meslin M., 102 Messiez M., 194 Metz (Francia), 78, 79 Mevale (MC), 56 Santa Maria, chiesa e pieve, 56 Meyer P., 23 Mezzanotte F., 32 Michaud J. F., 74 Michele, santo, 223

IS IM

E

Livini A., 97-110 Lockwood L., 197 Lodi, 131 Lombardia, 117 Lommardia, v. Lombardia Londra (Inghilterra), 75 Lopes M. C. O., 214 Lorena, 80, 176 Lorenzetti S., 141 Lorenzo, santo, 117 Loreto Aprutino (PE), 60 Losanna (Svizzera), 192, 194, 195 Lotario dei Conti di Segni, v. Innocenzo III Luca, santo, evangelista, 218, 245 Lucca, 116, 224 Lucciola, cavallo, 117 Luce S., 81 Luchaire A., 242 Ludovico (Luigi) I d’Angiò, re di Napoli, 181 Ludovico IV il Bavaro, imp., 75, 116 Ludovico II, duca di Baviera, 20 Ludovico, f. di Ludovico II di Baviera, 20 Ludovico I, re d’Ungheria, 75 Luigi XI, re di Francia, 189 Lusignano (Lusignan, Francia), v. Pietro Lussemburgo, v. Sigismondo; Venceslao Maccari L., 91 Macerata, 60 Machiavelli Niccolò, 145, 147 Mâcon (Francia), 176 Maestro di Offida, pittore anonimo, 65 Magnac-sur-Touvre (Francia), v. Aimery Magister Valdesera, 158 Magonza (Germania), 22 Maio Giuniano, umanista, 145, 148 Maiorca (Spagna), 73, 75, 76, 82 Malvezzi Ludovico, conte, 49 Mandell R. D., 210, 211 Mansi G. D., 20, 237 Mantova, 35, 117, 154, 189, 249 Manuzio Aldo, stamp., 144 Marcabru, poeta, 26


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Mueller R. C., 164 Muir E., 140 Müller K.-D., 243 Mulryne J. R., 140 Muntaner Ramon, stor., 81, 82 Muratore D., 176 Musorgskij Modest Petrovic, compositore, 92 Mussolini Benito, 90 Muzzarelli M. G., 151-170, 155, 158, 162, 164, 168, 169

E

Miethke J., 233-249, 241, 245, 246 Migne J. P., 27, 228, 229 Migno, v. Emidio Milano, 114, 116, 118, 130, 175, 176, 195, 197, 198, 199 Millet H., 242 Milon de Dormans, vesc., di Beauvais, 77 Minchio, v. Benedetto IX Mincio Giovanni, v. Benedetto IX Mironneau P., 194 Mittenzwei W., 243 Modena, 158 Modesto C., 103 Modigliani A., 220 Molà L., 164 Molho A., 124 Mölk U., 18 Mollat G., 75 Moncalieri (TO), 199 Monet Claude, pittore, 63 Monferrato, fam. e regione, 173, 176, 198 Monmouth (Galles), v. Goffredo Mons (Belgio), v. Gisleberto Montalto, fam., 58 Monte Urano (AP), 62 Montefeltro, v. Guido Montepulciano (SI), 223 Montesano M., 122, 127, 129, 130 Montluel (Francia), 188 Montmayeur (Francia), 181 e v. anche Gaspard II Montmeur, 202, 204 Morand F., 187 Moranvillé H., 78 Morel Pierre detto Boquet, cuoco di corte dei Savoia, 177 Morenzoni F., 182 Morettino, fantino, 58 Morgarten (Svizzera), 14 Morgiani (de’) Lorenzo, stamp., 126 Moriana (Maurienne, Francia), 189 Morley H., 75 Mormando F., 127 Mosella, fiume, 81 Mozzarelli C., 179 Mucciarelli Francesco, cav., 58, 59

