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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”
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FRANCESCANI E POLITICA NELLE AUTONOMIE CITTADINE DELL’ITALIA BASSO-MEDIOEVALE
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Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXVI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno
(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2014)
a cura di
ISA LORI SANFILIPPO e ROBERTO LAMBERTINI
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2017
III serie diretta da Antonio Rigon
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III serie diretta da Antonio Rigon
Fondazione Cassa di
Fondazione Cassa di
Istituto storico italiano Risparper il medio evo
Istituto storico italiano Risparper il medio evo
Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO Redattore capo: SALVATORE SANSONE Redazione: SILVIA GIULIANO
978-88-98079-65-0 Coordinatore scientifico: ISA LORIISBN SANFILIPPO Redattore capo: SALVATORE SANSONE Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2017 Redazione: SILVIA GIULIANO ISBN 978-88-98079-65-0 Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2017
Stabilimento Tipografico « Pliniana » - Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2015
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ROBERTO LAMBERTINI
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Premessa
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«...ad civitatem Esculanam applicuit»: con queste parole Tommaso da Celano, nella Vita beati Francisci, introduce un capitolo che descrive il successo della predicazione di Francesco d’Assisi e la forza taumaturgica che promanava da ciò con cui il Santo entrava in contatto1. Con questo brano l’agiografo ha consegnato ai posteri la notizia di una presenza dell’Assisiate nella città sul Tronto, non indicando, tuttavia, quando ciò si sia verificato. Eruditi e storici si sono misurati con il problema. Nel dibattito intervenne tra gli altri anche Giacinto Pagnani, l’indimenticato protagonista della inimitabile seconda stagione di «Picenum Seraphicum»2, dedicando una breve ma sostanziosa monografia a I viaggi di S. Francesco d’Assisi nelle Marche, pubblicata nella collana «Studi e testi della Deputazione di Storia Patria per le Marche»3. Nella sua trattazione, Pagnani distingueva tra località marchigiane in cui la presenza di Francesco è da considerarsi accertata e quelle che erano state “probabilmente” visitate dal frate di Assisi. Tra le prime spiccava Ascoli, proprio sulla base della testimonianza tramandata dalla Vita beati Francisci di Tommaso da Celano4. In modo più che comprensibile in considerazione della finalità dell’opera bio-agiografica, Tommaso da Celano non fornisce che vaghe indicazioni temporali: la pre-
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Edizione critica del testo: THOMAS DE CELANO, Vita prima, c. XXII, in Fontes Franciscani, cur. E. MENESTÒ - S. BRUFANI cum aliis, Santa Maria degli Angeli-Assisi 1995, p. 337. 2 Si vedano F. ALLEVI, Il padre Pagnani e il suo tirocinio di storico sarnanese, «Picenum Seraphicum», 17 (1984-87), pp. 299-305; B. PULCINELLI, Pagnani Giacinto francescano e scrittore - bibliografia, ibid., pp. 307-312. Tutto il fascicolo di «Picenum Seraphicum», 29 (2014), è dedicato ai suoi interessi storiografici: è consultabile online all’indirizzo: https://riviste.unimc.it/index.php/pi_ser (ultimo accesso: 5 maggio 2017). 3 G. PAGNANI, I viaggi di S. Francesco d’Assisi nelle Marche, Milano 1962. 4 Ibid., pp. 49-56.
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senza di Francesco ad Ascoli si collocherebbe in un periodo di predicazione itinerante, dopo la predica agli uccelli, che secondo Celano avrebbe avuto luogo a Bevagna5. Sulla base di queste esili tracce, ben consapevole degli inevitabili aspetti congetturali del suo lavoro, Pagnani proponeva, facendo proprio un giudizio del Sabatier sulla data della predica agli uccelli, il 1215 come l’anno più verosimile per la predicazione di Francesco a Ascoli6. Non si possono tuttavia escludere altre ipotesi, visto che l’autore della Vita beati Francisci narra l’episodio di Bevagna dopo quello dell’incontro di Francesco con il Sultano, avvenuto nel contesto della quinta Crociata, e datato tra 12191220: lo evidenzia Roberto Rusconi, nella sua esemplare voce per il Dizionario biografico degli Italiani7. D’altro canto tuttavia, lo stesso Tommaso da Celano, in una testimonianza scoperta molto recentemente (quasi vent’anni dopo il lavoro di Rusconi) da Jacques Dalarun e oramai nota come Vita brevior, databile a qualche anno dopo la Vita beati Francisci, certo prima del 1239, menziona invece l’episodio di Bevagna prima del viaggio in Egitto8. Si tratta di un ulteriore esempio che valorizza un risultato del fervore di studi francescani compiuti negli anni successivi alla pubblicazione dell’opera di Pagnani: l’acquisita consapevolezza dei pericoli di ordine metodologico derivanti dal tentativo di proiettare su di una scala cronologica univoca le informazioni contenute in testimonianze bio-agiografiche9.
5 Nella foltissima bibliografia su questa fonte, mi limito a R. PACIOCCO - F. ACCROCCA, La leggenda di un santo di nome Francesco. Tommaso da Celano e la Vita beati Francisci, Milano 1999 e alla sintetica presentazione in F. URIBE, Introduzione alle fonti agiografiche di San Francesco e santa Chiara d’Assisi, Assisi 2002, pp. 62-85. 6 PAGNANI, I viaggi cit., p. 53. 7 R. RUSCONI, Francesco d’Assisi nelle fonti e negli scritti, Padova 2002, pp. 49-50; questo testo era già uscito come R. RUSCONI, Francesco d’Assisi, santo, in Dizionario biografico degli Italiani, 49, Roma 1997, ora consultabile anche online: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-francesco-d-assisi_(Dizionario-Biografico)/ (ultimo accesso: 5 maggio 2017). 8 J. DALARUN, Thome Celanensis Vita beati patris nostri Francisci (Vita Brevior), «Analecta Bollandiana», 133 (2015), pp. 23-86; per la menzione di Bevagna, pp. 48-49. 9 Ricordo a questo proposito l’opera di un maestro recentemente scomparso, G. MICCOLI, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino 1991, che alle pp. 190-263 affronta ex professo il tema del rapporto tra agiografia e storia; cfr. anche RUSCONI, Francesco d’Assisi nelle fonti cit., p. 9: «da ciò deriva la difficoltà a fissare una datazione attendibile degli avvenimenti, qualora non intervenga altra documentazone, dal momento che nelle biografie agiografiche essi vengono collocati, in genere, secondo una cronologia relativa».
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Si è quindi comportata in modo del tutto condivisibile l’amministrazione comunale di Ascoli, guidata dal sindaco Guido Castelli, fissando nel 2015 l’anno cardine di una lunga serie di iniziative centenarie francescane, che hanno trovato a mio giudizio nella mostra Francesco nell’arte da Cimabue a Caravaggio, tenuta tra marzo e giugno 2016, uno dei momenti culturalmente più significativi10. Sarebbe tuttavia una deformazione prospettica ridurre all’episodio ricordato nella Vita beati Francisci il rapporto tra la città di Ascoli Piceno e le esperienze religiose che a Francesco si sono rifatte, ispirandosi al suo esempio e curandone la memoria. Se gli esperti ancora discutono quale possa essere stato il primissimo insediamento dei Frati Minori ad Ascoli11, è comunque accertato, per il 1237, un significativo lascito che già testimonia di un rapporto che si direbbe consolidato con famiglie cittadine di un certo riguardo12. A metà degli anni Cinquanta del XIII secolo si colloca il trasferimento del convento dei frati minori dalla località di Campo Parignano alla centralissima collocazione della chiesa di San Francesco tutt’ora esistente13, operazione di grande rilievo non solo per l’Ordine, ma anche per il tessuto urbano e tutta la vita cittadina, come testimoniato perfino da non trascurabili resistenze14. Se questo riguarda i Frati Minori, Ascoli si segnala anche per una notevole vivacità delle presenze religiose femminili che in diversi modi, come la storiografia più recente ci ha ormai insegnato, erano in connessione con l’esperienza francescana. I numerosi insediamenti femminili ascolani sui
10 Se ne veda il catalogo, Francesco nell’arte da Cimabue a Caravaggio, cur. G. MORELLO - S. PAPETTI, Cinisello Balsamo 2016. 11 Si vedano a questo proposito anche le recenti riflessioni di M.E. GRELLI, 1215: San Francesco ad Ascoli. I francescani nel territorio ascolano nel XIII secolo in Francesco nell’arte cit., pp. 41-49, ma da non dimenticare il saggio del compianto storico ascolano G. GAGLIARDI, I primordi francescani ad Ascoli, in I Francescani dalle origini alla controriforma, cur. GAGLIARDI. Atti del corso del piano provinciale di aggiornamento per docenti e dirigenti delle scuole elementari e delle medie inferiori e superiori (Ascoli Piceno 2002-2003), Ascoli Piceno 2005, pp. 249-263. 12 Già lo evidenziava PAGNANI, I viaggi cit., p. 53. 13 G. MICOZZI, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno, in I Francescani cit., pp. 177247. 14 G. PAGNANI, Il più antico convento francescano di Ascoli Piceno, «Picenum Seraphicum», 7 (1970), pp. 209-221; i principali documenti relativi, provenienti dal fondo dell’Abbazia cisterciense di Fiastra, sono stati ora riediti in Le carte di Chiaravalle di Fiastra, VIII (1256-1265), cur. G. ANCIDEI, Spoleto 2014, pp. 139-148.
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quali si disponeva di una monografia descrittiva15, sono stati oggetto di indagini anche recenti e storiograficamente avvertite16. Né sono mancati coinvolgimenti dei Frati Minori in controversie con altre realtà religiose, a partire dalle tensioni con le comunità che negli anni Cinquanta del Duecento sarebbero state unificate come Eremiti di Sant’Agostino17. Non fu trascurabile neppure il ruolo dei medesimi Frati Minori nell’azione repressiva ai danni di Domenico Savi, originale figura di laico religioso noto meno propriamente anche come Meco del Sacco18. Com’è ovvio, l’elenco potrebbe continuare, e farebbe emergere una fase particolarmente densa con l’Osservanza, ma anche sospendendo alle prime decadi del XIV secolo questa riflessione, si coglie lo spessore della presenza minoritica, in alcune delle sue molteplici valenze, nella società cittadina ascolana19, che la rendono parte integrante del vivacissimo mondo politico, culturale e religioso delle autonomie cittadine italiane negli ultimi secoli dell’età mediana20. Quando il presidente dell’Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli”, Luigi Morganti, senza dubbio di concerto con il primo cittadino di Ascoli Piceno, con largo anticipo propose al Comitato Scientifico, presieduto da Antonio Rigon, di dare un proprio contributo all’iniziativa francescana dell’amministrazione comunale, il Comitato aderì organizzando il convegno tenutosi poi tra 27 e 29 novembre 2014 e i cui atti sono riuniti nel presente volume. Dal 2005 il Comitato Scientifico aveva impostato l’at-
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R. GIORGI, Le clarisse in Ascoli, Fermo 1968. F. BARTOLACCI, Il complesso mondo delle donne. Indagine sugli insediamenti “francescani” femminili nelle Marche durante il pontificato di Gregorio IX, «Franciscana», 14 (2012), pp. 121-150: 138-147. 17 Per questi problemi si veda in particolare il saggio di E. CALILLI NARDINOCCHI, Insediamenti degli Ordini Mendicanti in Ascoli Piceno, «Picenum Seraphicum», 15 (197980), pp. 213-238; alcuni interventi papali a questo proposito sono stati presentati in A. FRANCHI, Ascoli pontificia, II (dal 1244 al 1300), regesti a cura di L. CIOTTI, Ascoli Piceno 1999, in part. p. 69. 18 S. BENEDINI, Un processo ascolano tra sospetti d’eresia e abusi inquisitoriali, «Picenum Seraphicum», 19 (2000), pp. 171-207; G. GAGLIARDI, Meco del Sacco. Un processo per eresia tra Ascoli e Avignone, in L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300, cur. A. RIGON - F. VERONESE. Atti del Convegno Ascoli Piceno (30 novembre-1 dicembre 2007), Roma 2009, pp. 305-316. 19 Quanto alla storia sociale e politica di Ascoli, si veda la precisa e aggiornatissima sintesi di G. PINTO, Ascoli Piceno, Spoleto 2013. 20 Su questo tema, la recentissima raccolta di saggi di A. RIGON, Antonio di Padova. Ordini mendicanti e società locali nell’Italia dei secoli XIII-XV, cur. M.T. DOLSO - D. GALLO, Spoleto 2016.
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tività convegnistica promossa dall’Istituto nel segno dell’incontro di politica, cultura e società nelle autonomie cittadine basso medievali21. Parve quindi coerente proporre un convegno non strettamente “francescanistico”, ma piuttosto orientato al rapporto tra Ordine dei Minori, politica e società nell’Italia tra XIII e XV secolo. Il risultato è stato quello di offrire un quadro, pur solo abbozzato a grandi linee, all’interno del quale potessero essere storicamente più comprensibili anche le vicende ascolane, in quanto inserite in un contesto pertinente. Da quella scelta iniziale, pur con le ovvie mediazioni dovute alle fasi dell’organizzazione, dello svolgimento effettivo dell’incontro di studio e della rielaborazione scritta dei contributi, deriva l’articolazione di questo volume. Dopo il saluto inaugurale di Antonio Rigon, la prolusione di Grado Merlo è dedicata alle due anime che egli riconosce nell’Ordine, distinguendo tra “francescanesimo” e “minoritismo”, nel loro rapporto con la politica. Maria Pia Alberzoni si è concentrata sul ruolo svolto dall’Ordine nel conflitto tra Federico II e il Papato22, mentre Marina Gazzini ha affrontato, a partire dalla figura del francescano Gerardo da Modena, le tensioni che hanno caratterizzato la stagione religioso/politica del movimento dell’ “Alleluja” negli anni Trenta del Duecento. Lo storico dell’arte Furio Cappelli si è occupato di committenze artistiche, architettoniche e figurative di primo livello (tra curia pontificia e regno angioino), fortemente connesse con temi e personaggi francescani. Istituzioni politiche dell’Italia comunale, ceti nobiliari e regimi signorili nei loro rapporti con i Frati Minori sono oggetto di indagine rispettivamente nei saggi di Michele Pellegrini, Andrea Tilatti e Jean-Baptiste Delzant, che contribuiscono a una migliore comprensione di una realtà complessa e irriducibile rispetto a chiavi di lettura unilaterali. Luca Marcelli ha trattato il rapporto tra vita economica dei conventi francescani e comuni, facendo incontrare,
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Per rendersene conto è sufficiente una rapida scorsa, nel catalogo dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, ai titoli della collana in cui si inserisce anche il presente volume: http://www.isime.it/index.php/pubblicazioni/atti-del-premio-internazionaleascoli-piceno-iii-serie (ultimo accesso: 5 maggio 2017). 22 Maria Pia Alberzoni, che pur invitata non aveva potuto presenziare al Convegno per una sovrapposizione di impegni, ha inviato in seguito il suo contributo; purtroppo Maria Elma Grelli è stata costretta a rinunciare a a consegnare la versione scritta a causa dei recenti eventi sismici che hanno colpito anche Ascoli Piceno: si veda comunque il suo articolo citato alla nota n. 11. In questi atti si rileva la mancanza anche dei contributi di Raimondo Michetti e Sylvain Piron, non acquisibili per diversi ordini di ragioni. Per loro, come anche per Maria Elma Grelli, restano sempre aperte le pagine di «Picenum Seraphicum», quando i loro saggi saranno giunti a maturazione.
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in maniera innovativa e con un ampio sguardo alla realtà italiana, documentazione normativa e amministrativa, sia dei Frati Minori, sia delle autonomie cittadine. Rosa Maria Dessì ha messo a fuoco il ruolo politico ed ecclesiastico svolto da due Frati Minori, l’inquisitore Accursio Bonfantini e il cancelliere di Carlo di Calabria Raimondo di Maussac, nel drammatico epilogo della vita di Cecco d’Ascoli. Il contributo dei Frati Minori al ‘discorso politico’ visconteo è rappresentato dallo studio di Barbara Baldi sull’orazione di Pietro Filargis (il futuro papa ‘pisano’ Alessandro V) pronunziata in occasione del conseguimento del titolo di duca da parte di Gian Galeazzo, mentre Marina Benedetti si proietta verso un periodo successivo, reinterpretando sulle basi di nuovi elementi le vicende dello scontro milanese tra Bernardino da Siena e il maestro d’abaco Amedeo Landi, uno scontro in cui emergono le resistenze, in alcuni ambienti cittadini, al progetto religioso e politico perseguito dall’Osservanza. Alle valenze politiche della predicazione osservante è dedicato infine il saggio sulla predicazione di una figura molto presente anche nella scena ascolana: Giacomo da Monteprandone. Valorizzando i risultati di sue recenti ricerche manoscritte, Lorenzo Turchi offre un contributo alla conoscenza dei suoi sermones de pace23. Il Convegno organizzato dall’ISSM si tiene di norma in concomitanza con il conferimento del Premio internazionale “Ascoli Piceno”: nel 2014 il riconoscimento è andato ad Attilio Bartoli Langeli: il volume si chiude quindi con la lectio magistralis di uno studioso che molto ha meritato, con la sua concentrazione sulla natura della documentazione in tutti i suoi aspetti, sia nel campo degli studi francescani, sia in quelli relativi alla cultura delle autonomie cittadine bassomedievali. Considerando il risultato del percorso della genesi di questo volume, che mette a fuoco vari aspetti di un rapporto complesso, quello tra Frati Minori e autonomie cittadine del Basso Medioevo, mi pare che esso costituisca non solo un contributo alle iniziative culturali ascolane, nella scia della migliore tradizione dell’Istituto Superiore di Studi Medievali, ma anche la dimostrazione che varie tendenze della storiografia medievistica italiana, se e quando si pongono su di un terreno di collaborazione costruttiva, possono interagire in maniera feconda. Si tratta di un’ulteriore ragione per essere grati all’Istituto storico italiano per il Medio Evo che ne ha resa possibile la pubblicazione.
23 Al Convegno l’intervento di Lorenzo Turchi è stato condotto in collaborazione con Francesco Nocco, che ha dovuto rinunciare a pubblicare il suo contributo.
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PRIMA GIORNATA
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Saluto inaugurale
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Sono lieto di porgere a tutti voi il saluto della Giuria-Comitato scientifico del «Premio internazionale Ascoli Piceno» e un cordiale ringraziamento ai relatori che si accingono ad intervenire e a quanti, oggi e domani, seguiranno i lavori del convegno. Dodici anni fa (2002) l’ Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli”, allora presieduto da Giannino Gagliardi, organizzò un seminario triennale sulla presenza e sull’attività degli Ordini mendicanti nel Piceno. Il seminario si inseriva nell’ambito del Piano provinciale di aggiornamento per docenti e dirigenti delle scuole elementari, medie inferiori e superiori e, come scriveva Gagliardi, era destinato a far conoscere ai docenti delle scuole e ad un pubblico più vasto i risultati dello straordinario sviluppo avuto negli ultimi decenni del secolo scorso dagli studi sugli Ordini mendicanti in Italia e all’estero1. Il primo anno del corso ebbe per tema I Francescani dalle origini alla Controriforma. Chiamato a tenere la lezione inaugurale, dichiarai la mia soddisfazione nel constatare che un filone di ricerca, tradizionalmente appannaggio degli specialisti, aveva ormai raggiunto una sua centralità anche al di fuori del ristretto campo degli addetti ai lavori. La consapevolezza del rilievo assunto dalla storia del francescanesimo, e più in generale degli Ordini mendicanti, non solo come settore di ricerca e nicchia degli storici di professione, ma anche come una chiave di lettura dell’intera civiltà bassomedievale, mi sembrava aver superato le barriere dello specialismo ed essere penetrata in un’area culturale più vasta, sino a raggiungere il
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Si veda la presentazione del Gagliardi nel volume I Francescani dalle origini alla controriforma. Atti del corso del piano provinciale di aggiornamento per docenti e dirigenti delle scuole elementari e delle medie inferiori e superiori (Ascoli Piceno 2002-2003), cur. G. GAGLIARDI, Ascoli Piceno 2005, p. [5].
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mondo della scuola e dunque quello della formazione dei giovani2. Oggi, di fronte al ridimensionamento della storia, in particolare di quella antica e medievale, come materia di insegnamento nelle scuole, e l’appiattimento conformistico sulla storia contemporanea e sulla contemporaneità nella cultura e nell’insegnamento, sono meno ottimista. Devo però prendere atto del fatto che la richiesta di dedicare il convegno di quest’anno ad un tema di storia francescana viene direttamente dalla città di Ascoli Piceno attraverso il suo sindaco Guido Castelli, che ringrazio vivamente per l’attenzione che rivolge all’Istituto superiore di studi medievali e alle sue attività, così come ringrazio il vescovo di Ascoli monsignor Giovanni d’Ercole che ha appoggiato il progetto, facendosene anzi protagonista quale moderatore della Tavola rotonda che si è svolta nell’anteprima del convegno. Sono segnali incoraggianti che attenuano in parte il pessimismo che ho prima manifestato. Certo non mi sfugge che all’origine, in un momento di rilancio di interesse per la figura di san Francesco, favorito dalla circostanza eccezionale di un pontefice di Roma che, per la prima volta nella storia, ha assunto il nome del santo di Assisi, c’è anche il desiderio di valorizzare una tradizione locale, quella cioè del passaggio e della presenza in Ascoli dello stesso frate Francesco. Agli occhi dello storico il pericolo è evidente. Se c’ è un terreno fertile di invenzione della tradizione è proprio quello della presenza del Poverello in innumerevoli località e della fondazione di conventi da parte sua. Nel caso di Ascoli Piceno però il ricordo della venuta di Francesco in città non si fonda su una tradizione locale, a sua volta basata su memorie e notizie di cronaca spesso tardive, interessate ad alimentare orgogli municipali e glorie cittadine, ma sulla Vita prima di Tommaso da Celano, il primo e più autorevole agiografo di Francesco, al quale difficilmente si potrebbe imputare una qualche motivazione di parte nel ricordare l’evento, e che da non altro sarebbe mosso se non dalla volontà di narrare un fatto avvenuto: Nel tempo in cui [...] predicò agli uccelli, il venerabile frate Francesco, percorrendo città e villaggi e spargendo ovunque la semente della benedizione, arrivò anche ad Ascoli. In questa città, annunciando la parola di Dio secondo il solito con grande fervore, quasi tutto il popolo fu pieno di
2 A. RIGON, Origini e radicamento locale dell’Ordine dei frati Minori, in Gli ordini mendicanti nel Piceno. 1. I francescani dalle origini alla controriforma. Atti del corso del piano provinciale di aggiornamento (Ascoli Piceno, 2002-2003), cur. G. GAGLIARDI, Ascoli Piceno 2005, p. 9.
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tanta grazia e di devozione per opera del Signore, che tutti si accalcavano l’un l’altro, desiderosi di vederlo e di ascoltarlo. Infatti ben trenta, tra chierici e laici, ricevettero dalle sue stesse mani l’abito religioso. Ed era così grande la fede e l’ammirazione di uomini e donne per il santo di Dio, 3 che si considerava fortunato chiunque avesse potuto toccargli la veste .
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Questo in traduzione italiana è il testo di Tommaso da Celano che fa riferimento ad Ascoli: un testo agiografico che, come tale richiede particolare prudenza e acribia critica per l’utilizzazione in sede storica. Come ci ha insegnato Luigi Pellegrini, proprio in Tommaso da Celano la precisione nell’indicazione dei luoghi di sosta di Francesco e dei suoi compagni può essere illusoria, in quanto tesa ad illustrare, con esemplificazione concreta, modalità insediative e percorsi legati a scelte di vita religiosa più che a segnalare specifiche località4. Nell’episodio di Ascoli appare centrale il tema della predicazione urbana di Francesco in un più ampio contesto narrativo orientato a sottolineare la straordinaria capacità del Poverello di farsi intendere da tutte le creature, compresi gli animali e gli esseri inanimati. E, come già rilevava Maria Teresa Dolso in un suo volume del 2001, emerge nel caso ascolano il binomio predicazione-reclutamento, significativo, quest’ultimo, per la messa in risalto della quantità e qualità dei nuovi adepti (trenta, fra chierici e laici)5. Ma lascio ovviamente al collega Roberto Lambertini, che introdurrà i lavori, e ai relatori del convegno gli approfondimenti del caso nell’ambito di una tematica generale che il Comitato scientifico, raccogliendo l’invito del sindaco e dei cittadini di Ascoli a trattare un tema di storia francescana, ha indirizzato sui binari della dimensione politica che, assieme a quella culturale, costituisce il filo rosso dei nostri incontri. Quello del rapporto tra francescanesimo e politica è un tema per così dire classico, molto studiato, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, lungo due direttive di fondo. La prima riguarda i rapporti tra Minori e potere, con attenzione all’appoggio fornito da istituzioni e famiglie aristocratiche ai frati, impegnati a indicare vie di salvezza eterna, regole morali e forme di cultura in cambio di accordi e protezioni politiche. La seconda si
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Vita del beato Francesco [Vita prima] di Tommaso da Celano, pres. F. ACCROCCA, trad. A. CALUFETTI - M. CERA, not. F. OLGIATIL - D. SOLVI, in Fonti francescane, Padova 20113, p. 291. 4 Cfr. i vari spunti di riflessione al riguardo contenuti nei saggi raccolti in L. PELLEGRINI, I luoghi di frate Francesco. Memoria agiografica e realtà storica, Milano 2010, in particolare pp. 35, 51-52. 5 M.T. DOLSO, “Et sint minores”. Modelli di vocazione e reclutamento dei frati Minori nel primo secolo francescano, Milano 2001, p. 151.
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riferisce invece agli sviluppi del pensiero politico, al contributo offerto dai frati Minori all’elaborazione di modelli di società, alla riflessione su temi di etica economica con allargamento, dagli anni Novanta in poi, a tematiche relative ai linguaggi e alle cosiddette progettualità minoritiche, e con tentativi di mettere in relazione storia del pensiero economico e storia dell’economia dei conventi. Raramente però le due linee di ricerca si sono davvero incontrate e a volte l’attenzione alla dimensione politico-istituzionale ha finito col fagocitare e di fatto annullare quella propriamente religiosa. Per ciò che riguarda in particolare gli sviluppi tardomedievali del francescanesimo è stato fatto osservare, ad esempio, il carattere unilaterale di certe letture del nesso tra Ordine dei frati Minori (in particolare dei frati dell’Osservanza) e Stato6. Sul protagonismo statuale si è posta invero molto spesso un’enfasi eccessiva, mettendo in secondo piano il carattere plurale del sistema di relazioni entro cui i frati Minori, e in generale gli Ordini religiosi, si collocavano. Il ruolo dello Stato, del principe, delle città dominanti nell’indirizzare i rapporti con i Minori, e in specie con gli Osservanti, è stato esaltato a danno di una considerazione più consapevole ed equilibrata dell’esistenza di una società politica complessa e variegata, non riducibile alle sue istituzioni di vertice che, ad esempio, proprio nelle città e in particolare nelle città minori, manifestava orientamenti favorevoli all’insediamento e allo sviluppo di conventi con motivazioni non necessariamente di potere. L’eccesso di concentrazione sulle specificità francescane, isolate rispetto ad un contesto più generale, ricco di Ordini religiosi, e la mancata comparazione con altre esperienze di rapporto con il potere politico ed economico, non lontane da quelle dei Minori, a partire dagli altri Ordini mendicanti, può in realtà nuocere gravemente alla comprensione di quelle stesse specificità. La strada del confronto con le altre realtà e dell’inserimento dell’Ordo fratrum Minorum nel più vasto panorama della vita sociale e istituzionale, civile ed ecclesiastica del basso medioevo, imboccata dalla storiografia nei tardi anni Sessanta del secolo scorso va ripresa e ampliata. Intanto questo convegno, pur dedicato ai rapporti tra frati Minori e politica, mette in primo piano un ben più profondo e strutturale legame che è quello dei frati con le città nella loro dimensione politica, connotata dalla
6 Cfr. B. BALDI, I francescani tra religione e politica in Italia (secoli XIII-XV). Le tendenze recenti degli studi, «Quaderni storici», 47 (2012), pp. 525-560: 536; utile rassegna storiografica alla quale rinvio anche per più dettagliati rimandi bibliografici su quanto detto qui di seguito.
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ricerca e dalla rivendicazione dell’autonomia rispetto a ogni altro potere sia laico che ecclesiastico. Il francescanesimo è sin dalle origini legato al mondo cittadino e i frati Minori sono una componente importante della società. Nello stesso tempo appartengono ad un movimento e ad un Ordine dalle idealità universali, centralizzato nelle sue strutture di governo, fortemente connesso con il pontificato romano. Come un simile movimento si raccordi con le autonomie istituzionali e le aspirazioni politiche delle società comunali e con le loro evoluzioni e trasformazioni nell’età delle signorie e degli Stati regionali; è questo il problema centrale del convegno che oggi si apre. Della sua impostazione e della sua articolazione parlerà ora Roberto Lambertini che nel Comitato scientifico si è assunto l’onere di tracciare un percorso e seguire l’organizzazione di queste giornate di studio. A me non resta che ringraziarlo per l’impegno profuso e rivolgere un sentito ringraziamento anche al presidente dell’Istituto superiore di studi medievali ”Cecco d’Ascoli”, Luigi Morganti, sempre in prima linea nella promozione di iniziative che fanno dell’Istituto stesso un punto di riferimento altissimo per la cultura di questa città. Un caloroso grazie va alla vicepresidente Elia Calilli, alla segretaria Isabella Monti, ai loro collaboratori Alessandro Simoni e Laura Castelli, costantemente disponibili e attenti a garantire le migliori condizioni di svolgimento delle nostre attività. Permettetemi infine di manifestare, a nome di tutto il Comitato scientifico, la più profonda riconoscenza alla professoressa Isa Lori Sanfilippo dell’Istituto storico italiano per il Medioevo, che da anni segue con rigore e dedizione assoluta la pubblicazione degli Atti dei Convegni ascolani.
Postilla
I tre anni trascorsi dallo svolgimento del Convegno alla pubblicazione degli Atti sono stati tra i più difficili della recente storia di Ascoli Piceno, duramente provata dal terremoto che ha colpito la città e devastato il suo territorio. Con grande responsabilità e altissimo senso civico il Presidente dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, prof. Massimo Miglio, sentito il Consiglio direttivo dell’Istituto, ha deciso di assumere totalmente a carico dell’ Istituto stesso le spese di pubblicazione di questo volume. A nome del Comitato scientifico dell’ Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli”, desidero ringraziare vivamente il prof. Miglio per questa esemplare e concreta manifestazione di solidarietà.
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GRADO GIOVANNI MERLO
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Francescanesimo, minoritismo e politica
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Delle tre parole che fanno da titolo alla presente relazione soltanto una risale alla lingua volgare del secolo XIII, anzi della seconda metà di quel secolo. La parola non è francescanesimo, né tanto meno minoritismo. La parola è ovviamente politica, che secondo la definizione aristotelica di Brunetto Latini significa «la scienza e l’arte di governare lo Stato»1. Tale definizione spinge a immettersi subito in medias res, ovvero nella complessa e articolata questione dei rapporti tra «francescani e politica» all’interno dello specifico contesto delle «autonomie cittadine2 dell’Italia bassomedievale»: nel pieno rispetto così del titolo generale del nostro incontro. Però, percorrendo con attenzione l’elenco delle relazioni previste nel nostro convegno, all’ammirazione per coloro che l’hanno formulato, si accompagna una inquietante preoccupazione relativa allo spazio lasciato a chi deve avviare il convegno stesso. Una prima via d’uscita potrebbe essere offerta dalla storiografia, fornendo un panorama diacronico che muova magari da antiche e acute osservazioni di un Volpe3 o di un Hefele4 per risalire, gradino per gradino, sino agli «Atti del Convegno internazionale di studio» tenutosi a Palermo nel dicem-
1 M. CORTELAZZO - P. ZOLLI, Dizionario etimologico, Bologna 1985, p. 950. Data la natura “introduttiva” della presente relazione l’apparato di note si limita a fare da supporto al testo là dove necessario. 2 Per mera constatazione curiosa si ricorda che l’espressione fa da titolo al contributo di G. FASOLI, Le autonomie cittadine nel medioevo, in Nuove questioni di storia medioevale, Milano 1964, pp. 145-176. 3 Cfr. G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (secoli XI-XIV), Roma 1997 (1a ed., Firenze 1922, ma la prima redazione del lungo saggio risale al 1907), pp. 155-171: su cui vi veda M. BENEDETTI, Eresie medievali e eretici modernisti, in La riforma della Chiesa nelle riviste religiose di inizio Novecento, cur. BENEDETTI D. SARESELLA, Milano 2010, pp. 313-330. 4 H. HEFELE, Die Bettelorden und das religiöse Volksleben Ober- und Mittelitaliens im 13. Jahrhundert, Leipzig 1910.
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bre 2002, pubblicati in due massicci tomi col titolo I francescani e la politica, a cura del compianto Alessandro Musco, da «Officina di studi medievali» nel 20075, passando attraverso la Tavola rotonda, organizzata dall’École Française di Roma nell’aprile 1977, su Les Ordres mendiants et la ville en Italie centrale tra gli inizi del Duecento e la metà del Trecento6, e attraverso il numero speciale della rivista «Civis. Studi e testi» del 1983 dedicato a Minoritismo e centri veneti nel Duecento, che si deve all’ideazione di Giorgio Cracco con i contributi di studiosi (allora giovani) quali Antonio Rigon, Daniela Rando, Gian Maria Varanini e Francesca Lomastro7. Né è da dimenticare il contributo, ovvero il bilancio critico, di Antonio Rigon su Frati Minori e società locali nell’oramai classico volume einaudiano su Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana del 19978. A ben pensare, però, gli studi dell’ultimo trentennio del secolo XX presentano un’attenzione tutta particolare alla “società cittadina”, piuttosto che alle forme politico-istituzionali che avevano preso i governi bassomedievali operanti nelle città: l’influenza, in generale, della “storia sociale” delle «Annales» – un’influenza che si estendeva in verità a larga parte della medievistica italiana – e, in particolare, delle ricerche di Jacques Le Goff9 era assai forte, se non addirittura condizionante. Nell’ambito degli “studi francescani” l’influenza ha primi esempi di notevole qualità in un saggio di Anna Benvenuti su Ordini mendicanti e città del 197610 e negli studi di Anna Imelde Galletti su Insediamento e primo sviluppo dei frati Minori a Perugia e di Attilio Bartoli Langeli su La famiglia Coppoli nella società perugina del Duecento nel volume Francescanesimo e società cittadina.
5 Cfr. I francescani e la politica, cur. A. MUSCO, con Indice dei nomi e dei luoghi, cur. G. MUSOTTO, e Nota bibliografica ragionata di aggiornamento di L. PARISOLI, 2 voll., Palermo 2007. 6 Les Ordres mendiants et la ville en Italie centrale (v. 1220 - v. 1350), «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge - Temps modernes», 89 (1977), pp. 555- 773. 7 Minoritismo e centri veneti nel Duecento, Trento 1983 (= «Civis. Studi e testi», 7/19-20). 8 A. RIGON, Frati Minori e società locali, in M.P. ALBERZONI et alii, Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, cur. A. BARTOLI LANGELI - E. PRINZIVALLI, Torino 1997, pp. 259-281. 9 Il riferimento eminente era a J. LE GOFF, Apostolat mendiant et fait urbain dans la France médiévale: l’implantation des ordres mendiants. Programme-questionnaire pour une enquête, «Annales. Économie, Sociétés, Civilisations», 23 (1968), pp. 335-353; LE GOFF, Ordres mendiants et urbanisation dans la France médiévale. État de l’énquête, ibid., 25 (1970), pp. 924-946. 10 A. BENVENUTI PAPI, Ordini mendicanti e città. Appunti per un’indagine, il caso di Firenze, in Da Dante a Cosimo I. Ricerche di storia religiosa e culturale toscana nei secoli XIVXVI, cur. D. MASELLI, Pistoia 1976, pp. 122-145.
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L’esempio di Perugia, edito nel 1979 in occasione del VII Centenario del convento francescano di Monteripido in Perugia11. Possiamo considerare questo volume come l’antesignano di non poche successive opere variamente dedicate al rapporto tra francescanesimo e società analizzato nelle più diverse parti d’Italia: opere che hanno trovato alimento tematico e problematico nei molti contributi di André Vauchez12. Proseguire secondo la direzione tracciata dall’importante produzione che abbiamo evocato sarebbe magari interessante, ma, in quanto direzione di “storia sociale”, porterebbe forse fuori dall’ambito delle «autonomie cittadine dell’Italia basso-medievale», a cui ci si dovrebbe attenere. Percorrendo i titoli delle relazioni previste per il nostro convegno, risulta che la dimensione sociale non è venuta meno, ma che le «autonomie cittadine» appaiono situate, direi, necessariamente in un più ampio orizzonte, nel quale compaiono “Chiesa”, “Impero”, “Regno”, “signorie”, “reti familiari” e così via. Non c’è da provare stupore: le «autonomie cittadine» sono tali perché vogliono distinguersi e connotarsi in rapporto ad altri poteri politico-istituzionali, né possono esistere senza contare su forti supporti sociali. In tal modo sembrerebbe giustificarsi persino l’uso dell’espressione “società politica” che, a prima vista, parrebbe quasi un ossimoro. Certo, società e politica sono strettamente intrecciate pressoché ovunque nell’Italia centro-settentrionale del Duecento, generando instabilità strutturali nella vita collettiva delle città: instabilità che a loro volta spinsero a ricercare e sperimentare forme di governo che rompessero quell’intreccio e si elevassero al di sopra dei conflitti sociali, per giungere finalmente, se non proprio a eliminarli, a ridurne gli effetti negativi13. Una delle prime sperimentazioni è costituita dai regimi podestarili, che rivelano il proposito di dar vita a un vertice politico capace di esprimere in modo unitario il governo cittadino e di trovare una forma di governo agente “al di sopra” delle forze rappresentate dai milites e dal populus, attenuandone l’aspra concorrenza, anche se quel proposito ebbe realizzazioni raramente
11 Francescanesimo e società cittadina: l’esempio di Perugia, cur. U. NICOLINI, Perugia 1979 (Pubblicazioni del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici dell’Università di Perugia», 1): i saggi di A.I. GALLETTI e di A. BARTOLI LANGELI sono rispettivamente alle pp. 1-44 e 45-112. 12 Sufficiente, ma non esaustivo, il rinvio a A. VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana, XIII-XV secolo, Milano 1990; VAUCHEZ, Francesco d’Assisi e gli Ordini mendicanti, Assisi 2005. 13 Cfr., in generale, J.-C. MAIRE-VIGUEUR, Cavalieri e cittadini, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004.
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compiute e mai durature14. Insomma, urgente era l’esigenza di pacificare la vita collettiva. In questa tensione pacificatrice si esaltano talune forme della predicazione e dell’azione di frate Francesco d’Assisi che sono testimoniate dai suoi stessi scritti, dalle leggende “francescane” e dalla notissima testimonianza del chierico Tommaso da Spalato15. Su quest’ultima è intervenuto più volte con grande competenza e finezza Enrico Artifoni e non è caso di insistervi16. Il Francesco che non segue il modus predicantis, ma opta per «uno stile quasi concionatorio (modus quasi concionantis)»17, condivide modalità dell’oratoria politica con la comune finalità di rafforzare la res publica, mirando «a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti [ad extinguendas inimicitias et ad pacis foedera reformanda]»18. D’altronde, la lassa del Cantico di frate Sole che inizia con il versetto «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore»19 venne composta in occasione di un duro scontro tra il vescovo e il podestà di Assisi nel corso del quale frate Francesco intervenne per ristabilire «tra i due la pace e la concordia»20. La pacificazione degli individui si determina attraverso il perdono “per amore di Dio”, nonostante i costi personali che esso può comportare, poiché “l’incoronazione” ultraterrena è il compimento della vita di quanti sostengono «infirmitate e tribulazione […] in pace».
14 Cfr. I podestà dell’Italia comunale. Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII secolo-metà XIV secolo), cur. J.-C. MAIRE-VIGUEUR, 2 voll., Roma 2000 (Nuovi Studi storici, 51). 15 Cfr. i lucidi e chiarificatori saggi di R. MICHETTI, François d’Assise et la paix révelée. Réflexions sur le mithe du pacifisme franciscain et sur la prédication de paix de François d’Assise dans la société communale du XIIIe siècle, in Prêcher la paix et discipliner la société. Italie, France, Angleterre (XIIIe-XIVe siècle), cur. R.M. DESSÌ, Turnhout 2005, pp. 279-312, e di G. MICCOLI, Francesco e la pace, in MICCOLI, Francesco d’Assisi. Memoria, storia e storiografia, Milano 2010, pp. 167-187 (già in Vita evangelica. Essays in Honor of Margaret Carney, cur. M.F. CUSATO - J.F. GODET-CALOGERAS, «Franciscan Studies», 64 [2006], pp. 35-52). 16 Cfr. E. ARTIFONI, Gli uomini dell’assemblea. L’oratoria civile, i concionatori e i predicatori nella società comunale, in La predicazione dei frati dalla metà del ‘200 alla fine del ’300, Spoleto 1995, pp. 141-188: 160-164; ARTIFONI, Egemonie culturali e parole nuove: sulla comunicazione politica nel mondo comunale, in Frate Francesco e i Minori nello specchio dell’Europa, in corso di stampa. 17 Ibid., p. 161. 18 Testimonia minora saeculi XIII de sancto Francisco Assisiensi, cur. L. LEMMENS, Ad Claras Aquas 1926, p. 10. 19 Francisci Assisiensis Scripta, ed. C. PAOLAZZI, Grottaferrata (Roma) 2009, pp. 122 s. 20 Cfr., tra i molti riferimenti possibili, C. PAOLAZZI, Il Cantico di frate Sole, Genova 1992, pp. 46-50.
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Ciò vale ancor più, si potrebbe aggiungere, per coloro che detengono poteri politico-istituzionali e possono “dimenticare il Signore” e “allontanarsi dai suoi comandamenti” «a causa delle cure e della sollecitudine di questo secolo [propter curas et sollicitudines huius seculi]» e a seguito della presunzione derivata dal potere stesso. E ancora: «Quanto più sapienti e più potenti saranno stati in questo secolo, tanto più grandi tormenti sosterranno nell’inferno [quanto sapientiores et potentiores fuerint in hoc seculo, tanto maiora tormenta sustinebunt in inferno]». Così frate Francesco si esprime nella lettera destinata a «tutti i podestà e consoli, giudici e rettori di qualsiasi terra [universis potestatibus et consulibus, iudicibus atque rectoribus ubique terrarum]», di norma detta Epistola ad populorum rectores21. Da notare infine che frate Francesco manifesta una viva preoccupazione circa gli effetti che, in merito alla fede e alla devozione delle popolazioni, possono determinarsi a seguito dello scarso livello di fedeltà cristiana dei «reggitori dei popoli». Ma, si badi, per frate Francesco anche la pace è un dono della Grazia che gli uomini e le donne possono o non possono accogliere. Perciò ben si comprende l’insistenza di frate Francesco sul saluto «Dominus det tibi pacem [il Signore ti dia pace]»22, oltre che sul parallelo saluto «Pace a questa casa [pax huic domui]»23. La pace, interiore ed esteriore, è un tratto della fede in un Dio che vuole pacifici i suoi figli: un tratto però non statico e disincarnato, bensì dinamico e concreto, poiché implica continue decisioni “pacificatrici” di ogni credente, di ogni individuo. Insomma, la testimonianza evangelica e la proposta cristiana del Poverello, ovvero quello che possiamo o, forse meglio, dobbiamo definire il francescanesimo di frate Francesco24, non sono direttamente politiche,
21 Francisci Assisiensis Scripta cit., pp. 148-151; Francesco d’Assisi, Scritti, ed. A. CABASSI, con la collaborazione speciale di G.G. MERLO, Padova 2002, pp. 407-411. 22 Francisci Assisiensis Scripta cit., p. 398. 23 Ibid., p. 326. 24 Sulle problematiche connesse a tale definizione cfr. G.G. MERLO, Intorno a francescanesimo e minoritismo. Cinque studi e un’appendice, Milano 2010. Ovviamente esiste un significato assai più esteso, in dimensioni sia cronologiche sia contenutistiche, di francescanesimo. In tal senso efficace è la definizione di Francisco Victor Sánchez Gil nella sua relazione al I Congreso Internacional della Asociación Hispánica de Estudios Franciscanos del 2003: «La ultima centuria del II Milenio […] puede calificarse con toda verdad de haber sido capaz de lograr un acercamiento a la intelligencia y comprensione […] tanto de la figura y significacion histórica del “Poverello” […], como de su rica herencia. Es decir, del origen, expansion, trayectoria, modalidades, reformas familiares, momentos de esplendor y etapas de decadencia. La supervivencia, en suma, del movimiento franciscano, tras siete largos siglos de presencia, actividad multiple y de innegable aportación efectiva al acervo común dell’Occidente medieval cristiano primero y de la Europa moderna y contemporánea después. Sin olvidar, naturalmente, sus eficaces proyecciones evangelizadoras y cul-
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ma hanno comunque riflessi politici – la pace territoriale, la pace tra gli individui e nella società è obiettivo peculiare dell’ordinamento pubblico e dovere specifico dei detentori del potere politico-istituzionale – soprattutto quando esse si rivolgevano e coinvolgevano le classi eminenti e gli uomini di governo delle singole realtà in cui il Poverello si veniva a trovare e comportavano moniti severi circa il destino ultraterreno di quegli stessi uomini e classi, oltre che delle popolazioni a loro sottoposte. I moniti erano segnati da rigore e speranza, comunicati nelle forme migliori per essere compresi. Perciò, il modus quasi concionandi, scelto per parlare a Bologna il 15 agosto 1222, esprime una modalità comunicativa davvero innovativa rispetto alle tradizionali forme delle artes praedicandi: una modalità comunicativa che in seguito doveva essere ripresa in contesti e termini assai diversi da altri frati. Esemplare è la definizione che frate Salimbene de Adam dà di uno dei protagonisti del moto dell’Alleluia del 1233, ossia frate Gherardo da Modena qualificato come «magnus concionator, ossia […] esperto nei discorsi pubblici di argomento civile, il che ben si attaglia alle alte responsabilità politiche assunte da Gherardo»25. L’accenno all’assunzione di «alte responsabilità politiche» da parte del frate Minore modenese costituisce la porta d’accesso alle considerazioni circa il passaggio dal quasi concionator, impersonato da frate Francesco d’Assisi, al magnus concionator frate Gherardo da Modena, il quale non solo parla in modo politico, ma agisce politicamente in prima persona, addirittura assumendo «alte responsabilità politiche». Il moto dell’Alleluia del 1233 è davvero centrale nell’emergere sociale e politico degli Ordini dei frati Minori e dei frati Predicatori. L’aveva ben compreso André
turales americanas, asiáticas en general y extremo-orientales en particular. Algo asi puede ser […] la idea et concepto de lo que aqui entendemos y se expresa con el vocablo franciscanismo. Por lo que un franciscanismo asi descrito a grandes rasgos, puede ser considerado, con perfecta objectivación y legitimidad históricas, además, a la vista de los presupuestos y condicionamientos apuntados, como categoria historiografica» (F.V. SÁNCHEZ GIL, La historiografía franciscana de la península ibérica en el siglo XX: bosquejo histórico, autores y obras, in El franciscanismo en la península ibérica. Balance y perspectivas, cur. M. DEL MAR GRAÑA CID, Barcelona 2005, p. 71). 25 ARTIFONI, Gli uomini dell’assemblea cit., p. 173; ma cfr. anche ARTIFONI, I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, «Quaderni storici», 63 (1986), pp. 697 s., 715. Non sarà superfluo ricordare che la definizione di «magnus concionator» si deve a frate Salimbene, il quale però aggiunge che frate Gherardo da Modena era pure «optimus et gratiosus predicator» (Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. SCALIA, I, Turnholti 1998 [Corpus Christianorum. Continuatio medievalis, 125], p. 106), a sottolineare una distinzione importante tra «concionator» e «predicator», due distinte modalità di rivolgersi alla folla a seconda delle circostanze, delle opportunità e delle finalità.
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Vauchez quasi cinquant’anni fa nel saggio Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233, che aveva il significativo sottotitolo di L’action politique des ordres mendiants d’après la réforme des statuts communaux et les accords de paix26. Assai meno penetrante la lettura offerta da Augustine Thompson nel suo Revival Preachers and Politics in Thirteenth-Century Italy. The Great Devotion of 1233 del 199227: si tratta di un’ampia e ambiziosa ricerca non sempre sorretta da un’adeguata esegesi documentaria né sempre libera da precomprensioni e da intenti apologetici. La ricerca è qua e là carente in riferimento alle «premesse» dell’azione dei «predicatori» dell’Alleluia e sulla cultura politico-istituzionale degli stessi. Soprattutto non coglie in tutta la loro rilevanza, oltre che i costi umani della cosiddetta “pacificazione” alleluiatica, i processi politici in atto e le iniziative della Chiesa di Roma nell’Italia centro-settentrionale28. Affatto trascurata dal Thompson la rilevanza dell’impegno repressivo antiereticale dei frati protagonisti dell’Alleluia e del suo carattere propriamente politico, assunto in modo definitivo a seguito della innocenziana decretale Vergentis in senium del 1199, che aveva equiparato l’eresia al crimine di lesa maestà29: un carattere su cui aveva insistito con forza il cardinale Ugolino d’Ostia nel condurre le proprie legazioni nell’Italia centrosettentrionale e su cui insisterà una volta divenuto papa Gregorio IX, stabilendo una sorta di rapporto biunivoco inversamente proporzionale tra dimensioni della diffusione ereticale e della «libertas Ecclesiae»30. Perciò si imponeva una generale ricomposizione delle fratture, createsi al volgere dal XII al XIII secolo, tra ceti eminenti cittadini e gerarchie ecclesiastiche e una altrettanto generale alleanza tra governi comunali e papato, come aveva ben compreso un pontefice quale Innocenzo III, inaugurando una
26 Pubblicato in «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge - Temps modernes», 78 (1966), pp. 519-549. 27 Se ne veda anche la traduzione italiana: A. THOMPSON, Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo. La “Grande Devozione” del 1233, Milano 1996. 28 Su cui ora l’ampia e importante ricerca di L. BAIETTO, Il papa e le città. Papato e comuni in Italia centro-settentrionale durante la prima metà del secolo XIII, Spoleto 2007. 29 Cfr. O. HAGENEDER, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, cur. M.P. ALBERZONI, Milano 2000, pp. 131-163, 213-234. 30 Cfr. G.G. MERLO, Contro gli eretici. La coercizione all’ortodossia prima dell’Inquisizione, Bologna 1996, pp. 34-46; D. RANDO, Religione e politica nella Marca. Studi su Treviso e il suo territorio nei secoli XI-XV, I: «Religionum diversitas», Verona 1996, pp. 77-91. Con estensione alla strategia antiereticale del cardinale Ugolino divenuto papa Gregorio IX, cfr. M. BENEDETTI, Gregorio IX: l’inquisizione, i frati e gli eretici, in Gregorio IX e gli Ordini mendicanti. Atti del XXXVIII Convegno internazionale (Assisi, 7-9 ottobre 2010), Spoleto 2011, pp. 293-323.
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strategia che sarebbe stata proseguita con coerente continuità da Onorio III e Gregorio IX attraverso soluzioni via via sollecitate dal mutare delle situazioni generale e locali31. I membri dei nuovi Ordini religiosi, che – diversamente da chierici, canonici e monaci – non erano condizionati da precedenti relazioni e posizioni sociali, economiche e politiche, apparivano particolarmente adatti alla collaborazione con i disegni pontifici: una collaborazione che, per converso, contribuiva alla loro espansione e al loro radicamento32. Espansione e radicamento avvenivano anche attraverso la loro specifica vocazione all’annuncio della Parola, per mezzo di una predicazione assai rinnovata ed efficace33, che rappresentava un ponte robustissimo tra teoria e prassi: una sorta di «nuova militanza della parola religiosa destinata a incidere, in superficie e in profondità, sui modi e sulle forme della convivenza umana»34. Il moto dell’Alleluia del 1233 ne rappresenta un primo straordinario momento di sperimentazione35. I “predicatori” alleluiatici non si limitano a inviti etico-religiosi, per quanto forti e coinvolgenti: compiono scelte ed azioni peculiarmente politiche di cui ebbero acuta consapevolezza non solo i protagonisti, ma anche gli ambienti ereticali36. Ne è una prima testimonianza chiarissima la deposizione di frate Stefano di Spagna, provinciale dei frati Predicatori di “Lombardia”, al processo bolognese di canonizzazione di frate Domenico da Caleruega del 123337:
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Cfr. BAIETTO, Il papa e le città cit., pp. 3- 139, 190-246, 269-334. Una più ampia trattazione di tali temi e problemi in G.G. MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale. Seconda edizione riveduta e ampliata, Assisi 2007, pp. 269-335, 391-409, 411-433. 33 Costituiscono una svolta nelle ricerche sui mutamenti decisivi nella predicazione degli inizi del Duecento le analisi e le suggestioni di J. LE GOFF - J.-C. SCHMITT, Nel XIII secolo. Una parola nuova, in Storia vissuta del popolo cristiano, dir. J. DELUMEAU, ed. it. cur. F. BOLGIANI, Torino 1985, pp. 307-330. Un contributo originale è dato da R. RUSCONI, «Trasse la storia per farne la tavola»: immagini di predicatori degli Ordini mendicanti nei secoli XIII e XIV, in La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300. Atti del XXII Convegno internazionale (Assisi, 13-15 ottobre 1994), Spoleto 1995, pp. 405-450. 34 G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003, p. 114. 35 Di «sperimentazioni dell’Alleluia parla anche M.P. ALBERZONI, Minori e Predicatori fino alla metà del Duecento, in Martire per la fede. San Pietro da Verona domenicano e inquisitore, cur. G. FESTA, Bologna 2007, pp. 77-82. 36 Cfr. MERLO, Contro gli eretici cit., pp. 140-147. 37 Acta canonizationis sancti Dominici, in Monumenta historica sancti patris nostri Dominici, II, Roma 1935, pp. 158 s.
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In civitatibus Lombardie […] maxima multitudo hereticorum est combusta et plusquam centum millia hominum qui nesciebant utrum ecclesie Romane an hereticis deberent adherere, ad catholicam fidem Romane ecclesie […] ex corde sunt conversi. Et hoc scit quia illi conversi hereticos quos primo defendebant, modo persequuntur et abhominantur. Et fere omnes civitates Lombardie et Marchie facta sua et statuta ordinando et mutando ad voluntatem fratrum tradunt in manibus eorum ut radant, addant, minuant et mutent secundum quod eis visum fuerit expedire. Et hoc enim faciunt de guerris extirpandis et pacibus faciendis et componendis inter eos. Et de usuris et male ablatis reddendis et confessionibus audiendis et multis aliis bonis.
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[Nelle città di Lombardia […] una grandissima moltitudine di eretici fu bruciata e più di centomila uomini, che non sapevano se aderire alla Chiesa di Roma o agli eretici, si sono convertiti sinceramente alla fede cattolica della Chiesa romana […]. E ciò appare dal fatto che costoro, convertitisi, ora esecrano e perseguitano gli eretici che prima difendevano. E quasi tutte le città della Lombardia e della Marca rimettono nelle mani dei frati le loro questioni e i loro statuti affinché essi ordinino e mutino secondo la propria volontà. E fanno la stessa cosa per interrompere le guerre e trovano accordi di pace tra loro, oltre che a proposito delle usure e della restituzione del mal tolto, dell’ascolto delle confessioni e di molte altre buone cose].
Ai contenuti della deposizione di frate Stefano di Spagna fanno da speculare contrappunto le riflessioni degli “eretici” riportate nel Liber supra Stella di Salvo Burci, o di Burca, del 123538: Prelati huius ecclesie dant vim et laborant in quantum possunt ut ponatur in scriptis civitatum quod variis tormentis crucierunt hii quos ipsi ereticos appellant; et si comune civitatum non vult hoc facere, pugnant eos dicentes: «Excommunicavimus vos!». Et oportet quod fiat; et si non faciunt, neque dicunt officium, neque quasdam suas truphas; et in hoc comune est stultum et sequitur stultitias suas. O populi, videte quare faciunt eos occidere, quia nolunt iurare nec adulterari, nec comedere carnes et cetera. Sed de illis qui habent gladium ad latus et qui faciunt adulteria et homicidia, non faciunt ipsi ponere. O ecclesia Romana, omnes habes plenas manus de sanguine martirum.
[I prelati di questa Chiesa si danno da fare in ogni modo perché negli statuti delle città si stabilisca che con svariati tormenti siano colpiti coloro che essi chiamano eretici; e se il comune non vuole farlo, essi lo combat-
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Salvo Burci, Liber Suprastella, ed. C. BRUSCHI, Roma 2002 (Antiquitates, 15), p. 280.
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tono e dicono: «Vi scomunicheremo tutti!». Ed è necessario che sia fatto; e se non viene fatto, non dicono l’ufficio né quelle altre loro truffe; e in questo il comune è stolto e segue le loro stoltezze. O popoli, vedete come li fanno uccidere quelli che non vogliono giurare, né peccare di adulterio, né mangiar carne eccetera. Ma a quelli che hanno la spada al fianco e commettono omicidi e adulterii, non la fanno deporre. O Chiesa romana, hai le mani tutte piene del sangue dei martiri].
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Condivise con alcuni frati Predicatori, le iniziative dei frati Minori durante il moto dell’Alleluia del 1233 incidono, prima di tutto, a livello politico-istituzionale agendo sulle leggi statutarie che devono regolare la vita dei cittadini, con gli obiettivi non secondari di conquistare il consenso religioso delle popolazioni e di operare alla ricomposizione dell’universo di ortodossia quale era voluto dal vertice della cattolicità romana. In proposito nascono alcune domande: quali gli esiti? è accettabile il giudizio di chi ha affermato che «in generale l’azione politica di riforma statutaria e di imposizione della pace dei predicatori dell’Alleluia si risolse in un fallimento»39? Più che sbagliato, si tratta di un giudizio fuorviante, poiché l’«azione politica» dei predicatori alleluiatici, al di là di contingenti ed effimeri risultati, favorisce l’avvio di un mutamento decisivo nei rapporti, difficili e talora apertamente conflittuali, dei ceti eminenti e delle popolazioni delle città con enti ecclesiastici e monastici: il mutamento si attua pure attraverso un’accentuata lotta antieterodossa, togliendo qualsiasi spazio istituzionale e sociale agli eretici. Questi, in quanto violatori dell’ordinamento sia pubblico sia ecclesiastico, sono proiettati nella “illegalità” e ridotti a una sempre maggiore clandestina marginalità. L’impegno antiereticale dei frati Minori alleluiatici non era una novità, poiché si situava in continuità con precoci incarichi e sollecitazioni provenienti dal papato stesso senza provocare, per quanto ne sappiamo, reazioni di sorta all’interno dell’Ordine minoritico40. Si pensi alla singolare coincidenza che nel 1233 si realizza in Milano tra l’inizio dei lavori per la costruzione del convento di San Francesco «all’interno del fossato della città»41 e gli inizi della repressione antiereticale
39 BAIETTO, Il papa e le città cit., p. 289: si consideri che la studiosa non prende in considerazione le testimonianze di frate Stefano di Spagna e del Liber Suprastella sul moto dell’Alleluia del 1233, limitando così le sue possibilità di comprensione, non diversamente da T. SCHARFF, Häretikerverfolgung und Schriftlichkeit. Die Wirkung der Ketzergesetze auf die oberitalienischen Kommunalstatuten im 13. Jahrhundert, Frankfurt a.M. 1996. 40 Cfr. Frati Minori e Inquisizione. Atti del XXXIII Convegno internazionale (Assisi, 6-8 ottobre 2005), Spoleto 2006. 41 M.P. ALBERZONI, Francescanesimo a Milano nel Duecento, Milano 1991, p. 31
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cruenta con l’accensione dei primi roghi sotto la podestaria di Oldrado da Tresseno, il quale, proprio nell’anno 1233, «come era suo dovere, bruciò i Catari [Catharos ut debuit uxit]»42: fatto confermato da un breve testo cronachistico, le Memoriae Mediolanenses, secondo cui nel 1233 «i Milanesi iniziarono a bruciare gli eretici [Mediolanenses incipierunt comburere ereticos]»43. D’altronde, l’attiva partecipazione “milanese” dei frati Minori, insieme ai Predicatori, nella lotta e repressione antiereticali è confermata e lodata dallo stesso Gregorio IX alla fine di quello stesso anno44: a segnalare un cambiamento radicale nei rapporti politici tra sede apostolica e Milano, che troverà una collaborazione decisiva nell’alleanza antifedericiana45. Nella lotta contro Federico II si segnalerà frate Leone da Milano con il proprio impegno militare e diplomatico: non è caso che nel 1241 egli fosse scelto come arcivescovo della città dallo stesso Gregorio IX, diventando così il primo frate Minore a ricevere la consacrazione episcopale46. Da quel momento l’Ordine minoritico diventerà uno dei serbatoi inesauribili da cui reclutare membri da immettere nell’episcopato: frati dunque collocati in una posizione ecclesiastica che aveva strutturali dimensioni politiche47. Si sono aperti così alcuni fra i tanti possibili spiragli di intelligibilità sul minoritismo, ovvero sui modi di essere e di imporsi dell’Ordine dei Minori e dei suoi membri nella Chiesa e nella società48. In proposito sono ancora del tutto valide le considerazioni di Antonio Rigon quando nel 1991 parlò dei frati appartenenti agli ambienti internazionali, dunque, alle cerchie papali, all’area nord dell’Italia; uomini di diritto, dotti teologi, famosi predicatori […]; questi frati, che non avevano vissuto l’esperienza della primitiva “fraternitas”, rappresentano una linea del minoritismo internazionale e padano cresciuto per lo più lontano dall’Umbria e da Francesco, matura-
42 G. GIULINI, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e campagna di Milano ne’ secoli bassi, IV, Milano 1855 (rist. anast.: Milano 1974), p. 348. 43 Ma cfr., anche, Memoriae Mediolanenses, in M.G.H., Scriptores, 18, Hannoverae 1867, p. 402: «Mediolanenses incepierunt comburere ereticos». 44 Cfr. MERLO, Contro gli eretici cit., p. 43. 45 Cfr. P. MONTANARI, Milano «fovea haereticorum»; le fonti di un’immagine, in Vite di eretici e storie di frati. A Giovanni Miccoli, cur. M. BENEDETTI - G.G. MERLO - A. PIAZZA, Milano 1998, pp. 62-74. Sul seguito della pressione antiereticale in Milano e in “Lombardia”, cfr. M. BENEDETTI, Inquisitori lombardi del Duecento, pref. A. PROSPERI, Roma 2008. 46 Cfr. MERLO, Tra eremo e città cit., pp. 269-335. 47 Cfr. Dal pulpito alla cattedra. I vescovi degli Ordini Mendicanti nel ’200 e nel primo ’300. Atti del XXVII Convegno internazionale (Assisi, 14-16 ottobre 1999), Spoleto 2000. 48 Cfr. MERLO, Nel nome di san Francesco cit., pp. 86-107; MERLO, La minorità di frate Francesco e il minoritismo dei frati Minori, in corso di stampa.
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to nell’attività apostolica in stretto collegamento con la curia romana, con i frati Predicatori, con gli ambienti di studio e con le Chiese locali. La novità da essi introdotta fu nell’assunzione diretta di compiti di riforma ecclesiastica, guidata da Roma, estranei a Francesco e al gruppo iniziale dei suoi seguaci per i quali valeva la testimonianza evangelica e non altro. Con loro la linea dell’impegno pastorale di guida, insegnamento, educazione e formazione nella Chiesa e nella società prevaleva nettamente su quella della pura e semplice professione del Vangelo tra i poveri e gli emarginati in una vita di servizio e di umile sottomissione49.
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In questo meditato brano viene espressa con nitida chiarezza e precisa puntualità la distinzione tra francescanesimo e minoritismo. Ne emergono anche i motivi di fondo che immettono i frati Minori nella concreta dinamica della vita collettiva secondo tempi e modalità nient’affatto unitari, bensì assai complessi e diversificati, la cui dimensione politica si connette strettamente con i disegni politici del papato duecentesco. Ma, si badi, tra francescanesimo e minoritismo vi sono elementi non soltanto di distinzione, ma anche di connessione. Frate Gherardo da Modena era stato, prima del 1233, «uno dei primi frati, ossia dell’Ordine dei frati Minori, non tuttavia dei dodici, amico e intimo del beato Francesco e talvolta suo compagno [de primitivis fratribus unus, scilicet Ordinis fratrum Minorum, non tamen de XII, amicus et intimus beati Francisci et aliquando socius]»50. Tuttavia le esperienze originarie, talora condotte al fianco dello stesso frate Francesco, avevano condotto frate Gherardo a comportamenti pubblici all’apparenza simili a quelli del Poverello, ma nella sostanza assai diversi: a Parma nel 1233 egli si propone come mediatore per riportare la concordia e la pace tra quanti erano l’un contro l’altro armati, accettando di ricoprire la carica politico-istituzionale di podestà. I risultati positivi non furono pochi, anche se il suo agire, almeno in un’occasione, era stato condizionato dalle proprie convinzioni, per dir così, ideologico-politiche: secondo frate Salimbene egli era infatti «imperialis multum»51. Ciò non deve stupire, quando si consideri la parallela vicenda di frate Elia di Cortona, anch’egli legatissimo a frate Francesco e a madonna Chiara d’Assisi, eppure addirittura collaboratore dell’imperatore Federico
49 A. RIGON, Antonio di Padova e il minoritismo padano, in I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica. Atti del XIX Convegno internazionale (Assisi, 17-19 ottobre 1991), Spoleto 1992, pp. 189 ss. (poi in RIGON, Dal Libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medioevale, Roma 2002, p. 34). 50 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 106. 51 Ibid.
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II di Svevia52. Insomma, per riprendere espressioni di Luigi Pellegrini, il «passaggio, dopo la sua deposizione, al campo dell’imperatore […] appare come conseguenza […] di una logica insita nelle specifiche modalità di gestione, da parte di fra’ Elia di un potere che la forza decisiva dell’Ordine minoritico in quella società [la cristianità latina della prima metà del Duecento] impediva rimanesse estraneo alle tensioni e agli scontri anche di vertice»53. Da queste sintetiche considerazioni si potrebbe inferire e, dunque, affermare che francescanesimo e minoritismo coesistessero nella persona stessa di frate Elia: non diversamente, si deve aggiungere, francescanesimo e minoritismo coesistevano in molti altri membri, più o meno eminenti, dell’Ordine dei frati Minori e, soprattutto, nell’Ordine stesso. Esemplare al riguardo è un exemplum rintracciabile nella Vita fratris Aegidii contenuta nella trecentesca Chronica XXIV generalium Ordinis Minorum54:
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Venerunt duo fratres […]. Quos frater Aegidius interrogavit post caritativam receptionem unde erant et unde veniebant. Qui responderunt quod eiecti erant de terra sua per Fridericum Ecclesiae persecutorem. Quod cum audisset frater Aegidius, zelo paupertatis succensus, coepit eis clamando corripere dicens: «Eiecti estis de terra vestra? Cachati estis de terra vestra? Certe non estis fratres Minores». Et sic clamans et replicans palmas percutiendo adiecit: «Carissimi, vos peccatis contra illum maximum peccatorem Fridericum. Cum enim vobis multa bona contulerit, deberetis sibi compati et pro ipso orare, ut Dominus eius cor emolliret, non de ipso murmurare, quia non eiecit vos de terra vestra, si veri fratres Minores estis, quia terram vestram habere non potestis.
[Giunsero due frati […]. Dopo averli caritativamente accolti, Egidio chiese loro di dove fossero e di dove venissero. Essi risposero che erano stati cacciati dalla loro terra da Federico persecutore della Chiesa. Avendo udito ciò, frate Egidio, acceso dallo zelo di povertà, iniziò a riprenderli dicendo ad alta voce: «Siete stati cacciati dalla vostra terra; siete stati caca-
52 Cfr., da ultimo, i diversi saggi raccolti in Elia di Cortona tra realtà e mito. Atti dell’incontro di studio (Cortona, 12-13 luglio 2013), Spoleto 2014. 53 L. PELLEGRINI, «Che sono queste novità?». Le religiones novae in Italia meridionale (secoli XIII e XIV), Napoli 2000, p. 79. 54 Chronica XXXIV generalium Ordinis Minorum, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1897 (Analecta Franciscana, III), pp. 110 s. Cfr. PELLEGRINI, «Che sono queste novità?» cit., p. 83; M.T. DOLSO, Le Vitae di Egidio di Assisi nella Chronica XXIV generalium e nel De conformitate di Bartolomeo da Pisa, in Frate Egidio d’Assisi. Atti dell’Incontro di studio in occasione del 750° anniversario della morte (1262-2012) (Perugia, 30 giugno 2012), Spoleto 2014, p. 66.
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ti dalla vostra terra? Di certo non siete frati Minori».E così replicando sempre ad alta voce e percuotendo le palme delle mani, aggiunse: «Carissimi, voi peccate verso quel Federico grandissimo peccatore. Poiché infatti vi ha dato molti beni, dovreste compatirlo e pregare per lui affinché il Signore ammorbidisca il suo cuore, non lamentarvi di lui, poiché non vi avrebbe potuto cacciare dalla vostra terra, se foste veri frati Minori, in quanto non potete avere una vostra terra].
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In questo testo esemplare coesistono il minoritismo, identificabile dall’accettazione dei «multa bona» che Federico II di Svevia aveva fatto ai frati Minori, e il francescanesimo rappresentato dal rigoroso rifiuto di ogni proprietà e possesso di natura giuridica, e persino affettiva, e dalla evangelica disposizione ad amare i nemici e a pregare per loro. L’espulsione dei frati Minori dal regno di Sicilia – evocata in modo causticamente assai forte per mezzo della colorita espressione «cachati estis de terra vestra» – era stata decisa dall’imperatore per ragioni politiche nel radicalizzarsi dello scontro con il papato: pertanto, per ragioni politiche venivano meno quelle dimensioni evangeliche che avrebbero dovuto caratterizzare l’esistenza dei “figli” di san Francesco. Il coinvolgimento dei Minori a ogni livello della vita collettiva generava molteplici metamorfosi del francescanesimo al fine di portare a compimento il progressivo e pieno inserimento dei frati nella società e nella Chiesa, oltre che nelle Chiese locali55, con le connesse tensioni e divisioni all’interno dell’Ordine56: un inserimento nell’una e nelle altre che non poteva avvenire al di fuori di una dimensione politica. Non spetta alla presente relazione fornire in proposito esempi, che comunque sarebbero numerosissimi. Sarà invece opportuno ricordare che, a partire all’incirca dalla metà del secolo XI, la cristianità latina convergente nel papato contiene ed esprime una dimensione politica nel suo stesso essere57. Il raccordo privilegiato con la Chiesa di Roma immette l’Ordine dei frati Minori nei vari ambiti di quella dimensione, anche in riferimento alla pro-
55 Cfr. M. PELLEGRINI, Itinerari dell’inserimento. Riflessioni su minoritismo e Chiese locali nella prima stagione francescana, in Il francescanesimo dalle origini alla metà del secolo XVI. Esplorazioni e questioni aperte. Atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino (Università di Torino, 11 novembre 2004), cur. F. BOLGIANI - G.G. MERLO, Bologna 2005, pp. 71-111; M.C. ROSSI, Gregorio IX, i frati e le Chiese locali, in Gregorio IX e gli Ordini mendicanti cit., pp. 259-292. 56 Cfr. le importanti analisi, realizzate sotto un particolare punto di vista, di M.T. DOLSO, “Et sint Minores”. Modelli di vocazione e reclutamento dei frati Minori nel primo secolo francescano, pref. G. MICCOLI, Milano 2001. 57 Cfr., per lo meno, G.G. MERLO, Il cristianesimo medievale in Occidente, Roma-Bari 2012, specialmente alle pp. 36-47, 86-106.
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pria irradiazione e alla successiva stabilizzazione insediativa. Si riaffaccia dunque la questione dei rapporti tra Minori e società cittadine con i relativi organi di governo. Il massiccio moltiplicarsi degli insediamenti urbani minoritici nel Duecento sarebbe potuto avvenire senza i necessari supporti politici a livello locale? Senza i necessari supporti politici – oltre a quelli economici, è scontato, dati i costi assai rilevanti per la costruzione di chiese e conventi architettonicamente imponenti – a livello locale si sarebbe realizzato, nella seconda metà del Duecento, il significativo fenomeno del trasferimento dei conventi minoritici nel cuore delle città? Le domande sono ovviamente retoriche e servono a introdurre un ulteriore elemento di complicazione connotante la vicenda dei frati Minori rappresentato dalle particolarità determinate da quella che giustamente Claudio Leonardi chiamò la «geografia del francescanesimo»58. Considerare questo elemento è in tanto necessario in quanto – con specifico riferimento al tema del nostro convegno – anche le «autonomie cittadine dell’Italia centrosettentrionale» hanno avuto una loro geografia, ovvero peculiarità alle quali i frati Minori via via si rapportarono in maniera più o meno efficace, all’interno di contesti generali, non soltanto cittadini, che condizionarono il loro agire locale. Già Giovanni Miccoli, nella sua notissima sintesi einaudiana del 1974, aveva messo in guardia da generalizzazioni che appiattissero realtà mosse e diversificate e aveva invitato a cogliere e distinguere tempi e modalità nelle relazioni tra società cittadina italiana e Ordine dei frati Minori59. Tale problematica è stata poi, nel 1997, sviluppata da Antonio Rigon giungendo a una importante conclusione: Nell’insieme il movimento francescano, nato nell’Italia delle città e dei Comuni da una proposta di vita cristiana rivolta a tutti i fedeli, fu profondamente partecipe di quel tipo di società e cambiò con essa. Una nuova pastorale, una nuova santità, un nuovo modo di interpretare il Vangelo senza rompere con la tradizione, furono il contributo offerto dai frati Minori a quel nuovo mondo che […] nell’arco di un secolo aveva fatto irruzione anche negli spazi, segnati da limiti, delle società locali60.
58 Intervento di C. LEONARDI nella discussione su Le immagini di Francesco nella letteratura tra documentazione biografica ed invenzione spirituale, in Gli studi francescani dal dopoguerra ad oggi. Atti del Convegno di studio (Firenze, 5-7 novembre 1990), cur. F. SANTI, Spoleto 1993, p. 335. 59 Cfr. G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II: Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 798 ss. 60 RIGON, Frati Minori e società locali cit., p. 279.
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Lo stesso Rigon ha avuto in seguito, nel 2002, l’opportunità di aggiungere affermazioni integrative, altrettanto importanti, circa il fatto che «i francescani fossero un segmento importante e una componente di punta della società comunale» e che, «come tali ne condividessero i problemi, partecipando attivamente alle sue lotte e alle sue conquiste in uno dei momenti più alti del suo sviluppo politico, culturale, economico»61. Potremmo così dedurne che la componente politica della presenza minoritica nelle città dell’Italia basso- medioevale divenisse, assai presto nel corso del Ducento, strutturale62: una presenza che però non si limitava alla realtà locale, poiché comunque i frati appartenevano a un Ordine di estensione “internazionale” con propri dirigenti centrali e “provinciali” affiancati dai relativi organismi. Per di più, il legame con il papato, da un lato, complicava sul piano politico la presenza minoritica così nell’Italia basso-medievale come in tutta la cristianità latina, e, d’altro lato, trovava nei frati Minori dei convinti sostenitori della ierocrazia pontificia, anche a livello della riflessione teorica63: per lo meno sino alla crisi dei primi decenni del Trecento con le note vicende dello scontro – ecclesiologico e perciò politologico, come avrebbe detto Ovidio Capitani – tra dirigenza dell’Ordine e papa Giovanni XXII64.
61 A. RIGON, Frati Minori, inquisizione e comune a Padova nel secondo Duecento, in Il «Liber contractuum» dei frati Minori di Padova e di Vicenza (1263-1302), cur. E. BONATO, coll. E. BACCIGA, Roma 2002, p. XXIX (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 18). 62 Se così è, il discorso genera conseguenze che ci spostano su un piano diverso da quello su cui finora ci si è mossi: il piano dei pregiudizi e delle preclusioni operanti tra i medievisti italiani, i quali hanno collocato gli studi di “storia religiosa”, per non dire degli “studi francescani”, in recinti specialistici del tutto isolati, se non estranei, alla ricerca storica cosiddetta generale, ovvero la medievistica, che così difende proprie posizioni di potere universitario, ma risulta monca e inevitabilmente condizionata da prospettive in cui giocano in modo negativo condizionamenti ideologici. Per un primo approccio al tema delle relazioni tra “storia medievale” e “storia religiosa del medioevo” cfr. G.G. MERLO, Sugli studi storico-religiosi del medioevo in Italia. Note storiografiche, in Päpste, Privilegien, Provinzen. Beiträge zur Kirchen-, Rechts- und Landesgeschichte. Festschrift für Werner Maleczeck zum 65 Geburtstag, cur. J. GIESSAUF et alii, Wien-München 2010, pp. 313-325. 63 Sulla ierocrazia pontificia fondamentali sono gli studi raccolti in HAGENEDER, Il sole e la luna cit. 64 Cfr., per lo meno, J. MIETHKE, La teoria della monarchia papale nell’alto e basso medioevo. Mutamenti di funzione, in Il pensiero politico del basso medioevo. Antologia di saggi, cur. C. DOLCINI, Bologna 1983, pp. 119-156; A. TABARRONI, Povertà e potere nella tradizione francescana, in Il pensiero politico. Idee teorie dottrine, I: Età antica e medioevo, cur. C. DOLCINI, Torino 1999, pp. 175-207; R. LAMBERTINI, Da Egidio Romano a Giovanni di Parigi, da Dante a Marsilio: fautori e oppositori della teocrazia papale agli inizi del Trecento, ibid., pp. 209-254.
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L’esaltazione del potere pontificio appariva coerente con la difesa della «identità francescana» dell’Ordine che si voleva incentrata sulla povertà (volontaria), a sua volta garantita sul piano giuridico dal papato: povertà come concetto-valore capace di generare “pensiero”, a sua volta, assai fecondo. In merito Paolo Evangelisti ha scritto:
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La capacità fecondante della testualità francescana che, discutendo sin dal pieno XIII secolo di povertà, ricchezza, statuto idoneativo dei pauperes Christi e, per questa via, di statuti idoneativi dei singoli componenti di tutta intera la comunità dei cristiani, diviene generatrice di linguaggi ed elaboratrice di teorie e prassi politiche, giuridiche, economiche, mercantili e militari del medioevo europeo65.
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Il contributo fornito dai frati Minori al pensiero, e al pensiero politico in particolare, negli ultimi tre secoli del cosiddetto medioevo ha una vastità davvero notevole. La loro attenzione alla scienza e all’arte di governare lo Stato, cioè alla politica, è stata oggetto di studio nell’ultimo ventennio su suggerimento e suggestione del magistero di Ovidio Capitani e di Carlo Dolcini. Ricerche importanti si devono a Giacomo Todeschini, a Roberto Lambertini, ad Andrea Tabarroni e a Paolo Evangelisti. Quest’ultimo ha potuto addirittura intitolare una sua monografia, I francescani e la costruzione di uno Stato. Linguaggi politici, valori identitari, progetti di governo in area catalano-aragonese. Questo libro, pur riferendosi a realtà dello scorcio del Trecento, pone problemi generali e di lunga durata. Si leggano, per esempio, le seguenti riflessioni: L’arsenale linguistico-concettuale forgiato dalla prima generazione viene ripreso e messo a frutto dagli esponenti dell’Ordo Minorum delle generazioni successive divenendo un’autentica strumentazione in grado di articolare discorsi e approcci teorici utili alla costruzione e all’affermazione di specifiche realtà comunitarie e politico-territoriali, le quali […] individuano negli esponenti del pauperismo francescano gli interpreti credibili ed attrezzati per realizzare questi obiettivi66.
In questa riflessione si ripresenta la questione del trinomio francescanesimo/minoritismo/politica e delle linea di continuità-rottura dei primi
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P. EVANGELISTI, Tra genesi delle metamorfosi nell’Ordine dei Minori e francescanesimo dominativo, in Il francescanesimo dalle origini cit., p. 154. 66 EVANGELISTI, I Francescani e la costruzione di uno Stato (cit. nel testo), Padova 2006, p. 26.
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due termini in relazione al terzo. Il discorso si fa qui alquanto complesso, poiché concerne la “storia del pensiero” con la sua autonomia e le sue peculiarità: un discorso che conduce in territori poco frequentati sia da molti medievisti sia dalla opinio communis. Roberto Lambertini ha ben chiarito che «la povertà francescana, per essere fondata sul Vangelo, di cui costituisce innegabilmente un’interpretazione, deve anche essere articolabile in un discorso razionale, compatibile con un sistema di assunti teologici e di categorie giuridiche. Infine, deve essere inseribile in un quadro ecclesiologico coerente»67. Andrea Tabarroni, dal canto suo, ha sottolineato che «il pensiero politico francescano» deve essere ricondotto alla «sua genesi apologetica e pauperistica», sottolineando come «i frati Minori, nel corso del loro tentativo di enucleare le condizioni istituzionali del loro ideale di perfezione, abbiano affinato la sensibilità per l’autonomia formale delle obbligazioni giuridiche e delle realtà politiche in generale»68. È chiaro che siffatte riflessioni riguardano il minoritismo, la cui fonte originaria è il francescanesimo di frate Francesco: un francescanesimo che per durare nel tempo si è fatto istituzione. Forse, in ultima analisi, aveva ragione Ovidio Capitani, quando, trattando dell’«emergere della teoria giuridica e politica francescana»69, ha parlato di «eterogenesi dei fini»70. Se infatti quella di frate Francesco – secondo le sintetiche e illuminanti parole di Giovanni Miccoli – è e resta la proposta di una presenza, di un modo di essere, di pensare e di sentire che per restare fedele a se stesso e al proprio modello può aspirare solo a continuare ad essere tale, sfuggendo ogni ricerca di successo e lasciando a Dio e alla grazia di operare e incidere71,
Durare nel tempo, di necessità, implicava e comportava metamorfosi72, alla cui genesi concorre – oltre ai legami con il papato, alle pressioni di
67 R. LAMBERTINI, La povertà pensata. Evoluzione della definizione dell’identità minoritica da Bonaventura a Ockham, Modena 2000, p. 11. 68 Le parole sono di A. TABARRONI, Francescanesimo e riflessione politica sino ad Ockham, in Etica e politica: le teorie dei frati Mendicanti nel Due e Trecento. Atti del XXVI Convegno internazionale (Assisi, 15-17 ottobre 1998), Spoleto 1999, pp. 210 e 230. 69 Ibid., p. 208. 70 O. CAPITANI, Introduzione, a Una economia politica nel medioevo, cur. CAPITANI, Bologna 1987, p. XII. 71 MICCOLI, Francesco d’Assisi. Memoria cit., p. 187. 72 Cfr. MERLO, Nel nome di san Francesco cit., pp. 57-187; EVANGELISTI, Tra genesi delle metamorfosi cit., pp. 143-187.
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potenti e gruppi sociali eminenti, alla «dialettica interna» all’Ordine73 – l’attività intellettuale di non pochi frati Minori “militanti”74: proprio quell’attività intellettuale di cui frate Francesco d’Assisi aveva temuto le conseguenze e gli effetti, ma che era intrinseca alla natura stessa dei maestri e dell’élite dirigente dell’Ordine minoritico. Centrale risulta essere il passaggio dalla povertà vissuta (francescana) alla povertà pensata (minoritica): con l’esito di condurre ad assumere «la povertà come chiave interpretativa del potere»75. Pensare la povertà in quanto valore trascendente ha generato, nel Duecento, nuove teorie e visioni dell’uomo e del mondo, assurgendo a paradigma regolatore della convivenza e delle relazioni tra gli individui, cioè la riflessione pauperistica si è fatta politologia: una politologia destinata ad affinare “la scienza e l’arte di governare lo Stato” in funzione e in vista di una destinazione ultraterrena. Ma, per contro, agli inizi del Trecento la riflessione pauperistica, fattasi componente dell’aspra polemica che opponeva la dirigenza dell’Ordine minoritico con papa Giovanni XXII, fu collegata persino con «la lotta per la de-politicizzazione delle strutture ecclesiastiche”»76. La povertà evangelica si ripresentava come incompatibile con la volontà di “dominio del mondo” del papato.
73 Con piena ragione Maria Teresa DOLSO, Introduzione cit., pp. 22 e 31, rileva e sottolinea una precoce duplice spinta nell’evoluzione dell’Ordine dei frati Minori: una spinta che conosce, da un lato, una «dialettica interna» a una «istituzione in cui, da subito, convivono “anime” diverse, realtà difformi, aspettative e progetti differenti», e, d’altro lato, una «dialettica esterna all’Ordine che ben presto ne influenza e ne condiziona lo sviluppo, le attività e le priorità». 74 Cfr. MERLO, Intorno a francescanesimo cit., pp. 147-174. 75 La pregnante espressione si deve a R. LAMBERTINI, La povertà pensata cit., p. 13. 76 C. DOLCINI, Crisi di poteri e politologia in crisi da Sinibaldo Fieschi a Guglielmo d’Ockham, Bologna 1988, p. 217, con citazione di P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, p. 298.
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I frati Minori nello scontro tra Federico II e il papato*
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1. Le complesse e talora decisamente contrastate relazioni tra i frati Minori e Federico II hanno goduto di una certa fortuna nella storiografia, soprattutto a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, sia in relazione al rinnovato interesse per Francesco e l’Ordine dei frati Minori sia grazie agli studi promossi nell’ambito delle celebrazioni per il settimo centenario della nascita di Federico II (1994). Accenno qui soltanto alla vigorosa ripresa di interesse per la storia minoritica favorita dagli incontri annuali della Società internazionale di studi francescani di Assisi, nonché da tante iniziative sostenute dalle famiglie francescane, soprattutto in Italia e in Germania1. Basti pensare ai Convegni di Assisi del 1978 e del 1980, rispettivamente dedicati all’espansione del francescanesimo nel XIII secolo e alla vita religiosa dei laici nel Duecento2, quindi a quelli del 1991, del 1994, del 1999 e del 2005, incentrati su particolari situazioni e sulle attività svolte dai frati Minori3, ai con-
* Abbreviazioni e sigle: BF I = J. SBARALEA, Bullarium franciscanum, I, Romae 1759; HB V/1 = J.-L.A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, V/1, Parisiis 1857. 1 Per quanto riguarda la Germania, mi riferisco soprattutto alla Rivista «Wissenschaft und Weisheit», che negli anni Ottanta-Novanta ha ospitato numerosi contributi di storia francescana, in particolare di Dieter Berg, la cui opera è anche all’inizio della collana Saxonia Franciscana (si vedano gli studi ricordati sotto, alla nota 5); basti poi solo un cenno agli studi di Kaspar Elm e della sua Scuola e alle numerose ricerche promosse da Gert Melville a Dresda, ora condotte nell’ambito della “Forschungsstelle für vergleichende Ordensgeschichte” (FOVOG), sempre presso la Technische Universität di Dresda. 2 Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII. Atti del VI Convegno internazionale (Assisi, 12-14 ottobre 1978), Assisi 1979; Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel ’200. Atti dell’VIII Convegno internazionale (Assisi, 16-18 ottobre 1980), Assisi 1981. 3 I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica, Spoleto 1992 (Atti dei Convegni internazionali della Società internazionale di studi francescani e del Centro interuniversitario di studi francescani, 19); La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine
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vegni dedicati alla figura e all’opera di Salimbene da Parma, una delle più importanti fonti per la conoscenza delle relazioni intercorse tra Federico II e i frati Minori e a singoli studi apparsi in diverse sedi4. A questi contributi bisogna aggiungere le voci apparse in dizionari specializzati, in particolare nell’Enciclopedia dedicata a Federico II e, soprattutto, gli studi attorno a frate Elia di Assisi, certamente un rilevante elemento di congiunzione tra i frati Minori e l’imperatore, con il quale l’ex ministro generale condivise la scomunica5.
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Per quanto riguarda i profondi rivolgimenti che scossero l’Ordine minoritico negli anni Trenta del Duecento e che condussero alla deposizione di frate Elia dalla carica di ministro generale, si sono delineate due
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del ’300, Spoleto 1995 (Atti dei Convegni cit., 22); Dal pulpito alla cattedra. I vescovi degli ordini mendicanti nel ’200 e nel primo ’300, Spoleto 2000 (Atti dei Convegni cit., 27); Frati Minori e inquisizione, Spoleto 2006 (Atti dei Convegni cit., 33). 4 Salimbeniana. Atti del Convegno per il VII Centenario di fra Salimbene, Parma 19871989, Bologna 1991; A. VOCI, Federico II imperatore e i Mendicanti: privilegi papali e propaganda anti-imperiale, «Critica storica», 22 (1985), pp. 3-28; D. BERG, Staufische Herrschaftsideologie und Mendikantenspiritualität. Studien zum Verhältnis Kaiser Friedrichs II. zu den Bettelorden, «Wissenschaft und Weisheit», 51 (1988), pp. 26-51 e 185-209 (ora anche in BERG, Armut und Geschichte. Studien zur Geschichte der Bettelorden im Hohen und Späten Mittelalter, Kevelaer 2001 [Saxonia Franciscana, 11], pp. 213-254); si vedano inoltre: G. BARONE, Federico II di Svevia e gli Ordini Mendicanti, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps modernes», 90/2 (1978), pp. 607-626 (ora in BARONE, Da frate Elia agli Spirituali, Milano 1999 [Fonti e ricerche, 12], pp. 141-160), BARONE, La propaganda antiimperiale nell’Italia federiciana: l’azione degli Ordini Mendicanti, in Federico II e le città italiane, cur. P. TOUBERT - A. PARAVICINI BAGLIANI, Palermo 1994, pp. 278-289 (ora in BARONE, Da frate Elia agli Spirituali cit., pp. 159-172), C.D. FONSECA, Federico II e gli Ordini Mendicanti, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, cur. A. ESCH - N. KAMP, Tübingen, 1996 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 85), pp. 162-181 e G. ANDENNA, Federico II ed i Mendicanti di Lombardia: dalla collaborazione allo scontro, «Tabulae del Centro di studi federiciani», 11/1 (1998), pp. 48-67; mi permetto, infine, di rinviare a M.P. ALBERZONI, Minori e Predicatori fino alla metà del Duecento, in Martire per la fede. San Pietro da Verona domenicano e inquisitore. Atti del Convegno (Milano, 24-26 ottobre 2002), cur. G. FESTA, Bologna 2007, pp. 51-119. 5 Federico II. Enciclopedia federiciana, 3 voll., Roma 2005; D. BERG, Elias von Cortona. Studien zu Leben und Werk des zweiten Generalminister im Franziskanerorden, «Wissenschaft und Weisheit», 41 (1978), pp. 102-126, ora in BERG, Armut und Geschichte cit., pp. 3-24; BARONE, Da frate Elia agli Spirituali cit., pp. 29-86; L. DI FONZO, Élie d’Assise, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, 15, Paris 1963, coll. 167183; G. ODOARDI, Elia di Assisi, in Dizionario degli Istituti di perfezione, 3, Roma 1976, coll. 1098-110; S. VECCHIO, Elia d’Assisi, in Dizionario biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 450-458.
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diverse interpretazioni: da una parte Giulia Barone fin dal suo articolo apparso sul «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo» nel 1978 ha posto l’accento sui contrasti interni all’Ordine e sui presunti inopportuni interventi dei violenti visitatori inviati dal ministro generale nelle diverse province dell’Ordine, soprattutto in Inghilterra e in Germania. Secondo tale ricostruzione le cause della profonda crisi che attraversò l’Ordine dei frati Minori nel quarto decennio del XIII secolo si sarebbero generate all’interno dell’Ordine, mentre le questioni legate alla pur difficile temperie politica nella quale i frati furono pesantemente coinvolti, a giudizio della Barone non sarebbero da considerare determinanti per gli sviluppi dell’Ordine, almeno fino all’età di Bonaventura6. Furono invece le difficili relazioni che si sarebbero sviluppate tra frate Elia e i frati, soprattutto i chierici dotti residenti nelle province di Inghilterra e di Germania, a rompere i delicati equilibri interni e a condurre alla deposizione del ministro generale, avvenuta nel corso del capitolo svoltosi nel maggio del 1239. Significativamente frate Elia fu subito sostituito con il primo ministro generale ‘chierico’, precisamente l’ex provinciale di Inghilterra frate Alberto da Pisa, a sua volta ben presto surrogato da un frate inglese, Aimone di Faversham7. Dieter Berg, che pure nel 1978 aveva pubblicato un articolo sulla biografia di frate Elia, dopo una decina d’anni concentrò nuovamente la sua attenzione sulle relazioni esistenti tra la spiritualità mendicante e la concezione del potere espressa da Federico II per giungere a sottolineare lo stretto legame tra la deposizione e il tentativo del ministro generale di sottrarsi – e di sottrarre i suoi frati – alle pressanti richieste di intervento e di impegno in favore della pars Ecclesiae nello scontro con Federico II. L’imperatore fu infatti scomunicato il 20 marzo 1239, poco più di due mesi prima dell’apertura del capitolo generale dell’Ordine, svoltosi a Roma e presieduto da Gregorio IX, che avrebbe decretato la deposizione di Elia8.
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G. BARONE, Frate Elia, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo ed Archivio Muratoriano», 85 (1974-75), pp. 89-144 (il volume della rivista uscì in realtà nel 1978), ora in BARONE, Da frate Elia agli Spirituali cit., pp. 29-72. 7 Ibid., p. 72: «Ma l’adesione a Federico è venuta dopo la deposizione del generale e forse proprio in conseguenza di essa. Il problema di Elia è a monte: troppo attaccato alle origini dell’Ordine per favorirne la clericalizzazione, troppo conscio dei problemi nuovi per mantenersi strettamente fedele ai costumi primitivi, Elia è riuscito a scontentare tradizionalisti e innovatori». 8 BERG, Staufische Herrschaftsideologie cit., pp. 26-51, soprattutto pp. 32-35 e 185-209 (ora anche in BERG, Armut und Geschichte cit., pp. 213-254).
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Oltre alle differenti concezioni presenti all’interno dell’Ordine circa la sua costituzione e alle spinte verso la sua progressiva chiericalizzazione, la svolta che condusse alla deposizione di frate Elia avrebbe avuto alla base, secondo Berg, una forte motivazione di carattere politico: Gregorio IX aveva infatti estremo bisogno dell’appoggio di un Ordine compatto e docile alle direttive papali, mentre fino ad allora la prevalenza dei laici al suo interno era considerata dalla curia un motivo di debolezza9. Con l’aggravarsi della situazione politica a partire dal 1238, quando cominciò a profilarsi la possibilità della vittoria dell’imperatore sui comuni lombardi – allora alleati del papa –, emerse con forza la necessità di poter contare sulla componente chiericale dell’Ordine, sicuramente più sensibile alle direttive papali e in grado di utilizzare la predicazione e la pastorale per realizzarle più efficacemente10. In seguito, sia per una sorta di inerzia storiografica sia perché pochi si confrontarono realmente con le posizioni di Berg – i suoi articoli, infatti, non furono tradotti in italiano –, prevalse l’interpretazione proposta dalla Barone, peraltro fondata su autorevoli fonti interne all’Ordine, innanzi tutto le cronache di Giordano da Giano, di Tommaso da Eccleston e di Salimbene da Parma, in molti punti corroborate dalla documentazione papale11. Quelle utilizzate dalla Barone, però, sono perlopiù fonti successive alla deposizione di Elia e pertanto sensibili alla damnatio memoriae dell’ex ministro generale, mentre qualche maggior luce sulle vicende dell’Ordine fu gettata da cronisti esterni all’Ordine e di diversa estrazione, sui quali si soffermò maggiormente Berg. Giustamente, poi, Berg ha sottolineato la dimensione storico-teologica assunta ben presto dallo scontro tra
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Ibid., pp. 34-35 mette in luce come la deposizione di Elia e l’elezione di Alberto da Pisa mirassero all’auspicato rafforzamento dell’Ordine per giungere alla radicale riforma e alla chiericalizzazione dello stesso, nonché alla sua completa sottomissione ai voleri del papato nello scontro contro l’imperatore. 10 D. BERG, Papst Innocenz IV. und die Bettelorden in ihren Beziehungen zu Kaiser Friedrich II., in Vita Religiosa im Mittelalter. Festschrift für Kaspar Elm zum 70. Geburtstag, cur. F.J. FELTEN - N. JASPERT, Berlin 1999 (Berliner historische Studien, 31. Ordensstudien, 13), pp. 468-469; circa la forte coloritura politica dei rapporti di Gregorio IX con l’Ordine dei frati Minori, si veda anche W. SCHENKLUHN, San Francesco in Assisi: Ecclesia specialis. La visione di papa Gregorio IX di un rinnovamento della Chiesa, Milano 1994 (Fonti e ricerche, 5) (ediz. orig. Darmstadt 1991). 11 L’attenzione della Barone, fin dal suo primo lavoro, si era infatti concentrata soprattutto sulle testimonianze cronachistiche; si veda anche G. Barone, Elia nella storiografia da Sabatier a Manselli, in Elia di Cortona tra realtà e mito. Atti dell’Incontro di studio (Cortona, 12-13 luglio 2013), Spoleto 2014 (Atti degli Incontri di studio della Società internazionale di studi francescani e del Centro interuniversitario di studi francescani, 2), pp. 1-15.
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lo Staufer e il pontefice, individuando nello stretto legame tra i frati e il papato il motivo della loro netta contrapposizione allo Svevo a partire dagli anni Trenta del Duecento. Si tratta di motivi da Berg ripresi e approfonditi in due ampi studi, entrambi pubblicati in lingua italiana nei Quaderni dell’Istituto storico italo-germanico di Trento12. Le linee interpretative proposte da Berg sono state da me riprese e approfondite, con particolare riguardo alle relazioni con il papato e alla situazione politica della penisola italiana in un contributo dedicato alla storia dei Mendicanti fino alla morte di Federico II13. Merita infine di essere almeno accennata la recente ricca produzione di studi relativi alla diffusione delle profezie gioachimite o pseudo gioachimite presso la curia papale come pure presso gli Ordini mendicanti fino ai più alti gradi della gerarchia, un tema già noto alla storiografia, ma che soprattutto in occasione dei convegni dedicati a Federico II e grazie all’attività del Centro di studi gioachimiti di San Giovanni in Fiore ha conosciuto nuovi interessanti sviluppi14.
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2. Giacché nelle relazioni tra l’Ordine dei frati Minori e Federico II frate Elia di Assisi, fedele socio di Francesco e da lui designato come ministro generale, svolse un ruolo di fondamentale importanza, è sulla sua persona che è necessario, in un primo passo, fermare l’attenzione15.
12 D. BERG, L’impero degli Svevi e il gioachimismo francescano, in L’attesa della fine dei tempi nel medioevo, cur. O. CAPITANI - J. MIETHKE, Bologna 1990 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderno 28), pp. 133-167 e BERG, L’imperatore Federico II e i Mendicanti. Il ruolo degli Ordini mendicanti nelle controversie tra papato e impero alla luce degli sviluppi politici in Europa, in Ordini religiosi e società politica in Italia e Germania nei secoli XIV e XV, cur. G. CHITTOLINI - K. ELM, Bologna 2001 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderno 56), pp. 45-113. 13 ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 98-106. 14 BERG, Staufische Herrschaftsideologie cit., pp. 26-27, dove si nota che ben presto «verderbliche Wirkungen joachitischen bzw. pseudo-joachitischen Ideengutes, welches insbesondere in der Minoritengemeinschaft Verbreitung gefunden hatte, und die Auseinandersetzung der Franziskaner mit den Staufern nicht nur eine größere Intensität, sondern auch eine neue geschichtstheologische Dimension verlieh». Circa la diffusione delle idee gioachimite anche tra i frati Predicatori, oltre ad ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 51-59 e 82-97, si veda M. RAININI, I predicatori dei tempi ultimi. La rielaborazione di un tema escatologico nel costituirsi dell’identità profetica dell’Ordine domenicano, «Cristianesimo nella storia», 23 (2002), pp. 307-343 e G.L. POTESTÀ, Le forme di una retorica profetica e apocalittica: i frati Minori e il Gioachimismo (secoli XIII e XIV), in El fuego y la palabra. San Vicente Ferrer en el 550 aniversario de su canonización. Actas del Ier Simposium Internacional Vicentino, Valencia (26-29 abril 2005), cur. E. CALLADO ESTELA, Valencia 2007, pp. 233-256. 15 J. DALARUN, Élie vicaire. Le complexe de Marthe, in Elia di Cortona tra realtà e mito cit., pp. 17-59; merita attenzione il fatto che le fonti agiografiche, a partire da Tommaso da
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Felice Accrocca in un recente saggio dedicato al generalato di frate Elia ha ripreso e puntualizzato sulla base di un attento esame della documentazione offerta dal Bullarium Franciscanum le complesse relazioni intercorse tra il ministro generale e Gregorio IX, soprattutto in coincidenza con il profondo deteriorarsi dei rapporti tra i due. Per tutto il periodo in cui frate Elia fu a capo dell’Ordine (1233-1239), peraltro, egli fu «tenacemente attaccato a un modello di vita francescana distante nel tempo, un modello oramai superato, al quale [...] non voleva però abdicare». Il segno più evidente della sua fedeltà all’esempio di Francesco è individuato da Accrocca nella costatazione che «nel corso del suo generalato scarseggiarono concessioni e privilegi erogati all’Ordine, ciò che non poteva non riconnettersi alla severa intimazione di Francesco, il quale nel Testamentum aveva seccamente proibito ai frati di chiedere privilegi alla Curia romana»16. La documentazione papale ci consegna quindi «l’immagine di un frate Elia piuttosto restio ad accogliere privilegi, geloso custode della Regola e del comando di Francesco, il quale – prossimo alla fine – prescrisse ai frati di non mettere glosse alla Regola stessa», e perciò fermo nel proposito di non discostarsi dell’esempio di Francesco anche a costo di scontrarsi con le indicazioni della sede apostolica, soprattutto con quelle di carattere ‘politico’17. Non si deve poi trascurare il fatto che negli ultimi anni, soprattutto nell’ambito degli studi clariani, anch’essi rivitalizzati dalla celebrazione di due centenari ravvicinati (il 1994, l’ottocentesimo anniversario della nascita di Chiara, e il 2003, il settecentocinquantesimo anniversario della morte della santa), è emersa con chiarezza l’alta stima manifestata da lei nei confronti del “padre” Elia, che, anche quando negli anni Trenta cominciarono a
Celano, indichino sempre frate Elia come vicario di Francesco, mentre Francesco stesso nei suoi scritti, innanzi tutto nella lettera a tutto l’Ordine, lo chiami ministro generale: «Reverendis et multum diligendis fratribus universis, fratri H[elie] generali ministro religionis minorum fratrum domino suo, et ceteris ministris generalibus qui post eum erunt» (Francisci Assisiensis Scripta, ed. C. PAOLAZZI, Grottaferrata [Roma] 2009, p. 210). 16 F. ACCROCCA, Frate Elia ministro generale, in Elia di Cortona tra realtà e mito cit., pp. 61-90 (la citazione a p. 69). 17 Ibid., pp. 77-78; si veda anche p. 88: «Nel complesso, il generalato di Elia lascia emergere l’immagine di un uomo fortemente legato a Francesco, un conservatore, sostanzialmente fermo alla Regula non bullata, portato a identificare la forma di vita francescana con l’esperienza vissuta agli inizi del movimento. Un uomo intelligente e volitivo, non c’è dubbio, dotato di molte qualità, ma che – ironia della sorte – perseguì in maniera ostinata una visione parziale delle cose, poiché solitamente un uomo intelligente si rivela anche molto abile a trovare buone ragioni per giustificare il proprio operato».
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emergere le difficoltà con Gregorio IX, continuò a essere per Chiara, dopo Francesco, il punto di riferimento per il suo cammino di fedeltà nella sequela al Vangelo18. A partire dalle parole della plantula beati Francisci unitamente a un attento esame della documentazione papale, ho potuto procedere a una ricostruzione dei fatti nella quale emerge il ruolo centrale giocato da frate Elia nel proseguire ostinatamente sulla via indicata da Francesco, fino allo scontro aperto con i frati chierici, soprattutto provenienti da province al di fuori della penisola italiana19. Filippo Sedda ha poi proseguito l’indagine in tal senso basandosi soprattutto sulle fonti agiografiche e cronachistiche interne all’Ordine dei frati Minori, fino ad apportare significative integrazioni e a confermare nella sostanza la decisa rivalutazione di frate Elia come fedele socius di Francesco20. Il quadro storiografico della piena rivalutazione della figura di frate Elia nella storia francescana in senso lato si è recentemente rafforzato grazie al ritrovamento di quella che Jacques Dalarun, l’autore della scoperta, ha denominato la Vita brevior di Francesco d’Assisi, composta da Tommaso da Celano e introdotta da una lettera dedicatoria a frate Elia ministro generale, un dato importante per stabilire che essa fu scritta tra il 1233 e il 1239, le date, appunto, del suo generalato21. Nella lettera Tommaso sottolinea con decisione la piena fedeltà di frate Elia alla volontà e al cuore di Francesco, che a Elia più che agli altri frati «animum suum
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Si veda la seconda lettera di Chiara ad Agnese di Boemia, in Chiara d’Assisi, Lettere ad Agnese. La visione dello specchio, edd. G. POZZI - B. RIMA, Milano 1999 (Piccola biblioteca Adelphi, 426), p. 118: «In hoc autem ut mandatorum Domini securius viam perambules, venerabilis patris nostri fratris Helye generalis ministri consilium imitare, quod prepone consiliis ceterorum et reputa tibi carius omni dono». 19 M.P. ALBERZONI, «Nequaquam a Christi sequela in perpetuum absolvi desidero». Chiara tra carisma e istituzione, in Chiara d'Assisi e la memoria di Francesco. Atti del Convegno per l’VIII Centenario della nascita di s. Chiara, Città di Castello 1995 (Centro Francescano Santa Maria in Castello, Fara Sabina - Rieti. Monografie Francescane, 2), pp. 41-65; ALBERZONI, Chiara e il papato, Milano 1995 (Aleph, 3). 20 F. SEDDA, La «malavventura» di frate Elia. Un percorso attraverso le fonti biografiche, «Il Santo», ser. II, 41 (2001), pp. 215-300; si vedano, inoltre, ACCROCCA, Frate Elia ministro cit., pp. 61-90; M.P. ALBERZONI, Frate Elia tra Chiara d’Assisi, Gregorio IX e Federico II, in Elia di Cortona tra realtà e mito cit., pp. 91-121. 21 Nei saggi introduttivi all’edizione della Vita brevior, però, Dalarun non sembra considerare con la dovuta attenzione l’ipotesi formulata in modo convincente da Felice Accrocca in Frate Elia ministro generale cit., pp. 64-66, che cioè il generalato di frate Elia sia iniziato nel 1233 e non nel 1232 come in precedenza si credeva; ritengo che sia un elemento da considerare e utile per circoscrivere ulteriormente la data di composizione della Vita del beato padre nostro Francesco.
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aperuit et que agenda erant liberius ipse commisit»22. Dovremo forse rivedere le granitiche convinzioni della francescanistica e cominciare a sostituire frate Elia all’onnipresente frate Leone? Probabilmente sì, almeno in parte.
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3. Poiché le relazioni tra Federico II e i frati Minori negli anni Trenta del XIII secolo dipesero in gran parte dai rapporti tra l’imperatore e frate Elia, sia prima sia dopo la sua deposizione dalla carica di ministro generale, su di esse si concentrerà ora l’attenzione. Nel maggio del 1236 in occasione della solenne traslazione del corpo di Elisabetta di Turingia dalla chiesa dell’ospedale da lei fondata e intitolata a S. Francesco alla nuova chiesa a lei dedicata a Marburg, Federico II scrisse una lettera a frate Elia in quanto ministro generale dell’Ordine dei frati Minori. In essa erano esaltate le virtù evangeliche della moglie del langravio di Turingia (e pertanto sua congiunta), che l’avevano resa degna di essere solennemente canonizzata da Gregorio IX il 27 maggio 1235, ne erano lodati i miracoli ed era espresso il profondo desiderio di poter anch’egli raggiungere grazie alla sua intercessione e alle preghiere dei frati Minori la gloria del paradiso23. Con questa sua lettera Federico sottolineava implicitamente il legame esistente tra la scelta di vita religiosa effettuata da Elisabetta e l’Ordine minoritico, un legame che però il papa non volle mai mettere in luce, nem-
22 J. DALARUN, Thome Celanensis Vita beati patris nostri Francisci (vita brevior). Présentation et édition critique, «Analecta Bollandiana», 133 (2015), pp. 23-86: 35, ora in traduzione italiana: DALARUN, Tommaso da Celano, La Vita del beato padre nostro Francesco, «Frate Francesco», 81 (2015), pp. 289-386, e in edizione separata: DALARUN, La Vita ritrovata del beatissimo Francesco, Milano 2015 (Presenza di san Francesco, 58), p. 30 (Lettera dedicatoria di Tommaso da Celano): «Infatti, benché alcuni forse desiderino che qualcosa venga detto in modo diverso, mentre altro venga taciuto, tuttavia in modo più sicuro deve essere seguito in ciò il tuo solo giudizio, a cui il santo più che ad altri aprì il suo animo e lui stesso confidò più volentieri ciò che si doveva fare». 23 E. WINKELMANN, Acta imperii inedita saeculi XIII et XIV. Urkunden und Briefe zur Geschichte des Kaiserreichs und des Königsreichs Sizilien, I, Innsbruck 1880, pp. 299-300, n. 338: «qui super hiis temporalem letitiam agimus, ad eterne beatitudinis gloriam aspiramus, ad cuius consortium, quia defectus meritorum nostrorum suffragia patiuntur, orationum vestrarum, fratres, presidia convocamus, religionem vestram affectuose rogantes, quatenus quod a vobis presentibus exoramus, faciendum a ceteris fratribus ordinis vestri, quorum vitam columnam immobilem mortalibus extimamus, per vestras litteras iniungatis»; H. BEUMANN, Friedrich II. und die heilige Elisabeth. Zum Besuch des Kaisers in Marburg am 1. Mai 1236, in Sankt Elisabeth. Fürstin, Dienerin, Heilige: Afsätze, Dokumentation, Katalog, Sigmaringen 1981, pp. 151-166; BERG, Staufische Herrschaftsideologie cit., pp. 32-33.
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meno nella lettera di canonizzazione della langravia, preferendo presentarne la santità secondo i canoni più tradizionali della agiografia relativa alle donne nobili, alle regine e alle vedove: la preghiera assidua, l’ascesi personale, la castità dopo la morte del marito e la beneficenza verso i poveri24. Il fatto, invece, che Federico II istituisca un legame tra la scelta di Elisabetta e l’Ordine dei frati Minori costituisce una significativa conferma circa l’esistenza di buoni rapporti tra frate Elia e l’imperatore: se infatti quest’ultimo si fosse attenuto alla versione della santità di Elisabetta fornita dal papato, non avrebbe avuto alcun motivo di collegarla con l’Ordine dei frati Minori, giacché di essi non si fa mai menzione nemmeno nella lettera di canonizzazione. Gregorio IX, infatti, volendo favorire l’ala chiericale dell’Ordine, non fece mai cenno alla scelta minoritica della langravia di Turingia, perché ciò avrebbe significato riconoscere l’ispirazione caritativo-assistenziale incarnata soprattutto dall’ala laica dell’Ordine, che proprio nel ministro generale aveva allora il suo più autorevole rappresentante25. Paradossalmente, dunque, in merito alla santità di Elisabetta di Turingia il punto di vista di Federico II appare più attendibile di quello espresso nella documentazione papale26. Se fino al 1238 frate Elia riuscì a svolgere una mediazione tra il papa e l’imperatore, dopo la scomunica solenne che raggiunse Federico II la domenica delle palme (20 marzo) del 1239, la sua posizione divenne inutile
24 BF I, pp. 162-164 (Gloriosus in maiestate, 1235 giugno 1): «Quid ultra? Quaeque jura sanguinis in supernae desiderium transferens voluptatis et imperfectum quid aestimans, si jam viri destituta praesidio, sic residuum vitae decurreret, quod se ad jugum obedientiae [...] non arctaret, religionis habitum induit, sub quo Dominicae passionis in se celebrare mysterium usque in diem ultimum non omisit». 25 Si veda l’interpretazione dei rapporti tra i primi frati Minori giunti in Germania e accolti a Erfurt dal langravio di Turingia e da Elisabetta, proposta in M.P. ALBERZONI, Elisabetta di Turingia, Chiara d’Assisi, Agnese di Boemia e la prima diffusione dell’Ordine dei frati Minori in Germania, «Frate Francesco», 73 (2007), pp. 383-417: 394-407. 26 Oltre alla lettera di canonizzazione ricordata sopra alla nota 24, mi limito qui a ricordare una lettera consolatoria scritta da Gregorio IX a Elisabetta di Turingia dopo la morte del marito (settembre 1227): K.J. HEINISCH, Ein Brief Gregors IX. an die hl. Elisabeth, «Franziskanische Studien», 25 (1938), pp. 379-382; il medesimo testo (ma tratto da un altro manoscritto) è pubblicato anche da K. WENCK, Die heilige Elisabeth und Papst Gregor IX., «Hochland. Monatsschrift für alle Gebiete des Wissens, der Literatur und Kunst», 5/2 (1907), pp. 129-147; si veda anche la lettera, espressione della raffinata cultura teologica del papa e volta a indicare le principali virtù espresse dalla vita di Elisabetta, indirizzata da Gregorio IX il 7 giugno 1235 (pochi giorni dopo la canonizzazione di Elisabetta) alla regina Beatrice di Castiglia, sorella di Agnese di Boemia, anche lei parente di Elisabetta (BF I, pp. 164-166: Jesus Filius Sirach).
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e, anzi, fu vista con sospetto, perché percepita come potenzialmente favorevole a quest’ultimo, o troppo facilmente propensa a ricercare una via di conciliazione27. Nel periodo intercorso dalla comunicazione della scomunica a Federico e la sua pubblicazione nel marzo del 1239 all’interno dell’Ordine minoritico si erano invece delineate posizioni tra loro differenti e forse anche propense alla pacificazione tra papato e impero, tanto che Gregorio IX il 7 aprile 1239 scrisse una lettera (un mandato) a tutti i ministri e i frati dell’Ordine, stranamente senza fare menzione del ministro generale nell’indirizzo della lettera: potrebbe trattarsi di un indizio del fatto che a quell’altezza cronologica il papa considerasse frate Elia già esautorato dal suo incarico o che, in ogni caso, non lo considerasse più un interlocutore28. In essa il papa si diffondeva nell’esporre dapprima tutte le benemerenze della sede apostolica nei confronti di Federico II, che da essa era stato allevato e difeso anche contro le mire espansionistiche dei suoi nemici, contrapponendo a tutto il bene ricevuto le violenze perpetrate dall’imperatore ai danni delle Chiese nel Regno, a Roma, nelle varie parti del Patrimonio della Chiesa, nella Lombardia e nella Sardegna. Di fronte all’ostinazione di Federico e al suo persistere in un atteggiamento ostile alla Chiesa, il papa lo aveva scomunicato, aveva sciolto i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà nei suoi confronti e aveva sottoposto all’interdetto le terre, i castelli e le città nelle quali egli avesse dimorato nei suoi continui viaggi. Pertanto, con questa lettera, il pontefice esortava tutti i frati a non prestare aiuto e obbedienza a Federico e a proclamarlo solennemente scomunicato ogni giorno festivo nelle loro chiese. Gregorio IX concludeva però le sue osservazioni con una significativa minaccia: accanto alla raccomandazione di obbedire all’ordine dato, il papa si augurava di non dover riprendere alcun frate per la sua negligenza e, tanto meno, di dover procedere nei suoi confronti, un segno eloquente delle resistenze esistenti tra i frati Minori, presumibilmente anche tra i ministri e i custodi fedeli a frate Elia, a seguire le indicazioni papali e a impegnarsi nella lotta contro la pars imperii29. Per motivare la gravità della situazione e la durezza del comando, Gregorio IX proseguiva elencando le altre colpe di cui Federico II si era 27 BARONE, Da frate Elia agli Spirituali cit., pp. 78-79; BERG, Helias von Cortona cit., pp. 122-123. 28 BF I, pp. 260-262 (Sedes Apostolica, 1239 aprile 7): l’inscriptio è: «Dilectis in Christo filiis universis ministris et fratribus Ordinis Minorum», mentre in precedenza (per esempio nella Cum secundum consilium del 23 marzo 1238: BF I, p. 235), l’inscriptio era: «Dilectis filiis generali et aliis ministris provincialibus et custodibus fratrum Minorum». 29 BF I, p. 262: «Mandatum nostrum taliter impleturi, quod de negligentia redargui aliquatenus non possitis, et nos contra vos procedere non cogamur».
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macchiato, invece di ravvedersi entro l’anno intercorrente tra la promulgazione della scomunica e la sua solenne notifica. La conclusione della lettera era perentoria: i frati avrebbero dovuto assumersi pienamente, come se fosse una questione dell’Ordine, il negotium Ecclesiae e adoperarsi per conservare la libertas ecclesiastica, vale a dire le esenzioni di cui le istituzioni ecclesiastiche godevano, nonché la quiete di tutto il popolo cristiano30. Gregorio IX aveva compreso che l’Ordine non era così compatto nel seguire le sue pur autorevoli indicazioni, perché in esso si manteneva forte quella che potremmo indicare come una “corrente filoimperiale”, alla quale oltre a frate Elia appartenevano frati importanti, quali Gherardo da Modena o lo stesso Salimbene da Parma31. Era dunque necessario rinnovare l’intera dirigenza minoritica, così che garantisse il totale sostegno alla pars Ecclesie. Il rinnovamento dei vertici dell’Ordine fu l’occasione per la definitiva affermazione dei frati chierici, che per esprimere gratitudine per l’appoggio ricevuto dal papa gli garantirono il pieno sostegno loro e dell’Ordine nella lotta contro l’imperatore, che oramai si profilava imminente. Fu allora che, come ha indicato Dieter Berg, cessò l’interesse del papa a sostenere frate Elia32: Gregorio IX fu sollecito nell’accogliere le lamentele provenienti dalle province transalpine che gli fornirono il pretesto per procedere alla deposizione del ministro generale e accelerare così il processo di sostanziale assimilazione istituzionale dell’Ordine minoritico al modello rappresentato dai Predicatori33. A questo punto frate Elia divenne una presenza scomoda e la sua posizione si aggravò ancor più dopo la scomunica che il papa gli comminò per essersi posto al seguito dell’imperatore a sua volta scomunicato, con il quale il papa aveva rigorosamente vietato di avere contatti. Il disagio manifestato in diverse occasioni dall’Ordine e legato in gran parte alla necessità di giustificare la scelta di impegnarsi nella lotta politica contro l’imperatore trovò
30 BF I, p. 263: «In praemissis autem negotium Ecclesiae vobis duximus attentius commendandum, ut ipsum tamquam proprium assumentes ad fidei catholicae robur conservationem ecclesiasticae libertatis, et totius populi christiani quietem efficaciter intendatis»; per il significato di libertas ecclesiastica, si veda M.P. ALBERZONI, Città, vescovi e papato nella Lombardia dei comuni, Novara 2001, pp. 14-16 e 29-37. 31 Oltre ad ANDENNA, Federico II ed i Mendicanti di Lombardia cit., pp. 52-57, si veda O. GUYOTJEANNIN, Salimbene de Adam, in Federico II. Enciclopedia federiciana, 2, Roma 2005, pp. 599-604. 32 BERG, Staufische Herrschaftsideologie cit., pp. 32-36; di diverso parere BARONE, La propaganda antiimperiale cit., pp. 278-289, ora in BARONE, Da frate Elia agli Spirituali cit., pp. 161-172: 164. 33 ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 98-106; ALBERZONI, Frate Elia tra Chiara d’Assisi cit., pp. 104-106.
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espressione nelle prime cronache, segnatamente quella di Tommaso da Eccleston (scritta tra il 1230 e il 1259 circa) sull’avvento dei frati in Inghilterra e quella di Giordano da Giano, relativa all’Ordine nella provincia di Germania, scritta tra l’inizio del quinto decennio del XIII secolo e il 1262, un anno molto prossimo alla morte di frate Giordano, che si trovava in Germania fin dallo scorcio del 1221. A esse si aggiunse negli anni Ottanta del Duecento la cronaca di Salimbene da Parma, che per spiegare il “tradimento” di frate Elia e per giustificare le scelte dell’Ordine dedicò addirittura all’ex ministro generale un intero pamphlet, nel quale Salimbene non perse occasione per denigrare la componente laicale dell’Ordine, a suo giudizio un inutile peso per tutta la Chiesa e per di più sostenitrice di frate Elia e delle sue malefatte34. Fu poi Bonaventura a porre il definitivo sigillo della condanna sulla memoria di frate Elia, imputando a lui l’origine delle divisioni e dei tradimenti dell’ideale di vita di Francesco35. Chi prese le difese di frate Elia nei confronti delle decisioni papali fu Federico II che, all’indomani della deposizione del ministro generale, con una lettera circolare si rivolse ai suoi fedeli per esprimere la sua stima per l’ex ministro e per difendere la sua ferma fedeltà all’insegnamento di Francesco. Con il suo sostegno a frate Elia l’imperatore voleva da una parte mettere in luce il tradimento della volontà di Francesco perpetrato da Gregorio IX con la deposizione di colui che a suo tempo era stato designato ministro generale dallo stesso santo, e dall’altra sottolineare la volontà di pacificazione tra Chiesa e Impero vivamente sostenuta da frate Elia e contrastata proprio da colui che avrebbe dovuto garantire la pace all’interno della cristianità, il papa. In questo documento Federico II si mostrava inoltre assai ben informato circa i motivi della deposizione di frate Elia e la drammatica divisione interna all’Ordine causata dalla sua rimozione dalla carica di ministro generale. L’imperatore era altresì pronto a denunciare la causa reale della deposizione di Elia: essa, infatti, non era stata motivata dalle ingiustizie o dalle violenze nei confronti dei frati, ma dall’odio per l’imperatore, «perché per amore della giustizia alla quale si è
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Per l’introduzione e la datazione di queste cronache è utile rifarsi alle pur scarne indicazioni nelle edizioni delle Fonti francescane. Piuttosto deludente e privo di indicazioni bibliografiche il contributo di A. KEHNEL, Francis and the histographical tradition in the order, in The Cambridge Companion to Francis of Assisi, cur. M.J.P. ROBSON, Cambridge 2012, pp. 101-114; su Salimbene è punto di riferimento il volume Salimbeniana, citato sopra, alla nota 4 e la voce di O. Guyotjeannin, citata sopra, alla nota 31. 35 Un quadro equilibrato e completo è ora offerto da SEDDA, La «malavventura» di frate Elia cit., pp. 259-299.
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interamente dedicato, promuovendo la pace dell’impero, [frate Elia] sosteneva apertamente la causa dell’imperatore e il bene della pace»36. Inoltre Federico in questo scritto denunciava il tentativo di Gregorio IX e di alcuni cardinali di impadronirsi di frate Elia con un tranello: essi, infatti, invitarono l’ex ministro generale alla curia facendogli credere di voler trattare con lui in vista della pacificazione con l’imperatore. Frate Elia intraprese allora il viaggio verso la curia, ma Federico riuscì a metterlo in guardia e a sventare il piano mirante al suo arresto37. Tutto ciò presuppone un fitto scambio di informazioni tra Federico II, frate Elia e i suoi seguaci e consente pertanto di ipotizzare che già allora l’ex ministro con alcuni frati fosse al seguito dell’imperatore38. Con questa lettera Federico II mirava a isolare il pontefice e a guadagnare l’appoggio di una consistente parte dell’Ordine dei frati Minori, così da contenere il fronte a lui ostile. Di fatto, la sua mossa dovette incontrare il favore del folto gruppo dei frati, soprattutto centroitalici, che avevano condiviso l’esperienza delle origini dell’Ordine e che avevano deciso di seguire l’ex ministro generale nella sua scelta di tornare a vivere negli eremi, in particolare a Cortona. Si era così creata una profonda frattura all’interno dell’Ordine dei frati Minori, una divisione che si mantenne fino alla morte di frate Elia e – forse – oltre la stessa. Si tratta di una realtà messa in luce da Giancarlo Andenna e che trova conferma sia nella descrizione della morte di frate Elia (22 aprile 1253), circondato dai suoi socii nell’eremo delle Carceri, sia in un’implicita ammissione di Salimbene39.
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HB V/1, pp. 346-347: «Revera papa iste quemdam religiosum et timoratum fratrem Helyam, ministrum ordinis fratrum Minorum, ab ipso beato Francisco patre ordinis migrationis sue temporis constitutum, pro eo quod amore justicie cui est corde et opere dedicatus, pacem imperii promovens, nomen nostrum, honorem et bonum pacis evidentibus indiciis proponebat, in odium nostrum a ministerio generali, reverentia Christi postposita et juris sancti Francisci ordinatione contempta, deposuit, divisionem in fratribus faciens et inordinationem et sectionem». 37 Ibid., p. 347; probabilmente con la cattura di Elia si pensava di mettere fine anche allo scisma interno all’Ordine; va altresì considerata l’ipotesi che la scomunica gli sia stata comminata dopo questo mancato abboccamento. 38 Si vedano le interessanti ipotesi circa la presenza di Elia accanto all’esercito di Federico II, quando le sue truppe nel 1240 minacciarono Assisi e, più direttamente, S. Damiano, miracolosamente risparmiata per le preghiere di Chiara, formulate da F. ACCROCCA, “Fo accesa nello amore de Dio”. Quattro recenti pubblicazioni clariane, «Collectanea franciscana», 73 (2003), pp. 289-310: 304-306. 39 ANDENNA, Federico II ed i Mendicanti di Lombardia cit., pp. 50-56; gli atti della inquisitio condotta dopo la morte di frate Elia, per appurare la validità del suo pentimento e, quindi, della sua assoluzione dalla scomunica, sono in Le carte duecentesche del Sacro
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Quest’ultimo, infatti, nella sua Cronica narra del tentativo del ministro generale Giovanni da Parma (1247-1257), attuato probabilmente attorno al 1247, di far rientrare la “secessione” di frate Elia e dei suoi seguaci inviando da lui il frate Gherardo da Modena, un esponente di spicco nell’Ordine, che Salimbene definisce «imperialis multum» e che nel 1233 era stato tra i predicatori più noti dell’Alleluia40. A lui, inoltre, Salimbene era molto legato, perché, tra le altre cose, era stato lui a presentarlo a frate Elia, che, di passaggio da Parma e diretto a Cremona dove risiedeva Federico II, lo accolse nell’Ordine il 4 febbraio 123841. L’abbandono dell’Ordine da parte di Elia, infatti, è stato sovente rappresentato come una scelta poco più che personale, ma se si dà ascolto alla Chronica XXIV generalium, un’opera certamente più tarda, ma nella quale sono confluiti materiali che risalgono agli anni Venti del Duecento, emerge l’inquietante realtà che nel 1239 frate Elia, nella sua scelta di tornare alla vita negli eremi, era stato seguito da un folto gruppo di frati42. Dopo la
Convento di Assisi (Istrumenti, 1168-1300 ), ed. A. BARTOLI LANGELI, coll. M.I. BOSSA - L. FIUMI, Padova 1997 (Fonti e studi francescani, V), pp. 52-61, n. 31. 40 Salimbene de Adam, Cronica, I (a. 1168-1229), ed. G. SCALIA, Turnholti 1998 (Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis, 125), p. 109: «Erat enim frater Gerardus imperialis multum». 41 Su Gherardo, uno dei cinque frati che con il ministro generale Giovanni Parenti nella tarda primavera del 1230 furono inviati da Gregorio IX per chiedere la spiegazione di alcuni punti oscuri della regola dei frati Minori, spiegazione che il papa articolò nella Quo elongati (28 settembre 1230), basti qui rinviare alla voce di Z. ZAFARANA, Boccabadati Gerardo (Gherardo da Modena), in Dizionario biografico degli Italiani, 10, Roma 1968, pp. 822-823, ad A. THOMPSON, Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo, trad. it. Milano 1996 (Fonti e ricerche, 9), pp. 40-66 e ad ANDENNA, Federico II ed i Mendicanti di Lombardia cit., pp. 52-54. 42 Chronica XXIV generalium, in Analecta Franciscana, III, Ad Claras Aquas [Quaracchi] 1897, pp. 249-250: «Et iterum facta est magna Ordinis plaga, dicentibus aliquibus eiusdem fratris Helie complicibus, quod rite non fuerat absolutus a regimine generali, et aliis, quod vigore dicti privilegii [un privilegio concesso da Gregorio IX a frate Elia di potersi ritirare negli eremi con i frati che avessero voluto seguirlo] poterant ipsum sequi. Et ob hoc facta est tanta Ordinis scissura, ut quod sanctus Franciscus dixerat de futura divisione Ordinis in tres partes tunc videretur impletum. Nam quasi duas partes Ordinis ipsum Heliam sequebantur et maxime qui mundum et temporalia diligebant». Si tratta di una fonte che, soprattutto in considerazione della sua ostilità alla “parte” di frate Elia, sembra attendibile: l’accenno che a seguire l’ex ministro generale fossero i frati che amavano il mondo e le ricchezze stride infatti con la scelta di ritirarsi negli eremi e continuare lo stile di vita della primitiva fraternitas; per inquadrare la composizione e gli scopi della Chronica XXIV generalium è necessario rifarsi all’attenta ricerca di M.T. DOLSO, La Chronica XXIV Generalium. Il difficile percorso dell’unità nella storia francescana, Padova 2003 (Centro studi antoniani, 40).
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deposizione di quest’ultimo, dunque, l’Ordine conobbe una lacerazione interna, poi accentuata in relazione al diffondersi e al radicamento delle dottrine pseudogioachimite, attraverso le quali si cercò di legittimare l’intervento dei frati a sostegno della pars Ecclesie nella lotta che dal 1236-37 divampò tra Gregorio IX e Federico II.
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4. A questo punto si impone una prima precisazione: se certamente, come è comune convinzione, l’Ordine dei frati Minori si schierò al fianco del papato nella lotta contro Federico II, è però necessario ricordare che non si trattò della totalità dello stesso, ma di una sua parte che, certo, con il trascorrere del tempo e con l’allontanamento di frate Elia, dovette imporsi fino a divenire netta maggioranza durante il generalato di Bonaventura (12571274): la progressiva chiericalizzazione dell’Ordine fu anche funzionale a creare le condizioni per una maggior compattazione al suo interno, con l’esclusione delle frange che si connotavano come dissidenti. Al tempo stesso intervenne un altro elemento di natura teologico-culturale: la decisa fortuna dei testi profetici in senso lato, perlopiù rifacentisi all’opera di Gioacchino da Fiore, ma in buona parte frutto di elaborazioni di testi composti in ambito cisterciense e in un secondo tempo fatti propri dagli Ordini mendicanti, in particolare dalle «cerchie minoritiche entro cui l’opera [in questo caso il Super Hieremiam] venne via via reinterpretata e riadattata»43. Salimbene da Parma, in un ben noto passo della sua Cronica, narra del fortunoso approdo di alcuni manoscritti attribuiti all’abate calabrese, consegnati ai frati Minori del convento di Pisa dall’abate di un monastero florense ubicato tra Pisa e Lucca. L’iniziativa era stata suggerita dal timore che l’imperatore, che contava molti appoggi in quella regione e il cui arrivo sembrava imminente, li distruggesse. Secondo la testimonianza del cronista parmense, l’arrivo di questi manoscritti causò il più vivo interesse – una sorta di fascinazione collettiva –, innanzi tutto presso i frati dotti e quelli più vicini alla curia romana o addirittura in essa attivi44. La
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G.L. POTESTÀ, Il Super Hieremiam e il gioachimismo della dirigenza minoritica della metà del Duecento, in Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, cur. G. ANDENNA - H. HOUBEN, Bari 2004, p. 884. 44 Basti pensare al ruolo di Ugo di Digne nella diffusione delle dottrine gioachimite, come pure di altri frati legati all’ambiente parigino, tra i quali Gerardo di Borgo San Donnino: v. Salimbene de Adam, Cronica cit., pp. 356-361: «Nam prius [di giungere a Hières presso Ugo di Digne] eram edoctus et hanc doctrinam audieram, cum habitarem Pisis, a quodam abbate de Ordine Floris, qui erat vetulus et sanctus homo, et omnes libros suos a Ioachim editos in conventu Pisano sub custodia collocaverat, timens ne imperator
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diffusione all’interno dei due Ordini, Predicatori e Minori, non dovette incontrare ostacoli e, anzi, dovette rispondere a un problema allora assai vivo: giustificare le attività che i frati stavano svolgendo a sostegno della sede apostolica e che tanto li avevano allontanati dal momento delle origini45. Si trattava di una teologia della storia, fatta propria dalla curia fin dai primi anni del pontificato di Gregorio IX e da lui sostenuta con sempre maggior convinzione, quindi sviluppata soprattutto in ambito mendicante, per fornire una «progressiva giustificazione ideologica della presenza di due soggetti forti, utili al papato, ma anche innovativi e difficili da inquadrare nei precedenti schemi ecclesiologici, che proprio la sede apostolica tendeva appunto in quegli anni a rivedere in senso verticistico – ossia gli ordini mendicanti»46. Interessa sottolineare che né i Minori né i Predicatori svolsero un ruolo significativo nell’elaborazione dei temi legati al profetismo; questi ultimi furono piuttosto sviluppati alla curia romana e da lì passarono ai Mendicanti. In particolare alcuni cardinali si distinsero nel sostenere e nell’incrementare l’interesse per le profezie, in primo luogo Raniero da Viterbo, l’autore dei più importanti pamphlets antiimperiali, a cominciare dalla Ascendit de mari bestia del maggio-giugno del 1239, per il quale
Fridericus monasterium suum destrueret, quod erat inter Lucam et civitatem Pisanam, per viam que vadit ad civitatem Lunensem. Credebat enim quod in Friderico tunc temporis omnia essent complenda misteria, eo quod cum Ecclesia discordiam habebat non modicam. Frater vero Rodulfus de Saxonia lector Pisanus, magnus logicus et magnus theologus et magnus disputator, dimisso studio theologie, occasione illorum librorum abbatis Ioachim qui in domo nostra repositi erant, factus est maximus Ioachita» (la citazione a p. 356). L’episodio è collocato attorno al 1247 da R.E. LERNER, Frederik II, Alive, Aloft and Allayed in Franciscan-Joachite Eschatology, in The Use and Abuse of Eschatology in the Middle Ages, cur. W. VERBEKE - D. VERHELST - A. WELKENUYSEN, Leuven 1988, pp. 359384 (trad. it. Federico II mitizzato e ridimensionato post mortem nell’escatologia francescano-gioachimita, in LERNER, Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Roma 1995, pp. 148-149); vedi ora POTESTÀ, Il Super Hieremiam e il gioachimismo cit., pp. 884-894. 45 A. VAUCHEZ, Profezie e ricerca di legittimazione all’origine dell’ordine domenicano, in VAUCHEZ, Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo, Bologna 2000, pp. 209-221; V. DE FRAJA, Usi politici della profezia gioachimita, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 25 (1999), pp. 375-400, soprattutto, pp. 388-399; RAININI, I predicatori dei tempi ultimi cit., pp. 325-335, che esamina anche l’elaborazione interna all’Ordine domenicano; per uno sguardo complessivo, oltre ad ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 82-97, si veda ora M. RAININI, Il profeta del papa. Vita e memoria di Raniero da Ponza eremita di curia, Milano 2016 (Dies nova. Fonti e studi per la storia del profetismo), pp. 90-97. 46 Ibid., p. 91.
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disponiamo ora di attenti studi47. Secondo la lettura proposta sulla base dei testi pseudo gioachimiti, Federico II era considerato l’anticristo tout-court e un ruolo di primo piano veniva attribuito a nuove forze religiose attive in difesa della Chiesa, nelle quali erano adombrati i frati Minori e Predicatori e i rispettivi fondatori. Accanto a Raniero merita di essere ricordato anche un altro cardinale, Giacomo da Vitry, che con Gregorio IX aveva probabilmente condiviso il periodo degli studi a Parigi e che con lui intrattenne stretti contatti, tanto da essere chiamato nel collegio cardinalizio dopo la rinuncia avvenuta nel 1228 all’episcopato di Accon – San Giovanni d’Acri al quale era stato nominato da Innocenzo III nel 1216. Giacomo, che godeva grande fama di predicatore della crociata – aveva infatti predicato sia quella contro gli Albigesi sia quella indetta dal IV concilio lateranense – era assai sensibile alla vita religiosa femminile, grazie al determinante incontro con Maria di Oignies48. Egli dovette provare una grande delusione per l’andamento della crociata, da lui pure predicata con sincero zelo e convinzione, tanto che nel 1225, dopo la caduta di Damietta e il fallimento dell’impresa transmarina, ritornò in Europa, tre anni dopo, come già detto, si dimise dal vescovato di Accon e tra l’aprile e l’agosto del 1229 fu creato cardinale e trasferito alla sede suburbicaria di Tuscolo, l’odierna Frascati49. Negli ultimi anni
47 Il testo del noto manifesto antiimperiale è in C. RODENBERG, Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae per G.H. Pertz, in M.G.H., Epistolae saeculi XIII, I, Berolini 1883, I, pp. 645-654, n. 750; BERG, Staufische Herrschaftsideologie cit., pp. 4648; BERG, L’impero degli Svevi e il gioachimismo francescano cit., pp. 145-146; BERG, L’imperatore Federico II e i Mendicanti cit., pp. 59-68 e 73-81; DE FRAJA, Usi politici cit., pp. 399-400; G.L. POTESTÀ, Il drago, la bestia, l’Anticristo. Il conflitto apocalittico tra Federico II e il Papato, in Il Diavolo nel medioevo, Spoleto 2013 (Atti dei Convegni del Centro italiano di studi sul basso medioevo - Accademia Tudertina, 49. N. ser., 26), pp. 395-420; M. THUMSER, Kardinal Rainer von Viterbo († 1250) und seine Propaganda gegen Friederich II., in Die Kardinäle des Mittelalters und der frühen Renaissance, cur. J. DENDORFER - R. LÜTZELSCHWAB - J. NOWAK, Firenze 2013 (Millennio Medievale, 95. Strumenti e studi, 33), pp. 187-199; RAININI, Il profeta del papa cit., pp. 99-106, con la bibliografia lì indicata. 48 J. LONGÈRE, Jacques de Vitry. La vie e les œuvres, in Jacques de Vitry, Histoire Occidentale - Historia occidentalis (Tableau de l’Occident au XIIIe siècle), Paris 1997, pp. 7-49. 49 A. PARAVICINI BAGLIANI, Cardinali di curia e ‘familiae’ cardinalizie dal 1227 al 1254, I, Padova 1972 (Italia sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica, 18), pp. 99-109; si vedano inoltre J.F. HINNEBUSCH, The Historia Occidentalis of Jacques de Vitry. A critical edition, Fribourg 1972 (Spicilegium Friburgense, 17), pp. 3-15; J.W. BALDWIN, Masters, Princes and Merchants. The Social Views of Peter the Chanter and his Circle, I, Princeton 1970, pp. 38-39 e l’ottima voce di R. AUBERT, Jacques de Vitry, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, 26, Paris 1997, coll. 771-772.
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della sua vita fu sempre accanto a Gregorio IX ed è possibile ipotizzare che sia stato uno dei più accesi sostenitori della politica antisveva del papa e, soprattutto, che si sia impegnato nella elaborazione dei suoi fondamenti profetico-apocalittici. Il vivo interesse del cardinale per la letteratura profetica è confermato dal fatto che a lui è dedicato uno scritto contenente una visione attribuita a un certo Giovanni, eremita delle Asturie, un testo preceduto da una lettera dedicatoria al cardinale Giacomo di Tuscolo – vale a dire Giacomo da Vitry – e che fu probabilmente portato alla curia dal vescovo Luca di Tuy attorno al 1234, in ogni caso dopo la canonizzazione di Domenico di Caleruega50. Ritengo che questo testo meriti attenzione perché, rispetto agli scritti pseudoepigrafici di Gioacchino da Fiore, in questa visione il determinante ruolo nella lotta contro l’Anticristo è attribuito a Francesco e a Domenico – qui esplicitamente citati e caratterizzati con diversi attributi – e alle schiere dei loro seguaci, senza ricorrere a elementi simbolici, come invece negli scritti attribuiti all’abate calabrese che, essendo giocoforza precedenti alla canonizzazione dei due santi, non avrebbero potuto ricordarli in modo diretto. L’eremita Giovanni, infatti, narrò che nel 1226, mentre era immerso in preghiera vide un essere di grande bellezza (definito similitudo) con sei ali, il cui capo era Cristo con una corona che nella parte superiore rappresentava Pietro e i pontefici romani; alla sua destra stavano i santi Paolo, Giacomo e tutti gli apostoli e gli evangelisti, mentre alla sua sinistra erano i patriarchi e i profeti dell’Antico Testamento. Tra il volto e il petto di Cristo nella parte destra si poteva vedere la Vergine Maria e accanto a lei Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, quindi i dottori della Chiesa fino a Gregorio Magno e Isidoro di Siviglia, ognuno recante nelle mani armi o oggetti simbolici finalizzati all’imminente lotta. Al cospetto della similitudo, davanti alla quale bruciavano gli incensi, erano anche i santi vescovi Martino e Nicola di Mira e i santi Benedetto e Bernardo, questi ultimi
50 Il testo è stato attentamente esaminato da R.E. LERNER - C. MOREROD, The Vision of “John, Hermit of the Asturias”: Lucas of Tuy, Apostolic Religion and Eschatological Expectation, «Traditio», 61 (2006), pp. 195-225, che ne hanno dato anche una nuova edizione; circa la collocazione temporale del testo, che il precedente editore (L. OLIGER, Ein pseudoprophetischer Text aus Spanien über die Heiligen Franziskus und Dominikus [13. Jahrhundert], in Kirchengeschichtliche Studien P. Michael Bihl als Eherengabe dargebracht, cur. I.-M. FREUDENREICH, Kolmar in Elsass [1942], pp. 13-28) datava agli ultimi decenni del XIII secolo, sia Lerner sia Alberzoni (Minori e Predicatori cit., pp. 89-97) sono stati concordi sulla base di differenti indizi a collocarlo nel quarto decennio del XIII secolo, precisamente prima della morte di Giacomo da Vitry e a ridosso della canonizzazione di s. Domenico; Lerner e Morerod hanno anche attribuito al vescovo di Tuy la stesura del testo.
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«lucernas splendidissimas tenentes in manibus»51. La similitudo aveva sotto i suoi piedi due ruote di fuoco, dalle quali si sprigionavano raggi luminosi. Quando però la similitudo discendeva verso la terra, «beatissimi Franciscus et Dominicus – et ipsi senas alas habentes, Ordinis Predicatorum et Minorum primi – similitudinem ducebant»52. Collegato alla ruota di Francesco era un funiculum composto da tre fili di colori diversi (rosso, bianco e verde) e a quella di Domenico una catena d’oro; entrambi i santi rifulgevano di grande luce. Mentre l’eremita stava guardando questo spettacolo un enorme drago, un gallo e molte volpi, con volti muliebri e di diverse bestie, ingaggiarono una lotta furibonda con la similitudo: Francesco e Domenico che conducevano le due ruote attaccarono battaglia, chiamarono a sostegno tutti i popoli ed ebbero la meglio sul drago. Ma la vittoria fu di breve durata: «Post hec, dum universa viderentur tranquillitate perfrui, bestia terribilis surrexit de abysso»53. La parte anteriore aveva forma di donna, ma quella posteriore era di leone, con corna di ferro; diceva cose dolci da ascoltare, ma di nascosto inoculava veleno. Attaccò inaspettatamente la similitudo, ruppe la catena di Domenico e la corda di Francesco e distrusse in parte le ruote. Allora un ariete, le volpi e le altre bestie ripresero vigore e riuscirono anche a uccidere parte dell’esercito dei credenti. A questa vista Francesco e Domenico presero le armi che Gregorio e Isidoro portavano nelle mani e sconfissero la bestia. Allora «abbreviati sunt dies bestie atque ignis a Domino exiens bestiam et multas vulpium vorando consumpsit»54. In breve la similitudo riacquistò il suo splendore, la corda di Francesco e la catena di Domenico furono ripristinate e i due santi divennero sette volte ancor più splendenti. Merita infine accennare almeno alla risposta che l’eremita diede a coloro che avevano accolto il suo racconto, soprattutto in riferimento al significato della corda di Francesco e della catena di Domenico e del fatto che a un certo punto furono separate dalle ruote e perché l’Anticristo poté in un primo momento addirittura prevalere sulla similitudo e su coloro che erano posti a sua difesa, innanzi tutti i santi Francesco e Domenico. «Afficientur – inquit – sancti tedio propter luxus religiosorum, cupidita-
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LERNER - MOREROD, The Vision of “John, Hermit of the Asturias” cit., pp. 218-220. Ibid., p. 221. Ibid., p. 222; si noti il tema apocalittico (già presente in Daniele, cap. 7) della bestia che sorge dagli abissi, poi ampiamente ripreso e sviluppato da Raniero da Viterbo nei suoi pamphlets antifedericiani. 54 Ibid., p. 223.
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tem et avaritiam prelatorum, surgentes religiosi contra episcopos», così da dividere la Chiesa (il regno di Dio sulla terra) e renderlo più debole e facilmente attaccabile dal nemico55. Si tratta di un tema polemico che ebbe molta fortuna nella letteratura pseudogioachimita ripresa ed elaborata soprattutto in ambienti minoritici e che trova la sua più compiuta espressione nel Super Hieremiam, un’opera composta negli anni Quaranta del XIII secolo, probabilmente a ridosso della deposizione di Federico II avvenuta nel corso del I concilio lionese (1245)56. Come opportunamente ha sottolineato Gian Luca Potestà, l’enfasi posta su questo tema non era espressione di «un attacco sconsiderato all’istituzione da parte di “francescani estremisti”, quanto un tentativo di spiegazione teologica dell’apparente venir meno del sostegno divino ai vertici della Chiesa: una spiegazione che, per quello che sappiamo del gruppo dirigente dell’Ordine intorno al 1246-1247, poteva essere senz’altro condivisa da esso. Alla fine, l’infuriare delle forze anticristiane viene spiegato alla luce dei peccati della Chiesa» e la lotta contro queste forze avverse costituisce una provvidenziale occasione di purificazione57. Robert Lerner ha attentamente contestualizzato questo testo e, oltre alla spiegazione della ricca simbologia, ne ha fornito una convincente lettura collocandolo entro il quadro degli scritti profetici latamente indicati come gioachimiti. Di più. La profezia contiene dei motivi di novità: se infatti da una parte Luca di Tuy, l’autore del testo, riprende il tema della guerra finale contro l’Anticristo – tema per la prima volta emerso nelle profezie di Ildegarda di Bingen nel XII secolo –, egli per primo ipotizza uno scontro anche intraecclesiale, tra i diversi ordines presenti nella Chiesa, in questo caso tra i vescovi e i monasteri, riprendendo la convinzione che lo scontro con l’Anticristo avrebbe portato alla purgatio dei mali della Chiesa58. Oltre a conferire particolare risalto al ruolo svolto da Francesco e da Domenico nel condurre e salvare la Chiesa – un ruolo che giustamente Lerner individua come addirittura più importante di quello
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Ibid., p. 225. POTESTÀ, Il Super Hieremiam e il gioachimismo cit., pp. 886-890. Ibid., pp. 889-900: 900: «e proprio perché la Chiesa dei prelati e dei chierici è nel peccato, l’azione del nemico trova una spiegazione provvidenziale, fino ai suoi temuti esiti ultimi. Accingendosi a purificare (in un senso molto vicino a “epurare”) i vertici ecclesiastici, Federico compie il volere divino; agendo per la fine della gerarchia, paradossalmente pone le condizioni per la sua “resurrezione” e per l’avvento futuro di un papa giusto». 58 LERNER - MOREROD, The Vision of “John, Hermit of the Asturias” cit., pp. 208-209; l’espressione di Ildegarda, nella Epistola ad pastores, 42, è la seguente: «sic iniquitas que iniquitatem purgabit super vos ducetur» (riportata da Lerner - Morerod, alla nota 40).
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svolto da Cristo stesso59 – si mette qui in luce il ruolo che nella profezia assume l’intervallo di tempo tra la prima vittoria sull’Anticristo, il riaccendersi repentino della lotta e la pace dopo la vittoria finale: è questo l’aspetto più significativo della escatologia tratteggiata da Luca di Tuy60. Dopo l’opera di Gioacchino da Fiore, che forse Luca poté conoscere durante i suoi soggiorni alla curia romana, è questa la prima occasione in cui tale interpretazione viene ripresa e, soprattutto, è questa la prima profezia in cui Francesco e Domenico, esplicitamente indicati come santi e con il loro nome, sono presentati come i principali nemici, dapprima del drago, quindi della orribile bestia che sorge dall’abisso. La scelta del vescovo Luca di Tuy, che aveva conosciuto alla curia il ministro generale dei frati Minori, frate Elia, e lo riteneva un uomo santo e degno della massima stima, di dedicare questa profezia al cardinale Giacomo da Vitry si spiega innanzi tutto con l’ammirazione da quest’ultimo dimostrata nei confronti dei nuovi Ordini mendicanti, ma va anche considerato quanto Giacomo, come pure altri membri della curia romana, fosse sensibile ai testi profetici e alla teologia della storia in essi veicolata61. 5. I frati Minori – sono questi a essere sempre ricordati al primo posto nella profezia dell’eremita Giovanni – e i frati Predicatori con i rispettivi fondatori avevano oramai guadagnato un posto di rilievo alla curia romana e proprio in quell’ambito la loro presenza e il loro impegno furono indirizzati a combattere Federico II, l’Anticristo che nel giro di pochi anni sarà indicato da Raniero da Viterbo proprio come la bestia che emerge dal mare62. I temi gioachimiti ampiamente accolti e addirittura elaborati alla sede apostolica trovarono un fecondo campo di applicazione nei due Ordini mendicanti recentemente approvati dal papato, che peraltro si adoperava
59 Ibid., p. 205: «Inasmuch as the narrative neglects to mention the second coming of Jesus, it is tempting to say that Francis and Dominic seem to play a more important role than Jesus Christ Himself». 60 Ibid., p. 209: «While the prediction of violence is noteworthy, the account of a sabbath between the destruction of Antichrist and the End is the most remarkable aspect of Lucas of Tuy’s eschatological vision». 61 RAININI, Il profeta del papa cit., pp. 90-93: 91: «l’ambiente della curia romana si mostra permeabile ai temi e alle immagini dell’abate calabrese, ben oltre la morte di Innocenzo III, e almeno fino al tornante della metà del secolo. La curia di Gregorio IX pare notevolmente sensibile a questo tipo di speculazioni: e questo prima ancora – non solo cronologicamente – dello scontro con Federico II, quando questo materiale costituirà una riserva di immagini di forte impatto propagandistico». 62 Ibid., pp. 99-102.
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anche per conferire loro un struttura chiericale e, per molti aspetti, analoga: si trattava di farne due Ordini di predicatori, efficaci nel sostenere le posizioni della Chiesa romana anche in sede locale e capaci di indirizzare a suo favore l’appoggio della popolazione. La ripresa di interesse da parte di Gregorio IX e della curia per i Mendicanti si può valutare considerando con quanta determinazione fu alfine intrapreso il processo di canonizzazione di Domenico: a ciò contribuirono lo stupore e la soddisfazione al diffondersi delle notizie circa i “provvidenziali” risultati dell’Alleluia del 1233, quando la predicazione dei frati favorì l’affermazione della pars Ecclesie in diversi centri della regione padana. Il più convinto promotore della canonizzazione di Domenico fu infatti il frate Predicatore Giovanni da Vicenza, il più noto protagonista del movimento religioso-politico dell’Alleluia. Non solo: proprio agli inizi degli anni Trenta il papato stava sempre più di frequente conferendo ai frati importanti incarichi in ambito ecclesiale, sia per perseguire gli eretici e rappresentare le richieste papali di fronte ai rappresentanti del potere politico, soprattutto in ambito comunale, sia per ricoprire l’episcopale officium63. I Mendicanti, in particolare i frati Minori, avevano assoluto bisogno di trovare giustificazioni teologiche alle scelte che il papato stava sempre più imponendo loro, soprattutto per giustificare sia l’esercizio di una pastorale completamente autonoma dalle gerarchie locali sia quella che potrebbe
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Per la campagna di predicazione e di pacificazione punto di riferimento rimane A. VAUCHEZ, Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233. L’action politique des Ordres mendiants d’après la réforme des statuts communaux et les accords de paix, «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 78 (1966), pp. 503-549 (trad. it.: Una campagna di pacificazione intorno al 1233. L’azione politica degli Ordini Mendicanti secondo la riforma degli statuti comunali e gli accordi di pace, in VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990, pp. 119-161), al quale è utile affiancare THOMPSON, Predicatori e politica cit., pp. 37-82. Si vedano anche le note di L. CANETTI, L’invenzione della memoria. Il culto e l’immagine di Domenico nella storia dei primi frati Predicatori, Spoleto 1996 (Biblioteca di «Medioevo Latino», 19), pp. 66-89, in merito alla presa di distanza del maestro generale Giordano di Sassonia nei confronti delle inedite iniziative dei frati nel corso dell’Alleluia; getta nuova luce sull’azione di Giovanni da Vicenza a Bologna M. RAININI, Giovanni da Vicenza, Bologna e l’Ordine dei Predicatori, in L’origine dell’Ordine dei Predicatori e l’Università di Bologna, cur. G. BERTUZZI, Bologna 2006, pp. 146-175 e ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 77-82; si vedano inoltre E. ARTIFONI, Gli uomini dell’assemblea. L’oratoria civile, i concionatori e i predicatori nella società comunale, in La predicazione dei frati dalla metà del ’200 cit., pp. 141-188 e M.P. ALBERZONI, Mendikantenpredigt und Stadt in Oberitalien in der ersten Hälfte des 13. Jahrhunderts: die Entstehung eines Modells, in Kommunikation in mittelalterlichen Städten, cur. J. OBERSTE, Regensburg 2007 (Forum Mittelalter. Studien, 3), pp. 99-117.
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essere definita una sorta di mutazione genetica rispetto all’immagine che di sé i frati avevano veicolato fino agli anni Venti del Duecento: da minores, umili servitori dei poveri e degli esclusi della società, si apprestavano ad assumere posti di rilievo all’interno della gerarchia ecclesiastica e dei vertici del mondo comunale64. Basti pensare al successo che ebbero gli scritti gioachimiti in senso lato presso la dirigenza minoritica, soprattutto durante il generalato di Giovanni da Parma (1247-1257) e poi in quello di Bonaventura († 1274)65. L’assunzione e l’applicazione delle profezie di stampo gioachimita, inoltre, era funzionale a mantenere l’unità dell’Ordine e a giustificarne le scelte in un momento in cui era a tutti evidente la crisi che stava attraversando, soprattutto dopo la scissione interna avvenuta a seguito della deposizione di frate Elia, giacché tali profezie erano finalizzate a spiegare e a collocare entro un quadro credibile le difficoltà del tempo presente: la lotta aperta contro l’imperatore scomunicato, al quale si era unito anche l’ex ministro generale, anch’egli scomunicato, divenne per tale via una sorta di legittimazione, un tentativo di recupero di una credibilità in nome dell’utilitas dell’Ordine per la Chiesa. Si comprende così come lo schieramento di quest’ultimo (soprattutto della sua nuova dirigenza) a fianco del papato e contro Federico II – l’epilogo che l’imperatore aveva a lungo (e con un certo successo) cercato di contrastare finché frate Elia fu ai vertici dell’Ordine – a partire dal 1239 divenne una questione centrale e addirittura identitaria per la maggior parte dei frati, o meglio, per quella parte che aveva aderito alla “svolta chiericale” promossa da Gregorio IX e sancita con la deposizione di frate Elia. Una lettura disincantata della Cronica di Salimbene, nella quale non a caso i due più lunghi excursus – che possono essere addirittura considerati delle operette a sé – sono dedicati proprio a frate Elia e a Federico II, consente di cogliere a fondo da una parte la profonda lacerazione verificatasi all’interno dell’Ordine e dall’altra il ruolo rilevante svolto dai frati al fianco della Chiesa nello scontro contro la pars imperii: tale impegno, infatti, costituì un punto di forza per giustificare l’esistenza stessa dell’Ordine.
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ALBERZONI, Minori e Predicatori cit., pp. 98-106. Mi limito qui a rinviare al fondamentale J. RATZINGER, Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, München-Zürich 1959 (trad. ital.: San Bonaventura. La teologia della storia, Firenze 1991) e ai recenti contributi di H.-J. SCHMIDT, Legitimität von Innovation. Geschichte, Kirche und neue Orden im 13. Jahrhundert, in Vita Religiosa im Mittelalter cit., pp. 371-391, nonché agli studi ricordati sopra, alla nota 14.
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Il rapporto tra i frati Minori e Federico II fu dunque sotto diversi aspetti, in positivo e in negativo, funzionale alla definizione dell’Ordine e alla sua giustificazione intraecclesiale, fino a quando un teologo del calibro di Bonaventura elaborò un più completo sistema teologico-apologetico nel quale collocare la storia (rivisitata) dei frati Minori e conferirle nuova credibilità66.
66 Oltre a RATZINGER, Die Geschichtstheologie cit., soprattutto pp. 59-119, si veda L. PELLEGRINI, Il ruolo «profetico» di Francesco d’Assisi. Analisi sincronica del prologo della «Legenda Maior», «Laurentianum», 26 (1985), pp. 361-395; PELLEGRINI, Introduzione, in San Bonaventura, Opuscoli francescani /1, Roma 1993 (Opere di San Bonaventura, 14/1), pp. 7-77, soprattutto pp. 59-62, ora in PELLEGRINI, Frate Francesco e i suoi agiografi, Assisi 2004 (Medioevo francescano. Saggi, 8), pp. 113-233.
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Tra Chiesa e Impero, tra movimenti di pace ed eresia. Il francescano Gerardo Boccabadati da Modena, la Grande Devozione e gli statuti del Comune di Parma (1232-1233)
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Nel 1233 si dispiegò lungo le strade dell’Italia padana un moto di pace e di devozione che coinvolse la popolazione, le autorità e gli ordini mendicanti. Non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo1, ma l’emozione suscitata tra le folle e le tracce impresse sulle città, attraverso interventi in campo sia religioso sia civile, lasciarono nei contemporanei e nei posteri il ricordo indelebile di un tempo mitico «di quiete e di pace» e «di gaudio e letizia»2. Il movimento nacque in Emilia e si diffuse quindi in Veneto e in Lombardia3 ed è
1 Dalle Paci di Dio ai Flagellanti, ai Bianchi, diverse furono infatti nel corso del medioevo le manifestazioni collettive a favore di politiche di pacificazione, da realizzarsi a livello pubblico e individuale, sia attraverso la sospensione della violenza sia tramite pratiche penitenziali. Sul fervore collettivo che accompagnava questi movimenti si vedano i saggi raccolti in G. DICKSON, Religious enthusiasm in the medieval West: revivals, crusades, saints, Aldershot 2000. 2 «Fuit autem Alleluia quoddam tempus quod sic in posterum dictum fuit, scilicet tempus quietis et pacis, quoad arma bellica omnino remota, iucunditatis et letitie, gaudii et exultationis, laudis et iubilationis». Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. SCALIA, Bari 1966, I, p. 99. 3 Oltre a Salimbene, ricordano il passaggio dell’Alleluia numerose cronache cittadine tra cui: Chronicon parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, ed. G. BONAZZI, in R.I.S.², IX/9, Città di Castello 1902-1904; Girolamo de Bursellis, Chronica gestorum civitatis Bononie, ed. A. SORBELLI, in R.I.S.², XXIII/2, Città di Castello 1904; Giovanni de Mussis, Chronicon Placentinum, in L.A. MURATORI, R.I.S., XVI, Mediolani 1730; Memoriale potestatum regensium, ibid., VIII, Mediolani 1726; Annales veteres Mutinenses ab anno MCXXXI usque ad MCCCXXXVI, ibid., XI, Mediolani 1727; Rolandino, Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixiane, ed. A. BONARDI, in R.I.S.², VIII/1, Città di Castello 1905; Gerardo Maurisio, Cronaca dominorum Eccelini et Alberici fratrum de Romano, ed. G. SORANZO, in R.I.S.², VIII/4, Città di Castello 1914; Parisio da Cerea, Annales veronenses, ed. P. JAFFÉ, in M.G.H., SS., 19, Hannoverae 1866.
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noto come Alleluia4, sebbene solo una fase, quella centrale, sia definibile in senso stretto in tal modo. In generale sarebbe più corretto parlare di una Devocio, da qualificarsi anzitutto come Magna5, per la straordinaria adesione corale che seppe raccogliere, come testimonia la grande adunata tenutasi nell’estate del 1233 a Paquara, presso Verona, ove partecipò una folla di milites e popolani, di monaci e chierici, nonché di grandi personalità politiche ed ecclesiastiche provenienti dalle principali località padane6. Più nello specifico, sulla scorta dell’anonimo autore del Chronicon parmense7, si può anche fare riferimento a una devocio fratrum Predicatorum, a sottolineare il ruolo assunto nel radicamento locale del moto dai frati mendicanti, appartenenti soprattutto all’ordine di s. Domenico, per quanto non mancassero presenze di spicco anche in ambito francescano8. Manifestazioni salienti di questa Grande Devozione furono processioni, predicazioni e pacificazioni. Alcune città conobbero anche riforme degli statuti comunali, con l’inserimento di norme relative al superamento delle discordie, alle libertà della Chiesa, alla condanna dell’usura e alla repressione del dissenso ereticale. A seguito di questi interventi, operati o
4 Si vedano C. SUTTER, Giovanni da Vicenza e l’Alleluia del 1233, (Freiburg 1891), trad.
it. cur. M.G. - O. DA SCHIO, Vicenza 1900; A. VAUCHEZ, Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233. L’action politique des Ordres Mendiants d’après la réforme des statuts communaux et les accords de paix, «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 78 (1966), pp. 519-549 (poi in VAUCHEZ, Religion et société dans l’Occident medieval, Torino 1980, pp. 503-549 (trad. VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana. XIII-XV secolo, Milano 1990, pp. 121-161, con il titolo Una campagna di pacificazione in Lombardia verso il 1233. L’azione politica degli Ordini Mendicanti nella riforma degli statuti comunali e gli accordi di pace, da cui citiamo); V. FUMAGALLI, In margine all’Alleluia del 1233, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 80 (1968), pp. 257-272 (ora in FUMAGALLI, Uomini e paesaggi medievali, Bologna 1989, pp. 143-159, con il titolo Motivi naturalistici e aspirazione alla pace: l’“Alleluja” del 1233); F. BAROCELLI, L’Alleluia di Parma del 1233. Il rito, l’immagine, la città, «Aurea Parma», 67-68 (1983-1984), pp. 232-256; D.A. BROWN, The Alleluia. A Thirteen Century Peace Movement, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 81 (1988), pp. 316; A. THOMPSON, Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo. La ‘Grande Devozione’ del 1233, Milano 1996 (Oxford 1992). 5 Salimbene de Adam, Cronica cit., II, p. 678. 6 G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia Einaudi, II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 431-1079: 721. 7 Chronicon parmense cit., p. 10. 8 In particolare si ricorda l’azione dei domenicani Giacomino da Parma a Reggio, Bartolomeo da Vicenza a Parma, Pietro da Verona a Milano, Giovanni da Vicenza a Bologna e poi a Padova, Treviso, Vicenza, Verona, e dei francescani Leone da Perego a Piacenza e Milano, Enrico da Milano a Vercelli, Gerardo da Modena a Parma. Salimbene de Adam, Cronica cit., I, pp. 101 ss.
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comunque mediati dai frati mendicanti, famiglie da tempo rivali fecero pace, molti fuorusciti rientrarono nelle loro case, alcuni vescovi appianarono i contrasti con i poteri comunali, diversi roghi si accesero qua e là9. Un paio di frati assunsero poteri pubblici: al domenicano Giovanni da Vicenza si affidarono dapprima i Bolognesi, pur senza conferirgli titoli ufficiali, e poi i Veronesi e i Vicentini10; al francescano Gerardo da Modena i «Parmenses totaliter dominium Parme dederunt»11. È proprio sul contesto parmense e sull’azione di frate Gerardo che intendo concentrare l’attenzione in questa sede, per fornire un esempio ricco di sfaccettature in merito ai rapporti intrattenuti dai Minori con le autonomie cittadine dell’Italia basso-medievale.
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9 Così riferiva nel 1233 Stefano di Spagna, nel deporre a Bologna, in qualità di priore della provincia di Lombardia, al processo di canonizzazione di Domenico di Calaruega: «Item dixit predictus testis quod firmiter credit, quod gratia que his temporibus collata est fratribus predicatoribus in Lombardia et etiam in aliis provinciis, precibus et meritis fratris Dominici sit collata vel etiam augmentata. Interrogatus quare hoc credit, respondit quod ab illo tempore, postquam frater Iohannes Vicentinus cepit predicare revelationem sibi de fratre Dominico divinitus factam et vitam et conversationem et ipsius sanctitatem populo nunciare, et ipse testis cum aliquibus fratribus cepit tractare de translatione corporis predicti fratris Dominici, ex tunc manifeste refulsit et apparuit amplior gratia tam in fratribus, qui eius vitam et sanctitatem predicabant, quam etiam in populis qui eos audiebant, sicut patet per effectum in civitatibus Lombardie, in quibus maxima multitudo hereticorum est combusta, et plusquam centum millia hominum, qui nesciebant utrum ecclesie Romane an hereticis deberent adherere, ad catholicam fidem Romane ecclesie per predicationes fratrum predicatorum ex corde sunt conversi. Et hoc scit quia illi conversi hereticos, quos primo defendebant, modo persequuntur et abhominantur. Et fere omnes civitates Lombardie et Marchie facta sua et statuta ordinanda et mutanda ad voluntatem fratrum tradunt in manibus eorum, ut radant, addant, minuant et mutent, secundum quod eis visum fuerit expedire. Et hoc etiam faciunt de guerris extirpandis et pacibus faciendis et componendis inter eos. Et de usuris et male ablatis reddendis et confessionibus audiendis et multis aliis bonis, que longum esset enarrare». Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historica, 35 voll., Lovanii-Parisiis-Romae 1896-1966: XVI, Romae 1935, pp. 158-159. 10 A Verona fu dux et rector (ma il cronista Gerardo Maurisio lo indica anche come dux et comes e parla dell’assunzione di ducatus et potestaria), a Vicenza fu dux et comes. Gerardo Maurisio, Cronaca dominorum Eccelini cit., pp. 32-33. La biografia di Giovanni da Vicenza è già ben scandagliata: ciononostante il personaggio risulta noto più che altro fra i cultori degli studi religiosi, mentre non gli viene attribuito tutto il posto che merita nella ricostruzione della storia comunale del tempo. L. CANETTI, Giovanni da Vicenza, in Dizionario biografico degli Italiani (d’ora in poi DBI), 56, Roma 2001; VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione cit., pp. 124-125; THOMPSON, Predicatori e politica cit., pp. 57 ss. 11 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 106.
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Un francescano «imperialis multum» a Parma
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Parma è un osservatorio privilegiato per condurre un’indagine sui rapporti tra francescanesimo e politica nell’Italia comunale12 e questo non solo perché si dispone di un testimone locale di eccezione, Salimbene de Adam, un autore che nel narrare avvenimenti e personaggi adotta un «criterio mendicante» di interpretazione della realtà, ovvero un filtro ideologico che rispecchia l’“autocoscienza” espressa dai due maggiori ordini mendicanti della seconda metà del XIII secolo13, e che ai fini dei nostri discorsi non risulta un limite ma un valore aggiunto. La ricerca su Parma risulta tuttavia particolarmente interessante anche e soprattutto per i frequenti e continui momenti in cui, nel dipanarsi delle complessissime vicende locali, si coglie il muoversi dei frati Minori tra Papato e Impero, ma direi anche tra Comune e Signoria (un aspetto questo che merita ancora molti approfondimenti e sul quale nello specifico sto lavorando)14. Parma, come noto, si affacciava al Duecento con una solida tradizione di appoggio all’Impero, garantito sia dalla chiesa vescovile, sia dalle famiglie protagoniste della nascita del comune, una fedeltà che venne tuttavia meno a metà secolo con un clamoroso cambio di campo, in senso antifedericiano, a seguito delle nuove solidarietà politiche e sociali costruitesi intorno alla famiglia Fieschi, che avrebbero portato il centro emiliano ad occupare un ruolo di rilievo nel quadro delle alleanze guelfe15. Questo non
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Sul tema rimangono fondamentali i nessi indicati da A. BARTOLI LANGELI, Comuni e frati Minori, in Il francescanesimo nell’Umbria meridionale nei secoli XIII-XIV, Narni 1985, pp. 91-101. Per un inquadramento più generale e più recente, anche se non privo di inesattezze, del rapporto tra religiosi e politica, cfr. F. ANDREWS, Churchmen and Urban Government in Late Medieval Italy c. 1200 - c. 1450: Cases and Contexts, Cambridge 2013. 13 Di «criterio mendicante» ha parlato per primo Jacques Le Goff ma, come noto, in riferimento alla colonizzazione dello spazio urbano: si veda da ultimo il suo volume Un lungo Medioevo, Bari 2006, p. 138. L’accezione da me riportata viene invece usata da M.P. ALBERZONI, Un mendicante di fronte alla vita della Chiesa nella seconda metà del Duecento. Motivi religiosi nella Cronica di Salimbene, in Salimbeniana. Atti del Convegno (Parma, 1987-89), Bologna 1991, pp. 7-34: 8. Sulla Cronica salimbeniana quale spaccato dei valori interni all’ordine francescano rimando invece a E. PÁSZTOR, L’esperienza francescana nella Cronica di Salimbene, in Salimbene da Parma. Curiosità umana ed esperienza politica in un francescano di sette secoli fa, Bologna 1987, pp. 13-21 (ora in E. PÁSZTOR, Intentio beati Francisci. Il percorso difficile dell’ordine francescano, Roma 2008, pp. 211-224). 14 Preannuncio che il contributo che presento in questa sede è un tassello di una più ampia ricerca che sto conducendo sui rapporti intrattenuti dalla Chiesa di Parma con i poteri comunali e signorili nel corso del secolo XIII. 15 R. SCHUMANN, Authority and the Commune. Parma 833-1133, Parma 1973 (trad. it. Istituzioni e società a Parma dall’età carolingia alla nascita del comune, Reggio Emilia 2004);
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significò comunque la scomparsa in città e nel contado di uno zoccolo duro filo-imperiale. Per rimanere sul nostro tema, le origini parmensi di numerosi frati Minori sostenitori di teorie gioachimite o pseudo-gioachimite viranti in certi casi sul fronte ereticale – dal ministro generale Giovanni Buralli16 a Gerardo di Borgo S. Donnino17 – sono state messe in collegamento da alcuni proprio ad un rigetto guelfo: il passaggio di Parma dallo schieramento filo-imperiale alla pars Ecclesiae, dal 1247 in poi, per quanto rivelatosi vincente nell’immediato, determinò infatti anche una sofferenza, nella successiva acquisizione di consapevolezza della perdita, nel nuovo quadro politico italico venutosi a creare, di quel ruolo privilegiato che fino ad allora la città aveva mantenuto a fianco dell'Impero18.
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R. GRECI, Origini, sviluppi e crisi del comune, in Storia di Parma, III/1, Parma medievale. Poteri e istituzioni, Parma 2010, pp. 115-167. 16 Giovanni Buralli, uno dei primi compagni di Francesco, nacque a Parma dove coltivò i suoi primi studi. Allevato e educato dallo zio paterno, sacerdote e rettore dell’ospedale di S. Lazzaro, Giovanni divenne maestro di logica presso la scuola della cattedrale prima del suo ingresso nell’ordine dei frati Minori avvenuto intorno al 1231. Docente a Parigi, Bologna, Napoli, la sua aderenza al gioachimismo – «maximus Ioachita» lo chiama Salimbene – ne avrebbe causato il discredito e la fine. Nel 1257, a distanza di dieci anni dalla nomina a ministro generale dell’ordine dei Minori, fu costretto a dare le dimissioni, misura tra l’altro reputata insufficiente e solo l’intervento di un Fieschi, il cardinale Ottobono, lo salvò dal carcere. Si ritirò nel convento di Greccio e vi rimase per trent’anni (Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 433; A. MAIERÙ, Buralli, Giovanni, beato, in DBI, XV, Roma 1972, pp. 381-386). Più recentemente tuttavia ci si è tornati a interrogare sulle cause delle sue dimissioni da ministro generale, che sarebbero da ricercare non solo nelle accuse di gioachimismo, ma anche nelle complesse dinamiche dei rapporti, non sempre sereni, tra frati Minori e curia romana. G.G. MERLO, Questioni intorno a frate Giovanni da Parma in quanto ministro generale, in Giovanni da Parma e la grande speranza. Atti del III Convegno storico di Greccio (Greccio, 3-4 dicembre 2004), cur. A. CACCIOTTI - M. MELLI, Milano 2008, pp. 39-59. 17 Strettamente intrecciata alla vicenda del Buralli fu quella di un altro parmense, Gerardo da Borgo S. Donnino, autore di quel Liber introductorius ad Evangelium aeternum che era stato attribuito al Buralli stesso. Sebbene il legame con l’area parmense sia testimoniato solo dal predicato cognominale, e ancora una volta dalla conoscenza di Salimbene, perché le notizie intorno a lui lo vedono in Sicilia e poi in Francia, egli comunque ci testimonia quanto Parma fosse uno dei principali centri di ricezione, elaborazione e diffusione del gioachimismo. Nel 1258, ritenuto colpevole di eresia, fu scomunicato e condannato al carcere perpetuo, morendo in Sicilia nel 1276. R. LAMBERTINI, Momenti della formazione dell’identità francescana nel contesto della disputa con i secolari (1255-1279), in Dalla «Sequela Christi» di Francesco d’Assisi all’apologia della povertà. Atti del convegno (Assisi, 18-20 ottobre 1990), Spoleto 1992, pp. 123-172; R. ORIOLI, Gerardo da Borgo San Donnino, in DBI, LIII, Roma 2000, pp. 354-358. 18 M.P. ALBERZONI, La chiesa cittadina, i monasteri e gli ordini mendicanti, in Storia di Parma, III/I, cit. pp. 261-321: 321.
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La presenza dei frati Minori a Parma fu nel complesso precoce: già nel 1226 il comune destinò loro, affinché vi erigessero una chiesa e un convento, una larga porzione del «prato regio», un terreno demaniale posto all’esterno delle mura settentrionali dell’antica civitas romana, divenuto col tempo sede di mercato e luogo di giochi militari giovanili19. Notiamo per inciso che invece ancora negli anni Trenta del Duecento i frati Predicatori non solo non avevano una sede propria20, e si trovavano a condividerla con altri esponenti di formazioni religiose di origine recente e dall’inquadramento istituzionale un po’ fluido, quali gli Umiliati e i frati di Martorano, ma che questa sede, la chiesa di S. Maria Nuova (una denominazione che non appare casuale), sorgeva nell’Oltretorrente di Parma21, ossia in quella parte del suburbio posto a occidente dell’abitato romano, che solo fra Due e Trecento sarebbe stato inglobato nella civitas attraverso la costruzione di elementi materiali, come strade, fossati e mura, e tramite l’allestimento di scenari simbolici, come processioni religiose e rituali carnevaleschi22. Questa differenza nei tempi e nei luoghi dell’insediamento ci fa intuire che i Francescani furono più lesti rispetto ai loro “concorrenti” ad instaurare buoni rapporti con il comune di Parma, e ci fa anche capire, nello specifico, perché furono loro e non i Domenicani a guidare a Parma la Grande Devozione. Nell’estate del 1233, infatti, Parma fu teatro d’azione di un francescano di grande spessore, Gerardo Maletta, della famiglia modenese dei
19 Sarebbe diventata la fabbrica di S. Francesco in Prato, uno dei più bei monumenti gotici della città. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, 4 voll., Parma 1792-1795 (rist. anast. Bologna 1980), III, p. 128; M. PELLEGRI, Parma medievale dai Carolingi agli Sforza, in Parma la città storica, cur. V. BANZOLA, Parma 1978, pp. 83-148. 20 Sulle origini degli insediamenti domenicani in Parma gravano a tutt’oggi grandi incertezze. Sappiamo che nel 1244 il comune assegnò ai frati predicatori un terreno, che si estendeva tra il terraglio di porta S. Paolo e il fossato di porta S. Barnaba fino alla ghiaia del torrente, e dunque nella parte di più antico insediamento della città, posta a destra del torrente Parma, vicino alla città romana. AFFÒ, Storia cit., III, Appendice, doc. LXXV, p. 380. Nel 1250 è testimoniato un altro convento domenicano, nella zona sud del Capodiponte. PELLEGRI, Parma medievale cit., p. 128. 21 M.R. FURLOTTI, S. Maria Nuova del Martorano, «Archivio Storico per le Province Parmensi», 51 (1999), pp. 65-79. Nel 1233 vi abitavano alcuni Predicatori: AFFÒ, Storia cit., III, pp. 159-160. 22 M. GAZZINI, Luoghi e rituali civici a Parma (secoli XIII-XIV), in Le destin des rituels: faire corps dans l’espace urbain, Italie-France-Allemagne - Il destino dei rituali: «faire corps» nello spazio urbano, Italia-Francia-Germania, cur. G. BERTRAND - I. TADDEI, pp. 73-94, Roma 2008, pp. 73-94; GAZZINI, La nascita del quartiere di Capodiponte: spazi materiali e scenari simbolici, in Andare Oltretorrente. Archeologia e storia a Parma, cur. S. GELICHI - R. GRECI, Parma 2013, pp. 87-98.
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Boccabadati23. Egli era insieme un esponente autorevole dell’ordine dei frati Minori (fu tra i primi compagni di Francesco anche se non appartenne alla cerchia ristretta dei dodici) e un notabile ben conosciuto nella regione a motivo della sua origine familiare: apparteneva infatti a una potente casata di Modena, fedele all’Impero, che aveva dato molti consoli e podestà alla propria città. Lo stesso Gerardo viene ricordato da Salimbene come «imperialis multum». Sebbene non avesse coltivato studi profondi, egli risultava da tutti apprezzato per le qualità di mediatore e di oratore, sia nell’arena pubblica sia sul pulpito: è sempre Salimbene a descriverlo come «magnus concionator, optimus et gratiosus predicator»24. A Parma Gerardo avrebbe trascorso pochi mesi di una vita costellata da grandi viaggi – «totum mundum circumire volebat»25 – e dall’assunzione di incarichi prestigiosi, conferitigli sia dal suo stesso Ordine, sia dal papato, sia da autorità civili26. Su incarico del comune di Parma, infatti, Gerardo fu autore di un corpo di leggi che venne inserito nei locali statuti municipali. 1233: paci, croci, gonfaloni e religioni nuove
Le leggi di Gerardo Boccabadati furono scritte nell’estate del 1233. Esse giunsero a coronamento del movimento della Devocio Magna che ebbe una matrice emiliana, anche se non è ben chiaro in quale città e, a
23 Z. ZAFARANA, Boccabadati, Gherardo, in DBI, X, Roma 1968, pp. 822-823. Si vedano inoltre, in stretto riferimento all’attività svolta nella grande devozione, VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione cit. e THOMPSON, Predicatori e politica cit., mentre per la sua attività legislativa a Parma G. GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme. Gestione e risoluzione delle dispute a Parma nel XIII secolo, Bologna 2005, pp. 151-183. 24 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 106. 25 Ibid. 26 Nel 1230 partecipò al capitolo in cui fu decisa la traslazione del corpo di s. Francesco, e fece poi parte, con Antonio da Padova, Aimone di Faversham e altri, della delegazione che presentò a Gregorio IX quelle richieste «pro expositione regulae» che avrebbero indotto il pontefice ad emanare, il 28 settembre di quell’anno, la bolla Quo elongati. Nel settembre 1243 si trovava con due compagni del suo ordine a Traù dove, alla presenza del vescovo, concludeva un accordo fra quel comune e Spalato. Nel 1249-50 era a Costantinopoli, a fianco di Giovanni da Parma inviato dal pontefice all’imperatore Giovanni III Vatatzes. Da Costantinopoli si recò poi per ordine del generale dei Minori a visitare la provincia di Romania, ovvero le terre greche. All’interno dell’ordine, si adoperò per la riconciliazione tra Alberto di Parma, ministro della provincia di Bologna, e il generale frate Elia, e più tardi, dopo la scomunica di quest’ultimo, si applicò al tentativo di riconciliazione con Elia stesso. ZAFARANA, Boccabadati, Gherardo cit.
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dirla tutta, in quale anno. Tradizionalmente infatti si è indicata Parma come l’ambiente in cui maturò per prima la Grande Devozione, soprattutto per l’apparire in loco di uno stravagante predicatore laico proveniente dall’Italia centrale, tale Benedetto, un uomo semplice e di poca cultura, ma buono e onesto, «molto amico dei frati Minori», che si presentava come un nuovo Giovanni Battista dalla barba lunga e che andava in giro con un copricapo di foggia orientale e un vestito nero decorato davanti e dietro da una croce rossa27. Benedetto, che fu soprannominato frate Cornetta per l’abitudine di suonare una piccola tromba di ottone per adunare le folle, girava per la città accompagnato da una moltitudine di fanciulli che sfilavano recando rami d’albero e candele accese, e che intonavano insieme a lui preghiere coronate dall’invocazione «Alleluia! Alleluia! Alleluia!»28. Se però prescindiamo dall’ottica necessariamente parmigiano-centrica della Cronica di Salimbene, al quale dobbiamo questa descrizione di Benedetto e della sua Alleluia, e soprattutto se consultiamo altre testimonianze, scopriamo che il movimento ebbe le sue prime manifestazioni già l’anno precedente a Modena e che fu fin dall’inizio guidato dai mendicanti, appartenenti a entrambi gli ordini maggiori dei Minori e dei Predicatori. A Modena infatti fin dal 1232, come recitano gli Annales Veteres Mutinenses29, avevano avuto luogo processioni con croci e gonfaloni, i simboli del potere religioso e di quello civile, promosse da Francescani e Domenicani, a sostegno dell’attività pacificatrice che il rettore cittadino, il parmigiano Gerardo Albini, aveva promosso per superare le aspre tensioni sorte l’anno prima a seguito dell’assassinio del suo predecessore, il cremonese Gabriele Conti. Nella primavera dell’anno seguente, sotto la podesteria di un altro parmigiano, Rolando Rossi (che non è da confondersi con il padre di Bernardo, l’influente protagonista della vita politica di Parma a metà Duecento)30, e, grazie alla mediazione del frate minore Gerardo
27 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, pp. 100-101; Chronicon parmense cit., p. 10. I. WALTER, Benedetto, in DBI, VIII, Roma 1966, p. 321. Su Benedetto «profeta in atto» si veda S. PIRON, La parole prophétique, in Le pouvoir des mots au Moyen Âge, cur. N. BÉRIOU - J.-P. BOUDET - I. ROSIER-CATACH, Turnhout 2014, pp. 255-286: 263. 28 In queste sfilate di fanciulli con rami verdi e torce accese sono state intravviste reminescenze propiziatorie pre-cristiane. FUMAGALLI, In margine all’Alleluia cit., p. 144. D’obbligo su questo tema il rimando a J.G. FRAZER, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, Torino 1984 (London 1922). 29 Annales veteres Mutinenses cit, col. 60. 30 Il Rolando che fu podestà a Modena nel 1233 secondo Ireneo Affò apparteneva alla domus degli Ugorubei (AFFÒ, Storia cit., III, p. 138); il padre di Bernardo era stato invece tra i rectores della Societas Lombardie nel 1172, console nel 1172 e nel 1192, podestà di
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Boccabadati, furono stipulate diverse paci e vennero annullati i bandi del comune; contestualmente, fu avviata una campagna di predicazione31. È probabile quindi che il movimento della Grande Devozione, guidato da frati mendicanti che predicavano la pace, con il coinvolgimento delle autorità comunali e della popolazione tutta, fosse stato la premessa e non la conseguenza dell’Alleluia del laico Cornetta. Così come è ipotizzabile che la prima propagazione del movimento di pacificazione fosse stata facilitata dai circuiti dello scambio podestarile, ancor prima che dalle reti mendicanti: abbiamo scritto della presenza a Modena di due podestà parmigiani durante i primi interventi di frate Gerardo, il quale in seguito si spostò proprio a Parma; successivamente, un frate parmigiano, il domenicano Giacomino, si sarebbe recato a Reggio, dove già si trovava un altro podestà originario della sua stessa città, Gigliolo della Gente (il padre del futuro primo signore di Parma, Giberto, che avremo modo di incontrare in seguito). Questo collegamento tra gli itinerari dei frati e quelli dei podestà non stupisce perché già per le direttrici di espansione di altre esperienze religiose duecentesche, a sfondo anche politico, è stato possibile individuare una sovrapposizione, per lo meno iniziale, con i percorsi del funzionariato pubblico itinerante e con le politiche delle alleanze inter-cittadine32. La Grande Devozione del 1233 è stata solitamente accostata ai disegni del Papato della prima metà del Duecento, finalizzati a creare, tramite i mendicanti, un asse politico favorevole alla Chiesa anche attraverso un avvicinamento delle masse. Nel 1233 infatti molte delle città attraversate dal movimento erano di stretta fede imperiale: tra queste, Parma, Modena e Reggio, che erano inoltre federate tra loro, insieme a Cremona, in una «lega medio-padana», volta a contrastare il potere delle vicine ed esuberanti Milano e Bologna, le quali per trovare spazi alle proprie volontà ege-
Parma nel 1180-82 e nel 1198-99; fu podestà forestiero a Bologna (1202) e a Modena (1207, 1212). O. GUYOTJEANNIN, Podestats d’Émilie centrale: Parme, Reggio et Modène (fin XIIemilieu XIVe siècle), in I podestà dell’Italia comunale, parte I, Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), cur. J.-Cl. MAIRE VIGUEUR, Roma 2000 (N. Studi storici, 51), pp. 349-403; GRECI, Origini cit., p. 130. Su suo figlio Bernardo, e sui suoi conflittuali rapporti con frate Gerardo da Modena, vedi infra. 31 Annales veteres Mutinenses cit, col. 60. 32 Mi riferisco soprattutto agli ordini del Consorzio dello Spirito Santo del beato Facio e della Milizia della beata Maria Vergine Gloriosa, o dei frati Gaudenti: mi permetto di rimandare al mio Reti confraternali nell’Italia dei comuni tra fermenti religiosi e solidarietà politico-sociali, in Confraternite e città in Italia fra tardo medioevo e prima età moderna (secoli XIV-XVI), cur. É. CROUZET-PAVAN - M. FOLIN - J.-CL. MAIRE VIGUEUR, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge», 123/1 (2011), pp. 95-103.