265

IS IM

Namur (Belgio), 184 Nanterre (Francia), 144 Napoli, 35, 58, 90, 91, 145 Nardi B., 37-67, 39, 40, 44, 50, 51, 52, 54, 55, 57, 58-59, 60, 61, 65 Narni (TR), 161 Navarra (Spagna), 77 Neiß W., 81 Neuss (Germania), 20 Nevers (Francia), v. Giovanni Niccoli O., 92, 219 Niccolò da Prato, card., 124 Nico Ottaviani M. G., 153 Nicola di Giuseppe, fantino, 58 Nicola di Riesenburg, canc. imp., 77 Niola M., 64 Nitardo, stor., autore degli Historiarum Libri IV, 104, 105, 106, 110 Non Creduto, cavallo, 59 Norcia (PG), 59, 61 Norimberga (Germania), 20 Normes Perinet (de), attore, 198 Nota E., 118, 119

Ockham (Inghilterra), v. Guglielmo Offida (AP), v. Maestro Ogilvy J. D. A., 100 Oldoni M., 100 Oléron (Francia), 74 Olimpia (Grecia), 213, 228 Orange, 187 Orazio, 94


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Paton B., 127 Patrizi Francesco, 147 Patschovsky A., 241 Pavia, 160, 242 Paviot J., 184, 185, 186 Peretti, fam., 58 Pertz G. H., 105 Perugia, 32, 123, 128, 129, 158, 161, 164, 167, 168 Piazza Grande, 32 Petrarca Francesco, 35, 118, 119, 120, 148, 149, 166 Pibiri E., 177, 179, 180, 181, 182, 192 Picard Henry, Lord Mayor di Londra, 75 Picascia M. L., 145 Piccard L. E., 178, 183, 201, 202, 203, 204, 205 Piccino, cavallo, 59 Piccolomini Enea Silvio, v. Pio II Picque Richard, arciv. di Reims, 77 Piemont, araldo del duca d’Aosta, 194 Piemonte, 174, 178, 185, 186, 193, 203 Pieri Paolino, stor., 124 Pierozzi Antonino, vesc. di Firenze, 126 Pietro, prefetto di Roma, 89 Pietro, santo, 44, 124, 223 Pietro, tessitore di Bruges, 217 Pietro III, re d’Aragona, 75, 76, 82 Pietro di Lusignano, re di Cipro, 16 Pinchera V., 161, 163 Pintoin Michel, cron., 76 Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 32, 130, 132, 225, 249 Pisa, 32, 116, 223, 241, 242 Pistoresi M., 225 Pizzingrilli A., 39 Plaisance M., 222 Platina, v. Sacchi Bartolomeo Plinio il Giovane, 147 Pohl H., 242 Poitiers (Francia), v. Eleonora Poliziano Angelo, 34, 35 Polonia, 36, 73 Pontano Giovanni, 144, 145, 146, 147, 148 Pontecorvi A., 216

E

Orléans (Francia), 181, 195 Orsini Giovanni, duca, 58 Orsogna (CH), 60 Ortalli G., 207-230, 88, 123, 130, 139, 209, 211, 212, 213, 215, 218, 219, 226, 227, 228, 229 Ortona (CH), 62 Orvieto (TR), 32, 159 San Domenico, conv. e chiesa, 32 Ottaviano Augusto, imp. romano, 245 Ottaviano dei conti di Tuscolo, v. Giovanni XII Ottolini A., 91 Ottone III, imp., 45 Ottone di Frisinga, vesc., cron., 18 Owen Hughes D., 162, 165

IS IM

Pacentro (AQ), 60 Pacetti D., 128 Padova, 35, 154, 165, 223 Pagani M. P., 92 Page A., 178 Pagella E., 174 Pagliare Spinetoli (AP), 62 Palatinato, v. Roberto Paleologo Michele VIII, imp. di Bisanzio, 218 Palomar (de) Juan, 244 Pamphili Giovanni Battista, v. Innocenzo X Pamphili Olimpia, cognata di Innocenzo X, 58 Pantò G., 198 Paolo II (Pietro Barbo), papa, 220, 222 Paolo di Tarso, santo, 44, 92, 95, 124, 154 Papetti S., 39, 50 Paravicini W., 185, 186, 241 Paravicini Bagliani A., 89, 174, 178, 181 Parigi (Francia), 16, 20, 22, 23, 74, 77, 216, 241, 244 Cité, 77 Parma, 113, 114, 123, 124 e v. anche Salimbene de Adam Pasqualino, fantino, 58 Pasquinucci M., 45