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moniche si collocavano dalla parte anti-imperiale33. Viene da domandarsi, tuttavia, se le iniziative mendicanti del 1232-1233 non potessero inserirsi all’interno anche di altri piani, finalizzati all’affermazione di un nuovo ordine politico, il cui elemento cardine era il superamento delle discordie cittadine, e prescindenti quindi la logica delle parti che la strategia papale invece sosteneva. Argomento dell’attività omiletica, e in certi casi legislativa, dei predicatori dell’Alleluia e della Grande Devozione fu infatti, accanto alla lotta contro l’eresia, la pace. Viceversa, la pace non sembrava collocarsi tra gli interessi principali del papato: Gregorio IX, subito dopo la sua elezione nel 1227, aveva indirizzato ai podestà e agli abitanti di Lombardia una lettera in cui chiedeva molte cose: di lottare contro gli eretici, di intervenire contro l’usura, e di difendere l’Ecclesia libertas34. Ma non di portare la pace, come fa notare André Vauchez, il quale individua la ragione di questa assenza nel fatto che nel 1228 la Sede apostolica avrebbe stretto un’alleanza segreta con la Lega Lombarda, e che quindi la riconciliazione delle partes non potesse essere nelle finalità del pontefice35. Eppure la pace fu la chiave di accesso al cuore delle società comunali36, l’argomento che consentì ai predicatori dell’Alleluia e della Grande Devozione di raccogliere il consenso della popolazione, quel favor populi37 necessario per far accettare altre azioni che potevano risultare meno gradite, come ad esempio la soppressione cruenta degli eretici. Individuare la pace come l’elemento chiave della predicazione mendicante significa allora andare alla ricerca delle ragioni locali del successo di questo messaggio pacificatorio, che vanno rintracciate nella vita che si svolgeva all’interno delle città del tempo, caratterizzata da una conflittualità continua, dovuta al contrapporsi di nuclei di potere di nuova e antica origine, raccolti intorno a famiglie dell’aristocrazia rurale, dell’aristocrazia feudale, della milizia cittadina, delle professioni intellettuali e del commercio, spesso agglutinate attorno a fazioni richiamantesi alla Chiesa o all’Impero, ed organizzate in
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F. BERNINI, Come si preparò la rovina di Federico II (Parma, la lega medio-padana e Innocenzo IV dal 1238 al 1247), «Rivista storica italiana», 60 (1948), pp. 205-224. 34 Les registres de Gregoire IX /I, cur. L. AUVRAY, Paris 1890 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athenes et de Rome, ser. II, 9/1), n. 54: Laterano, 29 aprile 1227. 35 VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione cit., p. 132. 36 A. RIGON, Desiderio di pace e crisi di coscienza nell’età di Federico II, «Archivio storico italiano», 156 (1998), pp. 211-226. 37 A proposito di Giovanni da Vicenza, il cronista Gerardo Maurisio parla espressamente del «favor et constantia populi» che la persona del frate attirava. Gerardo Maurisio, Cronaca dominorum Eccelini cit., p. 33.
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società di milites o di Popolo. Una conflittualità che si riverberava anche all’interno delle istituzioni religiose cittadine, nelle rivalità spesso accese tra vescovi, capitoli della cattedrale, monasteri e nuovi conventi, che a cascata si riflettevano nella complicata dialettica dei rapporti tra le chiese locali e la Chiesa romana38. Il 1233 fu tra l’altro a Parma un anno non solo di processioni e di pacificazioni, ma anche di «religioni nuove»39. Nello stesso anno dell’Alleluia, nascevano infatti in città la religio dei frati di Martorano, per iniziativa di frater Bernardo Vizio, e la Militia Iesu Christi, sotto la guida del domenicano vicentino Bartolomeo da Breganze. Salimbene, cogliendo come elemento comune il terreno preparato dalla Alleluia, nella sua narrazione accosta significativamente queste due esperienze, per quanto fossero molto diverse tra loro40. La milizia di Gesù Cristo, un ordine confraternale dotato presto da papa Gregorio IX di una propria regola41, avrebbe infatti dovuto
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38 Sono emblematici al proposito i contrasti locali che portarono all’assassinio, nel 1235, del vescovo di Mantova, il parmense Guidotto da Correggio, imposto nella città lombarda da Gregorio IX, ed eletto anche podestà cittadino nel 1233, avendo quindi modo di favorire l’arrivo dei Predicatori in città: la sua politica di vicinanza al Papato attirò l’ostilità della pars facente capo alla famiglia filo-imperiale degli Avvocati, gravitante a sua volta intorno al monastero di S. Andrea, primo fulcro del governo comunale mantovano e delle sue associazioni mercantili e artigiane. G. GARDONI, «Pro fide et libertate Ecclesiae immolatus». Guidotto da Correggio vescovo di Mantova (1231-1235), in Il difficile mestiere di vescovo (secoli X-XIV), «Quaderni di storia religiosa», 7 (2000), pp. 131-187; più in generale si veda M. RONZANI, Vescovi, capitoli e strategie famigliari nell’Italia comunale, in La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, cur. G. CHITTOLINI - G. MICCOLI, in Storia d’Italia Einaudi, Annali, 9, Torino 1986, pp. 99-146; e ora RONZANI, Vescovo e città nell’Italia comunale del Duecento: qualche riflessione, in Il vescovo, la chiesa e la città di Reggio in età comunale, cur. L. PAOLINI, Bologna 2012, pp. 11-28. 39 Sul tema delle «nuove religioni», espressione coniata a fine Duecento dal notaio cronista astigiano Ogerio Alfieri, si veda il numero monografico Religiones novae, «Quaderni di storia religiosa», 2 (1995). 40 «De regula de Martorano: tunc Bernardus Vitius cum quibusdam aliis religionem de Martorano inchoavit. De regula militum Iesu Christi: tunc etiam in Parma alia religio facta fuit, illorum scilicet qui dicebantur milites Iesu Christi, et in qua non recipiebantur nisi qui prius milites extitissent». Salimbene de Adam, Cronica cit., II, p. 891. 41 Bolla Quae omnium, 22 maggio 1235 in Bullarum, privilegiorum ac diplomatum Romanorum pontificum amplissima collectio, ed. C. Coquelines, III: A Lucio III. ad Clementem IV., scilicet ab an. MCLXXXI ad an. MCCLXVIII, Romae 1740, pp. 284-286, doc. 44; trascrizione in G.G. MEERSSEMAN, Le varie Milizie di Gesù Cristo, in MEERSSEMAN, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con G.P. PACINI, 3 voll., Roma 1977, III, pp. 1233-1270: 1255-1258. Sulla Milizia di Gesù Cristo di Parma vedi G.G. MERLO, «Militare per Cristo» contro gli eretici, in MERLO, Contro gli eretici. La coercizione all’ortodossia prima dell’Inquisizione, Bologna 1996, pp. 11-49; M. GAZZINI, In margine all’Alleluia del 1233: la milizia di Gesù Cristo di Parma
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occuparsi di difendere le libertà ecclesiastiche e la fede cattolica dall’eretica pravità: i suoi membri, nel proteggere «chiese, monasteri, ospedali, qualsiasi ente religioso o persona ecclesiastica di qualunque religione e ordine, e quindi vedove, bambini, orfani e tutte le altre povere persone» dall’eventuale oppressione esercitata dai rettori delle loro città, si sarebbero potuti servire anche dell’uso delle armi, qualora indicato dal papa, dall’ordinario diocesano o dal loro ministro42. I frati di Martorano, invece, soggetti alla regola di s. Agostino, erano espressione di una religiosità meno militante, ma quotidiana che meglio attecchì nel contesto locale. Mentre infatti la milizia di Gesù Cristo suscitò entusiasmi scarsi se non nulli (non è rimasto un solo nome di miles Iesu Christi) e appare come l’inserimento forzato di esperienze maturate lontano, in Linguadoca per la precisione43, l’ordo fratrum de Martorano non solo trovò consensi a Parma, ma riuscì ad espandersi anche fuori dalla città44.
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(1233-1261), in Uno storico e un territorio. Vito Fumagalli e l’Emilia occidentale nel Medioevo. Atti del Convegno (Parma, 11-12 ottobre 2002), Bologna 2005, pp. 235-259 (poi confluito in GAZZINI, Confraternite e società cittadina nel medioevo italiano, Bologna 2006, nel capitolo III: Fratres e milites tra religione e politica. Le Milizie di Gesù Cristo e della Vergine, pp. 85-155, da cui citiamo). 42 Meersseman, Le varie Milizie di Gesù Cristo cit., pp. 1256-1257: «Fidem catholicam defendant contra omnem sectam heretice pravitatis, hereticos omnes, scilicet Catharos, Pauperes de Lugduno, Arnaldistas, Speronistas et alios quocumque nomine censeantur, viriliter impugnando. Libertatem ecclesiasticam potissime defensabunt, impediendo fideliter in civitatibus suis ac locis, ne quid in eius preiudicium statuatur vel fiat, aut quomodolibet attentetur»; p. 1257: «Ecclesias quoque, monasteria, hospitalia et quecumque religiosa loca nec non personas ecclesiasticas cuiuscumque religionis vel ordinis, item viduas, pupillos et orphanos ac ceteras miserabiles personas, ut non opprimantur a suis civitatibus seu locis, et ut liberantur ab oppressione, bona fide intendet et pro predictis omnibus, scilicet pro fide ac libertate ecclesiastica defendendis et iustitia predictorum per locorum dominos seu rectores reddenda, si expedierit, se armis accingent fratres, viriliter et potenter pugnantes ad mandatum Ecclesie romane vel si loci diocesanus ac magister eorum simul hoc viderint expedire. Alias autem circa usum armorum sibi prudenter attendant et sic eis utantur in licitis, quod ad illicita non trahantur, sedis apostolice vel diocesani consilio, si aliquod dubium emerserit, requisito». 43 GAZZINI, Fratres e milites tra religione e politica cit., pp. 91 ss. 44 I frati di Martorano sono attestati a metà Duecento anche a Bologna. Salimbene de Adam, Cronica cit., II, p. 891; Statuta Communis Parmae digesta anno MCCLV, ed. A. RONCHINI, [d’ora in poi Statuti 1255], in Monumenta Historica ad provincias Parmensem et Placentinam pertinentia, I, Parmae 1856, p. 79; AFFÒ, Storia cit., III, pp. 160-161, 375; A. PEZZANA, Storia della città di Parma, 5 voll., Parma 1837-1859 (rist. anast. Bologna 1971), II, pp. 382-383; M. GAZZINI, Monasteri e altri enti religiosi del territorio, in Il governo del vescovo. Chiesa, città, territorio nel Medioevo parmense, cur. R. GRECI, Parma 2005, pp. 109-125; Prospetto storico dell’immagine di M. Vergine dipinta dall’evangelista S. Luca ...venerata sul Monte della Guardia di Bologna, Bologna 1826, f. 10; BERNINI, Come si preparò la rovina di Federico II cit., pp. 219-225.
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Purtroppo, nel caso di quest’ultima formazione religiosa, le informazioni a nostra disposizione, in merito sia alle origini, sia ai successivi sviluppi, sono così scarse da consentire una ricostruzione storica che procede spesso solo per supposizioni. È probabile ad esempio che i frati, che ebbero sede in quella chiesa di S. Maria Nuova già menzionata come luogo di attrazione di molti gruppi religiosi di nuova costituzione, si fossero affiancati inizialmente a una comunità femminile cistercense, originaria dal monastero di S. Siro delle Fontanelle nella pieve di S. Eulalia, dove si trovava il paese di Martorano45, e poi trasferita su terreni che un monastero benedettino di Parma presente patrimonialmente a Martorano, il cenobio femminile di S. Alessandro46, possedeva nell’Oltretorrente. Si è inoltre ipotizzato che i frati di Martorano si occupassero di viabilità, e nello specifico della manutenzione dei ponti, visto il loro collegamento con un cenobio rurale sito nei pressi del ponte sull’Enza lungo la via Emilia, e il successivo insediamento in un’area suburbana, il Capodiponte di Parma, al tempo interessata da poderosi lavori di risistemazione viaria, fluviale e urbanistica, tra i quali la ricostruzione del principale ponte cittadino, distrutto nel corso di una rovinosa piena di qualche decennio prima, tutte opere di riassetto urbano alle quali parteciparono altre comunità religiose e assistenziali del quartiere47. Nel presente contesto, tuttavia, spiace soprattutto essere poco informati sulla figura del fondatore, quel Bernardo Vizio che dieci anni più tardi, alla morte del vescovo di Parma Martino da Colorno, sarebbe stato indicato come suo successore dal capitolo della cattedrale. Posto inizialmente in cattedra dal legato Guglielmo da Montelongo, il Vizio non venne tuttavia consacrato da Innocenzo IV, dapprima con l’accusa di dilapidare i beni ecclesiastici e poi con il pretesto di irregolarità nell’elezione:
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AFFÒ, Storia cit., II, p. 184, e III, pp. 160-163. Le origini di ques’ordine e della sua denominazione, così come le sue vicende storiche, sono a tutt’oggi oscure. Per Affò il nome deriva dalla famiglia omonima, ma non chiarisce il legame di questa famiglia con l’ordine di frati. In passato si è sostenuto l’impegno dei frati nella cura della viabilità fluviale, vista la coincidenza toponomastica con i due centri di Martorano sul basso Taro e di Martorano sulla sinistra dell’Enza, presso la via Emilia: pur non escludendo questa ipotesi, la riserviamo a futuri approfondimenti. Notiamo comunque la coincidenza con insediamenti cistercensi: il monastero di Fontevivo si trova infatti nella medesima area vicino al Taro. 46 Il legame con i cistercensi si consolidò nel 1327 quando i frati di Martorano vennero annessi ai monaci cistercensi di Fontevivo. FURLOTTI, S. Maria Nuova del Martorano cit. 47 Dalla domus dei cavalieri di S. Giovanni all’ospedale di Rodolfo Tanzi: M. GAZZINI, La città, la strada, l’ospitalità: l’area di Capodiponte a Parma tra XII e XIV secolo, in Un’area di strada. L’Emilia occidentale nel Medioevo. Ricerche storiche e riflessioni metodologiche, cur. R. GRECI. Atti dei Convegni di Parma e Castell’Arquato, novembre 1997, Bologna 2000, pp. 307-331.
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in realtà il pontefice, che già aveva rivolto il medesimo attacco al precedente titolare Martino da Colorno, stava attuando nell’area emiliana una politica di fortissimo controllo dei seggi vescovili, imponendo ai vertici parenti e personale di curia48. Liberatosi di Bernardo Vizio, a Parma insediò infatti il nipote Alberto Sanvitale. Martino da Colorno e Bernardo Vizio, d’altronde, non potevano che risultare figure sgradite in curia: in parte perché vicini all’imperatore – il primo nel 1239 era stato incaricato da Federico II insieme ad altri vescovi di discolparlo presso Gregorio IX che però non li aveva nemmeno voluti ricevere49 – in parte perché disposti a prendere con il comune accordi giudicati lesivi dei diritti della Chiesa50; al tempo stesso i due prelati non avevano legami con le famiglie signorili locali51, che pro-
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48 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, pp. 253-254; Statuti 1255, I, p. 79; AFFÒ, Storia cit., III, pp. 375-378; Regesta pontificum romanorum inde ab a. post Christum natum MCXCVIII ad a. MCCCIV, ed. A. POTTHAST, 2 voll., Berlin 1874-1875, II, p. 944, n. 11080, 1243 luglio 7; p. 953, n. 11186, 1243 dicembre 1. Il papa Fieschi intervenne anche nelle vicine Piacenza, dove impose vescovo il bresciano Alberto Prandoni, suo cappellano, e Reggio, dove fece nominare un suo parente, Guglielmo da Fogliano. RONZANI, Vescovi, capitoli e strategie famigliari cit., pp. 118-122; Les registres d’Innocent IV, cur. E. BERGER, 4 voll., Paris 1884-1921 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athenes et de Rome, ser. II, 1), I, p. 47, n. 264. 49 Matthei Parisiensis Chronica majora, ed. H.R. LUARD, London 1876, III, p. 551 ss., 28 ottobre 1239. 50 Sulla scia già delle accuse rivolte al vescovo Grazia sulle quali ci soffermiamo in seguito. Qui invece va ricordato come l’elezione di Innocenzo IV e la rimozione di Bernardo Vizio, avvenute entrambi nel 1243, provocarono un piccolo terremoto all’interno del comune stesso di Parma che si affrettò a disporre nei propri statuti che chi avesse fatto da fideiussore per il vescovo eletto Bernardo Vizio, o chi gli avesse prestato denaro, avrebbe avuto diritto a venire indennizzato con i beni vescovili (Statuti 1255, p. 79). La disposizione statutaria venne cassata da Innocenzo IV perché in contraddizione con il giuramento del podestà di non stabilire nulla contro la libertas Parmensis ecclesie, riconosciuta dagli statuti del comune stesso (AFFÒ, Storia cit., III, pp. 376-377). Non è ben chiaro per quale operazione Bernardo avesse ottenuto finanziamenti, né in quale mese fosse stata inserita la disposizione statutaria: non possiamo pertanto sapere se fosse causa o conseguenza dell’annullamento della nomina di Bernardo a vescovo fatta da Innocenzo IV. BERNINI, Come si preparò la rovina di Federico II cit., p. 220. Ma questo è un capitolo a tutt’oggi poco chiaro della storia della chiesa parmense che contiamo di affrontare in maniera più approfondita in altra sede. 51 Salimbene parlando di Martino lo definisce «oriundus de genere non satis claro»; di formazione giuridica, fece parte del capitolo della cattedrale. Per le sue concessioni al comune di Parma venne giudicato molto severamente da Innocenzo IV. Morì nel 1243. Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p, 98; Regesta pontificum romanorum cit., p. 951, n. 11163, 1243 ottobre 15. I. AFFÒ, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, 5 voll., Parma 1789-1797 (rist. anast. Bologna 1969), cap. 13, pp. 77-80. Di Bernardo de Vicio, definito frater negli statuti (Statuti 1255, p. 79), il frate cronista non commenta il livello sociale: è l’unica fonte tuttavia a indicarne l’appartenenza alla famiglia Scotti («Bernardo de Vicio qui
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prio in quegli anni, grazie anche alle relazioni intessute proprio con la casata di Innocenzo IV52, andavano rafforzando quei meccanismi di potere basati sulle amicizie e sulle parentele – come i Sanvitale, destinati a reggere la cattedra vescovile di Parma per tutta la seconda metà del Duecento, ma anche i Rossi, i da Correggio, i Pallavicino – che le avrebbero rese arbitre della vita politica parmense per i secoli a venire53. Il da Colorno e il Vizio patirono dunque lo stesso mix di ostilità che pochi anni prima si era riversato, nonostante gli esordi entusiastici, contro Gerardo Boccabadati.
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Gerardo Boccabadati e gli statuti del comune di Parma
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L’arrivo di frate Gerardo a Parma nel 1233 si era infatti collocato in un contesto inizialmente assai favorevole. Egli era giunto in primavera, trovandosi la strada in qualche modo spianata dall’Alleluia di frate Cornetta, che era iniziata già da qualche tempo. Il Boccabadati trovò però subito modalità personali di affermazione. Non disdegnò infatti il ricorso a «forme innovative di oralità e gestualità che, per il tramite dell'oratoria civile, attingevano alla matrice ludica della teatralità folklorica, mutuando altresì dal prestigioso filone dell'itineranza ascetico-apostolica bassomedievale quel carisma che garantiva il frequente ricorso a spettacolari interventi taumaturgici»54. Sono parole scritte in riferimento all’altro grande protagonista della Magna Devocio, Giovanni da Vicenza, che tuttavia si possono benissimo applicare anche a Gerardo da Modena: frate Gerardo d’altronde era legato a Giovanni da un rapporto di antica consuetudine, sicuramente collegata alla figura di Antonio da Padova, il quale non a caso aveva anch’egli avviato nel 1231 un’intensa opera di predicazione sui temi della pace e della rigenerazione morale55. Gerardo condivise inoltre con
fuit de Scotis et fecit Ordinem fratrum de Martorano») la quale, pur registrando la partecipazione di alcuni suoi membri alla vita politica comunale, non giunse mai ai vertici della società parmigiana. Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 86; BERNINI, Come si preparò la rovina di Federico II cit., p. 223. 52 F. BERNINI, Innocenzo IV e il suo parentado, «Nuova rivista storica», 24 (1940), pp. 178-199. 53 A loro erano intitolate le cosiddette «squadre», ovvero i partiti locali: per un periodo successivo si veda M. GENTILE, Fazioni al governo. Politica e società a Parma nel Quattrocento, Roma 2009. 54 CANETTI, Giovanni da Vicenza cit. 55 È probabile che Gerardo e Giovanni avessero avuto modo di conoscersi frequentando l’ambiente patavino: Giovanni da Vicenza nel 1231 fu infatti priore del convento dome-
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Giovanni l’aderenza, per vissuto personale e familiare, alla realtà politica e sociale comunale, favorendo mediazioni tra le locali fazioni politiche, e tra le istituzioni ecclesiastiche e civili, che non sempre andarono a favore della supremazia ecclesiastica: non solo Giovanni infatti emise nel 1233 a Bologna un arbitrato tra vescovo e comune giudicato più favorevole al secondo che al primo, ma favorì nella Marca veronese-trevigiana pacificazioni che lasciarono perplesso lo stesso Gregorio IX, in quanto apparentemente più utili al partito imperiale rappresentato da Ezzelino da Romano che alla propria causa56. Giovanni da Vicenza e Gerardo da Modena erano inoltre soliti incontrarsi, insieme ad un altro domenicano, frate Giacomino da Parma, per pianificare le prediche che avrebbero tenuto nei centri emiliani che si erano spartiti in base a una sorta di sistema incrociato che ricordava in qualche modo quello delle reti podestarili: il parmense Giacomino predicava a Reggio, il modenese Gerardo a Parma, il vicentino Giovanni a Bologna. I tre frati programmavano uscite in contemporanea che avevano il sapore del miracoloso. Salimbene racconta infatti che un giorno frate Gerardo, nel bel mezzo di una predica che teneva sopra un palco montato nella piazza del comune di Parma, in modo da essere visto da tutti, si interruppe improvvisamente, stette zitto come in trance e, quando riprese a parlare rivelò agli attoniti ascoltatori le parole che in quell’esatto istante frate Giovanni pronunciava a Bologna e frate Giacomino a Reggio. Nunzi inviati nelle due città riportarono che non solo la rivelazione di Gerardo corrispondeva a verità, ma che anche gli altri due predicatori avevano avuto la medesima visione57. L’emozione suscitata dal miracolo indusse molti degli astanti ad abbandonare il secolo e ad entrare negli ordini men-
nicano di Padova, e alcuni pensano che Gerardo da Modena abbia lavorato a una riforma dei locali statuti municipali (sulla scorta di E. BESTA, Fonti, legislazione e scienza giuridica dalla caduta dell’Impero romano al secolo decimosesto, in Storia del diritto italiano, sotto la direzione di P. DEL GIUDICE, 1, 2, Milano 1925 [rist. anast. Frankfurt am Main-Firenze 1969], p. 553). Quanto al rapporto con il francescano portoghese, sappiamo che nel 1230 Gerardo da Modena partecipò insieme ad Antonio a una delegazione a Roma; nel 1231 Giovanni da Vicenza prese invece parte alla commissione incaricata di vagliare la santità di Antonio. A. RIGON, S. Antonio da «Pater Padue» a «Patronus Civitatis», in La religion civique à l’époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam). Atti del Convegno (Nanterre, 21-23 giugno 1993), cur. A. VAUCHEZ, Roma 1995, pp. 65-76. 56 Ad esempio, quando Giovanni da Vicenza sollecitò l’assoluzione dalla scomunica di Ezzelino da Romano, Gregorio IX chiese più di un chiarimento prima di accontentare il frate. Bullarium Ordinis praedicatorum, edd. A. BRÉMOND - TH. RIPOLL, I, Romae 1729, doc. XCI. 57 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 108.
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dicanti. Si fecero Francescani ad esempio Arpo da Beneceto, fratello del miles Giacomino gravitante intorno al nucleo anti-imperiale della città, e Bernardo Baffolo, di famiglia filo-imperiale già vassalla del capitolo della cattedrale e poi attiva nelle magistrature comunali: assai esperto nell’arte militare («miles ditissimus et famosus et multum nominatus in Parma») egli si convertì in maniera plateale facendosi frustare in giro per le strade della città legato alla coda di un cavallo; seguirono il Baffoli, sia nell’ingresso nei frati Minori sia nella pubblica penitenza, due fratelli usurai, Illuminato e Bernardo58. L’influenza di frate Gerardo Boccabadati a Parma non si fece tuttavia sentire solo nell’aumento delle vocazioni francescane. Vuoi per la fama già accumulata a seguito del successo raccolto nell’azione di pace presso la sua città natale, vuoi per le competenze tecniche e politiche che aveva assorbito in famiglia, Gerardo venne infatti individuato dai Parmigiani come l’elemento in grado non solo di predicare ma anche di realizzare la concordia cittadina, minata dalle lotte di fazione. Inizialmente, egli venne scelto dalla popolazione come arbitro e compositore di liti59. A luglio fu invece il comune a conferirgli la potestas faciendi paces e ad incaricarlo ufficialmente di emendare gli statuti60. Sebbene Salimbene scriva che in tale circostanza Gerardo fu eletto podestà61, negli atti ufficiali il francescano non è mai definito tale. Piuttosto assunse in via temporanea ed eccezionale un’autorità superiore a quella del podestà, che allora era il filo-imperiale Ansaldo de Mari di Genova62.
58 Per Salimbene queste conversioni avvennero nel 1233. Salimbene de Adam, Cronica cit., II, pp. 890, 893; Bafulo, Bernardo, in DBI, 5, Roma 1963, p. 167; sulle famiglie menzionate vedi GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., p. 109, 111; e GRECI, Origini cit., p. 136. 59 Statuti 1255, p. 303, capitolo «Quod omnia statuta et capitula locum habeant in pacibus iam factis et de cetero fiendis, et qualiter». 60 Sulla pace, quale istituto giuridico di composizione dei conflitti nelle città duecentesche, si vedano i lavori di M. VALLERANI, tra cui almeno: Il sistema giudiziario del Comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia 1991; VALLERANI, Pace e processo nel sistema giudiziario del comune di Perugia, «Quaderni storici», 101 (1999), pp. 315-353. 61 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 106. Gli statuti municipali specificano piuttosto che il podestà era tenuto a prestargli giuramento, dimostrando così l’esistenza di una condivisione di poteri. Statuti 1255, pp. 200, 306. 62 J.A. CANCELLIERI, De Mari, Ansaldo, in DBI, 38, Roma 1990, pp. 480-483. Appartenente a una famiglia dell’oligarchia genovese, Ansaldo ricoprì diverse cariche nell’ambito dei circuiti funzionariali ghibellini, per assumere dal 1241 quella di ammiraglio del Regno di Sicilia. Grazie al sostegno imperiale, e tramite un’ingente politica di acquisti, diede origine a una signoria sulla parte settentrionale della Corsica, destinata a rimanere nelle mani di suoi discendenti fino al secolo XVIII.
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Nel passaggio dalla primavera all’estate, l’autorità del frate mutò dunque molto dal punto di vista qualitativo: se nella prima fase i contendenti si rivolgevano a lui spontaneamente, nella seconda bastava che un soggetto richiedesse la conciliazione di un contrasto per far entrare in azione la macchina della giustizia guidata dallo stesso Gerardo e dai suoi vicarii. L’unico vincolo posto era di natura temporale: chi avesse deciso di avvalersi dell’arbitrato del frate aveva tempo solo fino al 29 settembre di quell’anno, in riferimento a discordie sorte a causa di crimini (maleficia) commessi prima del 29 luglio 1233. Il frate lavorò per circa due mesi, fra la metà di luglio e la fine di settembre, e produsse quarantatre leggi, relative a diverse materie (difesa della chiesa e dell’ortodossia, regolamentazione dei bandi, pacificazioni, amministrazione della giustizia, protezione dei deboli, disciplina della morale) che leggiamo ancora in una raccolta statutaria redatta nel 1255, sotto la signoria di Giberto della Gente. Un’analisi attenta dell’attività legislativa di Gerardo mostra che il frate dedicò ben poca parte della sua attività riformatrice alla lotta contro l’eresia e alla libertas Ecclesiae. Solo nove interventi su più di quaranta sono infatti dedicati alla normativa ecclesiastica: sei trattano della lotta all’eresia (riprendendo tra l’altro la precedente normativa federiciana), e tre delle libertà ecclesiastiche63. Non possiamo tuttavia pensare che Gerardo fosse poco attento al tema della difesa della libertas Ecclesiae, che era questione quanto mai attuale a Parma, come altrove: proprio nel gennaio del 1233, infatti, Gregorio IX aveva incaricato il domenicano Guala, vescovo di Brescia, e l’abate del monastero cistercense del Cerreto di aprire un processo contro il vescovo di Parma Grazia, accusato di avere svenduto i diritti della sua chiesa, a seguito di un accordo stipulato l’anno prima con il comune di Parma64. Tale compromesso era una delle tante tappe di un pluri-decennale conflitto tra i due massimi poteri cittadini65, covato a lungo ed esploso nel 1218
63 Statuti 1255, le norme antiereticali sono alle pp. 10-11 e 271-272, quelle sui diritti ecclesiastici alle pp. 5, 198, 200. 64 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 97; AFFÒ, Memorie cit., I, pp. 82-84; AFFÒ, Storia cit., III, Appendice, docc. LIV, LVI. A. PADOVANI, Grazia, in DBI, 58, Roma 2002, pp. 780-783. 65 Proprio Parma è stata considerata il contesto in cui il conflitto tra comune e vescovo si dimostrò più intenso e duraturo: G. SALVEMINI, Le lotte fra Stato e Chiesa nei comuni italiani durante il secolo XIII, in Studi storici, Firenze 1901, pp. 39-90 (poi in SALVEMINI, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze e altri scritti, cur. E. SESTAN, Milano 1972, pp. 298-330: 323 ss.). Per le premesse vedi O. GUYOTJEANNIN, Les pouvoirs publics de l’éveque de Parme au miroir des diplômes royaux et impériaux (fin IXe-début XIe siècle), in Liber lar-
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con la presentazione al papa da parte del vescovo Obizzo Fieschi di un libello in cui il presule rivendicava le prerogative pubbliche che egli, insignito fin dal 1036 del titolo di conte, pretendeva ancora di esercitare e che gli erano invece state usurpate dal comune66. Non sappiamo se il processo contro Grazia abbia avuto luogo, ma forse non risultò necessario: nello stesso anno infatti frate Gerardo riuscì a ribaltare la situazione. Le norme statutarie che egli fece approvare riportarono i rapporti tra comune e chiesa indietro di almeno vent’anni, e questo a vantaggio della seconda67. Non si esclude tra l’altro che il frate, durante la sua opera di revisione, non avesse comunque provveduto ad abrogare qualche statuto contrario ai diritti ecclesiastici. Notiamo ad esempio la coincidenza con la scomparsa, improvvisa e definitiva dal 1232 in poi, dell’istituto dell’ingrossatio, che consisteva nella rettifica dei confini di un fondo, mediante l’esproprio dei terreni contigui al fondo stesso (comprensivi nel caso di Parma anche di immobili e vigne) decretato e attuato da un ufficiale comunale, l’ingrossator et extimator, su richiesta di un privato. In cambio della razionalizzazione forzosa, il richiedente offriva un altro terreno, debitamente stimato, ed eventualmente anche una compensazione in denaro. Questo istituto nella città emiliana, diversamente che altrove, riguardò anche le persone e gli enti ecclesiastici, che potevano subirla, ma anche servirsene a loro vantaggio. L’ingrossazione, dunque, non necessariamente comportava un sopruso, tanto meno perpetrato solo ai danni della Chiesa, ma poteva comunque
gitorius. Études d’histoire médiévale offerts à Pierre Toubert par ses élèves, cur. D. BARTHÉLEMY - J.M. MARTIN, Genève 2003, pp. 15-34. 66 Obizzo ottenne sia una sentenza favorevole dal papa, sia l’appoggio dell’imperatore Federico II. Nel 1221 il comune accettava quindi un compromesso in base al quale eliminava gli statuti contrari alla Chiesa e alla sua libertà, riconoscendo al vescovo il diritto di investitura di podestà e consoli, e altri diritti in materia di giustizia e nella nomina dei notai; il vescovo per contro riconosceva l’autorità pubblica del comune nelle località del territorio parmense dove fino a poco tempo prima avevano agito ufficiali di nomina vescovile. Nonostante il fatto che il compromesso venisse trascritto negli statuti cittadini nella rubrica dal titolo Exemplum instrumenti concordie et compositionis domini episcopi et communis Parmensis (Statuti 1255), il comune ripetutamente veniva meno a questi accordi, costringendo nel 1232 il vescovo Grazia a cercare una nuova soluzione: questa però fu giudicata dal papato inaccettabile più che altro perché prevedeva la nomina di giudici laici che esercitassero la giustizia anche sugli ecclesiastici, con l’assistenza del podestà comunale. Di qui l’apertura di un’indagine contro Grazia. O. GUYOTJEANNIN, Conflits de jurisdiction et exercice de la justice à Parme et dans son territoire d’après une enquête de 1218, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes», 97 (1985), pp. 183-300; G. ALBINI, Vescovo, comune. Il governo della città tra XI e XIII secolo, in Il governo del vescovo cit., pp. 67-85; GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., pp. 45 ss. 67 VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione cit., p. 139.
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suscitare tensioni fra proprietari confinanti, laici come ecclesiastici, visto che si ricorreva all’autorità del comune che operava anche in caso di contumacia: si può pertanto supporre (riprendendo un’ipotesi formulata da Lattes68) che potesse rientrare fra le norme cassate da Gerardo da Modena, rientrando sia sotto la materia della libertas Ecclesiae sia sotto quella delle paci, anche se successivamente non rimase traccia di questa abrogazione. Gerardo stesso d’altronde, nell’affidare al podestà il compito di individuare le leggi contrarie alle libertà ecclesiastiche presenti all’interno degli statuti di Parma e di provvedere a cassarle, dichiarava di non avere il tempo di effettuare indagini accurate in proposito69. Si concentrò poco anche sulle riforme morali: le norme a lui ascrivibili in materia di costumi e pratiche comportamentali (adulteri, fornicazione, blasfemia, divinazione, preparazione di veleni) sono infatti solo cinque70. Se dunque ventinove dei quarantatre nuovi capitoli statutari introdotti da Gerardo sono relativi alla pace e alla giustizia71, è evidente che nella pace e nella giustizia vadano rintracciate sia l’ispirazione sia le finalità del frate.
68 A. LATTES, Le ingrossazioni nei documenti parmensi, «Archivio storico per le Province Parmensi», n. ser., 14 (1914), pp. 207-233: 222. Ricordo tuttavia che dopo Lattes si è preferito individuare le cause della scomparsa dell’ingrossazione in parte nella reazione dei proprietari, riluttanti a cedere agli espropri, in parte nella sua perdita di utilità, perché col tempo a Parma perse il carattere di misura coercitiva per assumere quello di una normale permuta. E. NASALLI ROCCA, Note sulle “ingrossazioni” nell’Emilia occidentale, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 26-27 (1953-54), pp. 163-174: 168; GUYOTJEANNIN, Conflicts de jurisdiction cit., pp. 267-282; GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., pp. 22-23. 69 Statuti 1255, p. 198. «De statutis contra libertatis Ecclesiae. Capitulum Fratris Gerardi quod Potestas Parmae teneatur per se vel per iudices suos infra III. menses, postquam habuerit Statuta in suis viribus et capitula Statutorum, teneatur expressim ex debito sacramenti inquirere diligenter et perscrutari totum volumen Statutorum, et singula capitula invenire, et si invenerit aliquod Statutum in volumine, seu voluminibus nominatis, quod sit contra libertatem ecclesiae et ipsius debitam rationem, illud capitulum et Statutum <debeat cancellare> … Fratris Gerardi in sua propria persona inquirendis et persecutandis ipsis Statutis non potuit tam subtili indagatione adesse, ex tunc ea omnia generaliter, si qua sunt vel inventa fuerint ut superius continetur, cassavit et anihilavit, et nullius momenti pronunciavit, sicut superius statuit cancellanda: et de hoc non possit peti parabola, neque dari, quin fiat infra terminum supradictum». L’editore Ronchini, notando che il manoscritto difetta di una linea e che sembra mancare un nesso logico, suggerisce di integrare con «debeat cancellare» o con parole di pari significato. 70 Statuti 1255, pp. 42, 43, 290, 320, 319. 71 Si contano: quindici pacificazioni e patti di pace, cinque controlli sui bandi, cinque provvedimenti a protezione di vedove, minori, orfani, due capitoli sull’amministrazione della giustizia, e due sugli effetti legali della riforma. Statuti 1255, pp. 3, 5, 27, 199, 200, 216, 217, 221, 289, 292, 301, 302, 305, 306, 307, 312, 313, 314. THOMPSON, Predicatori e politica cit., p. 177.
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I suoi statuti di pace riguardavano la composizione dei conflitti precedenti, cioè i maleficia commessi prima del suo arrivo, e la repressione di ogni futura violazione. Egli intese quindi il suo compito a 360 gradi: ripristinare la concordia, superando il passato, e sanzionare ogni nuova violenza (e infatti stabilì che i suoi statuti avessero un valore perpetuo). Centrale fu l’azione a favore degli accordi di pace e contro i bandi, perché il sistema processuale parmense prevedeva non solo che il bando venisse comminato anche per reati non violenti (ovvero non solo per quelli di natura criminale, ma anche per i debiti non onorati), ma assegnava pure al privato risultato vincitore in un processo la facoltà di potersi rivalere direttamente sull’avversario il quale, dopo la sentenza del tribunale a suo sfavore, risultava del tutto inerme e privo di tutele da parte del comune72. Erano concezioni e pratiche della giustizia che non favorivano certo la risoluzione dei conflitti, anzi rischiavano di acuirli. Di qui l’attenzione rivolta all’istituto del bando. Gerardo regolò il ritorno degli esiliati nella tempistica – da fine luglio a fine settembre –, nelle procedure – domande da fare per essere riammessi –, nelle eccezioni – non potevano goderne assassini, falsari e chi appunto rompeva la pace –, nelle garanzie – che la parte intrinseca doveva assicurare –, nelle restituzioni – dello status di cittadino e dei beni personali –, nei costi – una tassa di 5 soldi –, nella sua unicità ed irrevocabilità – chi non avesse approfittato dell’occasione offerta o chi, peggio, avesse poi violato gli accordi, sarebbe stato esiliato in perpetuo. Erano condizioni tutto sommato vantaggiose che contrastavano con la durezza della legislazione in vigore73 e con l’eccessiva disinvoltura con cui si procedeva all’uso della pena dell’esilio, i cui effetti erano drammatici per lo svolgimento della vita urbana non solo sul piano sociale e politico, ma anche economico. La soppressione dei bandi era inoltre funzionale anche al controllo della città sul suo contado: far rientrare gli estrinseci permetteva infatti di eliminare potenziali e pericolose enclave di poteri nemici al comune che li aveva esiliati. Eppure questa conflittualità non era del tutto inutile e priva di vantaggi, almeno per alcuni, in quanto risultava funzionale al mantenimento di certi giochi di potere, soprattutto quelli dei capi delle famiglie di maggiore rilievo, che intorno alle vendette e alle inimicizie costruivano il proprio predominio. La pace, di conseguenza, risultava particolarmene apprezzabile e desiderata da elementi in qualche misura sottomessi ai grandi lignag-
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GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., p. 81. Statuti 1255, pp. 308-309.
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gi: Gerardo da Modena, infatti, nel riformare gli statuti di Parma e nel preoccuparsi di trovare soluzione ai conflitti già in essere – come nel caso dei fuorusciti – e a quelli in divenire cercò sostegno tra i giovani, i figli non emancipati e i servi, oltre che tra i banditi74, come a togliere potere ai patres familias, ai capi delle consorterie e alle clientele. E questo in deroga anche alla normativa locale e al diritto civile75. Coadiutori nell’opera di pacificazione di Gerardo furono in un primo momento i funzionari del comune e lo stesso podestà. Gerardo pensò poi ad un corpo di tutori di queste norme che individuò tra i frati della Penitenza che gli stessi statuti cittadini ci dicono afferire all’ordine francescano76. Mentre il domenicano Bartolomeo da Breganze, in tempi vicini, pensava a una milizia armata di fedeli di Gesù Cristo per coinvolgere i laici religiosamente orientati di Parma, il francescano Gerardo da Modena immaginò invece un gruppo di “obiettori di coscienza” ante litteram che operassero nelle istituzioni a salvaguardia delle leggi, offrendo il loro contributo gratuito nella gestione degli affari più delicati del comune, ottenendo in cam-
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Statuti 1255, pp. 301, 306, 312. Statuti 1255, p. 301: «Et haec locum habeant, non obstantibus Statutis factis et faciendis quae prohiberent minores et filios familias et servos se obligare non posse, nec obstantibus legibus et legum auxiliis quae contradicerent vel obstarent hujus sentenciae constituti». Ibid., p. 303: «Item statuit et firmavit quod omnes promissiones et stipulationes, securitates et obligationes factae a bannitis in pacibus et receptae a Potestate Parmae, praeterea dationes et receptiones fidejussorum et juratorum, et constitutiones procuratorum et tutorum et curatorum firmae et stabiles et inviolabiles ac non retractandae debeant permanere, et attendi et servari tam pro eis quam contra eos; non obstantibus legibus et Statutis quae huic Statuto contradicerent vel obstarent, et non obstante quod forent capite minuti capitis diminutione maxima, media vel minori, vel quod essent deportati vel relegati, vel aliquo alio onere aggravati, propter quod jura civilia amisissent vel amittere deberent, vel propter quod promissiones, stipulationes et obligationes et securitates deberent eis inutiles reputari; sed adeo valeant et teneant et serventur ac si banniti non essent et sicut forent cives a bannis libere absoluti». 76 Statuti 1255, p. 86: « […] fratribus tertii ordinis Sancti Francisci, qui appellantur fratres de poenitentia». In un secondo tempo, a Parma sarebbero stati accomunati ai Penitenti non solo i Francescani ma anche gli Umiliati (AFFÒ, Storia cit., III, p. 78; M. FURLOTTI, Gli Umiliati a Parma, «Archivio Storico per le Province Parmensi», ser. IV, 44 (1992), pp. 249-260) e i fratres dell’ordo de Caritate sive Consortii Spiritus Sancti, attestato in città però solo dal 1258: M. GAZZINI, Il consortium Spiritus Sancti in Emilia fra Due e Trecento, in Il buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, «Quaderni di storia religiosa», 5 (1998), pp. 159-194 (poi ripreso e ampliato in GAZZINI, Confraternite e società cittadina cit., cap. IV Uomini e donne, laici e religiosi. Il Consortium Spiritus Sancti del beato Facio, pp. 157-196). Sui penitenti francescani cfr. Il movimento francescano della penitenza nella società medievale, cur. MARIANO D’ALATRI. Atti del Convegno (Perugia, 2527 settembre 1979), Roma 1980.
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bio l’esenzione dal servizio militare (un privilegio che però sarebbe stato abolito sedici anni più tardi). Per facilitare i compiti dei frati della Penitenza, Gerardo impose al podestà di difenderne i diritti77. Il discorso di Bartolomeo da Breganze, che tanto piacque alla mentalità da crociata permanente di un pontefice come Gregorio IX, parlava all’aristocrazia dei milites. Ma nel 1233 l’aristocrazia parmense era ancora in buona parte ghibellina, e il progetto infatti non decollò. Il discorso di Gerardo si rivolgeva invece ai populares, all’epoca desiderosi di trovare spazi riconosciuti a livello istituzionale nel consesso dei poteri civici78: e infatti proprio in un contesto di Popolo sarebbe stato ripreso, come vedremo, qualche anno dopo. Se così intesa, l’operazione legislativa di Gerardo risulta dettata senz’altro da impulsi religiosi, perché si collegava alle tensioni originarie del fondatore Francesco79 di identificazione tra minores e pauperes – e non dimentichiamo che il pauper nel medioevo si contrapponeva spesso al potens80 – con l’aggiunta di quei pueri che già erano stati protagonisti
77 Statuti 1255, p. 200: «Qualiter privilegia Fratrum poenitenciae sint observanda. Item statuit Frater Gerardus quod Potestas et Consules Communis Parmae, qui pro tempore fuerint, teneantur servare privilegia Fratrum de poenitencia, quae sunt eis ab Ecclesia attributa, et non gravare ipsos Fratres de poenitencia, nec aliquem qui modo sit vel in futurum fuerit de Ordine suo, contra privilegiorum suorum tenorem. De eodem. Statuerunt emendatores Statuti quod Fratres poenitenciae, et omnes alii Fratres commorantes in domibus eorum cum familiis eorum teneantur servire Communi Parmae cum armis et equis secundum quod serviunt alii homines civitatis Parmae. Et haec adiectio facta fuit in M.CC.XLVIIII. Indictione septima». 78 È stato infatti osservato, per lo meno in riferimento a centri urbani emiliani e toscani, come nel XIII secolo i Penitenti fossero reclutati prevalentemente all’interno del ceto medio, o meglio fra gli strati più elevati di questo, e spesso tra gli abitanti di recente inurbamento, non integrati in consorterie di tipo “clanico”, che trovavano in queste associazioni una risposta, oltre al desiderio di perfezionamento religioso, all’esigenza di inserirsi quanto prima nella società cittadina, grazie alla creazione di nuovi legami di solidarietà e all’inserimento nelle strutture del mondo comunale, rivestendo cariche utili per la collettività, come quelle relative alla mediazione delle parti, all’assistenza, all’onesta gestione delle finanze pubbliche, senza comportare un costo per nessuno. A. VAUCHEZ, Penitenti laici e terziari in Italia nel XIII e XIV secolo, in VAUCHEZ, Ordini Mendicanti e società italiana cit., pp. 206-220: 219-220; ma sull’ordine della Penitenza è d’obbligo il rimando a G.G. MEERSSEMAN, Dossier de l’ordre de la Pénitence au 13e siècle, Fribourg (Ch) 19822. 79 Sui riflessi politici della predicazione di pace di Francesco, ad esempio nella Epistula ad populorum rectores, si veda il contributo di G.G. Merlo in questo stesso volume. 80 K. BOSL, Potens und Pauper. Begriffsgeschichtliche Studien zur gesellschaftlichen Differenzierung im frühen Mittelalter und zum «Pauperismus» des Hochmittelalters, in BOSL, Frühformen der Gesellschaft im mittelalterlichen Europa, München 1964, pp. 106134 (trad. it. «Potens» e «pauper». Studi di storia dei concetti, a proposito della differenzia-
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dell’Alleluia di frate Benedetto. I giovani d’altronde, così come i sottoposti, erano i più disposti a credere a chi parlasse di rinnovamente religioso e di rinascita81. Questa operazione andava tuttavia a toccare e incrinare consolidate posizioni di dominio familiare e clientelare e diede fastidio a molti. E dunque fallì nel giro di brevissimo tempo. Gerardo fu chiamato infatti a rispondere del suo operato davanti al Consiglio cittadino, un’assemblea più ristretta della Concio, il parlamento davanti al quale il frate aveva inizialmente esposto le sue novità82. In seguito venne anche accusato di parzialità da Bernardo di Rolando Rossi. Questi apparteneva al ramo principale di un casato che da non molto tempo aveva assunto un ruolo di spicco a Parma, ma che era destinato ad un’ascesa vertiginosa: e questo grazie dapprima alla fedeltà imperiale e poi al sostegno papale, garantito dall’imparentamento con i Fieschi (proprio grazie al matrimonio di Bernardo con Maddalena, una sorella di Sinibaldo Fieschi, il futuro Innocenzo IV)83. Nel 1233 Bernardo era ancora «parzialissimo» dell’Impero, per usare un’efficace espressione di Ferdinando Bernini84, e veniva ricordato come
zione sociale nel primo Medio Evo e del «pauperismo» nell’alto Medio Evo, in La concezione della povertà nel Medioevo, cur. O. CAPITANI, Bologna 1974, 19813, pp. 95-151). Il pauperismo è stato un problema e un tema storiografico molto dibattuto, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta del XX secolo; per le fondamentali (anche perché procedenti da diverse ottiche di indagine) acquisizioni e interpretazioni relative alla questione frutto di quel fervido periodo si vedano anche Études sur l’histoire de la pauvreté. Moyen Âge - XVIe siècle, cur. M. MOLLAT, 2 voll., Paris 1974; B. GEREMEK, Il pauperismo nell’età pre-industriale, in Storia d’Italia Einaudi, V, I documenti, Torino 1974, pp. 667-697; B. PULLAN, Poveri, mendicanti e vagabondi (secoli XIV-XVII), in Storia d’Italia Einaudi, Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978, pp. 981-1047. Per riflessioni più recenti si vedano infine G. PINTO, Il lavoro, la povertà, l’assistenza. Ricerche sulla società medievale, Roma 2008 e G. ALBINI, Poveri e povertà nel Medioevo, Roma 2016. 81 L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo. Atti del convegno (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi 1962. 82 Statuti 1255, p. 314, ibid., p. 312. 83 R. GRECI, Bernardo Orlando Rossi, in Federiciana, Roma 2005. Sulla famiglia dei Rossi, protagonisti della storia di Parma fin dal pieno medioevo (già vassalli dei Canossa, si inurbarono a Parma nel XII secolo), assurti ai vertici della politica locale grazie inizialmente al loro filo-imperialismo, e poi al passaggio sul fronte opposto, e capaci di rimanere saldi nel controllo dei gangli di potere in città e nel contado fino a tutto il Quattrocento, imprescindibile è ancora il riferimento a E. NASALLI ROCCA, Le origini e la posizione politica dei Rossi di San Secondo dall’età del comune a quella delle signorie, «Archivio Storico per le Province Parmensi», 21 (1969), pp. 83-104. Più di recente si vedano anche A. GAMBERINI, Il contado di fronte alla città, in Storia di Parma III/I cit., pp. 169-211; M. GENTILE, Alla periferia di uno stato. Il Quattrocento, ibid., pp. 213-259. 84 BERNINI, Come si preparò la rovina di Federico II cit., p. 207.
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«compare» dell’imperatore, cioè come padrino di uno dei figli di Federico II, o viceversa. Anche Gerardo era «imperialis multum», la definizione, come già scritto, è di Salimbene, e quindi la frizione tra i due non poteva dipendere da una per quanto vaga e mal definibile comune vicinanza a Federico II, ma dal fatto che Gerardo – come scrive Salimbene – «non aveva trattato bene gli amici del cognato del papa»85. A dire la verità nel 1233 mancavano ancora dieci anni perché Sinibaldo Fieschi, cognato di Bernardo, salisse al soglio pontificio, anche se faceva già parte da tempo dell’entourage di prelati collaboratori di Gregorio IX86. Ma Salimbene scrive con l’ottica di un uomo che viveva in una fase, la seconda metà del Duecento, in cui le lotte di fazione si erano ormai aggregate in maniera più stabile rispetto al passato intorno ai due contenitori ideologici dell’Impero e del Papato, e quindi attribuisce al contrasto tra Bernardo e Gerardo una coloritura “guelfo-ghibellina”, anticipando a Bernardo il ruolo di alfiere del guelfismo parmense, che avrebbe assunto solo in seguito. In realtà pesarono ben altre motivazioni. Gerardo «non bene satisfecit quibusdam amicis suis». Diversi studi, anche in tempi recenti, hanno ben messo in luce quali fossero i contesti politici in cui il termine “amicizia” andava a collocarsi87. Gerardo aveva avuto l’ardire di tentare di scardinare elementi fondamentali della struttura sociale locale, come le parentele, le clientele, le fazioni. Mal gliene colse. «Multas enim calumnias patiuntur qui discordantes volunt ad pacem reducere», chiosa Salimbene sulla fine dell’esperienza parmigiana di Gerardo88.
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Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 106: «Verumtamen in quadam compositione cuiusdam pacis calumniam incurrit et perturbavit dominum Bernardum Rolandi Rubei, cognatum pape domini Innocentii quarti, pro eo quod non bene satisfecit quibusdam amicis suis. Erat enim Gerardus imperialis multum». 86 A. PARAVICINI BAGLIANI, Innocenzo IV, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 384-393. 87 Parole e realtà dell’amicizia medievale, Atti del Convegno (Ascoli Piceno, 2-4 dicembre 2010), Roma 2012: in particolare per il contesto parmense, anche se riferito ad un’età successiva, si veda il saggio di M. GENTILE, Amicizia e fazione. A proposito di un’endiade nel lessico politico lombardo del tardo medioevo, pp. 169-187. Intorno al valore pubblico e non solo privato delle relazioni di amicitia e inimicitia, da considerarsi fra le radici del confronto politico, si vedano anche le ricerche raccolte in Amicus (inimicus) hostis. Le radici concettuali della conflittualità privata e della conflittualità politica, cur. G. MIGLIO, Milano 1992, e quelle di A. Zorzi, tra le quali ricordo in riferimento al periodo qui trattato La cultura della vendetta nel conflitto politico in età comunale, in Le storie e la memoria. Studi in onore di Arnold Esch, cur. R. DELLE DONNE - A. ZORZI, Firenze 2002, pp. 135-170. 88 Salimbene de Adam, Cronica cit., I, p. 107.
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Il frate lasciò infatti presto la città. Mentre questa, nel giro di breve tempo, tornò alla conflittualità tanto utile ai potenti locali89, Gerardo proseguiva invece una brillante carriera di mediatore, anche fuori dai confini italici, coronata dalla pacificazione nel 1243 tra gli abitanti di Spalato e quelli di Traù, in Dalmazia, che erano in lotta da anni90. Anche qui, è impossibile non notare la coincidenza fra l’arrivo di Gerardo e la di poco precedente azione di un podestà, Gargano degli Arscindi di Ancona, che dal 1239 al 1242 governò felicemente la città dalmata di Spalato grazie a importanti riforme giudiziarie e all’educazione politica dei cittadini tramite l’attività concionatoria91.
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89 Per una panoramica sui principali momenti di esplosione della conflittualità a Parma e sugli strumenti di contenimento elaborati a livello pubblico si veda S. LEPRAI, La società urbana. Conflitti e strumenti di pacificazione, in Storia di Parma, III/2, Parma medievale. Economia, società, memoria, Parma 2011, pp. 313-347. 90 Thomae Archidiaconi Spalatensis Historia Salonitanorum atque Spalatinorum pontificum / Archdeacon Thomas of Split: History of the Bishops of Salona and Split, testo latino di O. PERIÆ, ed. D. KARBIÆ - M. MATIJEVIÆ-SOKOL - J. ROSS SWEENEY, Budapest 2006, p. 320: «His diebus supervenit quidam relligiosus vir de ordine minorum, nomine Gyrardus, origine Mutinensis, homo valde famosus et magne sanctitatis titulo reverendus, per quem Deus multa dicebatur iam miracula ostendisse. Hic videns inter has civitates crudele odium agitari valde condoluit. Et verens, ne forte instigatione dyabolica intestini et nefarii belli succrescens incendium, inter consanguineos et vicinos sanguinis effusionem induceret, cepit benigna partes allocutione demulcens eas ad concordiam multifarie invitare. Unde factum est, ut ob tanti viri reverentiam utraque civitas de facili ad concordiam declinaret. Resignantes itaque Tragurienses quicquid ex bonis Spalatensium iure privilegii vendicabant suos recepere captivos. Sed antequam relaxatio ad integrum fieret captivorum, ceperunt Spalatenses penitere crebris mussitationibus ad invicem sussurrantes, quod huiusmodi compositio in derogationem honoris et iuris urgeret civitatis. Quod cum audiret, Gyrardus multum moleste ferebat, nec tamen cessabat obsecrando et monendo eorum animos allicere ad amorem dicens, quod per quam partem pacis huius violabitur bonum, non erit super sed subter. Verum quia iuramenti relligione interveniente compositio extitit celebrata, omnes captivi relaxati sunt et discordie procella parum perquievit». 91 J.-C. MAIRE VIGUEUR, Il podestà che veniva dal mare: Gargano degli Arscindi e l’impianto del sistema podestarile a Spalato (1239), in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (secoli XII-XIV). Atti del XXIII Convegno Internazionale di Studi (Pistoia, 13-16 maggio 2011), Pistoia 2013, pp. 197-211. Dobbiamo a Tommaso da Spalato la precisa descrizione della nascita del governo podestarile nella città dalmata (Thomae Archidiaconi Spalatensis Historia cit., pp. 222-236): su questa testimonianza si è soffermato E. ARTIFONI, Gli uomini dell’assemblea. L’oratoria civile, i concionatori e i predicatori nella società comunale, in La predicazione dei Frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300. Atti del XXII Convegno internazionale della Società di studi francescani, Spoleto 1995, pp. 143-188; ARTIFONI, Egemonie culturali, parole nuove: i frati Minori in Boncompagno da Signa e Tommaso da Spalato, con una testimonianza di Guido Faba, in Frate Francesco e i Minori nello specchio dell’Europa. Atti del Convegno (Assisi 17-19 ottobre 2014), Spoleto 2015, pp. 55-80.
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Vorrei concludere formulando alcune brevi considerazioni sulla natura del potere di frate Gerardo a Parma. In Gerardo Boccabadati, come in altri protagonisti dell’Alleluia, in primo luogo il domenicano Giovanni da Vicenza, si è voluto vedere un protagonismo, di tipo carismatico, preludio dell’instaurazione di futuri poteri signorili92. Non so se Gerardo da Modena possa essere definito un proto-signore, anche se su questo punto tornerò in seguito. Sicuramente lo fu quello che viene indicato come suo successore a Parma nell’opera di pacificazione cittadina tramite il contenimento dei conflitti di parte, ovvero Giberto della Gente93. Questi, appartenente a una famiglia ascesa di grado tramite l’inserimento nel funzionariato imperiale, trovò a Parma una personale nicchia di potere dapprima nell’ambito dei sostenitori della pars Ecclesiae, che seguì quando nel 1245 si allontanarono dalla città, poi in un’astensione dalle logiche di parte. Egli cercò piuttosto sostegno nei populares, che a Parma prima del 1266 non avrebbero avuto univoco e dichiarato orientamento politico94. Nel 125395, infatti, Giberto proprio come podestà del Popolo e della Mercadanzia, instaurò un potere di natura personale, uno dei primi della regione emiliana, destinato a durare fino al 1259. Non è casuale se il suo primo atto pubblico, emesso sulla piazza della cattedrale di fronte ai rappresentanti dei Francescani e dei Domenicani e a tutto il popolo, sia stato un lodo arbitrale tra il consiglio comunale, gli Anziani del Consorzio di S. Maria (la societas di Popolo locale) da una parte, e gli estrinseci di Parma affiancati dagli abitanti di Borgo S. Donnino
92 Egli venne infatti accusato da Salimbene di eccessiva ambizione personale. Giovanni da Vicenza, il più carismatico dei predicatori popolari del 1233, è stato definito come «un capo di popolo» divenuto secondariamente mandatario pontificio. VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione cit., p. 131. 93 F. BERNINI, La prima signoria in Parma. Giberto da Gente, «Aurea Parma», 25 (1941), pp. 132-143 e 178-184; G. ANDENNA, Della Gente, Giberto, in DBI, 37, Roma 1989, pp. 9-12; R. GRECI, Salimbene e la politica parmense nel Duecento, in Salimbeniana cit., pp. 117-132; GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., pp. 185-197. 94 J. KOENIG, Il “popolo” nell’Italia del Nord nel XIII secolo, Bologna 1986 (London 1980), pp. 298-312; GRECI, Salimbene e la politica parmense nel Duecento cit., p. 122. 95 Non abbiamo notizie di Giberto dal 1247, quando arringò i combattenti della pars Ecclesiae alla vigilia della battaglia di Borghetto Taro (Salimbene de Adam, Cronica cit., I 271), al 1253 quando emise il lodo arbitrale tra gli intriseci di Parma e gli estrinseci rifugiatisi a Borgo S. Donnino. Statuti 1255, pp. 209-211.
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dall’altra. Giberto in quella circostanza non si presentò solo come mediatore e come garante del rientro dei sostenitori della pars Imperii, ma come regolatore dell’ordine pubblico e sociale di tutta la città: da quel momento infatti egli avrebbe affiancato il podestà del comune nella definizione delle cause criminali e avrebbe rappresentato per i cittadini il punto di riferimento nella regolazione delle contese tra privati, richiamando esplicitamente le paci di frate Gerardo come modello di composizione delle liti96. Il ritorno degli estrinseci, che come abbiamo visto rappresentava un po’ il cuore della legislazione pacificatrice di frate Gerardo, risultava inoltre particolarmente utile al della Gente perché gli consentiva di eliminare nuclei di potenziale resistenza e ostilità insediati nel contado e, quindi, di collegare questo più saldamente alla città. Il controllo del territorio da parte di Giberto della Gente fu infatti, come leggiamo nel Chronicon parmense, del tutto eccezionale97. Le paci, a quanto pare, potevano più degli interventi militari. L’invocazione alla concordia cittadina, che significava il superamento dei contrasti fra le parti, da attuarsi ad esempio tramite unioni matrimoniali, era stata oggetto anche delle lettere scritte da Innocenzo IV agli abitanti di Parma nel 1252 e nel 1254, rispettivamente dunque l’anno prima e quello dopo rispetto alla presa di potere di Giberto della Gente. Le missive facevano seguito ad altre lettere, inviate dal papa fin dal 1251 a diverse città dell’Italia centro-settentrionale, in cui le autorità civili locali venivano sollecitate a far cessare i dissidi interni e a far rientrare i fuorusciti98. Di queste politiche indirizzate al riavvicinamento delle parti in lotta, da attuarsi spesso tramite il rientro dei ghibellini in patria, si fece in verità protagonista non solo Innocenzo IV, ma un po’ tutto il papato della seconda metà del Duecento. Nei fatidici anni Sessanta, ad esempio, sia Urbano IV sia il suo successore Clemente IV conferirono il proprio appoggio alla Milizia dei frati gaudenti, che sorse a Bologna nel 1261 e che non a caso fu composta da milites di esperienza funzionariale afferenti a entrambi le parti della Chiesa e dell’Impero. Nel 1266 Clemente IV impose i due frati gaudenti Loderingo degli Andalò, della fazione bolognese dei Lambertazzi e quindi ascrivibile al giro ghibellino, e Catalano di Guido di donna Ostia, geremeo e dunque assimilabile ai guelfi, che già avevano riformato gli statuti di
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Statuti 1255 pp. 211-216; GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., p. 189. Chronicon parmense cit., p. 20: «totam civitatem et episcopatum in suo dominio et potestate [erant]». GRECI, Salimbene e la politica parmense nel Duecento cit., p. 125. 98 BERNINI, La prima signoria in Parma cit., p. 135; GRECI, Salimbene e la politica parmense nel Duecento cit., p. 123; GUARISCO, Il conflitto attraverso le norme cit., p. 188.
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Bologna imponendo, fra il resto, la riconciliazione tra famiglie in lotta, alla guida di Firenze auspicando proprio la riconciliazione fra intrinseci ed extrinseci99. Questo mentre il partito guelfo, coalizzato intorno alla figura di Carlo d’Angiò, promuoveva invece una demonizzazione dei ghibellini. Anche Gregorio X, succeduto nel 1271 a Clemente IV, sostenne una politica di riappacificazione tra i cives degli opposti schieramenti. Il papato quindi si faceva portatore di logiche inclusive, contrariamente al sistema delle esclusioni sostenuto dalla fazione angioina. Gli anni successivi sarebbero stati ricchi di tentativi di paci tra cives, come quella fiorentina del 1280, mediata dal cardinale Latino Malabranca. La stessa strategia di proporsi come tutore super partes, sarebbe poi stata seguita da Enrico VII, che si presentò alle città italiane come il rex compassionis che avrebbe posto fine ai dissidi. I nomi guelfo/ghibellino furono da lui volutamente ignorati. Ecco perché da metà Trecento circa, come leggiamo anche nel trattato di Bartolo da Sassoferrato De Guelfis et Gebellinis (1355), sostenere l’abolizione dei nomi delle parti fu giudicato atto a favore di regimi tirannici, mentre parlare dell’esistenza delle parti equivalse a difendere il municipalismo100. Non so, come scrivevo, se Gerardo Boccabadati possa essere considerato un proto-signore. Di sicuro, vediamo comunque in lui non solo l’ispiratore delle modalità di gestione del potere da parte del primo effettivo signore di Parma, ma anche un significativo anticipatore di politiche di superamento delle lotte di parte, o addirittura di cancellazione delle partes stesse, che si sarebbero affermate dopo la morte di Federico II e che sarebbero state giudicate frutto di uno spirito più autocratico-signorile che democratico-comunale101.
99 M. GAZZINI, Fratres e milites tra religione e politica. Le milizie di Gesù Cristo e della Vergine nel Duecento, «Archivio Storico Italiano», 162 (2004), pp. 3-78 (poi in GAZZINI, Confraternite e società cittadina cit., pp. 126ss.). 100 R.M. DESSÌ, I nomi dei guelfi e dei ghibellini da Carlo I d’Angiò a Petrarca, in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, cur. M. GENTILE, Roma 2005, pp. 3-78. 101 Sull’evoluzione trecentesca non solo della qualità, ma anche della percezione dei governi signorili, e sulla contemporanea individuazione di connotazioni tiranniche anche in altre forme di governo si vedano i saggi raccolti in Tiranni e tirannidi nel Trecento italiano, cur. A. ZORZI, Roma 2013.
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La pragmatica politica nei sermoni minoritici tra Due e Trecento. Due casi di studio*
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La recezione dell’insegnamento di Lecoy de la Marche1 ha portato gli studiosi di sermoni medievali a dividere in tre sezioni l’approccio al materiale omiletico prodotto alla fine del Medioevo. Uno di essi, forse quello che interessa maggiormente lo storico in senso più stretto, concerne il rapporto tra sermoni e società ed è stato ben riassunto nella fondamentale domanda: «Do sermons reflect society or shape it?»2. Spesso i sermoni italiani del XIII secolo, peraltro non nominati nell’articolo in questione, danno l’impressione di voler formare una mentalità comune piuttosto che riflettere la società in cui i loro autori si muovono. In questo senso essi diventano campo di indagine privilegiato per la pragmatica intesa come «disciplina che si occupa del potere azionale del linguaggio, che illustra perché ogni dire possa essere concepito come un fare, e in che termini debba essere concepito come un fare»3. I sermoni, infatti, sono espressioni, registrate o immaginate, di un atto possibilmente persuasivo indirizzato sempre a un pubblico, qualunque sia il mezzo con cui quest’ultimo attingerà alle forme e ai contenuti del discorso in tutti i suoi elementi costitutivi4. Ogni sermone conduce lo studioso a cercare di individuare i suoi caratteri interni, necessari perché il discorso abbia presa sul mondo5, che sono
* Il presente saggio fa parte del progetto Pós-Doutoramento «Sermons on Saint Anthony of Lisbon: between hagiography and orality (about 1232-1350)» finanziato dalla Fundaçao para Ciência e tecnologia (SFRM/BPD/70408/2010). 1 A. LECOY DE LA MARCHE, La chaire française au Moyen Âge, specialement au XIII siècle d’aprés les manuscrits contemporains, Paris 1868. 2 C. MUESSIG, Sermon, Preacher and Society in the Middle Ages, «Journal of Medieval History», 28 (2002), pp. 73-91: 86. 3 F. VENIER, Il potere del discorso: retorica e pragmatica linguistica, Roma 2008, p. 11. 4 F. PIAZZA, L’arte retorica: antenata o sorella della pragmatica?, «Esercizi filosofici», 6 (2011), pp. 116-132: 119. 5 Ibid., p. 121.
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poi gli stessi già individuati da Aristotele nella Retorica: chi parla, colui a cui si parla, ciò di cui si parla6. Il risultato di quest’indagine può essere più o meno soddisfacente, in misura direttamente proporzionale non solo al rapporto intercorrente tra oralità e scrittura, ma anche alla capacità dello scrivente-predicatore di rimodellare e universalizzare le proprie esperienze sulle piazze e sui pulpiti. Si tratta dunque di tentare di cogliere quale forza motivazionale abbiano davvero gli atti cognitivi etico-filosofici per la prassi comportamentale7 e se i predicatori agissero come vettori di dati in una comunità ideale che ne condividesse il messaggio anche nella sua manifestazione più tangibile: il linguaggio8. Al fine di tentare di tratteggiare una qualche risposta a questi quesiti il presente contributo si dividerà essenzialmente in tre parti, corrispondenti ai due casi di studio proposti. Nella prima si tratteggerà rapidamente la problematica relativa allo studio del rapporto tra materiale omiletico e società cittadina nel Duecento italiano. Nella seconda si passerà a delineare il primo caso di studio: la raccolta di sermones in circulum anni del frate minore Sovramonte da Varese. Nella terza si presenterà un secondo esempio: un anonimo predicatore minorita autore di un piccolo gruppo di sermoni conservati presso la biblioteca di Todi. 1. Predicazione - Sermoni
Qualora si guardi al numero di predicatori attestati dalle cronache, soprattutto da Salimbene, e al materiale omiletico di cui ci sia rimasta una qualche traccia scritta9, non si può non notare una divergenza notevole: laddove Salimbene enumera poco più di una ventina di predicatori attivi
6 ARISTOTELE, Rhet., 1358a- 37-b1, citato da PIAZZA, ibid., p. 123. 7 K.-O. APEL, Etica della comunicazione, Milano 1992, p. 37. 8 Cfr. J. MIETHKE, Propaganda politica nel tardo Medioevo, in La propaganda politica nel
Basso medioevo. Atti del XXXVIII Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 2001), Spoleto 2002, pp. 1-28: 24-25. 9 Cfr. Z. ZAFARANA, La predicazione francescana, in Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel ’200. Atti dell’VIII Congresso della Società internazionale di studi francescani (Assisi, 16-18 ottobre 1980), Perugia 1981, pp. 203-250, ora in ZAFARANA, Da Gregorio VII a Bernardino da Siena. Saggi di storia medievale, con scritti in ricordo di Zelina Zafarana, cur. O. CAPITANI - C. LEONARDI - E. MENESTÒ - R. RUSCONI, Todi 1987 (Quaderni del “Centro per il Collegamento degli Studi Medievali e Umanistici nell’Università di Perugia”, 17), pp. 141-186.
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nella penisola10, sono invece a noi giunti solamente pochi sermonari o materiale omiletico non organizzato11. Tale constatazione già mette in luce le difficoltà di poter tracciare una panoramica dell’effettiva produzione omiletica italiana e, soprattutto, dei contenuti della stessa. Le testimonianze a noi giunte parlano, per lo più, per la prima metà del XIII secolo, di azioni di pacificazione e antiereticali12. L’accento però non è mai posto sul contenuto del sermone, quanto sui suoi effetti o manifestazioni. Leggendo Salimbene, per esempio, si nota una forte propensione per la registrazione dei toni piuttosto che del numero dei partecipanti o degli éscamotages per attirare più persone o per permettere alle folle di udire al meglio la predica. Dal canto loro, gli autori di sermonari e di testi omiletici spesso non ritennero utile registrare proprio quelle contingenze che costituirono la base della loro esperienza oratoria. Nel contesto italiano duecentesco, infatti, essi si trovavano spesso a scrivere principalmente a scopo didattico: testi che, depurati da molti elementi di attualità, potessero essere utili strumenti di apprendimento per i confratelli più giovani o meno esperti, di modo che questi ultimi, imparando quasi a memoria lo scritto, potessero riproporlo dai pulpiti o dalle piazze in cui fossero chiamati a parlare. Così, dunque, sarebbe inutile cercare nei sermoni di Luca da Bitonto, attivo tra gli anni ’20 e ’40 del XIII secolo, qualche traccia di quel terribile sermone che egli
10 M. D’ALATRI, Predicazione e predicatori francescani nella Cronica di fra Salimbene, «Collectanea franciscana», 46 (1976), pp. 63-91, ora in D’ALATRI, La Cronaca di Salimbene. Personaggi e tematiche, Roma 1988 (Bibliotheca seraphico-capuccina, 35), pp. 159-189: 166-170; M. D’ALATRI, Pulpito e navata nella Cronaca di fra Salimbene, «Collectanea franciscana», 59 (1989), pp. 5-21, ora in J. PAUL - M. D’ALATRI, Salimbene da Parma. Testimone e cronista, Roma 1992 (Bibliotheca seraphico-capuccina, 41), pp. 181-199. 11 Per avere una visione d’insieme di quanto affermato, basti sfogliare i volumi di J.B. SCHNEYER, Die Lateinischen Sermones für die Zeit von 1150-1350, 9 voll., Münster 19691974 (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, 43). 12 Un esempio di questo strabismo è certamente offerto da Antonio di Padova. Senza però voler affrontare un caso comunque particolare data la canonizzazione del frate portoghese, basti pensare a Bonaventura da Iseo (†ca. 1282). Salimbene ne celebra la figura di uomo sapiente, sagacissimo, di santa e onesta vita, diletto da Ezzelino da Romano, attivo contro gli Apostolici e uomo di potere all’interno dell’Ordine. Salimbene riporta il fatto che egli scrisse un «magnum volumen sermonum […] de festivitatibus et de tempore», ma non è interessato ai suoi contenuti. La lettura dei testi, peraltro, rivela uno scrittore molto diverso dal personaggio ritratto nella Cronica: in essi non vi è traccia delle sue lotte né delle sue intemperanze, mentre emerge al contrario un paziente esegeta ed enciclopedista, «essendo essi una sorta di raccolta di auctoritates per le diverse domeniche e festività dell’anno», cfr. E. LOMBARDO, Bonaventura da Iseo OMin e le sue opere: status quaestionis, «Il Santo», 48 (2008), pp. 87-122, a cui si rimanda per la bibliografia.
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pronunciò nel 1242 al funerale di Enrico, figlio di Federico II13 oppure qualche accenno all’azione degli apostolici a Ferrara o di Ezzelino da Romano nella Marca Trevigiana nei sermoni di Bonaventura da Iseo14. Essi forniscono solo in controluce dati sulla realtà sociale a cui erano soliti rivolgersi, e lasciano quasi una sottilissima pista che permette allo storico di individuare alcune problematiche particolarmente care al predicatore. Ecco dunque che nei cosiddetti Sermones Narraverunt si possono cogliere qui e lì tracce della polemica antiebraica, del rapporto con la Chiesa greca e perfino, anche se questo punto andrebbe lungamente analizzato e dibattuto, della propaganda antifedericiana15. Purtroppo però, proprio questi sermoni, così come quelli del famoso Servasanto da Faenza, non lasciano trasparire nessuna problematica relativa alla vita cittadina16. Il loro silenzio su problematiche che sicuramente si erano trovati ad affrontare durante la
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13 Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. SCALIA, Turnhout 1998 (Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis, 125/1), p. 126. 14 Ibid., I, p. 404-406; M. D’ALATRI, Pulpito e navata nella Cronaca di fra Salimbene, in Salimbeniana. Atti del Convegno per il VII centenario di fra Salimbene (Parma 19871989), Bologna 1991, pp. 76-88, ora in J. PAUL - M. D’ALATRI, Salimbene da Parma cit., p. 189. Il sermone riportato da Salimbene è quasi certamente un testo scritto dallo stesso Salimbene e non una reportatio del testo pronunciato da frate Bonaventura da Iseo. 15 Mi permetto qui di rimandare alla mia tesi di dottorato: E. LOMBARDO, Ecclesia huius temporis. La Chiesa militante nelle prime raccolte di sermoni dei frati minori (1225 ca1260), aa. 2009, tutor prof. Antonio Rigon, Università degli Studi di Padova, pp. 124-142, e all’articolo da essa ricavato: LOMBARDO, La structure des premiers recueils de sermons franciscains. Quelques considerations pour une approche structurale aux premièrs recueils des frères mineurs, «Études franciscaines», n. ser., 5 (2012), pp. 85-110: 99-100. 16 Su Servasanto si veda A. MORE, Gracious Women Seeking Glory: Clare of Assisi and Elisabeth of Hungary in Franciscan Sermons, in Franciscans and Preaching. Every Miracle from the Beginning of the World Came about through Words, cur. T. JOHNSON, LeidenBoston 2012 (The Medieval Franciscans, 7), pp. 209-230; J.D. RASOLOFOARIMANANA, Luca da Bitonto e Servasanto da Faenza. Sermoni contenuti nel Cod. Vat. Lat. 6010, in Revirescunt chartae. Codices documenta textus. Miscellanea in honorem P. Caesaris Cenci OFM, cur. A. CACIOTTI - P. SELLA, Roma 2002, pp. 171-262; C. CASAGRANDE, Predicare la penitenza. La Summa de Poenitentia di Servasanto da Faenza, in Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni: Il ruolo dei frati mendicanti. Atti del XXIII Convegno Internazionale (Assisi, 1214 ottobre 1995), Spoleto 1996, pp. 59-102; D.L. D’AVRAY, Philosophy in Preaching: the case of a Franciscan based in thirteenth-century Florence, in Literature and Religion in the Later Middle Ages. Studies in Honor of Siegfried Wenzel, cur. R.G. NEUHAUSER - J.A. ALFORD, New York 1995, pp. 263-273; C. FRISON, Fra Servasanto da Faenza, predicatore francescano del XIII secolo, «Studi Romagnoli», 39 (1988), pp. 301-315; BALDUINUS AB AMSTERDAM, Servasancti de Faenza, O.Min., Sermones dominicales (cod. 1440, Troyes), «Collectanea Franciscana», 37 (1967), pp. 5-32; BALDUINUS AB AMSTERDAM, Servasanctus de Faventia O.Min., Sermones de B.M. Virgine et de Sanctis in codice anonymo Vat.Lat. 9884, «Laurentianum», 8 (1967), pp. 108-137.
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loro lunga attività omiletica testimonia forse la convinzione che esse fossero talmente contingenti che non vi fosse alcun bisogno di insegnare a dei giovani frati come affrontarle, offrendo invece visioni standardizzate della città e della vita sociale. Uscendo dal campo delle grandi raccolte di sermoni - modello, però, si possono trovare tracce più o meno forti di una predicazione fortemente implicata nella realtà cittadina e comunale italiana. È quanto succede, per esempio, nei casi di Sovramonte da Varese e dell’anonimo frate del ms. 76 di Todi.
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Frate Sovramonte da Varese fu un francescano attivo intorno alla prima metà del XIII secolo17. La sua gioventù si perde nella nebbia della storia, ma alcune indicazioni ci permettono ci collocarne l’azione principalmente a Milano, con un iniziale viaggio a Padova e un soggiorno a Varese. L’unica notizia sulla sua origine risale ad un documento datato 1255, in cui è chiamato «frater Supermons de Busti presbiter de fratribus minoribus», il che permette di collegarlo alla famiglia dei Busti di Varese e dunque agli ambiente degli humiliati di quella città. La prima menzione del nome di Sovramonte si ritrova in un testamento del 1229 rogato a Padova in cui compare come testimone. Merito di Antonio Rigon fu sia la scoperta del documento sia l’aver identificato in questo frate l’autore dei 57 sermoni conservati nella Biblioteca Universitaria di Pavia e, in copia, nella Bibliothèque Mazarine di Parigi18. A Padova Sovramonte potrebbe aver incontrato personalmente frate Antonio da Lisbona, del quale
17 E. LOMBARDO, In viaggio verso Gerusalemme. Un itinerario spirituale nei Sermones dominicales per circulum anni di Sovramonte da Varese, in Luoghi del desiderio: Gerusalemme medievale, Verona 2010 (Quaderni di Storia religiosa», 17), pp. 119-148; LOMBARDO, La production homilétique franciscaine cit., pp. 85-110; LOMBARDO, Da praça ao pergaminho: Os Sermones In circulum anni de Sovramonte de Varese, Omin, na Lombardia Franciscana, «Varia Historia», 31 (2015), pp. 53-80: 56-58. Per tutte le informazioni bibliografiche su quanto segue si rimanda a quanto segnalato in questi tre contributi. I manoscritti contenenti i sermoni di Sovramonte sono: Pavia, Biblioteca Universitaria, Aldini 173, ff. 1ra-36rb ( d’ora in poi A); Paris, Bibliothèque Mazarine, ms. 1043, ff.182va-265ra (d’ora in poi M). 18 A. RIGON, La fortuna dei «Sermones» nel Duecento, in RIGON, Dal Libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medioevale, Roma 2002 (I libri di Viella, 31), pp. 6988: 75.
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comunque conobbe l’opera. Secondo Paolo Sevesi, poi, egli sarebbe forse succeduto allo stesso Antonio alla guida della Provincia di Lombardia nel 123019, ma giustamente Lucioni rifiuta quest’ipotesi in mancanza di prove certe20. Lo stesso studioso lombardo poté aggiungere qualche dettaglio alla biografia del frate, identificandolo con un tal «frater Supermons de Busti presbiter de fratribus minoribus» presente al momento della stesura del testamento di Umilia de Donatio nel 1255 a Biumo Inferiore, borgo vicino a Varese21. Le tracce però più interessanti lasciate da Sovramonte riguardano il suo contrasto con il legato apostolico Gregorio da Montelongo e con l’arcivescovo di Milano Leone da Perego nel 1242. Egli infatti scrisse al pontefice o alla curia romana in qualità di «fratrum minorum in Lombardia minister» affinché difendessero la sua possibilità di esercitare la propria autorità sui confratelli senza subire pressioni da parte del legato, sostenuto dall’arcivescovo milanese22. Le tracce di Sovramonte si perdono nuovamente dopo il 1255. Secondo Alfredo Lucioni il frate si sarebbe ritirato nel convento di Biumo Inferiore, sua terra d’origine. Personalmente, ritengo poco probabile quest’ipotesi alla luce di numerose considerazioni da me svolte in altra sede sulla base dei sermoni legati al Varesino23. Riassumendo, un’analisi minuziosa delle fonti permette di datare la raccolta agli anni ’50 del XIII secolo, un’analisi formale li collega a una predicazione effettiva e non solo ad
19 P. SEVESI, I ministri provinciali dell’Alma Provincia dei Frati Minori di Milano dal 1217 al 1517, «Studi francescani», 3 (1915), pp. 136-156: 140-141; M.P. ALBERZONI, Francescanesimo a Milano nel ’200, Milano 1991 (Fonti e ricerche, 1), p. 34 nota 69; ALBERZONI, I Francescani milanesi e gli studi di teologia tra Due e Trecento, in Medioevo e latinità. In memoria di Ezio Franceschini, cur. A. AMBROSIONI - M. FERRARI - C. LEONARDI et alii, Milano 1993, pp. 3-34: 32. 20 A. LUCIONI, La società varesina del Duecento. Novità di vita religiosa e inedite sperimentazioni di autonomia amministrativa, in Sulle tracce degli Umiliati, cur. M.P. ALBERZONI - A. AMBROSINI - A. LUCIONI, Milano 1997 (Bibliotheca erudita. Studi e documenti di storia e filologia, 13), pp. 493-602: 551. 21 Ibid. 22 ALBERZONI, Francescanesimo a Milano cit., p. 34; ALBERZONI, Leone da Perego: strategie parentali e diffusione della presenza francescana nel Milanese, in Tutti gli uomini del cardinale. Atti del convegno internazionale del 10 maggio 2003 dedicato agli ecclesiastici che interagirono con Pietro Peregrosso, Pozzuolo Martesana (Milano)-Arzago d’Adda (Bergamo) 2004 pp. 39-59: 50-51; A. RIGON, Vescovi frati o frati vescovi?, in Dal pulpito alla cattedra. I vescovi degli ordini mendicanti nel ’200 e nel primo ’300. Atti del XVII Convegno internazionale (Assisi, 14-16 ottobre 1999), Spoleto 2000, pp. 3-26: 22; E. PÁSZTOR, I pontefici romani e i vescovi mendicanti, in Dal pulpito alla cattedra cit., pp. 27-42: 32; G. ANDENNA, I primi vescovi mendicanti, ibid., pp. 43-90: 73-77. 23 LUCIONI, La società cit., p. 551.
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un’elaborazione a tavolino, infine gli argomenti sembrano riportare l’area di influenza della sua opera, intendendo con questo termine il possibile pubblico – sia di lettori che di ascoltatori – in aree più vicine alla ricca e popolosa Milano piuttosto che nel piccolo borgo di Biumo24. Per quanto riguarda i contenuti della predicazione di Sovramonte, essi spaziano dalla denuncia di eresia a quella di avarizia-usura, passando per l’ammonizione penitenziale, la difesa della fede e l’incentivazione della predicazione. La sua azione tocca dunque diversi punti del vivere comune, sebbene egli, che pure conserva spesso nei sermoni tracce di oralità25, non utilizzi mai termini chiave della predicazione politica, ad esempio bonum commune, rectores e via dicendo, così come non sembra in grado di rivolgersi alle autorità cittadine, cosa che invece poteva fare, nella seconda metà del secolo, l’anonimo di Todi di cui si parlerà in seguito. Egli dunque dipinge, attraverso le sue parole, la città dei mercanti e dei popolani, quell’assemblea che costituiva il destinatario principale dell’azione pastorale mendicante, francescana in particolare: il pubblico a cui era finalizzata l’azione persuasiva, insomma. Nonostante l’impossibilità di indirizzarsi direttamente alle autorità, egli è comunque in grado di creare una sorta di allerta nei confronti della loro azione: le sue parole, cioè, pur tacendo nomi e fatti, si rifanno ad un sentire comune, a una realtà talmente nota da non aver bisogno di essere decodificata in tutti i suoi aspetti. È quanto succede, per esempio, nel sermone per la domenica dell’ottava di Pasqua, quando il predicatore accusa coloro che «ingrediuntur per spiritum phitonicum, per mammonam iniquitatis», «per gracias et secularem potestatem, ut filii magnatorum» e «per carnem et sanguinem» come corruttori della Chiesa, finti pastori, anzi mercenari del Vangelo26 o ancora quando ricorda, in un altro sermone, che è dovere di ogni medico elargire le proprie cure agli indigenti gratuitamen24 25
LOMBARDO, Da praça cit., p. 58. S. SERVENTI, La parole des prédicateurs: indices d’oralité dans les reportationes dominicaines (XIVe-XVe siècle), in Aspetti dell’oralità nella letteratura italiana medievale, cur. A. FASSÒ, Paris 2010 (Cahiers des recherches médiévales et humanistes, 20), pp. 281-299; cfr. C. DELCORNO, Professionisti della parola: predicatori, giullari, concionatori, in Tra storia e simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi dai Direttori, Redattori e dall’Editore di «Lettere italiane», Firenze 1994, pp. 1-21, ora in DELCORNO, Quasi quidam cantus. Studi sulla predicazione medievale, cur. G. BAFFETTI - G. FORNI - S. SERVENTI - O. VISANI, Firenze 2009, pp. 3-21: 21. 26 «Quicumque igitur non ingreditur per Christum, sed per spiritum phitonicum, per mamonam (sic!) iniquitatis, per potestatem, per carnem et sanguinem, mercenarii sunt et fures. Quidam enim sunt qui non ingrediunt per hostium, id est per Christum, sed per spiritum phitonicum. Phiton est demon garrulus in uentre hominum. Hec est lex secularis que
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te27. Qui come altrove, Sovramonte si rivela attento osservatore della vita cittadina e dei suoi mali e, in modo più o meno esplicito, detta ai suoi lettori-ascoltatori alcune soluzioni per migliorarla. Egli inoltre riassume nelle sue parole tutta una serie di posizioni contro l’accumulo delle ricchezze attraverso l’esercizio di determinate pratiche economiche non limitate alla dottrina della Chiesa sul prestito e l’interesse28, bensì dettate dal comune sentire e dunque più facilmente utilizzabili per creare una situazione di consenso. L’usura nasce qui dall’esacerbazione del peccato di avidità, tanto da sostituire quest’ultima nella lista dei vizi e dunque darle un ruolo negativo e perfino visivo nella percezione del pubblico. Se l’avidità può assumere talvolta un senso positivo in questi sermoni (talvolta è avaro anche chi ha un amore eccessivo per le cose celesti), l’usura riveste un ruolo negativo in quanto ha una ricaduta sociale disastrosa, al pari dell’eresia – altro tema caro al varesino29. Tra le cause di perturbamento dell’ordine sociale Sovramonte individua infatti: l’eresia, l’usura e la corruzione, intesa come mancanza di coraggio da parte delle autorità, soprattutto ecclesiastiche, nel denunciare e rimuovere coloro che danneggiano la vita comune30. Tutte queste tre categorie interrompono il rapporto tra città
garrit in ore legistarum. Propter quam tam in ecclesiis recipiuntur et ad dignitates promouentur […] Item quidam ingrediuntur per mammonam iniquitatis […] Item quidam ingrediuntur per gracias et secularem potestatem, ut filii magnatorum […] Item quidam ingrediuntur per carnem et sanguinem […] quia omnes tales prelati sunt mercenarii fures et latrones quoniam non ingrediuntur per hostium, id est propter amorem Christi, sed uenerunt aliunde, scilicet per supradicta, sed nota magni latrones aliunde quam per hostium permittunt alios latrones in domum qui, quicquid habere possunt, de domo capiunt et latronibus esset expectationibus porrigunt […]», A, ff. 15vb-16ra; M, ff. 22ra-b. 27 «Helemosina ab obsequio est pauperum et infirmorum pia visitatio Iacob. I g. (1, 27): religio munda et immaculata apud Dominum et patrem. Hec est visitare pupillos et viduas in tribulatione eorum. Ad hanc elemosinam tenentur medici, quod si infirmo pauperi non subveniunt si possunt, si moritur homicide iudicantur. Unde Simacus papa: “Non est grandis differentia utrum mortem inferas vel omitas”. Mortem enim languentibus probatur infigere cum hanc cum possit non excludit», A, f. 20rb. 28 J. LE GOFF, Au Moyen Âge: temps de l’Église et temps du marchand, «Annales: Économies, Sociétés, Civilisations», 15 (1960), pp. 417-433: 425-431; G. TODESCHINI, Ordini mendicanti e linguaggio etico-politico, in Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento. Atti del XXVI Convegno internazionale (Assisi, 15-17 ottobre 1998), Spoleto 1999, pp. 3-27. 29 LOMBARDO, Da praça cit., pp. 68-75. 30 A, f. 10ra-10vb, in cui Sovramonte discute le tentazioni diaboliche che Cristo subì nel deserto. Dominica Prima in Quadragesima : «Ductus est Iesus in desertum ut temptaretur a diabulo, Mc. IV.a (4, 1). In hac lectione euangelica pugna contra diabolum describitur et uictoria Christi. Vnde Christus, postquam baptiçatus fuit in Iordane, statim a spiritu sancto ductus fuit in deserto, scilicet in locum certaminis. Post ieiunium uero et ingressum deserti
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terrena e città celeste, ma soprattutto impediscono a ciascun cristiano di guadagnarsi la salvezza attraverso l’elemosina. Come ho detto, sotto la lente d’accusa di Sovramonte non rientra il prestito in quanto tale, menzionato e talvolta condannato, ma senza particolare enfasi, quanto l’accrescimento degli interessi («procrastinare usque ad mortem», riferisce), con una crudeltà tanto più subdola quanto nascosta sotto le sembianze di giovialità e falsa bontà31. L’attenzione si sposta poi dal singolo alla città, perturbata nel suo insieme dagli usurai in quanto creatori di nuovi poveri, soprattutto tra le vedove e gli orfani costretti a rivolgersi a loro dalla mancanza di altri proventi:
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sic et hii magni usurarii et raptores non insurgunt contra infideles quos deberent persequi, sed insidiantur domesticis: pauperibus, uiduis et orphanis quos deuorant sicut escam panis32
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a diabolo temptatus fuit de gula, de uanagloria et de auaritia... [EXPL.] Tertio ‘scutum orationis opponendum est contra superbiam et uanam gloriam et se fugat. Hoc autem patet Lc. XVII.c (18, 13) in humili oratione: publicanus quem stans a longe non audebat oculos leuare ad celum et descendit iustificatus in domum suam». 31 «Vulpes enim caret supraciliis sic et ille leprosus qui hanc lepram patitur supraciliis caret, et significat usurarium qui comparatur uulpi propter tria. Primo quia sicut uulpes caret supraciliis que reddunt faciem decorem et placentem, sic usurarius caret operibus misericordie et pietatis que sunt quasi quedam supercilia exteriora que faciunt homines omnibus et maxime pauperibus beneuolum et placentem. Quo patet in Thobia de quo dicitur Thob. I .f (1, 20): quod esurientes alebat nudisque vestimenta prebebat mortuisque ociosis sepulturam sollicitus exibebat. ‘Vnde ‘et Gabellus dicit Thob. (9, 9) minori: benedicat te Dominus quia filius est optimi uiri et iusti et timentis Deum et ‘elemosinas facientis. Secundo uulpes, cum a canibus fugatur et lasatur, ‘ponit caudam in ore canis qui, cum credit eam se bene tenuisse (M tenere) per os canis trahit caudam et fugit, sic usurarius os, similiter et usurarius os habet fetidum (M om.), anime implet uerbis et promissionibus dicendo: “Cras cras restituam (M restituenda)”. Quod est quasi cauda, scilicet sic procrastinare usque ad mortem. Vel implet os predicatoris potibus et cibis et nichil attendit. De hoc quod promittit et sic euadit. Tertio uulpes (M add. id est usurarius) habet fetidum, id est intentionem predicatoris que dicitur os anime (M om. a id usque ad anime), quia lutum pecunie et stercoris (M stercus) usure semper sunt in eius ore (M inv.). Ps.(5, 11): sepulchrum patens est guttur eorum. Apc. XVI (M VII) .b (16, 13): uidi de ore draconis, id est usurarii propter dolositatem, et de ore bestie, id est usurarii propter crudelitatem, et de ore pseudo prophete, id est usurarii propter ypocrisim quam ostentat (M ostendunt) beneuolem (M beneuole) accomodando exire tres spiritus immundos in modum ranarum. Tres spiritus sunt falsitas quam usurarius habet (M inv.) in uerbis, et iactancia qua iactat se cum dicit quod accomodando magnam mercedem acquirit (M adquirit) et improperia que dicit cum usuram (M usura) exigit in modum ranarum. Dicit quia clamosi sunt et garuli (M garruli)». Dominica Tertia post Epiphaniam, A, f. 7rb; M, ff. 199vb-200vb. 32 «Tertio sicut uulnus licet sit magni corporis, non aues siluestres, sed galinetas domesticas uenatur, sic et hii magni usurarii et raptores non insurgunt contra infideles quos deberent persequi, sed insidiantur domesticis: pauperibus, uiduis et orphanis quos deuo-
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Quando lupi senescunt et non possunt nocere animalibus conuersantur circa uillam et effecti rapaces nocent hominibus domibus et pueris quos deuorant, sic usurarii et raptores quando non possunt nocere potentibus insurgunt contra pauperes et impotentes quos dilacerant et deuorant sicut escam panis. Vnde Ps. (13, 4): deuorant plebem meam sicut escham panis, et Mich. III b (3, 3): qui comedunt oratione populi mei et pellem eorum desuper excoriaverunt et ossa eorum confrigerunt (sic!)33.
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La rottura totale tra città e Dio, tra laici e Chiesa si ha anche nella gestione del tempo: il tempo della Chiesa viene scalzato dal tempo delle attività di lucro che nutrono l’usura. Sovramonte dunque condanna i creditori e tutti i commercianti che mantengono le proprie attività aperte nei giorni festivi, impedendo ai fedeli di partecipare alla predicazione, fulcro della via per la salvezza cristiana34. Ciò che è peggio, dice Sovramonte, è che non solo tali individui rifiutano la salvezza per sé, ma la negano anche alle proprie vittime. Quale la soluzione dunque? Un’azione congiunta di isolamento da parte dei fedeli e un intervento delle autorità perché vigilino affinché nessun’attività resti aperta per lo meno durante il tempo della predicazione. E poi: «penitentiam agite» attraverso l’offerta di elemosine, in moneta, di modo da riattivare un flusso caritativo che evidentemente si trova minacciato dai tre pericoli individuati dal predicatore35. Qui l’azione di richiamo
rant sicut escam panis. Sed uero post mortem uulnus uiliter in sterquilinium proicitur. Galina uero in mensa regis honorifice presentatur. Sic et magni raptores prius mortem in sterquilinium infermi proicientur, pauperes uero et boni mensa celestis regis ab angelis portabuntur. Hoc patet Lc. XVI f. (cfr. Lc. 16, 22-23) in Laçaro et diuite, quorum unus, scilicet Laçarus, fuit in celum sublimatus, alius uero, scilicet diues, fuit in inferno sepultus», A, f. 11rb; M, ff. 210va-vb. 33 A, f. 16ra. 34 A, f. 26rb. 35 «Secundum scutum elemosine est opponendum contra auariciam. Hoc scuto Zacheus se munit quando dicit Lc. XIX (19, 8): ecce dimidium bonorum meorum do pauperibus. In hiis uerbis sex notatur que bona elemosina requiruntur. Debet enim esse hylaris, larga de melioribus, de proprio, uelox et discreta. Cum dicit: ecce notatur hylaritas, cum dicit: dimidium notatur largitas, cum dicit: bonorum notatur quod de melioribus et non de peioribus debet fieri elemosina, cum dicit: meorum notatur quod debet esse de proprio et non de alieno, cum dicit: do pauperibus notatur quibus debet dari, scilicet non diuitibus et hystrionibus, sed pauperibus et egenis». A, f. 10ra-10vb; M, ff. 207rb-209rb; «Sic usurarii et raptores quando non possunt nocere potentibus insurgunt contra pauperes et impotentes quos dilacerant et deuorant sicut escam panis», ibid.; «Secundum murmur, scilicet auaricie, faciunt auari quando uident multa expensa uel largas elemosinas dari uel aliquid aliud large conuerti in cultum Dei. Iohannis XII.a (12, 5) dixit Iudas: “Quare hoc unguentum non uenditur trecentis denariis et datum est egenis?” Dixit autem hoc non quia de egenis pertinebat ad eum sed quia fur erat et loculos habens». Dominica III post Pentecosten, A, ff. 21vb- 22va.
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implicito di Sovramonte si fa particolarmente sottile: gli avari e gli usurai si fingono poveri e per la loro insoddisfazione perturbano la città con rivendicazioni ingiustificate; gridano, anzi latrano, nelle taverne, nelle piazze e nei tribunali36. Tra di essi i più pericolosi sono i membri del clero che, dopo aver molto sofferto la povertà, vengono promossi a una qualche dignità ecclesiastica e tentano di acquisire così più ricchezza possibile. Per questo spremono i propri subordinati e consumano i beni della Chiesa. Sono terra sterile, che assorbe una grande quantità di acqua37. Maliziosamente si potrebbe pensare qui ad un riferimento allo stesso Leone da Perego, accusato da Sovramonte di malversazione nei confronti dei poveri frati nel 1242, attraverso l’azione di Crexebenus, suo rappresentante38. E se il rimando viene automaticamente a noi lettori odierni, ancor
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36 «Secundo sicut lupi quando non habent quod uolunt ululant, sic isti infelices raptores quando uident aliquid quod uolunt et non possunt habere ululant, clamant et urlant. Canonica Iacobi in fine a (5, 1): agite nunc diuites, plorate ululantes in miseriis vestris que aduenient uobis. Isti lupi sepe ululant in tabernis et in plateis et in foris», A, f. 16ra. 37 «Secundi lupi, scilicet uoraces, qui subtilissimum habent uisum figurant clericos qui subtiliter et acute uident per intelligentiam scripturarum. Nam uoraces, id est lupi istius generis, quandoque magnam famem et sitim sanguinis patiuntur, sed capta preda multum deuorant, et multum de peccatorum sanguine bibunt, sic multi clerici dum sunt pauperes diu sufferunt paupertatem, diuites autem quandoque diu ieiunant et abstinent ut promoueantur, sed promoti ad aliquam dignitatem insanabilius subditos premunt et fortius bona ecclesie consumunt. Nam terra arida multam aquam absorbet», ibid. 38 «Sunt etiam sicut mulier delicata que non ueniret ad ecclesiam nisi tymbala pulsarentur a melioribus de ecclesia, uel sunt sicut illi qui non emerent frumentum nisi in sacco iacintino, nescientes quod Dominus modo pauper est et non habet in domo sua nisi uasa fictilia, id est predicatores et doctores debiles et infirmos, quibus portat ecclesiam suam, nec ideo uinum deterius est quia uas est fictile, non attendunt eciam huiusmodi quod per †carciones uilisinos† littere regie destinantur et ad aliquid preconandum non meliores ciuitatis se uiles persone eliguntur. Mt. XXIII.a (23, 2): super cathedram Moysi sederunt scribe et pharisei, quecumque dixerunt uobis seruate et facite, secundum opera eorum nolite facere». Dominica V in Quadragesima, A, ff. 12vb-13va; M, ff. 214va-216ra. «Isti sunt qui religiosi fiunt propter bona temporalia que uident in religione, et clerici qui fiunt propter prebendas et honores ecclesiasticos quod propter hoc credunt adipisci. Hii non Dominum, sed que Dei sunt secuntur. Seneca: “Mel musce secuntur, cadauera lupi, turba ista predam sequitur non hominem”» Dominica IV post Pentecosten, A, ff. 23ra -23rb. «Primo enim patet per hoc quod uallis est una seu in basso et non in alto loco sita, sic et humilis semper ymum locum et abiectum querit. Vnde Ps. (83, 11): elegi abiectus esse in domo Dei mei magis quam habitare in tabernaculis peccatorum. Per hoc quod dicit elegi notatur abiectio esse assumpta et uoluntaria quamuis posset fulgere honoribus mundi et huiusmodi sed hodie a multis religiosis domus Dei derelinquitur. Abiectio reprobatur tabernacula peccatorum libenter inhabitantur. Vnde Pru. XXX.f (30, 28): stellio nititur animabus et moratur inedibus regum. “Stellio” est quidem uermis, et significat religiosos qui debent se reputare uermes. Hii modo libenter frequentant diuitum curias et libenter cum eis demorantur ut qui non poterant promoueri in seculo, ibi promoueantur similes diabulo qui in paradiso uoluit exaltari». Dominica IV de adventu, A, ff. 3va-4ra.
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più esso doveva suonare familiare al pubblico di Sovramonte e spingerlo dunque a reagire in consonanza, almeno nelle intenzioni del predicatore, con le sue direttive. Prima di passare all’ultimo esempio, mi permetto qui di ricordare l’azione antiereticale di frate Sovramonte come un altro punto in cui il linguaggio ed i riferimenti possono aver plasmato l’azione pratica dell’uditorio. Egli infatti percepisce in più occasioni l’allarme di una larga diffusione delle dottrine catare all’interno della società lombarda39. In questo caso, a differenza di quanto vedremo in seguito, l’accusa di eresia si limita alle credenze religiose e non sfocia in attacchi a fazioni politiche. È la stessa fede che plasma l’unità sociale e il suo incrinarsi minaccia la coesione in quanto allontana dal modello della città celeste40. Per Sovramonte gli eretici sono ovunque. Per questo egli lancia una serie di allarmi che poi il suo pubblico dovrà cogliere per riconoscere le devianze, isolarle, sconfiggerle. Tralascio qui le questioni dottrinali, che pure il frate tratta in almeno tre occasioni, perché ci porterebbero fuori strada41. Soffermiamoci invece sulle ripercussioni sociali dell’eresia, pre-
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LOMBARDO, Da praça cit., pp. 70-71. «Tertii lupi, id est siluestres, sunt heretici, quoniam, sicut lupi siluestres concorditer ueniunt ad gregem ut oues rapiant et raptas inter se dilacerant et diuidunt, sic omnes heretici unanimiter sunt contra ecclesiam quod sic ab unitate fidei et ecclesie aliquem de fidelibus extrahant suis dogmatibus eius mentem quasi dilaceratam et divisam in diuersos herrores dispergunt. Iohannis X.b (10, 12): lupus rapit et dispergit oues. et Mt. VII.d (7, 15): attendite a falsis prophetis qui ueniunt ad uos in uestimentis ovium intrinsecus autem sunt lupi rapaces», A, f. 16ra. 41 Per esempio nella terza domenica d’Avvento, quando parla di Giovanni Battista, dichiara: «Hoc dicunt heretici: Iohannes dubitauit cum misit discipulos interrogare Ihesum: “Tu es qui uenturus est an alium expectamus?” et reuertentibus discipulis preoccupatus morte in dubitatione mortuus est et sic dampnatus est. Ad quod sic est respondendum, scilicet quod non sequitur: interrogauit ergo dubitauit, quia omnis interrogatio est dubitatio, quod patet ut Christus interrogatur dicens: cuius est numisma census. Ergo dubitauit. Non est uerum, uel prouatur, quod dubitauit ergo mortaliter peccauit. Non sequitur: quia omnis interrogatio siue dubitatio dampnosa, sicut patet in Thoma, sed, o sceleratissimi heretici, etsi dubitatio Iohannis esset dampnosa, non habetis ex euangelio quod in hac dubitatione defunctus fuerit, immo nuntii eius ad eum reuerti potuerunt et sibi rennuntiare. Et si dicitis quod ante aduentum nuntiorum preoccupatus fuerit morte, ergo male precepisse Ihesus dicens: “Ite rennuntiare Iohanni quod numquam potuisset, fecisse”, si premortuus fuisset, ei sic Iesus impossibile precepisset, et sic non fuisset iugum eius suaue, sed importabile. Non ergo Iohannes dubitauit, sed discipuli dubitabant. Iohannes enim testimonium dixerat: “Est Christus”, sed quia eius discipuli testimonio ipsius plene non credebant, misit eos ad Ihesum ut, uidentes signa, crederent. Propterea dicit: “Tu es qui uenturus es”, quasi diceret: “Vosmetipsum interrogate eum et dicite: Tu es qui uenturus es”», A, ff. 2ravb e 4ra-4vb. Altrove egli riprende la questione del rifiuto dell’umanità di Cristo («Fuit
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senza sinuosa, costante, generalizzata e sostanzialmente immune all’azione dei frati, secondo Sovramonte. Questi eretici non sono caratterizzati da altri appellativi che «heretici», «eos qui dicunt», «ii qui inter vos», «ii qui contradicunt» la Sacra Scrittura. Sono «falsatores litterarum», perché diffondono false interpretazioni delle parole bibliche, e soprattutto sono «falsatores clauium Petri», perché si sovrappongono all’autorità ecclesiastica predicando e confessando senza averne l’autorità42. Questa loro capacità, evidentemente garantita da un clima accondiscendente nei loro confronti da alcuni mali prelati, distrugge l’armonia urbana. L’assenza di buoni pastori e predicatori permette a questi lupi di attaccare e sedurre le povere penitenti fin dentro le loro abitazioni, che diventano basi in cui agire nell’oscurità43: questo è, in verità un topos della lotta antiereticale, ma, preso nell’insieme della predicazione del varesino, assume la forma di un’accusa contro gruppi sociali dai quali l’ascoltatore sarà portato quanto meno a distanziarsi per evitare di venire additato egli stesso come sostenitore dei fautori dell’eterodossia. Se il fedele è invitato a guardarsi dagli eretici, il lettore francescano, primo destinatario della forma scritta dei sermoni, viene a sua volta invitato ad agire contro un atteggiamento remissivo da parte degli uomini di Chiesa. I prelati e i chierici infatti sono accusati di rimanere in silenzio
enim positus in signum occultationis quod patet sic. Cum enim actum est bellum rex deponit signum suum et sumit signum serui ut sic per signum serui occultetur et non cognoscatur. Sic et Christus in arto bello formam serui accepit et tanquam durus bellator in medium exercitui in presiliis ad pugnandum contra aereas potestates. Vnde Is. LIX .f (59, 17): indutus est iusticia ut lorica et galea salutis in capite eius ‘et indutus est uestimentis ultionis, ad uindictam et ad retributionem indignationis hostibus suis. Sed nota: galea est humanitas, caput sub galea fuit», A, f. 6rb, M, f. 199rb) e della bontà del matrimonio («Item per hoc quod aqua in vinum mutata fuit in nupciis aperte, ostenditur quod Dominus sui presencia et miraculo matrimonium honorare et confirmare voluit, quod non fecisset si matrimonium a Deo non esset. Quod est contra illos qui matrimonium dampnant», A, f. 6ra, M, f. 198rb). 42 «Primi ergo falsi prophete sunt heretici quasi falsatores litterarum quia scripturam corrumpunt male eam interpretando. Iterum sunt quasi falsatores clauium, scilicet Petri quas contrafaciunt cum falso ligent et soluant cum non debeant, neque possint. Hii ueniunt in uestimentis ouium, id est in simplicitate uerborum, in asperitate uestimentorum et intrinsecus sunt lupi rapaces. Et hoc est quia tales uenefici sunt qui dum uenenum aliquibus ad bibendum porrigunt melle callicis ora liniunt, ut quod in calice latet, mortiferum non sentiant», A, f. 24va. 43 «Secundo luporum natura est in nocte circuire et in die in nemoribus latitare, sic heretici in nocte circum<irent> domos muliercule penetrantes, et hoc est quod fures sunt et latrones, et in die latitant in caueis et domibus suis docentes in tenebris, quia eorum dogmata tenebre sunt», A, f. 24va.
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dinanzi al disfacimento della fede e della vita cittadina, perché spaventati dal pericolo di denunciare un membro della propria famiglia o un suo nipote44. Può dunque questa essere solo una vaga allusione o queste parole trovavano un nome e un volto impressi nella mente degli ascoltatori-lettori? Vi era cioè consenso generale e fondato nei confronti delle parole del varesino? Ancor più stringente è il successivo accenno all’inutilità degli uomini di Chiesa, i mercenari del Vangelo, per la salvezza dei fedeli qualora siano formati nella legge secolare e non in quella divina, tanto che essi sono capaci di ululare nelle chiese tanto da essere promossi alle dignità ecclesiastiche, o vengono promossi per gracias et secularem potestatem, ut filii magnatorum o per carnem et sanguinem senza però avere alcuna credibilità o pratica pastorale45. Tali costumi sono la causa stessa della diffusione dell’eresia all’interno della città. Con abilità il predicatore sposta il dito accusatore dagli eretici ai cattivi prelati, portando, è presumibile, il suo pubblico a una reazione emotiva contro di essi. Egli però non si limita all’accusa, ma suggerisce anche una soluzione. Questo dovrebbe essere il suo messaggio, ciò che il suo pubblico dovrebbe comprendere e promuovere: rimozione di cattivi sacerdoti e prelati e nuove procedure di selezione per tutti gli altri, basata sulla combinazione di esempio e dottrina. I laici a loro volta faranno penitenza pubblica e privata e sceglieranno la via della povertà volontaria, che li salverà dall’errore ricreando contemporaneamente l’armonia necessaria nella comunità46.
44 «Item magisterium animarum officium est ortolani. Ortolanus circa ortum suum tria facit: ortum suum sollicite a suspectis personis custodit, malas herbas evellit, et bonas plantat et plantatas inserit et insertas nutrit. Orti prelatorum sunt anime subditorum a quibus prelati sollicite debent cohibere suspectas personas et hereticas et ab eis sollicite debent euertere herbas uitiorum, quibus evulsis debent ibi seminare semen uerbi Dei et plantare ibi herbas uirtutum et bonorum operationum. Ie. I.d (1, 10): ecce ego constitui te hodie super gentes et super regna ut euellas et destruas et dissipes et ediffides et plantas, sed multi sunt qui faciunt econuerso, quia bonum propositum et parentum et nepotum suorum, quandoque de cordibus eorum evellerunt et destruerunt», A, f. 16ra. 45 Cfr. nota 26. 46 «Iterum uia recta est penitentia, quoniam recte ducit uiatorem suum ad locum destinatum, scilicet ad uitam eternam. Non enim declinat ad dexteram uel ad sinistram, quod significatur Nm. XXI.d, ubi dicitur quod filii Israel uolentes ire ad terram promisionis dixerunt Seon regi Amorreorum: “Liceat nos transire per terram tuam. Non enim declinabimus ad dexteram uel ad sinistram, sed terra uia regia ingrademus donec transeamus terminos tuos”. Sed notandum est quod sic latrones solentur cruces et lapidum tumolos de cetera uia, inde uiam ponere ut sequentes signa homines capiantur. Sic heretici et ypocrite crucem et sanctificationis signa precedunt ut eos alii sequantur et cadant. Propterea dicit Iohannes: dirigite uiam Domini, aliter non ualeret penitentia, scilicet si esset distorta per prauam intentionem uel per humane laudis fauorem. Viam ergo Domini quis dirigit eum peniten-
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Come si nota, Sovramonte pur facendo un discorso politico, funzionale sia alla vita della Chiesa sia, soprattutto, a quella cittadina, non si rivolge mai direttamente alle autorità civili e religiose. Egli non ne ha la forza e la possibilità. La sua capacità di persuasione, di muovere all’azione, deve dunque risiedere tutta nel numero di persone che riuscirà a portare dalla sua parte, spingendole a reagire sia nelle loro coscienze, sia nella vita pubblica. 3. Todi, ms. 7647: un frate inquisitore predica in un Comune centro-italiano
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Di diverso tenore è invece il secondo caso di studio che intendo ora sottoporre alla vostra attenzione. Questo è costituito da un piccolo gruppo di sermoni posti alla fine del manoscritto 76 della Biblioteca Comunale di Todi. Il codice è un volume miscellaneo di dimensioni ridotte, frutto del lavoro di almeno sette anonimi copisti della prima metà del Trecento, in area centroitaliana48. Esso entrò nella biblioteca francescana della città in un’epoca compresa tra il 1290 e il 1321, secondo la datazione di Neslihan ªenocak – a cui si deve l’identificazione dei manoscritti – o, in ogni caso, prima del 1341, secondo Enrico Menestò49. Il manoscritto sembra quindi risalire ad un’epoca piuttosto vicina a quella della composizione dei testi di cui andremo ad occuparci ora, sebbene possa essere stato rimaneggiato ed ampliato in seguito, come sembra dimostrare l’aggiunta di un sermone de sancto Fortunato ai fogli 428rb-430rb. Proprio quest’inserzione, insieme ad alcune note marginali sparse, permette di risalire per lo meno all’ambito cittadino in cui il codice fu utilizzato, se non a quello in cui i sermoni ven-
tiam quam puere incepte (sic!) usque in finem absque distorsione praue intentionis perseueranter peragit». Dominica III de Adventu, A, f. 3va; M, f. 193va. 47 La numerazione del manoscritto segue la collocazione corrente nella Biblioteca L. Leoni di Todi. Nel più recente catalogo dei manoscritti, invece, il manoscritto è individuato dal numero di schedatura e corrisponde al ms. 112 (76). I manoscritti medievali della biblioteca “L. Leoni” di Todi. Catalogo, cur. E. MENESTÒ et alii, II, Spoleto 2008, pp. 867-921. D’ora in avanti ll manoscritto tuderte verrà indicato con T. 48 Ibid., p. 869; E. MENESTÒ, I manoscritti medievali della Biblioteca del Convento francescano di san Fortunato di Todi, Spoleto 2009 (Uomini e mondi medievali, 16), p. 10 nota 50; p. 11 nota 63; p. 12 nota 64. 49 N. ªENOCAK, The earliest library Catalogue of the franciscan Convent of St. Fortunato of Todi (c. 1300), «Archivum Franciscanum Historicum», 99 (2006), pp. 467-506: per la datazione pp. 470-472, mentre il manoscritto è individuato nella sezione dei materiali per la predicazione, p. 494. La datazione di Menestò si trova invece in E. MENESTÒ, Gli inventari di San Fortunato di Todi, in Immagini del Medioevo. Saggi di Cultura Mediolatina, cur. MENESTÒ, Spoleto 1994, pp. 193-232: 194-195.
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nero registrati. Il sermone per san Fortunato infatti, non solo permette liturgicamente di collocare l’assemblaggio finale in Todi, ma anche di collegarlo cronologicamente ad un periodo di poco antecedente alla lotta tra Giovanni XXII e i frati dissidenti della cittadina umbra, lotta attestata a partire dal 132850. Il manoscritto si configura dunque nel suo insieme come una raccolta di materiali per la predicazione, quasi un manuale, in cui vengono selezionati con cura testi utili ad una campagna omiletica urbana ed antiereticale. Vi si trovano infatti non solo sermoni di autori rari nella tradizione francescana italiana, quali Pierre de Saint-Benoît e il noto predicatore minorita tedesco Berthold von Regensburg, ma anche, proprio all’inizio del codice, una summa de septem sacramentis ecclesie, un de articulis fidei (che in realtà registra una serie di devianze religiose che vanno contrastate attraverso la diffusione della dottrina cattolica), alcune quaestiones de confessione e infine delle brevi sententiae. Queste ultime, in particolare, lasciano già intuire in che modo il committente intendesse avvalersi del codice, essendo esse incentrate sulla condanna del nemico, inteso non solo – e non tanto – come nemico interiore, quanto come avversario della fede e della comunità cittadina e cristiana. Segue poi la sezione propriamente omiletica, dove vengono raccolti testi e predicabilia di molti autori, noti e non, tutti appartenenti all’Ordine dei Frati Minori, con la sola eccezione di Guglielmo Peraldo, i cui sermoni erano comunque tra i più apprezzati tra i predicatori dell’epoca. La selezione dei testi o dei brani riferisce di una concezione strettamente politica e antiereticale del codice. Vicino a sermoni con scarsa vivacità polemica, infatti, si ritrovano invece numerosi passaggi che rivelano la fiamma ammonitrice che animava chi raccolse i testi. Così, per esempio, del sermone per l’Undicesima domenica dopo Pasqua di Bertoldo da Ratisbona, vengono copiate per intero solo le sezioni relative alla confutazione del monotelismo e alla difesa della validità delle reliquie contro le dottrine propagate dai Poveri di Lione «e da molti altri»51. Vengono poi ampliati,
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M. BENEDETTI, I processi di Giovanni XXII contro gli eretici di Todi, in Todi nel Medioevo (secoli VI-XIV). Atti del XLVI Convegno storico internazionale (Todi, 10-15 ottobre 2009), Spoleto 2010, pp. 691-716: 692. 51 «Dicunt enim quidam illorum quod nec beata Virgo sit inuocanda. Insuper et semper statum regis ingrediuntur dicentes nullum posse saluari in statu miserie, turpiter in hoc mentientes cum eis contradicat tam uetus quam nouum testamentum Deus angeli homines. Insuper et intrant ad omnes seruos regis dicentes nullum pescatorem, rusticum, militem, clericum uel religiosum in ecclesia posse saluari. Ecce, in hoc dicto condempnant nos omnes et omnes sanctos qui ante nos fuerunt Petrum et omnes apostolos, Stephanum et
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rispetto al testo originale, gli attacchi contro i vagabondi (intendendo qui non solo e non tanto gli accattoni, quanto coloro che vagano inordinate, primi fra tutti quei chierici che si dedicano allo studio e poi si muovono per la cristianità parlando in modo disordinato52), quelli contro gli usurai e contro gli ioculatores che infestano le case delle donne53. Altrove, la stessa tecnica di ampliamento all’interno di un testo del Ratisponense è utilizzata per sottolineare la malvagità dell’omicidio perpetrato ovunque, e in particolar modo nelle taverne e durante i banchetti. Esso inoltre colpisce «poveri e chierici», intendendo forse con poveri proprio i frati, che vengono colpiti nella loro stessa vita, dopo aver visto i propri chiostri e le proprie chiese rapinate da aduocati, iudices, tiranni, principes et huiusmodi exactores54. In quest’ottica antiereticale e volta al controllo e alla pacificazione della vita sociale, vengono copiati, verso la fine del manoscritto, anche alcuni sermoni di un anonimo frate che rivela di essere un inquisitore inviato presso un non meglio definito Comune, probabilmente all’interno dei territori pontifici. In un breve testo che prende le mosse dall’Epistola agli Ebrei 13, 17: Obedite praepositis vestris et subiacete eis, egli si indirizza appunto agli abitanti di una civitas, o meglio di un Comune (dice: «dirigat verba ad […] quietem huius civitatis et tranquillum statum huius communis») e ricorda che per mantenere l’ordine sociale è necessario che i prelati,
omnes martires, Nicholaum et omnes confessores, Caterinam et omnes uirgines. Illi enim omnes nostram fidem habuerunt et in ea decesserunt. Ipsorum uero multi hereticorum nuper ante paucos annos surrexerunt, ut patet in pauperibus leonistis et in aliis pluribusque. Insuper et populum regis ad sanctos, scilicet quos dicunt non esse inuocandos. Insuper, et infirmos regis ad illos, scilicet qui sunt in purgatorio», T, ff. 397vb-398ra. 52 «Erantque tam in hominibus quam in iumentis. Scinifes sunt homines uagabundi inordinate hinc interuolantes et replent totam terram et egrediuntur de omni puluere terre. Nam de clericis egreditur magna multitudo uagorum scolarium hinc inordinate discurrentium. De religiosis similiter magna multitudo apostatarum uagorum», T, f. 398rb. 53 «De feminis magna multitudo ioculatorum et ita nunc tot sunt quod iam replent terram et quicquid pauperibus deberet tradi ut sint uestes antique et hiis et cum eis quasi totum cedit», ibid. 54 «Hec tam magna est et multa nunc qualis forte numquam fuit in ecclesia. De gentilibus nescio. In omnibus, scilicet pauperibus et clericis. Intra iumenta eorum que eis auferunt et super agros illorum super ligna eorum et huiusmodi. Immo nec terra Gessen, id est claustra, ubi filii Israel Deo dediti sunt, grando nec quiescere permittit immo iniqua dominatio siue aduocati iniusti nullis claustris uel ecclesiis nunc parcunt. Nam quas predecessores eorum dotauerunt ipsi spoliant. Tales aduocati, iudices, tiranni, principes et huiusmodi exactores sunt quasi lupi, sicut nec capris uel edis, id est malis, ita nec ouibus uel agnis, id est bonis parcentes. Soph. 3.a: iudices eius quasi lupi. Audiant tales quid legitur 2 Rg. 12.a de diuite qui tulit ouem pauperis et adde qui significat Christum datam sententiam», T, f. 398va.
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qui forse i gradi maggiori della Chiesa o in modo più generale chiunque detenga un potere, spirituale o politico , vigilino sulla salvezza dei sudditi. Questi, dal canto loro, sono tenuti «ad prelatos […] obedire et humiliter subiacere»55. A questo punto l’argomentazione muta, passando a un tono quasi giuridico nelle righe che seguono. L’anonimo frate infatti dichiara apertamente di essere stato incaricato dal sommo pontefice dell’officium relativo al negotium fidei christiane, che deve dunque eseguire «secundum modicitatem scientie et paucitatem uirium»56. Una volta chiarito il suo ruolo all’interno della comunità a cui si rivolge, dapprima si rivolge al suo pubblico in modo familiare e lo invita all’obbedienza:
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Consulo igitur uobis tanquam amicis karissimis quatenus secundum preceptum quod uobis per summum ponteficem mittitur celeriter absque rebellione aliqua obedire uelitis57.
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La situazione però gli impone un ulteriore cambiamento di registro: egli si colloca al di sopra della comunità rivendicando chiaramente il suo ruolo di inquisitore e dunque il proprio diritto di controllo e censura anche nei confronti di tutto il corpo delle autorità cittadine in quanto detentore di un potere concessogli da un’autorità universale quale quella del pontefice: Infer: quia non solum amicus, immo etiam inquisitor constitutus ex officio mihi commisso, uobis precipio potestati, rectoribus artium et toti consilio etc. secundum formam litterarum58.
55 «Rogemus Altissimum ut alias (sic!) dirigat uerba ad laudem sui nominis, honorem matris ecclesie, pacem et quietem huius ciuitatis et tranquillum statum huius communis et ad salutem animarum omnium nostrum. In uerbo proposito tangitur cura prelatorum ad subditos et datur forma obedientie subditis ad prelatos. Cura prelatorum est pro subditis uigilare et cura periculosa eo quod oportet de animabus ipsorum rationem reddere. Ordo autem subditorum ad prelatos est obedire et humiliter subiacere. Propter primum dicit apostolus de bonis prelatis quod non solum uigilant, immo peruigilant quasi rationem pro animabus redituri. Propter secundum dicit confortans subditos obedite prepositis uestris et subiacete eis», T, f. 421rb. 56 «Cum mihi sit impositum et ego non possum subterfugere quin oporteat obedire secundum datum mihi preceptum per summum pontificem, necesse habeo exequi impositum mihi officium secundum modicitatem scientie et paucitatem uirium ad opus tam nobile, tam arduum quod est negotium fidei christiane quam omnis fidelis debet toto conatu defendere, pro ipsa stare uiriliter tanquam pro fundamento totius salutis humane», T, f. 421ra. 57 T, f. 421rb. 58 T, f. 421ra.
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Una volta messi in chiaro i rispettivi ruoli egli riprende il sermone dove l’aveva lasciato, ma l’invito non è più quello alla sola obbedienza, anzi. Il predicatore incita ora il suo pubblico a seguirlo nella difesa della fede cristiana anche attraverso l’uso della forza ogni qualvolta che qualcuno venga giudicato «rebellis», ribellione a cui gli stessi cittadini già furono tentati un tempo «absque conuocatione alterius populi»59. Nel gruppetto di sermoni a lui riconducibili, dunque, l’anonimo frate minore sembra avere bene in mente il gruppo di cittadini da condannare e anche i problemi relativi al funzionamento del comune in cui si trova ad agire. Tradizionalmente, vede nelle discordie interne uno dei motivi di scollamento tra la patria celeste e quella terrena. Il suo obiettivo è la restaurazione della pace interna, pace che va dunque preservata e custodita con attenzione, mentre coloro che ne turbano il corso, «rebelles et inobedientes»60, sono trattati al pari di messi infernali. In un sermone chiaramente basato sul vocabolario innocenziano relativo al rapporto tra papato e comuni61, egli introduce la figura degli angeli della pace che piangono amaramente62. Essi, secondo l’anonimo, sono dei nunzi, cioè dei propagatori del messaggio divino, che devono essere puri e mondi da ogni dono, cioè incorrotti e al di sopra di ogni sospetto. Scendendo dall’interpretazione generale al messaggio particolare, dichiara che «tales nos debemus esse qui uocamur minores» e soprattutto che «Inter alios ego uolui semper seminare pacem propter quod sic et sic feci et nuntiaui etc. propter quod ortor et rogo quod pacem debeatis cum etc.»63. Una chiara rivendicazione non solo e non tanto del generale ruolo dei frati minori, quanto della propria instancabile azione all’interno della città per salvarla sia come aggregato sociale che garantisce la coesione sociale sia nei suoi individui. Non sembra dunque che egli sia nuovo a questo tipo di missione, anzi, potrebbe
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T, f. 421ra. «Tales certe inobedientes et rebelles non sunt de corpore Christi, sed de corpore diaboli, quibus etiam competit illud de epistola Iude apostoli II.e (1, 19): hii sunt qui segregant semetipsos animales, spiritum non habentes», T, f. 424va. 61 L. BAIETTO, Il papa e le città. Papato e comuni in Italia centro-settentrionale durante la prima metà del secolo XIII, Spoleto 2007 (Istituzioni e società, 9), pp. 39-47. 62 «Angeli pacis amare flebunt. Istud uerbum scribitur in Isaias in quo describuntur quales debent esse qui uolunt pacificare discordes quia debent esse angeli, id est nuntii puri et mundi ab omni munere, eo quod non debent esse suspecti. Et tales proprie nos debemus esse qui uocamur minores. Inter alios ego uolui semper seminare pacem propter quod sic et sic feci et nunc etc. Propter quod ortor et rogo quod pacem debeatis cum etc. et hoc facere debetis propter tria quia omnis homo tria desiderat: letitiam mentis, iocunditatem cum proximo, beatitudinem eternam», T, f. 261ra-rb. 63 T, f. 261ra-rb.
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essere un “professionista” della predicazione pacificatrice e inquisitoriale64. Forse per assolvere a questo compito egli si dedicò alla conoscenza dei rudimenti del diritto canonico che regolavano tale incarico, sebbene la sua incapacità di citare correttamente le fonti canonistiche riveli la mancanza di una formazione giuridica approfondita. Non esita a rifarsi al Decretum Gratiani, da lui chiamato «canones», quando richiede la pena capitale per gli eretici pervicaci e quando ricorda come si debba procedere contro di essi65. Nel primo caso l’uccisione dell’eretico è giustificata dalla difesa dell’unità della Chiesa, in quanto l’eresia di cui il singolo è portatore potrebbe infettare l’intero corpo. Per questo, dice, egli si ritrova ad agire
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non more carnificis sed more patris et medici qui pedem aut manum filii sui manibus propriis abiceret et truncaret quando manum ipsam uel pedem, pernitiem uniuersitati corporis uideret inferre66.
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64 G.G. MERLO, Contro gli eretici, Bologna 1996, pp. 26-34; E. ARTIFONI, Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e Trecento, cur. P. CAMMAROSANO, Roma 1994, pp. 157-182; R.M. DESSÌ, “Diligite iustitiam vos qui iudicatis terram” (Sagesse I, 1). Sermons et discours sur la justice dans l’Italie urbaine (XIIe-XVe siècle), «Rivista internazionale di diritto comune», 18 (2007), pp. 197-230: 201; cfr. anche A. THOMPSON, Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo. La “grande devozione” del 1233, Milano 1996 (Fonti e ricerche, 9), soprattutto al capitolo 2. 65 «In hiis uerbis ostenditur pena contumantium et non obedientium legi Dei et ecclesie statutis. Nota ergo quod contumaces digni sunt et merentur: § primo mortis dampnationem unde dicitur: siue in mortem; § secundo patrie exulationem ibi: siue in exilium; § tertio omnium rerum ammissionem, unde subdicitur: siue in condemnationem substantie eius; quarto, personarum incarcerationem, unde dicitur: uel certe in carcerem». T, f. 322vavb. «Item aliud est mihi timendum ne non persequendo hereticos ipse hereticus efficiar. Dicunt enim Canones: “Error cui non resistitur approbatur” et approbare errorem proprie facit hereticum. Dicere enim errorem non facit hereticum, sed tueri. Etiam tota multitudo posset in crimine istud incidere, sed quilibet pro modulo suo tanto crimini desineret obuiare. Vos, catholici, qui tantum latratis, et tamen opere nichil perficitis, uos heresim defenditis. Debemus ergo sicut Pater celestis misereri hominis quod proprie sit in persecutione peccatoris, et tamen sicut patres persequi debemus, et proprie sicut pater celestis qui semper ex caritate persequitur ad bonum. Et si bonum non possit esse unius, erit tamen bonum unitatis que magis diligenda est quia semper preferenda unitas uni. Et ipsum canon dicit quod “resecande sunt putride carnes” que quidem cum resecantur non ipse meliores fuerint. Et hoc est ex miseria sua et tamen resecande sunt quia non nisi resecando sanitas corporis acquiritur aut etiam conseruatur.§ Primo meretur mortis dampnationem. Dt. 21 (21, 18): si genuerit homo filium contumacem qui non audiat patris ac matris imperium patris, scilicet prelati, et matris, scilicet ecclesie, apprehendet eum, scilicet prelatus, et ducet eum ad seniores ciuitatis et ad portam iudicii, id est ad publicum iudicium uel ad publicam diuidicationem. Et dicet prelatus silicet: filius noster, contumax est monita nostra audire contempnit, lapidibus eum obruet populus ciuitatis et morietur ut auferas malum de medio tuo», T, f. 421va-vb. 66 T, f. 421va.
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La sua azione è dunque simile a quella del padre celeste e giudice di tutte le cose nel momento in cui agisce nella comunità e assolve al suo ufficio, che prevede anche l’esercizio della funzione giudicante. Appare anche piuttosto evidente qui che il frate non agì con pietà e che i suoi giudizi non furono esenti da critiche da parte della popolazione, se si trova a doversi difendere dall’accusa di pronunciare sentenze prive di misericordia, mormorazione a cui peraltro reagisce dicendo semplicemente «le mie condanne in terra sono molto inferiori a quelle di Dio nell’aldilà»67. A differenza di quanto succedeva per Sovramonte, poi, l’anonimo frate ha la possibilità di esercitare una qualche forma di potere anche nei confronti delle autorità comunali, a cui si rivolge in due occasioni. Nella prima egli ricorda la necessità da parte del braccio secolare di portare a termine le condanne per eresia pronunciate da parte del tribunale ecclesiastico68. In questo caso è evidente come il frate non si rifaccia ad eresie dottrinali, sebbene all’inizio del sermone tenti di introdurre qualche argomento tradizionale, come il rifiuto della Trinità o del sacramento matrimoniale. Il problema principale è che i condannati per eresia in quest’ambiente sono coloro che si ribellano all’autorità politica esercitata dal pontefice e dal suo rappresentante, cioè il predicatore stesso69. Una panoramica della situazione si può ricavare da un confronto con altri sermoni. L’anonimo inquisitore agisce in un comune in cui coloro che vengono chiamati eretici contestano principalmente il potere dei ministri della Chiesa e di conseguenza i sacramenti da essi amministrati70. A fronte di un attacco che si può imma-
67 «Non ergo sine misericordia sententiam meam reputet, qui dampno in priuatione temporalium, quem pater celesti dampnat in ignem eterne etc.», T, f. 422ra. 68 Cfr. nota 65. 69 «Et quia mihi incumbit ex offitio commisso, ea que sunt contra fidem in clericis et laicis extirpare ad me etiam propositum uerbum ex parte Dei transmittitur ut de quolibet clerico pronuntiem huius uitium infidelitatis siue per receptationem siue per aliquem fautorem hereticis exhibitum et contractum debeam remouere», T, f. 425ra-rb; «Cum mihi sit impositum, et ego non possum subterfugere quin oporteat obedire secundum datum mihi preceptum per summum pontificem, necesse habeo exequi impositum mihi officium secundum modicitatem scientie et paucitatem uirium ad opus tam nobile, tam arduum quod est negotium fidei christiane quam omnis fidelis debet toto conatu defendere. Pro ipsa stare utiliter tanquam pro fundamento totius salutis humane. Consulo igitur uobis tanquam amicis karissimis quatenus secundum preceptum quod uobis per summum ponteficem mittitur celeriter absque rebellione aliqua obedire uelitis. Infer quia non solum amicus, immo etiam inquisitor constitutus ex officio mihi commisso uobis precipio potestati, rectoribus artium et toti consilio etc. secundum formam litterarum», T, f. 421rb. 70 «Coram Deo erat fidele cor Abram quia ueram et puram habebat fidem non ammixtam erroribus, sicut aliqui qui in uno articulo bene sentientes in alio male credunt, ut qui credunt bene de Trinitate, sed male de sacramentis ecclesie, ut de matrimonio et altaris
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ginare abbastanza virulento, i prelati non hanno saputo reagire, rendendosi a loro volta colpevoli di codardia, viltà, pigrizia e accondiscendenza, oltre che esacerbando con il loro silenzio la situazione. Nemmeno le autorità politiche hanno avuto la forza di mantenere l’unità cittadina minacciata da questa situazione e talvolta anche chi si era trovato ad agire contro l’eresia vi era caduto71. In questo panorama il frate aveva ricevuto l’incarico dal pontefice di estirpare l’eresia «in clericis et laicis» e in virtù dell’autorità anche politica che quest’ultimo esercitava sul Comune, poteva anche ammonire gravemente i governanti della città e tentare di costringerli ad assecondare la propria azione72. In questo tentativo risiede il problema pragmatico: le parole del predicatore-inquisitore furono coercitive e dunque crearono un’azione nel Comune? Il suo linguaggio era condiviso da tutti gli attori della scena? Se la prima domanda è destinata a non trovare soluzione, sulla seconda invece possiamo dare una risposta almeno parzialmente positiva. Egli infatti non si limita a usare un linguaggio teologico o
sacramento. Vnde cauendum est ab istis quia dolosi sunt et sic in Apc. 9 comparantur scorpionibus, quia in facie, id est in principio, blandiuntur, cauda uero, id est in fine, pungunt. Isti falsant litteras celestis regis, corrumpunt enim litteras sacre scripture que filio Dei, qui est imago patris, quasi sigillo appenso confirmate fuerunt in cruce. Iob. 13 (13, 4): ostendam uos fabricatores mendacii, et cultores peruersorum dogmatum monetam paradisi. Falsant aurum diuini amoris subtrahendo ea, dum orationes, ieiunia, elemosinas, amore uane glorie faciunt que amore Dei facere debuerunt. Imitemur ergo Abram patrem nomen ut sit fides nostra non ficta, sed de corde puro ab omni errore et conscientia bona sine remorsu alicuius cauillationis», T, ff. 149vb-150ra. «Heretici autem hanc potestatem ministris ecclesie datam contempnunt dum dicunt ipsos soluere et ligare non posse, et idcirco recludendi sunt ne per eos in alios uiros eorum malitia transfundatur et ne per eos ceteri corrumpantur», T, f. 330vb. 71 «Item aliud est mihi timendum ne non persequendo hereticos ipse hereticus efficiar», T, f. 421rb; «Hec scilicet Dominum Deum tuum adorabis et illi seruies Dominum Deum tuum adorabis, non patarenum, non hereticum qui non solum sunt adorandi sed etiam nec recipiendi. Hec est enim uox Domini Dei tui, ut hereticum non adores ut eum in domum non recipias, ut eius doctrinam non audias et quia hanc uocem audire (sic), id est obedire noluisti. Idcirco ducet te Dominus in gentem quam ignoras. Ecce pena exilii et dignum est quod quia terram tuam maculasti quod de ea abiciaris», T, f. 322va. 72 «Ideo ad quemlibet habentem auctoritatem super clericos dirigitur uerbum istud ex parte maiest<at>is diuine, aufer, inquit Dominus episcopo et cuilibet prelato, rubiginem, id est uitia de argento, id est de quolibet clerico ed egredietur uas purissimum ut sit aptum diuino ministerio. Et quia mihi incumbit ex offitio commisso, ea que sunt contra fidem in clericis et laicis extirpare, ad me etiam propositum uerbum ex parte Dei transmittitur ut de quolibet clerico pronuntiem huius uitium infidelitatis siue per receptationem siue per aliquem fautorem hereticis exhibitum et contractum debeam remouere. Vt clericus qui debet esse uas in honorem Dei sanctificatum possit congrue Domino deseruire, et quia talis clericus rubiginem in fame est respersus ad eius purgationem congrue procedere et eidem purgationem indicere etc.», T, f. 425rb.
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canonistico, bensì colpisce gli interessi e le preoccupazioni del suo pubblico in almeno tre occasioni. Quella più interessante si riscontra in un breve sermone indirizzato principalmente ai consiglieri del Comune di cui mette in risalto, per contrasto, le male pratiche, gettando su di loro lo sguardo accusatore dei presenti. Dice infatti che per bene amministrare la città, i consiglieri che si recano in consiglio
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debent dimittere extra consilium odium et omnem malam voluntatem et habere Deum pre oculis, nec moveri odio vel amore privato, prece vel pretio, nec debent dimittere veritatem timore, nec propter consanguinitatem vel amicitiam nec pro aliquo dampno sive utilitate quod sibi vel consanguineo vel amico ex hoc posset aliquatenus exoriri, sed solo amore iusticie et equitatis73.
Attenzione, dunque: devono fare tutte queste cose, ma non è detto che lo facciano. E infatti, prosegue:
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Vos enim estis his singuli sicut iudices et quicquid boni de vestro consilio bono provenerit, erit vobis in meritum et premium coram Deo, et quicquid mali accideret de malo consilio, quod aliquis daret imputaretur ei ad peccatum et penam74.
Ecco comparire in questo punto un chiaro segno di linguaggio condiviso: chiunque poteva riconoscere nell’ammonimento iniziale una situazione nota in qualche modo ed era portato a concentrare l’attenzione sull’esito della legiferazione successiva: se rispondente alle indicazioni del papa nella persona del suo inquisitore, perché questo è il “buono”, non ci sarebbe stata nessun’indagine né sarebbe stato preso alcun provvedimento, altrimenti sarebbe stato legittimo mettere in dubbio l’integrità dei consiglieri stessi e di questo chiedere conto. Una comunità divisa, dunque, e il frate sembra agire proprio su tale situazione seminando talvolta fiducia, talvolta sospetto. Egli può avvalersi della sua esperienza di inquisitore quando deve istruire un processo contro questi eretici e dunque utilizza un linguaggio tecnico, come quando spiega come i «seniores civitatis» debbano agire ogni qualvolta venga loro portato un colpevole e pronunciata una determinata formula di accusa75. Lo scopo
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T, f. 425ra. Ibid. Cfr. nota 65.
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ultimo di tale azione però è l’unità, politica e religiosa, riunita attorno al suo capo celeste e a quello terreno, con tutti i suoi rappresentanti. Un’unità che si tramuta anche in unità ideologica: attraverso la condanna di tutta una serie di posizioni e atteggiamenti (accusati da Bertoldo di Ratisbona di «fetere» tanto da togliere il fiato76) l’inquisitore tenta di plasmare la società a cui si rivolge non solo attraverso le sue azioni, ma anche attraverso le parole, il linguaggio attorno al quale vuole riunire la popolazione. 4. Conclusioni
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Politica, forza persuasiva, vita cittadina: queste le tematiche prese in considerazione nello studio di questi due brevi sermonari. Tornando al problema iniziale relativo all’azione dei predicatori come vettori di dati in una comunità ideale che ne condividesse il messaggio anche nella sua manifestazione più tangibile, il linguaggio, penso che la risposta non possa che essere solo parziale. I due autori infatti tentarono di attingere al linguaggio comune, al sentire più diffuso, ma si trovarono sempre a doverlo piegare alle proprie conoscenze ed esigenze. Inoltre non è possibile sapere se vi fu mai una reazione pratica alle loro parole, sebbene i fatti del 1328 a Todi possano forse essere una conseguenza a lungo termine di un’azione intrapresa dall’anonimo autore dei sermoni contenuti nel ms. tudertino 7677. Non è neppure possibile appiattire le problematiche poste da questi sermoni sul problema delle comunità di linguaggio, con uno sforzo anacronistico che porterebbe a cercare in testi antichi problematiche post-illuministiche. L’utilità delle categorie offerte dall’analisi pragmatica, però, permette di entrare più a fondo nei testi e soprattutto di guardarli dal lato dell’ascoltatore ancor di più che da quello dell’autore. Si può dunque giungere a qualche conclusione anche da questo punto di vista. L’ascoltatore, innanzitutto pubblico destinatario delle parole dei due predicatori ne condivideva il linguaggio? Solo parzialmente. Nel caso di
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«Sed heu! Iam nimis replent terram et rami multi multiplicantur, et fetor nimis noxius exalat de cadaueribus eorum animas nimis inficiens et sicut ille rane cruciauerunt regem Egipti qui pessimus fuit et populum eius, ita econtrario iste rane uenenate ipsum regem celestem qui summe bonus est cruciant et populum eius», T, f. 397vb. 77 Cfr. BENEDETTI, I processi cit., pp. 697-711; L. FUMI, Eretici e ribelli nell’Umbria dal 1320 al 1330 studiati su documenti inediti dell’Archivio Segreto Vaticano, cur. R. LAMBERTINI, Spoleto 2010; M. D’ALATRI, Documenti sulla vertenza del 1355/56 tra inquisizione e tudertini, «Collectanea franciscana», 33 (1963), pp. 267-326: pp. 267-276.
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Sovramonte, infatti, si può ipotizzare un problema di base: i destinatari dei sermoni non sono coloro che vengono da lui attaccati, ma coloro che già partono da un sentimento affine a quello del predicatore. Laddove si può ipotizzare la presenza della parte avversa, il ruolo di Sovramonte cambia, da ammonitore si fa maestro, attingendo a scritti altrui e a dottrine che si arroccano sulla tradizione patristica ed esegetica. L’anonimo del ms. 76, a sua volta, gioca con le parole, le usa per dividere e poi riunificare sotto un segno diverso da quello della realtà in cui si trova ad agire come giudice. Egli ha la possibilità di poter agire ai vertici delle istituzioni, con cui condivide il linguaggio, oltre che la prassi. L’adesione totale è dunque richiesta, ma non data per scontata in nessuno dei due casi. Infine per rispondere al grande quesito con cui si è aperta questa breve panoramica: i sermoni riflettono o modellano la realtà? Ecco, in questi casi, si potrebbe dire, con una sintesi quasi da Twitter: “i sermoni sono specchi modellanti di società disordinate”.
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Tra la Chiesa e il Regno: arte, francescanesimo e società cittadina tra Niccolò IV e Carlo II d’Angiò*
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Il 29 maggio 1289, nel giorno di Pentecoste, la cattedrale di Rieti fece da scenario alla solenne cerimonia di incoronazione di Carlo II d’Angiò, re di Gerusalemme1 e di Sicilia. Nella stessa occasione ricevette la corona anche sua moglie Maria, della dinastia degli Arpadi, reali di Ungheria. Fortemente voluta dal pontefice celebrante, Niccolò IV, al secolo Girolamo da Ascoli, primo papa francescano della storia, la cerimonia faceva da controcanto a una fase di grande tensione. La baldanza della presa di potere sul Regno di Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò, sembrava un lontano ricordo. Il nuovo sovrano, quando era ancora principe di Salerno, aveva dovuto far fronte a tutta una serie di gravissime vicissitudini, con l’estendersi della rivolta dei Vespri Siciliani e l’aggressione militare degli Aragonesi. Dopo essere stato sconfitto a Napoli, era stato imprigionato, rischiando di essere giustiziato a Messina2. Carlo aveva riguadagnato
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Si presenta qui il testo della relazione così come esposto in sede di convegno, con un apparato critico limitato agli aspetti nodali del discorso. La ricerca rientra nel progetto Mensurata durant. Arte, cultura architettonica e ambiente nel crocevia appenninico dei Sibillini, della Laga e del Gran Sasso (secoli XI-XVI), avviato motu proprio dallo scrivente nel 2005. 1 Di qui il feroce epiteto dantesco «Ciotto di Ierusalemme» (Paradiso, XIX, 127), ossia lo Zoppo di Gerusalemme, dovuto al fatto che l’Angiò era un po’ claudicante. L’ironia del poeta batte sul difetto fisico e sull’inconsistenza del titolo gerosolimitano, di pura valenza onorifica. 2 La sua salvezza fu garantita dalla liberazione di Beatrice d’Aragona, da molti anni tenuta in carcere dagli Angiò. Si prese carico della sua liberazione la moglie stessa di Carlo, Maria d’Ungheria, nella prima decisione di carattere politico che dovette affrontare in prima persona: A. KIESEWETTER, Maria d’Ungheria, regina di Sicilia, in Dizionario biografico degli Italiani, 70, Roma 2008, pp. 218-221: 218. Stando alla tradizione, Carlo I espresse un giudizio al vetriolo sul figlio, una volta finito nelle mani degli Aragonesi, con particolare riguardo alla sua forte dedizione alla fede: «Noi abbiamo perso un sacerdote che ostacolava
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la libertà a un prezzo elevatissimo, dovendo per giunta lasciare agli Aragonesi come ostaggi, in Spagna, i propri figli Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario. Duramente provato dall’esperienza umiliante del carcere, al momento dell’incoronazione il nuovo re era preoccupato per la sorte dei figli e voleva onorare fino in fondo gli accordi di pace, sia pure gravosi, pur di giungere alla loro liberazione. Dal canto suo, Niccolò IV lo spingeva a tutelare i suoi diritti sovrani, anche nell’interesse della Santa Sede, visto che il Regno di Sicilia era un feudo della Chiesa papale e la situazione politica del Regno era inevitabilmente interconnessa con lo Stato confinante della Chiesa: il papa era riuscito a indurre Carlo ad assumere la corona, nonostante che Giacomo d’Aragona si fregiasse già dello stesso titolo di re di Sicilia3, e gli aveva affiancato Berardo da Cagli, cardinale vescovo di Palestrina, che, nell’espletare le sue mansioni di legato apostolico in Sicilia, aveva il tacito ruolo di tenere sotto controllo questo re debole e intimidito4. Un mese dopo l’incoronazione, il 29 giugno 1289, presso il palazzo vescovile che ospitava la corte papale, nella stessa Rieti, Carlo fece il solenne atto di omaggio feudale del proprio regno nelle mani del pontefice5. Rieti era la residenza estiva prediletta di Niccolò IV e per lunghi periodi fu sede della curia pontificia. Ubicata in quella Valle Santa ricca di memorie francescane (basti pensare a Greccio e al presepe vivente che lì vi
la nostra azione di governo, e che arrecava danno alla nostra guerra» [mia traduzione da C. BRUZELIUS, L’architecture du royaume de Naples pendant le règne de Charles II d’Anjou, 1289-1309, in 1300… L’art au temps de Philippe le Bel. Atti del Congresso Internazionale, (Parigi, 24-25 giugno 1998), cur. D. GABORIT-CHOPIN - F. AVRIL, Paris 2001, pp. 253-271: 253]. Anche se leggendaria, la frase mette bene in luce le differenze di carattere tra i due sovrani. L’intervento diretto o indiretto di Carlo II, tra fondazioni, erezioni e restauri, è esteso a ben duecento chiese: ibid., p. 254. 3 Carlo era talmente provato e titubante che chiese ad Alfonso d’Aragona il permesso di assumere la corona, ottenendo un ovvio diniego, e si oppose al papa allorquando dichiarò nulli i trattati di pace stabiliti con gli stessi Aragonesi: A. NITSCHKE, Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, in Dizionario biografico degli Italiani, 20, Roma 1977, pp. 227-235: 229. La posizione intransigente di Niccolò IV in queste circostanze ha indotto il delizioso Michele Amari a formulare un giudizio davvero sferzante: « […] seguendo il Corano, piuttosto che il Vangelo, raccese il fuoco della guerra» (citato in A. FRANCHI, Nicolaus Papa IV 1288-1292 (Girolamo d’Ascoli), Ascoli Piceno 1990, p. 134 nota 19). 4 Ibid., p. 100; M. GAGLIONE, Converà ti que aptengas la flor. Profili di sovrani angioini, da Carlo I a Renato (1266-1442), Milano 2009, p. 123, consultabile anche on-line all’indirizzo https://independent.academia.edu/MarioGaglione (consultato il 25 maggio 2017). 5 «Actum Reate in maiori palatio juxta cathedralem ecclesiam Reatinam». FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., p. 133, riproduce il bellissimo sigillo aureo che correda la pergamena stilata nell’occasione, conservata nell’Archivio Segreto Vaticano.
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rappresentò il Poverello in persona), la città sabina era considerata sin dai tempi di Varrone un punto focale della Penisola, l’umbilicus Italiae. Collegata a Roma dalla via Salaria, che raggiunge Ascoli Piceno sul versante adriatico, Rieti si trova tuttora in una situazione di snodo viario tra le due Italie, stabilendo la connessione tra l’Umbria meridionale e il territorio aquilano6. Più in generale, la città sabina rientra all’interno dello storico percorso commerciale noto come “via degli Abruzzi”, che connetteva Firenze a Napoli tramite L’Aquila e Sulmona. In questo modo la cerimonia reatina segna un evento di ampia portata, che suggerisce di rilevare i rapporti politici, commerciali e culturali chiamati a comporre un ampio e ramificato circuito tra il nord e il sud della Penisola. Nello stesso frangente dell’incoronazione, si teneva sempre a Rieti, presso il convento di San Francesco, il capitolo generale dell’ordine dei frati Minori7. Alla presenza – sembra – di 800 religiosi, papa Niccolò presiedette l’assemblea e ratificò l’elezione del nuovo ministro generale, il provenzale Raimondo di Goffredo: un’elezione in verità poco gradita al pontefice, poiché Raimondo era un illustre esponente dell’ala rigorista dell’ordine8. Ai cardinali presenti in Curia, Niccolò disse, comunque, di aver
6 Il collegamento tra Rieti e L’Aquila era garantito dalla strada che collega la Salaria all’alta valle dell’Aterno attraverso le gole di Antrodoco, sull’asse dell’odierna strada statale 17. Dal capoluogo abruzzese si diramava poi la via Picente che attraverso Montereale giungeva ad Amatrice, consentendo poi di raggiungere la Salaria in direzione di Ascoli. Il circuito Rieti - L’Aquila - Amatrice - Ascoli costituiva un itinerario assai praticato: si veda il caso di G.G. C(ARLI), Memorie di un viaggio fatto per l’Umbria per l’Abbruzzo e per la Marca, dal dì 5 agosto al dì 14 settembre 1765, a cura di G. FORNI, Napoli 1989 (Studi e Ricerche dell’Istituto di Storia della Facoltà di Magistero dell’Università di Perugia, 5), pp. 22-34. Non a caso, fino al sec. XIX il tratto della Salaria compreso tra Antrodoco e il bivio di Amatrice (Grisciano di Accumoli) finì per essere pressoché abbandonato. 7 La concomitanza ha anche indotto ad attestare che l’incoronazione si svolse nell’ambito stesso del capitolo generale. Il cronista Bernardo da Besse asserisce infatti: «In ipso capitulo Karolus heres Regni Sicilie, una cum consorte sua, ab ipso papa in loco fratrum coronati sunt» (Catalogus Generalium Ministrorum Ordinis Fratrum Minorum, ed. O. HOLDER-EGGER, in M.G.H., Scriptores, XXXII, Hannover-Leipzig 1905-1913, pp. 653674: 669). FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., p. 132, sulla scorta di questa fonte asserisce che l’incoronazione si svolse presso il convento di San Francesco, ma lo svolgimento della cerimonia in cattedrale è indiscusso. Si veda la minuziosa ricostruzione degli eventi del periodo fornita da A. KIESEWETTER, Die Anfänge der Regierung König Karls II. von Anjou (12781295). Das Königreich Neapel, die Grafschaft Provence und der Mittelmeerraum zu Ausgang des 13. Jahrhunderts, Husum 1999 (Historische Studien, 451), p. 198. 8 Ricordo en passant che egli ebbe modo di incontrare i figli di Carlo II detenuti dagli Aragonesi, durante la loro permanenza forzata in Catalogna: I. GAGLIARDI, San Ludovico fra tradizione agiografica e diffusione del culto in partibus Tusciae, in Culto dei santi e culto
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accettato serenamente quel responso, perché derivava indubbiamente dai disegni imperscrutabili dello Spirito Santo9. La concomitanza tra l’incoronazione di Carlo e l’elezione di Raimondo visualizza bene il rapporto dialettico stabilito nel tessuto urbano di Rieti tra l’insediamento periferico dei Francescani e il polo civico nel cuore dell’antico nucleo urbano, dove si concentrano il palazzo comunale, la cattedrale e l’annessa residenza vescovile, promossa a sede della Curia itinerante dei pontefici. Sin dal sec. XII sede occasionale della corte papale, il palazzo aveva ricevuto proprio in questo periodo un definito assetto monumentale in funzione del suo illustre ruolo, grazie alla volontà e all’impegno del vescovo locale e delle stesse autorità civili, dietro la sollecitazione di papa Martino IV (1283). Niccolò IV in persona, come ricorda una lapide apposta sull’edificio, aveva contribuito nel 1288 alla conclusione dei lavori10, in particolare portando a compimento la Loggia delle Benedizioni, che dovette assumere un suo primo ruolo memorabile proprio grazie alla cerimonia di incoronazione11. Ma, più in generale, è interessante notare che l’intervento papale si inserisce all’interno di una dinamica di sviluppo e di rimodernamento che coinvolge tutta la città a partire dalla metà del Duecento.
dei luoghi nel Medioevo pistoiese. Atti del Convegno di Studi (Pistoia, 16-17 maggio 2008), cur. A. BENVENUTI - R. NELLI, Pistoia 2010 (Biblioteca storica pistoiese, 18), pp. 75-96: 77, disponibile anche on-line su “Reti Medievali”, www.retimedievali.it. 9 FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., p. 111. 10 Senza contare, naturalmente, l’ampliamento disposto in seguito da papa Bonifacio VIII. 11 Per un approfondito profilo della sede papale di Rieti, il riferimento d’obbligo è P.Y. LE POGAM, De la «cité de dieu» au «palais du pape». Les résidences pontificales dans la seconde moitié du XIIIe siècle (1254-1304), Rome 2005 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 326), pp. 345-406, consultabile anche on-line all’indirizzo http://books.openedition.org/efr/141 (pubblicato su OpenEdition Books il 2 maggio 2013, pagina consultata il 23 maggio 2015). Proprio in riferimento alla loggia, sulla scorta della testimonianza di Jacopo Stefaneschi, l’Autore osserva: «Certes, la plus grande partie de la cérémonie a pris place dans la cathédrale, mais la loggia peut avoir joué un rôle tout à la fin du couronnement, lorsque le roi a accompagné le pape jusqu’à son palais, en tenant l’étrier puis les brides de son cheval. En effet, la seule indication topographique précise concerne ce moment: “adextravit usque ad gradus palatii adherentis ecclesie”. Bien que le mot de “gradus” soit assez imprécis, on peut supposer qu’il s’applique ici à l’escalier de la loggia, qui venait donc d’être construite. Sans aller jusqu’à affirmer que la loggia fut construite pour cette cérémonie, puisque bien d’autres célébrations pontificales purent y prendre place, on peut considérer qu’elle fut construite à point nommé. La position surélevée du pape permettait d’illustrer cette même prééminence affirmée au même moment du rituel par la soumission du nouveau roi guidant la monture du pape» (p. 403).
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Nel 1253 si tiene un consiglio comunale nella chiesa dei Francescani, e proprio l’insediamento dei Minori diventa un vettore dell’ampliamento urbanistico, parallelamente agli altri poli conventuali cittadini (San Domenico, Sant’Agostino). Tutto ciò, come evidenzia Enrico Guidoni12, in linea con la dinamica dei comuni dell’Italia centro-settentrionale – compresa la rettificazione del corso principale, in modo da assumere una dirittura quanto più rettilinea –, mentre, nel nuovo incasamento a nord, si avverte un interessante influsso degli schemi ortogonali, in linea con le città nuove di fondazione (o rifondazione) angioina della Montagna aprutina, come Amatrice13, dove l’insediamento francescano è perfettamente integrato nella ratio della maglia urbanistica14. In un’altra città di confine sull’asse della Salaria, Ascoli Piceno, il convento di San Francesco riqualifica l’umbilicus urbis, il Trivio, ponendo le premesse al nuovo fulcro istituzionale e monumentale della Piazza del Popolo, e suggerendo un’adeguata rettificazione dell’asse viario principale che corre lungo la chiesa stessa dei frati Minori15.
12 E. GUIDONI, L’espansione urbanistica di Rieti nel XIII secolo e le città nuove di fondazione angioina, in La Sabina medievale, cur. M. RIGHETTI TOSTI-CROCE, Cinisello Balsamo 1985, pp. 156-187: 156-163. 13 Per un sintetico profilo di Amatrice, mi permetto di rimandare a F. CAPPELLI, Tesori di una terra di mezzo, «Medioevo», 18/2, 205 (2014), pp. 92-101. 14 GUIDONI, L’espansione urbanistica cit., p. 166. 15 Va ricordato che papa Niccolò IV si occupò della realizzazione di una città nuova, Cagli, in luogo di quella distrutta a seguito di durissime lotte di fazione. Senza successo, volle ribattezzarla con il nome di Sant’Angelo Papale, e, quel che qui più importa, si adoperò affinché si adottasse uno schema urbanistico a maglie ortogonali, avvalendosi come emissario di un francescano, il vescovo Bartolomeo di Grosseto (dicembre 1288): cfr. FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., p. 154. Torna in questione il modello delle bastides, ma è stato anche adombrato un ricordo della “sua” città di Ascoli che, attraverso la propria riqualificazione, veniva recuperando sulle arterie principali proprio uno schema del genere, derivato dall’assetto “ippodameo” della urbs romana. Il parallelo con Ascoli è messo in causa da LE POGAM, De la «cité de dieu» cit., p. 720: «Par ailleurs, il aurait imposé de dessiner le plan de la nouvelle cité sur le modèle d’Ascoli, sa ville de naissance, située non loin de Cagli». Per il progetto della città nuova è stata anche avanzata l’ipotesi di un intervento di Arnolfo di Cambio: M.M. SCOCCIANTI, Sant’Angelo papale - Cagli. Una fondazione duecentesca nella Marca pontificia, in Città nuove medievali. San Giovanni Valdarno, la Toscana e l’Europa. Catalogo della Mostra (San Giovanni Valdarno, 18 ottobre 2003-14 marzo 2004), cur. E. GUIDONI, Roma 2008 (Civitates. Urbanistica, archeologia, architettura delle città medievali, 14), pp. 69-79. Quel che è certo, rispondendo a un appello del pontefice (maggio 1290), la città stessa di Ascoli contribuì alla ricostruzione di Cagli, assumendosi l’onere di erigere un tratto delle mura urbiche per una lunghezza di 30 canne: cfr. FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., pp. 154-155.
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Le autonomie locali, grazie soprattutto al ruolo dinamico dei nuovi settori trainanti dell’economia cittadina, avevano modo di esprimersi con maggior vigore, ora che si era dischiusa la morsa del blocco angioino-papale, dando luogo a sommovimenti, soprusi, lotte di fazione e crisi istituzionali. Una situazione di questo genere si era proprio verificata in Ascoli16, la città di provenienza di Niccolò IV, al punto che il pontefice assunse personalmente il regimen nominando podestà il vicario Stefano Colonna17. Nell’ottica di una gestione oculata e premurosa delle proprie prerogative, con grande sensibilità verso le giuste rivendicazioni di appartenenza mosse dalle popolazioni locali, il papa si era al tempo stesso prodigato a recuperare talune fortificazioni di confine finite negli ambiti del Regno sotto Carlo I d’Angiò. Nel caso di Montecalvo18, in territorio di Acquasanta Terme, egli ebbe poi cura di riaffidare il caposaldo alla famiglia che ne deteneva in precedenza il controllo, i Guiderocchi, dinasti della Montagna acquasantana, ben presto inseriti nel vivo della realtà cittadina. Dal canto suo, il dono del piviale istoriato, uno sciamito di seta policroma, alla cattedrale di Ascoli, in concomitanza con l’assunzione del regimen podestarile, oltre a essere un atto di omaggio alla città natale, può essere eletto anche
16 G. PINTO, Ascoli Piceno, Spoleto 2013 (Il Medioevo nelle città italiane, 4), p. 65, correla queste situazioni al consolidamento dell’istituzione comunale. Sul fronte regnicolo, d’altronde, la vicina città di Teramo intraprende negli anni di prigionia di Carlo d’Angiò un’ampia opera di cooptazione del contado, suscitando nel 1286 la reazione di un gruppo di feudatari capitanati dall’indomabile Gualtiero di Bellante, schierato con Pietro d’Aragona: N. PALMA, Storia della città e diocesi di Teramo, II, Teramo 1979 (ed. orig.: Storia ecclesiastica e civile della regione più settentrionale del Regno di Napoli detta dagli antichi Praetutium, ne’ bassi tempi Aprutium oggi città di Teramo e diocesi aprutina, Teramo 1832-1836), pp. 82-85. 17 Sull’identificazione del personaggio si è creato un problema di omonimia: molti vi riconoscono il noto Stefano Colonna il Vecchio (Stefano II) del ramo di Palestrina, che ebbe nel novero dei fratelli il cardinale Pietro, Agapito e Giovanni detto Sciarra (così D. WALEY, Colonna, Stefano, il Vecchio, in Dizionario biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 433-437: 433; FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., p. 164), ma Giulia Barone lo identifica senza remore con suo cugino Stefano Colonna (Stefano III) del ramo di Genazzano: G. BARONE, Niccolò IV e i Colonna, in Niccolò IV: un pontificato tra Oriente ed Occidente. Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del VII centenario del pontificato di Niccolò IV (Ascoli Piceno, 14-17 dicembre 1989), cur. E. MENESTÒ, Spoleto 1991 (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali ed umanistici nell’Università di Perugia», 4), pp. 73-89: 82-83. 18 Come evidenzia LE POGAM, De la «cité de dieu» cit., p. 720, lo stesso pontefice si occupò della ristrutturazione della fortezza, con un mandato conferito a Giovanni Colonna, rettore della Marca, che si era preso carico dell’assedio e della restituzione del presidio alla Chiesa romana (15 agosto 1288): cfr. FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., pp. 175-176.
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Cfr. G. BARONE, Niccolò IV, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 455-459:
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nell’ottica di un invito alla pacifica convivenza e al rispetto dell’autorità soave del sommo pontefice. Ponendosi in linea con il papa Niccolò che lo aveva preceduto, Niccolò III Orsini, di cui aveva assunto il nome per un’evidente condivisione di intenti19, Niccolò IV si era subito dedicato con grande energia alla committenza artistica20. Ogni suo intervento in tal senso può essere letto sia in chiave di omaggio e di reverenza al Poverello d’Assisi e alla figura della Vergine – che costituiva un elemento di grande pregnanza nella spiritualità francescana – sia sotto il profilo della riconferma delle prerogative della Chiesa papale. Oltre agli interventi promossi nelle basiliche di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, occorre almeno ricordare la posa della prima pietra del duomo di Orvieto e la prosecuzione della decorazione pittorica della basilica superiore di San Francesco di Assisi21,
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Per un sintetico profilo di Niccolò IV come committente, mi permetto di rimandare a F. CAPPELLI, Il piviale del papa mecenate, «Medioevo», 17/8, 199 (2013), pp. 46-51. 21 Il nesso tra papa Niccolò IV e la decorazione pittorica della Basilica superiore di Assisi è stato più volte evidenziato dalla storiografia negli ultimi decenni, in contrapposizione a quanto asserito da Giorgio Vasari riguardo al ruolo di committente che avrebbe rivestito fra’ Giovanni da Murro della Marca, eletto generale dell’Ordine nell’estate 1296. Fermo restando che il pontefice dovette magari limitarsi al ruolo di ispiratore e di finanziatore dell’impresa, è senza dubbio preziosa la recente acquisizione di un preciso riferimento a Niccolò IV in merito alle Storie francescane, nel contesto di una polemica tra conventuali e spirituali sulla presenza di ornamenti nelle chiese dei Minori. La testimonianza, connessa alle discussioni confluite nel concilio di Vienne, risale agli anni 1310/12. In risposta alle accuse dei confratelli dell’ala rigorista, con Ubertino da Casale in testa, i conventuali asseriscono che una vasta profusione di pitture si può vedere solo in Assisi, e solo grazie alla volontà di Niccolò IV (in assenza quindi di una pianificazione diretta da parte degli stessi frati): « [...] nec vidimus in ecclesiis fratrum sumptuositatem magnam picturarum nisi in ecclesia Assisii, quas picturas Dominus Nicolaus IV fieri precepit propter reverentiam Sancti, cuius reliquie iacent ibidem». Sottolineo peraltro, en passant, il nesso “giustificativo” tra decorazione pittorica e presenza delle sante reliquie, che implica un legame tipologico e concettuale con le basiliche martiriali romane: lo stesso Niccolò IV dona un prezioso paliotto alla basilica assisiate nel 1289 come atto di reverenza nei riguardi del gloriosum corpus del Poverello: cfr. C. FRUGONI, Gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi: una committenza di papa Niccolò IV?, in Arbor ramosa. Studi per Antonio Rigon da allievi amici colleghi, cur. L. BERTAZZO - D. GALLO - R. MICHETTI - A. TILATTI, Padova 2011 (Centro Studi Antoniani, 44), pp. 215-223: 216. Il documento trecentesco era già noto nel 1945, ma il passo è stato messo in rilievo solo nel 2003 dagli studiosi D. Cooper e J. Robson, senza contare una precedente citazione occorsa nel 2001 (per la relativa bibliografia rimando a ibid., p. 219 nota 19). Il legame tra Assisi e Niccolò IV è stato evidenziato con particolare convinzione da L. BELLOSI, La pecora di Giotto, Torino 1985 (Saggi, 681), pp. 25-30. Lo studioso è poi ritornato più volte sulla questione, in particolare a seguito del saggio di Cooper
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in linea con quanto intrapreso da papa Niccolò III. Inutile dire che, se gli affreschi delle Storie francescane sono stati disposti da lui, Niccolò IV ha contribuito a una svolta epocale nella storia della pittura italiana. Quel che è certo, riconfermando la qualifica papale della basilica assisiate, grazie anche all’apporto della tradizione pittorica romana, impersonata da Jacopo Torriti – il suo artista di fiducia – nelle Storie bibliche, trasfigurata per così dire con piglio e moderna inventiva dal toscano Giotto22 nelle
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e Robson, tendendo a circoscrivere la realizzazione del complesso pittorico entro gli anni di pontificato dello stesso Niccolò: BELLOSI, “Nicolaus IV fieri precepit”. Una testimonianza di valore inestimabile sulla decorazione murale della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, «Prospettiva», 126/127 (2007), pp. 2-14. È stato però giustamente osservato che la fonte non autorizza a eleggere il 1292 come terminus ad quem del cantiere, essendo d’altronde acclarato che il mosaico di Santa Maria Maggiore, commissionato da papa Niccolò IV, fu ultimato solo quattro anni dopo la sua morte: A. TOMEI, La decorazione della Basilica di San Francesco ad Assisi come metafora della questione giottesca, in Giotto e il Trecento. “Il più Sovrano Maestro stato in dipintura”, cur. A. TOMEI, Milano 2009, pp. 31-49: 32. Nuove indicazioni sul tema dei rapporti tra il papa francescano e Assisi sono offerte da FRUGONI, Gli affreschi della Basilica Superiore cit.: l’Autrice si sofferma sulle testimonianze relative a un’opera perduta, l’aurifrisium (un paliotto ricamato con due scene di tema francescano) donato dal papa al Sacro Convento nel 1289, e analizza le stringenti relazioni iconografiche che connettono il drappo istoriato alle scene delle Esequie di san Francesco e del Capitolo di Arles dipinte nella Basilica superiore. D’altro canto, come sottolinea l’Autrice, il ciclo francescano condivide con il famoso calice di Guccio di Mannaia – dono anch’esso del pontefice, tuttora conservato presso il Tesoro del Sacro Convento – la stessa innovativa interpretazione della posa del Santo nella scena delle Stimmate sulla Verna. Si giunge così alla ipotesi che il paliotto possa essere scaturito, in ambiente romano-papale, dallo stesso pianificatore degli affreschi, proponendosi come una sorta di «bozzetto» dell’impresa. 22 La vivace discussione sulla paternità delle Storie francescane, insieme all’enigma del Maestro di Isacco, tiene tuttora banco, e ha ricevuto utili sollecitazioni dai numerosi legami che sono emersi con l’ambiente della Roma duecentesca. Ridurre il problema a una lotta di fazione tra Firenze e Roma, come aveva caldeggiato Federico Zeri, ponendo Cavallini al posto di Giotto nel cantiere assisiate, è stato utile per smuovere le acque e alimentare la discussione, ma non è stato certo risolutivo. La provenienza di Giotto dall’ambiente fiorentino, o di Arnolfo di Cambio dall’ambiente senese, non toglie alcunché al ruolo nodale svolto da Roma come centro di elaborazione e di irradiazione. Se le Storie francescane sono di Giotto e della sua bottega – come ritengo non si possa escludere – questo non significa che egli fosse necessariamente un attore unico giunto a “evangelizzare” il cantiere assisiate. Piuttosto, Roma fornisce senz’altro «la strada per comprendere Assisi» (S. ROMANO, La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative, Roma 2001, p. 220). Anziché fossilizzare la discussione sui vecchi parametri dell’esaltazione delle “glorie cittadine” (il romano Cavallini vs il fiorentino Giotto), occorre semmai ricordare come le cittàguida agissero da capofila attraendo i migliori ingegni che potevano provenire dalle parti più disparate, con esperienze pregresse più o meno sviluppate. Gli artisti alloctoni potevano e dovevano contribuire con le risorse del proprio magistero, ma dovevano comunque attenersi a indirizzi generali determinati dall’ambiente che li accoglieva, tanto più se questo ambiente (come nel caso della Roma papale) traeva forza da un orgoglioso riferimento a
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Storie francescane, egli fece in modo che lo sboccio di questa renovatio si ponesse fuori dall’Urbe, nel cuore dello Stato della Chiesa, consapevole dell’importanza strategica di quel santuario nell’interesse della sopravvivenza stessa di una idea universalistica del papato. Assisi diveniva così il nuovo presidio della Chiesa romana così come Rieti od Orvieto per la presenza della Curia in pianta stabile. Ma se la presenza della Curia fuori dall’Urbe, vuoi per fuggire da una Roma torrida e malsana o insicura, vuoi per rinsaldare i legami con le vivaci realtà politico-istituzionali delle cittàchiave dello Stato, non rappresentava una novità23, con il programma decorativo della Basilica superiore Assisi diveniva un fulcro fondamentale nell’asse portante della spiritualità e della cultura artistica della Penisola, che era poi lo stesso asse che collegava Firenze a Napoli nella dinamica dei rapporti commerciali24.
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una tradizione millenaria. Ammessa la sua presenza in Assisi sin dal principio, la “toscanità” o la “fiorentinità” di Giotto dovette confrontarsi con un’agguerrita romanitas, sulla scorta di un’istanza di rinnovamento stilistico che si era ormai perfezionata all’epoca di papa Niccolò IV. D’altro canto, le Storie francescane raccontano molto più di uno scontro o di un connubio tra culture pittoriche locali (cfr. ROMANO, La basilica di San Francesco cit., p. 214): esse segnano bensì l’elaborazione per così dire in vitro, nella realtà stessa del cantiere, di un nuovo stile, in principio agganciato agli indirizzi più avanzati della scuola romana, nello snodo segnato dal Maestro di Isacco (ossia Giotto, come sembra assai probabile), e poi sempre più orientato verso soluzioni originali, sicché si può semmai dire che Assisi ha fatto Giotto, non viceversa. Senza Assisi, il suo talento non avrebbe mai avuto modo di esprimersi in modo così compiuto e ambizioso nella fase iniziale della propria carriera. Senza Assisi, in altri termini, non avremmo dopo solo dieci anni la Cappella degli Scrovegni (1303-1305). Per una ricostruzione del primo Giotto, da Assisi a Padova, a prescindere dal cliché vasariano dell’artista fiorentino, all’interno del «‘triangolo magico’ fra Roma, l’Umbria e la Toscana, nei decenni fondanti tra 1280 e 1300 circa», è fondamentale il saggio di S. ROMANO, La O di Giotto, Milano 2008 (la citazione è a p. 89). 23 In generale si veda A. PARAVICINI BAGLIANI, La mobilità della corte papale nel secolo XIII, in Itineranza pontificia. La mobilità della Curia papale nel Lazio (secoli XII-XIII), cur. S. CAROCCI, Roma 2003 (Nuovi studi storici, 61), pp. 3-78. Per una sintesi, S. ZUCCHINI, Sedi della curia pontificia, 1198-1304, in Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale. Catalogo della mostra (Perugia-Orvieto, 7 luglio 2005-8 gennaio 2006), cur. V. GARIBALDI - B. TOSCANO, Cinisello Balsamo 2005, pp. 39-51; P.-Y. Le POGAM, I palazzi papali, in ibid., pp. 53-59. 24 Nella seconda metà del sec. XIII si nota una maggiore attenzione dei pontefici verso il Lazio settentrionale e verso l’Umbria. Cfr. LE POGAM, De la «cité de dieu» cit., p. 743, che in seguito osserva: «Le choix des résidences obéit donc non seulement à des modalités culturelles et hygiénistes de court terme, mais répond à un programme ou à une perspective stratégique à long terme» (p. 744). In merito a Niccolò IV, si potrebbe senz’altro approfondire il problema dell’eventuale esistenza di una strategia nell’interessamento che a vario titolo e in vari modi riservò alle realtà di Assisi (dove non ebbe mai modo di risiedere come papa), di Orvieto e di Rieti, ai vertici di un triangolo ideale che fa sponda tra la Toscana, il Lazio e il Regno.
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Carlo II d’Angiò, nelle numerose realizzazioni urbanistiche e architettoniche promosse, a partire dalla ricostruzione della cattedrale di Napoli – la nuova capitale del Regno – recepì in pieno questo fervore di rinnovamento scaturito da Roma e sentì la necessità di superare la stretta osservanza ai dettami di oltralpe, che era il marchio inconfondibile delle realtà volute da suo padre25. Come osserva Caroline Bruzelius26, nei domini italici (diverso è il suo atteggiamento in Provenza) tiene ad allacciare un rapporto con il senso dell’antico connesso all’idea di Roma (il duomo stesso di Napoli era tradizionalmente ritenuto una fondazione di Costantino), grazie anche al recupero di quel classicismo che era già patrimonio della cultura figurativa campana prima ancora dell’avvento di Federico II. Carlo I, occorre ricordarlo, aveva avviato con grande tempra la rinascita di Napoli, con i cantieri di Castelnuovo (il Maschio Angioino) e della splendida chiesa francescana di San Lorenzo Maggiore, ad esempio. Non era solo il re despota e iconoclasta che aveva trasformato Castel del Monte nella prigione dei figli di Manfredi, privando le finestre delle loro eleganti colonnine per montarvi robuste inferriate27. Talvolta nei suoi rapporti con le realtà di confine si colgono significativi interventi, sia pure in ossequio alle esigenze di controllo del territorio, anche in chiave di magnificenza: la rifondazione dell’Aquila, la trasformazione del castrum di Amatrice in una città nuova sul tipo delle bastides provenzali, la fondazione dell’abbazia cistercense di Scurcola Marsicana, costruita da maestranze francesi e popolata esclusivamente da monaci francesi, intitolata a Santa Maria della Vittoria in ricordo del trionfo di Tagliacozzo su Corradino (le campane lì
25 Queste scelte erano legate a diversi fattori: l’ascendente dell’idea di Roma in ambito italico, il maggiore coinvolgimento della manodopera locale (anche per ragioni di carattere finanziario), un’apertura verso l’italianité in evidente contrapposizione all’atteggiamento di Carlo I, che propugnava in modo “purista” lo stile gotico d’oltralpe e inseriva esclusivamente elementi francesi nei quadri dell’amministrazione: cfr. BRUZELIUS, L’architecture du royaume cit., pp. 266-269. 26 C. BRUZELIUS, Le pietre di Napoli. L’architettura religiosa nell’Italia angioina, 12661343, Roma 2005, pp. 91-94. 27 Cfr. A. CADEI, Federico II e Carlo I costruttori a Brindisi e Lucera, in Le eredità normanno-sveve nell’età angioina. Persistenze e mutamenti nel Mezzogiorno. Atti delle quindicesime giornate normanno-sveve (Bari, 22-25 ottobre 2002), cur. G. MUSCA, Bari 2004 (Atti, 15), pp. 235-301: 238-240. Per una visione più mitigata del «declassamento» angioino: M. AMBRUOSO, Castel del Monte: stereotipi e dati storici, in R. LICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 20102 (Questioni di Storia, 1), pp. 260-274: 265, dove si sottolinea la riconferma della valenza strategico-militare della costruzione da parte dell’Angiò. Un breve profilo del monumento è reperibile in F. CAPPELLI, Nel castello perfetto, «Medioevo», 18/7, 210 (2014), pp. 64-75.
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destinate, provenienti da uno o più edifici della Marsica, presumibili prede di guerra o beni requisiti a comunità ostili, furono custodite fino al marzo 1282 presso il convento francescano di Amatrice28). Carlo, d’altro canto, mostrò tutta la sua bieca risoluzione nel 1272, quando gli Ascolani – già largamente schierati con Manfredi (tanto da aver meritato l’interdetto da parte di papa Urbano IV nel 1264) – conquistarono un presidio di confine del Regno, la fortezza di Macchia (meglio nota come Castel Manfrì), trucidando l’intera guarnigione che era agli ordini del castellano Pierre de l’Isle: l’Angiò reagì con un’operazione militare in grande stile e operò espulsioni a danno dei mercanti ascolani che operavano in gran numero nei suoi domini. Dopo la riconquista (1273), affidò le opere di restauro e di potenziamento del presidio a Pierre d’Angicourt29, architetto della regia Curia che aveva lungamente operato, tra l’altro, a Lucera30. Ascoli vide la revoca delle espulsioni a carico dei propri concittadini operanti nel Regno e, in segno di pacificazione, accolse consecutivamente ben cinque podestà di
28 Cfr. F. GANGEMI, Ai confini del Regno: l’insediamento francescano di Amatrice e il suo cantiere pittorico, in Universitates e baronie: arte e architettura in Abruzzo e nel Regno al tempo dei Durazzo. Atti del Convegno (Guardiagrele-Chieti, 9-11 novembre 2006), cur. P.F. PISTILLI - F. MANZARI - G. CURZI, II, Pescara 2008 (Mezzogiorno medievale, 5), pp. 93-118: 115 nota 20. Il documento della cancelleria angioina si limita ad attestare che le campane erano state «ricevute un tempo dalla chiesa della Marsica». Si può escludere che fossero state spontaneamente offerte come atto di omaggio al sovrano. Considerando poi che le fondazioni cistercensi non adottavano campanili, viene poi il sospetto che le campane in questione fossero destinate alla fusione per le esigenze del cantiere. 29 Per l’intervento angioino a Macchia e per la sua contestualizzazione: F. ACETO, Castel Manfrino - «Castrum Maccle», in La valle dell’alto Vomano ed i Monti della Laga, dir. L. FRANCHI DELL’ORTO, I, Pescara 1991 (Documenti dell’Abruzzo Teramano, III), pp. 295-307; M.C. SOMMA et alii, Castel Manfrino (TE). Un insediamento fortificato tra Marche e Abruzzo. Prime indagini archeologiche (2003-2004), «Temporis signa. Rivista di archeologia della tarda antichità e del medioevo», 1 (2006), pp. 1-68. In entrambi gli studi le connessioni con la realtà storica di Ascoli sono del tutto minimizzate, per effetto di una contestualizzazione rigorosamente regionale. 30 Per un profilo dell’architetto (senza riferimenti all’incarico di Macchia): R. CORRADO, Pierre d’Angicourt, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IX, Roma 1998, pp. 390391; P.F. PISTILLI, Architetti oltremontani al servizio di Carlo I d’Angiò nel Regno di Sicilia, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del Convegno Internazionale di Studi, (Firenze-Colle di Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), cur. V. FRANCHETTI PARDO, Roma 2006, pp. 263-276. La sua rinomanza fu tale che egli chiese e ottenne la modifica di una strada pubblica a Barletta, in modo da attuare degnamente l’ampliamento della propria abitazione: C. BRUZELIUS, Le pietre sono parole: Charles II d’Anjou, Filippo Minutolo et la cathédrale angevine de Naples, in Le monde des cathédrales. Atti del Ciclo di Conferenze (Musée du Louvre, 6 gennaio-24 febbraio 2000), cur. R. RECHT, Paris 2003, pp. 145-189: 166.
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chiaro allineamento angioino, dal 1274 al 127831. Ma le rivolte sul confine continuavano a ripetersi, e nel 1281, dopo aver acquisito Montecalvo, il re si preoccupò di concentrare in una città nuova un gruppo di abitanti della Valle Castellana, non lungi da Castel Manfrì, molto probabilmente per scongiurare il ripetersi di gravi ribellioni a danno di quella fortezza32. All’epoca di Carlo II i fatti di Macchia erano ormai acqua passata. Tra i territori dei due Stati non c’erano gravi frizioni e, come lo stesso Carlo attesta, le vampate dei Vespri non erano giunte nella Montagna aprutina (Amatrice, ad esempio, vide riconosciuta la propria fedeltà33). Naturalmente, non mancarono fasi di tensione all’interno del Regno nei momenti di maggiore difficoltà della crisi aragonese, e Carlo II non smorzò affatto il concetto tipicamente angioino del confine di Stato come una barriera solidamente munita, con attraversamenti attentamente vigilati e alquanto onerosi per chi viveva di commercio, ma un nuovo clima di attività urbanistica, di vivacità culturale e di fervore religioso dovette favorire fruttuose dinamiche di scambi e di influssi. Nella ricostruita L’Aquila, città demaniale, si profilava un polo urbanistico e monumentale, dove la sede dei Francescani condivideva lo spazio del palazzo regio e del palazzo di città; il convento era per giunta preposto alla conservazione dell’archivio stesso del comune34. Un tale assetto aveva non pochi addentellati con una realtà come Ascoli, per la vivacità della sua vita economica e per l’adesione ai medesimi modelli urbanistici e istituzionali – sia pure mediati dalla presenza di un governo regio che comunque seppe spesso praticare una dialettica contrattuale nei riguardi delle libertà comunali, come d’altronde avveniva nelle realtà civiche di oltralpe35.