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Porsia F., 44, 46 Porta G., 32, 90, 115, 118, 224 Porto San Giorgio (AP), 60 Portogallo, v. Beatrice Post G., 240 Poujoulat J., 74 Praga (Rep. Ceca), 16 Prato, 214 e v. anche Niccolò Prestwich M., 74 Prete S., 45 Prodi P., 162, 220, 242 Promis D., 187 Provana Aleramo, 198 Provenza, 76, 91 Prusse, 15 Pucci Antonio, poeta, 33 Pulci Luigi, 34, 35, 221 Puppi L., 222

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IS IM

E

Riccardo, servo di Cola d’Amatrice, 55 Richter K., 235 Ridolfi R., 125, 131 Riegel J., 242 Riesenburg (Germania), v. Nicola Ripart L., 176 Ritter von Rittersberg J., 77 Rivoli (TO), 178 Rizzi A., 111-133, 120, 122, 123, 126, 127, 128, 129, 133, 145, 221, 223, 224 Rizzoletti G., 40 Roberto (Ruperto, Ruprecht) del Palatinato, re dei Romani, 242 Rochon A., 91 Rockinger L., 21 Rocroi (Francia), 217 Rodano, 187 Rodilossi A., 45 Rodolfo IV, duca d’Austria, 16 Roger de Gaugi, cav., 23 Quaglioni D., 145, 149 Rohr G., 79 Quevedo Francisco (de), 109 Roma, 50, 89, 99, 101, 102, 103, 104, 105, Quinto R., 127 106, 107, 109, 110, 124, 237 Quondam A., 31, 36, 142, 143 Agone, 108, 215, 216 Campidoglio, 90, 108 Follonia, 104 Racine P., 196 Laterano, 89, 102, 104 Rafael de Cardona, OFP, 182, 204 Monte Giordano, 124 Rainoria Ippolita, 58 Piazza Navona, 36 Ratzinger Joseph, v. Benedetto XVI San Marcello, chiesa, 90 Ravenna, 17 San Marco, basilica e titolo cardinaliRe C., 216 zio, 248 Rebhorn W. A., 143 San Pietro, basilica papale, 103 Regalado N. F., 217 Sant’Angelo in Pescheria, chiesa e diaReggio Emilia, 167 conia, 247 Rehberg A., 87 Sant’Eustachio, rione e chiesa, 107, 108 Reims (Francia), 76, 77, 248 Santa Maria in Aquiro, chiesa, 107, 108 Reinsch D. R., 19 Santa Maria in via Lata, chiesa, 107, 108 Renata di Francia, duchessa di Ferrara, Testaccio, rione, 102, 106, 108, 215, 216 167 Vaticano, 89 Renato I d’Angiò, re di Napoli, 187, 188, Via Lata, 90, 107 198 Romano V., 127 Reno, fiume tedesco, 20, 22 Romano (da) Ezzelino III, 223 Reyerson K., 217 Romans (Francia), 188 Reynard D., 181 Romont (Svizzera), 182, 193 Riccardo II, re d’Inghilterra, 73, 82 Rosata, abitante di Foligno, 166