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T. LEGGIO, Ad fines Regni. Amatrice, la Montagna e le alte valli del Tronto, del Velino e dell’Aterno dal X al XIII secolo, L’Aquila 2011, pp. 246-247. 32 Ibid., pp. 253-254. La fortezza di Montecalvo entrò nel demanio regio insieme al presidio di Pietralta, anch’esso probabilmente sotto il dominio dei Guiderocchi, nel 1280. Non è chiaro in che modo venne conclusa la permuta con i proprietari, ma essi si considerarono comunque estromessi con la forza e papa Niccolò III si lamentò chiaramente dell’occupazione abusiva di taluni castelli della Chiesa da parte degli ufficiali angioini. 33 Leggio, ibid., p. 256: il 13 maggio 1283, quando era ancora principe di Salerno, Carlo elogiò la condotta di Montereale, Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, sottoposte alla capitanìa di Andrea de Pontibus. Alla fine dello stesso anno, Amatrice ottenne il diritto di bandire una fiera. 34 M.R. BERARDI, I monti d’oro. Identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale, Napoli 2005 (Mezzogiorno medievale e moderno, 5), pp. 158 nota 37 e 161-162. 35 Si può solo accennare di striscio all’ampia discussione sulle “due Italie” nell’epoca dei comuni. Da una posizione in genere orientata a esaltare le differenze radicali tra le espe-
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Il capoluogo abruzzese conobbe poi una ribalta di grande peso quando lo stesso Carlo II vi comparve incedendo a piedi, tenendo per le redini la cavalcatura dell’appena eletto Celestino V. La nomina dell’eremita al soglio di San Pietro – nell’ottica di Carlo II un garante degli interessi angioini ben più malleabile di un Niccolò IV36 – imprime una festosa accelerazione alla storia della ricostruita città, e ad essa si correlano altre vivaci realtà abruzzesi, come Sulmona (che vantava ben diecimila abitanti prima della Grande Peste), sulla strada per Napoli, o Lanciano, sull’asse della litorale adriatica, tra il Piceno e la Puglia. Il 1294, l’anno di papa Celestino (eletto a maggio, dimessosi a dicembre, come ben noto), rappresenta una svolta nel regno di Carlo, grazie a un clima di relativa tranquillità che aveva peraltro favorito nuove realizzazioni monumentali, anche in assenza di adeguate coperture finanziarie37. Parallelamente al fervore conosciuto dalle città del Regno – quel fervore che si prolunga sotto la sovranità di Roberto e che conduce a Napoli dapprima Pietro Cavallini38, e poi Giotto e Tino di Camaino – il momento conosce grandi risultati e sviluppi anche nel settore centro-settentrionale della Penisola, e nella stessa Urbe. Nel 1294 è allestita la nuova cattedra papale di San Giovanni in Laterano, con tutta probabilità disposta dal defunto Niccolò IV, in tutto analoga a quella allestita nella Basilica supe-
rienze civiche dell’Italia centro-settentrionale e il mondo delle città regnicole, si è giunti a una recente tendenza a sottolineare le analogie, al punto da sostenere, in taluni casi, una quasi sovrapponibilità tra le due casistiche. Un orientamento cauto intorno a questi problemi deve innanzitutto astenersi dall’eleggere le esperienze comunali di Milano o di Firenze a paradigmi assoluti del concetto stesso di città medievale italiana. Le differenze sono innegabili, e non vanno minimizzate, ma non devono in alcun modo autorizzare giudizi volti a rilevare “ritardi” o impedimenti di varia natura. Occorre piuttosto valutare serenamente, nel Mezzogiorno, un paesaggio urbano tutt’altro che univoco, e occorre vedere come la presenza di un forte dominio centrale, lì come nei territori del Regno di Francia, determinasse diversi modelli organizzativi, ma senza con questo implicare necessariamente un condizionamento limitante o addirittura oppressivo da parte del sovrano e dei suoi dignitari. Un’efficace sintesi del problema, in questa prospettiva, è data da F. FRANCESCHI - I. TADDEI, Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Bologna 2012, pp. 247-276. 36 Cfr. NITSCHKE, Carlo II d’Angiò cit., pp. 231-232. 37 Si inserisce in questo contesto la già accennata ricostruzione della cattedrale di Napoli. Il 16 giugno 1294 Carlo II emana un documento indirizzato all’arcivescovo Filippo Minutolo laddove si impegna in prima persona al vasto programma edilizio: nelle occasioni successive si definisce rifondatore tout court della chiesa: BRUZELIUS, Le pietre di Napoli cit., pp. 94-97. 38 Fu convocato alla corte di Carlo II nel 1308 («è giunto in queste terre per servirci di qui in avanti con la sua arte»): P. LEONE DE CASTRIS, Pietro Cavallini. Napoli prima di Giotto, Napoli 2013, pp. 32-36.
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riore di San Francesco ad Assisi per volontà di papa Niccolò III39. Sono in corso i lavori di esecuzione dei dipinti nella navata della stessa Basilica superiore, procedono i cantieri delle cattedrali di Siena e di Orvieto e il 1294 è l’anno fatidico in cui Arnolfo di Cambio (se lui ne fu davvero il progettista) pone mano a Santa Croce, la chiesa dei Francescani di Firenze. Già attivo a Roma – per papa Niccolò IV realizzò il gruppo scultoreo della Natività per la basilica di Santa Maria Maggiore –, nel 1293 l’architettoscultore toscano aveva per giunta firmato il ciborio di Santa Cecilia in Trastevere. Che dietro a questi parallelismi di fervore artistico tra le due Italie si celino anche complesse implicazioni politiche e religiose, è indicato dal culto di san Ludovico di Tolosa, il figlio di Carlo II che, non appena liberato dalla prigione aragonese40, nel 1296, rinunciò al trono per entrare nell’ordine francescano. Morto l’anno successivo, sin dall’anno 1300, per volontà di suo padre, fu indirizzato in Cielo verso la schiera dei santi. La canonizzazione giunse infine nel 1317. Dette agli Angiò un nuovo santo di famiglia da affiancare a Luigi IX, fratello di Carlo I, già canonizzato nel 1297. Protettore della dinastia, san Ludovico – santo francescano dei reali di Napoli – dovette ben presto dare man forte a tutti coloro che erano fedeli allo schieramento angioino-papale, anche nel cuore della stessa Toscana41. La santità degli Angiò era anche funzionale alle pretese sul trono ungherese ed è così che troviamo nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi una cappella intitolata a san Martino di Tours, il santo cavaliere di origini magiare, patrocinata dal cardinale francescano Gentile da Partino42, originario di Montefiore dell’Aso (Fig. 2), che si era fatto
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I. HUECK, Assisi. Architettura e scultura, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1991, pp. 636-639: 638; F. GANDOLFO, Cattedra, ibid., IV, Roma 1993, pp. 497-505: 505. Il ricorso in entrambe le cattedre alle figure bestiarie evocate dal Salmo 90, 13, stabilisce un forte nesso con il portale su piazza del San Francesco di Ascoli, e con gli altri portali attinenti: E. ZAPPASODI, Persistenze romaniche. La fortuna della Porta Regia nelle Marche meridionali tra Due e Trecento, in Umbria e Marche in età romanica. Arti e tecniche a confronto tra XI e XIII secolo, cur. E. NERI LUSANNA, Todi 2013, pp. 281-296. 40 Già nel 1294, quando era ancora in prigionia, ottenne la tonsura su concessione di papa Celestino V: GAGLIARDI, San Ludovico cit., p. 78. 41 Ibid., pp. 90-96. Non va dimenticato che Roberto d’Angiò nel 1313 era divenuto capo della Parte Guelfa di fronte alla minaccia della presa di potere di Arrigo VII di Lussemburgo, il che contribuì non poco all’avversione di Dante nei riguardi degli Angioini. 42 Il ritratto meticoloso, forse basato su una conoscenza diretta, che mostra il cardinale in ginocchio al cospetto di san Martino, nel quadro di un’architettura “arnolfiana” (Fig. 2), prelude alla ritrattistica individuale “moderna”, al pari del re Roberto della pala di Capodimonte (Fig. 1), prima ancora delle fondamentali esperienze di Avignone. Cfr. E.
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garante degli interessi angioini in Ungheria come legato papale; decorata ad affresco da quello stesso Simone Martini che avrebbe realizzato per gli Angiò la famosa pala di Capodimonte43 (Fig. 1) – e forse furono gli stessi Angiò a completare la decorazione della cappella, inserendo nell’imbotte dell’arco di ingresso, al culmine, i “loro” Luigi IX e Ludovico come pendant di Antonio da Padova e di Francesco d’Assisi44. La cappella intitolata a san Ludovico presso il duomo di Napoli fu istituita tra il 1317 e il 132645, forse di seguito a quella istituita in Santa Chiara, nel 1319-2046. Già nel 1326 esiste nel San Francesco di Ascoli Piceno una
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CASTELNUOVO, Introduzione, in Simone Martini, Atti del convegno (Siena, 27-29 marzo 1985), cur. L. BELLOSI, Firenze 1988, pp. 33-36: 35. Molto probabilmente questa cappella doveva accogliere la salma del prelato, che venne però inumato nella prospicente cappella di Santo Stefano (patrocinata anch’essa dal cardinal Gentile), nel 1312. Frattanto gli Angiò dovettero subentrare nella decorazione della più fastosa cappella di San Martino, probabilmente proprio in coincidenza della canonizzazione di Ludovico: cfr. M.M. DONATO, Cappelle meridionali. La cappella di san Martino, in La Basilica di San Francesco in Assisi. Schede, cur. G. BONSANTI, Modena 2002 (Mirabilia Italiae, 11), pp. 343-347: 344. 43 Databile intorno all’anno di canonizzazione, la pala risponde in pieno ai concetti della “santità regale” propugnata dagli Angiò, ed è verosimilmente riconducibile alla volontà di Roberto, che vi è raffigurato in tutta evidenza. Per un’approfondita disanima della committenza rimando a M. GAGLIONE, Il San Ludovico di Simone Martini, manifesto della santità regale angioina, «Rassegna Storica Salernitana», 29/2 (2012), pp. 9-125, consultabile anche on-line all’indirizzo https://independent.academia.edu/MarioGaglione (consultato il 25 maggio 2017), che propone Santa Chiara per la collocazione originaria, mentre P. LEONE DE CASTRIS (Simone Martini, Milano 20072, pp. 140-141) opta decisamente per San Lorenzo Maggiore. 44 DONATO, Cappelle meridionali. Cappella di san Martino cit. San Luigi IX di Francia e san Ludovico di Tolosa; sant’Antonio da Padova e san Francesco; santa Chiara e santa Elisabetta d’Ungheria; santa Maria Maddalena e santa Caterina d’Alessandria (secondo decennio del sec. XIV), in La Basilica di San Francesco cit., pp. 351-352. Le figure furono eseguite alla fine dei lavori, e sono in parte frutto di un probabile riadattamento: il san Luigi IX, il san Ludovico e la santa Elisabetta d’Ungheria (anch’essa in connessione al tema della “santità regale” degli Angiò), sostituiscono rispettivamente un san Nicola, un sant’Antonio e una sant’Orsola, in base all’ipotesi di LEONE DE CASTRIS, Simone Martini cit., p. 126. 45 La cappella napoletana fu istituita dal principe Filippo di Taranto, fratello di Ludovico. Cfr. I. CARLETTINI, Le storie di san Ludovico da Tolosa nella chiesa di San Francesco a Sulmona, in L’Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Chieti, 1-2 aprile 2004), cur. D. BENATI - A. TOMEI, Cinisello Balsamo 2005 (Biblioteca d’arte, 8), pp. 107-123: 111; V. LUCHERINI, La cattedrale di Napoli. Storia, architettura e storiografia di un monumento medievale, Rome 2009 (Collection de l’École Française de Rome, 417), pp. 254-257. 46 LEONE DE CASTRIS, Simone Martini cit., p. 141: è citata in una concessione papale di indulgenza del 1320 e si pone a seguito della traslazione da Marsiglia a Napoli del braccio e della testa del santo (1319).
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cappella intitolata al santo angioino47. (Teniamo presente che la prima attestazione di una cappella intitolata a san Ludovico nella chiesa francescana dell’Aquila risale solo al 136048). La cappella ascolana era patrocinata dalla nobile famiglia Guiderocchi, i dinasti della fortezza di Montecalvo recuperata dalla Chiesa grazie a Niccolò IV, come ricordato49. Dopo aver venduto la fortezza al comune ascolano, nel 1301, si erano insediati in città, ma alcuni anni prima, motivati da un fervore in cui l’aspetto spirituale non era certo immune da considerazioni di carattere politico e sociale, avevano iniziato a dare un forte apporto al francescanesimo: i fratelli Riccardo e Giovanni entrarono proprio in San Francesco di Ascoli, rispettivamente intorno al 1289 – in perfetta coincidenza con il recupero della fortezza50 – e nel 1322-
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47 L’acquisizione si deve a G. MICOZZI, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno, in I Francescani dalle origini alla controriforma. Atti del corso del piano provinciale di aggiornamento per docenti e dirigenti delle scuole elementari e delle medie inferiori e superiori (Ascoli Piceno, 2002-2003), cur. G. GAGLIARDI, Ascoli Piceno 2005 (Atti e Memorie. Gli Ordini Mendicanti nel Piceno, 1), pp. 177-247: 203. Non va peraltro dimenticato che nel San Francesco di Fermo si osserva un San Ludovico da Tolosa ad affresco di ottima fattura attribuito al Maestro di Fossa, pittore umbro (spoletino?) operante nel secondo quarto del Trecento: F. MARCELLI, Pagine di cultura ‘cosmopolita’. Leggendo le pareti affrescate a Fermo e nel Fermano, in Il Gotico Internazionale a Fermo e nel Fermano. Catalogo della mostra (Fermo, 28 agosto-31 ottobre 1999), cur. G. LIBERATI, Livorno 1999, pp. 29-47: 30. La cappella ascolana intitolata a san Ludovico poteva fare da pendant, in tema di santa regalità angioina, alla sacra Spina conservata nel locale convento dei Domenicani: una delle numerose reliquie tratte dalla corona della Sainte-Chapelle, che nel caso specifico sarebbe stata fornita dal re Filippo III l’Ardito, figlio dello stesso Luigi IX, nel 1279, grazie all’iniziativa del domenicano Francesco de Sarlis di Ascoli e del maestro generale Giovanni da Vercelli. Secondo una versione quattrocentesca della vicenda, Francesco ottenne la reliquia nel 1290, «tempore domini Nicolai pape IV», grazie al suo ruolo (non documentato) di confessore di Filippo il Bello. Si veda A. SALVI, Iscrizioni medievali di Ascoli, Ascoli Piceno 1999 (Testi e documenti, 5), pp. 115-118. 48 La cappella aquilana di San Ludovico era presente in un edificio con tutta probabilità rifondato da Carlo II: i relativi dipinti superstiti, forse legati alla volontà di Barbato, esponente dell’aristocrazia locale e segretario regio, sono databili intorno al 1340: cfr. CARLETTINI, Le storie di san Ludovico da Tolosa cit., pp. 115-117. Per la prima attestazione documentaria della cappella stessa, cfr. M.L. FOBELLI, Aquila, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1991, pp. 196-202: 200. 49 Già estromessi di prepotenza da Carlo I d’Angiò, eressero dunque una cappella in onore di suo nipote. 50 Il papa indirizzò una bolla a Giovanni e ai suoi fratelli in data 7 ottobre 1289, specificando che il rettore della Marca fungeva da semplice custode della fortezza per conto della Chiesa, senza pregiudizio per i diritti dei legittimi castellani. L’atto di restituzione a Giovanni, fra’ Riccardo (rappresentato dal predetto Giovanni) e Nicoluccio, «fedeli e devoti figli della Chiesa romana», fu stipulato a Montecalvo il 13 aprile 1290: FRANCHI, Nicolaus papa IV cit., pp. 176-177. I due documenti sono riprodotti nel Quinternone dell’Archivio comunale di Ascoli Piceno: Il Quinternone di Ascoli Piceno, ed. G.M. BORRI, I, Spoleto 2009 (Fonti documentarie della Marca medievale, 3), pp. 126-127, n. 37; 129-134, n. 39.
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23; le clarisse Montanea (sorella di Riccardo e Giovanni) e Margherita (già moglie di Giovanni) presero l’abito, rispettivamente, in Santa Maria delle Donne51 e in Sant’Angelo Magno, nel 1295 e nel 1322-2352. Le cappelle di fondazione nobiliare del San Francesco di Ascoli si irraggiano intorno al capocroce: due su ciascuna ala del transetto, tre in corrispondenza delle absidi terminali. Nella cappella dell’abside destra del presbiterio, patrocinata dalla famiglia Saladini, si osserva tuttora il sepolcro monumentale di Nicoluccio di Giacomuccio, già deceduto nel 1407, presente nel 1356 nel novero degli oratori del Comune durante la stipula del trattato di concordia tra Ascoli e il legato della Marca, Egidio Albornoz, presso la residenza anzianale ubicata al momento nel Palazzo
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51 La chiesa custodisce tuttora una tomba ad arcosolio della nobile famiglia, databile al primo quarto del sec. XIV. L’affresco di buona fattura che la correda (una Crocifissione con Madonna, San Giovanni Evangelista e due Santi), di recente attribuito al Maestro del Polittico di Ascoli (E. ZAPPASODI, La decorazione della chiesa di Santa Maria delle Donne ad Ascoli e alcune osservazioni sulla pittura del Trecento nel Piceno, «Arte cristiana», 100, 868 (2012), pp. 1-13: 2-3, ma io vi scorgerei piuttosto un collaboratore o un affine), presenta in basso l’immagine di un defunto in probabile abito francescano, vegliato dal corteo dei personaggi della scena principale. La figura non è del tutto leggibile, ma escluderei che si tratti di una clarissa, e tanto più della stessa Montanea (come ipotizza S. PAPETTI, La chiesa di Santa Maria delle Donne: un palinsesto della pittura trecentesca ad Ascoli Piceno, in Civiltà urbana e committenze artistiche cit., pp. 145-160: 150), vista la mancanza del manto e del velo, senza pensare alla rinuncia di ogni pur flebile suggerimento di femminilità nella resa del corpo. In ogni caso, è stato giustamente notato che le monache di clausura non avevano diritto a tombe personali (ZAPPASODI, La decorazione cit., p. 8, nota 12), e per giunta, a questa altezza cronologica, un monumento funebre a una nobildonna doveva davvero costituire un unicum (una riflessione in tal senso è stata offerta da E. Neri Lusanna in sede di presentazione degli Atti Civiltà urbana e committenze artistiche cit., Ascoli Piceno, 30 novembre 2013). D’altro canto, l’immagine del religioso defunto vegliato dai Santi o dagli Angeli, e magari circondato dai confratelli, si attiene a una convenzione iconografica riscontrabile in altri contesti, e chiama in causa figure canonizzate o personaggi morti in odore di santità (si veda ad esempio il Transito di Ugo da Fontaine in Sant’Agostino di Fabriano, attribuito al Maestro di Sant’Emiliano, risalente al secondo decennio del sec. XIV: F. MARCELLI, Devozione e propaganda agostiniana, in Il Maestro di Campodonico. Rapporti artistici fra Umbria e Marche nel Trecento, cur. MARCELLI, Camerano 1998, pp. 164-178: 176, figura 19). A questo punto, non escluderei che in Santa Maria delle Donne sia stata offerta la versione sintetica di un Transito di san Francesco, senza i confratelli e con il Crocifisso sovrastante nella funzione del Cristo in gloria. Non si sarebbe sottolineata meglio la dedizione della nobile famiglia all’immagine del Poverello. Volendo d’altronde accettare l’idea, più calzante, del gisant, non è da escludere che il defunto raffigurato, un dinasta in grado di eleggere liberamente sepoltura, magari identificabile con Nicoluccio Guiderocchi, abbia deciso di indossare il saio dei Francescani in punto di morte. 52 R. GIORGI, Le clarisse in Ascoli, Fermo 1968, pp. 95-99.
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dell’Arengo53. È evidente, in definitiva, che le sette cappelle disponibili fossero sin dal principio affidate al patronato delle maggiori famiglie locali, come si osserva ad esempio nel coro di Santa Maria Maggiore a Barletta, il cui progetto risale agli anni 1288-129254. Tali famiglie, quindi, sia quelle appartenenti al ceppo delle cosiddette famiglie consolari, sia quelle che avevano acquisito uno statuto di nobiltà in tempi più recenti, contribuirono all’erezione della chiesa ascolana così come possiamo osservarla55, dato che il suo attuale assetto aveva preso avvio nel 1290-9556, su un nucleo ori-
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SALVI, Iscrizioni medievali cit., p. 80. In una data imprecisata, ma compresa in questo lasso di tempo (sono gli anni del pontificato di Niccolò IV), trentasei cittadini facoltosi fecero una donazione al fine di ingrandire e abbellire la chiesa. L’opera fu poi completata grazie a un’indulgenza concessa da papa Clemente V (1307). Per metterne a fuoco la particolarità occorre palesare il ruolo esercitato da Giovanni Pipino da Barletta, lo sterminatore dei saraceni di Lucera, visti i suoi rapporti con Napoli e con lo stesso Carlo II. Importanti inoltre appaiono i legami con le tradizioni artistiche locali, oltreché una probabile suggestione degli stili adottati nella Roma duecentesca, con particolare riguardo al deambulatorio adottato in San Giovanni in Laterano grazie a Niccolò IV. Il terreno su cui la chiesa era edificata apparteneva d’altronde ai canonici lateranensi, e nel 1290 l’arciprete del capitolo locale proveniva proprio da Roma. Cfr. C. BRUZELIUS, ‘A Torchlight Procession of One’. Le choeur de Santa Maria Maggiore de Barletta, «Revue de l’Art», 125 (1999), pp. 9-19, in particolare alle pp. 16-17 per i riferimenti a Roma; BRUZELIUS, Le pietre di Napoli cit., pp. 189-193. 55 Il nesso tra il finanziamento dei cantieri e l’acquisizione dei diritti di sepoltura (estesi agli avelli esterni, nel caso di Ascoli e in molte altre chiese conventuali) è un tema centrale nella genesi di questi edifici: cfr. C. BRUZELIUS, I morti arrivano in città: predicare, seppellire e costruire. Le chiese dei frati nel Due-Trecento, in Architettura, pittura e società tra Medioevo e XVII secolo, cur. C. BOZZONI - A. DE AMICIS, Roma 2011 (Colloqui d’architettura, 2), pp. 11-48; BRUZELIUS, Preaching, Building and Burying. Friars in the Medieval City, New Haven-London 2014. È probabile che le strutture interrate del capocroce del San Francesco di Ascoli fossero pertinenti a una progettata cripta di sepoltura, esclusivamente destinata ai laici, come in Santa Croce a Firenze (al cui riguardo cfr. BRUZELIUS, I morti cit., pp. 37-39). Se così fu, l’idea in Ascoli dovette essere abbandonata in corso d’opera, e l’elemento funerario trovò comunque piena attuazione nelle cappelle presbiteriali, in diretta e “scenografica” connessione con l’ambiente della sacra rappresentazione. Ad ogni modo, sia pure “tagliate” e tamponate, le strutture basali della chiesa ascolana vanno correlate alle soluzioni sostruttive di vari complessi absidali francescani (in San Francesco a Montereale, San Simone a Spoleto, San Francesco della Scarpa a Sulmona, ad esempio, dove si evidenziano “cripte” prive di funzione), e non possono in alcun modo giustificare la leggenda erudita di un primo progetto “romanico”. 56 MICOZZI, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno cit., pp. 202-203, ha messo in rilievo due concessioni di indulgenze a favore dei lavori della chiesa datate rispettivamente 1297 e 1298. Se a questo si aggiunge la predetta testimonianza della cappella di san Ludovico (1326), che implica il sia pur parziale completamento del capocroce, oltreché l’epigrafe funeraria dipinta di fianco alla porta di collegamento al chiostro, con la data 1311 (SALVI, Iscrizioni medievali cit., p. 82, n. 55) che può essere assunta come terminus ante
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ginario avviato nel 125857. La sontuosa e solenne edizione della chiesa francescana di Ascoli, scaturita a ridosso della grande svolta del 1294, racco-
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quem del piedicroce, la data di consacrazione (1371), tanto invocata per la datazione dell’edificio, perde tutto il valore di riferimento assoluto che le è stato arbitrariamente attribuito (d’altronde è pacifico che una cerimonia di consacrazione risponda a situazioni congiunturali che possono prescindere del tutto dallo stato d’opera del cantiere, tanto più in questo caso, visto che i matronei del capocroce saranno realizzati solo nel sec. XV: neanche nel 1371 la chiesa poteva dirsi del tutto compiuta). Utili agganci possono anche essere istituiti nell’ambito della realtà cittadina: lo stile del portale nord di San Giacomo (1290-1305) e del portale principale dei Santi Vincenzo e Anastasio (datato 1306), indica “in tempo reale” l’attecchimento del linguaggio della chiesa francescana in realtà architettoniche di ben altro impatto (per i due portali rimando alle analisi condotte da B. VECELLIO SEGATE, La chiesa di San Giacomo di Ascoli Piceno: architettura e decorazione, Università degli Studi di Macerata, Tesi di laurea, Anno Accademico 2004-2005, Relatore: Prof. G.A. VERGANI). D’altro canto la nuova facciata della chiesa delle Clarisse di Sant’Angelo Magno, eseguita nel 1292, si orienta a est, ribaltando il precedente orientamento canonico, in modo da rivolgersi in direzione dell’asse dell’attuale via del Trivio, proprio in ossequio alla chiesa dei Minori, affacciata sulla stessa direttrice (cfr. F. CAPPELLI, Sant’Angelo Magno: la chiesa delle badesse di San Michele Arcangelo, in Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno, città di travertino, Ascoli Piceno 2006, pp. 73-79: 77). Micozzi opta quindi con buone ragioni verso una datazione “alta” dell’edificio. Le sue considerazioni, estese inevitabilmente ai portali, che sono parte coesa della compagine edilizia, hanno subìto stroncature dai toni un po’ apodittici: GANGEMI, Ai confini del Regno cit., p. 117, alla nota 60, parla di cronologia «inappropriata»; G. CORSO, Scultura in pietra nella Marca meridionale: evoluzione e digressioni nei portali tardogotici, in Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del Maestro di Offida (secoli XIV-XV). Atti del Convegno di studio svoltosi in occasione della XXIII edizione del «Premio internazionale Ascoli Piceno», (Ascoli Piceno, 1-3 dicembre 2011), cur. S. MADDALO - I. LORI SANFILIPPO, Roma 2013, pp. 191-218: 203, spende qualche parola in più, ma la sostanza è la stessa: « […] non è sostenibile alla luce dei dati stilistici espressi dai corredi scultorei, né appare compatibile con le comuni tempistiche di un cantiere di simile portata». Ad ogni modo, l’Autrice non rileva in sede di analisi alcun elemento atto a giustificare una datazione avanzata del portale principale, salvo asserire che presenta, rispetto al portale su piazza, «una formulazione più matura, ormai pronta ad accogliere elementi stilistici del gotico tardo» (p. 204): ammesso che sia «ormai pronta», questi elementi del «gotico tardo» non li ha accolti affatto. Evidentemente, la nuova impostazione cronologica impone una revisione delle impostazioni storiografiche consuete, ancorate al presupposto che un’opera sia da considerarsi “tarda” se si propone in forme e misure ambiziose entro contesti “periferici” (secondo definizioni spesso basate sulle referenze odierne, e che richiederebbero maggiore cautela in prospettiva geostorica). Per queste e per le altre considerazioni che verranno sinteticamente proposte di seguito, al fine di offrire al lettore i dovuti approfondimenti, rimando al mio saggio Cultura artistica tra Due e Trecento in un lembo dell’Italia centroappenninica, che sarà disponibile on-line all’indirizzo https://independent.academia.edu/FurioCappelli (pubblicazione prevista: dicembre 2017). 57 Non è possibile determinare aspetto e dimensioni della chiesa nella sua prima fase, ma si può supporre, entro i limiti imposti dalle tradizioni locali, un’architettura ben aggiornata. Nel mio saggio Cultura artistica cit., evidenzio che la chiesa di Santa Maria delle Donne, già intorno al 1250, offre una coesa interpretazione del rapporto tra clausura e spazi
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glieva l’eco del pontificato dell’ascolano Niccolò IV58, e si qualificava come un grande polo di rappresentanza, con l’autorevolezza di una basilica. E,
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liturgici, suggerendo interessanti paralleli con le solenni chiese delle Clarisse di Napoli, come Santa Chiara (fondata nel 1310), per la presenza del coro delle monache (oggi scomparso) in asse al presbiterio, dietro la parete di fondo della tribuna, con un’oblunga monofora inferriata di comunicazione (oggi murata). Non vi sono naturalmente implicazioni reciproche di sorta tra Ascoli e la capitale partenopea, ma è anche evidente l’indipendenza del caso ascolano nei riguardi delle analoghe soluzioni riscontrabili a L’Aquila, a Gagliano Aterno e a Sulmona. Mutatis mutandis, persino il sepolcro dei Guiderocchi sopra citato, ubicato nella navata aperta ai laici, fa da “contraltare” all’arca di Maria d’Ungheria in Santa Maria Donnaregina a Napoli, ultimata intorno al 1326: un parallelo, questo, privo di implicazioni sostanziali, ma utile a riconoscere la consapevole valenza aristocratica della chiesa ascolana, in linea con il rapporto tra Francescani e società cittadina messo in atto nella chiesa dei Minori nella sua fase definitiva. E. ZAPPASODI, Santa Maria delle Donne e le Clarisse ad Ascoli Piceno, «Commentari d’arte», 18/51 (2012), pp. 6-17: 9, suppone che l’edificio sia da considerare una preesistenza riadattata di matrice benedettina, ma non sussistono prove in tal senso, e non è affatto attestato in loco un preesistente cenobio maschile. Senza dubbio molte chiese damianite sono sorte adattando contesti preesistenti, non necessariamente monastici, ma questo non implica un principio assoluto riguardo al permanere di tali realtà pregresse, tanto più che le chiese stesse potevano essere ricostruite ex novo in una fase storica secondaria dell’insediamento, come ritengo sia accaduto in Ascoli, all’incirca vent’anni dopo la sua fondazione, che si situa intorno al 1232. Inoltre, la struttura a due piani risponde a una tipologia ampiamente diffusa nell’edilizia duecentesca del territorio, anche in ambito residenziale (si veda il cosiddetto Palazzetto Longobardo di Ascoli), e non ha quindi una specificità “benedettina” e “maschile”. In ogni caso, a parte l’attenzione per gli spazi di clausura, variamente disposti e combinati, è difficile rimarcare uno stile specifico nell’architettura delle Clarisse, che non si distingue agevolmente dalle corrispettive realtà femminili di ambito benedettino e cistercense: cfr. C. BRUZELIUS, Nuns in Space: Strict Enclosure and the Architecture of the Clarisses in the Thirteenth Century, in Clare of Assisi: A Medieval and Modern Woman. Clarefest Selected Papers, cur. I. PETERSON, New York 1996 (Clare Centenary Series, VIII), pp. 53-74: 57. 58 FRANCHI, Nicolaus Papa IV cit., p. 185, ricorda che nel medesimo convento, attestato già nel 1257, ebbe modo di risiedere il futuro pontefice, quando era ancora un giovane francescano, e sottolinea: «È verosimile l’ipotesi di un aiuto finanziario concesso dal pontefice ascolano per un più rapido prosieguo dei lavori della chiesa e del convento, non ancora terminati verso la fine del ’200, mentre è certo che il papa inviò preziose reliquie della Santa Croce e di San Francesco ai frati, concedendo anche una particolare indulgenza il 17 aprile 1290, di cui ancora si conserva la pergamena». In modo ben meno cauto, G. MICOZZI, San Francesco in Ascoli Piceno: un’ipotesi di committenza, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca cit., pp. 209-220, contando su talune analogie stilistiche (condivisibili) e su una lettura in chiave iconologica, non esita a riconoscere in papa Niccolò il committente della chiesa ascolana, e in Arnolfo di Cambio il probabile progettista. Tornerei alla posizione del Franchi, fermo restando che doni di reliquie e concessioni di indulgenze erano in linea con uno stile di relazioni riscontrabile nei riguardi di svariate sedi francescane. Opto dunque per l’ipotesi di un interessamento “esterno” del papa al cantiere, che era comunque gestito dalla cittadinanza ed era già stato avviato, sia pure con diversi piani, nel 1258. C’è da chiedersi, piuttosto, se, in merito alla chiesa ascolana, avesse potuto avere un ruolo di media-
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mentre sul lato sud rivolto alla strada principale si para un ingresso monumentale che si rifà all’illustre modello campionese della Porta Regia del duomo di Modena59, le tre porte della facciata sfoggiano un linguaggio aulico e classicista davvero sorprendente in un episodio di architettura francescana. Nello stesso periodo si realizza il nuovo assetto di San Francesco della Scarpa a Sulmona (1290-94), forse grazie anche al diretto sostegno di re Carlo II60. Già il Gavini aveva sottolineato le formidabili rispondenze tra il coro di Ascoli e quello della chiesa abruzzese, giungendo alla felice conclusione che le due chiese fossero «consorelle»61. L’elegante concetto di com-
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zione tra il papa e le istanze della città il vicario Stefano Colonna durante la podesteria assunta in Ascoli (1 giugno-31 dicembre 1288), visto che la potente famiglia di appartenenza, evidentemente sensibile all’eloquio dell’arte, curò l’ultimazione del cantiere intrapreso da Niccolò IV in Santa Maria Maggiore. Ma sul personaggio in questione non possediamo indicazioni in tal senso. 59 ZAPPASODI, Persistenze romaniche cit., pp. 281-284. L’Autore aderisce alla datazione “alta” avanzata dal Micozzi e riconosce nell’esemplare ascolano il capofila di una serie di portali francescani del Piceno, tra i quali l’esemplare di Montefiore dell’Aso, datato 1303 e pertinente a un convento della custodia ascolana, piuttosto significativo perché legato alla memoria del cardinale Gentile da Partino, che lì mosse i suoi primi passi da frate minore e lì dispose la sepoltura dei propri genitori: il pregevole monumento funebre a loro dedicato segue di pochi anni il portale ed è dovuto, nelle sue parti aniconiche, alla stessa maestranza (ibid., pp. 286-290). CORSO, Scultura in pietra cit., p. 203, non si pronuncia sull’eventuale priorità del portale di Ascoli Piceno, collocato con abbondante prudenza «entro la metà del XIV secolo». Segnalo una proposta di retrodatazione del monumento di Montefiore agli anni 1305-1308, dichiarata inattendibile la data 1310 generalmente condivisa, attestata da un’epigrafe tardiva: L. PALOZZI, Talenti provinciali. Il cardinale francescano Gentile Partino da Montefiore e un’aggiunta alla scultura umbra del Trecento, in Civiltà urbana e committenze artistiche cit., pp. 241-274: 263. Riguardo al caso di Montegiorgio, laddove il portale è datato 1325 e firmato dal m° Zallo, è stato evidenziato un legame con il convento capocustodia di Ascoli anche su un altro versante: gli affreschi quattrocenteschi della Cappella farfense, ispirati alla leggenda della Vera Croce, secondo B. BAERT, Gli affreschi della Cappella farfense a Montegiorgio (ca. 1425). Una leggenda della vera croce nelle Marche, «Arte Cristiana», 89, 804 (2001), pp. 219-233, per il fatto che offrono spazio alle Stimmate di san Francesco, rendono omaggio alla reliquia del sangue delle stimmate stesse conservata nel convento ascolano, tra i doni di papa Niccolò IV (cfr. MICOZZI, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno cit., p. 201). 60 Cfr. BRUZELIUS, Le pietre di Napoli cit., p. 85, nota 92; CARLETTINI, Le storie di san Ludovico da Tolosa cit., p. 38. 61 I.C. GAVINI, Storia dell’Architettura in Abruzzo, II, Pescara 19802 (prima ediz.: Milano-Roma 1927), p. 234: «[…] il San Francesco di Sulmona al tempo del secondo Angioino spiegò in modo più vasto e solenne l’organismo gotico, specie nel presbiterio che, per le sue absidi poligonali, ricorda così da vicino la chiesa consorella di Ascoli Piceno». Non posso in questa sede scendere nel dettaglio delle analisi, ma vorrei sottolineare che il punto forte di comunanza è dato dal raffinato rigore e dalla politezza dell’impaginato mura-
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pattezza, imponenza e linearità, che unifica i due complessi presbiteriali, non è infatti la risultante di un reciproco rapporto di ascendenza/derivazione62: la contemporaneità dei due cantieri manifesta bensì una condivisione di concetti generali che avevano per così dire attecchito in modalità analoghe sulla base di presupposti culturali ed economico-sociali ricchi di addentellati: il senso dell’eredità dell’antico (nel caso abruzzese legato al retaggio della cultura federiciana, nel caso di Ascoli immerso nei caratteri di una secolare specifica identità urbana); la ricchezza e la vivacità di una economia manifatturiera e mercantile ben affermata, omaggiata dall’ampio ingresso che anche a Sulmona qualifica il fianco dell’edificio rivolto alla maggiore arteria cittadina. Lo splendido portale centrale di facciata del San Francesco di Ascoli risponde a una tradizione locale ed è al tempo stesso allineato a un concetto innovativo e autorevole dell’ingresso monumentale, aprendosi alle varie declinazioni della romanitas che erano elaborate sotto il segno della Roma papale o che si rifacevano piuttosto al linguaggio trionfale dell’architettura federiciana. Riguardo al tralcio di chiaro sapore antico che corre lungo i piedritti (Fig. 4) e lungo l’archivolto (Fig. 3), è opportuno richiamare il paragone istituito da Gino Micozzi63 con i girali osservabili sulla fascia che corre sotto i clipei con severi busti di Profeti e Apostoli negli affreschi del
rio, che è un tratto tipico dell’architettura à l’italienne promossa da Carlo II. Al di fuori dell’ambito francescano, il gusto della griglia a lacunari, di evidente spirito classico, contraddistingue la facciata ascolana dei Santi Vincenzo e Anastasio (1306) in significativa assonanza con il portale del transetto sud di San Domenico (già Santa Maria Maddalena) a L’Aquila (una fondazione di Carlo II avviata nel 1309: riguardo al portale, cfr. BRUZELIUS, Le pietre di Napoli cit., pp. 133-134). Nell’uno e nell’altro caso riemergono tradizioni di lungo corso improntate sulla rinascita dell’antico: nell’ambito del Regno, si pensi alla volta di sottopassaggio a cassettoni osservabile nel campanile del duomo di Napoli (1233), messa in rilievo da BRUZELIUS, Le pietre sono parole cit., pp. 156-157; BRUZELIUS, Le pietre di Napoli cit., pp. 101-102. 62 Per via di una visione consuetudinaria (da ultimo CORSO, Scultura in pietra cit., p. 204), il coronamento orizzontale della facciata del San Francesco di Ascoli è associato ai prospetti tipici dell’architettura abruzzese tardomedievale, il che risulta funzionale a una datazione avanzata dei portali oltreché a una loro “dipendenza” dalla scultura architettonica del Regno. In realtà la facciata, già aperta al centro da un oblungo finestrone archiacuto (l’oculo attuale è un’inserzione arbitraria del secolo scorso), prevedeva in origine un tradizionale coronamento a spioventi, come è reso evidente dalla lettura del paramento murario (cfr. MICOZZI, La chiesa di San Francesco di Ascoli Piceno cit., p. 201). La soluzione attuale, maturatasi verosimilmente in pieno Quattrocento, quando lo schema orizzontale trova attecchimento in Ascoli a opera dei maestri lombardi (si vedano San Pietro in Castello e la vicina Sant’Agostino), non ha quindi alcun rapporto con l’assetto due-trecentesco. 63 MICOZZI, San Francesco in Ascoli Piceno cit., pp. 215-216.
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transetto di Santa Maria Maggiore, eseguiti intorno al 1297 su interessamento dei cardinali Pietro e Giacomo Colonna sulla base del piano decorativo predisposto da Niccolò IV, attribuiti in passato a Giotto o a Filippo Rusuti, ora ricondotti agli influssi del cantiere assisiate64. La fantasia si basa su fiori a petali nervati a tracciato pentagonale e rientra, come evidenzia Serena Romano65, nel repertorio duecentesco dell’Urbe. Si riscontra ad esempio anche nei cantari che affiancano l’Incoronazione della Vergine nella sagrestia dell’abbazia cistercense dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane (1280-90)66 (Fig. 6). E una tardiva irradiazione di questi motivi si rinviene nei tralci che decorano il solenne portale della cattedrale di Teramo (Fig. 7), realizzato intorno al 1332 con l’apporto del maestro romano Deodato di Cosma su commissione del vescovo Archeoni, anch’egli di provenienza romana67. Tornando all’esemplare ascolano, l’anfora di squisito realismo pompeiano che si trova alla base dei girali (Fig. 5) si può paragonare per lo spirito anticheggiante che la pervade con i vasi68 che sono raffigurati alla base dei tralci fioriti nei dipinti nel Sancta Sanctorum (Fig. 8), voluti da papa Niccolò III (1277-80), esempio da manuale di quello stile palatino papale («a new palatine style for the papacy and the papal court in Rome»69) evi-
64 Da ultimo, LEONE DE CASTRIS, Pietro Cavallini cit., p. 37, con riferimento ai dipinti che «il giovane Giotto e la sua “bottega” assisiate doverono realizzare a parer mio nei primissimi tempi del pontificato di Niccolò IV (1288-92)». 65 S. ROMANO, Eclissi di Roma. Pittura murale a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V (1295-1431), Roma 1992, p. 58. 66 Per un’analisi dei dipinti e una cronologia al nono decennio ancorata all’abbaziato di Martino (1283-1306): I. QUADRI, La Natività e l’Incoronazione della Vergine nella sacrestia dell’Abbazia delle Tre Fontane, in S. ROMANO, Il Duecento e la cultura gotica, Milano 2012 (La pittura medievale a Roma, 312-1431. Corpus, V), pp. 353-357. 67 F. ACETO, La Cattedrale di Santa Maria e San Berardo, in Teramo e la valle del Tordino, dir. L. FRANCHI DELL’ORTO, I, Pescara 2006 (Documenti dell’Abruzzo Teramano, VII/1), pp. 262-288: 274-279; F. GANDOLFO, Il senso del decoro. La scultura in pietra nell’Abruzzo angioino e aragonese (1274-1496), Roma 2014, pp. 137-143. 68 In merito a questi elementi, S. ROMANO, Il Sancta Sanctorum: gli affreschi, in Sancta Sanctorum, Milano s.d. [1995], pp. 38-125: 45-48, osserva: «i grandi vasi, […] che sono certo dipinti con grande sicurezza e senso monumentale, non mostrano la preoccupazione di rispecchiare una precisa tipologia classica, e sembrano invece la versione aulica delle anfore e dei crateri disseminati in gran quantità nei rilievi dei sarcofagi […]». 69 W. TRONZO, On the role of antiquity in medieval art: frames and framing devices, in Ideologie e pratiche del reimpiego nell’Alto Medioevo, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XLVI (Spoleto, 16-21 aprile 1998), II, Spoleto 1999, pp. 1085-1111: 1104.
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denziato da William Tronzo in una prospettiva che lega concettualmente una simile ricerca del passato alla Roma del Rinascimento70. I leoni dell’esemplare ascolano (Fig. 9), completamente ignorati fin qui dalla critica, rispondono a un’idea compositiva rinvenibile nel castello federiciano di Prato (iniziato nel 1237) (Fig. 10), oltreché a Castel del Monte e si riallacciano al classicismo della corte sveva anche da un punto di vista figurativo, vista la loro espressione vivace e scattante e la sensibilità plastica dei dettagli (Figg. 11-13). La matassa delle ciocche (Fig. 14) si sviluppa infatti secondo uno schema classico, per così dire realistico, mediato da una sensibilità gotica, attenta alla resa simmetrica delle forme, con risultati che si allineano bene ai modi rinvenibili nel leone superstite della celebre Porta di Capua (1234-39)71 (Fig. 15). I preziosi capitelli marmorei che, staccati dalla parete, sostengono i leoni stessi, quasi suggerendo l’idea di un arredo liturgico, rivelano ulteriori agganci con la cultura artistica coeva, su più fronti. L’esemplare aniconico (a destra) (Fig. 16), con il motivo delle volute prominenti, “mosse dal vento” perché orientate in un sol verso, dal basso verso l’alto, mostra evidenti parallelismi di schema con l’arredo della tomba di Adriano V in San Francesco a Viterbo (1276) (Fig. 17), attribuita da Joachim Poeschke ad Arnolfo di Cambio72, o con un esemplare dell’abbaziale cistercense di San Galgano (Fig. 18), databile intorno al 127073: si
70 Ibid., p. 1107: «Through the frescoes of the late-thirteenth century in the Sancta Sanctorum to the Loggia of Raphael, the trajectory of this art can be traced, and so too its means, in an ever widening and deepening search for the past which we might call archeology». 71 Per il quale rimando a S. SILVESTRO, Figura di leone, in Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti. Catalogo della mostra (Roma, 22 dicembre 1995-30 aprile 1996), Roma 1995, p. 235. 72 J. POESCHKE, Arnolfo tra Siena e Roma. Verso una nuova sintesi di stili nella scultura italiana del Duecento, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca cit., pp. 149-156. Non potendo in questa sede approfondire l’analisi, in tema di monumenti arnolfiani mi limito a ricordare l’aderenza del portale ascolano allo schema del gable gattonato con apertura polilobata centrale (come a San Paolo fuori le mura, 1285), schema peraltro omaggiato da Giotto nel trono del sultano che figura nella scena assisiate della Prova del fuoco. 73 P. PUGLISI, Componenti federiciane in San Galgano, in Federico II e l’arte del Duecento italiano. Atti della III Settimana di Studi (Roma, 15-20 maggio 1978), cur. A.M. ROMANINI, I, Galatina 1980 (Storia dell’Arte, I), pp. 379-389, ha per prima rilevato un gruppo di capitelli di San Galgano, tra cui quello qui richiamato, che andavano ricollegati al cantiere del duomo di Siena e al ruolo lì svolto da Nicola Pisano, evidenziando un influsso dell’Italia meridionale. La successiva sistemazione critica di A. MIDDELDORF KOSEGARTEN, Sienesische Bildhauer am Duomo Vecchio. Studien zur Skulptur in Siena, 12501330, München 1984, pp. 35-68, implica la posticipazione delle cronologie proposte dalla Puglisi e una diversa valutazione delle componenti stilistiche. I capitelli della navata del
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tratta di un modello classicista già attestato in Castel del Monte, e che si ritrova declinato con forte preziosismo e varietà di dettagli negli stessi pulpiti di Nicola Pisano, che della Puglia era oriundo, a Pisa (1260) e a Siena (1265-68)74. L’esemplare figurato (a sinistra) (Fig. 19), con il motivo degli uccelli becchettanti frutti di melograno, secondo un’antichissima formulazione iconografica dei temi paradisiaci, deriva dai capitelli di forte evidenza visiva tipici dei chiostri e degli arredi liturgici. Sulla base di archetipi suntuari di probabile origine bizantina, la formulazione trovò un particolare sviluppo in area campana, dove sin dal sec. XII si riscontra la tipologia dell’uccello becchettante che poggia sul fogliame dei caulicoli. Di qui i riferimenti d’obbligo al pulpito maggiore del duomo di Salerno (completato nel 1180), all’intervento di maestri campani nel chiostro siciliano di Monreale (completato intorno al 1185) (Fig. 20) o al pulpito del duomo di Caserta Vecchia (1213 circa) (Fig. 21). Anche questo tema, grazie alla ramificazione verso la Toscana della cultura classicista del Mezzogiorno, ebbe modo di essere sviluppato in realtà di tutt’altro segno come il duomo di Siena75. Ascoli si colloca così nel mezzo di questa logica di rapporti tra le due Italie76.
duomo di Siena presi a raffronto si datano ora tra il 1265 e il 1290 circa, e i capitelli “nicoliani” di San Galgano vanno posti nei primi anni 1270 e nel decennio 1280-90: quest’ultima ripartizione cronologica si basa sulla rilettura di F. GABBRIELLI, La chiesa dell’abbazia di San Galgano, II. Stereotomia degli archi e maestranze, «Archeologia dell’architettura», 5 (2000), Supplemento ad «Archeologia medievale», 26, pp. 25-62: 55-58. Secondo la Middeldorf Kosegarten, inoltre, Pisa e il gotico transalpino hanno avuto un ruolo ben più determinante in Nicola rispetto alle componenti federiciane e cistercensi del suo ambiente di formazione. Certo è, comunque, che questo bagaglio fornì allo scultore un’ottima base per potersi imporre in Toscana, laddove ebbe certamente modo di arricchire le proprie competenze e il proprio linguaggio. 74 POESCHKE, Arnolfo tra Siena e Roma cit., p. 154. 75 Lo si ritrova infatti in un capitello interno della chiesa come pure nello stesso pulpito di Nicola Pisano, a ulteriore testimonianza della connessione tra l’arte del Regno e la Toscana del Duecento. Vero è che anche oltralpe il tema degli uccelli becchettanti è sviluppato nella decorazione dei capitelli. Si veda il caso del Lettner della Marienkirche di Gelnhausen, databile agli anni 1240-1250. È tuttavia evidente che il motivo si sviluppa su una linea diversa, sull’onda di un autonomo sviluppo in senso naturalistico del tema dell’arbor vitae, mentre il retaggio campano, classicista e bizantino, mantiene forte la sua presa anche negli splendidi capitelli nicoliani, laddove la componente “araldica” delle figure, subordinate alla struttura compositiva del capitello, rimane sostanzialmente indiscussa. 76 È plausibile che la formulazione del capitello ascolano abbia una comune radice con gli analoghi temi “paradisiaci” di taluni portali del Regno, sempre in ambito conventuale, databili tra il 1290 e il 1315: San Francesco della Scarpa a Sulmona (portale nordest), San Francesco a Lucera (portale sud), San Domenico a L’Aquila (portale del transetto nord), Sant’Agostino a Sulmona (oggi in San Filippo Neri). L’esemplare quattrocentesco della fac-
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Su un altro piano e su distanze più ravvicinate, non va taciuto il rapporto di proficui scambi tra Ascoli e la città regnicola di Amatrice, storicamente compresa nell’ager asculanus, e sfoggiante, nel portale della chiesa francescana (Fig. 22), un’evidente serie di rimandi pressoché palmari all’esemplare piceno. Il contrasto tra gli elementi che mostrano tali attinenze (Figg. 23-24) e le parti prettamente tre-quattrocentesche dell’attuale impaginato (Fig. 25), è dovuto a una parziale ricomposizione di un portale più antico, tardo-duecentesco o primo-trecentesco77, fedelmente basato sul modello ascolano78 e forse realizzato sulla scorta dei medesimi disegni progettuali79.
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ciata di San Francesco a Tagliacozzo, d’altro canto, sviluppa il motivo con modalità mutuate in modo evidente dal capitello ascolano. 77 Nel 1291 Niccolò IV concedeva un’indulgenza ai fedeli che si recavano presso la chiesa dei Francescani di Amatrice, ma non si può escludere il riferimento a un edificio provvisorio, vista la dedica a Santa Maria specificata nella bolla: cfr. GANGEMI, Ai confini del Regno cit., p. 98. Ad ogni modo, la chiesa che vediamo non è databile in blocco ai primi decenni del sec. XV, come parve al GAVINI, Storia dell’Architettura cit., III, p. 72, visto che al suo interno, sulla parete sinistra, presenta una Natività ad affresco sicuramente databile all’ultimo quarto del sec. XIV. Il portale minore di evidente fattura romanico-spoletina che si apre sulla stessa parete, è peraltro compatibile con una datazione al sec. XIII, e potrebbe essere stato ricomposto o reinserito in una nuova compagine muraria, come suggerisce la dicotomia dei materiali costruttivi. GANGEMI, Ai confini del Regno cit., pp. 107-108, rileva per primo questo elemento nella sua fattura romanica e nella diversità del suo materiale costruttivo rispetto alla parete di pertinenza, ma lo ritiene comunque databile all’epoca dell’edificio attuale, ascritto in modo condivisibile al «pieno Trecento». Quanto al portale della facciata, è sinora sfuggita a tutti gli studiosi la sua evidente natura composita, dovuta alla presenza sull’archivolto (Fig. 25), sui piedritti (Figg. 23-24) e sulla fascia capitellare di elementi di scultura architettonica di fine sec. XIII - inizi sec. XIV, reimpiegati in un contesto a tutta evidenza ascrivibile all’ultimo quarto del sec. XIV o agli inizi del sec. XV, come indicano le terminazioni dei pinnacoli e del timpano, di gusto flamboyant, o il gruppo scultoreo della lunetta (Fig. 25). Non potendo in questa sede riportare le analisi che sono alla base di questo assunto (rimando pertanto al mio Cultura artistica tra Due e Trecento cit.), mi limito a sostenere che, sulla base delle evidenze, la cronologia proposta dal GANGEMI (Ai confini del Regno cit., p. 108: «prossimo allo scorcio del secolo [XIV]») è condivisibile solo se riferita alla ricomposizione attuale. 78 Cfr. GAVINI, Storia dell’Architettura cit., III, p. 74; GANGEMI, Ai confini del Regno cit., p. 108; CORSO, Scultura in pietra cit., p. 206. 79 GANDOLFO, Il senso del decoro cit., pp. 292-298, nell’ambito di un’ampia analisi comparativa che non condivido nel merito e nel metodo, posticipa il portale amatriciano di San Francesco al Quattrocento avanzato, ritenendolo un complesso unitario derivato dall’esemplare locale di Sant’Agostino (datato 1428). Le diverse componenti del portale sabino riscontrabili ad Ascoli Piceno, anziché essere riconducibili al modello della città marchigiana, deriverebbero da maestranze itineranti attive in Abruzzo, e in seguito passate ad agire nel Piceno. L’esemplare ascolano, in base a questa ricostruzione, “scende” al primo quarto del Quattrocento per effetto di agganci a opere “tarde” da cui dipenderebbe, come il portale di Sant’Agostino di Atri. Per una dettagliata disamina di queste tesi e per le mie controdeduzioni rimando al mio saggio Cultura artistica tra Due e Trecento cit.
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Detto ciò, non voglio però sostenere l’ammissibilità di un ruolo del cantiere ascolano come capofila nei riguardi delle imprese di scultura architettonica fiorite in area abruzzese, tra Atri, Sulmona80 e Lanciano, ai tempi di Carlo II e di suo figlio Roberto, sebbene non escluderei che il portale del San Francesco di Ascoli abbia giocato un ruolo di riferimento ben oltre il caso di Amatrice81. Insisto bensì nel vedere l’emergere di casistiche che si impongono su più fronti a partire da un patrimonio condiviso, di valenza internazionale, veicolato da una trama di rapporti assai variegata sull’asse Toscana-Regno, a sua volta congiunta alla complessa dialettica che si stabilì alla fine del Duecento tra Roma, Firenze e Siena. Accanto agli elementi di culture locali e regionali tutt’altro che assopite è chiaro infatti l’emergere di un vocabolario di elementi ornamentali variamente declinati, autorevolmente sperimentato nei maggiori cantieri dell’epoca. Ed è chiaro che questo patrimonio condiviso, evidente nel frasario oltralpino dei fusti scolpiti o dei gable gattonati, gemmato chiaramente dall’universo delle cattedrali francesi, non può essere mai riconducibile a un’area specifica di diffusione o a un gruppo compatto e privilegiato di maestranze82. La logica
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Il portale di Sant’Agostino (già San Martino, oggi ricomposto in San Filippo Neri) a Sulmona (1315), dalla limpida e rigorosa impaginazione, secondo L. SERRA, Rapporti fra l’arte delle Marche e quella d’Abruzzo, «Rassegna Marchigiana per le arti figurative, le bellezze naturali, la musica», 9 (settembre 1930-ottobre 1931), pp. 161-162, è basato sul portale ascolano, sulla scia di una «schietta derivazione veneziana». La “dipendenza” di Sulmona da Ascoli è sostanzialmente smentita da un confronto diretto, che rivela elementi comuni, ma elaborati e risolti con sensibilità affatto diverse e autonome. Importante, a Sulmona, è la componente transalpina mediata da Napoli (cfr. GANDOLFO, Il senso del decoro cit., p. 95). Inoltre, senza scomodare matrici venete, è innegabile l’apporto di una vena classicista che filtra l’elemento ornamentale, e che rappresenta la base comune delle esperienze delle rispettive maestranze in opera nel Piceno e in Abruzzo. 81 Se, come sostengo, il portale di San Francesco è databile agli ultimi anni del sec. XIII, risalendo al più al primo decennio del sec. XIV, vi si può riconoscere un “libro di modelli” di scultura architettonica, i cui lemmi, rielaborati, amplificati e arricchiti, nel complesso e nel dettaglio, potevano dar vita a diverse declinazioni di ingressi monumentali trecenteschi, dall’esuberanza di intagli della maniera di Francesco Perrini (ad esempio nel Sant’Agostino di Lanciano) alla raffinata modulazione “classica” dei già citati portali di Sant’Agostino a Sulmona e del duomo di Teramo. Di fronte a tali casi, è difficile escludere che committenti e artefici fossero all’oscuro dell’esemplare ascolano, specialmente nella vicina città aprutina. Non si tratterebbe, beninteso, di un rapporto di passiva emulazione, ma della consapevolezza di un’opera autorevole che doveva essere studiata e “surclassata” in virtù di una naturale logica di competizione. 82 In assenza di dati documentari, non è possibile ricostruire con apprezzabile certezza il luogo di provenienza e il luogo di formazione di un maestro, anche se va di moda un certo determinismo in merito. In casi di “lingua franca”, come ad esempio nelle pitture tardoduecentesche di matrice o di ispirazione bizantina rinvenibili in area centroitalica, l’autore può
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stessa della diffusione, così capillare e variegata, fa vedere in scena un ampio numero di protagonisti di vario genere, anche all’interno di quelle grandi realtà che ci sembrano straordinariamente compatte, venute su in un sol getto tanto appaiono coese e avvincenti. Nel caso del cantiere del duomo di Orvieto, sappiamo che lo scultore senese Ramo di Paganello, giunto lì nel 1293 dopo un istruttivo viaggio in Francia, era a capo di una maestranza composta da umbri, marchigiani, romani e comaschi, oltreché da artisti che venivano dalla Francia, dalla Germania, dalla Fiandra, dall’Inghilterra, dalla Scozia e dalla Spagna83. Quegli stessi maestri potevano poi fare tesoro dell’esperienza svolta e contribuire alla diffusione di soluzioni tecniche e formali. Il marchigiano Giacomo Palmieri (di Palmerio), che completò il duomo di Fermo intorno al 1348, proveniva
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essere «umbro, toscano, veneziano, pugliese, o che altro» (P. SCARPELLINI, La chiesa di San Bevignate, i Templari e la pittura perugina del Duecento, in Templari e Ospitalieri in Italia. La chiesa di San Bevignate a Perugia, cur. M. RONCETTI - P. SCARPELLINI - F. TOMMASI, Milano 1987, pp. 93-158: 138, in riferimento al Trittico Marzolini di Perugia). Nel caso a suo modo “franco” del San Francesco di Ascoli, le coordinate stilistiche degli apparati scultorei conducono a esaltare le connessioni di ambito romano e di ambito umbro-toscano, senza nulla togliere alle suggestioni “regnicole”, oltralpine o lombarde, ed è quindi soltanto ipotizzabile che i maestri impegnati fossero stati reclutati in un ambito o in diversi ambiti dell’area centroitalica. Le loro diverse esperienze e competenze richiesero senza dubbio un capomastro, un presumibile scultore-architetto le cui responsabilità coinvolgevano anche le componenti puramente edilizie (su cui continuavano a esercitare un ruolo di primo piano i magistri de le prete, organizzati in una corporazione locale attestata negli Statuti comunali del 1377). Non a caso, la tradizione storica cittadina – caso unico in tutta la realtà dell’architettura monumentale ascolana del Medioevo – ci affida per il San Francesco la memoria di un architetto, Antonio Vipera (o Della Vipera), non documentato allo stato attuale ma non per questo da considerare alla stregua del mitico Pietro Cozzo – ossia Coso – fondatore del Palazzo della Ragione di Padova. Inutilmente “retrocesso” a un ipotizzato progetto originario della chiesa, in stile “romanico”, il Vipera è stato accantonato a favore di fra’ Bevignate, le cui competenze architettoniche sono peraltro dubbie [cfr. P.-Y. LE POGAM, Les maîtres d’œuvre au service de la papauté dans la seconde moitié du XIIIe siècle, Roma 2004 (Collection de l’École Française de Rome, 337), pp. 69-72, anche con riferimento all’attribuzione ascolana, giustamente cassata], e, da ultimo, è stato persino chiamato in causa Arnolfo di Cambio, come si è visto in precedenza. Anziché operare attribuzioni arbitrarie, il dato della tradizione (che si riferisce alla chiesa in sé, e non a una sua fase specifica) va a mio parere rispettato, ipotizzando magari un apprendistato del Vipera (o di chi per lui) presso cantieri e ambienti di prestigio, a prescindere dalla sua attestata “ascolanità”, magari acquisita in seconda battuta. D’altro canto, se è vero che il Vipera apparteneva a una nobile famiglia del contado, non si può escludere che fosse un sovrintendente privo di competenze tecniche e artistiche (anche Dante ha ricoperto un incarico del genere: LE POGAM, ibid., p. 71). 83 G. TIGLER, Orvieto 1284-1334. Le sculture della parte bassa della facciata, in La facciata del duomo di Orvieto. Teologia in figura, Cinisello Balsamo 2002, pp. 12-24: 12-13.
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forse da questo stesso cantiere, come ipotizza il Tigler, identificandolo con lo scultore Giacomo di Camerino, attestato a Orvieto nel 132584. Camerte è quel frate Giacomo che, d’altronde, collaborò come musivaro con Jacopo Torriti nell’abside di San Giovanni in Laterano85. Così, mentre nel 1332 un romano poteva lavorare a Teramo, un francescano di Camerino nel 1291 era all’opera presso la cattedrale di Roma. Nel caso di Ascoli è d’obbligo immaginare un apporto di maestri forestieri difficilmente identificabili come area di provenienza, ma sicuramente compartecipi di una stagione di straordinaria floridezza, equamente condivisa nel Regno e nello Stato della Chiesa e in un rapporto di intelligente dialettica con la realtà cittadina. Si configura così un quadro interregionale che vede proficua connessione tra i due Stati nell’ambito politico-culturale, con un forte protagonismo del francescanesimo su entrambi i versanti in modo tale da favorire un clima di concordia e di rinnovamento, oltreché un diffuso consenso verso l’orientamento angioino-papale nel contesto delle società cittadine. Nel caso di Ascoli Piceno, questo particolare clima determinò un’opera monumentale con investimenti considerevoli e coinvolgimenti di maestranze qualificate di diversa provenienza, in linea con le strategie di lavoro messe in atto nei grandi cantieri centroitalici della fine del Duecento86.
84 G. TIGLER, Il Duomo di Fermo, in Umbria e Marche cit., pp. 239-280: 252. Accanto a lui figura un altro camerte, Palmerius, il presumibile padre. 85 I due personaggi camerti (il Giacomo attivo a Orvieto e il frate attivo a Roma) vengono accomunati in più occasioni, anche per via del fatto che il cantiere umbro era stato avviato (ma si potrebbe dire meglio: cooptato) da papa Niccolò IV: A. TOMEI, Iacobus Torriti pictor. Una vicenda figurativa del tardo Duecento romano, Roma 1990, p. 146 nota 3; TOMEI, La committenza artistica di Niccolò IV, primo papa francescano, «Ikon», 3 (2010), pp. 23-34: 24; A. MONCIATTI, L’arte nel Duecento, Torino 2013 (Mappe, 6), p. 167. In realtà il Giacomo attestato a Orvieto nel 1325 era un laico: cfr. TIGLER, Il Duomo di Fermo cit., p. 275 nota 43. 86 La consegna del testo precede gli eventi sismici del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, che hanno tragicamente coinvolto la città di Amatrice. Il portale di facciata del San Francesco si è in parte smembrato, perdendo molti elementi dell’inquadratura. A titolo di aggiornamento mi limito a segnalare: C. FRUGONI, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, Torino 2015, pp. 152-178 (per la committenza dei dipinti della navata in riferimento a papa Niccolò IV); C. BRUZELIUS, Predicare, costruire, seppellire. Gli ordini mendicanti e la morte, in Territorio, insediamenti e necropoli fra tarda antichità e alto Medioevo, cur. C. EBANISTA - M. ROTILI, Napoli 2016, pp. 591-602: 596-597 (citazione del San Francesco di Ascoli Piceno).
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Fig. 1 - Simone Martini, San Ludovico di Tolosa, 1317 ca., tempera e oro su tavola. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
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Fig. 2 - Simone Martini, Il cardinale Gentile da Partino si inginocchia al cospetto di san Martino, secondo decennio del sec. XIV, affresco. Assisi, Basilica inferiore di San Francesco, Cappella di San Martino
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Fig. 3 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 12951310. Pinnacolo di sinistra, con statua di san Francesco al sommo, e dettaglio dellâ&#x20AC;&#x2122;archivolto. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
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Fig. 4 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata. Dettaglio del lato sinistro con inquadramento pensile, piedritto e strombatu-
ra. Foto dell’Autore
Fig. 6 - Roma, Abbazia dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, Sagrestia. Particolare del cantaro che affianca l’Incoronazione della Vergine, affresco, 1280-90
Fig. 5 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata. Base del piedritto destro con il girale che fuoriesce dall’anfora. Foto dell’Autore
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Fig. 7 - Deodato di Cosma, portale di facciata della Cattedrale di Santa Maria e di San Berardo a Teramo, 1332. Dettaglio del piedritto destro
Fig. 8 - Roma, Palazzo del Laterano, Cappella del Sancta Sanctorum. Dettaglio della decorazione parietale con vaso da cui fuoriesce un girale e uccelli becchettanti, affresco, 1277-80
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Fig. 9 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 1295-1310. Leone stiloforo di sinistra, visione di fianco. Foto dell’Autore
Fig. 10 - Prato, Castello federiciano. Dettaglio del portale di ingresso con leone in aggetto, 1234 ca.
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Fig. 11 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 1295-1310. Leone stiloforo di sinistra, visione di fronte. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
Fig. 12 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata. Leone stiloforo di sinistra, visione dal basso. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
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Fig. 13 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata. Leone stiloforo di destra, visione dal basso. Foto dell’Autore
Fig. 14 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata. Leone stiloforo di destra, dettaglio del manto. Foto dell’Autore
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Fig. 15 - Capua, Museo Provinciale Campano. Leone frammentario proveniente dalla Porta di Capua, 1234-39
Fig. 16 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 1295-1310. Capitello destro dellâ&#x20AC;&#x2122;inquadramento pensile. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
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Fig. 17 - Arnolfo di Cambio (attr.), Tomba di papa Adriano V, 1276, Viterbo, San Francesco. Capitello sinistro dell’inquadramento pensile
Fig. 18 - San Galgano, chiesa abbaziale, capitello con foglie “mosse dal vento”, 1270 ca.
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Fig. 19 - Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 12951310. Capitello sinistro dellâ&#x20AC;&#x2122;inquadramento pensile. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
Fig. 20 - Monreale, cattedrale, chiostro monastico. Capitello binato con uccelli becchettanti, 1180-85
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Fig. 21 - Caserta Vecchia, duomo. Pulpito, capitello con uccelli becchettanti, 1213 ca.
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Fig. 22 - Amatrice, San Francesco. Veduta del portale di facciata, fine sec. XIV-inizi sec. XV, con elementi ricomposti databili agli anni 1295-1310. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
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Fig. 23 - Amatrice, San Francesco. Portale di facciata, dettaglio di base del piedritto e della strombatura del lato destro, con elementi ricomposti databili agli anni 12951310. Foto dell’Autore
Fig. 24 - Amatrice, San Francesco. Portale di facciata, dettaglio di base del piedritto del lato sinistro, con elementi ricomposti databili agli anni 1295-1310. Foto dell’Autore
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Fig. 25 - Amatrice, San Francesco. Portale di facciata, gruppo scultoreo della lunetta raffigurante la Madonna in trono col Bambino tra due Angeli omaggianti, fine sec. XIV-inizi sec. XV. Foto dellâ&#x20AC;&#x2122;Autore
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Frati minori e istituzioni politiche cittadine nellâ&#x20AC;&#x2122;Italia comunale*
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Far constatare l’apparente contraddizione tra particolarismo comunale e universalismo francescano può ormai apparire l’antifona canonica con cui può e deve introdurre le sue argomentazioni chiunque voglia provarsi a parlare di frati Minori e Comuni nell’Italia del tardo medioevo. Da tale constatazione partivano già le riflessioni proposte da Stanislao da Campagnola in occasione di un convegno eugubino del 19681, e sempre da lì muovevano, trent’anni dopo, le considerazioni su frati Minori e società locali proposte da Antonio Rigon nel fortunato volume di Einaudi su Il primo secolo di storia francescana, uscito due decenni fa2. Da un lato i frati Minori, portatori di aspirazioni ideali e di forme organizzative non riducibili all’ambito locale, dall’altro le società urbane fortemente protese alla ricerca di identità particolari e che, negli istituti comunali, accentuano la propria volontà di autonomia. La relazione che fatalmente si instaurò tra questi due protagonisti è apparsa dunque, agli occhi degli storici, appuntarsi anzitutto su questa dialettica tra universalità e particolarismo. Dialettica non scontata, specie negli esiti, dato che – si usa constatare – essa non si risolse affatto in sistematico conflitto, ma anzi diede occasione a un incontro particolarmente intenso. Un incontro che,
* L’intreccio tra le vicende personali di chi scrive e quelle redazionali di questo volume, le une e le altre non prive di difficoltà, fa sì che il mio testo mantenga, nel complesso, la forma del contributo proposto oralmente in occasione del Convegno, con la sola integrazione in apparato dei riferimenti bibliografici essenziali. Ringrazio qui i curatori per averlo atteso ed accolto nel volume, ancorché privo degli approfondimenti che auspicavo di compiere. 1 STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Gli ordini religiosi e la civiltà comunale in Umbria, in Storia e arte in Umbria nell’età comunale. Atti del VI Convegno di studi umbri (Gubbio, 26-30 Maggio 1968), Gubbio 1971, pp. 469-532. 2 A. RIGON, Frati minori e società, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997, pp. 259-281.
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se su un piano generale portò rapidamente i frati ad affermarsi ovunque come una delle componenti tipiche, imprescindibili e, in certo modo, costitutive della città bassomedievale, nel peculiare contesto dell’Italia centrosettentrionale vide i frati imporsi anche come interlocutori usuali dei Comuni cittadini. I quali di essi si interessarono come e spesso più che a tutte le altre strutture religiose attive nel contesto urbano; che i frati accolsero come collaboratori nel funzionamento dell’amministrazione comunale; e i frati cercarono spesso come sostenitori, e talora nondimeno si trovarono come avversari, nel perseguimento delle loro iniziative politiche. Da qui dunque si usa partire e anche oggi, perciò, si riparte da qui, o, meglio, da ciò che il nodo di quella apparente contraddizione ci dice oggi, alla luce di qualche decennio di produzione storiografica indubbiamente ricca tanto nella ricostruzione di concreti svolgimenti locali quanto sul piano dell’interpretazione complessiva da dare agli esiti di quella relazione: esiti leggibili e letti ora in termini di progressiva e più o meno piena ‘integrazione’ (o anche ‘assimiliazione’) del minoritismo agli orizzonti e ai valori della città, ora, invece, in termini più dialettici, se non altro perché – insegnava già trent’anni fa Grado Merlo3 – «esistono una serie di scambi e nel contempo di autonomie, dovuti al fatto che i Minori – e più in generale gli ordini mendicanti – riflettono sulla realtà e comunicano alla società i risultati della riflessione, cercando di tradurli in proposte con finalità ordinatrici». Chiarisco subito che su quest’ultima linea interpretativa si pone, evidentemente, anche questo mio tentativo di gettare uno sguardo sulla vastissima e talora contraddittoria molteplicità di forme in cui la “vitale reciprocità di rapporti” tra frati Minori e istituzioni comunali si espresse nelle città dell’Italia centrosettentrionale tra Due Trecento. Ma come procedere? Qui non posso che far mie due riflessioni avanzate nel 1985 da un altro celebrato maestro in un suo intervento su
3 Faccio qui riferimento alle riflessioni proposte da Grado Giovanni Merlo nelle Conclusioni in Esperienze minoritiche nel Veneto del Due-Trecento. Atti del convegno nazionale di studi francescani (Padova, 28-30 settembre 1984), «le Venezie Francescane», n.ser., 2 (1985) [Padova-Vicenza 1986], pp. 173-176. A p. 176 è l’inciso citato in testo, riferito al complessivo rapporto tra minoritismo e città, che Merlo invitava a leggere in futuro anzitutto come rapporto dialettico. Nell’auspicio per il superamento di letture troppo lineari dello svolgersi di quel rapporto, ridotto spesso nelle interpretazioni al più o meno lento spegnersi dalla novitas delle origini nell’approdo al “minoritismo assimilato” trecentesco, esplicito era allora il riferimento alla nozione – appunto di ‘minoritismo assimilato’ – avanzata da Giorgio Cracco nel precedente incontro su Minoritismo e centri veneti nel Duecento, e poi riproposto nella presentazione dell’incontro del 1984 (ivi, p. 8)
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Comuni e frati Minori – in quel caso dell’Umbria meridionale4. Scriveva dunque Attilio Bartoli Langeli: «Un intervento come questo è condannato in partenza a pencolare tra due opposti: da un lato l’accumulazione di notizie concrete, di schede documentarie» su singoli episodi, «dall’altro la proposizione di giudizi o spunti di rilevanza generale». Imboccando senza esitazione la seconda strada egli propose allora un prezioso «inventario delle questioni fondamentali che pone alla ricerca storica il rapporto tra comuni e frati Minori e alla luce delle quali interpretare i dati documentari»5. Riprenderemo inevitabilmente nelle prossime pagine più d’una delle questioni fondamentali messe in luce da Bartoli trent’anni fa; questioni delle quali gli studi condotti da allora in poi non hanno certo esaurito le potenzialità di stimolo alla ricerca e di orientamento all’interpretazione. Vorrei dunque iniziare facendo mio il suo invito a cogliere davvero la specificità della relazione tra frati Minori e Comuni: «per non slargarla indebitamente – diceva – e distinguerla dalla relazione dei Minori col complesso della realtà cittadina, di cui il Comune è una soltanto delle forme, determinante, certo, ma non totalizzante», visto che «accanto e niente affatto dentro il Comune figurano altre componenti, altre istituzioni (episcopato e clero locale, presenze regolari, i lignaggi, le associazioni private, il papato) appoggiandosi alle quali i frati realizzano la loro vocazione urbana»6. Ora questo rapporto specifico tra frati e istituzioni comuni si gioca – mi sembra – su due livelli distinti, sebbene interconnessi. Un primo livello è quello che vede le comunità dei frati, fin dall’inizio della loro presenza in una città, divenire oggetto – oggetto non certo passivo – dell’interesse e dell’azione delle istituzioni comunali. Le quali, nell’esercizio delle loro specifiche competenze, possono (– è l’aspetto più comune e vistoso –) individuare i frati come destinatari di elemosine, occasionali o rese stabili da precise disposizioni statutarie, possono fornire loro mezzi, agevolazioni e talora spazi per la costruzione delle prime sedi stabili e poi di nuovi e più grandi conventi cittadini, possono stabilire norme che li tutelino o, come accade molto spesso, li favoriscano sul piano procedurale, in primis nel recupero dei legati pii. O, ancora, i Comuni possono nominare procuratori che per conto dei frati agiscano, anche in giudizio, a tutela dei loro interessi;
4 A. BARTOLI LANGELI, Comuni e frati minori in Il francescanesimo nell’Umbria meridionale nei secoli XII e XIV. Atti del V Convegno di studio (Narni-Amelia-Alviano, 23-25 maggio 1982), Narni 1985, pp. 91-101. 5 Ibid., p. 91. 6 Ibid., p. 93.
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oppure accade che i Comuni individuino le chiese e i conventi dei frati come luogo deputato alla conservazione delle scritture comunali, o alla riunione di consigli o magistrature, alla regolamentazione, mediante il suono delle campane, di particolari momenti della vita politica o, addirittura, militare della città. Ma, mentre il volume e la portata dei rapporti tra frati e istituzioni comunali si ingrossa nel suo rapido scorrere attraverso il Duecento, il fluire della relazione non può non incontrare resistenze e punti di frizione. Il segno delle relazioni, dunque, non è sempre e solo positivo: può accadere dunque, ed accade, che il Comune cittadino entri in conflitto coi frati, non di rado in accordo con i vertici ecclesiastici cittadini, anche laddove magari la cattedra vescovile è occupata da un frate: succede in relazione a progetti di trasferimento e inurbamento dell’insediamento minoritico, come qui ad Ascoli dove evidente è la resistenza non solo passiva opposta dal Comune attorno al 1257 al progetto del nuovo convento, osteggiato anche dal vescovo e dal clero7. Inoltrandosi poi verso il Trecento, che si inneschi il conflitto succede anche e soprattutto in relazione a due nodi cruciali e spesso tra loro collegati: cioè da un lato l’attivismo dei titolari dell’officium fidei in città e, dall’altro, il delicato tema dell’azione economica, talora spregiudicata, che i frati Minori portano avanti, gestendo, di sotto al velo sempre più liso e trasparente delle formule occultatorie, patrimoni immobiliari e capitali finanziari connessi alle disposizioni testamentarie e alle loro esecuzioni. Due esempi paradigmatici ne sono, in area veneta, da un lato lo scontro – indagato da Daniela Rando – che nei primi anni Sessanta del Duecento vede a Treviso il vescovo Alberto – anch’egli frate minore – e il Comune con lui solidale opporsi all’azione dell’inquisitore francescano fra Bartolomeo della Marca8, e dall’altro la ben nota vicenda culminata nei primi anni del Trecento cui si lega la redazione del Liber contractuum dei frati Minori di Padova e di Vicenza, indagata da Antonio Rigon9.
7 Cfr. A. RIGON, Conflitti tra comuni e ordini mendicanti sulle realtà economiche, in L’economia dei conventi dei Frati Minori e Predicatori fino alla metà del Trecento. Atti del XXXI Convegno Internazionale (Assisi, 9-11 ottobre 2003), Spoleto 2004, pp. 339-362: 346. 8 Cfr. D. RANDO, Minori e vita religiosa nella Treviso del Duecento, in Minoritismo e centri veneti nel Duecento, cur. G. CRACCO, Trento 1983, pp. 63-91: 85-90. 9 Cfr. l’edizione della fonte in Il «Liber contractuum» dei frati minori di Padova e di Vicenza (1263-1302), edd. E. BONATO - E. BACCIGA, pref. A. RIGON, Roma 2002 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 18); Più in generale cfr. RIGON, Conflitti tra comuni e ordini mendicanti cit.
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L’altro piano su cui si dispiega il rapporto tra francescani e Comuni è quello che vede i frati non solo ‘interagire con’, ma più direttamente ‘agire negli’ apparati istituzionali ed amministrativi dei Comuni cittadini. Questo può accadere nei ruoli di vertice – con frati presenti accanto ai rettori, ai podestà, ai consigli cittadini in veste di consiglieri, ispiratori di norme, supervisori di accordi e trattati di pace, o addirittura, in casi eccezionali e da sempre segnalati, con frati che assumono più o meno formalmente la conduzione della politica cittadina – come tutti sappiamo accadere nel 1233 a Verona, a Parma, a Bologna, e in altre città ancora10: tema che sarà necessariamente affrontato più avanti. Ma questo accade anche – ed in modo più diffuso, più feriale e più durevole nel tempo – soprattutto ai livelli più bassi dell’amministrazione comunale: accade cioè che i Comuni affidino determinati incarichi amministrativi, gestionali o diplomatici ai frati Minori. Ai frati Minori ora in quanto tali, cioè al convento cittadino che può o deve deputare alcuni frati, ora in quanto persone, cioè a certi frati, in ragione delle competenze culturali o tecniche di cui dispongono, delle cariche prestigiose che ricoprono, o anche del loro specifico retroterra familiare o delle loro personali posizioni politiche. Le fonti restituiscono, in tal senso, attestazioni dell’affidamento a certi frati di ruoli come sovrintendenti ad opere pubbliche, specie connesse alla conduzione delle acque, tanto nella fase di progettazione quanto in quella di gestione del cantiere; funzioni di controllo su aspetti specifici dell’amministrazione, come l’approvvigionamento, o la redazione e la tenuta dei catasti o – ma questo per i Minori è fatto più eccezionale – la tenuta contabile della Camera Communis o altri compiti dell’amministrazione finanziaria dell’erario comunale. E poi, in una gamma intermedia tra questi due livelli, compiti di ambasceria e procura, non solo a livello alto e ad alto contenuto politico – come nel caso di frati legati per nascita o radicamento alla città che, avendo fatto carriera altrove, in primis presso la curia romana, svolgono per il Comune compiti di mediazione o informazione diplomatica – ma anche a livello più basso: penso al caso, frequente e ben attestato già nella prima metà del Duecento, dei frati scelti come procuratori e nuntii del Comune per la scelta e l’ingaggio del futuro podestà o rettore cittadino. Almeno due riflessioni si impongono a conclusione di questa prima rapida carrellata, che serve se non altro a dar conto della vasta morfologia 10
Cfr. A. VAUCHEZ, Una campagna di pacificazione intorno al 1233. L’azione politica degli ordini mendicanti secondo la riforma degli statuti comunali e gli accordi di pace, in VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana. XIII-XV secolo, Milano 1990, pp. 119-161 (già «Mélanges de l’École française de Rome», 78 [1966], pp. 503-549).
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in cui si esprime fra Due e Trecento quella che abbiamo definito – recuperando una felice formula di Antonio Rigon – la “vitale reciprocità di rapporti” tra frati Minori e comuni. In sé non ha molto senso, del resto, né dà molto frutto, l’aver stilato un tale elenco di forme, peraltro tutte da tempo censite e variamente mappate in tipologie più o meno esaustive da affondi analitici o da sintesi su più o meno estesi ambiti locali: ultimamente, ad esempio, Andrea Czortek ne ha fornito una presentazione sistematica per l’Umbria11, che è senz’altro uno dei contesti più indagati, grazie a una tradizione di studi che passa da Stanislao da Campagnola12, ad Anna Imelde Galletti13 a Giovanna Casagrande14, ad Attilio Bartoli Langeli. Per l’intera Italia comunale, delle reali occorrenze nelle fonti di queste diverse espressioni è pressoché impossibile, a mio avviso, fornire un quadro d’insieme che non sia mera tassonomia, che non riduca la nostra percezione della relazione tra frati e Comuni a un’immagine statica e patinata, in cui risulterebbe impossibile seguire il divenire di mutamenti significativi, scorgere diversità e contrasti che diano profondità e movimento alla nostra comprensione. Ogni vicenda, ogni attestazione documentaria, parla davvero solo se letta nel suo peculiare contesto, che ogni semplificazione tipologica finisce per mortificare. Se non possiamo qui inoltrarci nel groviglio dei casi e dei contesti concreti, possiamo tuttavia porre alcune questioni di taglio generale. Se l’esistenza e il carattere ordinario di queste forme di collaborazione del mondo francescano con i governi comunali del Due e del Trecento è un dato acquisito, ormai entrato a far parte di quanto di più accertato esista nella ricerca storico-religiosa sull’età di mezzo, assai meno metabolizzata è, invece, l’acquisizione di un’altra evidenza: quella della natura molto più varia e corale delle appartenenze regolari dei religiosi che, in tante città, si trovano ordinariamente coinvolti nel funzionamento degli apparati amministrativi dei governi comunali del tardo Medioevo. È quanto emerge con tutta evidenza, ad esempio, dalle ricerche coordinate da Frances
11 A. CZORTEK, Frati Minori e comuni nell’Umbria del Duecento, in I Francescani e la politica (secc. XIII- XVII). Atti del Convegno internazionale di studi (Palermo, 3-7 dicembre 2002), cur. G. MUSOTTO - A. MUSCO, 2 voll., Palermo (2007), pp. 237-270. 12 STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Gli ordini religiosi e la civiltà comunale in Umbria cit. 13 A.I. GALLETTI, Insediamento e primo sviluppo dei Frati Minori a Perugia, in Francescanesimo e società cittadina. L’esempio di Perugia, Firenze 1979, pp. 1-44. 14 G. CASAGRANDE, Religiosi a servizio del Comune: Perugia secoli XIII-XIV, «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 104/2 (2007), pp. 253-284.
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Andrews e Maria Agata Pincelli e confluite nel recente volume su Uomini di chiesa e governo cittadino nell’Italia tardomedievale. Casi e contesti15. Nata dalla volontà di verificare l’interpretazione del fenomeno fornita nel 1978 da Trexler16, in un suo lavoro ‘seminale’, sui religiosi assoldati come funzionari dalla repubblica di Firenze, l’indagine coordinata dalla Andrews – anche al di là dei limiti metodologici e dell’indubbia ricchezza che puntualmente, gli uni e l’altra, sono stati rilevati nelle conclusioni interpretative che offre17 – ha l’indubbio merito di aver reso evidente come in molti grandi centri urbani dell’Italia padana e centrale18 non solo decolli, tra la metà del Duecento e i primi decenni del Trecento un arruolamento frequente, in certi casi massiccio, di religiosi professi e di penitenti in uffici amministrativi e, talora, in ruoli-chiave dell’apparato burocratico comunale, ma soprattutto come questi provengano solo in parte, e spesso in minima parte, dai maggiori ordini mendicanti, mentre un ruolo primario viene svolto, accanto ai fratres de penitentia, dai monasteri cistercensi, dagli Umiliati, dai Silvestrini, da altre famiglie religiose legate alla tradizione monastica o assistenziale di impianto più o meno recente, oltre ovviamente che dagli ordini mendicanti o mendicanti-apostolici cosiddetti minori. Religiones novae, dunque e non solo novae, in una coralità di presenze e realtà che richiama, e insieme invita a superare, quel popolato panorama di esperienze religiose evocato da un noto passo dei Fragmenta del notaio Ogerio Alfieri, il quale, celebrando negli ultimi anni del Duecento, l’espansione urbanistica, economica e sociale della sua città – Asti – la descriveva
15 F. ANDREWS - M.A. PINCELLI, Churchmen and Urban Government in Late Medieval Italy, c.1200-c.1450: Cases and Contexts, Cambridge 2013. 16 R.C. TREXLER, ‘Honor among Thieves’: The Trust Function of the Urban Clergy in the Florentine Republic, in Essays Presented to Myron P. Gilmore, cur. S. BERTELLI - G. RAMAKUS, Firenze 1978, pp. 317-334. 17 Discutendo l’apprezzato volume, Maureen C. Miller («The Medieval Review», [2015], Rewiews n. 15.01.04) rileva come «some conceptual and analytical problems emerge across the twenty chapters» e tra questi segnala da un lato la diseguale attenzione che i diversi contributi hanno nel distinguere tra i differenti profili (sociali e canonistici) dei ‘churchmen’ coinvolti negli apparati comunali (chierici e laici, secolari e regolari, professi e conversi, semireligiosi etc) e, dall’altro, la oggettiva difficoltà di cogliere e misurare la reale portata di questi diversi coinvolgimenti: «no shared standards to measure the extent of communal employment of religious inform the volume». 18 I contesti urbani direttamente presi in esame dai vari contributi riguardano: Cremona, Parma, Piacenza, Modena, Venezia, Verona, Bergamo, Lucca, Pistoia, Perugia, Viterbo, cui si aggiungono i casi di Firenze, indagati da Trexler, e di Siena precedente oggetto di un lavoro preparatorio della stessa Andrews (Monastic observance and communal life: Siena and the employment of religious, in Pope, church and city: essays in honour of Brenda M. Bolton, Leiden 2004, pp. 357-383).
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come coronata tutto attorno dai conventi di esperienze religiose di recente impianto – «ornata religionibus novis per circuitum» – ed elencava un nutrito fascio di esperienze – ben 13 case religiose – che, nel loro insieme, venivano a rappresentare la vera nuova religione della città, anzi della cittàstato. Glossando quella fonte Grado Merlo già alcuni decenni fa19 metteva in guardia dalla deformazione prospettica che aveva invece talora portato, per il Veneto ad esempio, a individuare nel solo minoritismo il protagonista assoluto di tale nuovo assetto. «Le prevalenze – diceva – vanno accertate nel loro dinamico realizzarsi, non assunte come dato di partenza»20 come spesso ha fatto una attenzione storiografica indubitabilmente attivata proprio dall’interesse specifico per la realizzata egemonia conseguita dai frati Minori e predicatori nella Chiesa tardomedievale. Riferendo al nostro oggi quella lezione di metodo, non possiamo dunque non domandarci se – in un dominio specifico come quello oggetto della ricerca coordinata della Andrews, come in molti altri – sia davvero possibile individuare ancora una qualche ‘specificità minoritica’ nella relazione tra religiosi e governi comunali. Spesso la specificità minoritica può semmai essere cercata e trovata solo leggendo il negativo, nelle tracce che lascia l’assenza o la debole attestazione dei frati Minori e dei predicatori (e in subordine da quella fetta dell’ordo fratrum de Penitentia ad essi chiaramente riconducibile) in certi ruoli, aperti invece ad altri religiosi, anche mendicanti, come con chiarezza sembra avvenire in primis per la responsabilità della Camera Communis, ma anche in altri ruoli (legati alla gestione dell’annona, di grandi cantieri pubblici, delle prigioni) che andrebbero vagliati tipo per tipo. Osservazioni non dissimili da quelle sin qui condotte attorno alla necessità di appurare l’esistenza e comunque ri-definire i contenuti di una specificità minoritica alla luce di indagini territoriali coerenti e non di taglio pregiudizialmente francescanistico o mendicante, devono essere riproposte – e sollecitazioni in tal senso non sono mancate – anche per quanto riguarda l’interpretazione delle dinamiche insediative dei frati nel tessuto urbano e nella rete delle strutture ecclesiastiche cittadine, e – ciò che qui più interessa – del ruolo che in tali processi svolsero le istituzioni comunali.
19 G.G. MERLO, Minori e predicatori nel Piemonte del Duecento: gli inizi di una presenza, in Piemonte Medievale. Forme del potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 207-226 (poi in MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi 1991, pp. 151-172, part. per la fonte in questione pp. 167-169). 20 Ivi, p. 171.
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Se oggi appare evidente in sede storiografica la distorsione prodotta negli anni Settanta dall’enfasi che un certo filone guidoniano di studi21 aveva posto sulla pretesa progettualità dell’insediamento mendicante, accanendosi nella ricerca di ispirazioni simboliche e schemi geometrici sottesi alla dislocazione dei conventi e al loro rapporto spaziale coi centri del potere, finendo per smarrirsi nel groviglio di quella ‘fantageometria iconologica’ denunciata da Mario Sanfilippo già nel 198222, nondimeno, anche nei casi in cui le trasformazioni complessive della rete ecclesiastica e parrocchiale cittadina sono state meglio indagate molto rimane ancora da capire del ruolo svolto nel governo di quelle trasformazioni dalle istituzioni comunali, prima e dopo l’imporsi dei regimi di Popolo. Istituzioni comunali che le fonti mostrano spesso così attive, fra XII e XIII secolo, nell’offrire a molte nuove famiglie religiose, non solo ai frati Minori o ai mendicanti, luoghi ed aiuti per la costruzione dei loro insediamenti in determinate aree dello spazio urbano o di quello urbanizzabile. Insomma, indipendentemente dalle esplicite volontà e in misura più sistematica di quanto la documentazione stessa non lasci trasparire, le scelte insediative dei frati Minori e le scelte di politica urbanistica dei comuni cittadini si intrecciano, e lo fanno nel quadro di una più complessiva riorganizzazione del tessuto ecclesiastico cittadino che non è materia esclusiva dei vertici della chiesa locale, ma viene anche governata dalla politica comunale, come testimonia ad esempio, una norma del costituto senese dei primi anni del Duecento, che impone al Podestà di riunirsi periodicamente col vescovo per trattare e deliberare con lui «quomodo et qualiter plures ecclesiae fiant in civitate»23. Ma una corretta valutazione di come su questo terreno si esprima la dialettica tra istituzioni comunali e francescani non può essere fatta che alla luce di ricostruzioni complessive, che tengano conto di tutti gli attori in gioco: e questo è vero – paradossalmente – anche nei casi di più acclarato favore del governo comunale per l’insediamento dei francescani: si prenda
21 Cfr. E. GUIDONI, Città e ordini mendicanti. Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione urbana del XIII e XIV secolo, «Quaderni medievali», 4 (1977), pp. 69-105; si vedano inoltre i contributi raccolti in «Storia della città. Rivista internazionale di storia urbana e territoriale», 9 (1978), pp. 16-44. 22 M. SANFILIPPO, Il convento e la città: nuova definizione di un tema, in Lo spazio dell’umiltà. Atti del convegno di studi sull’edilizia dell’Ordine dei Minori (Fara Sabina, 3-6 novembre 1982), Roma 1984, pp. 327-341: 334. 23 La norma statutaria in L. ZDEKAUER, Il costituto del Comune di Siena dell’anno 1262, Milano 1897, I. 96, p. 48: cfr. M. PELLEGRINI, Chiesa e Città. Uomini, comunità e istituzioni nella società senese tra XII e XIII secolo, Roma 2004, p. 450.