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

– Anna, regina di Napoli, 198 – Carlo II, 184 – Caterina, contessa di Ginevra, 198 – Filiberto I, princ. del Piemonte, 189, 196 – Filippo, conte della Bresse, 193 – Filippo, conte di Ginevra, 193 – Giacomo, conte di Romont, 193 – Giano, conte del Genevese, 193 – Ludovico, princ. del Piemonte, 174, 175, 178, 179, 181, 182, 185, 186, 187, 188-189, 191, 192, 193, 195, 197, 201, 203, 204, 205 – Maria, f. di Amedeo VIII, 185, 205 – Umberto, fratellastro di Amedeo VIII, 181 Savoia-Acaia, fam., 174 Savonarola Girolamo, 125, 127, 130, 131, 132, 133, 220, 221 Scaligeri, v. Della Scala Scarpati C., 144 Schebat L., 118 Schimmelpfennig B., 246 Schmale F. J., 18 Schmitt J.-Cl., 87 Schneider R., 73 Schumacher B., 92, 219 Schwaiger G., 242 Schwarz E., 25 Schwedler G., 69-83, 71, 73, 189 Scolari, fam., 179 Scozia, 75 Scully T., 186, 188 Seemüller J., 81 Segovia (de) Juan, 244 Sella P., 52, 121 Semerano G., 42 Seneca, 94 Sercambi Giovanni, cron., 115, 116, 118 Sermini G., 91 Settia A. A., 128 Sforza, fam., 197 – Galeazzo Maria, duca di Milano, 130, 131, 197, 199, 225 – Ludovico Maria, detto il Moro, duca di Milano, 196, 221 Shewring M., 140

E

Rosie A., 173, 177, 178, 181, 188, 189, 192, 196, 197, 198, 199, 200 Rossetti Brezzi E., 174 Rossi L., 26 Rossi Ugolino, vesc. di Parma, 124 Rotterdam (Olanda), v. Erasmo Rubinstein N., 149 Rudolf von Ems, poeta, 26 Ruggero, v. Baiazetto Ruh K., 246 Russia, 92 Ryan L. V., 143

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Sacchi Bartolomeo, detto il Platina, 149 Saint-Denis (Francia), v. Cronista Saint-Marcel-sur-Aude (Francia), 196 Saint-Pol-sur-Mer (Francia), 193 Saint-Remy (Francia), v. Jean Le Fevre Salimbene de Adam da Parma, OFM, cron., 27 Salisburgo (Austria), 211 Salmon A., 18 Saluzzo (CN), e fam., 173, 176 Saluzzo Ludovico I, marchese (di), 187 Saluzzo Cardé Manfredo (di), maresc. di Savoia, 181, 202 Salvatico A., 186 San Vittore (Francia), abbazia, v. Ugo Sander-Berke A., 241 Sannazzaro Jacopo, 35 Santa Vittoria in Matenano (AP), 60 Santo Bono, fam., 58 Sassonia, 77 Savelli, fam., 58 Savoia, fam. e regione, 173, 175, 176, 178, 179, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 202, 204 – Amedeo, f. di Amedeo VIII, 178, 181, 182, 185, 186, 193, 201, 203, 204, 205 – Amedeo VI, detto il Conte Verde, 175, 176, 183 – Amedeo VII, detto il Conte Rosso, 198 – Amedeo VIII, v. Felice V – Amedeo IX, 175, 182, 192, 193, 197


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Sulmona (AQ), 60 Summonte Giovanni Antonio, stor., 115 Susanna, santa, 197 Svevia, v. Federico II Svizzera, 182 Swanson R. N., 241 Sydney A., 82 Szabò Th., 11-28, 17, 26, 27 Szczur S., 73 Sznura F., 124 Talamone (GR), 227 Tangheroni M., 72 Tangl M., 102 Tarantasia, 179, 180, 201, 202 Taranto, 198 Tarso (Turchia), v. Paolo Tateo F., 146, 147 Tauromenio (Taormina, ME), v. Timeo Teodosio, imp. romano, 212, 213, 228 Teramo, 62 e v. anche Giovanni Terni, 163 Thomas d’Inghilterra, lett., 24 Thomas H., 73 Thompson A., 127 Thonon (Francia), 176, 178, 179, 198, 201 Timeo di Tauromenio, 213 Timoteo, 154 Tissot L., 92 Toaff A., 168, 169 Toledo (Spagna), 102 Tolosa (Francia), 75 Tomber P., 102 Tomei A., 165 Tommasini O., 124 Tommaso (Tomé), santo, 124 Tommaso detto Cococcione, fantino, 58 Torino, 176, 192, 198, 199 Toschi P., 109 Tosi M., 35, 36 Totaro L., 130 Tournai (Francia), 16 Tours (Francia), 17, 18 Tout Monde, araldo di Jacques du Challant, 194

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E

Sicilia, 35, 73, 75, 188, 198, 199 Sieben H. J., 239 Siena, 90, 117, 124, 128, 218, 226, 242 e v. anche Bernardino; Girolamo Sigismondo di Lussemburgo, imp., 79, 81, 177, 178, 179, 245, 247 Signa (FI), v. Boncompagno Silenus, 103 Simonetta, ninfa, 34 Simonetta F., 162 Simonsohn S., 169 Sinigaglia C., 40 Sinopoli (RC), 181 Siviglia (Spagna), v. Isidoro Skinner Q., 145 Šmahel F., 75, 77 Smithfield (Inghilterra), 16 Soderini Menichina, sorella di Pardo, 48, 57 – Pardo, 48 Soffietti I., 189 Soissons (Francia), 22 Soldevila F., 74 Somarello, v. Gregorio VIII Sorbelli A., 124 Sorbi L., 42 Sorrel Ch., 181, 192 Spìváèek J., 73 Spinola Orazio, vicelegato di Bologna, 99 Spoleto (PG), 153 Spoltore (PE), 60 Stabili Francesco, v. Cecco d’Ascoli Stefaneschi degli Annibaldi Pietro, card., 247 Steienmark (von) Ottokar, cron., 81 Stow John, cron., 75, 79 Strasburgo (Francia), 105, 191 e v. anche Gottfried von Straßburg Strecker K., 103 Strong R., 140, 193 Strozzi Marietta, nipote di Palla, 32 – Palla, 32 Stubbs W., 20 Studt B., 241 Subiaco (Roma), 101 Sudmann S., 247

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Traiano, imp. romano, 147 Trento, 219 Trexler R. C., 32, 131, 140 Troia, 24 Troppau (Opava, Rep. Ceca), v. Martin Troyes (Francia), v. Chrétien Tucidide, 42

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E

Venceslao di Lussemburgo, re dei Romani, 74, 76, 77, 78, 80 Venezia, 119, 122, 130, 140, 153, 154, 162, 163, 167, 198, 225 Veneziano P., 91 Ventrone P., 31, 33, 34 Vercelli, 176, 197 Verona, 116, 132, 223, 224 Vespasiano dell’Huomo, padrone del caUgo di Cipro, card., 187 vallo A Tribus, 59 Ugo di San Vittore, 228, 229 Viallet H., 192 Ulpiano, giurista, 247 Viansino G., 50 Ulrich von Richenthal, cron., 246 Vicenza, 223, 226 Umbria, 155 Vielliard F., 201 Unger S., 241 Vienna (Austria), 16, 75, 243 Ungheria, 16, 73, 76, 91, 179 Vienne (Francia), 238 Urbano II (Oddone di Lagery), papa, 14, Vignuzzi U., 52 15, 24, 229 Villani Filippo, cron., 123 Urbano V (Guillaume de Grimoard), pa- Villani Giovanni, cron., 31, 32, 115, 116, pa, 175 117, 118, 124, 224 Urbino, 141 Villani Matteo, cron., 115, 123 Ursins Jean Juvenal (des), cron., 74 Villano, cavallo, 58 Ussani V., 149 Villari P., 221 Ussel (Francia), 196 Vincenzo di Ubaldo, fantino, 58 Virgilio, 34 Visani O., 165 Vaccai G., 92 Visconti, fam., 116, 176 Vadon A., 183 – Bernabò, sig. di Milano, 118 Val d’Aosta, 194 – Galeazzo, sig. di Milano, 114, 116, 117, Valdesera, v. Magister 176 Valencia (Spagna), 82 – Giangaleazzo, sig. di Milano, 114 Valenciennes (Francia), 18, 20 – Luchino, sig. di Milano, 117 Valerio Massimo, 148 Visso (MC), 56 Vallese, 176, 202, 203 Viterbo, 132 Valusin, 181 Vittore, santo, 123, 223 Van der Plaetze R., 102 Vittore IV (Gregorio Conti, detto CarniVan Gennep A., 109 corvus), antipapa, 89 Van Gogh Vincent, pittore, 63 Vittore V (Ottaviano dei Crescenzi, detto Varanini G. M., 121, 223 Dismantacompagnus), antipapa, 89 Varese P., 53 Vivanti C., 168 Varischi da Milano C., 160 Vivenzio Domenico, stamp., 115 Vauchez A., 123, 127 Von der Hardt H., 243 Vaud, 181, 191, 193 Vones L., 82 Vecchio S., 147, 163 Voss I., 71 Vecellio Cesare, pittore e lett., 154, 163 Vyšehrad (Repubblica Ceca), 73 Vegezio, 56