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un caso eclatante, come quello di Cortona, dove la donazione da parte del Comune allo scomunicato Elia dell’area su cui sorgerà il grande convento cittadino, nel 1246, pur inscrivendosi in una solidarietà di chiaro contenuto politico, comporta comunque il coinvolgimento dei camaldolesi, da cui il Comune recupera parte delle superfici donate, e del clero locale e mira indirettamente alla soluzione di un problema di riqualificazione di un’area urbanistica cui fa non a caso riferimento anche una delle societates populi24. É dunque sempre all’interno del sistema di relazioni di cui localmente sono parte, più che di pretesi modelli di matrice francescana o mendicante, che vanno rilette tutte le emergenze documentarie che attestano il coinvolgimento delle istituzioni comunali nelle vicende insediative dei frati Minori, studiando nel loro insieme, e città per città, prassi particolari – come le concessioni a religiosi di aree nei cosiddetti Campi Marzi operate da diversi comuni veneti – o ordinarie, come la concessione di elemosine di stato ed il finanziamento pubblico di grandi e piccoli cantieri conventuali. Si spalanca così la possibilità di un cambiamento di prospettiva, che spinge verso analisi territoriali sistematiche e mirate a mettere a fuoco il ruolo non tanto dei frati Minori quanto anzitutto degli altri attori del panorama religioso cittadino, anche al fine di far emergere, per contrasto e in negativo, le specifiche forme “minoritiche” e “mendicanti” dell’interazione tra frati e istituzioni comunali. Prestare dunque attenzione, entro compiute ricostruzioni di contesti locali, alle evidenze negative anche per non correre più il rischio di enfatizzare il senso di talune attestazioni positive. E poi – passando dal metodo al merito – come non interrogarsi sulle ragioni dell’assenza o debole presenza dei due ordini mendicati maggiori, pur con tutto il loro radicamento urbano, da certe forme di coinvolgimento immediato e profondo nel funzionamento dell’amministrazione comunale, quale ad esempio la responsabilità della Camera Communis. Oltre e più che come meccanico effetto dal peculiare rapporto dei frati con la proprietà e il denaro, possiamo, mi sembra, leggere in tali assenze anche il portato di una inclusione nel tessuto ecclesiastico cittadino che per frati Minori e Predicatori non si realizza mai fino in fondo; e questo non per resistenze poste dalla realtà locali, ma piuttosto a causa della peculiare relazione di quelle presenze col papato, che – scegliendo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Duecento quei due nuovi ordini come cardine del suo
24 Cfr. M .PELLEGRINI, La Chiesa che perdonò Elia. Clero secolare, società, monaci e frati a Cortona nella prima metà del XIII secolo, in Elia di Cortona tra realtà e mito. Atti dell’Incontro di studio (Cortona, 12-13 luglio 2013), Spoleto 2014, pp. 181-212: 197.
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programma politico e pastorale di riforma della Chiesa e della società –li aveva sottratti ad ogni reale possibilità di piena inclusione in quelle stesse realtà25. Proprio il rapporto peculiare col papato rende ovunque i conventi domenicani e minoritici presenze necessarie per sentirsi ed essere realmente città, ma anche percepite come corpi mai solo e pienamente cittadini, mai incondizionatamente solidali con le iniziative politiche della civitas. Naturale dunque, che ne possa conseguire una loro debole o nulla presenza in quei ruoli fiduciari dell’amministrazione che più chiaramente esigono una disponibilità non condizionata a rendere tecnicamente operativi certi indirizzi della politica cittadina e magari esigono, per questo, la prestazione di impegnativi giuramenti d’ufficio. Siamo insomma al cuore di quella «duplice anima del francescanesimo locale, del convento urbano, per un verso direttamente legato alla sede apostolica, per l’altro composto di frati reclutati in città e che non dimenticano mai di essere cittadini»; siamo a quella «dialettica tra extraterritorialità e campanilismo» in cui Attilio Bartoli additava, forse, la chiave di volta interpretativa del rapporto tra Minori e istituzioni comunali26. Il rapporto privilegiato che, a partire dal pontificato di Gregorio IX e con sempre maggior chiarezza sotto i suoi successori, il papato instaura con i Minori e i Predicatori, è alla base anche di gran parte della conflittualità che opporrà il clero secolare a quei frati. Sono difatti proprio i privilegi in materia di esenzione, confessioni, sepolture, legati testamentari – privilegi giustificati ed imposti dal papato in ragione dell’utilitas pastorale dei nuovi ordini – che di fatto interdicono dall’alto ogni reale possibilità di negoziazione locale delle forme e dei limiti dell’inserimento locale dei frati nel tessuto delle strutture ecclesiastiche cittadine. La relazione peculiare con la Chiesa romana, e i privilegi che ne derivavano, mentre sottraggono Minori e Predicatori alla possibilità di una reale assimilazione, per altra via paiono determinare anche le forme in cui
25 Un tornante decisivo si colloca, in tal senso, nell’estate del 1231, quando Gregorio IX itera più volte l’invio a vescovi di Francia, Germania ed Italia, della Nimis iniqua e della Nimis prava, mandati coi quali il papa proibisce risolutamente ai prelati delle Chiese locali di esercitare anche sui frati quei diritti di controllo e d’ordine che venivano normalmente applicati nei confronti non solo del clero secolare, ma anche di tutti gli altri religiosi: Cfr. per questo M. PELLEGRINI, Itinerari dell’inserimento. Riflessioni su minoritismo e Chiese locali nella prima stagione francescana, in Il Francescanesimo dalle origini alla metà del secolo XVI. Esplorazioni e questioni aperte. Atti del convegno della Fondazione Michele Pellegrino (Università di Torino, 11 novembre 2004), cur. F. BOLGIANI - G.G. MERLO, Bologna 2005, pp. 71-111: 89-102. 26 Cfr. BARTOLI LANGELI, Comuni e frati minori cit., p. 99.
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si plasma l’interlocuzione tra frati e comuni cittadini. È ancora quella relazione, mi sembra, che porta i frati ad essere visti e a proporsi come riferimento naturale per l’esercizio di ben precisi compiti di garanzia costituzionale e di custodia sacrale di testi e momenti fondanti l’autorità stessa del Comune, specie all’indomani della stabile affermazione dell’ordine guelfo, cioè dagli anni Settanta del Duecento in avanti. Mi riferisco alla tendenza che vede proprio Minori e Predicatori, spesso in significativa compresenza, individuati come i più adatti a soprintendere ad operazioni delicate, più che complesse, come l’imborsamento, le estrazioni e gli abbinamenti nelle procedure per l’elezione di ufficiali e consiglieri, oppure la copia e la tenuta degli elenchi di alliramento, estimo, e ripartizione dei carichi fiscali, ma soprattutto della prassi assai diffusa che vuole custoditi presso il convento dei frati Minori e/o dei Predicatori gli iura communis, la parte cioè più solenne della documentazione comunale27, cui si è già fatto riferimento. A mio avviso, nello spiegare la diffusione abbastanza capillare di queste specifiche forme di collaborazione tra conventi mendicanti e Comuni,
27
Per un elenco, non certo esaustivo, dei casi attestati mi limito qui a riferire della conservazione dei privilegia Communis presso il convento dei Frati Minori a Verona (cfr. G.M. VARANINI, Per la storia dei Minori a Verona nel Duecento, in Minoritismo e centri veneti nel Duecento cit., pp. 92-125: 115). A Torino nel Trecento lo statuto prescrive la conservazione dello scrineum degli atti presso i Frati Minori (R. BORDONE, Ordini mendicanti, ibid., p. 528), a Treviso nel 1234 le due copie degli instrumenta communis sono conservate l’una dal podestà l’altra dai frati predicatori (D. RANDO, Minori e vita religiosa, ibid., p. 76), a Vicenza nel 1265 il comune conserva le copie dei suoi instrumenta presso i Predicatori e i canonici di San Marco (LOMASTRO, Appunti sulla fortuna dei Minori a Vicenza, ibid., p. 57), a Spoleto lo statuto comunale del 1296 dispone che tutti i libri del comune siano depositati nei campanili dei conventi dei frati Minori e dei frati Predicatori (CZORTEK, Frati minori e comuni cit., p. 250); ad Asti sono gli elenchi dei giurati del popolo ad essere conservati presso i conventi dei due maggiori ordini mendicanti (BORDONE, Ordini mendicanti cit., p. 527) A Siena sino almeno dalla metà del Duecento la custodia degli iura fu presso i frati predicatori, che conservarono per tutta l’età novesca anche i bossoli e le liste per l’estrazione bimestrale della signoria; tra il 1316 e il 1338 gli iura communis vennero invece spostati presso i frati Minori; uno scrineum degli iura comunali è però anche attestato presso l’Ospedale di Santa Maria della Scala fin dal 1373, quando vi viene depositato il nuovo ‘caleffo’, mentre solo nel 1453 vi vennero portate tutte le scritture del comune esistenti in San Francesco (cfr. Inventario generale del Regio Archivio di Stato in Siena. Parte prima [Diplomatico-Statuti-Capitoli], cur. A. LISINI, Siena 1899, pp. IX-X). Per la conservazione degli atti di Perugia presso i domenicani cfr. A. BARTOLI LANGELI, Le fonti per la storia di un comune, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV). Atti del congresso storico internazionale (Perugia, 6-9 novembre 1985), Perugia 1988, I, p. 14.
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non deve essere sottovalutato il ruolo che dovette svolgere la reiterata emanazione delle costituzioni papali contro l’eresia degli anni ’50 del Duecento28; costituzioni che in ben quattro punti impongono ai Comuni di cercare la necessaria collaborazione dei conventi cittadini dei Predicatori e dei Minori, e non di altri: il loro consiglio è prescritto, infatti, per la scelta dei 16 cittadini, tra ufficiali, notai e servitori, da mettere a disposizione dell’inquisitore, e per gestire le operazioni di vendita dei beni confiscati, mentre i loro conventi cittadini sono additati, accanto alla cattedrale e alla sede delle magistrature comunali, come i luoghi in cui vanno conservate in ogni città le quattro copie conformi tanto dell’elenco degli infamati d’eresia quanto delle stesse costituzioni papali29. Anche a prescindere dalla più o meno sollecita ricezione della Ad extirpanda negli statuti cittadini30, e dalla reale applicazione delle disposizioni in essa contenute, è comunque difficile sottovalutare il ruolo che tali mandati, comunque solennemente notificati a tutte le curie podestarili dell’Italia comunale, ebbero nel diffondere uno schema ideale, che additava proprio nei conventi cittadini dei Minori e dei Predicatori le strutture vocate all’esercizio di un ben preciso ruolo, che non a caso, credo, è proprio di affiancamento ai magistrati locali nella selezione del personale e di autorevole garanzia nella conservazione degli atti. L’invito, dunque, è a distinguere in modo accurato tra forma e forma di coinvolgimento nell’amministrazione e di interazione con le istituzioni del Comune, per cogliere davvero il senso di certe collaborazioni richieste e i perché della presenza o dell’assenza dei Minori in certi ruoli. Così anche appare di capitale importanza distinguere il senso di certe funzioni nei diversi contesti cronologici.
28 È il testo della lettera Ad extirpanda, di Innocenzo IV, del maggio 1252, poi ripresa da Alessandro IV (Ad extirpandam) del gennaio 1262 e da Clemente IV nel novembre del 1265. 29 È quanto disposto rispettivamente dalle leges III, XXV, XXVIII e XXXVIII della Ad extirpanda. 30 Cfr. sulla questione A. PADOVANI, L’inquisizione del podestà. Disposizioni antiereticali negli statuti cittadini dell’Italia centro-settentrionale nel sec. XIII, «Clio», 31/5 (1985), pp. 345-393. Cfr. M. VALLERANI, Procedura e giustizia nelle città italiane del basso medioevo (XII-XIV secolo), in Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Âge, Rome 1985, pp. 439-494: 463-465.
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Vorrei in proposito avanzare qualche riflessione su alcuni tratti peculiari che mi sembra assumere la relazione tra ordini mendicati e istituto podestarile in una ben precisa stagione, quella che va grosso modo dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Quaranta del Duecento. Si tratta di una stagione niente affatto omogenea quanto all’evoluzione interna della religio minoritica, che proprio in quegli anni vede anzi rapidamente compiersi «i passi decisivi della sacerdotalizzazione dell’ordine e della sua tendenziale omologazione alle altre figure di regolari, ed in particolare ai frati predicatori»31. Per cogliere un’immagine di come tale processi incidano anche nel rapporto tra frati Minori e autorità podestarile, basta richiamare l’immagine di due episodi pressoché coevi restituitaci dalle fonti: nel giugno del 1226 in una località tra Mantova e Cremona il domenicano Guala da Bergamo è uno dei cinque uomini di Chiesa che, per conto dei Comuni della Lega, presenziano all’incontro con i plenipotenziari imperiali per fissare i capitoli di pace da sottoporre all’imperatore32. Neppure un anno prima a Pisa, allora impegnata nella guerra con Lucca, il podestà faceva catturare e imprigionare per rappresaglia un frate minore di passaggio per Pisa solo in quanto nativus della città rivale: l’immediato intervento di condanna di Onorio III33 non cancella l’evidenza del fatto che, a quell’altezza cronologica, era ancora possibile ai bargelli di un podestà riconoscere più chiaramente la cittadinanza di un frate che la sua indubitabile appartenenza al novero delle persone religiose che il privilegium canonis sottraeva alla loro competenza. Una situazione neppure immaginabile solo cinque, dieci anni più tardi. Tanto basta per dare una misura sia delle diversità di partenza, sia dell’omogenità degli approdi della relazione di Minori e Predicatori con certi aspetti delle istituzioni comunali.
31 G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003, p. 153. 32 Cfr. A. PIAZZA, “Heretici ... in presenti exterminati”. Onorio III e “rettori e popoli” di Lombardia contro gli eretici, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 102 (1999-2000), pp. 21-42: 38 nota 49; G. ANDENNA, Guala, in Dizionario biografico degli Italiani, 60, Roma 2003, pp. 119-123. 33 G. SBARALEA, Bullarium Franciscanum, Roma 1759, I, p. 23, n. XXII. Cfr. M. RONZANI, Il francescanesimo a Pisa fino alla metà del Trecento, «Bollettino storico pisano», 54 (1985), pp. 38-42.
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Pressoché coeve nella loro origine e nel loro apogeo, l’istituto podestarile e la religio dei frati Minori si incontrano inevitabilmente fin da subito. Come ogni cittadino del primo Duecento Francesco conosce bene quell’istituzione, perno del nuovo modello di governo adottato dalle città italiche e le fonti testimoniano anche della sua personale consapevolezza del suo sistema di funzionamento e del suo personale giudizio su di essa:
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i demoni sono i castaldi del signore nostro: come il podestà spedisce il suo castaldo a punire un cittadino che ha commesso un reato, così il signore corregge e castiga coloro che ama per mezzo dei sui castaldi, i demoni esecutori della sua giustizia.
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Questo detto di Francesco, come è noto, si inserisce tra quelli la cui memoria, da ricondurre a Leone e agli altri socii, riaffiora per iscritto negli anni ’40 del Duecento e confluiscono nel Memoriale di Tommaso da Celano. L’episodio è quello contenuto nella celebre scena della permanenza di Francesco nella casa romana del cardinal Latino Brancaleoni e della sua verberatio da parte dei demoni: uno dei testi chiave per la ricostruzione della volontà di Francesco di intendere e proporre la sua personale potestas all’interno dell’ordine. L’argomentazione che la fonte pone allora in bocca a Francesco prosegue, in riferimento alla diversa natura dell’autorità che egli è chiamato ad esercitare: il mio incarico di governo dei frati è di natura spirituale, perché devo avere dominio sui vizi e correggerli, ma se non riesco a farlo con l’esortazione e l’esempio non posso certo trasformarmi in carnefice per battere e scudisciare i colpevoli, come fanno i governanti di questo mondo. Quelli che sgarrano ho fiducia nel Signore che saranno puniti dai nemici invisibili che sono i suoi castaldi, incaricati di castigare in questo secolo e nel futuro i trasgressori dei comandi di Dio34.
L’autorità podestarile è dunque letta da Francesco come paradigma di una autorità che si impone nel mondo in forme coercitive e violente, in modo legittimo certo, ma anche radicalmente altro rispetto al modo in cui Francesco interpreta e propone la sua potestas sui frati. È interessante notare come Francesco colleghi sempre l’esercizio di queste funzioni coer-
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Cfr. su questo R. RUSCONI, Francesco d’Assisi e la politica: il potere delle istituzioni e l’annuncio della pace evangelica, in I Francescani e la politica (secc. XIII- XVII). Atti del Convegno internazionale di studi (Palermo, 3-7 dicembre 2002), cur. G. MUSOTTO - A. MUSCO, 2 voll., Palermo 2007, pp. 909-924: 917-918.
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citive e punitive alla funzione dei diavoli, castaldi del Signore: e non è un caso se, appunto, di demoni e angeli sappiamo che Francesco avrebbe parlato nei due sermoni che avrebbe tenuto, a Bologna e ad Arezzo, in vista della pacificazione interna delle città35. La parola di pace che Francesco annuncia in quei discorsi trascinanti, che invitano le fazioni al reciproco perdono e alla riconciliazione, si contrappone dunque alla punizione violenta e alla vendicta, il cui monopolio spetta alla divina Potestas e ai suoi invisibili castaldi. È ben noto come un testimone del sermone bolognese di Francesco, l’arcidiacono Tommaso di Spalato36, riferisca che il modo di predicare dell’assisiate era allora impostato ad una modalità oratoria che egli assimila a quella propria della concio, cioè l’allocuzione esortativa di argomento politico e finalità civile37: messe di studi sull’eloquenza politica del Duecento italiano – a partire da quelli di Enrico Artifoni – hanno sottolineato la cosa e ci hanno insegnato a interpretarla38. È che in quegli anni, quelli del trionfo del sistema di governo podestarile e del definitivo strutturarsi del profilo professionale del rettore di città e dei flussi di circolazione degli ufficiali forestieri, è appunto in primo luogo nella concione che risiede, nel quadro dell’azione di governo messa in atto dai podestà all’interno delle città divise, la sola concreta alternativa al dispiegarsi dello scontro lacerante e violento tra le parti o le città rivali. I podestà sono dunque,
35 Per la predicazione bolognese si vedano i riferimenti alla testimonianza di Tommaso da Spalato di cui alla nota successiva; per quella di Arezzo, TOMMASO DA CELANO, Memoriale, I, LXXIV, 108 (FF695). 36 TOMMASO DA SPALATO, Historia Pontificum Salonitanorum et Spalatensium, in M.G.H., Scriptores, XXIX, ed. L. VON HEINEMANN, Hannoverae 1892, p. 580. 37 Cfr. E. ARTIFONI, Una forma declamatoria di eloquenza politica nelle città comunali (sec. XIII): la concione, in Papers on Rhetoric, 8 (=Declamation), ed. L. CALBOLI MONTEFUSCO, Roma 2007, pp. 1-27. 38 Cfr. in particolare E. ARTIFONI, I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, «Quaderni storici», 63 (1986), pp. 687-719: 698. Sulla predicazione bolognese di Francesco vedi poi C. DELCORNO, Origini della predicazione francescana, in Francesco d’Assisi e francescanesimo dal 1216 al 1226. Atti del IV convegno internazionale (Assisi, 15-17 ottobre 1976), Assisi 1977, pp. 125-160: 150-153. Cfr. inoltre ARTIFONI, Gli uomini dell’assemblea. L’oratoria civile, i concionatori e i predicatori nella società comunale, in La predicazione dei Frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300. Atti del XXII Convegno internazionale della Società di studi francescani, Spoleto 1995. Un aggiornamento sugli studi recenti su concioni e prediche in ARTIFONI, Egemonie culturali, parole nuove: i frati Minori in Boncompagno da Signa e Tommaso da Spalato, con una testimonianza di Guido Faba, in Frate Francesco e i Minori nello specchio dell’Europa. Atti del XLII Convegno internazionale di studi della Società italiana di studi francescani, Spoleto 2015, pp. 53-80: 56 nota 3.
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o almeno possono essere – oltre che il paradigma di una potestas terrena che si impone in forme violente, nella punizione del reo come nella sconfitta dell’avversario – anche lo strumento principe di una possibilità di pacificazione che passa attraverso la parola. A ben guardare è qui adombrato almeno in nuce, mi sembra, un elemento chiave del peculiare ma anche tormentato rapporto tra Minori e istituto podestarile nei decenni immediatamente successivi; quelli che fra gli anni Trenta e Quaranta del Duecento, mentre si avviano o si compiono alcuni di quei processi metamorfici che segnano – per dirla con Merlo39 – il ridefinirsi dell’esperienza francescana in termini di ‘minoritismo dominativo’, vedono deflagrare in ogni direzione tutto il potenziale esplosivo del legame tra francescanesimo e funzione podestarile: e avremo difatti, nel ’33, i frati che si fanno podestà nel vortice della magna devotio dell’Alleluja, ma anche, nel ’39, i podestà che – come quel Manfredi da Cornazzano di cui racconta frate Salimbene – si mettono alla guida delle processioni e tenendo il crocifisso in mano e seguiti da tutto il clero, predicano sulla passione di Cristo prima e allo scopo di fare pacem inter discordes40. Nel contesto della magna devotio del 1233, come è noto, l’assunzione diretta della carica e delle funzioni podestarili, è attestata per il domenicano Giovanni da Vicenza a Verona, per il minorita Gherardo da Modena a Parma41, mentre meno chiara è la natura della potestas ottenuta da Enrico da Milano a Vercelli42. Forse con la sola eccezione di Verona, si tratta in
39 Cfr. ora G.G. MERLO, La minorità di frate Francesco e il minoritismo dei frati Minori, in Francisco de Asís y el Franciscanismo. Visiones y revisiones, cur. M.D. FRAGA SAMPEDRO - M.L. RÍOS RODRÍGUEZ, Santiago de Compostela 2014, pp. 35-45 («Sémata. Ciencias Sociais e Humanidades», 26). 40 Cronica fratris Salimbene de Adam ordinis minorum, ed. O. HOLDER-EGGER, in M.G.H., Scriptores, XXXII, Hannoverae 1905-1913, p. 164. Cfr. A. RIGON, Desiderio di pace e crisi di coscienza nell’età di Federico II, in Federico II e la civiltà comunale nell’Italia del Nord. Atti del Convegno internazionale promosso in occasione dell’VIII centenario della nascita di Federico di Svevia (Pavia, 13-14 ottobre 1994), cur. C.D. FONSECA, Roma 2001, pp. 45-58: 53. 41 Rinvio in prima battuta all’attenta disamina dei casi proposta, nel quadro di una più ampia riflessione sull’assunzione dei compiti podestarili da parte dell’episcopato duecentesco, nel capitolo La variabile dell’alleluia: frati podestà e (arci) vescovi podestà dal 1233 al 1240, del bel volume di G. GARDONI, Vescovi podestà nell’Italia padana, Verona 2008, alle pp. 44-53. Qui anche i rinvii ai principali contributi sui casi specifici, tra i quali si vedano almeno: per Giovanni di Vicenza nelle città della Marca D. RANDO, Ad confirmationem cit., pp. 87-89; e per Parma ARTIFONI, I podestà professionali cit., pp. 697-698. 42 Cfr. A. VAUCHEZ, Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes», 78 (1966), pp. 503-549 (anche in traduzione italiana con il titolo Una campagna di pacificazione in
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realtà, di podesterie ‘surrettizie’, in quanto coesistono con la prosecuzione delle funzioni dei rettori forestieri in carica in quel 1233 ma, al di là degli aspetti formali, la cronachistica testimonia con chiarezza il dispiegarsi di una sostanziale assunzione del ruolo, mediante la gestione degli accordi intercittadini, il lavoro sui consigli per la modifica degli statuti e, in campo giudiziario, con l’annullamento di sentenze o la proibizione di renderle esecutive, che equivale di fatto alla sospensione di funzioni proprie dei rectores civitatum. Se la fiammata dell’Alleluya dà occasione ai frati di sperimentare direttamente l’immediata efficacia di quella specifica forma di governo per il conseguimento dei fini ultimi – politici e pastorali – dell’ordine e della Chiesa romana, essa è al contempo anche la palestra che permette loro di comprendere tutta la difficoltà di quel ruolo, ed i tanti limiti del controllo, apparentemente pieno, che il vertice podestarile era chiamato a esercitare sul turbolento e policentrico sistema politico cittadino. Se dunque l’assunzione diretta della podesteria da parte dei frati apparirà subito con chiarezza una strada mai più praticata (con la sola eccezione della rettoria di Milano assunta nel 1240 dal minorita Leone da Perego nel – diverso – contesto della legazione di Gregorio da Montelongo e congiuntamente a questi43), e resta dunque un fatto numericamente irrilevante nel lungo periodo di vitalità dell’istituto, niente affatto irrilevante nelle sue implicazioni è, invece, la familiarità che i frati Minori in questo torno d’anni mostrano di aver acquisito coi meccanismi di funzionamento del regime podestarile. Indubbiamente meno eclatante, ma forse per certi versi più sostanziale è, ad esempio, il ruolo svolto da certi frati Minori nelle procedure di reclutamento dei podestà proprio in congiunture particolarmente delicate: ne abbiamo testimonianze significative per Ancona e per Siena in un anno cruciale come il 1239 – l’anno della scomunica di Federico II e della deposizione di Elia – e per Perugia in un altro anno caldo, come il 1261, all’in-
Lombardia verso il 1233. L’azione politica degli ordini mendicanti nella riforma degli statuti comunali e gli accordi di pace, in VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana cit., pp. 119161), per Enrico da Milano alle pp. 510-513 e 526-529. 43 Cfr. G.G. MERLO, Leone da Perego, frate Minore e arcivescovo, «Franciscana», 4 (2002), pp. 29-110 (ora anche in MERLO, Tra eremo e città cit., pp. 269-336): p. 45, M.P. ALBERZONI, Le armi del legato: Gregorio da Montelongo nello scontro tra Papato e Impero, in La propaganda politica nel basso medioevo. Atti del XXXVIII Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 2001), Spoleto 2002, pp. 177-239: 173-190.
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domani del trionfo del ghibellinismo nella Tuscia. Quello di nuntii o procuratori per l’ingaggio da parte dei comuni dei futuri podestà è un ruolo ben attestato nel corso del Duecento anche per i frati Minori, come per molti altri religiosi e per moltissimi penitenti. Considerando l’intensa mobilità dei Minori nel primo Duecento non pare un caso che essi vengano coinvolti nel funzionamento di un sistema che deve appunto fare i conti con la intensa mobilità degli ufficiali forestieri all’interno di ampi circuiti intercittadini: ma non è forse solo questo. Vediamo le fonti: la cronaca di Tommaso da Spalato ci attesta che ad Ancona nel 1239 è appunto un frate minore che guida i procuratori del Comune di Spalato nella scelta della persona idonea ad assumere la carica podestarile nella città adriatica, che proprio allora per porre fine alle divisioni intestine si è decisa, anche grazie alla favorevole predicazione lì tenuta dai francescani presenti, ad adottare il regimen latinorum, cioè appunto la forma di governo podestarile44. Per Siena sappiamo che nello stesso anno due frati Minori sono inviati a Parma per assoldare il futuro podestà: in questo caso gli elettori designati dal consiglio cittadino hanno già individuato le persone con cui prendere contatto, ma il ruolo dei due frati non è meno delicato, dato che si trovano a dover contrattare le condizioni dell’ingaggio con professionisti affermati ma vistosamente riluttanti ad accettare l’invito senese, sicuramente in ragione alle difficoltà che ponevano quell’anno sia il quadro politico generale – si avviava difatti allora la stagione del più diretto controllo federiciano sulle nomine podestarili – sia la situazione locale – dove l’affermazione del Popolo aveva da quell’anno affiancato al Podestà il collegio dei Ventiquattro. Non a caso, difatti, lo sventurato che infine accettò la nomina sarebbe poi stato destituito da un tumulto prima del termine del mandato45.
44 È sempre la testimonianza di Tommaso da Spalato (Historia Pontificum Salonitanorum cit., p. 222) ad informarci del ruolo non secondario che al principio del 1239 un anonimo frate minore svolge, ad Ancona, nel consigliare gli inviati del Comune di Spalato circa la scelta della persona cui affidare la podesteria della città dalmata: sulla vicenda si veda ora ARTIFONI, Egemonie culturali, parole nuove cit., pp. 53-80: 79-80, dove anche (alla nota 41) un esaustivo rinvio ai non pochi studi recenti, tra cui si veda almeno, J.-C. MAIRE VIGUEUR, Il podestà che veniva dal mare: Gargano degli Arscindi e l’impianto del sistema podestarile a Spalato (1239), in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (Secoli XII-XIV). XXIII Convegno internazionale di studi (Pistoia, 13-16 maggio 2011), Roma 2013, pp. 197-221: 206. 45 Sulle vicende che vedono tra il 1239 e il 1240 la rimozione dalla podesteria senese del modenese Manfredi di Guido da Sassuolo e la sua sostituzione col fidelis di Federico II Ildibrandino di Guido Cacciaconti ad opera del Popolo cfr. O. REDON, Qualche considera-
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Che l’anno precedente, quando lo stesso compito era toccato a due frati Predicatori, l’ingaggio del podestà fosse avvenuto proprio nel locus dei frati Minori di Modena46, non mi sembra sia mera coincidenza, così come qualcosa vuol dire il fatto che uno dei due frati Minori inviati a Parma dai senesi a ingaggiare il podestà sia, con ogni probabilità, quel fra Luca apulo di cui Salimbene riferisce, in riferimento al 1242, l’atteggiamento non violentemente ostile a Federico II47. Il contesto di questi fatti del 1239 – siamo all’indomani dell’adesione di Elia alla causa federiciana e in quella provincia Toscana che Salimbene descrive allora infestata da una folla di frati laici – rendeva del resto ancora possibile tra i Minori un pluralismo di sensibilità e orientamenti politici che, evidentemente, i Comuni riescono e non esitano a sfruttare. Di lì a breve non sarebbe più stato così. E se il diretto coinvolgimento dei Minori (come dei Predicatori) nelle missioni per gli ingaggi podestarili non venne mai del tutto meno, l’assunzione di tali compiti da parte loro si fece però problematico. Già l’esempio di Perugia, dove nell’ottobre 126048 si decide di affidare quel compito a quattro frati, due Minori e due Domenicani, da scegliersi solo tra i nativi della città, mostra tutte le sfaccettature della faccenda: non solo determinante si fa ora la cittadinanza originaria dei prescelti, ma la scelta si scontra ormai con la necessità di richiedere e la difficoltà di ottenere un’esplicita autorizzazione da parte dei
zione sulle magistrature forestiere a Siena nel Duecento e nella prima metà del Trecento, in I podestà dell’Italia comunale, Parte I, Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.- metà XIV sec.), cur. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Roma 2000, pp. 659-674: 662 e la voce di N. KAMP, Cacciaconti, Ildibrandino, in Dizionario biografico degli Italiani, 15, Roma 1972, pp. 774-777. 46 (1238 marzo 23) Iacobino Rangoni da Modena giura fratribus Raynaldo et Niccholao de ordine Fratrum Predicatorum missis inviati dagli elettori del Potestà di accettare la potesteria di Siena e di giurare il costituto chiuso. In Modena in domibus fratrum minorum, Siena, Archivio di Stato Diplomatico, Riformagioni 1237 Aprile 9. 47 Salimbene (Cronica fratris Salimbene de Adam cit. p. 88) ricorda l’apprezzamento dell’imperatore svevo per l’orazione funebre tenuta dal frate in occasione dei solenni funerali di Enrico, il figlio ribelle di Federico morto in Calabria nel febbraio del 1242, occasione che pure si sarebbe prestata a una critica violenta dell’imperatore allora scomunicato. Cfr. M.P. ALBERZONI, Frati Minori, in Federico II. Enciclopedia federiciana, Roma 2005, ad vocem. 48 Sulla vicenda e il suo contesto cfr. STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Gli ordini religiosi e la civiltà comunale cit. pp. 503-5; STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Francesco e il francescanesimo nella società dei secoli XIII-XIV, Perugia 1999, pp. 93-94; G. CASAGRANDE, Religious in the service of the commune: the case ot thirteenth- and fourteenth-century Perugia, in Churchmen and Urban Government cit., p. 189; GALLETTI, Insediamento e primo sviluppo cit., p. 20, e ora CZORTEK, Frati Minori e comuni nell’Umbria cit., pp. 249-250.
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superiori, locali e provinciali, esigenza che evidentemente determina un pregiudiziale controllo della dirigenza dell’ordine sull’opportunità, tutta politica, che i frati si prestino a una tale collaborazione49. Di qui, probabilmente, la progressiva emarginazione di Minori e Predicatori da quel ruolo specifico50, che del resto si affianca e si imbrica alla chiara volontà da parte dei Comuni di restringere i margini di discrezionalità – negli anni Trenta ancora abbastanza larghi – che aveva l’azione di tali procuratori. La funzione viene dunque rapidamente svuotata del suo momento politico per assumere un profilo ormai meramente tecnico, come testimonia, ad esempio, l’evoluzione della normativa senese in materia nei decenni centrali del secolo51.
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Per la precoce normativa domenicana circa la partecipare dei frati all’elezione del Podestà va segnalata la proibizione stabilita dal capitolo generale di Parigi del 1234, ricordata anche ibid., p. 250 nota 55. 50 Le attestazioni di ambascerie per incarichi podestarili o capitaneali si fanno nel complesso sporadiche nei decenni centrali del Duecento, pur non mancando eccezioni e successive riprese: segnala ad es. un incarico fiorentino a un frate Predicatore nel 1297 ibid., p. 249 nota 54. 51 A Siena la normativa più risalente, trasmessaci dal testo del giuramento prestato dagli elettori del podestà conservato nel Breviarium del 1250, porta ancora traccia della ordinaria designazione dei frati Predicatori e Minori quali nuntii pro requirenda Potestate, come attestato dalla documentazione degli ultimi anni Trenta del Duecento: «et mictemus unum vel duos fratres de Ordine Predicatorum vel Minorum, vel alios duos religiosos viros, vel alios si quid nunc de ipsis et prout in Constituto continetur, sicut videbitur Potestati et curie sue, sine fraude, quos mictemus pro potestate (Breve degli officiali del Comune di Siena, compilato l’anno MCCL al tempo del podestà Ubertino di Lando da Piacenza, ed. L. BANCHI, «Archivio storico italiano», 3 [1866], p. 9). La redazione statutaria del 1262, invece, attesta già l’evoluzione normativa compiutasi nel corso dei decenni centrali del secolo, dato che la rubrica De nunctio mittendo pro potestate electa stabilisce che gli elettori designino a questo ufficio «unum bonum et legalem virum de civitate senarum, sicut videbitur potestati et curie, quem mittant pro Potestate» (l’enfasi ormai posta sulla cittadinanza originaria come requisito necessario per la funzione non esclude peraltro il ricorso a semireligiosi e homines de penitentia di solido radicamento cittadino, come attesta la documentazione, che restituisce difatti notizia, per gli anni Quaranta-Settanta, del ricorso, accanto a procuratori laici nel 1245 e 1253, anche ad un mantellato de ordine cogniugatorum, ‘frate’ Insegna, nel 1242 e a un vir de Penitentia Compagno di Pietro (attivo nella Fraternitas Misericordie e vicino al più noto penitente di ambito francescano Pier Pettinaio) nel 1266 (cfr. rispettivamente Siena, Archivio di Stato, Diplomatico, Archivio Generale dei contratti 1240 Novembre 30; Riformagioni 1245 Settembre 24; Archivio Generale dei contratti 1253 ottobre 10 e 1266 settembre 4). Parallela a questo svolgimento è la crescente attenzione per precisare gli obblighi e limitare i margini di discrezionalità di questi nunzi nel menamentum che per massimo due giorni essi potevano tenere con l’eletto.
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Fino a che punto svolgimenti di questo tipo possono essere generalizzati e assunti come testimonianza di una evoluzione significativa, o come segno di quella specificità “minoritica” o ‘mendicante’ che andavamo cercando? Tutto sta, mi sembra, nel distinguere: in questo caso distinguere, nell’interpretazione di un ruolo svolto dai frati per il Comune, l’aspetto tecnico, destinato a sopravvivere e a coinvolgere molti altri religiosi (non solo e non tanto mendicanti) e semireligiosi, dal senso politico che, in certi luoghi e in un certo momento, l’azione dei frati Minori in quel ruolo sembra assumere. Più in generale, forse, nel distinguere i contenuti diversi che quell’astrazione che noi chiamiamo “identità francescana” ebbe, volta per volta, per gli uomini, le comunità e le istituzioni che si trovarono ad essere e ad agire in tempi e spazi sempre diversi e sempre anche più complessi, più concreti, in una parola più veri, d’ogni nostra ricostruzione.
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Minori e nobiltà. Qualche esempio e qualche riflessione per l’Italia del Due e Trecento
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Veramente, nella nostra anima moderna, l’amore della città da forzare e da prendere è smarrito. Immagino il lampo della cupidigia nell’occhio del venturiero quando, allo svolto d’una via, al varco d’un monte, appariva la faccia della città promessa. Certi capitani dovettero conoscere una sorta di lussuria ossidionale1.
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Sono parole di Gabriele D’Annunzio, che evocano un medioevo militare, eroico, aristocratico, scritte nel 1898 ma ricomposte e pubblicate nel 1924, dopo la Grande Guerra e dopo l’impresa di Fiume, mentre si trovava confinato nel Vittoriale di Gardone, in una solitudine definita suggestivamente e non senza travisamenti «monastica e francescana». Un medioevo così resta senza dubbio letterario, immaginoso e fantastico; tuttavia, sarà anche solo per le assonanze e i parallelismi che suscitano le parole, a tali espressioni mi piace accostare, pur consapevole dell’azzardo, un altro racconto, questa volta estratto dalla vita detta Assidua, la prima a lui dedicata, di Antonio di Padova: E un giorno essendosi Fernando appartato, secondo il solito, per salutare [i frati], conversando, disse tra l’altro: «Fratelli carissimi, con vivo deside-
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G. D’ANNUNZIO, Il venturiero senza ventura, Firenze, 29 agosto 1898 (in G. D’ANNUNZIO, Le faville del maglio, I: Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, Milano 1924), il corsivo è mio. È facile riconoscere il capitano senza ventura nel medesimo D’Annunzio, che già da tempo assalito da fantasmi ossidionali, «dopo ventun anno, in un mattino di settembre, quel medesimo cavaliere, armato d’armi raccogliticce ma invincibili come la sua fede, dopo ventun anno radunava la sua gente in un prato cinto di macerie, dove giungevano l’alito e l’anelito della città da prendere, della città da liberare, della città da sollevare alla cima di tutte le insurrezioni e le aspirazioni umane, al sommo di tutta la vita libera e di tutta la vita nova». Si trattava dell’impresa fiumana (cfr. M. FRANZINELLI, Fiume. L’ultima impresa di D’Annunzio, Milano 2009).
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rio vorrei indossare il saio del vostro ordine, purché mi promettiate di mandarmi, appena sarò tra voi, alla terra dei Saraceni, nella speranza di esser messo a parte anch’io della corona insieme con i santi martiri». I frati, pieni di gioia nell’udire le proposte di un uomo così insigne, fissarono il domani per recargli il saio, troncando ogni indugio fomentatore di 2 pericoli .
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I due brani non hanno molto in comune, tanto sono lontani per tipologia, epoca, autore, scopo... ma essi possono trovare un parallelo nella mente dello storico (in questo caso, nella mia), in perenne dialogo tra la realtà e l’interpretazione, viziata da tutti i possibili condizionamenti culturali e personali, e sempre alla ricerca di formule di sintesi. La lussuria ossidionale del bellicoso capitano, cupido di espugnare la città, a mio parere traluce pur addolcita nella trepida instante fretta dei frati Minori di Coimbra, desiderosi di fregiarsi dell’insigne preda antoniana, oppure nell’ardore di Antonio, a sua volta rampollo di un’illustre famiglia, per far frutto in terra d’infedeli, o di morire. Ho segnato così un carattere di cui terrò conto in queste note: quello di uno spirito volto all’azione, alla conquista, pur anche all’assedio, sebbene con “armi” e finalità diversissime e addirittura contraddittorie. Uno spirito che può caratterizzare un gruppo. La connotazione in larga misura militare (non dirò dannunziamente eroica) della “nobiltà” e l’attitudine, maturata nei Minori, a considerare necessario un rapporto con essa, anche di proselitismo, ma non solo, saranno letti anche sotto questa luce. Il tutto nel contenitore fisico e sociale delle città (oppure, in negativo, della loro assenza). 1. Quale nobiltà?
Che il tema della nobiltà sia molto dibattuto tra gli storici è ben noto e non è certo qui il caso di riprendere integralmente i fili una storiografia,
2 «Ad quos cum ex more, die quadam, vir Dei visitandi gratia secretius accessisset, inter cetera que locutus est, hoc quoque dixit: “Ordinis vestri habitum, fratres karissimi, animo desideranti suscipiam, si me, mox ut introgressus fuero, ad terram Sarracenorum mittere spoponderitis, quatinus cum sanctis martyribus merear et ego consequi corone participium”. Qui non mediocri gaudio ex tanti viri verbis exhylarati, diem quo hec fiant proximo sequentem constituunt et, ne mora periculum trahat, tempus dilationis precidunt»: Vita prima di Sant’Antonio o “Assidua” (c. 1232), ed. V. GAMBOSO, Padova 1981, pp. 292293.
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che incide pure su uno dei caratteri ritenuti costitutivi del medioevo3, che però assunse morfologie differenziate anche rispetto a coordinate geografiche. Tuttavia credo sia utile precisare quale fosse lo status e il genere di persone alle quali ho pensato in questo saggio. Da un punto di vista ubicazionale ho guardato a uno spazio ritenuto peculiare, ossia all’Italia4, sopra tutto settentrionale, anche se non mi sono limitato all’ambito strettamente urbano, perché nel novero della nobiltà ho inteso comprendere sia le famiglie di antica tradizione cittadina, sia quelle in genere qualificate come signorili, che pur abitando anche in città mantennero un pendolarismo con il territorio rurale, sul quale fondavano sovente la loro potenza. Era un gruppo sociale per nulla statico nel proprio numero né omogeneo al proprio interno, ma pur sempre contraddistinto da alcuni elementi di riconoscibilità e di solidarietà, i quali incontrarono profonde alterazioni con il trascorrere del tempo compreso nell’arco cronologico che mi sono ritagliato. La constatazione dell’eterogeneità e della progressiva metamorfosi di tale gruppo, ha una conseguenza sulla nomenclatura. Non ho usufruito di distinzioni storiografiche come quelle tra nobiltà di fatto e nobiltà di diritto5, né ho voluto assecondare discussioni sulla natura della nobiltà, che specialmente dal Trecento hanno coinvolto personalità eminenti, da Dante a Bartolo da Sassoferrato6. Vocaboli come nobiltà, aristocrazia, militia sono
3
Mi limito a qualche indicazione generale: R. BORDONE, L’aristocrazia: ricambi e convergenze ai vertici della scala sociale, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, dir. N. TRANFAGLIA - M. FIRPO, I,1: Il Medioevo, I quadri generali, Torino 1988, pp. 145-175; K.F. WERNER, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, trad. it., Torino 2000 (Ia ed., Paris 1998); Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, cur. R. BORDONE, Roma-Bari 2004. 4 G. CASTELNUOVO, Bons nobles, mauvais nobles, nobles marchands? Réflexions autour des noblesses italiennes en milieu communal (XIIe-début XVIe siècle), «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 13 (2006) [= La noblesse en question (XIIIe-XVe s.)], pp. 85-103; CASTELNUOVO, La noblesse et son orgueil dans l’Italie urbaine (fin XIIIe-milieu XVIesiècle). Discipliner une pulsion pour sauvegarder une identité, in Passions et pulsions à la cour (Moyen Âge-Temps modernes), Textes réunis par B. ANDENMATTEN - A. JAMME - L. MOULINIER-BROGI - M. NICOUD, Firenze 2015 (Micrologus Library, 68), pp. 285-311. 5 Era una distinzione, com’è noto, usata da Marc Bloch (La società feudale, Torino 1974 [Ia ed., Paris 1939-1940], pp. 323-376). Le analisi di Bloch suscitarono proficui, e ancora attuali, dibattiti storiografici (cfr. G. TABACCO, Su nobiltà e cavalleria nel medioevo. Un ritorno a Marc Bloch?, «Rivista storica italiana», 91 [1979], pp. 5-25; C.B. BOUCHARD, The Origins of the French Nobility: A Reassessment, «The American Historical Review», 86/3 [1981], pp. 501-532). 6 Cfr. C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988, pp. 317; P. BORSA, “Sub nomine nobilitatis”. Dante e Bartolo da Sassoferrato, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, cur. C. BERRA - M. MARI, Milano 2007, pp. 59-121; G. CASTELNUOVO,
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stati da me intesi e impiegati in maniera anche più libera di quella in uso nella storiografia7, sia pure nella consapevolezza di una loro intrinseca possibile differenziazione, in corrispondenza con quanto è avvenuto storicamente nelle realtà urbane italiane e anche nella considerazione degli storici8. Ho pertanto proceduto in modo “empirico” e ho riassunto nella qualifica “nobiliare” persone e gruppi caratterizzati da una propensione all’esercizio della professionalità militare, dalla disponibilità di mezzi economici basati sopra tutto sul patrimonio immobiliare, dallo sfoggio di uno stile di vita che poteva assumere anche tonalità “cortesi”, dall’elaborazione di una memoria famigliare e di un lignaggio biologico, dallo spicco sociale e vocazionalmente politico: tutti elementi che non necessariamente erano comunque e sempre compresenti nello stesso dosaggio nei singoli individui. Quanto al versante specificamente politico, occorre sottolineare come questo gruppo, che nel XII secolo fu protagonista principale delle vicende delle città comunali italiane, nel Duecento fu attraversato da dinamiche di dialettica e di assestamento interne e sottoposto alla concorrenza degli strati definiti “popolari” della società comunale, con la relativa elaborazione di provvedimenti di emarginazione contro i così detti magnati9, per trovare più tardi, specialmente nel Trecento, vie di riconoscimento giuridico formale della propria consapevolezza, spesso all’ombra delle nuove compagini politiche signorili che ne ricondussero il protagonismo a orizzonti di subordinazione privilegiata. Devo anche ricordare che il connubio tra la nobiltà e la Chiesa, intesa come organismo istituzionale, non era certo una novità10. Anche in questo
Bartole de Sassoferrato et le Songe du Vergier. Les noblesses de la cité à l’aune du royaume, in Circulation des idées et des pratiques politiques: France et Italie (XIIIe-XVIe siècle), cur. A. LEMONDE - I. TADDEI, Rome 2013, pp. 59-71. 7 In genere si distingue l’aristocrazia, come espressione di un gruppo dirigente, dotato genericamente di ricchezza e capacità di governo derivante dall’esercizio della forza militare, dalla nobiltà, che ha tratti giuridico formali più precisi: cfr. BORDONE, L’aristocrazia, p. 145. 8 Cfr. G. TABACCO, Nobiltà e potere ad Arezzo in età comunale, «Studi medievali», n.ser., 15/1 (1974), pp. 1-24; TABACCO, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze fra XII e XIII secolo, ibid., 17/1 (1976), pp. 41-79; J.-C. MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, trad. it., Bologna 2004 (Ia ed., Paris 2003), pp. 347-357. 9 Cfr. I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici, cur. M.T. CACIORGNA - S. CAROCCI - A. ZORZI, Roma 2014. 10 Evocativi i titoli di due opere dedicate a Gerd Tellenbach: Adel un Kirche. Gerd Tellenbach zum 65. Geburtstag dargebracht von Freunden und Schülern, cur. J. FLECKENSTEIN - K. SCHMID, Freiburg 1968; Nobiltà e chiese nel medioevo e altri saggi. Scritti in onore di Gerd Tellenbach, cur. C. VIOLANTE, Roma 1993; cfr. anche G. SERGI, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Roma 1994, part. pp. 3-29.
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caso, tanto la realtà fattuale quanto la tradizione storiografica rendono evidente il fitto intreccio di interessi tra individui e famiglie “nobili” e la fondazione o il controllo di chiese in cura d’anime o di istituzioni monastiche o l’occupazione di episcopati e delle maggiori dignità e uffici del clero cittadino. Per contro, l’assunzione stessa dell’ufficio episcopale poteva essere un generatore di nobiltà11. Ciò avvenne per l’alto come per il basso medioevo e per una pluralità di motivi, che si possono riassumere nelle esigenze di disciplinare la società, per quasi la sua interezza cristiana, sia nel campo dei corpi sia in quello delle anime, concentrando nelle mani di pochi ricchezze, potere, forza di coercizione, ma anche persuasione e ammaestramento delle coscienze. Sono cose note e in un certo senso vecchie, ma il problema è di sapere se il rapporto, tradizionale, sia semplicemente proseguito con addosso il saio dei frati Minori o se sia in qualche modo geneticamente modificato12. La questione, ovviamente, chiama in causa anche la personalità dell’Ordine e la sua evoluzione, va dunque affrontata, rispetto alla coordinata del tempo, con un’attenzione alla verticalità non disgiunta dall’osservazione di caratteri orizzontali. È una questione accennata in moltissime occasioni, ma, salvo poche eccezioni, non mi pare mai affrontata con sistematicità13. Quanto dirò in seguito va sottoposto ad alcune precisazioni preventive, che mi toccherà anche ripetere più avanti: molti dei dati e delle considerazioni valevoli per i Minori non li contraddistinsero in modo esclusivo e andrebbero condivisi e confrontati con gli altri ordini Mendicanti e con altre istituzioni della Chiesa; in modo analogo un simile discorso vale anche per l’aristocrazia/nobiltà, che condivise nei confronti dei frati prassi, pensieri, atteggiamenti con altri strati sociali urbani e non; infine, occorre essere consapevoli della deviazione imposta dalle fonti: ciò che è documentato in scriptis per la società nobiliare-aristocratica non è detto che non sia valso per genti più umili, che sono rimaste escluse dal beneficio della testimonianza.
11 Cfr. A. GAMBERINI, La nobiltà del pastore. Una nota sui processi di formalizzazione di status nel Trecento, in Medioevo dei poteri. Studi in onore di Giorgio Chittolini, cur. N. COVINI - M. DELLA MISERICORDIA - A. GAMBERINI - F. SOMAINI, Roma 2012, p. 77-96. 12 Il connubio potrebbe essere l’esito di una spiritualità/religiosità più attenta all’individuo, specialmente tramite l’affermazione del confessore/padre spirituale: F. MAZEL, La noblesse et l’Église en Provence, fin Xe début XIVe siècle. L’exemple des familles d’AgoultSimiane, de Baux et de Marseille, Paris 2002, pp. 464-536. 13 Non mi pare esplicitamente affrontato nemmeno nel contesto di un volume abbastanza pertinente: I Francescani e la politica. Atti del Convegno internazionale di studio, Palermo, 3-7 dicembre 2002, cur. A. MUSCO, 2 voll., Palermo 2007.
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2. Quali rapporti? Un ventaglio di possibilità
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La nobiltà, comunque la si voglia delimitare e rappresentare, era una frazione sociale di numero ridotto, ma di ragguardevole peso specifico ed era impossibile evitare un confronto o un’interferenza. L’asse di comunicazione fra essa e l’Ordine può essere osservato nei due versi rispettivi: quello che dalla nobiltà si indirizzava ai Minori e il suo contrario, con scambi la cui influenza era davvero reciproca. Nel 1974, con la consueta lucidità, Giovanni Miccoli aveva individuato nella vicenda dei Minori un elemento importante di mutazione susseguita alla iniziale fase della fraternitas. Si trattava dell’espansione esponenziale dell’Ordine, con le rispettive conseguenze. Dopo un periodo genetico nel quale il nucleo dei frati «doveva essere costituito prevalentemente da membri delle classi subalterne, poveri lavoranti e piccoli artigiani», arrivarono presto «numerosi anche i “chierici”, i maestri di teologia e di diritto, gli uomini provenienti dagli strati superiori, forti, essi, di una tradizione culturale, formati nella loro mentalità e nelle loro esigenze intellettuali, in minoranza certo rispetto al complesso dei frati, ma naturalmente autorevoli, in una comunità ormai numerosa, e destinati al comando»14. Ecco posti, insieme, tre distinti punti: la constatazione della dilatazione della compagine minoritica inclusiva degli strati superiori della società, la valutazione delle sue conseguenze sulla fisionomia del movimento fondato da Francesco e una periodizzazione, che separava le origini della fraternitas dagli sviluppi successivi e diversi15. Trascuro per ora la periodizzazione e le conseguenze sulla struttura organizzativa e parto dal reclutamento in sé, come primo aspetto del prismatico problema dei rapporti tra i Minori e la nobiltà. Rispetto a quarant’anni fa sono conosciuti molti più dati circa le adesioni all’Ordine16 e
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G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II,1: Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, cur. R. ROMANO - C. VIVANTI, Torino 1974, pp. 431-1079: 760. La parte relativa ai Minori è stata pubblicata a sé: MICCOLI, Francesco d’Assisi e l’Ordine dei Minori, Milano 1999. Si veda anche MICCOLI, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino 1991. 15 Lo schema è usuale per la storia dell’Ordine. Si vedano, a titolo d’esempio: T. DESBONNETS, De l’intuition à l’institution. Les franciscains, Paris 1983 (trad. it., Milano 1986); G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003. 16 Cfr. I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica. Atti del XIX Congresso internazionale (Assisi, 17-19 ottobre 1991), Spoleto 1992; M.T. DOLSO, Et sint minores. Modelli di vocazione e reclutamento dei frati Minori nel primo secolo francescano,
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sono meglio note anche le composizioni sociali di molte città italiane, per quanto esse risultino differenziate e mutevoli di caso in caso17. Tuttavia, nello specifico dei Minori, la natura e la ridotta quantità delle fonti a disposizione per i due-tre decenni delle origini impediscono sovente di decifrare con esattezza i profili prosopografici dei frati. Al di là di alcune eccezioni, è difficile identificarne la provenienza sociale e compiere calcoli quantitativi affidabili. Una delle eccezioni, ovviamente, è il fondatore. Potrei osservare che la conversione di Francesco e il rovesciamento delle prospettive di vita che essa comportò presupponevano la precedente aderenza ai valori e ai modi di vivere della fascia di vertice della società cittadina. Francesco, com’è noto, visse un’esperienza come miles, partecipò a una missione di guerra e subì la prigionia18. Apparteneva a una famiglia che se non poteva ancora dirsi nobile, lo indirizzava alla strada della militia, che era la premessa della nobiltà cittadina. La scelta consapevole e volontaria della minoritas imponeva il confronto con la nobilitas. Non a caso, penso, al di là del modello pressoché inarrivabile del fondatore, l’agiografia ha tramandato come esempio di conversione e di chiamata, per i frati, quella di Bernardo da Quintavalle, anch’egli di ragguardevoli natali, ricordato di solito come primo compagno di Francesco. Nella narrazione di Tommaso da Celano si susseguono l’episodio della Porziuncola, dove Francesco apprende quale sia la sua vocazione di apostolato, l’inizio della predicazione di pace e poi di annunzio della salvezza eterna, l’avvicinamento di Bernardo, la sua assidua frequentazione di Francesco, fino alla decisione di alienare tutti i beni e destinarli ai poveri19. Il transito di Bernardo, inserito nell’agiografia di Francesco, era dunque destinato a impressionare e a durare esemplarmente. Sarà utile ricordarne
Milano 2001; si vedano, inoltre, le 101 schede prosopografiche relative a una tipologia particolare di frati, i lettori, individuati nella provincia del Santo, tra Due e Trecento: E. FONTANA, Frati, libri e insegnamento nella provincia minoritica di S. Antonio (secoli XIIIXIV), Padova 2012, pp. 187-266. 17 Citerò in seguito alcuni esempi storiografici. Un ventaglio di relazioni, dal punto di vista dei rapporti con gli Ordini mendicanti è offerto, tra gli altri, da A. VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990. 18 Francesco, cavaliere di origine popolare, era per la verità stato escluso dal novero dei milites di più antica tradizione famigliare, secondo dinamiche che spesso si incontrano al transito tra XII e XIII secolo. Cfr. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Comune e signoria in Umbria, Marche e Lazio, Torino 1987, pp. 66-69; MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini cit., p. 480. 19 Per alcune riflessioni circa il modello agiografico di Bernardo: DOLSO, Et sint minores cit., pp. 123-133. Tra i primi compagni di estrazione elevata, occorre ricordare anche Pietro Cattani: A. RIGON, Frati minori e società locali, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997, pp. 259-281: 267.
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la concatenazione fattuale, così come ordinata nel racconto di Tommaso da Celano, anche a beneficio di quanto dirò più avanti. Occorre però sottolineare subito un dato elementare: per abbandonare il prestigio sociale e la ricchezza, bisognava pur averli, prima... è un carattere che si coglie fin dai primi momenti del movimento francescano. Al di là dei modelli più o meno agiografici, per i primordi dell’Ordine sarebbe piuttosto complicato fornire una panoramica completa sul reclutamento dei frati e sulle loro provenienze famigliari: come dicevo, spesso mancano i dati. Ad esempio, per l’insediamento di Cividale del Friuli, ascrivibile agli inizi degli anni Trenta, non sono noti nomi di frati fino al 1249. In seguito, però, se ne individua un buon numero uscito da famiglie nobili20. Per Padova, fra i primi compagni di Antonio, si riconosce la figura di Luca Belludi, sicuramente legato all’alta aristocrazia dei di Camposampiero21. A Brescia, tra i primi ad assumere l’abito fu il nobile Pietro de Baiamontis, che sarebbe stato reclutato dallo stesso Francesco22. Gli esempi non sono tutti qui, ma sarebbe ozioso fare un lungo elenco. Ciò che si intravede con una certa chiarezza è una crescita continua, che accelera dopo gli anni Trenta del Duecento, quando si accentuò la stabilizzazione dell’Ordine e la rete conventuale si fece più fitta23. Notevole anche il fatto che, nei decenni centrali e finali del Duecento, molte delle primitive residenze dei frati, poste nelle periferie o anche fuori dalle mura cittadine, progressivamente tesero a guadagnare posizioni interne e più centrali nelle città, mediante la costruzione di nuove chiese e conventi o l’occupazione di siti più antichi24, segno di una conquista ubicazionale, che andava di pari
20 A. TILATTI, I frati Minori in Friuli fra il XIII e il XIV secolo, in Frati Minori in Friuli. Otto secoli di presenze, relazioni, proposte, cur. TILATTI, Vicenza 2008, pp. 1-72: 24, 39-41, 53-54. 21 A. RIGON, Una deposizione testimoniale del beato Luca Belludi «socius» di sant’Antonio, in RIGON, Dal Libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medioevale, Roma 2002, pp. 167-175 (già in «Atti e memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti», 90, parte III: classe di Scienze morali, Lettere ed Arti [19771978], pp. 43-51). 22 Cfr. G. COSSANDI, Gli insediamenti degli Ordini Mendicanti e i nuovi aspetti della vita religiosa tra XIII e XIV secolo, in A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia, cur. G. ANDENNA, Brescia 2010, pp. 435-482: 443. 23 Sull’espansione dell’Ordine cfr. L. PELLEGRINI, Insediamenti francescani nell’Italia del Duecento, Roma 1984; PELLEGRINI, I quadri e i tempi dell’espansione dell’Ordine, in Francesco d’Assisi e il primo secolo cit., pp. 165-201; MERLO, Nel nome di san Francesco cit., pp. 73-107. 24 Cfr. ancora il caso cividalese: TILATTI, I frati Minori, pp. 29-39; ma lo stesso accadde a Milano (M.P. ALBERZONI, Francescanesimo a Milano nel Duecento, Milano 1991, pp. 126128) e a Verona (G. DE SANDRE GASPARINI, Il Francescanesimo a Verona nel ’200: note da
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passo con un progressivo innervamento nelle società locali, gratificato da innumerevoli vocazioni. All’estremo cronologico finale della spanna ritagliatami, Bartolomeo da Pisa nel suo De conformitate, scritto tra il 1385 e il 1390, giudica il suo Ordine eccellentissimo tra gli altri ex nobilitate25ed enumera papi, cardinali e prelati come i membri più illustri di un lignaggio più che secolare rivestito dell’abito del beato Francesco. Tuttavia, consapevole che «presso molti plebei la dignità ecclesiastica, che pure è superiore a ogni altra, è disprezzata»26, Bartolomeo snocciola anche un denso elenco di re, principi, e nobili di tutte le sorti, che avevano aderito all’Ordine, tanto che «non vi è quasi schiatta nobiliare nella cristianità, dalla quale non sia uscito qualche frate Minore, come si può chiaramente dedurre, sia dalla vita, sia anche almeno per la morte, come appare chiaramente considerando le sepolture degli uomini eccelsi deposti presso i frati Minori in tutto il mondo, i quali per la maggior parte assunsero l’abito per devozione e vollero essere sepolti con esso»27. Una seconda, molto vasta e sfaccettata, tipologia di rapporto tra la nobiltà e i Minori la definirei di protezione e di ausilio. Individui o famiglie aristocratiche si vedono intenti ad assistere e a proteggere i frati, specialmente se “celebri”, in vari modi e circostanze. Tra gli esempi meglio conosciuti e ottimamente studiati, si possono enumerare quello di Giacomo di
testamenti, «Le Venezie francescane», n.ser., 2/1-2 [1985] [= Esperienze minoritiche nel Veneto del Due-Trecento. Atti del Convegno nazionale di studi francescani, Padova, 28-30 settembre 1984], pp. 121-141: 131). Per il Veneto una sintesi è offerta da DE SANDRE GASPARINI, La vita religiosa nella Marca veronese-trevigiana tra XII e XIV secolo, Verona 1993, pp. 55-69. 25 «Tertio, hic ordo dicebatur excellentissimus prae aliis ex nobilitate; quia in ordine isto fuerunt personae insignissimae tam dignitate ecclesiastica quam saeculari»: Bartholomaeus Pisanus, De conformitate vitae Beati Francisci ad vitam Domini Iesu, I, Ad Claras Aquas/Quaracchi 1906 (Analecta Franciscana, 4), p. 342. 26 «Verum, quia apud plebeios dignitas ecclesiastica, quae omnes alias dignitates excedit, parvipenditur et nihil quasi reputatur, referendum est deinceps de saeculi principibus, qui filios esse beati Francisci non sunt dedignati, ipsius habitus assumptione» (ibid., p. 347). 27 «Inter ordines omnes, et praecipue mendicantes, nemo de tot nobilibus, regibus et principibus potest gloriari, ut hic ordo, potest; nec gestatio habitus ordinis beati Francisci debet videri alicui abiectiva, immo sublimativa; nec onerosa, immo gloriosa, quam tot reges, pro summo habentes honore et devotione, gestare voluerunt. Nulla est domus nobilium fere in christianitate, de qua non fuerit aliquis frater Minor, ut satis clare posset deduci, et de vita, saltem quod in morte, clare patet considerando sepulturas excellentium virorum apud fratres Minores per orbem depositorum, qui pro maiori parte ob devotionem habitum assumentes cum ipso voluerunt humiliter sepeliri» (ibid., pp. 349-350).
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Buonconte Coppoli a Perugia, che favorì frate Egidio d’Assisi e patrocinò l’insediamento di Monteripido28, oppure quello più precoce e noto tramite l’agiografia e la cronaca di Tiso di Camposampiero, che assistette il futuro santo Antonio, predisponendo per lui l’accogliente ritiro di Camposampiero e seguendone presumibilmente anche prima e dopo le vicende umane29. Una tarda attestazione, trecentesca, vorrebbe che anche Francesco avesse ricevuto dal presunto conte Orlando di Chiusi il locus della Verna. Al di là dei ragionevoli dubbi connessi con la vicenda e il suo ricordo, ben enunciati da Luigi Pellegrini, lo stilema del nobile protettore dell’altrettanto, seppur diversamente, “nobile” frate manifesta una vitalità pari alla sua verisimigliante “credibilità”30. Sono innumerevoli poi le attestazioni di protezioni e favori più o meno evidenti che hanno segnato i momenti incoativi delle presenze minoritiche nelle città o (e forse sopra tutto) nei territori rurali e ne hanno accompagnato gli sviluppi, tanto monumentali/edilizi, quanto sociali. Per Padova e il suo distretto si può citare la munificenza di Buffone di Bertolotto e di altre famiglie del contado31, per il Friuli sembrano manifesti i rapporti tra alcune famiglie signorili e i loci di Castello di Porpetto, Polcenigo, Gorizia, Villalta, sorti tra la seconda metà del Duecento e l’inizio del Trecento32. Tuttavia, per quanto abbondino le ricorrenze e le analogie, occorre dire che ogni caso si rappresenta per quanto vale per se stesso e si differenzia a seconda del contesto geografico e urbano nel quale si manifesta33. Di nuovo: è abbastanza elementare constatare che una protezione, un aiuto,
28 A. BARTOLI LANGELI, Nobiltà cittadina, scelte religiose, influsso francescano: il caso di Giacomo Coppoli perugino, «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge-Temps Modernes», 89 (1977), pp. 619-628 (= Les ordres Mendiants et la ville en Italie centrale); BARTOLI LANGELI, La famiglia Coppoli nella società perugina del Duecento, in Francescanesimo e società cittadina: l’esempio di Perugia, Perugia 1979, pp. 45-112. 29 A. RIGON, Il santo e il signore. Tiso da Camposampiero nella storia e nella tradizione agiografica antoniana, «Il Santo. Rivista francescana di storia dottrina arte», 54/1 (2014), pp. 55-65. Cfr. RIGON, Dal Libro alla folla cit., pp. 138-139. 30 L. PELLEGRINI, I luoghi di frate Francesco. Memoria agiografica e realtà storica, Milano 2010, pp. 91-125. 31 A. BARTOLI LANGELI, Il testamento di Buffone padovano (1238). Edizione e leggibilità di un testo documentario, «Le Venezie francescane», n.ser., 3 (1986), pp. 105-124 (ora in BARTOLI LANGELI, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, pp. 185210); A. RIGON, La libera povertà. Antonio, frati minori e società padovana nel Duecento, in RIGON, Dal Libro alla folla cit., pp. 135-166: 147-151 (già in Minoritismo e centri veneti nel Duecento, cur. G. CRACCO, Trento 1983, pp. 8-40). 32 TILATTI, I frati Minori cit., pp. 39-40. 33 Cfr. RIGON, Frati minori e società locali cit., p. 268.
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un patrocinio li può concedere solo chi può disporre di beni materiali e dell’influenza sociale e politica per poterli accordare. Più difficile è dire se la propensione verso un tal genere di munificenza fosse mossa da motivazioni puramente private e personali (ma come può uno storico indagare il segreto di una coscienza?) o se dipendesse anche e sopra tutto da un’attenzione più condivisa socialmente. Per rispondere serve una conoscenza profonda, fin dove possibile, del caso singolare. Detto questo, non è improprio domandarsi più in generale se esista un momento in cui l’investimento nei confronti dei Minori diventi più attraente, magari alla luce di considerazioni nelle quali anche la politica, latamente intesa, abbia un peso. Bisogna domandarsi se i favori papali, profusi a piene mani, in particolare a partire da Gregorio IX, quando l’Ordine iniziò ad assumere incarichi delicati, come quelli inquisitoriali, e a essere gratificato di nomine episcopali, nonché a beneficiare della potenza ideologica e religiosa delle due canonizzazioni di Francesco e di Antonio confezionate con insolita rapidità in meno di un lustro34, non rappresentassero la principale garanzia di affidabilità che i potentes laici si potevano attendere prima di “investire” sui frati. Ulteriormente bisogna distinguere le forme vere e proprie di patronato, come quelle poco sopra citate per Padova e Perugia, da altre manifestazioni di simpatia e di favore, che si palesavano per vie meno impegnative ed eclatanti. I vincoli di protezione e le dimostrazioni di benevolenza si traducevano sovente in donazioni, lasciti, legati, il cui numero complessivo è difficilmente documentabile, ma si intravede, ad esempio, dalla pratica testamentaria, che si percepisce fin dai primi anni della presenza dei frati nelle città, sebbene tenda a intensificarsi con il trascorrere dei decenni. Tutti gli studi che illustrino i primordi di una permanenza o di un convento si imbattono in uomini e donne di famiglie ragguardevoli che destinarono ai frati beni di diversa natura, così a Padova35, a Treviso36, a Verona37,
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Cfr. R. PACIOCCO, «Sublimia negotia». Le canonizzazioni dei santi nella curia papale e il nuovo Ordine dei frati Minori, Padova 1996. 35 Cfr. supra, nota 31. 36 D. RANDO, Minori e vita religiosa nella Treviso del Duecento, in Minoritismo e centri veneti cit., pp. 63-91; ripreso e modificato con il titolo Minori e minoritismo nella società e nelle istituzioni, in RANDO, Religione e politica nella Marca. Studi su Treviso e sul suo territorio nei secoli XI-XV, I: «Religionum diversitas», Verona 1996, pp. 133-198. 37 DE SANDRE GASPARINI, Il Francescanesimo a Verona nel ’200 cit., pp. 121-141; G.M. VARANINI, Per la storia dei Minori a Verona nel Duecento, in Minoritismo e centri veneti cit., pp. 92-125.
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a Vicenza38, a Milano39, a Pinerolo40, nel Friuli patriarcale41, ma anche ad Ascoli42. Ho citato alcuni esempi alla rinfusa, ma le evenienze sono numerosissime, riscontrabili ovunque si compiano ricerche specifiche per un insediamento dei Minori, o mendicante. Occorre ribadire, almeno qui, l’avvertenza iniziale circa la non esclusività di certe attenzioni, per precisare, appunto, che la generosità dei laici abbienti e potenti (e non solo) non indica di per sé un’esclusiva propensione per i Minori, ma piuttosto la condivisione di un’attenzione per istituzioni vecchie e nuove del panorama ecclesiastico, giustificata normalmente dalla sollecitudine per la salute delle anime. Il fatto notevole è la celerità di inclusione dei figli di Francesco – come di quelli di Domenico e di altri movimenti, locali o più diffusi – nelle menti dei donatori, come patroni efficaci per pervenire alla salvezza eterna. Un vincolo più qualificante era rappresentato dalla scelta del luogo di inumazione e dalla sua progressiva monumentalizzazione. Il sopra citato brano di Bartolomeo da Pisa43 rende evidente l’importanza ascritta alle pratiche funerarie e ai sepolcri, anche per i Minori, ma ciò valeva per la fine del Trecento. La situazione non fu sempre “tranquilla”, se Bonaventura, nel 1257, in una lettera indirizzata ai ministri provinciali e ai custodi stigmatizzava la «sepulturarum et testamentorum avida quaedam invasio»44. All’interno dello stesso Ordine, a lungo ci furono resistenze ad accogliere tombe di laici nelle chiese e nei conventi, per evitare gli oneri delle liturgie commemorative45, ma anche per prevenire gli imbarazzi legati alle ben note dispute con le istituzioni ecclesiastiche diocesane, in larga parte cagionate dai rancori e dalle ruggini derivanti dal controllo dei pro-
38 F. LOMASTRO, Appunti sulla fortuna dei Minori a Vicenza nel Duecento, in Minoritismo e centri veneti cit., pp. 41-62. 39 ALBERZONI, Francescanesimo a Milano cit., pp. 120-125. 40 A. PIAZZA, I frati e il convento di San Francesco di Pinerolo, Pinerolo 1993, pp. 21-27. 41 TILATTI, I frati Minori cit., pp. 9, 14, 26-27. 42 Il caso ascolano ha la peculiarità di un difficile ingresso dei Mendicanti, motivato generalmente dalla “naturale inclinazione” della città verso la parte imperiale: M. CAMELI, “In volubili Marchia”. Ascoli e la sua chiesa, tra papato e impero (secoli XI-XIII), Ascoli Piceno 2012, pp. 305-312. 43 Cfr. supra, in corrispondenza della nota 27. 44S. Bonaventurae Opera omnia, VIII: Opuscula varia ad theologiam mysticam et res Ordinis Fratrum Minorum spectantia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1898, p. 469. 45 Cfr. H. MORVAN, La politique funeraire des frères Prêcheurs et Mineurs au XIIIe siècle: reflexions autour des sources normatives, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 68/1 (2014), pp. 11-43.
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venti connessi con le liturgie funerarie e della memoria dei defunti46. Tuttavia la forza di attrazione dei conventi nei confronti dei laici fu inarrestabile e la normativa dell’Ordine, al fine di evitare scandali, impose eccezioni proprio per le persone di rango elevato e le loro famiglie47. Tale attrazione era correlata con il prestigio ormai acquisito dall’Ordine; la sua riuscita pastorale si traduceva in efficacia rappresentativa dei suoi spazi funerari e più ampiamente liturgici. Se è vero che anche i morti giovavano alla promozione dei vivi, i riti funebri, l’iterazione degli anniversari, la monumentalità delle tombe e delle epigrafi e l’ostensione dei corredi liturgici, spesso decorati con gli emblemi della stirpe, potevano quotidianamente ricordare la persona del donatore e la sua famiglia tanto ai frati quanto al popolo fedele48. Anche in questo caso, la costruzione di sepolcri e di cappelle si intensificò negli ultimi decenni del Duecento e proseguì nel Trecento, influenzata anche dal successo di tipologie tombali riservate alla glorificazione dei corpi santi49. In questo settore, mi pare sia da sottolineare la rilevanza della componente femminile delle famiglie nobili, sovente impegnata a preoccuparsi dei destini dei corpi e delle anime, nonché sollecita nella fornitura di paramenti liturgici spesso usciti dalle sapienti mani dedite al ricamo. Un inventario della sacristia del convento di Udine, ad esempio, elenca intere collezioni di calici donati da donne delle famiglie aristocratiche, tutti riconoscibili dal rispettivo stemma, che sfavillava durante le messe e le funzioni50.
46 L. PELLEGRINI, Mendicanti e parroci: coesistenza e conflitti di due strutture organizzative della “cura animarum”, in Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel ’200. Atti dell’VIII Convegno internazionale SISF (Assisi, 16-18 ottobre 1980), Rimini 1982, pp. 131167: 148-159; PELLEGRINI, Cura parrocchiale e organizzazione territoriale degli ordini mendicanti tra il secolo XIII e il secolo XVI, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XIV). Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 settembre 1981), Roma 1984, I, pp. 278-305. 47 Nonostante le prudenze per evitare i conflitti con i parroci, per i Minori, «les sépultures devaient être acceptées lorsqu’un refus aurait été néfaste à la mission pastorale de l’ordre et au maintien de bonnes relations avec les bienfaiteurs appartenant aux élites laïques et religieuses»: MORVAN, La politique funeraire cit., pp. 26-28 (la citaz. a p. 28). 48 M. BACCI, Investimenti per l’aldilà. Arte e raccomandazione dell’anima nel Medioevo, Roma-Bari 2003. Per propaganda interna all’Ordine: H. MORVAN, Les sépultures dans la propagande des frères prêcheurs et mineurs: quatre sépultures de cardinaux à Lyon au XIIIe siècle, «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 126/1 (2014), consultabile http://mefrm.revues.org/1914 (consultato il 26 maggio 2017). 49 Sulle tipologie tombali, cfr. M. TOMASI, Le arche dei santi. Scultura, religione e politica nel Trecento veneto, Roma 2012. 50 TILATTI, I frati Minori cit., p. 59.
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Altrettanto significativi furono i legami di confidenza, individuale o famigliare, che i frati spesso intrattennero con persone ai vertici della scala sociale. In genere si trattava di un rapporto di confessione/direzione spirituale, ma il limite del dominio spirituale o immateriale era facilmente valicabile. Un esempio può forse giovare meglio di discorsi astratti a spiegare quel che intendo. Frate Baldassare de diocesi Brixiensi fu più volte guardiano del convento di Cividale del Friuli fra l’ultimo quarto del Duecento e l’inizio del Trecento. Egli è menzionato in alcune carte come penitenziere del miles Asquino di Varmo e in tale veste lo assistette al momento della stesura del testamento, ma in numerose occasioni appare come una sorta di fiduciario tuttofare, impegnato a far pervenire a destinazione lasciti pii e a suddividere il patrimonio di svariati membri della famiglia di Varmo, fino anche a curarne le mediazioni politico-sociali, in un pendolarismo tra Cividale e le residenze castellane disposte sul territorio. In tali pratiche il suo ruolo, più che di consigliere, a volte sembra quello di un esecutore fedele, affidabile, mobile e autorevole nei confronti di uomini e istituzioni, che da una parte lo sovrastavano e dall’altra lo rispettavano51. Come Baldassarre, uomo tanto prestigioso in vita quanto oscuro storiograficamente, furono decine e decine i frati impegnati in una capillare opera di vicinanza/assistenza a centinaia, forse migliaia, di uomini e donne, specialmente membri di importanti stirpi52. Frate di “famiglia” fu in un certo senso anche Odorico da Pordenone, il noto viaggiatore in Oriente e beato, giacché i pochi documenti d’archivio, che di lui sussistono e lo mostrano attivo in Friuli, lo legano con una certa evidenza alla nobile famiglia di Castello e, tramite essa, ai ben più potenti Della Torre, espulsi da Milano dai Visconti e di fatto signori del patriarcato aquileiese mediante il lungo monopolio dell’ufficio patriarcale53. Proprio i Torriani ne promossero immediatamente il culto, ricambiando in modo eclatante la diuturna amicizia e vicinanza. L’accenno ai patriarchi d’Aquileia di casa Della Torre mi consente un ulteriore ragionamento. I patriarchi non erano propriamente un lignaggio, ma rappresentavano una sorta di alta aristocrazia della Chiesa, al pari di arcivescovi e cardinali. Da Gregorio da Montelongo in poi (1252-1269)54,
51 Ibid. pp. 55-56; TILATTI, Della villa di Varmo in Friuli. Ossia della villa Cisilino in Villa di Varmo, Pasian di Prato (UD) 2011, pp. 44-47. 52 Un esempio ulteriore è Luca Belludi, a Padova (supra, nota 21). 53 A. TILATTI, Odorico da Pordenone. Vita e Miracula, Padova 2004, pp. 17-22. 54 Rimando, per brevità, alla mia voce Montelongo (di) Gregorio in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, 1/I-II: Il medioevo, cur. C. SCALON, Udine 2006, pp. 553-
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sono assai ben documentate le relazioni tra essi e i Minori, come pure con i Predicatori, ma il legame diventò molto intenso con Raimondo Della Torre (1273-1299) e poi con Pietro da Ferentino (1299-1301). Il primo portò in Friuli la propria esperienza milanese e lombarda55. Il secondo aveva appreso l’utilità del vincolo con i Minori, quando era vescovo di Rieti e giovane prelato in carriera, grazie alla militanza nella curia papale56. Tra i loro collaboratori più fidati si annoverano numerosi frati Minori (ma, occorre sottolinearlo, anche frati di altri ordini), che agivano come cappellani, confessori, fiduciari per negozi religiosi e politici, favoriti dalla ubiqua presenza dell’Ordine. Le motivazioni potevano essere molteplici: dalla predilezione personale fino a una sorta di necessità. Tutti e tre i prelati sopra citati, vescovi ma sopra tutto signori di un esteso dominio temporale, erano “stranieri” in Aquileia e nel Friuli, erano inoltre l’esito della precoce riserva papale sull’elezione dei patriarchi aquileiesi57, non potevano contare sulla solidarietà della società locale né del capitolo, come i loro predecessori. È possibile che i frati costituissero le prime maglie di una rete di amicizia, ausilio e fiducia altrettanto solida e prestigiosa, con la quale avevano acquisito altrove dimestichezza e familiarità. Ecco aprirsi un’altra prospettiva di snodo tra i Minori e la nobiltà, non distante concettualmente da quella di confessione/direzione spirituale accennata poco fa, ma i cui risvolti sono ancor più chiaramente politici e hanno impegnato i frati su una lunga spanna temporale e con notevoli varianti territoriali e tematiche. Tale rapporto va inquadrato, appunto, in un contesto che vide il precoce coinvolgimento dell’Ordine nelle iniziative
563. Come legato a Milano, Gregorio impose l’elezione ad arcivescovo di fra Leone da Perego: ALBERZONI, Francescanesimo a Milano cit., pp. 32-35; G.G. MERLO, Leone da Perego frate Minore e arcivescovo, «Franciscana», 4 (2002), pp. 29-110. 55 Su Raimondo Della Torre: L. DEMONTIS, Raimondo della Torre patriarca di Aquileia (1273-1299), politico, ecclesiastico, abile comunicatore, Alessandria 2009, part. pp. 246-249 (anche il fratello di Raimondo, Napoleone, indossò l’abito dei Minori in punto di morte e chiese di essere sepolto nella chiesa conventuale di Como, ibid., p. 99 e nota 100). 56 Cfr. R. BRENTANO, A New World in a Small Place. Church and Religion in the Diocese of Rieti, 1188-1378, Berkeley-Los Angeles-London 1994, pp. 21, 64, 84, 98, 135, 137, 143, 147, 151-168, 181, 198, 279, 300, 318; Pietro fu il primo (e unico) patriarca che chiese di essere sepolto presso i frati Minori, senza peraltro riuscirvi: TILATTI, I frati Minori in Friuli cit., pp. 49-51. 57 Sulle elezioni dei patriarchi, che da Gregorio da Montelongo in poi furono riservate alla scelta dei pontefici: G. SILANO, Episcopal Elections and the Apostolic See. The Case of Aquileia: 1251-1420, in Diritto e potere nella storia europea. Atti in onore di Bruno Paradisi, Firenze 1982, I, pp. 163-194.
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ecclesiastiche e secolari del papato tardomedioevale, talvolta schierati da una parte politica, altre volte come impiegati come mediatori o pacieri58. Un indizio rivelatore è stato individuato già nel 1227, quando i frati di Bassano furono reclutati da Gregorio IX nella lotta contro l’eresia, che si caricava allora anche di significati politici59. Le vicende dei primi anni Trenta con la partecipazione organizzata e coordinata nella grande campagna di pace dell’Alleluia e il coinvolgimento nel conflitto tra papato e impero60, con l’assunzione progressiva di importanti uffici ecclesiastici come quello episcopale61, ai quali sarebbero seguiti anche i cardinalati62 e l’ascesa al soglio papale con Niccolò IV (1288-1292), con la partecipazione anche a incarichi politici, come quello di podestà63, sono elementi di fatto che mostrano un incontrovertibile processo di affermazione istituzionale dell’Ordine. Era chiaro che i frati, o almeno alcune figure fra essi, potessero essere anche individuati quali referenti privilegiati di persone o famiglie signorili, ovvero di prelati di alto livello, come il patriarca d’Aquileia, appunto, o l’arcivescovo di Milano. La rilevanza politica dei religiosi si può leggere sia in positivo, sia in negativo. È nota la diffidenza di Ezzelino da Romano, signore per un ventennio della Marca Trevigiana, nei confronti dei Minori, a causa del loro dinamismo e della povertà che li rendeva liberi dai consueti strumenti di ricatto e coercizione, ma temibili competitori grazie alla facilità di trasmissione di una parola ascoltata e autorevole64. L’impegno dell’Ordine è stato spesso interpretato negli schemi delle dinamiche riguardanti il confronto tra papato e impero, ma con il progredire dei decenni, fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, il quadro pare modificarsi e non può essere ricondotto semplicemente alla polarizzazione in schieramenti generali. La complessità stessa dell’Ordine, con le
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Per brevità, cfr. MERLO, Nel nome di san Francesco cit., pp. 86-118, 135-168. Ibid., pp. 96-99. Cfr. il contributo di Marina Gazzini, in questo volume. Leone da Perego, arcivescovo di Milano nel 1241 (cfr. supra, nota 54), fu il primo di una lunga serie: W.R. THOMSON, Friars in the Cathedral. The First Franciscan Bishops, 12261261, Toronto 1975; Dal pulpito alla cattedra. I vescovi degli Ordini mendicanti nel ’200 e nel primo ’300. Atti del XXVII Convegno internazionale (Assisi, 14-16 ottobre 1999), Spoleto 2000. 62 Da Bonaventura (1273-1274) in poi: F.A. DAL PINO, Il cardinale francescano Matteo d’Acquasparta uomo di fiducia e legato di Bonifacio VIII e la sua politica religiosa, in I Francescani e la politica cit., II, pp. 271-287: 272-273. 63 Cfr. qui il saggio di Michele Pellegrini. 64 Cfr. RIGON, La libera povertà cit., p. 146.
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frizioni sempre più evidenti fra le varie anime (“comunità” e “spirituali”) e la rispettiva ricerca di alleanze estrinseche, presume una grande varietà di situazioni contingenti. Tuttavia, anche su questo punto, gli studi specificamente consacrati all’analisi di tale rapporto non sono numerosissimi e diventano forse più significativi quando interessino il pieno secolo XIV. Sono più noti di altri i casi dei Gonzaga65, dei Visconti66 o anche del ramo piemontese dei Savoia67, che mostrano ovunque la «reciproca strumentalizzazione» del vincolo di collaborazione tra signori e frati68. Con ciò si intende dire che, per quanto non sia escluso l’orizzonte di un genuino interesse religioso e spirituale, i signori potevano trovare vantaggioso l’appoggio a un Ordine che, sebbene incarnato in realtà delimitate, era pur sempre di proiezione “universale”, direttamente raccordato con i vertici della Chiesa e in facile confidenza con i papi. Dall’altro lato sia l’Ordine nel suo complesso, sia la dimensione territoriale della provincia o del convento di riferimento, sia i singoli frati coinvolti traevano vantaggi di diversa natura, personali e istituzionali, dai buoni uffici del signore. Anche per questa dimensione, che appare quasi più formalizzata, occorre tuttavia tenere in debita considerazione la rete dei rapporti squisitamente individuali che veniva intessuta, sulla scorta della conoscenza e della fiducia nelle persone, piuttosto che di un generico riferimento alle istituzioni69. Ho raggruppato sotto alcune macro-tipologie una serie di rapporti enucleati dalla ricerca storica. Esse non esauriscono le possibilità degli
65 C. CENCI, I Gonzaga e i frati Minori dal 1365 al 1430, «Archivum Franciscanum Historicum», 58 (1965), pp. 3-47, 201-279. 66 G.G. MERLO, Francescanesimo e signorie nell’Italia centro-settentrionale, in MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi 1991, pp. 93-112 (già in I Francescani nel Trecento. Atti del XIV Convegno internazionale [Assisi, 18-20 ottobre 1986], Assisi 1988, pp. 101-126); A. CADILI, I frati Minori e i Visconti nella Milano trecentesca, «Cristianesimo nella storia», 30 (2009), pp. 73-100. Di quest’ultimo autore: Giovanni Visconti arcivescovo di Milano (1342-1354), Milano 2007. 67 PIAZZA, I frati e il convento cit., pp. 27-30. 68 MERLO, Francescanesimo e signorie cit., p. 97; CADILI, I frati Minori e i Visconti cit., p. 80. 69 Notando l’evoluzione delle biografie di alcuni frati, fino a pervenire all’episcopato nelle diocesi centroitaliche, e in particolare di Pisa, Mauro Ronzani, si interrogava da una parte sulla cifra qualitativa del governo episcopale di questi personaggi, ma dall’altra su «quale rilievo avessero siffatte promozioni vescovili nelle varie “strategie” perseguite dalle famiglie cittadine nobili e “di popolo” alle quali quei religiosi domenicani, francescani o agostiniani appartenevano» (M. RONZANI, Note e osservazioni sui vescovi mendicanti in Italia centrale fino alla metà del secolo XIV, in Dal pulpito alla cattedra cit., pp. 133-165: 160-161).
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scambi, ma, per usare un’immagine vettoriale, sono tutte orientate nel verso che va dal gruppo aristocratico-nobiliare all’Ordine. Esiste anche la possibilità uguale e contraria. Mi pare che la natura stessa dei Minori, a partire dalla figura del fondatore, tanto quella reale quanto quella agiografica70, sia stata concepita, almeno inizialmente, per andare al pacifico assalto delle persone e della società: vivere la propria scelta evangelica come esempio e testimonianza innanzi tutto personali, implicava poi quell’impellente esigenza di predicare, di avanzare proposte di penitenza e di conversione, di fornire concrete e immediate possibilità di adesione, conversione, rifugio, che assumevano significati di maggior pregnanza se mirata agli individui e ai ceti più abbienti e influenti. Si materializzava così, vorrei dire nella quotidianità dell’azione pastorale, quella sequenza verificata nel caso della conversione di Bernardo, così come raccontata da Tommaso da Celano71. Voglio dire che, dalla parte dei frati, si è manifestata con vigore e fortuna quella sorta di lussuria ossidionale indirizzata a penetrare le coscienze individuali e collettive e il parallelismo di certe spinte “eroiche”72 forse era percepito con maggior efficacia e suggestione da chi per nascita ed educazione puntava alla preminenza e alla conquista. La conquista dei vertici sociali divenne più tardi, nella seconda metà del Duecento, un focus privilegiato che non fu senza conseguenze all’interno dell’Ordine. Forse non è calzante con esattezza, ma viene per analogia alla mente la citazione di Orazio: Graecia capta ferum victorem cepit73. Per dirla con Grado Giovanni Merlo, sembra che i Minori si siano in un certo senso adeguati «alle tendenze aristocratiche della società», con un ritmo crescente dal declinare del Duecento al fiorire del Trecento signorile74. Non posso qui approfondire l’analisi, ma è facile a tal proposito citare Salimbene, che rimproverava – fra le altre cose – a frate Elia di non essere cortese, segno di una mentalità condivisa da un frate, che sinceramente
70 Cfr. supra, nota 14; ma anche R. MICHETTI, Francesco d’Assisi e il paradosso della minoritas. La Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, Roma 2004. 71 Cfr. supra, nota 19. 72 È naturale pensare alle spinte “missionarie” di Francesco tra i saraceni, del tutto alternative alla logica delle armi, ma pur sempre animate da un incrollabile spirito di testimonianza (G. MICCOLI, Dal pellegrinaggio alla conquista: povertà e ricchezza nelle prime crociate, in Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI e XII, Todi 1969, pp. 43-80), oppure alle prime espansioni dei frati verso la Germania (F.A. DAL PINO, Giordano da Giano e le prime missioni oltralpe dei frati Minori, in I compagni di Francesco cit., pp. 203-257). 73 Orazio, Epistole, II, 1, 156. 74 Cfr. MERLO, Francescanesimo e signorie cit., p. 110.
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3. Quali fonti?
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voleva essere francescano, ma non sapeva esserlo se non con le lenti, i valori, i modi della buona società nobiliare75. In Salimbene non vi sono riflessioni teoriche sull’aristocrazia o sulla nobiltà, ma egli tradisce sicuramente l’usucapione dei princìpi e dei modi della nobilitas, giudicati compatibili con il saio francescano e anzi raccomandabili a tutti. Conviene a questo punto riconsiderare il già citato Bartolomeo da Pisa, il quale, nella sua opera, sembra aver compiuto un passo ulteriore. Per lui non pare più in questione la dignità/nobiltà del singolo frate, ma quella dell’Ordine stesso, che aveva assunto una propria nobiltà, faceva parte di una ristretta élite, raggiunta per merito delle scelte radicali del suo fondatore76.
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Un discorso storico che si rispetti dovrebbe accennare alla questione delle fonti; il “come posso sapere quello che sto dicendo?” è essenziale, ma qui la risposta si rivela particolarmente complessa. Dal ventaglio di possibilità pur sommariamente aperto nel precedente paragrafo, si comprende bene come sia arduo definire una tipologia di fonti prevalenti o privilegiate per risalire alla quantità e alla qualità dei rapporti tra la nobiltà e i frati Minori. È possibile tuttavia almeno distinguere tra fonti prodotte o conservate all’interno dell’Ordine o esterne ad esso. Per il periodo delle origini sono forse particolarmente significative le agiografie (di Francesco e di Antonio, avanti le altre) e le cronache o i sermonari e gli exempla, ma poi, anche negli archivi dei diversi conventi, si infittiscono i documenti di altra natura: carte patrimoniali, testamenti, vari tipi di documenti rilasciati o prodotti dalle autorità pubbliche, atti interni dell’Ordine, necrologi/obituari, inventari di sacristia, libri di conti, ma anche cappelle e monumenti funebri, oggetti d’arredo liturgico, libri e gioielli... L’elenco non è di certo completo e la sua eterogeneità indica corrispettivamente la grande complessità del tema. Tutto questo va cercato negli archivi o nei fondi già di pertinenza dei singoli insediamenti minoritici, gli stati di conservazione e la ricchezza dei quali sono ben lungi dall’uniformità. Ma la difficoltà e pro-
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Per questi aspetti rimando alle annotazioni di MERLO, ibid., pp. 96-97, con le rispettive note, ma anche a C. VIOLANTE, Motivi e carattere della Cronica di Salimbene, in VIOLANTE, La “cortesia” chiericale e borghese nel Duecento, Firenze 1995, pp. 13-80 (già in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere, ser. II, 22/1-2 [1953], pp. 3-49). 76 Cfr. ancora, supra, note 25-27.
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porzionalmente anche gli esiti si accrescono quando si intraprenda la navigazione in ulteriori direzioni, in archivi diversi: di famiglie, di istituzioni, di notai... Davvero, in questi casi, mi sembra impossibile delimitare i campi di ricerca. Le strade che possono essere percorse sono numerose e sovente rappresentano piccole parti di itinerari più lunghi, di solito intrapresi a partire dai frati, dai conventi, che si mostrano in uno dei tanti aspetti della loro vita, della loro presenza istituzionale, del loro inserimento nelle realtà locali. Tuttavia, a mio avviso, uno studio specifico e analitico sui rapporti tra nobiltà e Minori dovrebbe iniziare ben prima dell’intersezione tra gli eventuali protagonisti. Sopra tutto, un tale studio comporta un notevolissimo sforzo di ricerca sulle persone, sulle famiglie, sui patrimoni, sulle singole occasioni di incontro e di dialogo. Mi pare, da questo punto di vista, che meglio di altre l’approfondita ricerca di Attilio Bartoli Langeli sui Coppoli di Perugia mostri l’immensità dell’impegno richiesto per giungere a risultati, se non incontrovertibili, almeno fondati su dati positivi e non frutto di impressioni o di petizioni di principio, per quanto queste ultime si possano rivelare corrette ex post. Del resto, come ha scritto lo stesso autore, il lavoro accurato sulle fonti e anche la loro minuta lettura e descrizione sono necessari per «evitare ogni genericità nelle valutazioni più importanti»77. Credo sia la sola via percorribile per passare dal piano delle ipostatizzazioni (la nobiltà, i Minori...) a quello degli uomini. Se il primo offre astrazioni utili per la comprensione dei dati, il secondo, per quanto faticoso, è quello proprio del vero storico con tutta la sua immensa e insospettata varietà. 4. Quale periodizzazione? (e quali luoghi?)
Un altro nodo da esaminare tipico degli storici è la periodizzazione. Come si sa, si tratta di un intervento interpretativo e quindi assai delicato a determinarsi, nella sua inevitabile artificiosità. Per tale ragione, quel che dirò ora invade pure il territorio dell’ultimo punto che intenderei toccare, quello delle interpretazioni storiografiche circa la questione generale che mi sono posto. Per quanto ho potuto leggere, mi pare che gli studiosi interessati in primis alla questione della “nobilità” bassomedioevale, intesa sia come fatto
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BARTOLI LANGELI, La famiglia Coppoli cit., p. 92.
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sociale e politico, sia come espressione giuridica, culturale o morale, sia nelle sue concrete dinamiche all’interno di specifici ambiti cittadini o territoriali, si mostrino ben poco propensi a esplorare l’articolarsi dei rapporti con l’ordine dei Minori, o con altri ordini mendicanti, ma anche più in generale con la dimensione religiosa o ecclesiastica: tutti argomenti che normalmente restano di fatto esclusi o ai margini del discorso78. Il tema è stato affrontato più di frequente, sebbene in modo non sistematico, dal versante degli studi sui Minori e sul francescanesimo medioevale. Per tale motivo la sua articolazione periodizzante risente sia della declinazione peculiare assunta dal problema (per esempio: è stato considerato in termini di reclutamento? di relazioni sociali? di influenze religiose e culturali?...), sia delle consuetudini consolidate nella storiografia specializzata, che ha impostato la scansione delle epoche sulla figura di Francesco e sui momenti reputati significativi dell’evoluzione e variazione della sua eredità. Perciò assumono valore di riferimento precipuo tornanti come quello degli anni Trenta del Duecento, del generalato bonaventuriano e del secondo concilio lionese, i decenni della crescita degli spirituali, con l’acutizzarsi dei conflitti nei primi decenni del Trecento, e il permanere di una sensibilità che portò, più tardi, all’osservanza. Alla luce di tali premesse interpretative, le relazioni con la nobiltà, nella loro molteplice appariscenza, gli episodi individuali come gli svolgimenti tipizzanti scandiscono ulteriormente il periodizzamento e contribuiscono, in via subordinata, a fornire ipotesi di lettura e di spiegazione alla questione principale. Ovviamente, la prospettiva, per dir così, “interna” non può ignorare dati di fatto estrinseci, come, ad esempio, il materializzarsi di certi regimi signorili, già anticipati nel Duecento, ma più tipici del Trecento, con il conseguente imporsi di prassi di dialogo variamente declinate. Meno sensibile, mi pare, è invece il sismografo correlato ad altre questioni, quali il progressivo definirsi giuridico formale delle aristocrazie/nobiltà cittadine, con le rispettive stratificazioni interne e le corrispondenti ricadute politiche. Vale però la pena di introdurre una variabile in tutto ciò, in modo da rendere meno lineari e prevedibili i profili esegetici. Mi riferisco alla coordinata spaziale, che sembra offrire multiformi opportunità di rapporto tra
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Ad esempio, e la scelta è del tutto casuale, il bel libro di S. DIACCIATI, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto 2011. Ugualmente silenti, per la maggior consistenza, sono gli studi citati supra, note 3, 4, 6, 8. Nel contesto di un volume miscellaneo come Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del XV Convegno internazionale di studi (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, il tema fu affidato ad A. RIGON, Il ruolo delle chiese locali nelle lotte tra magnati e popolani (pp. 117-135).
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i frati e la società dei luoghi in cui erano sorti i conventi, siano pure legate da un nesso di contemporaneità. Ciò avveniva anche in ragione della diversità stessa con la quale si presenta il fenomeno minoritico in difformi contesti regionali79, ma specialmente perché la conformazione dei ceti urbani era molto diversa anche in località contigue. Al medesimo nome, ad esempio nobilis, potevano corrispondere fisionomie e concezioni non conformi. Gli stessi contemporanei percepivano quanto fosse diverso da città in città, in Italia, il concetto stesso di nobiltà80. Così sono rivelatrici e da sottolineare le parole di Attilo Bartoli Langeli, a proposito dei Coppoli, ma più in generale dell’aristocrazia perugina e dei legami con i seguaci di Francesco d’Assisi: «Senza dubbio a Perugia l’interlocutore privilegiato degli ordini mendicanti è il ceto nobiliare. La cosa va sottolineata in quanto altrove i mendicanti instaurarono rapporti più stretti coi detentori della ricchezza mobiliare, i mercanti»81. Non è detto che, nella situazione italiana, ci sia incompatibilità tra nobiltà e mercatura, tuttavia una simile osservazione obbliga alla prudenza, a riconsiderare e a verificare continuamente gli schemi generali, non dimenticandone l’utilità destinata a migliorare l’intelligibilità dei fenomeni, ma valutando di caso in caso la loro aderenza al contesto reale al quale si intendono applicare. L’idiografia sopravanza la nomotetica, ma rende anche più ardua e laboriosa l’indagine degli storici. 5. Quali interpretazioni?
Il tema generale del volume (Francescani e politica nelle autonomie cittadine dell’Italia basso-medioevale) spingerebbe a limitare il rapporto tra i frati Minori e la nobiltà alla sfera della “politica”, sebbene si tratti di una sola frazione della questione. Tuttavia, la qualità sociale dell’aristocrazia/nobiltà conferiva in qualche modo un valore politico a ogni azione pubblica (o quasi) compiuta dai suoi membri.
79 Si vedano in tal senso le annotazioni di RIGON, Frati Minori e società locali cit., pp. 268-269; ed è significativa la definizione tipologica di un “minoritismo padano”, che si differenzia da quello centro-italico: RIGON, Antonio e il minoritismo padano, in RIGON, Dal Libro alla folla cit., pp. 21-45 (già in I compagni di Francesco, pp. 169-199). 80 Giordano da Pisa afferma che «suole essere secondo natura diversità di nobiltà per ragione del luogo», cfr. CASTELNUOVO, Bons nobles, mauvais nobles cit., pp. 93-94. 81 BARTOLI LANGELI, La famiglia Coppoli cit., p. 109; il riferimento comparativo era a MICCOLI, La storia religiosa cit., p. 797.
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Per tale ragione credo di dover tornare alle suggestioni ossidionali d’esordio. Elimino il concetto dannunziano di “venturiero” e lo sostituisco con quello di un generico e ideale nobilis, che forte della sua esperienza militare, della sua autorevolezza sociale e politica, della sua consapevolezza ideologica e culturale, della rete di legami parentali e di consorteria, e anche spesso dotato di risorse economiche, vuole “conquistare” la città, spinto da una insopprimibile volontà di affermazione. A ben guardare, la generica impresa, pur tenendo presenti le diverse condizioni ed evenienze locali, è sostanzialmente riuscita, al di là delle esperienze duecentesche dei governi popolari, con tutte le liste di proscrizione dei magnati che sono state compilate, che però non condussero «affatto alla liquidazione politica e sociale dei magnati»82. Dall’altra parte, immagino un altrettanto generico e ideale frate Minore, e la sua sollecitudine per “conquistare” quanti più fedeli possibile, magari a partire proprio dallo strato superiore delle società, quello dei capi, e dai centri più popolosi, le città. Anche da questo punto di vista, considerati la crescita e lo sviluppo dell’Ordine fra Due e Trecento, pare di poter rispondere che l’impresa fu coronata da successo. Le domande, rispetto allo spirito di questa raccolta di studi, dovrebbero essere circa le seguenti. I due processi sono collegati e in quale misura? E inoltre, esiste in essi una peculiarità “francescana”? Confesso che non ho una vera risposta. Mi limito a constatare, come ho fatto, la positiva esistenza di intrecci e interrelazioni, che tuttavia si manifestano mediante un’enorme possibilità di varianti, spesso apparentemente contraddittorie, e secondo modalità non esclusive per l’Ordine dei Minori, che aveva una lunga lista di “concorrenti”. Ai due elementi di concettualizzazione sopra nominati, occorre dunque aggiungerne almeno un altro, quello di luogo, che sia esso rappresentato da una città o da territori più articolati (mi piacerebbe quasi dire “non città”) nei quali si muovevano i protagonisti. Come già osservato, anche in corrispondenza di cronologie sincrone, la dislocazione spaziale poteva marcare differenze significative. Tuttavia forse è possibile aggiungere qualcosa, come ipotesi di lavoro. Mi è capitato più volte di leggere testamenti, tardo duecenteschi o trecenteschi, fatti redigere alla vigilia di un viaggio d’affari o di un pellegrinaggio.
82 Cfr. E. ARTIFONI, Tensioni sociali e istituzionali nel mondo comunale, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, dir. N. TRANFAGLIA - M. FIRPO, II,2, Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, Torino 1986, pp. 461-491: 482.
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Preoccupati del destino del proprio corpo, nel caso fossero deceduti in terra straniera, i testatori chiedevano di essere sepolti nella chiesa del locale convento dei Minori (o di altri ordini Mendicanti) ovunque si fossero trovati nel momento estremo. Mi pare che una simile consapevolezza circa l’ubiquità dell’accoglienza di un’istituzione fortemente caratterizzata nella propria personalità, pur nella necessaria caratterizzazione dei singoli conventi, possa essere la base di riflessione anche per altri discorsi da approfondire con maggior attenzione e per passare dal dominio delle visioni individuali a quello delle esperienze più condivise socialmente. Se tanto i Minori quanto la nobiltà si configuravano come un’élite contraddistinta dalla volontà di conquista, da una specifica lussuria ossidionale, il carattere nuovo per entrambi, a partire dal Duecento, è forse la tensione ubiquitaria e la propensione ad autorappresentarsi in modo analogo ovunque fossero presenti. Ciò non esclude gli accomodamenti locali, le differenziazioni contingenti, il continuo adeguarsi ai tempi e alle circostanze. Ma nel diuturno rapporto tra Chiesa e nobiltà, al quale accennavo all’esordio, forse i Minori (e in genere i Mendicanti) seppero arrecare un tasso di novità, che stava forse proprio nel proporre un modello di ordine “internazionale” ovunque adattabile, ma ovunque ostentante la pretesa di rappresentare il meglio di quanto la Chiesa offriva sul piano religioso e istituzionale, e perciò corrispondente a un gruppo sociale che cercava raccordi sovracittadini e sovraterritoriali e una personalità ideale e giuridica che si sarebbe pian piano uniformata e cristallizzata. Che la nobilità avesse bisogno di confrontarsi con i Minori, l’avrebbe poi ribadito la vicenda delle Osservanze: un nuovo confronto tra i “migliori”.
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Signorie cittadine e Frati Minori nel contesto dellâ&#x20AC;&#x2122;Italia centrale. Appunti per lo studio di una relazione*
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Alla memoria dell’infaticabile ricercatore che fu Mons. Mario Sensi (1939-2015)
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La moltiplicazione dei regimi signorili, i loro cambiamenti ed il loro perpetuarsi, da una parte, gli sviluppi dell’ordine francescano, nelle sue contraddizioni e nei suoi continui adattamenti, dall’altra, segnano la storia delle città italiane alla fine del Medioevo. Si svolgono in maniera autonoma, seguendo logiche che sono loro proprie, e corrispondono a due campi storiografici imponenti, abbastanza estranei l’uno all’altro. Sono tuttavia i punti di contatto fra questi fenomeni a costituire l’oggetto di queste note. Il terreno è fertile, ma attraversato da problemi complessi, e – ovviamente – ben lungi dall’avere dato tutti i suoi frutti. Con ciò si vuol subito dichiarare il carattere circoscritto delle osservazioni avanzate in queste pagine, lontane da conclusioni definitive. L’obiettivo, più limitato, è quello di condividere le riflessioni problematiche che, a partire da alcuni temi, sono state sviluppate nel corso della ricerca. Il punto di vista adottato è quello delle signorie cittadine. La signoria è un potere polimorfo, legato ad una potenza familiare, ad un dominio sociale e ad un controllo degli strumenti istituzionali cittadini. Nata nel mondo comunale, la signoria ne conserva per lungo tempo la memoria e resta durevolmente sotto la dipendenza dei comuni, delle legittimità che ne derivano,
* Aix Marseille Univ, CNRS, LA3M, Aix-en-Provence, France. Si ringraziano di cuore Alessandra Borchi e Rosanna Scatamacchia per l’aiuto inestimabile dato nella preparazione del testo in italiano. Si ringrazia, inoltre, la direzione del Museo della Città di Foligno in Palazzo Trinci per aver cortesemente autorizzato la realizzazione, e la pubblicazione, delle riprese fotografiche. Jean-Claude Maire Vigueur, Rosanna Scatamacchia e Ilaria Taddei hanno riletto il saggio con benevolenza umana e rigore scientifico. E esprimiamo loro la nostra sincera gratitudine.
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come degli organi di governo e di amministrazione che si sono sviluppati al suo interno. I casi trattati riguardano il centro della penisola, al centro e ad est dello Stato pontificio, l’Umbria, le Marche e la Romagna. Saranno studiati attraverso fonti scritte diverse: normative, archivi e cronache. Partire alla ricerca delle novità nei rapporti tra potere politico e Frati minori, in relazione al rafforzamento del potere signorile e al suo esercizio all’interno del sistema comunale, incontra subito un primo ostacolo nella documentazione disponibile. Significa inoltre iscrivere l’analisi nell’ambito dell’opposizione teorica del comune e del signore, un’opposizione della quale la ricerca recente ha mostrato i limiti1. Più semplicemente, quindi, prenderemo in esame alcune modalità – e conseguenze – dell’atteggiamento dei signori verso i Francescani. Inizieremo con una breve presentazione di alcune questioni poste dall’affermazione semplice e del tutto condivisibile che i regimi signorili abbiano favorito i Francescani. Nella seconda parte, prenderemo in esame una manifestazione familiare di tale preferenza da parte dei signori: la scelta del luogo di sepoltura. In una terza parte, infine, accenneremo a forme più istituzionali della relazione, vale a dire le sollecitazioni nei riguardi dei Minori da parte dei poteri pubblici, per coinvolgere i frati nell’amministrazione cittadina o nella predicazione in città. La prima parte della riflessione può essere dedicata ad alcune questioni relative al modo di affrontare l’oggetto studiato. Si tratta di premesse di ordine generale, illustrate poi con casi specifici nel corso del saggio, che non comportano novità, ma che è importante tenere a mente per la comprensione del percorso proposto. È inutile soffermarsi sui problemi di documentazione per l’esame comparativo delle relazioni signori-francescani. Lo stato di conservazione cambia significativamente a seconda delle città. In una stessa città, le fonti da esaminare devono provenire al tempo stesso dal comune, dalle cancellerie signorili, quando esistono, dai notai e, naturalmente, dalle istituzioni religiose. Ma la conservazione dei documenti non è omogenea per tutti gli
1 G.M. VARANINI, Aristocrazie e poteri nell’Italia centro-settentrionale. Dalla crisi comunale alle guerre d’Italia, in Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, cur. R. BORDONE, Roma-Bari 2004, pp. 121-193; G. CHITTOLINI, “Crisi” e “lunga durata” delle istituzioni comunali in alcuni dibattiti recenti, in Penale, giustizia, potere. Metodi, ricerche, storiografie. Per ricordare Mario Sbriccoli, cur. L. LACCHÈ - C. LATINI - P. MARCHETTA - M. MECCARELLI, Macerata 2007, pp. 125-154: 146; A. ZORZI, Le signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Milano 2010 (Il Medioevo attraverso i documenti), pp. 1-10.
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attori che li hanno prodotti e la percezione del fenomeno studiato varia considerevolmente a seconda del tipo di fonti osservate. Tale situazione è rafforzata da una delle modalità di strutturazione della storiografia religiosa. Infatti, per ragioni storiche e metodologiche, gli studi sono spesso condotti sulle istituzioni diocesane, o su una data comunità di religiosi, i Francescani o i Camaldolesi, o ancora su un tipo di ordine, come i Mendicanti. I risultati della sintesi, ai quali perviene lo studio comparativo, sono fortemente condizionati dalle impostazioni della storiografia e dai progressi disuguali di ciascuna delle diverse correnti di ricerca. Forse si comprende meglio in tal modo la ragione per la quale, durante la grande inchiesta sulle «Esperienze signorili cittadine» condotta dal 2008 al 2012, la rubrica «Legami e controllo degli enti ecclesiastici, devozioni e culti religiosi» sia stata una delle meno riempite tra quelle della griglia proposta ai ricercatori2. Questi due prismi, documentari e storiografici, rendono difficile la restituzione di un paesaggio coerente dal quale potrebbero emergere le scelte, nelle motivazioni come nelle manifestazioni, di un individuo o di una famiglia a favore di questo o quell’ordine religioso. La contabilità dei Chiavelli mostra che, dalla fine degli anni Novanta del Trecento, Chiavello finanzia dei lavori nel piccolo eremo di Val di Sasso, detto anche di Valle Romita. Offre somme di denaro, ed abiti, ai frati3, favorendo l’insediamento di una comunità di Minori osservanti, che succedono a monache benedettine e nella cappella dei quali decide di essere sepolto4. Santa Maria di
2 Si tratta dell’importante Programma di Ricerca scientifica di rilevante Interesse Nazionale-PRIN, Esperienze signorili cittadine in Italia (metà XIII - metà XV secolo), cur. J.-C. MAIRE VIGUEUR - A. ZORZI. Si vedono le schede del Repertorio delle Esperienze Signorili Cittadine: http://www.italiacomunale.org/resci/info/ (ultima consultazione: 19 febbraio 2016). Per una presentazione del RESCI e delle schede: MAIRE VIGUEUR, Introduzione, in Signorie cittadine nell’Italia comunale, cur. MAIRE VIGUEUR, Roma 2013 (Italia comunale e signorile, 1), pp. 9-17. 3 Archivio Storico Comunale di Fabriano (d’ora in poi ASCFab), Clavellorum, 690, f. 3r: «Item a dicto dì [XVIII di novembre 1398] pagai a Bocchaccio fornacciaro per li choppi della Romita ducati dui et florino uno d’oro, disselo ser Christofano. Vale.»; f. 6r: «Item a dicto dì [V de novembre 1398] pago a Pietro Sgueia per un paio de scarpe per frate Antonio dalla Romita bolognini XI»; f. 62r: «Item a dicto dì [XI de luglio 1399] pagai allo monacho de Vanno uno fiorino a bolognini 36 disse Tomasso era per lavorio facto alla Romita. Vale.». Viene frequentemente detto che l’eremo fu acquistato e rinnovato da Chiavello Chiavelli, che l’avrebbe poi affidato ai zoccolanti nel 1405. Bisogna riconsiderare tale cronologia, e prendere in esame legami anteriori col luogo. 4 Per la chiesa, Chiavello Chiavelli chiede a Gentile da Fabriano di dipingere un polittico oggi conservato nella Pinacoteca di Brera, coll’Incoronazione della Vergine sul pannello centrale. K. CHRISTIANSEN, Gentile da Fabriano, Ithaca 1982, cat. IV, pp. 87-90; Gentile da
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Valdisasso diventa poi una delle roccaforti dell’Osservanza nella Marca di Ancona5. Anche i Trinci assicurano il loro sostegno al movimento, nella persona del cugino, Paoluccio Vagnozzi (†1391). Converso francescano promotore dell’applicazione ad litteram della regola di san Francesco, si è ritirato nell’eremo di San Bartolomeo di Brogliano. Si trasferisce poi nel convento urbano del suo ordine, a Foligno, e fonda in città, nel corso degli anni Ottanta, il monastero di Sant’Anna per ospitare terziarie francescane viventi in comunità6. Nei quindici primi anni del Quattrocento, fuori delle mura, viene costruito il convento di San Bartolomeo di Marano. Un’iscrizione incisa nella pietra lo presenta come fondato da Ugolino III e terminato da suo figlio Niccolò, princeps eximius de Trinciis, nel 14157. Da qui a dedurre che Chiavello e Ugolino III e, a maggior ragione, i loro successori8, abbiano privilegiato il ramo più intransigente dell’Ordine di San Francesco sulle altre entità religiose, e che abbiano tratto da tale scelta spe-
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Fabriano. Il polittico di Valle Romita, cur. M. CERIANA - E. DAFFRA. Catalogo della mostra (Milano, 31 marzo - 25 aprile 1993), Milano 1993; A. DE MARCHI, Gentile da Fabriano. Un viaggio nella pittura italiana alla fine del gotico, Milano 2006 (1a ed. 1992), pp. 59-60. 5 M. SENSI, Osservanza francescana e politica: gli esempi dei beati Matteo da Agrigento e Andrea da Faenza, in I Francescani e la politica, cur. A. MUSCO. Convegno internazionale di studio (Palermo, 3-7 dicembre 2002), II, Palermo 2007 (Franciscana, 13), pp. 997-1033: 1005-1007. 6 M. SENSI, Le osservanze francescane nell’Italia centrale (secoli XIV-XV), Roma 1985 (Biblioteca Seraphico-Capuccina, 30), pp. 19-73 (che riprende il saggio Brogliano e l’opera di fra Paoluccio Trinci, «Picenum Seraphicum», 12 [1975], pp. 7-62); SENSI, Dal movimento eremitico alla regolare osservanza francescana. L’opera di fra Paoluccio Trinci, Assisi 1992; SENSI, Angelina da Montegiove e le terziarie francescane regolari di Foligno, in Il monastero di Sant’Anna a Foligno. Religiosità e arte attraverso i secoli, cur. A.C. FILANNINO, Foligno 2010, pp. 19-43: 23-29; G.G. MERLO, Au nom de Saint François. Histoire des Frères mineurs et du franciscanisme jusqu’au début du XVIe siècle, tradotto dall’italiano da J. GRÉAL, Paris 2006 (1a ed.: Nel nome di san Francesco. Storia dei frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003), pp. 242-246. 7 M. SENSI, La signoria dei Trinci: ascesa di una famiglia, in Il Palazzo Trinci di Foligno, cur. F.F. MANCINI - G. BENAZZI, Perugia 2001, pp. 3-28: 12. L’iscrizione fu pubblicata da M. FALOCI PULIGNANI, Le iscrizioni medioevali di Foligno, «Archivio Storico per le Marche e l’Umbria», 1 (1884), pp. 20-63 e 188-193: 42, n. XLII. 8 Si ricorda, inoltre, che, nel 1428, Corrado III, fratello di Niccolò e ultimo signore di Foligno, interviene come arbitro nelle relazioni difficili tra il ministro della provincia e frati dissidenti, in qualità di «ordinis pauperrimi mirificique Francisci devotissim[us] zelat[or]». SENSI, Osservanza francescana e politica cit., p. 1003, n. 23 (con riferimento a Foligno, sezione di Archivio di Stato − d’ora in poi ASFol −, fondo notarile, 99, Bartolomeo di Giovanni Germani, ff. 66-67). Il testo è pubblicato in SENSI, Per una inchiesta sulle “paci private” alla fine del Medio Evo, in Studi sull’Umbria medievale e umanistica in ricordo di Olga Marinelli, Pier Lorenzo Meloni, Ugolino Nicolini, cur. M. DONNINI - E. MENESTÒ, Spoleto 2000, pp. 527-564: 549-552, doc. 4.
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cifica un rinnovarsi della loro legittimità politico-morale9, non vi è che un passo, da non attraversare che con infinite precauzioni. Il panorama appare più sfumato. I due racconti fondatori che offrono ai Trinci origini mitiche prestigiose – gli unici che conosciamo per questo periodo – sono stati composti fra Tre e Quattrocento da frati Domenicani. Il primo è quello di Ventura Camassei, priore del convento dell’ordine a Bevagna; il secondo quello di Federico Frezzi, che, nel 1403, succede sulla cattedra vescovile folignate ad Onofrio Trinci10. A cavallo tra il XV ed il XVI secolo, un racconto anonimo vanta l’ampiezza dei successi ottenuti dai Chiavelli a Fabriano. Il testo è chiaramente apologetico e fa emergere una magnificenza signorile esercitata con ampiezza: verso i Francescani conventuali e gli Eremitani di sant’Agostino, verso gli Osservanti di san Domenico, di san Benedetto ed infine di san Francesco, alla Romita11. Nella prospettiva encomiastica nella quale si colloca, l’autore sottolinea l’importanza delle elargizioni della famiglia e la grandezza della sua pietà; pratica – peraltro – che nel suo caso sembra escludere ogni forma di favoritismo. È tutt’altro che raro osservare nei testamenti tale strategia prudente, che si potrebbe dire di “cospargimento”, o saupoudrage, in quanto consiste nel sostenere in un modo più o meno paritario diverse chiese importanti della città, e innanzitutto quelle dei Mendicanti12. Nelle sue ultime volontà, nel 1373, Rodolfo II da Varano elegge sepoltura nel duomo di Camerino prima di lasciare all’ecclesia matrix così come alla chiesa di San Venanzio (dedicata ad uno dei santi patroni della civitas), e a quelle di San Antonio, San Francesco, San Agostino e San Domenico, una identica somma di 25 lire di denaro «pro melioramento et opere ipsarum ecclesiarum»13. Agiscono in modo analogo il nonno Gentile di Berardo, nel 1350, ed il nipote, Rodolfo III, nel 141814.
9 K. ELM, Riforme e osservanze nel XIV e XV secolo, in Il rinnovamento del francescanesimo. L’osservanza. Atti dell’XI convegno internazionale (Assisi, 20-22 ottobre 1983), Assisi-Perugia 1985, pp. 149-167: 160-161. 10 Sui due miti e sulla loro analisi, e per la bibliografia corrispondente, ci permettiamo di rinviare a J.-B. DELZANT, “Instaurator et fundator.” Costruzione della signoria urbana e presenza monumentale del Comune (Italia centrale, fine del Medio Evo), «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 109 (2012), pp. 275-288. 11 R. SASSI, Un’antica narrazione inedita dell’eccidio dei Chiavelli, «Studia Picena», 8 (1932), esemplare consultato in estratto, p. 9. I Chiavelli hanno una cappella familiare nella chiesa domenicana di Santa Lucia novella. Le pergamene dell’archivio domenicano di S. Lucia di Fabriano, ed. SASSI, Ancona 1939, p. 76. 12 Ma vengono spesso trattate in modo specifico le chiese principali, cattedrale o chiesa dedicata al santo patrono. 13 Archivio di Stato di Parma, feudi e comunità, 19 (d’ora in poi ASPa, codice varanesco), ff. 207r-208r: 207r, mentre tutte le altre chiese «ubi divina officia celebrantur», «in civitate et infra civitate Camerini» devono ricevere solo 40 soldi di denaro. 14 Ibid., ff. 92v-93v: 92v (lasciti per la cattedrale: 25 lire di denari; per la chiesa di San
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È difficile documentare l’esistenza di una vera e propria politica dei favori nell’esercizio delle prerogative di governo tipiche del signore. Un registro delle grazie concesse da Tommaso Chiavelli e da suo figlio Battista tra il 1418 ed il 1420 ne fornisce un esempio. Organizzato per ordine alfabetico, svela una moltitudine di richiedenti. Alla lettera «A», appaiono soprattutto delle «abatissa[e] et moniales», nelle sezioni «C» dei canonici e «F» dei fratres15. Non c’è da stupirsi che diverse istituzioni religiose di Fabriano siano menzionate, come quelle degli Olivetani, insediati alla fine del Trecento16, o degli Eremitani di sant’Agostino: in quanto comunità, esse chiedono ad esempio delle esenzioni di gabelle sulla circolazione del grano e del vino. È evidente che non si possa trarre, da una situazione locale, alcuna conclusione decisiva, né sia possibile applicarla ad altre situazioni, considerato che il registro documenta solo tre anni della vita di una piccola terra. In modo più mirato si è tentato di avanzare una lettura che non aspira ad altro se non a considerare le relazioni dei signori con i frati Minori all’interno di una rete estesa. Essa è costituita dai contatti regolari
Venanzio: 15; per i «loci fratrum minorum, predicatorum, heremitarum et Sancti Antonii»: 10; e «quibuscumque aliis ecclesiis infra civitatem et burgos Camerini, pro qualibus ipsarum»: 40 soldi di denaro); ff. 320v-322r: 321r (lasciti per la cattedrale – specialmente «pro opere et fabrica prefate ecclesie Sancte Marie»: 200 ducati d’oro; per San Venanzio – «pro opere et fabrica porticorum ecclesie Sancti Venantii de Camerino» –: 300 fiorini d’oro; e per altre chiese – «in opere et fabrica ecclesiarum» – San Francesco, Sant’Antonio, Sant’Agostino, San Giovanni de Bussis de Camerino: 25 lire di denaro ciascuna. Si nota che Rodolfo III aggiunge all’elenco la chiesa di San Francesco de Trabebonantis (25 lire di denari). In questo luogo vicino ad Osimo, fra Graziano (†1241), compagno di Francesco d’Assisi, fece dei miracoli secondo il De conformitate vitae beati Francesci ad vitam Domini Iesu, scritto tra il 1385 e il 1390 da Bartolomeo da Rinonico (o da Pisa): Liber aureus. Liber conformitatum vitae beati ac seraphici patris Francisci ad vitam Iesu Christi domini nostri, Bononiae 1590, f. 69v). 15 ASCFab, Clavellorum, 693, senza foliazione. 16 Il monastero di S. Caterina fu fondato a Fabriano nel 1383, prima di essere integrato alla congregazione di Monteoliveto alla metà degli anni 1390. Fonti per la storia delle Marche. Documenti chiavelleschi, cur. R. SASSI, Ancona 1955, p. 45; si vede inoltre una piccola cronaca del monastero, scritta da un anonimo monaco all’inizio del Quattrocento: lunghi estratti sono stati pubblicati in SASSI, Le origine e il primo incremento del monastero di S. Caterina in Fabriano, «Rivista storica benedettina», 17/69-70 (30 ottobre 1926), pp. 168203: 176-180. Il testo recita numerosi «benefitii recevuti» da Chiavello Chiavelli, dal padre Guido e dalla moglie, «per lo amore de dio, per remedio de lanima sua et de li soi anti passati et per quelli che sono presenti et de loro degono venire», «ad cio che sempre se preghi Dio per loro» (ibid., p. 198).
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dei gruppi religiosi con gli organi istituzionali del potere civico, da una parte, e, con le famiglie influenti che popolano questi organi, dall’altra. Il registro dei Chiavelli mette in risalto un’altra evidenza: le grazie e privilegi concessi dai signori intervengono spesso in risposta alle richieste di istituzioni ecclesiastiche che seguono la loro logica. Non vi è dubbio che i domini traggano dei benefici personali da ciò che deriva, in realtà, da una gestione prudente degli affari pubblici, le cui componenti religiose sono essenziali. La collocazione eminente e centrale che i signori hanno conquistato in seno alla società urbana come all’interno dell’apparato politico del comune è rafforzata, in termini di influenza reale e di immagine, dai loro interventi. Al contempo, tale collocazione ne fa dei protettori di prima importanza per tutti gli organismi religiosi che cercano un sostegno materiale.
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Tali osservazioni generali non inducono certo a negare un orientamento senza ambiguità a favore dell’Ordine dei Minori da parte di numerose famiglie signorili delle regioni considerate. Quando decide di far affrescare la cappella delle sue domus urbane nel 1424, Corrado III Trinci sceglie di far rappresentare un ciclo della Vita della Vergine. Tra queste immagini e l’altare viene inserito un Cristo in croce circondato da santi e fiancheggiato da un San Francesco che riceve le stimmate (Figg. 1-2). Grande è l’importanza di quest’ultima scena nell’economia generale degli affreschi di Ottaviano Nelli: l’episodio del santuario della Verna, che fa di Francesco un alter Christus, è l’unica scena narrativa non mariale della cappella. Collocata accanto a quella di Gesù crocifisso, l’immagine funziona quasi come lo sportello di un trittico en trompe-l’œil, dove la tavola centrale sarebbe occupata dal supplizio del Figlio di Dio. A destra di esso, però, nella seconda casella, vengono dipinti tre santi in piedi (Fig. 3). Vi si riconoscono Giovanni Battista, Antonio abate, e un personaggio vestito da domenicano i cui attribuiti classici, un libro e un giglio, permettono l’identificazione con lo stesso fondatore dell’ordine17. Il ruolo conferito a Francesco nella preghiera praticata e ostentata dai Trinci, nelle loro domus, rimane particolare, preponderante magari, ma non unico.
17 Si vede, ad esempio, G. KAFTAL, Saints in Italian Art. Iconography of the Saints in the Painting of North East Italy, Firenze 1978, pp. 258-264, n. 84; KAFTAL, Saints in Italian Art. Iconography of the Saints in the Painting of North West Italy, Firenze 1983, pp. 236242, n. 72; KAFTAL, Saints in Italian Art. Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Paintings, Firenze 1986, pp. 354-363, n. 111. Nel polittico di Valle Romita, i santi in piedi che fiancheggiano l’Incoronazione della Vergine sono, a destra di Gesù, Girolamo e Francesco, e a sinistra, Maria Maddalena e Domenico.
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Un primo indizio dell’attaccamento delle famiglie signorili all’Ordine di san Francesco – spesso sottolineato – è il luogo della sepoltura. La scelta è essenziale. Da una parte, e verosimilmente, rinvia a pratiche di devozione individuali o collettive durante la vita terrena. D’altra parte, e certamente, manifesta una forte fiducia nell’efficacia della preghiera dei fratelli, elemento che determina l’accesso alla Salvezza eterna grazie alla comunione dei vivi e dei morti. Con la scelta di tale luogo si opera, secondo le parole di Grado Giovanni Merlo, «una circolarità di prestazioni tra le parti», mettendo in gioco lo spazio sacro ed i riti da una parte, le offerte, i doni ed i sostegni sociali dall’altra18. Ostasio da Polenta è seppellito nel 1346 in Ravenna, nella chiesa francescana di San Pietro Maggiore, «cum maximo honore»19. I Montefeltro costituiscono un caso celebre del fenomeno, da Guido, seppellito nel 1298 nel convento dei Minori di Ancona dove si è ritirato20, fino a Guidantonio, le cui spoglie sono accolte – forse rivestite dal saio – nel 1443 dai Francescani osservanti di San Donato ad Urbino21. 18 G.G. MERLO, Francescanesimo e signorie nell’Italia centro-settentrionale, in MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi 1991, pp. 95-112: 102 (1a ed.: MERLO, Francescanesimo e signorie nell’Italia centro-settentrionale del Trecento, in I Francescani nel Trecento. Atti del XIV convegno internazionale [Assisi, 16-18 ottobre 1986], Perugia 1988 [Pubblicazioni della Università degli Studi di Perugia], pp. 101-126). 19 Chronica de civitate Ravenne, in Spicilegium Ravennatis Historiae, sive Monumenta historica ad Ecclesiam et Urbem Ravennatem spectantia, nunc primum edita ex manuscripto codice bibliothecae Estensis, cum altero manuscripto Ravennate collata, ed. L.A. MURATORI, R.I.S., 1/2, Mediolani 1725, pp. 574-579: 579B. «Anno Domini MCCCXLVI. Die XV. mensis novembris. Sepultus est nobilissimus miles dominus Ostasius de Polenta filius olim domini Bernardini de Polenta ad ecclesiam Sancti Petri Majoris fratrum minorum in Ravenna cum maximo honore, compositus in uno lisello in medio chori ante legile, ante altare magnum. Et Bernardinus eius filius successit in dominium civitatis Ravennae, una cum Pandulpho et Lamberto eius fratribus. Amen. Deo gratias». L’estratto è menzionato e tradotto in italiano in Fonti per la storia di Ravenna (secoli XI-XV), cur. C. CURRADI, in Storia di Ravenna, III: Dal mille alla fine della signoria polentana, cur. A. VASINA, Venezia 1993, p. 753-839: 820. 20 T. DI CARPEGNA FALCONIERI, Montefeltro, Guido di, in Dizionario biografico degli Italiani, 76, Roma 2012, pp. 64-69: 67; DI CARPEGNA FALCONIERI, Per una storia degli insediamenti mendicanti nel Montefeltro, in I conventi degli ordini mendicanti nel Montefeltro medievale. Archeologia, tecniche di costruzione e decorazione plastica, cur. C. CERIONI - T. DI CARPEGNA FALCONIERI, Firenze 2012 (Biblioteca di Storia, 16), pp. 9-19: 15. 21 T. DI CARPEGNA FALCONIERI, Montefeltro, Guidantonio di, in Dizionario biografico degli Italiani, 76, Roma 2012, pp. 61-64: 62 dove l’autore precisa che «[...] la [...] lastra tombale [di Guidantonio] lo mostra in abito francescano, ma con la spada a fianco». La prima sposa di Guidantonio, Rengarda Malatesta (†1423), fu seppellita nella chiesa dei frati conventuali, San Francesco, col figlio Oddantonio e col nonno di quest’ultimo, Antonio. A. LAZZARI, Delle chiese di Urbino e delle pitture in esse esistenti. Compendio storico, Urbino 1801, pp. 102-103.
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Altrettanto famoso è l’esempio dei Malatesta. Andrea (†1416) e suo nipote Domenico (†1465), detto Malatesta Novello, hanno eletto sepoltura a San Francesco di Cesena, sul fianco meridionale esterno della chiesa22. Pandolfo III, figlio di Galeotto, rende l’anima nel 1426 e viene sepolto presso i conventuali di Fano. Narrando l’evento, un cronista anonimo lo sposta di un giorno in modo tale da farlo coincidere con la festa di san Francesco. Precisa, inoltre, che Pandolfo rende l’anima «nele braza» di Giacomo della Marca23. Il cadavere di suo fratello Carlo, stroncato da una febbre tre anni dopo, è condotto da Lonzano a Rimini. Lì, a San Francesco, viene raggiunto alcuni anni dopo da sua moglie Elisabetta Gonzaga e da suo nipote Galeazzo Roberto24. Malatesta di Pandolfo II, detto dei Sonetti, signore di Pesaro trova la morte a Gradara nel 1429, lo stesso anno di Carlo. Ed anche lui viene rimpatriato nella sua città e deposto nella tomba in una chiesa dedicata a San Francesco25. Questa lista ben nota, anche se selettiva, non vale come dimostrazione univoca. Essa deve essere affinata con alcune osservazioni, che invitano a tener conto della rete di situazioni irriducibili ad un caso presunto rappresentativo. La prima osservazione riguarda la scelta della sepoltura in un luogo francescano, una pratica diffusa tra i membri dell’élite, aristocrazia o nobiltà urbana, nello spazio studiato. Non è caratteristica delle sole famiglie dominanti. Il prestigio di cui godono gli Ordini mendicanti e poi, nel corso del XV secolo, gli Osservanti, suscita un interesse del quale i Francescani raddoppiano l’efficacia, quando scelgono le personae notabiles come bersaglio delle loro azioni. Così facendo, intendono influenzare quest’ultime e portare a buon fine, nel cuore delle città, i loro progetti di rifor-
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P.G. PASINI, schede 99-102, in Malatesta Novello, magnifico signore. Arte e cultura di un principe del Rinascimento, cur. PASINI. Catalogo della mostra d’arte e di storia per i 550 anni della Biblioteca Malatestiana (Cesena, 14 dicembre 2002-30 marzo 2003), Bologna 2002, pp. 137-139. 23 Cronaca malatestiana del secolo XV (aa. 1416-1452), in Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, ed. A.F. MASSÈRA, in R.I.S.2, 15/2, Bologna 1922, p. 59: «El magnifico et excelso e grazioso signore miser Pandolfo di Malatesti si infermò e, como piaque al nostro signor Dio, morì in la cità di Fano cum grandissimi pianti de citadini, perché era molto dilecto da tutto el populo; et anche morì cum bona contrizione e disposizione, nele braza de frate Iacomo dela Marca, frate predicatore dela observanza de san Francesco. E poi [fo] seppelito in Fano cum grandissimo onore nel convento di frate de sam Francesco. E questo fo nel mille CCCCXXVI, adì IIII de ottobre, cioè el dì dela festa de sam Francesco; et avi tutti li sacramenti dela Chiesa.» 24 Ibid., pp. 60, 63-64. 25 Ibid., p. 60.
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ma individuale e collettiva26. A Cremona, le cappelle della chiesa francescana sono costruite sia dalla vecchia aristocrazia, quella dei Cavalcabò o dei Meli, sia dai «ricchi mercanti e possedianti»27. Un secondo commento riguarda la forma delle sepolture e la loro posizione. Certo, non tutte le famiglie signorili possiedono una cappella in un luogo di culto francescano. I Chiavelli optano per la chiesa domenicana di Santa Lucia Novella, costruita tra il 1360 ed il 138028. I da Varano beneficiano, nella cattedrale di Camerino, di una cappella attestata dall’inizio del Trecento. Quando scelgono i Minori, i Trinci di Foligno o i Polentani di Ravenna devono dividere lo spazio ecclesiastico concesso dai Fratelli con altri gruppi familiari influenti della loro città. Su queste famiglie, i signori hanno soltanto una preminenza29. La posizione della cappella nella confi-
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26 MERLO, Francescanesimo e signorie cit., pp. 95-96 e 99-103; MERLO, Au nom de Saint François cit., p. 282. L’esempio di Perugia è studiato da A. BARTOLI LANGELI, Nobiltà cittadina, scelte religiose, influsso francescano: il caso di Giacomo Coppoli perugino, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge - Temps modernes», 89/2 (1977): Les Ordres mendiants et la ville en Italie centrale, v. 1220-v. 1350, cur. A. VAUCHEZ. Atti della tavola rotonda (Roma, 1977), pp. 619-628. 27 E. FILIPPINI, «Ad maximum ornamentum ecclesie fundaverunt capellam et altarem». Le élites cittadine cremonesi e gli ordini mendicanti (secoli XIII-XV), in Famiglie e spazi sacri nella Lombardia del Rinascimento, cur. L. ARCANGELI - G. CHITTOLINI - F. DEL TREDICI E. ROSSETTI. Atti del convegno (Milano, settembre 2011), Milano 2015, pp. 58-93: 77-78. Si ringrazia Marina Gazzini per avermi indicato questo importante volume. 28 SASSI, Le pergamene cit., p. 27, n. 90, e appendice, p. 76, n. IX. 29 Secondo Durante Dorio, Nallo Trinci, dopo il 1319, «si diede ad edificar cappelle in Foligno», tra cui una «nella chiesa di S. Francesco, sotto il titolo dell’Annuntiatione della Beata Vergine». Vi sarebbe stato sepolto (D. DORIO, Istoria della famiglia Trinci..., Foligno 1638, pp. 145-146), prima che la moglie del fratello, Isabella Caetani, edificasse nella stessa chiesa un’altra cappella, dedicata a «S. Nicolò vescovo» (p. 148). Accanto a Nallo Trinci sarebbero stati deposti, scrive il Dorio, il figlio Corrado (†1343, p. 154) così come diversi discendenti suoi: Trincia (†1377, p. 172), il beato Paoluccio (p. 178), Ugolino III (†1415, p. 192) ed i due figli di esso, Niccolò e Bartolomeo, assassinati nel 1421 (p. 204). Vi furono aggiunti altri membri della famiglia (pp. 175, 178...). L’elenco fa impressione ma di fronte agli elementi proposti dallo storico di Leonessa, viene ricordato che non esistono più tracce materiali delle tombe in una chiesa del tutto risistemata in epoca moderna, e che, secondo un testo della fine del XVIII secolo, pubblicato poco tempo dopo i fatti descritti, «in occasione di un rifacimento fatto in quella Cattedrale [di Foligno] fu aperto il di lui [cioè, di Niccolò Trinci] sepolcro, nel quale fra le altre cose fu trovato questo bastone [di comando, in avorio]». L. SENSI, Memorie Trinciane II: il “bastone di comando” di Niccolò Trinci, «Bollettino Storico della Città di Foligno», 17-18 (2003-2004), pp. 485-503: 485. La chiesa di San Francesco di Foligno viene costruita nella seconda metà del XIII sec., e ingrandita all’inizio del secolo seguente quando fu dotata di due navate. Fra Tre e Quattrocento, si moltiplicano le cappelle private. S. GATTI, Il restauro del complesso monumentale di S. Francesco in Foligno. Lineamenti descrittivi dei criteri di indagine e di elaborazione progettuale, in Il complesso della chiesa e del convento di S. Francesco di Foligno nella storia, nel-
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gurazione interna degli edifici nei quali si moltiplica questo tipo di struttura, nel Trecento, è un punto strategico per il quale spesso disponiamo solo di poche informazioni, che riguardano tante piccole famiglie signorili30. Inoltre la cappella è solo uno dei luoghi possibili per sepolture che possono trovarsi all’interno come all’esterno della chiesa, secondo modalità variegate: dalla lastra che porta un’iscrizione funebre (anch’essa vero e proprio monumentum, nel senso etimologico di «che perpetua il ricordo», dotato dal prestigio dello scritto), incastrata nel muro o nel pavimento, al monumento sopraelevato, a isola, con un’arca sormontata da una statua. Non c’è bisogno di insistere sulle differenze nell’affermazione della posizione sociale e nella manifestazione della pietà tra la sepoltura di Ostasio da Polenta – che un testo anonimo ambienta «in medio chori ante legile, ante altare magnum»31 –, e quella di Galeazzo Roberto Malatesta – collocata secondo una cronaca «in terra, nante la chiexa de Sam Francesco in lo cimitiero […] perché lui così dispose e volse»32. Una terza ed ultima osservazione può essere avanzata. I significati della scelta della sepoltura sono tanto più forti quanto più i membri della famiglia sono numerosi per esservi accolti. Nel corso del Trecento, numerosi gruppi che hanno fatto del potere politico cittadino una risorsa familiare sono dilaniati da violente lotte intestine. Il fiorire di conflitti è costantemente favorito da pratiche di governo che coinvolgono simultaneamente svariati membri della famiglia. Il ricorso deliberato ad un luogo di sepoltura come mezzo di costruzione ed esaltazione della memoria familiare accompagna un progetto dinastico, un’iscrizione del potere in una durata pacificata che si estende da un passato rielaborato, sgombrato degli antichi conflitti interni, ad un futuro sognato, segnato dalla concordia. La trasfor-
l’arte, nella spiritualità, cur. E. MENESTÒ. Atti della giornata di studio (Foligno, 7 giugno 2003), Spoleto 2004 (Quaderni del Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici in Umbria, 45), pp. 87-99: 87-88; G. BENAZZI, Testimonianze artistiche nella chiesa e nel convento di S. Francesco a Foligno, ibid., pp. 99-112: 108 nota 14 (con riferimento a V. CRUCIANI, La beata Angela, la chiesa e il complesso monumentale di San Francesco a Foligno, in Sante e Beate Umbre tra il XIII e il XIV secolo, mostra iconografica [Foligno, gennaiofebbraio 1986], Foligno 1986, pp. 192-193, non vidi). 30 J. NELSON - R. ZECKHAUSER, Private Chapels in Florence. A Paradise for Signalers, in The Patron’s Payoff. Conspicuous Commissions in Italian Renaissance Art, cur. J. NELSON R. ZECKHAUSER, Princeton-Oxford 2008, pp. 113-131; G.C. ANDENNA, Definire, costruire, dotare e mantenere una cappella dal medioevo all’età moderna, in Famiglie e spazi sacri cit., pp. 12-33: 26. 31 Chronica de civitate Ravenne cit., p. 579B. 32 Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV cit., p. 63.
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mazione di una cappella o di una chiesa intera in un mausoleo familiare è al contempo un sintomo ed uno strumento di un’evoluzione del potere signorile in chiave dinastica. Tale fase di maturazione interviene talvolta tardivamente (e talvolta mai), ricordando le evoluzioni importanti, ma reversibili delle forme di potere personale33. Se, nel Trecento, l’attenzione dei Visconti si concentra particolarmente sulla chiesa domenicana di Sant’Eustorgio, alla fine del secolo, Gian Galeazzo sceglie come luogo di sepoltura per suo padre, Galeazzo II, il duomo di Milano, per la prima moglie, San Francesco a Pavia, ma per lui stesso e per i suoi successori, la Certosa di Pavia da lui stesso fondata nel 139634. Con la ristrutturazione completa di San Francesco a Rimini, iniziata verso il 1450, e la realizzazione del sepolcro degli Antenati, Sigismondo Pandolfo Malatesta offre una delle manifestazioni più eclatanti del fenomeno35. Il progetto accentua inoltre il processo di separazione del signore e della sua cerchia dal resto della comunità civica, nella misura in cui la chiesa francescana, con i suoi cappellani e sacerdoti, si trova innanzitutto posta al servizio del potere e dei potenti che occupano gran parte delle sue cappelle laterali. Le relazioni delle signorie urbane con i frati minori possono essere colte in un contesto più istituzionale, osservando soprattutto il ruolo attribuito ai frati rispetto alle prerogative politiche e agli atti di governo del signore. Il coinvolgimento degli uomini di chiesa nella gestione degli affari pubblici è di lunga data. Dai primi decenni del XIII secolo, monaci o conversi occupano delle cariche nei comuni italiani. Cistercensi, Umiliati, Camaldolesi o Mendicanti, la maggior parte degli ordini religiosi è stata
33 ZORZI, Le signorie cittadine in Italia cit., pp. 68-86; J.-C. MAIRE VIGUEUR, La cacciata del tiranno, in Tiranni e tirannide nel Trecento italiano, cur. ZORZI, Roma 2013 (Italia comunale e signorile, 5), pp. 143-169: 166-168. 34 S. BUGANZA, I Visconti e l’aristocrazia milanese tra Tre e Quattrocento: gli spazi sacri, in Famiglie e spazi sacri cit., pp. 128-167. Per la Certosa di Pavia e il progetto dinastico del duca Gian Galeazzo: «Annali di storia pavese», 25 (1997): La Certosa di Pavia tra devozione e prestigio dinastico: fondazione, patrimonio, produzione culturale. Atti del convegno (Pavia, 16-18 maggio 1996). 35 In una bibliografia abbondante P.G. PASINI, Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Milano 2000; G. FATTORINI, «Signis potius quam tabulis delectabor». La decorazione plastica del tempio malatestiano, in Le arti figurative nelle corti dei Malatesti, cur. L. BELLOSI, Rimini 2002 (Storia delle signorie dei Malatesti, 13), pp. 259394; M. FOLIN, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Pio II e il Tempio Malatestiano: la chiesa di San Francesco come manifesto politico, in Il Tempio Malatestiano a Rimini, cur. A. PAOLUCCI, II: Testi. Saggi e schede, Modena 2010 (Mirabilia Italiae, 16), pp. 17-47.
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coinvolta dalle autorità civiche36. I Francescani ed i Domenicani intervengono congiuntamente nell’amministrazione di Perugia dalla metà del XIII alla metà del XIV secolo, in settori quali il controllo dei processi elettivi o la gestione delle finanze della città. I viri religiosi sono ancora ricercati, per esempio, per le ambascerie, per i grandi cantieri urbani, per la fissazione dei prezzi e, più specificamente, di quelli delle derrate alimentari, o ancora per la riforma degli statuti comunali37. Tale partecipazione attiva tende a diminuire dopo la metà del Trecento. Lo sviluppo delle signorie urbane e lo slittamento del potere dagli organi comunali verso l’ambiente più ristretto delle corti signorili sono talvolta presentati come uno dei fattori che potrebbe spiegare tale evoluzione38. Si tratta di una prima ipotesi da supportare con un’analisi in gran parte ancora da analizzare. Basti qui sottolineare che in molte città, con funzioni forse meno visibili, la collaborazione di monasteri e conventi con le istituzioni comunali prosegue. I signori che iscrivono il loro dominio nel contesto del comune o, almeno, in stretto collegamento con questo, ereditano una situazione precedente che non hanno motivo di modificare. Nelle aree regionali oggetto di questo studio, i Francescani sono nelle prime fila. Nella Camerino dei da Varano, gli archivi del comune sono conservati insieme a quelli della famiglia signorile nel campanile del convento di San Francesco, sino alla fine del XV secolo39. Lo stesso spazio serve anche da
36 Si veda il recente panorama costituito da: Churchmen and Urban Government in Late Medieval Italy, c. 1200 - c. 1450. Cases and Context, cur. F. ANDREWS - M.A. PINCELLI, Cambridge 2013. La bibliografia offre numerosi e interessanti casi di studio, ad esempio, oltre gli undici case studies del citato Churchmen and Urban Government, P. CASTIGNOLI, Il ruolo dei Frati Minori nel governo del comune di Piacenza durante il secolo XIII, in I Francescani e la politica cit., I, pp. 109-124. 37 STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Gli ordini religiosi e la civiltà comunale in Umbria, in Storia e arte in Umbria nell’età comunale. Atti del VI Convegno di Studi umbri (Gubbio, 26-30 maggio 1968), II, Perugia, 1971, pp. 469-532: 503-507; A. BARTOLI LANGELI, Comuni e frati minori, in Il francescanesimo nell’Umbria meridionale nei secoli XIII-XIV. Atti del V Convegno del Centro di studi storici di Narni (Narni-Amelia-Alviano, 1982), Narni 1985, pp. 91-101. 38 ANDREWS, Introduction, in Churchmen and Urban Government cit., pp. 1-24: 12; e ibid., Epilogue, pp. 348-357: 355. 39 I documenti registrati nel codice varanesco, alla fine degli anni 1490, provengono per la maggiore parte dall’archivio pubblico di Camerino. I notai impiegati per redigere gli exempla precisano che «in publico archivio magnifice civitatis Camerini, posito in campanili ecclesie et conventus Sancti Francisci de Camerino» «reposita sunt iura dicte magnifice civitatis et domus inclite et excelse dominorum de Varano». ASPa, codice varanesco, ad esempio f. 245r.
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magazzino per le balestre del comune40. L’intero edificio fiancheggia la piazza dell’assemblea ed è adiacente al palazzo comunale. Tra il 1420 ed il 1430, la cassa degli archivi è chiusa con tre chiavi: le prime due sono consegnate al capitano ed al camerarius del comune, l’ultima viene lasciata «in locum fratrum minorum»41. A Foligno sono conservati nella sagrestia del convento dei Minori il libro dei privilegi del comune «et omnes alias scripturas dicti communis», dall’originale del libro dei possedimenti fondiari fino al libro dei ribelli e degli esuli e al memoriale «de omnibus privilegiis et instrumentis receptorum novorum civium»42. Nel 1445, dopo le violenti lotte di fazione che seguono la caduta dei Trinci, i 359 cives rappresentanti dell’intera comunità civica giurano una «sanctissima et benedetta unione»: i capitoli vengono portati nella chiesa San Francesco e qui custoditi43. Tale dispositivo di cooperazione è stato rafforzato verso la metà del Trecento dagli Statuti del Popolo che, d’altra parte, prevedono che la carica di gonfaloniere di giustizia possa appartenere solo ad un membro della famiglia Trinci44. A tali elementi di vicinanza tra il Comune ed i Francescani viene ancora ad aggiungersi il fatto che, nel 1426 almeno, la messa ascoltata quotidianamente dai Priori del Popolo nella cappella del Palazzo comunale sia
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Si vede infra, nota 41. Statuta comunis et populi civitatis Camerini (1424), ed. F. CIAPPARONI, Napoli 1977 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, 14), lib. I, rubr. 124, p. 31: «Item statuimus et ordinamus quod Capitaneus comunis omnes scripturas comunis conservari et custodiri faciat ad utilitatem comunis et originalia privilegia et instrumenta comunis apponi faciat apud ecclesiam fratrum minorum in bono scrinio cum tribus serraminibus variis et diversis clauso, quarum clavium unam Camerarius aliam Capitaneus retinere debeat et alia sit apud locum fratrum minorum quae clavis infra sacristiam in qua sunt scripturae et balistae comunis per Capitaneum debeat conservari». Numerosi sono gli atti del codice varanesco che, ancora nel 1497, accennano ad un meccanismo «tribus diversis claus[um] feris et clavibus». 42 Statuta communis Fulginei, edd. F. BALDACCINI - A. MESSINI, I: Statutum communis, Perugia 1969 (Fonti per la storia dell’Umbria, 6), tertia pars, rubr. LVII, p. 292: «Et quod fiat unus liber in quo scribantur omnes possessiones communis Fulginei, culte et inculte, montes et prata [...]; qui liber sic confectus copietur et orriginale ponatur in sacristia fratrum minorum et copia sit in archivo publico communis Fulginei.»; rubr. LXXX, p. 326 (De bonis rebellium non occupandis); II: Statutum Populi, rubr. 54, p. 74-76 (De libro memoriali faciendo); rubr. 61, pp. 79-81 (Quod in persolvendis datiis et collectis equa forma servetur): «Item ordinamus et dicimus quod libra dicti communis noviter facta et scripta in cartis bombicinis scribatur et redigatur in cartis pecudinis, et in quolibet terzerio fiant duo libri, unus quorum reponatur et conservetur in sacristia fratrum minorum et alius remaneat in camera communis Fulginei [...]». 43 M. FALOCI PULIGNANI, Per la storia di San Giacomo della Marca, «Miscellanea francescana di storia, di lettere, di arti», 4/3 (1889), pp. 65-78: 75. Si veda infra, nota 71. 44 Ibid., II: Statutum Populi, rubr. 188, pp. 235-238.
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recitata dal padre custode di San Francesco45. Nel Montefeltro, a Casteldurante, sotto il dominio dei Montefeltri, i frati Minori custodiscono per il Comune la borsa delle “imbussolazioni”46, proprio come fanno, a Firenze, quelli di Santa Croce47. In tal modo, essi contribuiscono all’aura di sacralità che ricopre lo scrutinio, non potendo Dio essere assente dal processo di designazione degli uomini che hanno l’incarico di governare la comunità conformemente ai principi divini. Il coinvolgimento istituzionale dei Francescani nell’amministrazione delle città sembra poter proseguire senza soluzione di continuità nelle forme del governo signorile. Ma un nuovo interrogativo si presenta. I signori fecero regolarmente ricorso, per alcuni incarichi, ai frati, a causa delle specificità dell’Ordine e delle specialità dei suoi membri? Professionisti della comunicazione, che padroneggiano le tecniche oratorie e veicolano un messaggio autorevole, i Mendicanti offrono ai signori delle città strumenti di consolidamento del loro consenso48. Un esempio un po’ tardo conferma il ricorso a questi mezzi. Nel 1472, Pino III Ordelaffi affida ad un predicatore la bolla pontificia attraverso la quale ottiene, per sé e per i suoi figli, il vicariato in temporalibus su Forlì e sul suo distretto. Il frate, membro dell’Osservanza, legge la bolla durante la predica domenicale nella grande chiesa di San Francesco. Una larga risonanza ed un mantello di autorità sono dati alla decisione di Sisto IV, che il popolo avrebbe accolto, secondo un racconto contemporaneo, con «summo gaudio». Il cronista che riferisce l’episodio non lascia alcun dubbio sulle intenzioni del signore quando, senza citarne il nome, definisce il francescano scelto come «venerandus religiosus et predicator famosissimus»49. 45
Annali mariani di Foligno, in M. FALOCI PULIGNANI, Foligno e la Madonna, cur. L. SENSI, Foligno 2006 (1a ed. dei saggi: 1891, 1928-1929) (5o supplemento al «Bollettino storico della città di Foligno»), pp. 5-9: 6. 46 G. ZARRI, Le istituzioni ecclesiastiche nel ducato di Urbino nell’età di Federico da Montefeltro, in Federico di Montefeltro. Lo Stato/Le arti/La cultura, I: Lo Stato, cur. G. CERBONI BAIARDI - G. CHITTOLINI - P. FLORIANI, Roma 1986 («Europa delle Corti». Centro studi sulle società di antico regime. Biblioteca del Cinquecento, 30), pp. 121-175: 156 47 I. TADDEI, Du secret à la place publique. L’élection de la seigneurie à Florence (XIVeXVe siècle), in Le destin des rituels. Faire corps dans l’espace urbain, Italie-France-Allemagne, cur. G. BERTRAND - I. TADDEI. Atti del convegno (Roma, gennaio 2005), Rome 2008 (Coll. de l’École française de Rome, 404), pp. 117-141: 123-129. 48 MERLO, Francescanesimo e signorie cit., pp. 109-110; R.M. DESSÌ, Predicare e governare nelle città dello Stato della Chiesa alla fine del medioevo. Giacomo della Marca a Fermo, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, cur. G. BARONE - L. CAPO - S. GASPARRI, Roma 2000 (I libri di Viella, 24), pp. 125-159: 126-128. 49 Annales forolivienses ab origine urbis usque ad annum MCCCCLXXIII, ed. G. MAZZATINTI, in R.I.S.2, 12/2, Città di Castello 1903, pp. 102-103.
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Casi espliciti come questo non sono documentati in gran numero. L’episodio mostra, al di là della diversità degli obiettivi di ciascuno, la convergenza degli interessi di un pontefice lui stesso francescano, di una famiglia signorile, e di un Ordine minore già ampiamente passato sotto il controllo del papato50. Ma quest’esempio è forse eccezionale. Un’altra forma di predicazione, più diffusa, attira l’attenzione. Si tratta di quelle pronunciate dai Frati osservanti della seconda generazione, itineranti chiamati dai governanti delle città dello Stato della Chiesa per trasmettere un messaggio di pace e di riforma dei costumi51. Questo tema è stato trattato da studi importanti che hanno collocato questi sermoni in contesti precisi di ripresa dei territori da parte del papato e che hanno sottolineato la legittimazione fornita dai predicatori ai poteri in carica52. La demonizzazione dei partiti e delle fazioni ad opera di Bernardino da Siena o da Giacomo della Marca, in nome della Concordia53, conduce di fatto ad una situazione comparabile a quella creata dai regimi di Popolo che avevano criminalizzato l’appartenenza alla parte avversa ed eretto l’avversario a nemico pubblico54. Ogni opposizione politica viene delegittimata non appena è presentata come una frattura dell’unità ideale della comunità civica e religiosa. L’intenzione dei Frati coincide con quella dei governanti, individuali o collettivi, che non possono guidare gli uomini al di fuori del doppio orizzonte terrestre ed escatologico della pace. I signori che sostengono gli Osservanti si fanno forti di questo messaggio, grazie al quale esprimono, inoltre, l’attenzione
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MERLO, Au nom de saint François cit., pp. 272-282. DESSÌ, Predicare e governare cit., pp. 127-128; I. CHECCOLI - R.M. DESSÌ, La predicazione francescana nel Quattrocento, in Atlante della letteratura italiana, cur. S. LUZZATTO G. PEDULLÀ, I: Dalle origini al Rinascimento, cur. A. DE VINCENTIIS, Torino 2010, pp. 464476. 52 J.-C. MAIRE VIGUEUR, Bernardino et la vie citadine, in Bernardino predicatore nella società del suo tempo. Atti del XVI convegno del Centro di studi sulla spiritualità medievale (Todi, 9-12 ottobre 1975), Todi 1976, pp. 251-282; S. CAROCCI, Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città alla fine del Medioevo, cur. S. GENSINI. Atti del convegno (San Miniato, 20-23 ottobre 1994), Ospedaletto (Pisa) 1996 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 41), pp. 151-224: 210-219; DESSÌ, Predicare e governare cit., pp. 141-143. 53 MAIRE VIGUEUR, Bernardino et la vie citadine cit., pp. 258-260; DESSÌ, Predicare e governare cit., pp. 134-138. 54 G. MILANI, Banditi, malesardi e ribelli. L’evoluzione del nemico pubblico nell’Italia comunale (secoli XII-XIV), «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 38: I diritti dei nemici, cur. P. COSTA, 1 (2009), pp. 109-140; in parte ripreso in Le ragioni dell’esclusione: definire il nemico pubblico nei comuni italiani, in Escludere per governare. L’esilio politico fra Medioevo e Risorgimento, cur. F. DI GIANNATALE. Atti del convegno (Teramo, 7-8 ottobre 2009), Milano 2011, pp. 17-31.
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che devono portare alla Salvezza delle persone sulle quali esercitano il loro dominio. Nel 1425, Guidantonio da Montefeltro indirizza una supplica a Martino V. Il conte di Urbino, signore di Assisi, di Spello e di Gubbio, nominato alla guida del Ducato di Spoleto nel 1419, chiede che sia concessa licenza di predicare e confessare in ogni luogo a tre fra i più eminenti dei frati Osservanti: Bernardino da Siena, Matteo da Girgenti e Giovanni da Capestrano. La richiesta deve essere accolta favorevolmente, a suo avviso, «pro salute animarum»: giacché i detti predicatori agiscono «cooperante divina gratia»55. Tra il 1425 ed il 1426, i frati esercitano un’attività intensa nel Ducato e nella Marca di Ancona. Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano sono a Perugia dove, a seguito dei loro interventi, gli statuti vengono modificati e i falò delle vanità sono accesi56. A Foligno, le prediche della Quaresima del 1426 sono pronunciate da Bartolomeo da Giano e sono coordinate con una campagna di pacificazione civica e la stesura di statuti suntuari57. Associato a tali imprese, il signore, Corrado III, conserva dei legami con Bartolomeo. Nove anni più tardi, offre un manoscritto delle Sententiae di Pietro Lombardo al monastero San Bartolomeo per mezzo del Frate Minore58. Sarebbe però riduttivo concludere che i Trinci utilizzino l’Osservante per avvalorare un’immagine di fautori della pace, cara alla propaganda signorile. I frutti delle prediche si svolgono nel contesto del Comune, cioè, formalmente, nell’ambito delle istituzioni delle quali la comunità urbana si è dotata collettivamente. Il 26 febbraio 1426, sei uomini incaricati di ristabilire la concordia in ogni luogo della città sono desi-
55 Il documento è pubblicato da I.M. POU Y MARTI, Commendatio ss. Bernardini senensis et Iohannis de Capistrano ac b. Matthaei ab Agrigento (1425), «Archivum franciscanum historicum», 25 (1932), pp. 555-559: 557-558, doc. I (18 maggio 1425, tratto da ASV, Reg. Supplic., 185, f. 138v). 56 D. PACETTI, La predicazione di s. Bernardino da Siena a Perugia e ad Assisi nel 1425, «Collectanea franciscana», 9 (1939), pp. 494-520; 10 (1940), pp. 6-28 e 161-188; MERLO, Au nom de saint François cit., p. 266; M. SENSI, «Mulieres in ecclesia». Storie di monache e bizzoche, I, Spoleto 2010, p. 262. 57 Statuta communis Fulginei, cit., I: Statutum communis, quarta pars, pp. 329-341; M. SENSI, Predicazione itinerante a Foligno nel secolo XV, «Picenum Seraphicum», 10 (1973), pp. 139-195: 152-153; SENSI, Rapporti tra S. Giacomo della Marca e le confinanti città umbre, ibid., 13 (1976), pp. 308-324. 58 Il codice si trovava nella Biblioteca comunale di Foligno ma è stato trafugato. All’interno si leggeva: «Istum librum donauit loco Sancti Bartholomei magnificus dominus Conradus de Trinciis propria manu fratri Bartolomeo de Jano 1435 die 15 mai». Citato da M. SENSI, La signoria dei Trinci: ascesa di una famiglia, in Il Palazzo Trinci di Foligno cit., p. 26, n. 105.
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gnati dai Priori del Popolo, che si riferiscono agli interventi del doctissimus predicator Bartolomeo da Giano «ordinis observantie Beati Francisci»59. Si tratta di una pratica diffusa nel mondo comunale60. I pacieri possono essere eletti annualmente, come i due sindici ad paces faciendum di Cesena61, o in maniera occasionale, come a Foligno nel 1426, o a Recanati nel 143362. A Visso nel 1425, dopo il passaggio di Giacomo della Marca, i magistrati chiedono ai loro signori da Varano l’autorizzazione di potere eleggere dei pacieri per ogni guaita, in quanto, scrivono, «per operatione dello spiritu sancto jnfusa in frate Jacomo, omne differentia stata fra [loro] nella terra et nel contado sia posta in bona pace». Giovanni di Rodolfo concede loro tale permesso nel gennaio del 142663. Nella città dei Trinci, una misura d’eccezione deve permettere ai pacieri di svolgere il loro incarico con successo: l’arbitrium per gli affari civili è concesso loro dal consiglio del Comune e del Popolo per tutto il mese di aprile del 142564. Se gli statuti suntuari sono promulgati «ad honorem, statum, magnificentiam et exaltationem magnifici et excelsi domini domini Corradi de Trincis» e «ad honorem, conservationem et augmentationem presenti boni et pacifici status populi dicte civitatis Fulginei»65, i loro redattori sono designati dai Priori del Popolo con l’approvazione del signore66. Nessuna ingenuità è ammessa. L’influenza del signore sugli organi comunali è pesante. Le principali decisioni delle Riformanze e degli statuti, legate ai temi dei predicatori francescani (la pace, ma anche il lusso, il gioco o la blasfemia), sono state adottate su proposta congiunta del vicario di Corrado III e dei Priori67. Ma i fedeli del signore popolano i consigli. Il prior novellus del Popolo, nel marzo del 1426, non è altri che ser Bartolomeo di Giovanni Germani, uno dei grandi notai della città, la cui famiglia lavora da lunga data per i
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ASFol, Riformanze, 24 (1425-1433), f. 44r. D. CECCHI, Sull’istituto della Pax. Dalle costituzioni egidiane agli inizi del secolo XIX nella Marca di Ancona, «Studi maceratesi», 3 (1968), pp. 103-161: Atti del III Convegno di Studi storici maceratesi (Camerino, 26 novembre 1967); SENSI, Per una inchiesta sulle “paci private” cit. 61 J. ROBERTSON, Cesena: governo e società dal sacco dei Bretoni al dominio di Cesare Borgia, in Storia di Cesena, II: Il Medioevo, cur. A. VASINA, 2: Secoli XIV e XV, Rimini 1983, pp. 5-92: 52. 62 CECCHI, Sull’istituto della Pax cit., p. 120. 63 SENSI, «Mulieres in ecclesia» cit., p. 264. 64 ASFol, Riformanze, 24, f. 56r. La votazione è stata effettuata a scrutinio segreto. 65 Statuta communis Fulginei cit., I: Statutum communis, quarta pars, p. 331. 66 ASFol, Riformanze, 24, f. 57v. 67 Ibid., ff. 50v-56v.
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Trinci68. Egli redige, tra l’altro, importanti atti di vendite e di acquisto per Corrado III, nelle domus stesse del signore, fra il 1423 ed il 142569. Riprendiamo ora alcuni elementi. I predicatori osservanti possono essere chiamati dai signori o, perlomeno, debbono essere accolti da loro con benevolenza. Uno degli effetti indotti dalla loro predicazione è il sostegno all’ordine socio-politico esistente e, pertanto, al dominio signorile, laddove questo esista. Ma l’attuazione delle ingiunzioni dei Frati si svolge all’interno del contesto del comune e sotto la sua autorità. Che i Trinci ne tengano le principali leve non è la questione essenziale. I sermoni degli Osservanti sulla pace non forniscono alcuna giustificazione ideologica ad una forma di governo personale. Coloro che li pronunciano si guardano bene da qualsiasi intrusione nella vita politica locale70. La loro presenza non è il semplice prodotto di un desiderio o di un calcolo del signore. Sei anni dopo la fine del dominio dei Trinci, sopravvenuta nel 1439, di fronte alla persistente discordia, si chiede a Giacomo della Marca di venire a predicare la pace a Foligno. Dopo la sua esortazione, i cives giurano l’unione già citata, secondo i termini dei capitoli, contro gli «odij ranchori et maliuolencie»71. Attraverso le sue istituzioni, è la comunità cittadina ad adottare le misure necessarie al richiamo all’ordine invocato dai frati. Il signore di Foligno appartiene a questa comunità e, quando opera in accordo con essa, sostenuto da una parola religiosa veneranda e autorevole, può consolidare la sua posizione. È giunto il momento di concludere. Numerose famiglie signorili si rivolgono con insistenza ai frati di san Francesco. Oltre alle manifestazioni devozionali ed alle fondazioni di nuovi istituti, la scelta della sepoltura in un luogo francescano mostra il fascino dell’Ordine e, al contempo, il suo uso nel rafforzamento dinastico del potere. Tuttavia, tale tendenza si sviluppa lentamente e non è propria delle famiglie dirigenti. Queste ultime occupano, al contrario, una posizione esclusiva all’interno dell’apparato di
68 Statuta communis Fulginei cit., I: Statutum communis, quarta pars, p. 332. 69 L. LAMETTI, Palazzo Trinci: origine, struttura, storia e stile di una dimora signorile del-
l’inizio del XV secolo, in Signorie in Umbria tra Medioevo e Rinascimento: l’esperienza dei Trinci. Atti del convegno (Foligno, 10-13 dicembre 1986), II, Perugia 1989, pp. 307-402: 371-374, docc. 74-76, 80-81. 70 MAIRE VIGUEUR, Bernardino et la vie citadine cit., pp. 258-260; DESSÌ, Predicare e governare cit., pp. 125-128. 71 FALOCI PULIGNANI, Per la storia di San Giacomo della Marca cit., pp. 66, 68-74 per i capitoli estratti da ASFol, Riformanze, 26 (1441-1445), ff. 82r-87r.
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governo delle città. Esse vi trovano altre occasioni per tessere legami con i Francescani che, nelle regioni esaminate, esercitano da lunga data un ruolo importante nel sistema comunale. Assicurando la stabilità della struttura di questo sistema nonostante gli stravolgimenti degli equilibri sociali indotti dall’egemonia di una sola famiglia, i frati contribuiscono a stabilizzare un dominio signorile fondato sul Comune. Inoltre, i sermoni degli Osservanti permettono al signore di Foligno di svolgere il miglior ruolo possibile nell’ambito delle istituzioni civiche. Se la constatazione di una convergenza puntuale di interessi è chiara, se le ricadute di un percorso momentaneamente comune appaiono decisamente proficue per il signore così come per i frati, molto resta da fare per comprendere il fenomeno nel suo complesso. Si tratta di indagare aspetti che solo ricerche collettive possono consentire di valorizzare, migliorando le nostre conoscenze su un affascinante tema di studio: il rapporto degli uomini con il potere.
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Fig. 1 - Ottaviano Nelli, Scene della vita della Vergine, Crocifissione fra santi, e San Francesco che riceve le stimmate, affreschi, 1424, Foligno, Palazzo Trinci, cappella, parete Est
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Fig. 2 - Ottaviano Nelli, San Francesco che riceve le stimmate, affreschi, 1424, Foligno, Palazzo Trinci, cappella, parete Est
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Fig. 3 - Ottaviano Nelli, I santi Domenico, Antonio abate e Giovanni Battista, affreschi, 1424, Foligno, Palazzo Trinci, cappella, parete Est
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“Economia dell’offerta” e amministrazioni comunali: il caso dei Minori
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Con le odierne pubbliche amministrazioni assillate dalle necessità di spending review e vincolate dal patto di stabilità al taglio delle spese improduttive, il presente contributo sulle pubbliche sovvenzioni messe in opera dai governi comunali dei secoli XIII e XIV nei confronti delle famiglie religiose che professavano uno stato di povertà, per giunta discusso, sembrerebbe scaturire da quella «capacità di afferrare il vivente» che Marc Bloch riconosce come «la qualità sovrana dello storico»1. In realtà il tema è storiograficamente navigato, lanciato già da Luigi Pellegrini nella sua analisi delle Determinationes questionum. Con «economia dell’offerta» Pellegrini riassume infatti la dipendenza dell’economia conventuale dall’esterno e nello specifico dalla partecipazione al volume di scambi non solo materiali che anima la società bassomedievale (emolumenti pubblici, legati testamentari, offerte per suffragi e sepolture)2. La scelta di varare provvedimenti relativi alla pubblica pietà da parte dei Comuni pone in primis la questione di come sia stata gestita la covigenza del diritto messo in opera dalle medesime istituzioni comunali, con il sistema dello ius particulare3 osservato dall’Ordine. A tal fine bisogna pren-
1 M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 2009, p. 36. 2 L. PELLEGRINI, Insediamenti francescani nell’Italia del Duecento, Roma 1984, pp. 139-
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3 Con ius particulare s’intende quel complesso normativo costituito dalla Regola, dai documenti pontifici di interpretazione alla stessa e dalle Costituzioni generali e provinciali. Per uno sguardo d’assieme sullo ius particulare del primo secolo di storia minoritica, nelle sue diverse declinazioni ed interpretazioni rinvio a Fonti normative francescane, cur. R. LAMBERTINI, Padova 2016 e alla bibliografia segnalata nelle introduzioni ai testi ivi tradotti. Riferimenti d’obbligo sono poi le edizioni e gli studi di Cesare Cenci, alcuni dei quali disponibili in volume: C. CENCI, L’Ordine francescano e il diritto: testi legislativi dei secoli XIIIXV, Goldbach 1998 (Bibliotheca eruditorum, 15); Constitutiones generales Ordinis fratrum Minorum, I, (saeculum XIII), edd. C. CENCI - R.G. MAILLEUX, Grottaferrata 2007 (Analecta
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dere le mosse dalle delibere dei consigli o dalle normative statutarie4 relative alle elemosine destinate ai religiosi per valutare se esse abbiano recepito e si siano di conseguenza conformate alle restrizioni, specie quelle relative al rapporto con la pecunia, del diritto minoritico. Sull’altro versante, poi, occorre analizzare lo ius particulare dell’Ordine per verificare se le pubbliche sovvenzioni siano state soggette ad una regolamentazione costituendo, in qualche frangente, quasi una palese certificazione di incoerenza nell’annoso processo di definizione dell’identità minoritica. Infine l’incontro tra le due diverse codificazioni giuridiche solleva il problema dell’osservanza delle procedure stabilite. Povertà minoritica e disposizioni relative alla pubblica pietà, irreggimentate entro la cornice di senso dei rispettivi sistemi normativi, sono state tradotte in prassi ottemperate da entrambe le parti in causa? Auspicando e rimandando in altra sede un’indagine esaustiva e sistematica sul momento in cui i frati Minori fanno la loro apparizione negli apparati normativi comunali, si proporranno di seguito alcuni carotaggi sulla documentazione edita dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale, già nota alla storiografia che negli ultimi quarant’anni, con prospettive differenti, si è interessata ai rapporti tra amministrazioni comunali e frati Minori5. L’obiettivo prefissato, attraverso un itinerario dall’insediamento
franciscana, 13) e Constitutiones generales Ordinis fratrum Minorum, II, (saeculum XIV/1), edd. C. CENCI - R.G. MAILLEUX, Grottaferrata 2010 (Analecta franciscana, 17). 4 A riguardo si possono vedere: M. SBARBARO, Le delibere dei Consigli dei Comuni cittadini italiani: secoli XIII-XIV, Roma 2005 (Fonti Medievali Italiane, 2) con un ampio repertorio bibliografico in appendice e, più di recente, L. TANZINI, A consiglio. La vita politica nell’Italia dei Comuni, Roma-Bari 2014; sugli Statuti comunali, una recente messa a punto nell’ambito del programma dell’École française de Rome intitolato Statuts, écritures et pratiques sociales dans les sociétés de la Méditerranée occidentale à la fin du Moyen Âge (XIIe-XVe siècle), è in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 127/2 (2014). 5 Per l’ampio ventaglio di prospettive assunte nell’indagine sugli Ordini mendicanti, l’ideale punto di partenza di una rassegna bibliografica è sempre rappresentato dagli atti della tavola rotonda su Les Ordres mendiants et la ville en Italie centrale (v. 1220 - v. 1350), apparsi in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge, Temps modernes», 89/2 (1977); imprescindibili per il censimento delle questioni poste dal rapporto tra Comuni e frati Minori e per una ripresa delle stesse a partire da una base documentaria di respiro nazionale, sono rispettivamente A. BARTOLI LANGELI, Comuni e frati Minori, in Il francescanesimo nell’Umbria meridionale nei secoli XIII-XIV. Atti del 5° convegno di studio del Centro di studi storici (Narni-Amelia-Alviano, 23-25 maggio 1982), Narni 1985, pp. 91-101 e A. RIGON, Frati Minori e società locali, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997, pp. 259-281. Quest’ultimo, di lì a poco sarebbe tornato sul tema in RIGON, Ordini mendicanti e politica territoriale urbana dei Comuni nell’Italia centro-settentrionale, in Gli Ordini mendicanti in Val d’Elsa. Convegno di studio (Colle Val d’Elsa-
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della nova religio fino al suo radicamento nel contesto urbano, non è quello di trarne delle conclusioni indefettibili ma di dedurne alcune coordinate da sottoporre a costante verifica. Per ciò che concerne invece gli altri interrogativi – vale a dire la regolamentazione nello ius particulare dell’Ordine delle pubbliche offerte e le prassi osservate per quest’ultime – ci si limiterà, rispettivamente, ad alcune osservazioni e all’esame di specifici casi. 1. Pubblica elemosina e identità minoritica: alcune coordinate
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Per l’insediamento della nova religio la prima impellenza affrontata dai Comuni, desiderosi di beneficiare della presenza minoritica, è il garantire una base fondiaria per l’edificazione delle strutture conventuali. A Colle Val d’Elsa (1229), Cortona (1244-45), Prato (1228)6 – solo per fare alcuni esempi – sono proprio gli organi istituzionali (consigli comunali, collegi consolari, ecc.) che concorrono attraverso deliberazioni straordinarie prima a procurare (tramite acquisti o permute) poi a donare, senza particolari scrupoli pauperistici, il terreno ai frati per l’insediamento della loro comunità religiosa. Gli Statuti di Treviso del 1231 conservano interessanti tracce di alcune fra le questioni che le amministrazioni comunali, a seguito dell’insediamento dei frati Minori, sono costrette a normare confrontandosi con i confini segnati dallo ius particulare dell’Ordine. Premesso il legame tra la povertà dei religiosi e la loro pubblica utilità, gli Statuti trevigiani presentano le modalità e la tempistica delle misure previste in sostegno dei frati Minori: «Nos pro salute et comuni statu civitatis Tarvisii ac Ordine
Poggibonsi-San Gimignano, 6-8 giugno 1996), Castelfiorentino 1999, pp. 215-231 (Biblioteca della Miscellanea storica della Valdelsa, 15). Tra le indagini su scala territoriale ridotta, sia sufficiente ricordare: A. CZORTEK, Frati Minori e Comuni nell’Umbria del Duecento, in I Francescani e la politica (secc. XIII- XVII). Atti del convegno internazionale di studi, Palermo, 3-7 dicembre 2002, I, cur. A. MUSCO, Palermo 2007 (Franciscana, 13), pp. 237-270; C. DE LA RONCIÈRE, Società locali e Ordini mendicanti nella Valdelsa fiorentina del Trecento (1300-1370) in Gli ordini mendicanti in Val d’Elsa cit., pp. 233-240; L. MARCELLI, Gli insediamenti francescani nella Custodia di Jesi, «Picenum Seraphicum: rivista di studi storici e francescani», 24 (2005), pp. 59-70. 6 Cfr. RIGON, Ordini mendicanti e politica territoriale cit., pp. 218-219; M. PELLEGRINI, La Chiesa che perdonò Elia. Clero secolare, società, monaci e frati a Cortona nella prima metà del XIII secolo, in Elia di Cortona tra realtà e mito. Atti dell’Incontro di studio, Cortona, 1213 luglio 2013, Spoleto 2014 (Figure e temi francescani, 2) pp. 196-197; R. PIATTOLI, L’atto di fondazione del S. Francesco di Prato, «Studi francescani», 29 (1932) pp. 62-68.
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Fratrum Minorum, qui vere sunt pauperes spiritu misericorditer intuentes, hac clementissima constitutione decernimus quod Potestas et comune Tarvisii, infra duos menses ab introitu sui regiminis teneantur et debeant dare et solvere mille libras denariorum de pecunia comunis Tarvisii ipsi ordini fratrum Minorum aut illis quibus prior7 ipsorum vel eorum conventus, qui est in civitate ista, dari voluerit nominatim ad ecclesiam suam et domos facienda et extruenda»8. Come evidente, la pubblica elemosina di cui viene esplicitata finanche la destinazione – ovvero l’edificazione della chiesa e delle strutture conventuali – può essere affidata direttamente ai frati (ipsi ordini) ma anche passare attraverso le mani di figure non altrimenti precisate, indicate dai superiori dell’Ordine (aut illis quibus prior… dari voluerit)9. Difficile stabilire con precisione la natura di tali soggetti. È infatti possibile che gli Statuti alludano, secondo quanto stabilito dalla Quo elongati (1230), a nunzi proposti al Comune-benefattore dai frati stessi, incaricati di liquidare la somma a chi ha svolto i lavori di costruzione. Al contempo non è da escludere che questo passaggio degli Statuti estenda e trasferisca al Comune le competenze dell’amico spirituale che la Regola voleva designato dai superiori per provvedere alle necessità primarie dei
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Si noti l’uso improprio del più conosciuto prior per indicare i ministri ed i guardiani dell’Ordine dei frati Minori; per una storia del termine prior nei secoli X-XIII si rinvia a J. DUBOIS, Priorato, in Dizionario degli istituti di perfezione, VII, Roma 1983, coll. 831-834. 8 Gli statuti del comune di Treviso. Statuti degli anni 1231-33, 1260-63, II, Venezia, 1951, p. 270. Sulla presenza degli Ordini mendicanti a Treviso rimando agli studi di Daniela Rando raccolti nel volume: D. RANDO, Religione e politica nella Marca. Studi su Treviso e il suo territorio nei secoli XI-XV, Verona 1996 (Biblioteca dei Quaderni di storia religiosa, 1); in particolare, sui frati Minori si vedano le pp. 133-198 del primo tomo. A riguardo si può tenere in considerazione anche: I. GATTI, San Francesco di Treviso: una presenza minoritica nella Marca Trevigiana, Padova 2000 (Centro Studi Antoniani, 31). Si soffermano sul caso trevigiano, quale esemplificazione del legame percepito da parte delle amministrazioni comunali tra la presenza dei frati e la prosperità/buongoverno della città, RIGON, Frati Minori e società locali cit., p. 270 e A. VAUCHEZ, Gli Ordini mendicanti e la città nell’Italia dei comuni (XIII-XIV) secolo. Alcune riflessioni vent’anni dopo, in Ordini religiosi e società politica in Italia e in Germania nei secoli XI e XV. Atti della XL settimana di studio del centro per gli studi storici italo-germanici (Trento, settembre 1997), ed. G. CHITTOLINI - K. ELM, Bologna 2001, pp. 31-44. 9 A Prato, i frati Minori inoltrano nel 1280 una petizione al Capitano del popolo Loctus de Gherardinis in cui rivendicano la somma loro promessa dal Comune: «Potestas, Capitaneus et camerarii Comunis Prati et comune Prati et quilibet eorum, qui est vel pro tempore fuerit, teneatur ad solutionem predictam faciendam et fieri faciendam»; contestualmente si specifica che la stessa può essere versata, come nel caso suesposto, «ipsis fratribus vel aliis pro eis de pecunia dicti Comunis»; Consigli del Comune di Prato: 15 ottobre 1252-24 febbraio 1285, cur. R. PIATTOLI, Bologna 1940, pp. 347-348.
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frati10. In questo secondo caso sarebbe il Comune a liquidare il compenso alla manodopera. Si collocano in periodi diversi due provvedimenti speculari, il primo impetrato al Consiglio comunale di Milano dal ministro provinciale frate Leone da Perego, pochi mesi prima della battaglia di Cortenuova (1237), il secondo inserito negli statuti di Albenga del 128811. Nel caso lombardo ad essere ceduti ai frati Minori sono i diritti nei confronti delle somme da restituirsi al Comune «propter usuras preteritas, vel propter malum vel iniuste ablatum»; lo scopo dichiarato è quello di contribuire a sanare il debito e colmare le spese affrontate o ancora da sostenere per erigere Chiesa e convento oltre a coprire le ordinarie necessità dei frati12. All’opposto la più antica redazione degli Statuti di Albenga pervenutaci prevede la facoltà di consegnare al guardiano del locale convento minoritico somme fino a 10 libre ricevute dal Comune senza averne titolo. Al
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10 Sulla figura del procuratore (o sindaco apostolico) in ambito minoritico manca uno studio diacronico e non circoscritto geograficamente; si può però fare riferimento alla voce e alla bibliografia curata da P. PEANO, Sindaco apostolico, in Dizionario degli istituti di perfezione, VIII, Roma 1988, coll. 1531-1535. Un’indagine limitata ad alcune custodie dell’Europa occidentale e centro-orientale a partire dagli «actes de la pratique» è stata condotta da L. VIALLET, Procureurs et «personnes interposées» chez le Franciscains, in Économie et religion: l’expérience des ordres mendiants (XIIIe-XVe siècle), dir. N. BÉRIOU - J. CHIFFOLEAU, Lyon 2009, pp. 661-705; muovono invece dai documenti pontifici sui procuratori apostolici, riportati dal Liber minoricarum decisionum di Bartolo da Sassoferrato, le pagine di A. BARTOCCI, Ereditare in povertà. Le successioni a favore dei frati Minori e la scienza giuridica nell’età Avignonese (1309-1376), Napoli 2009, pp. 295-330. 11 Per Leone da Perego si possono consultare la voce e il relativo ragguaglio bibliografico di M. PELLEGRINI, Leone da Perego, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXII, Roma 2015, pp. 321-323. Per l’attenzione dedicata ai rapporti tra Leone da Perego e il Comune milanese si vedano, in particolare: G.G. MERLO, Leone da Perego frate Minore e arcivescovo, «Franciscana. Bollettino della Società Internazionale di Studi Francescani», 4 (2002), pp. 29-110 e M.P. ALBERZONI, Leone da Perego: strategie parentali e diffusione della presenza francescana nel Milanese, ibid., 8 (2006), pp. 31-62. 12 P. SEVESI, Documenta hucusque inedita saeculi XIII pro historia almae fratrum Minorum Provinciae mediolanensis seu lombardiae, «Archivum Franciscanum Historicum», 4/2 (1911), p. 259. Ripercorre i primordi della presenza minoritica nella città ambrosiana, lo sviluppo ed il radicamento nella vita politica, sociale e religiosa a Milano e nella regione la raccolta di saggi di M.P. ALBERZONI, Francescanesimo a Milano nel Duecento, Milano 1991 (Fonti e ricerche 1). Incassi del «denaro d’indennizzo» (multe, male ablatis) sono autorizzati a Bologna sin dal 1236 per le necessità dello studium; cfr. M.D. LAMBERT, Povertà francescana: la dottrina dell’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli nell’Ordine francescano (1210-1323), Milano 1995, p. 92. Donazioni similari sono prescritte nella redazione degli Statuti bolognesi del 1262 alle «dominabus pauperibus Sancti Francischi et dominabus de Puglola et dominabus Sancti Iohannis batiste»; cfr. Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, I, ed. L. FRATI, Bologna 1869, p. 446.