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

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Wace, lett., 24, 28 Wolfram von Eschembach, lett., 24, 26 Wacker G., 246 Wolkenstein (von) Oswald, poeta, 80 Wackernagel R., 244 WĂźrzburg (Germania), 18 Warmatia, 105 Wysherad, v. VyĹĄehrad Warren W. L., 20 Warwick (Inghilterra), 140 Wasa Alessandro, fratello del re di Po- Yates F. A., 140 lonia, 36 Yders, personaggio di Erec et Enide, 25 Watanabe-O'Kelly H., 140 Wattenbach W., 245 Weber M., 40, 47, 49 Zaccaria, papa, 103 Weinrich L., 246 Zanier C., 164 Wenzel G., 91 Zanolli O., 194 Werner K. F., 241 Zdekauer L., 52, 121, 226 Werunsky E., 78 Zempel Giovanni, stamp., 124 Whiteley M., 77 Zenaro Damian, stamp., 154 Wierzinek Nikolaus, 75 Zeno, santo, 223 Wild R., 235 Ziolkowski J., 108 Witthoft B., 163 Zoppo, cavallo, 59 Wold N., 81 Zug Tucci H., 36 Wolff R. L., 218 Zurla L., 168 Wolfram G., 79


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16.51

Pagina 273

Indice generale

Pag.

1

Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno . . . . . . . . .

»

3

E

Pietro Celani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

5

Antonio Rigon, Introduzione ai lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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7

Thomas Szabò, Tornei fra festa e politica: ai primordi di una nuova etica europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

11

Duccio Balestracci, La festa come pratica d’armi per l’esercizio del potere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

29

Bernardo Nardi, Simboli, spazi, colori della festa ascolana nel periodo medioevale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

37

Gerald Schwedler, Festa e ritualità negli incontri fra sovrani .

»

69

Tommaso di Carpegna Falconieri, Le liturgie del rovesciamento dei poteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

85

Andrea Livini, Il Carnevale romano: eredità carolingia di un ludus imperialis o istituzione cittadina indipendente? . . . . . .

»

97

Alessandra Rizzi, Ordinare e guidare: poteri laici e predicazione nella gestione della festa nell’Italia di tradizione comunale .

»

111

Seconda giornata

»

135

Alessandro Arcangeli, Ludicità e potere nello spazio della corte rinascimentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

137

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Prima giornata


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14.56

Pagina 274

Maria Giuseppina Muzzarelli, Vestire a festa: gusti, usi e regole tra Medioevo ed Età moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

151

Luisa Clotilde Gentile, Dalla costruzione alla crisi dello Stato: festa e politica alla corte di Savoia nel XV secolo . . . . . . . . . .

»

171

Gherardo Ortalli, Politica e festa: un risvolto nell’ambito dell’universo ludico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

207

Proclamazione del vincitore

»

231

Jürgen Miethke, Lavoro e festa nei concilî del tardo medioevo .

»

233

»

251

IS IM

E

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Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .


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