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guardiano stesso, con buona pace delle norme relative all’impossibilità per i frati di ricevere direttamente o indirettamente pecunia, spetta addirittura il fare quietanza in vece del Comune della ricezione della somma destinata alla fabbrica conventuale13. In tutti i casi proposti la compartecipazione economica da parte dei governi comunali, che si fanno garanti della presenza minoritica, si colloca entro la prospettiva dell’occasionalità o dell’eccezionalità. L’acquisto di una base fondiaria per l’insediamento dei frati o il contributo per l’edificazione della chiesa e delle strutture conventuali fino al loro completamento sono bisogni eccezionali: la loro durata, ridotta nel tempo, e la destinazione, specificata, scongiurano il rischio che le elemosine possano essere tesaurizzate o confuse con una rendita perpetua14. È invece deputata all’ordinario sostegno dei frati la figura del procuratore, il cui carattere, ridefinito da Innocenzo IV nella Ordinem vestrum (1245), aveva portato l’Ordine a rinunciarvi nel capitolo generale di Metz (1254). Le normative statutarie di Todi (1275) e Perugia (1279) annoverano una norma circa l’istituzione di procuratori di nomina comunale15. Gli Statuti perugini, nello specifico, fanno propria una disposizione di
13 Gli Statuti di Albenga del 1288, ed. J.C. RESTAGNO, Genova 1995, p. 114: «Si aliqua persona que ab hinc retro habuerit vel percepit per se vel aliam personam suo vel hereditario nomine aliquid iniuste sive sine iusta causa de communi vel a communi Albingane, seu rebus seu pecunia, sive de bonis communis Albingane vel ad ipsum commune pertinentibus, possit et debeat licenter, si voluerit, de eo quod habuerit usque in libris X tantummodo concordare cum guardiano fratrum Minorum ad voluntatem ipsius guardiani qui nunc est vel pro tempore fuerit. Ita quod dictas libras X et a libris X infra possit et de hiis male ablatis seu acquisitis sive rebus supradictis dare, restituere et satisfacere ipsi guardiano qui nunc est vel pro tempore fuerit ad operam et laborerium ecclesie Sancti Francisci de Albingana. Ita quod si ad voluntatem ipsius guardiani satisfecerit de quantitate predicta librarum X predicto modo ad opus predictum, possit tunc dictus guardianus qui nunc est vel pro tempore fuerit, illam personam que sic dederit vel satisfecerit aut solverit, absolvere et liberare usque in quantitatem predictam, nomine et vice communis Albingane». 14 Ad Alatri, ad esempio, la donazione del Comune di una somma in denaro per la ricostruzione ex novo del convento minoritico è accompagnata dalla specificazione «pro elemosina convertenda in muris ecclesie nove et loci»: MARIANO D’ALATRI, I più antichi insediamenti dei mendicanti nella provincia civile di Campagna, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge, Temps modernes», 89/2 (1977), p. 580. 15 Anche a Rocca Contrada (oggi Arcevia), nel 1274, il podestà Oddetto di Donazano nomina un procuratore per l’acquisto di un terreno da cedere ai frati per la costruzione della chiesa di San Francesco; Carte di Fonte Avellana. Regesti degli anni 1265-1294, ed. E. BALDETTI, Roma 1995, p. 306; MARCELLI, Gli insediamenti francescani nella Custodia di Jesi cit., pp. 38-39. A Vicenza il Comune interviene per coprire la differenza di 400 libre nella permuta tra la Chiesa dei Minori e quella del Capitolo: F. LOMASTRO, Appunti sulla fortuna dei Minori a Vicenza nel Duecento, «Civis», 19-20 (1983), pp. 41-62.
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Alessandro IV che aveva concesso al convento dei frati Minori della città umbra un «sindicum et procuratorem ad agendum et defendendum»16. Oblazioni ordinarie sono anche quelle previste per ogni anno dalle normative statutarie per contribuire al mantenimento dei pia loca. Bologna costituisce, in tal senso, un esempio efficace. Gli Statuti del 1250 contemplano per i frati Minori contributi in denaro pro substentatione – laddove gli altri loca pia ricevono un’offerta in frumento - e pro laborerio ecclesie17. Se la prima disposizione non contiene ulteriori specificazioni, per la seconda, vale a dire per la realizzazione della chiesa, viene indicato un termine di decadenza di cinque anni che scansa l’eventualità di una trasformazione del contributo in una rendita18. Negli Statuti di Albenga (1288) il capitolo relativo alla cessione ai Minori delle somme indebite ricevute dal Comune e all’assegnazione delle stesse per l’edificazione della chiesa e delle strutture conventuali, viene poi cassato in favore della già invalsa consuetudine di destinare annualmente ai frati un’offerta pubblica. A partire dal 1295, l’elemosina è indirizzata al rinnovo delle vesti dei religiosi19. È un provvedimento, quello a sostegno dell’annuale sostituzione delle vesti, che accomuna quasi tutto il territorio italiano, una sorta di evoluzione condivisa nella regolamentazione della pubblica pietà, fissata in un numero considerevole di normative statutarie20. 16
Cfr. Statuto del Comune di Perugia del 1279, I, edd. S. CAPRIOLI et al., Perugia 1996 (Fonti per la storia dell’Umbria, 21), pp. 100-101; sui procuratori perugini si vedano almeno il contributo di A.I. GALLETTI, Insediamento e primo sviluppo dei frati Minori a Perugia, in Francescanesimo e società cittadina. L’esempio di Perugia, Firenze 1979 (Quaderni del Centro per il Collegamento degli Studi Medievali e Umanistici nella Università di Perugia, 21) pp. 1-44 e, insieme, le osservazioni presenti in RIGON, Frati Minori e società locali cit., pp. 274-275; torna sull’argomento anche CZORTEK, Frati Minori e Comuni cit., pp. 237-270 (soprattutto le pp. 252-253). 17 Statuti di Bologna cit., rispettivamente pp. 46 e 450. Sulla monetizzazione quale tappa evolutiva del concetto stesso di elemosina, cfr. M. MOLLAT, I poveri nel Medioevo, Roma-Bari 1982, pp. 175-178. 18 Cfr. M. MARCHESINI, I Francescani a Bologna nel secolo XIII, «Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna», 49 (1998), pp. 395-450; ripercorre invece il patrimonio amministrato dal convento bolognese dei frati Minori, soffermandosi anche sugli interventi pubblici: F. BOCCHI, Il patrimonio di San Francesco di Bologna alla fine del Trecento, «Storia della città», 26-27 (1983), pp. 101-114. 19 Josepha Costa Restagno ipotizza che la cancellazione della prima norma è forse attribuibile al fatto che «rischiava di generare o aveva già generato abusi o complicazioni contabili»; Gli Statuti di Albenga cit., p. 115. 20 Gli Statuti di San Gimignano, ad esempio, specificano solo a partire dalla redazione del 1255 che l’elemosina per i frati era destinata «pro emendis eorum tunicis»: A. BURRONI, Le finanze sangimignanesi nel XIII secolo, «Miscellanea storica della Valdelsa», 108 (2002), p. 16; lo stesso Comune aveva favorito l’insediamento dei Minori con un’offerta in mattoni, calcina e denaro: DE LA RONCIÈRE, Società locali e Ordini mendicanti nella Valdelsa cit., p. 237.
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Orientarsi e cercare una sistematizzazione in questo patchwork, tenendo conto della stratificazione dello ius proprium comunale, dei vuoti documentari, delle differenze dei contesti, dai quali le normative statutarie o le riformanze scaturiscono, non è affatto facile. Se ne deduce, al momento, solo un timone della ricerca che necessita di essere vagliato e verificato, punto per punto, alla luce di un’indagine sistematica. Nella prima fase insediativa, la compartecipazione dei governi comunali alla presenza minoritica si concretizza spesso nell’acquisizione di un’area da edificare. In tal caso si registra l’esborso diretto di somme anche considerevoli da parte del Comune a cui fa seguito una donazione ai frati: si tratta di provvedimenti straordinari che non necessitano di una sistematizzazione all’interno della normativa statutaria e per i quali le istituzioni comunali non si pongono, se non superficialmente, scrupoli sulla natura della povertà francescana. Parrebbe proprio il tenore unilaterale di questi atti, oltre al loro collocarsi spesso entro gli anni Quaranta del secolo XIII – e dunque prima del dibattito sull’identità minoritica – a determinarne, se non la lontananza, la sostanziale estraneità alle più scottanti questioni fissate nello ius particulare dell’Ordine. Quando l’insediamento è ormai avviato e la necessità primaria diventa quella di far fronte all’edificazione della chiesa e dei luoghi della vita comune o di provvedere al mantenimento della famiglia conventuale, la pubblica pietà assume anche forme diverse. I provvedimenti di Milano e Perugia affondano le radici nel superamento dell’unilateralità e dunque nel loro collocarsi entro un orizzonte relazionale che va dal legame spirituale all’intervento diretto del pontefice o dei frati nella vita politica (si vedano ad esempio le petizioni, meritevoli da sole di un’indagine approfondita). In questo modo, le modalità di finanziamento che ne derivano non sono solo rispondenti ad alcune delle restrizioni previste nei rapporti tra frati e pecunia – su tutte l’occasionalità (non sono legate ad una periodicità regolare, pertanto non confondibili con un reddito), la non-tesaurizzazione (sono destinate a saldare le spese della fabbrica conventuale), l’indipendenza dei procuratori dai frati – ma anche coerenti con i criteri di giustificazione della ricchezza promossi dai frati Minori. Infine, la destinazione delle pubbliche offerte all’acquisto delle vesti dei frati pare trovare un valore aggiunto a partire dagli anni in cui l’identità minoritica è oggetto di dibattito. L’imporsi di tale destinazione è forse motivato anche dal fatto che essa rappresenta il compromesso fra esigenze differenti, quelle dei governi comunali e quelle dei frati Minori con i rispettivi sistemi normativi. In essa trovano composizione la volontà politica di corrispondere con cadenza regolare una cifra per i religiosi, il bisogno di
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legiferare ponderando l’offerta a prescindere dai bisogni momentanei della famiglia conventuale, l’impossibilità per quest’ultima di incassare redditi annui, le disposizioni delle costituzioni minoritiche circa la necessità di provvedere alle vesti dei frati. I provvedimenti della pubblica pietà non sono dunque solo espressione di quella “solidarietà simpatetica” qualificante il rapporto tra comunità di frati, ceti dirigenti e governi comunali21. Da essi si evince infatti anche la sostanziale polifonia del minoritismo duecentesco nel rapporto tra la professione e la vita, tra la norma e la sua osservanza e, allo stesso tempo, il costante tentativo di ricondurre il tutto ad unità. 2. Le disposizioni sulla pubblica elemosina nello ius particulare dei frati Minori
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Posta una ricezione a più livelli – assimilazione, osmosi, discontinuità delle specificità minoritiche nel sistema normativo comunale, resta l’interrogativo circa l’eventuale esigenza, percepita da parte dei frati, di apporre un argine normativo laddove la pubblica pietà non risulti in toto compatibile con i riferimenti della propria vita religiosa. In realtà scorrendo le costituzioni generali dei frati Minori del secolo XIII e della prima metà del successivo non si rintracciano distinzioni relative alla provenienza delle elemosine da parte di privati o di istituzioni cittadine. A livello generale non viene insomma avvertita la necessità di una regolamentazione specifica per normare la pubblica pietà. Una direttiva a riguardo è invece rintracciabile nelle costituzioni provinciali che avevano lo scopo di regolare per le singole province, le materie che dalla Regola e dalle Costituzioni generali erano tralasciate o demandate proprio alle province. Nelle Costituzioni della Provincia toscana del 1292 si legge: «Fratres, qui habent provisionem pro tunicis a Communi alicuius terrae, si ipsam provisionem habuerint tempore induendi, ultra id quod eis hoc modo provideatur non acquirant intuitu tunicarum nisi in quantum deest provisioni predictae»22. La norma ordina ai Minori di non spendere, per la premura nei confronti delle vesti, più di quanto è stato per loro stanziato dall’autorità comunale se non in ragione dell’impossibilità di coprire con quella somma il reale fabbisogno della famiglia conventuale. 21 BARTOLI LANGELI, Comuni e frati Minori cit., p. 96. 22 Costituzioni della Provincia Toscana tra i secoli XIII e XIV, p. 158 in CENCI, L’Ordine
francescano e il diritto cit., p. 158.
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Di rimbalzo, tale formulazione è foriera di altre preziose indicazioni. Anzitutto attesta che lo stanziamento di somme dei governi comunali per l’acquisto delle vesti non era sempre sufficiente a coprire il fabbisogno della comunità minoritica; dall’altra parte allude anche alla tendenza da parte dei frati Minori, tutelati dall’esborso pubblico, a provvedere oltre il fabbisogno, forse accollando il debito alle casse comunali o magari lasciando nell’incertezza il creditore circa chi debba provvedere all’insoluto. Al di là della norma in sé, ciò che tuttavia si ritiene più rilevante è la ricezione e la regolamentazione all’interno dello ius particulare dell’Ordine, ormai a fine XIII secolo, di una risoluzione invalsa nel diritto statutario con delle indicazioni che, oltre a prenderne atto, tendono a normare la prassi osservata dai frati, scongiurandone le inosservanze nei vuoti giuridici. 3. Prassi della pubblica elemosina
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Il finanziamento della pubblica elemosina per i religiosi costituisce un’importante voce del bilancio delle amministrazioni comunali, divenendo talvolta un gravame impegnativo. Per tale ragione è cosa abituale per i Comuni gestire lo scarto fra lo stanziamento delle somme destinate ai religiosi ed il loro effettivo versamento o la loro dilazione. A Prato, ad esempio, sono emblematiche le arringhe dei consiglieri Rodulfus e Iohannes che nel luglio del 1281, fronte alla petizione avanzata dai frati Predicatori di una compartecipazione delle istituzioni all’acquisto di un luogo in cui insediarsi, esprimono sì il proprio favore all’accoglienza della nuova famiglia religiosa, ma al contempo pregano l’assemblea di procrastinare il provvedimento fino all’estinzione del debito contratto con i frati Minori l’anno precedente23. Non è solo la penuria delle disponibilità economiche a compromettere la regolarità delle elemosine. Il 19 aprile 1307, il capitano del popolo del comune di Perugia, dispone che il massaro versi ai frati Minori di Agello l’elemosina non corrisposta «pro errore notarii»24.
23 Consigli del Comune di Prato cit., pp. 267, 308, 347-348, 366-367. 24 I registri finanziari del Comune di Perugia (Fondo Computisteria dell’Archivio di Stato
di Perugia), cur. C. REGNI, Perugia 1991 (Archivi dell’Umbria, 19), p. 65. Il prezioso volume è frutto della ricerca Chiese e conventi degli Ordini mendicanti in Umbria nei secoli XIIIXIV nell’ambito della quale si collocano studi analoghi per gli archivi di Orvieto, Città di Castello, la Valnerina.
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Costante appare l’indebitamento con i frati Minori da parte del Comune di Orvieto nell’ultimo periodo del governo dei Sette consoli delle arti e poi sul finire del governo popolare guidato da Poncello Orsini. Nell’aprile 1307 i frati Minori reclamano l’offerta di due staia di grano mensili decretata nel giugno dell’anno precedente e rimasta insoluta da gennaio. Il 28 ottobre del 1308 si decide, su petizione del guardiano del locale convento, di cercare una persona debitrice al Comune per l’ammontare di 81 libre e 18 soldi. La cifra, per la quale il camerario del Comune emetterebbe quietanza, deve essere versata direttamente ai frati al fine di coprire il credito vantato dagli stessi per la mancata corresponsione da parte del Comune delle somme dovute «pro indumentis»25. Come a Milano il recupero dei crediti vantati dal Comune viene associato, su richiesta dei Minori, alla pubblica beneficenza per coprire i debiti dell’istituzione nei confronti dei religiosi. Sempre dietro petizione dei frati, fra il marzo e l’aprile 1320, il Consiglio Comunale di Orvieto decide di supportarli nelle spese da affrontare per ospitare il prossimo Capitolo provinciale26. Non è la prima volta che i frati chiedono una compartecipazione all’erario pubblico. Altre petizioni erano state inoltrate dai frati a partire dal 1310 per avere la forza lavoro necessaria alla realizzazione di una cisterna d’acqua di pubblica utilità, per poter usufruire del legno della selva di Aspretolo per la ricostruzione del tetto, per completare i lavori alla cisterna27. La somma stanziata per il capitolo della Provincia romana dei frati Minori, pari a quella versata per il Capitolo dei Predicatori, non può tuttavia essere liquidata perché «in comuni predicto non sit pecunia que dari possit fratribus supradictis»; in questa situazione il Consiglio accetta la proposta dei religiosi di cercare un bonus homo disposto a farsi carico della somma prestandola al Comune, sotto la garanzia del ricavato delle condanne emesse dal podestà e dal capitano28. A distanza di due anni, il debito non solo non è ancora stato colmato perché il denaro è stato reindirizzato a coprire «alia debita que erant in comuni predicto» ma è cresciuto per via del contributo «pro eorum vestimentis», rimasto parimenti insoluto anche per i frati Predicatori29. Nel 1322 si impone ad Orvieto la nobiltà guelfa sotto l’egida di Manno
25 Archivi di Orvieto, cur. M. ROSSI CAPONERI - L. RICCETTI, Perugia 1987 (Archivi dell’Umbria, 9), passim. 26 Ibid., p. 28. 27 Ibid., pp. 20-21. 28 Ibid.., p. 28. 29 Ibid., pp. 28-29.
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Monaldeschi, prestatore negli anni successivi di ingenti somme proprio al Comune. È questo lo scenario politico e la prospettiva di senso in cui si colloca l’ennesima petizione avanzata dai Minori di Orvieto congiuntamente agli altri Ordini mendicanti, affinché il governo comunale si facesse carico del mantenimento di quei frati che si erano rifugiati ad Orvieto in occasione dell’arrivo di «Ludovicus de Bavaria ad partes Urbis, inimicus sancte matris Ecclesie et fidei cristiane»30. Ecco che, in maniera sottile, la prassi ordinaria dell’economia dell’offerta scopre non solo difficoltà amministrative da parte degli indebitati governi comunali ma costituisce anche la cartina di tornasole di equilibri politici mutati o prossimi a mutare31. Risalgono tra il febbraio 1339 e il giugno 1340 le annotazioni del Liber elimosinarum Communis Fabriani, due fascicoli membranacei omogenei che ospitano solutiones et quietationes delle elemosine destinate alle religiosae personae (membri di Ordini religiosi, recluse, conversi32) di stanza nella città e nel districtus di Fabriano33. Le operazioni registrate si sono svolte sotto il podestà Lippo di Colle Valdelsa. Stando al resoconto di frate Monaldo da Tolentino nell’ambito dell’inchiesta sulle condizioni politiche della Marca del legato papale Jean Dalpérier (1341), il mandato di Lippo a Fabriano segue la ribellione alla tirannide ghibellina di Alberghetto Chiavelli34. Nel suo essere un prodotto della macchina burocratica comu-
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Ibid., p. 32. Sull’indebitamento dei Comuni in Europa occidentale rinvio a Urban public debts: urban government and the market for annuities in Western Europe: (14th-18th centuries), cur. M. BOONE - K. DAVIDS - P. JANSSENS, Turnhout 2003; sul caso italiano, invece, cfr. Debito pubblico e mercati finanziari in Italia. Secoli XIII-XX, cur. G. DE LUCA - A. MOIOLI, Milano 2007. 32 A Fabriano, così come a Siena, sono escluse le chiese parrocchiali rette dal clero secolare o da canonici regolari e le comunità monastiche; cfr. M. PELLEGRINI, La norma della pubblica pietà. Istituzioni comunali, religione e pia loca nella normativa statutaria senese fino al Costituto volgare del 1309, in Siena nello specchio del suo Costituto in volgare del 1309-1310, cur. N. GIORDANO - G. PICCINNI, Ospedaletto 2013 (Dentro il Medioevo, 8), p. 262. 33 Fabriano, Archivio storico comunale (=ASF), Registri, vol. 700, nn. 8 e 9. Del Liber elimosinarum sono in procinto di terminare l’edizione nell’ambito del progetto di ricerca Notariorum itinera della Deputazione di Storia patria per le Marche. 34 Cfr. F. PIRANI, Informatio status Marchie Anconitane. Una inchiesta politica del 1341 nelle terre dello Stato della Chiesa, «Reti Medievali - Rivista», 5 (2004). Determinante il peso della ricostruzione del quadro politico da parte di frate Monaldo per le altre deposizioni testimoniali; così PIRANI, Tiranni e città nello Stato della Chiesa: informatio super statu provincie Marchie Anconitane (1341), Fermo 2013, p. 24. Sul ruolo della famiglia dei Chiavelli a Fabriano si vedano anche: P.L. FALASCHI, Chiavelli, Alberghetto, in Dizionario
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nale e uno strumento dell’esercizio del potere35, tale documentazione riflette le tensioni del contesto dal quale scaturisce. Nella protezione accordata ai religiosi del territorio sotto la giurisdizione di Fabriano bisogna infatti anche riconoscere il desiderio da parte del restaurato governo popolare di concretizzare l’idea di un’amministrazione legittima e desiderosa di quel buongoverno di cui il sostegno ai religiosi è immagine e garante. Le somme sono computate pro capite e si differenziano in base al numero dei religiosi presenti in ciascun insediamento; preventivate dal Comune di Fabriano per un semestre, le elemosine vengono versate in due soluzioni, la prima delle quali comprende i due terzi dell’intero ammontare, la seconda il terzo residuale36. Nelle annotazioni del Liber elimosinarum i Minori sono presenti in più occorrenze. Ad incassare l’elemosina (per la quale è conteggiata anche la conversa fratrum) e ad emettere quietanza
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biografico degli Italiani, XXIV, Roma 1980, pp. 633-636; FALASCHI, La signoria dei Chiavelli, in Gentile da Fabriano: studi e ricerche, cur. A. DE MARCHI - L. LAUREATI - L. MOCHI ONORI, Milano 2006, pp. 85-95; V. VILLANI, Lotte di fazione, governi di popolo e politica antimagnatizia nei Comuni marchigiani dei secoli XIII e XIV, «Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», 103 (1998), pp. 7-134. Tra le pergamene del fondo del Brefotrofio fabrianese, il podestà Lippo di Umberto è documentato solo in ASF, Brefotrofio, perg. 766, una raccolta di atti giudiziari – datati tra il 28 aprile 1339 ed il 14 febbraio 1340 – intorno ad una vendita di grano ed orzo stabilita dal giudice Ghisso per il podestà, a favore di Biagio di Filippo, contro i lavoratori di una sua terra in bayla Sancti Donati. 35 Dalla metà del Duecento l’attività amministrativa delle istituzioni comunali, suddivisa tra vari uffici specializzati, si concretizza in una nuova prassi documentale; si abbandona così l’instrumentum publicum in favore della scrittura continuativa su registro. Si vedano a riguardo: A. BARTOLI LANGELI, Le fonti per la storia di un Comune, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV). Congresso storico internazionale (Perugia, 6-9 novembre 1985), Perugia 1988, I, pp. 5-21; P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 139 e 160, J.-C. MAIRE VIGUEUR, Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas de l’Italie médiévale, «Bibliothèque de l’École des chartes», 153 (1995), pp. 177-185; per un puntuale excursus storiografico, cfr. G. FRANCESCONI, Potere della scrittura e scritture del potere. Vent’anni dopo la Révolution documentaire di J.-C. Maire Vigueur, in I Comuni di Jean-Claude Maire Vigueur, cur. M.T. CACIORGNA - S. CAROCCI - A. ZORZI, Roma 2014 (I libri di Viella, 172), pp. 135-155. 36 ASF, Registri, vol. 700, n. 8, f. 1r: «Hic est liber sive quaternus continens solutiones factas religiosis personis pro ultima parte elimosine eis deputatate per Comune Fabriani pro ultimis sex mensibus anni Domini millesimi trecentesimi trigesimi octavi»; ivi, n. 9, f. 1r: «Hic est liber continens solutiones factas religiosis personis de pecunia et avere Comunis Fabriani pro duabus partibus elemosine eis deputate per Comune predictum pro ultimis sex mensibus anni Domini millesimi trecentesimi trigesimi noni»; ivi, f. 7r: «Hic est liber continens solutiones factas religiosis personis de pecunia et avere Comunis Fabriani pro residua tertia parte elimosine ipsis religiosis personis deputate per Comune Fabriani
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sono in un’occasione Bonaventura magistri Morici syndicus37 del convento minoritico e in un’altra il guardiano stesso del convento, frater Dominicus38. Lungi da un’osservanza rigida allo ius particulare dell’Ordine che vorrebbe negata al guardiano la possibilità di ricevere direttamente l’elemosina pecuniaria, la prassi comunale e la norma minoritica entrano in relazione secondo un approccio duttile che lascia sì trasparire la coscienza della norma, ma senza un paralizzante irrigidimento sulla stessa. Quanto all’atteggiamento tenuto dai frati Minori nei confronti delle somme ricevute dai governi comunali, le fonti contabili prodotte autonomamente dai frati costituiscono un osservatorio privilegiato per risalire al loro effettivo impiego. Così dal Liber introitus et exitus del convento dei frati Minori di Fabriano, dove sono raccolte annotazioni contabili fra il 1326 ed il 1380 di mano perlopiù dei guardiani, emerge una certa libertà amministrativa di quest’ultimi circa la destinazione originaria delle pubbliche elemosine, il tutto a dispetto dell’impossibilità di convertire le somme destinate ad un uso preciso da un benefattore, stabilita sin dalle costituzioni di Narbona (1260)39. Sia sufficiente citare solo alcuni degli episodi più significativi, specificando la destinazione iniziale ed il reale impiego della somma assegnata dal Comune ai Minori: − 31 agosto 1328: dalle tuniche all’immobile. La somma ricevuta dall’incaricato alla distribuzione delle elemosine destinate ai religiosi viene
pro ultimis sex mensibus anni Domini millesimi trecentesimi trigesimi noni». 37 Ibid., n. 8, f. 4v: «Prefatus Iacobus syndicus nomine quo supra ibidem dedit et solvit Bonaventure magistri Morici syndico conventus fratrum Minorum Sancti Francisci de Fabriano 36 lib. rav. de quibus dictus magister Bonaventura, syndicus dictorum fratrum, eundem Iacobum syndicum dicti Comunis sollempniter quietavit». 38 Ibid., n. 9, f. 5v: «Frater Dominicus, guardianus loci et conventus fratrum Minorum Ordinis Sancti Francisci de Fabriano, ibidem confessus fuit et asseruit se habuisse et recepisse a Iacobo Ugolini syndico Comunis Fabriani predicto dante et solvente sibi pro conventu et portannerio et conversa pro duabus partibus elimosine ipsos guardianum et portannerium et conversam contingentis dicto tempore 25 lib. rav. videlicet 24 lib. pro conventu et 20 s. pro portannerio et conversa de quibus dictus guardianus nomine dicti loci et conventus et portannerii et converse eundem Iacobum syndicum nomine quo supra recipientem sollempniter quietavit». 39 ASF, Corporazioni religiose, 636. All’edizione e allo studio del liber fabrianese ho dedicato la mia tesi di dottorato: L. MARCELLI, La porta, la limosina, la cucina. Il Liber exitus et introitus (1326-1380) del convento di San Francesco a Fabriano. Tesi di dottorato in Storia del cristianesimo e delle Chiese, Università di Roma Tor Vergata, 2012 (tutori R. Michetti e A. Bartoli Langeli); in attesa della prossima pubblicazione, si può vedere in via preliminare: MARCELLI, La documentazione contabile dei frati Minori. Il caso del convento di Fabriano, «Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani», 16 (2014), pp. 151-194.
“ECONOMIA DELL’OFFERTA” E AMMINISTRAZIONI COMUNALI
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utilizzata per coprire una parte della spesa per una casa acquistata dal syndicus per il convento40. − aprile 1332: dalle tuniche alla libraria. I frati ricevono dal Comune l’elemosina per le tuniche che dovevano avere nel gennaio insieme a quelle che erano di loro spettanza nell’agosto venturo. In calce, alla stessa carta, si prende nota di come parte della somma sia stata dirottata ed affidata al lettore frater Jacobus de Fabriano, con il consenso di tutto il governo locale dell’Ordine − il provinciale della Marca, il custode di Jesi e il guardiano di Fabriano − per l’allestimento di una cella a libraria del convento, dove ospitare la cospicua raccolta di codici in dotazione al convento fabrianese41. − settembre 1357: dalle tuniche all’orologio meccanico. La somma destinata alla tunica del guardiano viene dallo stesso reindirizzata, senza particolari autorizzazioni e consensi, alla messa in opera dell’orologio meccanico da poco acquistato42.
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Dall’osservazione complessiva delle forme di finanziamento o di reindirizzamento delle risorse pecuniarie per specifiche necessità dei frati si può arrischiare una considerazione. Guardando alle prime infatti, si rilevano la mobilitazione della beneficenza privata per l’edificazione del campanile ed i prestiti, poi commutati in servizi spirituali, per comprare una cam-
40 ASF, Corporazioni religiose, 636, f. 10v: «Item die ultima augusti assingnavi Phylipputio syndico de denariis quos ipse acceperat a Bartholo Çutii, camerarius elymosine religiosorum, 18 lib. pro parte solutionis pecunie quam solverat Rambaldo pro domo empta pro loco». 41 Ibid., f. 42v: «frater Jacobus de Fabriano lector, consentiente fratre Simone ministro Marchie, fratre Raynaldo de Ofida, custode hesino, et fratre Francisco de Monte Sancte Marie, guardiano Fabriani, accepit septem libras et tredecim solidos de helemosina tunicarum ad reparandum unam cellam pro conservatione librorum conventus». L. PELLEGRINI, Libri e biblioteche nella vita economica dei mendicanti, in L’economia dei conventi dei frati Minori e dei Predicatori fino alla metà del Trecento. Atti del XXXI Convegno internazionale (Assisi, 9-11 ottobre 2003), Spoleto 2004, p. 209 segnala la tradizione agiografica che vede in Francesco Venimbeni (1322) il “fondatore” della raccolta libraria del convento di Fabriano con l’investimento in libri dell’eredità paterna; cfr. L. WADDING, Annales Minorum seu trium Ordinum a S. Francisco institutorum, IV (1256-1275), Ad Claras Aquas 1931, p. 310; Acta Sanctorum, Aprilis III, Venetiis 1738, p. 90. Hanno ricostruito una parte della raccolta libraria in uso dei frati Minori di Fabriano: E. FILIPPINI, Notizie storico-bibliografiche intorno all’archivio del Convento di San Francesco in Fabriano, «Miscellanea Francescana», 5 (1890), pp. 178-191; G. AVARUCCI, Studio, studia, maestri e biblioteche dei francescani delle Marche (secoli XIII-XV), in I francescani nelle Marche: secoli XIII-XVI, cur. L. PELLEGRINI - R. PACIOCCO, Cinisello Balsamo 2000, pp. 104-113. 42 ASF, Corporazioni religiose, 636, f. 164v: «Iste sunt tunice date per fratrem Bartholum Çure fratribus […] Item guardiano tres flor. de quibus dedit unum pro horologio».
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pana43. Al contrario, per l’acquisto di un immobile, per l’allestimento di uno spazio per il deposito librario, per l’orologio meccanico, i frati impegnano parte dell’elemosina comunale. Non per tutto, insomma, sembra essere lecito chiedere: fronte a necessità tutte interne al convento, è preferibile piuttosto riconvertire somme altrimenti destinate. 4. A mo’ di conclusione
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In conclusione non sembra rintracciabile nelle pubbliche sovvenzioni alcuna specificità minoritica. Alla lettura di statuti, riformanze e scritture contabili, i frati Minori non appaiono differenti dagli omologhi Mendicanti. Certo lo ius particulare dell’Ordine e, nello specifico, le prescrizioni relative all’osservanza della povertà, vengono ivi recepite secondo gradazioni eterogenee che si traducono poi in prassi non sempre osservanti le norme pauperistiche, specie laddove non avviate o sollecitate dai frati stessi. Lungi dall’essere espressione di un legame preferenziale, l’economia dell’offerta che ha per protagoniste le amministrazioni comunali pare più simile ad un’attività di governo che coniuga finalità differenti quali l’assicurazione del consenso, la costruzione dell’identità cittadina, la convinzione di contribuire, attraverso i poveri, al bene comune. Da parte loro i Minori chiedono, attingono, reclamano contributi in loro sostegno alle casse comunali, senza remore, specie se garantiti dalle norme statutarie o stabiliti nelle riformanze44. Questa contabilità dei crediti vantati dalla famiglia conventuale, unitamente alla prassi di reindirizzare le somme verso particolari urgenze sono le prime “crepe” di quella «rottura dei circuiti simbiotici con le società cittadine» che fino ad allora avevano garantito ai conventi «la continuità del sostegno economico45».
43 Ibid., f. 4v: «Item a Giovannecta mutuo pro campana flor. 4 auri comunis ponderis positi folio subscrito»; sul margine sinistro di questa annotazione, si legge: «Item reabuit Giovannecta quos adsignavit pro missis sicut scriptum est 86 folio ex alia parte»; f. 209r: «Item habui pro campanile pro anima Cristofoni becharii 25 lib.». 44 A riguardo, si veda pure A. RIGON, Mendicant Orders and the Reality of Economic Life in Italy in the Middle Ages, in The origin, development, and refinement of medieval religious mendicancies, cur. D. PRUDLO, Leiden 2011 (Brill’s Companions to the Christian Tradition, 24), pp. 241-276. 45 A. BARTOLI LANGELI - G. BUSTREO, I documenti di contenuto economico negli archivi conventuali dei Minori e dei Predicatori nel XIII e XIV secolo, in L’economia dei conventi dei frati Minori cit., p. 150.
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Astrologie, religion et pouvoirs au Trecento: Cecco d’Ascoli, le prince, le pape et deux frères Mineurs*
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Dans sa magistrale histoire de Florence, au sein d’un chapitre dédié à Cecco d’Ascoli, Robert Davidsohn affirme que, s’il ne fut pas directement impliqué dans les accusations contre son astrologue, le prince angevin Charles de Calabre ne fit rien pour le sauver du bûcher dans lequel il fut jeté le 16 septembre 13271. Nous savons que le frère Mineur et inquisiteur de Florence Accursio Bonfantini fut le protagoniste de cette condamnation et mise à mort2. Giovanni Villani rapporte cependant que c’est un autre Mineur, Raymond de Maussac, chancelier du duc de Calabre, qui aurait envoyé Cecco en prison: «parendogli abominevole a tenerlo il duca a corte, il fece prendere»3. En réalité, l’ordre d’emprisonner l’astrologue dans les
* Cet article reprend en partie un chapitre d’un livre sous presse: R.M. DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement». Artistes, cités communales et seigneurs angevins au Trecento, Paris, Presses universitaires de France. 1 R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, IV, Firenze 1981, pp. 1113, 1115. Dans un acte émanant de la chancellerie angevine, daté du 31 mai 1327, on lit que Cecco d’Ascoli, fisicus et familiaris du duc, doit recevoir trois onces d’or par mois pendant la période du vicariat de Charles à Florence, et deux quand il serait rentré dans son royaume. La disposition avait une valeur rétroactive à la date du 12 mars 1327 (N. BARONE, La Ratio thesaurariorum della cancelleria angioina trascritta ed annotata, «Archivio Storico per le Province Napoletane», 11 [1886], pp. 419-420). 2 A. BECCARIA, Le redazioni in volgare della sentenza di Frate Accursio contro maestro Cecco d’Ascoli, Torino 1906. 3 G. VILLANI, Nuova cronica, ed. G. PORTA, Parma 1991, lib. XI, cap. XLI. Sur Raymond de Maussac et ses liens avec la cour angevine: M.G. DEL FUOCO, Il processo a Cecco d’Ascoli: appunti intorno al cancelliere di Carlo di Calabria, in Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica nell’Italia del Trecento, cur. A. RIGON. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, 2-3 dicembre 2005), Roma 2007, pp. 183-200. Le florentin Marchionne di Coppo, repris par d’autres auteurs, raconte que l’astrologue avait dressé l’horoscope de la fille aînée du duc, Jeanne, en annonçant pour elle une vie dissolue et de luxure, ce qui aurait provoqué l’ire et la vengeance de Charles (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, ed. N.
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geôles de Santa Croce ne peut avoir émané que d’Accursio Bonfantini4, et du reste, un acte témoignant d’une visite du chancelier de l’Angevin à l’inquisiteur, la veille de la mise à mort de Cecco, pourrait faire penser que Raymond de Maussac a tenté de le convaincre de sauver in extremis l’astrologue du duc5. Les deux frères Mineurs, Accursio Bonfantini et Raymond de Maussac, étaient en effet engagés différemment auprès des autorités séculières et spirituelles. Élu en 1325 à la tête de l’office de l’Inquisition de la Toscane, le premier appartenait à une famille florentine très influente et aurait entrepris, pour honorer Dante, le premier commentaire public de la Commedia6. Le procès intenté par l’inquisiteur contre Castruccio Castracani, adversaire gibelin de l’Église7, la sentence de déposition de Louis de Bavière, qui venait de recevoir, à Milan, le 31 mai 1327, la couronne de fer des mains de l’évêque d’Arezzo Guido Tarlati, puis celles lancées contre le nouveau roi des Romains et contre l’évêque complice, ont très certainement joué un rôle dans la condamnation de Cecco d’Ascoli. Son procès s’inscrit aussi dans le contexte de la guerre menée par Jean XXII contre la branche radicale des Mineurs, dirigée par le ministre de l’ordre Michel de Césène8.
RODOLICO, in R.I.S.2, XXX/1, Città di Castello 1903, p. 154). Or, si Villani a connu Cecco, Marchionne n’était pas né au moment où l’astrologue fut conduit au bûcher: lorsqu’il compose sa chronique, vraisemblablement à la fin de sa vie, entre 1370 et 1380, il est aisé pour lui de ‘révéler’ l’horoscope de la fille de Charles de Calabre, tant la vie mouvementée de Jeanne Ière était un fait notoire, évoqué par les poètes, dont un Giannozzo Sacchetti. Le récit de Marchionne apparaît ainsi comme une prédiction post factum, qui permet du reste au chroniqueur de montrer que le célèbre astrologue ne s’était pas trompé. 4 R. DAVIDSOHN, Un libro di entrate e spese dell’inquisitore fiorentino, «Archivio storico italiano», 27 (1901), pp. 346-355: 352. 5 Davidsohn exclut, sans apporter une véritable explication, que le franciscain ait pu tenter de dissuader l’inquisiteur d’envoyer Cecco au bûcher (ibid., p. 353). 6 M. CORRADO, L’“Expositione” dantesca di frate Accursio Bonfantini, in Leggere Dante oggi. I testi, l’esegesi, cur. E. MALATO - A. MAZZUCCHI, Roma 2012, pp. 237-264. 7 Charles de Calabre soutint l’action menée par le pape et l’inquisiteur de Florence contre Castruccio et rappelle, dans une lettre datée du 14 février 1327 le procès intenté contre ce chef gibelin par Accursio Bonfantini (J. FICKER, Urkunden zur Geschichte des Roemerzuges Kaiser Ludwig des Baiern und der italienischen Verhæltnisse seiner Zeit, Innsbruck 1865, p. 30). 8 À l’époque où s’affrontaient Jean XXII et le ministre de l’ordre franciscain Michel de Césène, Bonfantini semble avoir joué un double jeu en affichant une certaine sympathie pour les dissidents franciscains (R. PARMEGGIANI, Consiliatores dell’Inquisizione fiorentina al tempo di Dante: cultura giuridico-letteraria nell’orbita di una oligarchia politico-finanziaria, in «Il mondo errante». Dante fra letteratura, eresia e storia, cur. M. VEGLIA - L. PAOLINI - R. PARMEGGIANI. Atti del Convegno internazionale di studio, Bertinoro, 13-16 settembre 2010, Spoleto 2013, pp. 57-79: 69).
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Accursio Bonfantini semble à ce propos avoir joué un double jeu en affichant dans un premier temps une certaine sympathie pour les dissidents franciscains9. Dans la sentence florentine, un des premiers griefs d’accusation concerne toutefois l’horoscope du fils de Dieu qui aurait déterminé, d’après l’astrologue, la pauvreté du Christ10. L’aventure dramatique de la condamnation de Cecco apparaît par ailleurs sous un jour nouveau dès lors que l’on tient compte de la présence à Florence de la cour angevine, de l’opposition de certains puissants magistrats à la politique menée par le prince, devenu seigneur de la ville en juillet 1326, mais aussi des rapports qu’Accursio Bonfantini entretint avec le pape Jean XXII11. Nous ignorons si Cecco avait établi des prédictions concernant sa propre personne avant de quitter Bologne pour Florence. Il avait, en effet, abandonné cette ville luxurieuse et lascive, dont l’ascendant est le Taureau pour s’installer à Florence, dont l’ascendant Bélier prédisposait également ses habitants à la luxure12. La théorie du pouvoir des astres sur les ‘caractères’ des villes dérive du Centiloquium du Pseudo-Ptolémée, une œuvre qui avait commencé à circuler à la fin du Xe siècle pour être finalement commentée dans les Universités. S’appuyant sur une proposition du Centiloquium où il était question du déterminisme astral in constructione urbium13, l’astrologue né à Ascoli avait conçu un horoscope des villes, que nous retrouvons parmi les chefs d’accusation dans la sentence qui le condamna au bûcher14. Cecco faisait confiance aux Florentins, et il décon-
9 Ibid., p. 69. 10 «Che egli aveva
detto et dogmatizzato, perché Cristo Figliolo d’Iddio hebbe nella sua nascita la libra nel decimo grado di essa per ascendente, che perciò dovette essere giusta la sua morte per predicatione et doveva morire di quella morte et modo che morì. Et perché Cristo hebbe il Capricorno nell’angulo della terra, però nacque in una stalla, et perché hebbe lo scorpione in secondo grado, però doveva esser povero» (A. BECCARIA, Le redazioni in volgare della sentenza di Frate Accursio cit., p. 13). 11 Sur la seigneurie de Charles de Calabre: R.M. DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernament» cit. Sur les rapports entre Accursio et le pape: M.G. DEL FUOCO, Il processo a Cecco d’Ascoli cit. pp. 233-234. 12 G. BOFFITO, Il commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, «La Bibliofilia», 6 (1904), pp. 111-124: 120. 13 J.-P. BOUDET, Entre science et nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIIe-XVe siècle), Paris 2006, pp. 290-291. 14 La sentence est arrivée jusqu’à nous dans un court résumé en latin (du XVe siècle) et dans une version en langue vernaculaire (transmise par des manuscrits du XVIIe siècle) qui semble relativement proche du document originel; on y relève des formules semblables à celles du livre des sentences de Bernard Gui. Davidsohn ne croit pas que les sentences aient été falsifiées (DAVIDSOHN, Storia di Firenze cit., p. 1116). J’ai consulté la version de la sentence en langue vernaculaire (BECCARIA, Le redazioni in volgare della sentenza di Frate
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seilla son ami juriste et poète Cino da Pistoia de quitter Florence pour Rome15. C’est à Bologne, avant 1321, que Cecco avait inauguré son enseignement. Depuis le début du XIIIe siècle, cette ville était, avec Padoue, un centre de toute première importance pour les savoirs astronomique et astrologique, disciplines difficilement dissociables en dépit des efforts de Thomas d’Aquin pour distinguer l’astrologie licite – qui ne niait pas le libre arbitre – et l’astrologie illicite et diabolique ou nigromantia16. À Bologne, s’était illustré un célèbre astrologue, Guido Bonatti (mort en 1297), entré au service du tyran Ezzelino da Romano17. À Padoue, Pietro d’Abano (1250-1316) avait une grande notoriété dans la science des astres (il avait notamment diffusé des textes de Ptolémée, traduits de l’arabe en latin à Tolède au XIIe siècle), et c’est du reste probablement sur ses conseils que Giotto avait peint dans le Palazzo della Ragione un cycle, aujourd’hui perdu, représentant « les douze signes célestes et les sept planètes avec leurs propriétés »18. Condamné au bûcher, Pietro d’Abano mourut en prison après avoir été torturé. Taddeo de Parme, autre savant
Accursio cit.) où certains passages ont été effectivement censurés. Voir aussi, sur versions de la sentence: M. GIANSANTE, La condanna di Cecco d’Ascoli: fra astrologia e pauperismo, in Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica cit., pp. 183-200; G. FEDERICI VESCOVINI, Le Moyen Âge magique. La magie entre religion et science du XIIIe au XIVe siècle, Paris 2011, pp. 300-301. 15 Cino formule la question à Cecco en ces termes: «e se m’è buon di gire a quella petra / ov’è fondato ’l grand tempio di Giove, /o star lungo ’l bel fiore, o gire altrove; / o cessar de la tempesta tetra / che sovra ’l genital mio terren piove» (G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1976). Pour les échanges entre Cecco et Cino: F. FILIPPINI, Cecco d’Ascoli a Bologna (con nuovi documenti), «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», 10 (1929), pp. 3-35: 29 et GIANSANTE, La condanna di Cecco d’Ascoli cit. 16 BOUDET, Entre science et nigromance cit., pp. 228-234; FEDERICI VESCOVINI, Le Moyen Âge magique cit., pp. 112-113. 17 GIANSANTE, La condanna di Cecco d’Ascoli cit., p. 183. 18 Dans sa Visio Egidii regis Patavie (entre 1314 et 1318), le chroniqueur de Padoue Giovanni da Nono mentionne les peintures astrologiques du Palazzo della Ragione qu’il attribue à Giotto (G. FABRIS, La cronaca di Giovanni da Nono, in FABRIS, Cronache e cronisti padovani, Padova 1977, pp. 35-168: 155). Cfr. J. THOMANN, Pietro d’Abano on Giotto, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 54 (1991), pp. 238-244; G. MARIANI CANOVA, “Duodecim celestia signa et septem planete cum suis proprietatibus”: l’immagine astrologica nella cultura figurativa e nell’illustrazione libraria a Padova tra Trecento et Quattrocento, in Il Palazzo della Ragione di Padova. Indagini preliminari per il restauro. Studi e ricerche, cur. A.M. SPIAZZI, Treviso 1998, pp. 23-61; D. GUNZBURG, Giotto’s Sky: The fresco paintings of the first floor Salone of the Palazzo della Ragione, Padua, Italy, «Journal for the Study of Religion, Nature and Culture», 4 (2013), pp. 407-433.
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célèbre qui dispensait des cours à Bologne en 1318, dressa une intéressante liste de livres prohibés traitant des arts magiques19. Il est possible que Cecco fût à Sienne en 1321, au moment du transfert dans cette ville de l’université de Bologne20. Ses leçons rencontrèrent un très grand succès, mais son aura ne lui fut guère bénéfique: il s’attira non seulement la jalousie de son collègue florentin Dino del Garbo21, que Cecco avait ridiculisé auprès des étudiants bolognais en raison de ses ‘plagiats’22, mais aussi les foudres de l’inquisiteur dominicain Lamberto da Cingoli qui finit par le condamner comme « hérétique ». En septembre 1324, Cecco dut abjurer, fut interdit d’enseignement, contraint de consigner ses livres à l’inquisiteur et d’assister chaque dimanche à la prédication des frères mendiants23. L’Inquisition condamna ses commentaires sur le De principiis astrologie de l’astrologue arabe Adel Aziz Al-Cabiti (Alcabitius) et sur la Sphera mundi de John Holywood (Iohannes de Sacrobosco), ainsi qu’un traité De eccentricis et epicyclis24. Dans le commentaire à la Sphera – l’œuvre la plus sévèrement condamnée –, Cecco expliquait comment les conditions de la vie et de la mort du fils de Dieu avaient été déterminées par son horoscope25. Commencée probablement à Bologne et poursuivie pendant le
19 Taddeo de Parme enseigna à Bologne entre 1318 et 1321, puis à Sienne. On connaît davantage son œuvre de métaphysique que les textes utilisés pour son enseignement en astronomie (astrologie), parmi lesquels la Théorie des planètes de Gérard de Crémone (FEDERICI VESCOVINI, Le Moyen Âge magique cit., p. 312). Un Taddeo de’ Ramponi (il s’agit selon toute probabilité de Taddeo de Parme) est mentionné dans les listes des enseignants à l’Université de Sienne entre 1321 et 1325 (L. BANCHI, Alcuni documenti che concernono la venuta a Siena nell’anno 1321 dei lettori e degli scolari dello Studio bolognese, «Giornale storico degli archivi toscani», 5 [1861], pp. 309-331: 326; Chartularium studii Senensis, edd. G. CECCHINI - G. PRUNAI, 1, 1240-1357, Siena 1942, pp. 269-270; P. NARDI, L’insegnamento superiore a Siena nei secoli XI-XIV: tentativi e realizzazioni dalle origini alla fondazione dello Studio generale, Milano 1996, pp. 123, 128, 176-185, 235). 20 Ibid., pp. 145, 180-181. 21 Dino del Garbo fut aussi professeur au Studium siennois en 1321 (L. BANCHI, Alcuni documenti che concernono la venuta a Siena nell’anno 1321 cit., pp. 322, 327, 329). 22 J. CHANDELIER, Le commentaire au «Tegni» de Dino del Garbo (m. 1327): plagiat ou oeuvre originale? in L’Ars medica (Tegni) de Galien: lectures antiques et médiévales, cur. N. PALMIERI, Saint-Étienne 2008, pp. 169-188. 23 FEDERICI VESCOVINI, Le Moyen Âge magique cit., p. 301. 24 Sur les œuvres de Cecco et sur ses théories astrologiques qui auraient causé sa chute: N. WEILL-PAROT, I demoni della Sfera: la «nigromanzia» cosmologico-astrologica di Cecco d’Ascoli, in Cecco d’Ascoli, cultura, scienza e politica cit., pp. 105-129 et FEDERICI VESCOVINI, Le Moyen Âge magique cit., pp. 279-307. 25 Ibid., pp. 283-291.
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séjour florentin, l’Acerba ne contient en revanche aucun propos qui fut jugé comme «hérétique»: ce poème didactique en langue vernaculaire traite du firmament, avec une description des cieux et des créatures célestes supérieures, des mouvements des planètes et de leur influence sur la vie des hommes, des vices et des vertus, traditionnellement reliés aux astres et aux arts libéraux et, pour finir, des propriétés que les animaux et les pierres précieuses reçoivent des astres. À la suite du procès de Bologne, probablement à la recherche du soutien de puissants protecteurs, Cecco s’évertua à flatter Charles de Calabre, ainsi que son père le roi de Naples et le pape26. Dans l’Acerba, il affirme que, pour devenir roi, il faut être de sang royal et bénéficier à sa naissance de la faveur des planètes, comme c’est le cas pour le fils «né de l’excellent roi Robert»27. L’Acerba recèle d’autres passages pro-français et pro-angevins: Cecco s’y adresse par exemple aux Pisans pour leur enjoindre de pleurer en se rappelant la victoire obtenue à Montecatini – où, le 29 août 1315, les troupes françaises venues en aide à Florence et aux autres villes guelfes avaient affronté Uguccione della Faggiuola – et le «sang français» versé pendant cette mémorable bataille qui frappa les esprits et inspira un nombre important d’écrivains28. Le condottiere gibelin à la tête des troupes pisanes et lucquoises avait remporté la victoire en laissant sur le champ de bataille les cadavres des Toscans, mais aussi ceux des Français, dont un neveu et un frère de Robert d’Anjou. C’est probablement dans la même stratégie courtisane qu’il faut replacer les invectives de Cecco d’Ascoli contre Dante, comparables à celles d’autres auteurs de mouvance angevine, visant à attirer la sympathie du roi de Naples. L’Acerba de Cecco d’Ascoli a été définie comme une antiCommedia, de la même manière que l’on a qualifié d’anti-Monarchia le Teleutelogio, œuvre d’Ubaldo da Gubbio, un personnage qui fut aussi au
26 D’après Marco Santagata, Cecco fait aussi allusion à la famille Colonna dans le but d’obtenir un soutien (M. SANTAGATA, Per moderne carte: la biblioteca volgare di Petrarca, Bologna 1990, pp. 224-226). 27 «Mostra il cielo che debba conseguire / ciascun di dignitate la corona. / Ciò sarà ben, secondo il mio sentire, / se è nato dell’eccelso Re Roberto, ché in gentilezza molto l’un sperona / a conseguir, lo ciel che l’ha coverto» (CECCO D’ASCOLI, L’Acerba, ed. M. ALBERTAZZI, Trento 2005, l. II, cap. VI, vv. 33-34). 28 «Or piangi, Pisa, con sospiri dolenti / Quando il trionfo di Montecatino / e del francesco sangue ti rammenti: / Il tuo valor convien che pur si spegna / E caggia nel giudizio divino, / Lassando il freno della tua Sardegna» (CECCO D’ASCOLI, L’Acerba cit., l. II, cap. XV, vv. 13-15).
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service du prince angevin. Ces attitudes anti-dantesques n’ont rien d’étonnant quand on sait que Bologne, la ville où résidaient Cecco d’Ascoli et Ubaldo da Gubbio, était sous le contrôle du neveu et légat de Jean XXII, Bertrand du Pouget, qui jeta aux flammes la Monarchie. Outre leurs études menées à Bologne29 et les argumentations polémiques contre Dante30, d’autres éléments rapprochent Francesco Stabili et Ubaldo da Gubbio: un séjour à Florence dans l’entourage du duc et la composition de traités en vers comportant un éloge du fils de Robert d’Anjou31. Les critiques à l’encontre de Dante permettent en outre d’établir un lien entre l’astrologue et le juriste Francesco da Barberino dont l’œuvre a peut-être constitué une source d’inspiration pour Cecco32. Il y a tout d’abord des correspondances entre la structure des Documenti d’Amore et celle de l’Acerba (dans les deux cas, il s’agit de poèmes en langue vernaculaire, accompagnés de commentaires rédigés en latin) et des analogies en ce qui concerne la définition des vices et des vertus, jusqu’à la présence des mêmes syntagmes33. Les deux auteurs critiquent en outre le concept dantesque de Fortune. Dans une lettre adressée en 1312 à Giovanni Soranzo, afin de le féliciter pour son dogat, Francesco da Barberino explique que la puissance divine a placé en dessous d’elle la «Créature», un agent (le pape ?) recevant délégation de Dieu sur terre, et s’oppose à «certains [qui] prétendent que, dans les choses humaines, il y a la Fortune, laquelle échap-
29 Ubaldo suivit les enseigments de Giovanni d’Andrea, un juriste proche de Bertrand du Poujet: UBALDO DA GUBBIO, Teleutelogia, ed. M. DONNINI, Spoleto 1991, p. 85. 30 Outre les attaques contre les théories sur les deux luminaires et contre l’indépendance du pouvoir temporel par rapport au pouvoir spirituel (E. BERTIN, Primi appunti su Ubaldo di Bastiano da Gubbio, lettore e censore della Monarchia, «L’Alighieri», 30 (2007), pp. 103-119: 110-119), Ubaldo affirme que Dante pécha par luxure (Ubaldo da Gubbio, Teleutelogio cit., p. 73). Sur Ubaldo da Gubbio, cfr. DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement» cit. 31 Il n’est pas exclu que l’auteur ait rédigé les vers qui glorifient le prince (insérés à la fin de son œuvre) après la mort de celui-ci (UBALDO DA GUBBIO, Teleutelogio cit., pp. 2, 99100). 32 G. MARIANI CANOVA, Testo e immagine: l’Acerba di Cecco d’Ascoli, in Cecco d’Ascoli. Cultura, scienza e politica cit., p. 71-85: 76. 33 Plusieurs analogies peuvent être relevées dans les vers sur la Justice, comme par exemple dans l’usage du syntagme la spada nuda: «Con man sinistra la statera aguaglia / che non è iusto chi tra due disguaglia / l’altra man posa su la nuda spada / che con rigor convien spesso che vada» (FRANCESCO DA BARBERINO, I Documenti d’Amore, ed. F. EGIDI, Roma 1905-1927, III, p. 287); «O guida santa di queste tre donne / le tue bilance con la spada nuda / sono del mondo perfette colonne / o desolata terra, o posta a guai, / che tua bellezza mirando rifiuta/ sua trista piaga non sanerà mai» (CECCO D’ASCOLI, L’Acerba cit., l. II, cap. V, v. 1-6).
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perait absolument au pouvoir de la Créature»34. Or Cecco d’Ascoli adresse à Dante une critique similaire: en ouverture de l’Acerba, il explique que l’auteur de la Commedia a péché en accordant un certain rôle à la Fortune35. Il est possible qu’en mettant ainsi à l’écart la Fortune, l’astrologue ait voulu nuancer sa propre doctrine sur la subordination de la volonté humaine au pouvoir des astres36. Francesco da Barberino reconnaît le caractère licite de l’astrologie, mais déclare qu’il ne faut ni enseigner, ni apprendre la nigromantia37. Dans le chapitre de ses Documenti consacré à la Prudence, il précise que l’astrologie ne doit pas être prêchée aux illettrés, ce qui était l’opinion de Cecco d’Ascoli dénonçant de son côté les astrologues improvisés38. Il est plausible que le juriste ait conseillé l’astrologue pour l’élaboration de l’Acerba, une œuvre dénuée de propos subversifs qui permit à Cecco de montrer patte blanche à l’Inquisition et de se faire apprécier par le duc de
34 A. THOMAS, Lettres latines inédites de Francesco da Barberino, «Romania», 16 (1887), pp. 73-91: 77-79. Concernant la discussion sur la composition de la Commedia, cette référence possible à l’Enfer dans la lettre de Francesco da Barberino pourrait étayer l’hypothèse selon laquelle l’Enfer était déjà publié en 1312 (ce qui constitue tout de même une datation très haute), ou plus simplement que Francesco da Barberino a pu connaître le chant VII de l’Enfer (v. 77-81 sur la Fortune) directement de Dante (M. SANTAGATA, Dante: il romanzo della sua vita, Milano 2012, p. 401). La première citation de la Commedia se trouve dans une glose des Documenti datable du printemps 1313. Cfr. aussi E. FENZI, Ancora a proposito dell’argomento barberiniano (una possibile eco del Purgatorio nei Documenti d’Amore di Francesco de Barberino), «Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología», 6 (2005), pp. 97-120. 35 «In ciò peccasti, fiorentin poeta, / ponendo che li ben della fortuna / necessitati sieno con loro meta. / Non è fortuna cui ragion non vinca. / Or pensa, Dante, se prova nessuna / si può fare che questa convinca. / Fortuna non è altro che disposto / del cielo che dispon cosa animata / qual, disponendo, si trova all’opposto. / Non vien necessitato il ben felice. / Essendo in libertà l’alma creata, / Fortuna in lei non può, se contraddice» (CECCO D’ASCOLI, L’Acerba cit., l. II, chap. I, vv. 19-20). Cfr. THOMAS, Lettres latines inédites de Francesco da Barberino cit., p. 79. 36 GIANSANTE, Col favore di Saturno. Dante e Cecco: astrologie a confronto, in «Il mondo errante» cit., pp. 57-79. 37 FRANCESCO DA BARBERINO, I Documenti d’Amore cit., pp. 211, 223. 38 «E costor den pensare / di non mai predicare / a pompe o vanagloria, / se voglion di ciò gloria. / Non già d'astrologia / predicar alcun dia / dov'è grossi auditori / che per lor son migliori/ Le cose piane e grosse/ per cui sol Dio le mosse. / Così per simiglianza / togli d'ogni sottiglianza» (FRANCESCO DA BARBERINO, I Documenti d’Amore cit., p. 205). Cecco s’en prend notamment à certains autodidactes et à leurs erreurs concernant le zénith (G. BOFFITO, Il commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 117). Sur la nigromancie et la nécromancie: BOUDET, Entre science et nigromance cit., pp. 92-94, 351-393.
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Calabre39. C’est deux ans seulement après sa première condamnation que Cecco entra au service de Charles, qui ne pouvait ignorer les griefs des inquisiteurs de Bologne à l’encontre des théories du Marchésan sur le monde contingent subordonné aux mouvements des planètes et surtout sur la nigromancie, enseignée par Cecco et diffusée dans son commentaire sur la Sphera mundi. Le prince fut sans doute séduit par le savoir et les pratiques divinatoires de l’un des astrologues alors le plus en vogue. La place de familier du duc était certainement convoitée: Dino del Garbo dut y avoir songé, comme pourrait en témoigner la dédicace à Robert d’Anjou de l’une de ses œuvres40. Les Florentins s’étonnèrent probablement que Charles préféra Cecco d’Ascoli à Dino del Garbo, médecin de Florence et savant réputé qui avait en outre la confiance des magistrats de la Commune41. Indépendamment des motivations d’un tel choix et des relations personnelles qui ont pu pousser le prince à prendre cette décision (le nom de Cecco d’Ascoli aurait-il été soufflé à Charles par Francesco da Barberino?), l’astrologue était tenu sans doute à l’œil, dans les années 1325-1326, par le pape et les autres autorités ecclésiastiques. Sous le pontificat de Jean XXII, qui se méfiait des inquisiteurs car ils «avaient tendance à poursuivre sans tenir compte des rangs sociaux ni des circonstances politiques»42, nombreuses furent les inculpations frappant les astrologues43. Le cas le plus illustre est celui qui voit Dante accusé d’en-
39 Un seul passage pourrait être interprété comme une critique voilée contre Charles de Calabre et Jean XXII. Dans le chapitre sur la luxure, Cecco condamne en effet l’inceste et l’adultère: «Con simil sangue si commette incesto, / Ma chi di matrimonio tien figura / commette l’adulterio manifesto» (CECCO D’ASCOLI, L’Acerba cit., l. II, cap. XV, vv. 82-84). Or, Charles avait demandé et obtenu une dérogation papale pour ses noces avec sa cousine Marie de Valois. 40 Dino del Garbo est l’auteur de l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae terminée avant 1325 et dédiée à Robert d’Anjou. Villani s’exprime avec des mots élogieux sur Dino de Garbo (GIOVANNI VILLANI, Nuova cronica cit., lib. XI, chap. XLII). Sur ce personnage: S. KELLY, The new Solomon: Robert of Naples (1309-1343) and fourteenth-century kingship, Leyde 2003, pp. 169-188; J. CHANDELIER, Le commentaire au « Tegni » de Dino del Garbo cit., pp. 169-188. 41 Le 12 avril 1326, le médecin Dino del Garbo atteste sur l’honneur que le podestat, indisposé, ne peut se rendre au Conseil (L. DE ANGELIS, I Consigli della Repubblica fiorentina: “Libri fabarum” XIII e XIV: 1326-1331, Firenze 2000, p. 444). 42 A. BOUREAU, Satan hérétique: Histoire de la démonologie (1280-1330), Paris 2004, p. 56. 43 J.-P. BOUDET - J. THÉRY, Le procès de Jean XXII contre l’archevêque d’Aix Robert de Mauvoisin (1317-1318): astrologie, arts prohibés et politique, in Jean XXII et le Midi, Toulouse 2012 (Cahiers de Fanjeaux, 45), pp. 159-235.
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voûtement dans la procédure d’enquête criminelle visant Matteo Visconti, soupçonné d’avoir voulu éliminer le pape44. Jean XXII intervint de manière retentissante dans ce domaine controversé de l’astrologie occulte et des pratiques divinatoires. À l’issue d’une interrogation doctrinale formulée par le pape à l’automne 1320, afin de déterminer dans quelle mesure la pratique magique était condamnable, une nouveauté théologique – par rapport aux positions thomistes – fut énoncée: la magie rituelle fut assimilée non à une simple hérésie, mais à un « fait hérétique » (factum hereticale) dans la mesure où la magie aurait agi de manière factuelle, dans la réalité45. En dépit de ce contexte doctrinal, les astrologues continuèrent à jouer un rôle important auprès des gouvernants. C’est que les prédictions politiques et les images astrales représentaient des dispositifs presque inhérents à la pratique du gouvernement46. Si les papes condamnaient l’usage que faisaient leurs ennemis des interrogations astrologiques, des talismans et de la magie en général – un Frédéric II écoutant les prédictions de Michel Scot, un Ezzelino da Romano conseillé par Guido Bonatti47 –, l’astrologue était bel et bien une figure indispensable au sein de toute cour influente, même celle d’un prince guelfe allié du pontife. Une fois installé à la cour ducale, Cecco aurait été dénoncé par Dino del Garbo puis emprisonné. Deux mois plus tard, à la suite d’un consilium d’experts ecclésiastiques et laïcs, l’astrologue fut donc condamné comme «hérétique et relaps» par le frère Mineur Accursio Bonfantini48. L’approbation du pape et de Robert d’Anjou au travail de l’office inquisitorial n’est généralement pas mise en doute, en raison de la présence du cardinal légat Giovanni Gaetano Orsini, de Boso degli Ubertini (choisi comme évêque d’Arezzo par Jean XXII après l’excommunication de l’évêque Guido Tarlati49) et du vicaire du duc lors de la proclamation de
44 R. MICHEL, Le procès de Matteo et de Galeazzo Visconti [L’accusation de sorcellerie et d’hérésie. Dante et l’affaire de l’envoûtement (1320)], «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 29/1 (1909), pp. 269-327: 277, 281. 45 BOUREAU, Satan hérétique cit., pp. 41ss; BOUDET, Entre science et nigromance cit., pp. 452-454. 46 Ibid., pp. 168ss. 47 M. PASTORE STOCCHI, Ezzelino e l’astrologia, in Nuovi studi ezzeliniani, cur. G. CRACCO, Roma 1992, pp. 509-522. 48 BECCARIA, Le redazioni in volgare cit. 49 P.L. LICCIARDELLO, Un vescovo contro il papato. Il conflitto fra Guido Tarlati e Giovanni XXII, Arezzo 2015; cfr. aussi DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement» cit.
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la sentence50. Mais si l’adhésion de Jean XXII à l’action menée par Accursio paraît indubitable, les bribes d’information dont nous disposons laissent en revanche dans l’ombre l’opinion de Charles sur les accusations portées contre Cecco; elles ne nous permettent pas non plus d’évaluer son autorité sur l’inquisiteur franciscain, ni de savoir dans quelles conditions il aurait donné son aval au travail de l’officium et à l’exécution, le 16 septembre, par les bourreaux du vicaire Iacobino da Palazzolo51. Il est d’autant plus difficile d’apprécier le rôle de Charles dans la condamnation qu’aucune provision n’a été conservée pour septembre 1327, hormis pour le premier jour de ce mois52, ce qui conduit à penser que la documentation sur cette affaire ait pu faire l’objet d’une censure53. Du point de vue de Jean XXII, qui envisageait l’astrologie démoniaque comme un «fait hérétique» et essayait par ailleurs de rendre son lustre à une papauté en crise, cette condamnation pouvait manifester la toute-puissance pontificale face aux ennemis de l’Église54. Le scénario n’était toutefois que presque parfait, car Cecco était au service d’un prince angevin allié du pontife, ce qui rendait particulièrement délicate l’affaire dans laquelle Accursio Bonfantini fut amené à intervenir. Le pape avait envoyé à Florence son légat, le cardinal Giovanni Gaetano Orsini, car il se méfiait de la politique des deux Angevins qui tergiversaient par rapport aux engagements pris contre les ennemis de l’Église et dont il n’appréciait certainement pas la sympathie pour la branche radicale de l’ordre des Mineurs55.
50 Giovanni Gaetano Orsini avait été créé légat par le pape pour coordonner l’action angevine en Toscane et suivre la politique de Charles de Calabre (G. TABACCO, La casa di Francia nell’azione politica di Papa Giovanni XXII, Roma 1953, pp. 286-287). 51 Le vicaire ducal, le miles Iacobinus de Palazuolo de Brixia (qui avait prêté serment le 1er juillet 1327: DE ANGELIS, I Consigli cit. p. 107), fit conduire Cecco au bûcher (BECCARIA, Le redazioni in volgare cit. pp. 29-30). Il fut nommé podestat de Sienne, mais comme il tardait à arriver, le duc accorda aux Siennois la possibilité de faire appel à un vice-podestat «ut cultum iustitie in dicta civitate nullatenus negligatur» (R. BEVERE, La signoria di Firenze, tenuta da Carlo figlio di re Roberto negli anni 1326 e 1327 [documenti angioini dell’Archivio di Napoli], «Archivio Storico per le Province Napoletane», 36 [1911], p. 260). 52 Aucun acte n’est enregistré entre le 2 septembre et le 6 octobre (Firenze, Archivio di Stato, Provvisioni 24, ff. 3v-4v), cfr. aussi DE ANGELIS, I Consigli cit., pp. 111-113. 53 C’est ce que suggère la lecture de la version en langue vulgaire de la sentence (BECCARIA, Le redazioni in volgare cit., pp. 29-30). 54 Sur ce rôle joué par Jean XXII: S. PARENT, Dans les abysses de l’infidélité: les procès contre les ennemis de l’Église en Italie au temps de Jean XXII (1316-1334), Roma 2014. 55 G. TABACCO, La casa di Francia cit., pp. 286-287.
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Le second procès contre Cecco d’Ascoli suivit un schéma déjà expérimenté depuis quelques années et défini dans la bulle Super illius specula (1326-1327), par laquelle Jean XXII déclarait qu’il convenait de prendre au sérieux les pronostics, l’astrologie judiciaire, la magie occulte et les talismans. Le procès fut donc instruit par l’inquisiteur franciscain Accursio Bonfantini et ses collaborateurs, ainsi que par des experts appelés comme témoins, pour la plupart juristes in utroque. Le consilium qu’ils délivrèrent n’a malheureusement pas été conservé. Nous savons seulement qu’il émanait d’ecclésiastiques et de laïcs, au terme d’une confrontation peut-être volontairement sollicitée afin d’obtenir et de rendre public un avis unanime56. Une variante dans la version en langue vernaculaire de la sentence concerne précisément l’unanimité de la condamnation, ce qui laisse présager qu’il n’y eut peut-être pas consensus entre les juristes proches de l’inquisiteur franciscain et ceux appartenant à l’entourage angevin57. Il est également possible que les autorités séculières, Charles de Calabre et son père le roi de Naples, se soient efforcés d’imposer la présence de juristes laïcs sur lesquels compter, dans l’espoir d’éviter une issue du procès qui aurait impliqué la personne du duc. En dépit d’une relative autonomie de l’officium inquisitorial, les autorités spirituelles et séculières guelfes se sont probablement confrontées dans une telle affaire58. Pour l’inquisiteur Accursio Bonfantini, l’enjeu du procès tenait non seulement à la pression exercée par le pape et son légat Giovanni Gaetano Orsini, mais aussi à une situation locale complexe. Une partie des élites florentines accusait en effet le prince angevin d’inaction militaire, voire de couardise, et de vider les caisses de la Commune. Ce climat tendu se perçoit à la lecture du texte de la sentence fulminée contre Cecco qui s’ouvre certes sur le grief le plus grave, la diffusion dans les écoles de son commen-
56 Lors du procès, Cecco avait répondu «a chi glie ne dimandava e principalmente agl’huomini nobili et religiosi et persone literate» (BECCARIA, Le redazioni in volgare cit., p. 18). À propos de la sentence contre Muzio di Francesco Brancaleoni et les tensions nées au sein du consilium: M. VALLERANI, Modelli di verità: le prove nei processi inquisitori, in L’enquête au Moyen Âge. Études, cur. C. GAUVARD, Rome 2008, pp. 123-142: 140. 57 BECCARIA, Le redazioni in volgare cit., p. 10. 58 En 1321, un épisode avait fragilisé les relations entre le roi angevin et l’institution inquisitoire florentine, incitant Robert d’Anjou à arrêter le trésorier de l’officium (G. BISCARO, Inquisitori ed eretici a Firenze [1319-1334], «Studi Medievali», 2 [1929], pp. 347375: 360, cit. par PARMEGGIANI, Consiliatores dell’Inquisizione fiorentina cit. p. 71). Plus tard, le pape ouvre une enquête sur la gestion de comptes de l’inquisiteur florentin Accursio Bonfantini jugée frauduleuse (G. BISCARO, Inquisitori ed eretici a Firenze [13191334], «Studi Medievali», 3 [1930], pp. 267-287: 286).
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taire sur la Sphera Mundi59, mais insiste surtout sur les conséquences politiques du déterminisme zodiacal et des prédictions de l’astrologue. L’accent est notamment mis sur l’horoscope des villes et sur les effets néfastes, pour l’alliance guelfe, d’une interprétation basée sur le mouvement des planètes pour apporter des réponses quant à l’opportunité de mener la guerre contre Louis de Bavière ou pour connaître les capacités d’un chef militaire et l’issue d’un combat60. Certains pouvaient croire que l’astrologue conseillait à Charles de ne pas s’exposer aux dangers. Enfin, si l’inquisiteur et les Florentins pointaient Cecco du doigt, il ne manqua sans doute pas de critiques contre celui qui avait pris l’astrologue accusé d’hérésie à son service. Giovanni Villani affirme certes que Raymond de Maussac, chancelier du duc, considérait «comme abominable» la présence de Cecco à la cour angevine, mais ni le duc ni ses proches n’ont été directement impliqués dans la condamnation: dans ce cas, Accursio Bonfantini les aurait sans doute mentionnés dans la sentence. Un acte ignoré par la critique, rédigé à Florence et consigné dans les registres angevins, livre une information intéressante concernant les Angevins. Kalonymos ben Kalonymos, traducteur de textes arabes en hébreu et de ces deux langues en latin61, que Robert d’Anjou avait rencontré en Provence, reçut, le 18 juin 1328, une rémunération sur ordre du duc62. Nous ne connaissons pas la nature du service de Kalonymos à Florence, mais nous savons que, s’il ne prenait pas au sérieux l’astrologie, il la connaissait pourtant fort bien63. Il adhérait au courant philosophique qui niait l’existence de la magie astrale, interdite par la loi juive64. La position de Kalonymos, probablement connue en dehors de la communauté
59 Pour E. Coccia et S. Piron, ce qui contribua à sceller le destin de Cecco fut sa capacité à «fonder théologiquement sa démonologie astrologique» (E. COCCIA - S. PIRON, Cecco d’Ascoli à la croisée des savoirs, «Bollettino di Italianistica», 1 [2011], pp. 23-34: 33). 60 BECCARIA, Le redazioni in volgare cit., pp. 15-17. 61 Sur Kalonimos: J. SHATZMILLER, Les Angevins et les juifs de leurs Etats: Anjou, Naples et Provence, in L’État Angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle, Roma 1998, pp. 289-300: 294, 299. 62 L’acte atteste que Gallo, juif, reçoit un salaire d’une once et 15 tari (BARONE, La Ratio thesaurariorum cit., p. 420). 63 Vers 1317, Kalonimos traduit un traité de Ptolémée sur les Planètes. D’après Immauel Romano, il connaissait «Ptolémée par cœur, ainsi que les Livres des Chaldéens» (E. RENAN, Les écrivains juifs français du XIVe siècle, in Histoire littéraire de la France, Paris 1885, pp. 417-460: 419). Cfr. J. SHATZMILLER, Justice et injustice au début du XIVe siècle: l’enquête sur l’archevêque d’Aix et sa renonciation en 1318, Roma 1999, p. 128. 64 Le traité Even Bohan, considéré comme un chef-d’œuvre satirique juif (T. DUNKELGRÜN, Dating the Even Bohan of Qalonymos ben Qalonymos of Arles. A
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catalano-provençale d’intellectuels juifs, est bien éloignée de celle de Jean XXII. Si Maestro Calò ne faisait pas partie des sapientes consultés au moment de la procédure judiciaire, il a pu peut-être préparer la défense contre d’éventuelles accusations que l’Inquisition aurait pu adresser au duc ou bien tenter de dédramatiser la situation en expliquant que l’astrologie n’était pas un «fait hérétique». Nous savons, en effet, que pour se défendre d’accusations de magie, l’archevêque d’Aix-en-Provence Robert de Mauvoisin communiqua le texte d’une consultation d’un astrologue juif65. Quoi qu’il en soit d’une éventuelle visite de Kalonimos à Florence dans le cadre de l’affaire Cecco, nous constatons que, parmi les experts nommés pour les consilia qui ont eu lieu de l’automne 1327 jusqu’à décembre de l’année suivante, il y avait des fidèles du duc66. Outre Francesco da Barberino sont mentionnées des personnes appartenant à la mouvance angevine, comme Gherardo di Castelfiorentino, un correspondant de Geri d’Arezzo67, ou Alessio Rinucci, un puissant Florentin qui reçut un salaire annuel de 20 onces sur les biens féodaux du prince, le jour même où Charles quitta Florence pour le royaume68. Ces juges ont pu être chargés
Microhistory of Scholarship, «European Journal of Jewish Studies», 7/1 [2013], pp. 39-72), est un document important pour l’histoire des communautés juives en Aragon, en Provence et en Italie. Kalonimos y critique les astrologues (Kalonimos ben Kalonimos, Even Bohan, pp. 48-51, cit. et trad. in SHATZMILLER, Justice et injustice cit., p. 141). Sur Kalonimos et ses relations avec le roi: J. SHATZMILLER, Au service de la Cour de Naples: Kalonymos d’Arles et Judah Romano, in L’écriture de l’histoire juive: mélanges en l’honneur de Gérard Nahon, cur. D. IANCU - C. IANCU, Paris-Louvain 2012, pp. 163-171. Sur la magie astrale dans la pensée juive rationaliste en Provence: SHATZMILLER, Justice et injustice cit., p. 135 et D. SCHWARTZ, La magie astrale dans la pensée juive rationaliste en Provence au XIVe siècle, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 61 (1994), pp. 31-55: 33. Un témoin de l’œuvre est le manuscrit bolonais conservé à Paris, BNF, Hebr.1283, daté de 1423, ff. 2-102r. 65 BOUDET - THÉRY, Le procès de Jean XXII cit. 66 ASV, Collectoriae 250, f. 125r, cit. in R. PARMEGGIANI, I Consilia procedurali per l’inquisizione medievale, 1235-1330, Bologna 2011, p. 62. 67 Geri d’Arezzo, Lettere e dialogo d’amore, ed. C. CENNI, Ospedaletto (Pisa) 2009, pp. 120-122. Gherardo di Castelfiorentino est nommé comme sindicus pour la résolution d’un litige entre la Commune de Florence et le puissant siennois Benuccio Salimbeni au sujet de la propriété des châteaux de Vernio et de Mangona. Il dut probablement aider Charles de Calabre dans ses tentatives d’apaiser le conflit et de le résoudre en faveur de Benuccio. Cfr. DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement» cit. 68 BEVERE, La signoria di Firenze, tenuta da Carlo cit., p. 273, cit. dans PARMEGGIANI, Consiliatores dell’Inquisizione fiorentina cit., p. 70.
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de défendre non seulement l’astrologue, mais aussi le duc, dont l’autorité n’était pas très assurée, loin s’en faut: aux dires de Marin Sanudo, correspondant de Robert d’Anjou, sa vie aurait même été en danger69.
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Encouragé par Jean XXII et par son légat Giovanni Gaetano Orsini, influencé sans doute par certains dirigeants de la ville hostiles au duc de Calabre70, Accursio Bonfantini, frère Mineur à la tête du tribunal de l’inquisition, n’a pas hésité, employant comme griefs principaux d’accusation les théories zodiacales de l’astrologue qui déterminaient la pauvreté du Christ d’une part et justifiaient de l’autre l’inaction du duc dans la guerre qu’il aurait dû mener contre Louis de Bavière, à faire périr Cecco d’Ascoli sur le bûcher. L’action du chancelier du duc, le frère Mineur Raymond de Maussac, est nettement moins claire que celle d’Accursio. Comme on l’a montré, les liens de ce frère Mineur avec la dissidence franciscaine sont avérés71, et il fut certainement beaucoup plus proche du prince Charles et de son père Robert d’Anjou qu’il ne le fût de Jean XXII ou de son légat. Si Giovanni Villani soutint que le chancelier du duc de Calabre fit emprisonner l’astrologue, le texte de la sentence ne l’évoque pas. Outre la mention faite par le chroniqueur de Florence, seul un document atteste la visite, la veille de la mise à mort de Cecco, du frère Mineur ami des dissidents auprès de celui qui en revanche les accusait: on est donc en droit de penser, contrairement à l’avis de Davidsohn, que la position du chancelier du duc dans cette affaire ne fut pas tranchée, voire qu’il a peut-être tenté d’empêcher le bûcher. Si elle ne nous éclaire pas davantage sur l’enquête contre Cecco, une donnée passée inaperçue vient confirmer la place occupée par l’astrologie et par ceux qui la pratiquaient dans la vie de la cour angevine. Taddeo de Parme – l’astrologue que Cecco avait rencontré à Bologne et qui était parti pour enseigner à Sienne en 1321 – reçut un salaire pour sa charge de fisicus (in medicinali scientia) à la cour napolitaine à partir du 20 janvier 132872.
69 MARIN SANUDO, Liber secretorum fidelium crucis super Terrae Sanctae recuperatione et conservatione, ed. J. DE BONGARS, Hannoverae 1611, p. 307. 70 DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement» cit. 71 DEL FUOCO, Il processo a Cecco d’Ascoli cit., en part. pp. 227-230. 72 Taddeo de Parme reçoit un salaire de 24 onces l’an à partir du 20 janvier (BARONE, La Ratio thesaurariorum cit., p. 421). Nous ne savons pas si Taddeo s’est effectivement rendu à Naples où se trouvait Andalò del Negro (F. SABATINI, Napoli angioina: cultura e società, Napoli 1975, p. 76). Sur Taddeo de Parme enseignant à Sienne: NARDI, L’insegnamento superiore a Siena cit., pp. 176-178.
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La décision d’engager ce médecin, philosophe, mathématicien et astronome-astrologue de grande renommée, qui avait été le collègue de Dino del Garbo à Sienne73, fut apparemment prise peu après la mort de Cecco et celle de Dino (survenue deux semaines après). Le 16 septembre 1327, les œuvres de l’astrologue de Charles de Calabre brûlèrent avec leur auteur. Comme s’il eût été écrit sur un morceau de parchemin que le feu n’a pas réussi à transformer en cendres, l’horoscope des villes de Florence et de Sienne dressé par Cecco est reporté dans une chronique siennoise, rédigée dans la seconde moitié du XIVe siècle, qui consacre une place importante à la dynastie angevine74. Taureau et Vénus, les astres qui dominent Sienne, sont également visibles dans un médaillon de la frise supérieure des fresques du Bon Gouvernement sur le mur nord de la salle de la paix du palais communal de la ville des Neuf où se donne à voir une Sienne idéalisée. L’idée que la beauté des Siennoises eût été déterminée par l’influence de Vénus au moment exact de la pose de la première pierre de la ville était trop belle pour qu’elle restât cachée dans un registre de l’office de l’Inquisition de Florence, funeste témoignage de la place de l’astrologie dans les relations entre deux frères Mineurs et les pouvoirs en place75.
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Ibid., pp. 169-170, 175-176. Il s’agit de la chronique de Bindino da Travale (La cronaca di Bindino da Travale [1315-1416], ed. V. LUSINI, Firenze 1903). Le passage est cité par M. SEIDEL, Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento: Pittura, Venezia 2003, p. 302; cfr. DESSÌ, Les spectres du «Bon Gouvernement» cit. 75 Dans le commentaire au De principiis astrologiae d’Alcabitius, Cecco affirme que Cino da Pistoia avait appelé la ville de Sienne civitas ydearum à cause de la beauté de ses femmes grâce à l’influence de Vénus sur la ville (BOFFITO, Il commento inedito di Cecco d’Ascoli cit., p. 123). P. Nardi, après avoir constaté que l’expression ne se trouve pas dans l’œuvre de Cino, s’interroge sur le sens du syntagme civitas ydearum (NARDI, L’insegnamento superiore a Siena cit., pp. 158-159).
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Tradizione cittadina e legittimazione imperiale nellâ&#x20AC;&#x2122;orazione a Milano di Pietro Filargis (1395)
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Il mio saggio è dedicato all’analisi dell’orazione che Pietro Filargis, in quel momento vescovo di Novara, tiene a Milano nel settembre del 1395 in occasione della solenne cerimonia per l’investitura di Gian Galeazzo Visconti a duca della città e del distretto di Milano. Si tratta di un’orazione “ammiratissima”, citata spesso nelle descrizioni coeve dell’avvenimento, ricordata costantemente negli studi, ma rimasta poi finora pressoché non studiata e tutt’ora inedita1. Prima di procedere però vorrei fare una premessa, utile spero per capire come ho impostato il mio lavoro, cercando di tener presente il contesto più generale che mi era stato indicato, il rapporto cioè fra frati Minori e signori nell’Italia settentrionale2.
1 Il testo dell’orazione, pronunciata il 5 settembre, è conservato nel manoscritto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Ambr. B 116 sup., ff. 30r-34v ed è indicato come «Sermo fulgidi sacre theologie magistri domini Petri de Candie Novariensis antistitis in assumptione dignitatis ducalis Iohannis Galeacii prothoducis Mediolani» (d’ora in poi qui ripreso come Petri de Candie Sermo). Pressoché tutti gli studi che ho consultato sono concordi nell’identificare in questo manoscritto la versione del discorso del Filargis. Un ulteriore esemplare dell’orazione è indicata, erroneamente, da Piero Majocchi nel codice Dal Verme (Archivio Privato Dal Verme, Milano): si v. P. MAJOCCHI, Pavia città regia. Storia e memoria di una capitale altomedievale, Roma 2008, p. 238 e, per l’edizione del testo, pp. 286-288. Questo testo, indicato nel codice come «Arenga sive oratio dicenda in die, qua illustrissimus dominus noster dominus Iohannes Galeaz comes Virtutum et cetera ducalia sumet insignia», è infatti completamente diverso da quello conservato in Ambrosiana. Il rapporto eventuale fra i due testi resta, dunque, ad oggi, ancora da verificare. Da parte mia, anche per la mancanza di chiarimenti sull’identificazione dell’autore della seconda orazione e sulla sua natura, ho mantenuto senz’altro il riferimento al codice dell’Ambrosiana, così come suggerito dalla tradizione degli studi. 2 Il tema qui richiamato rientra nell’interesse più ampio per il rapporto fra francescani, società e politica così come si è venuto sviluppando negli studi più recenti. Alle indagini più tradizionali – incentrate sull’analisi della presenza politica dei Minori e sulla rete di legami da essi stabiliti con i detentori del potere politico (per cui si v. in particolare G.G. MERLO,
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Nel corso degli ultimi anni, in effetti, la storiografia sulle signorie cittadine ha conosciuto un profondo rinnovamento, sia dal punto di vista metodologico, sia come allargamento a temi, ad esperienze diverse. Il punto di riferimento più evidente è rappresentato dalle ricerche che, in forme diverse, sono maturate intorno al progetto di ricerca PRIN 2008 Le signorie cittadine in Italia (metà XIII-metà XV)3. Si tratta, com’è noto, di contributi che muovono da un esplicito rifiuto dei paradigmi più tipici della narrazione storiografica di stampo otto-novecentesco, legati all’idea di una consequenzialità fra comune e signoria e soprattutto di una netta contrapposizione fra i due regimi politici, a favore di un approccio attento a cogliere le trasformazioni del sistema politico cittadino, e, in questo ambito, i tempi, i modi, le forme di affermazione dei poteri signorili, lungo un arco cronologico di ampio, amplissimo respiro – dalla metà del XIII alla metà del XV secolo – secondo uno svolgimento che tiene conto di connessioni molteplici (il rapporto fra economia e politica, il ruolo dell’impero e del papato), anche se a volte risulta un poco incerto, graduale e sfumato com’è, fatto di continui corsi e ricorsi4.
Francescanesimo e signorie nell’Italia centro-settentrionale, ora riedito in MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi 2007, pp. 337356), si sono affiancate infatti nuove linee di ricerca che, muovendo dal richiamo al linguaggio francescano, hanno allargato l’attenzione all’analisi del contributo offerto dai frati nell’elaborazione di linguaggi politici, o politico-religiosi (si cfr. ad esempio L. GAFFURI, Chierici, predicatori e santi. Fra interpretazione del mondo e progettazione della società, in Intellettuali: preistoria, storia e destino di una categoria, cur. A. D’ORSI - F. CHIAROTTO, Torino 2010, pp. 31-60; e per un riesame complessivo della storiografia si v. B. BALDI, I francescani tra religione e politica in Italia [secoli XIII-XV]. Le tendenze recenti degli studi, «Quaderni Storici», 47 [2012], pp. 525-560). A mia volta, nel corso del mio contributo, ho tenuto presente le indicazioni offerte dagli studi, cercando in particolare di verificare il modo in cui il Filargis, anche alla luce del suo legame con l’Ordine e con Gian Galeazzo Visconti, interpreta il passaggio determinante rappresentato dall’acquisizione del titolo ducale e più in generale la ridefinizione del potere visconteo e del suo rapporto con la città di Milano. 3 Per una presentazione generale del progetto si v. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Introduzione, in Signorie cittadine nell’Italia comunale, cur. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Roma 2013, pp. 9-17; A. ZORZI, Le signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Milano 2010. Molte delle ricerche prodotte in questo ambito, compreso il volume curato da Maire Vigueur appena citato, sono pubblicate nella Collana della casa editrice Viella, Italia comunale e signorile, cui si può fare ulteriore riferimento. 4 Si cfr. in particolare P. GRILLO, Signori, signorie ed esperienze di potere personale nell’Italia nord-occidentale (1250-1396), in Signorie cittadine nell’Italia comunale cit., pp. 19-44; F. CENGARLE, A proposito di legittimazioni: spunti lombardi, ibid., pp. 479-493; e CENGARLE, Tra maiestas Imperii e maiestas Domini: il vicariato composito di Galeazzo II Visconti (1354-1378), in Signorie italiane e modelli monarchici (secoli XIII-XIV), cur. P. GRILLO, Roma 2013, pp. 261-277.
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Accanto a questo svolgimento, gli studi hanno individuato alcuni motivi di continuità e di discontinuità importanti. Da un lato, il criterio tradizionale di “crisi” del comune ha ceduto ormai il posto a categorie che rimandano piuttosto all’idea di una lunga durata della tradizione comunale (o cittadina)5. Gli autori fanno riferimento ad una varietà di esperienze, ma il dato di fondo è l’attenzione per la “profonda commistione”, per gli “stretti nessi” che si realizzano fra regime comunale e regime signorile, in una prospettiva che corrisponde ad un ripensamento critico del passaggio dal comune alla signoria e che caratterizza anche lo sviluppo successivo. La lunga durata della tradizione comunale risulta infatti evidente nella sopravvivenza dei consigli comunali, del sistema di corporazioni, del quadro normativo, o del sistema documentario di stampo comunale6. Così, ad esempio, per quel che riguarda la signoria viscontea – a lungo considerata, come è stato osservato, paradigmatica del passaggio dal comune alla signoria, al vicariato, al principato – nel 1395, l’anno cioè dell’investitura ducale, l’assemblea cittadina viene convocata, sia pure solo per acclamare il nuovo duca7. Ancora, la lunga durata della tradizione comunale e cittadina trova conferma nella rinascita degli istituti comunali al momento della caduta del signore8; nonché sul piano ideologico, nella ripresa dell’ideale, sia pure modificato, del “bene comune”, o del concetto di “res publica”9. 5
Si cfr. in particolare M.T. CACIORGNA, Alterazioni e continuità delle istituzioni comunali in ambito signorile, in Signorie cittadine nell’Italia comunale cit., pp. 347-382. 6 Si cfr. in particolare G. FRANCESCONI, I signori, quale potere? Tempi e forme di un’esperienza politica “costituzione” e “rivoluzionaria”, ibid., pp. 327-346; J.-C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie nelle province dello stato della Chiesa, ibid., pp. 105-172. 7 Si v. M.N. COVINI, Milano capitale dello stato regionale (1385-1447), in Storia illustrata di Milano, III, Milano 1992, pp. 781-800: 787; e si cfr. anche le osservazioni di CENGARLE, A proposito di legittimazioni: spunti lombardi cit., pp. 490-491. 8 L’osservazione sembra valere tanto più per il dominio visconteo, segnato, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402, da un processo di sfaldamento e da tentativi di ricostruzione delle autonomie cittadine in varie città prima soggette al Visconti, fino alla rinascita della Repubblica Ambrosiana del 1447 dopo la morte di Filippo Maria Visconti: si v. in questo senso P. Grillo, che indica in questi tentativi una ulteriore, importante testimonianza della «lunga vitalità di una persistente dialettica fra tradizioni comunali e nuovi regimi signorili» e della «persistente capacità dimostrata dalle città lombarde di contrattare periodicamente i termini della loro sottomissione e di dimostrare la loro insoddisfazione quando la signoria scivolava eccessivamente verso la tirannia e il dispotismo» (Signori, signorie cit., p. 44). 9 Si v. in particolare ZORZI, Le signorie cittadine cit.; e G. CHITTOLINI, “Crisi” e “lunga durata” delle istituzioni comunali in alcuni dibattiti recenti, in Penale, giustizia, potere: metodi, ricerche, storiografie. Per ricordare Mario Sbriccoli, cur. L. LACCHÈ - C. LATINI - P. MARCHETTI - M. MECCARELLI, Macerata 2007, pp. 125-154: 146-154.
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Si tratta, dunque, di indicazioni diverse che, nel loro complesso, contribuiscono a porre in primo piano il problema di una continua ri-definizione del rapporto fra signore e comunità (o identità) cittadina10 come un problema che resta centrale anche di fronte alla “mutazione signorile” in senso autoritario vissuta dalle città dell’Italia centro-settentrionale a partire dalla metà del ’30011. D’altro lato, in effetti, le ricerche sono state molto attente ad evidenziare le discontinuità, le trasformazioni che determinano la costruzione di un sistema politico “nuovo”, diverso da quello iniziale12. I motivi richiamati riguardano, fra l’altro, lo sviluppo del processo di dinastizzazione, l’allargamento della sfera e della capacità di intervento del signore, la ricerca di meccanismi e di strumenti di legittimazione, sottolineando soprattutto, in questo senso, il ruolo centrale assunto dalla concessione del vicariato, imperiale o papale che sia, nella ridefinizione del potere signorile come un potere ormai sganciato dai condizionamenti della vita politica interna13. Tutti elementi, questi, che caratterizzano anche il processo di affermazione della signoria viscontea e, più direttamente, la costruzione dello “stato” di Gian Galeazzo Visconti. In quest’ultimo caso, gli autori hanno insistito senz’altro sull’impronta fortemente accentrata impressa dal primo duca di Milano all’apparato di governo, attraverso la creazione di nuovi organi, lo sviluppo della cancelleria, la trasformazione dell’apparato finanziario, nonché sul piano della politica ecclesiastica e in ambito culturale. La storiografia, insomma, è concorde nel considerare Gian Galeazzo come l’artefice di profonde riforme del sistema di governo visconteo14.
10 Si v. in particolare CHITTOLINI, “Crisi” e “lunga durata” cit., pp. 151-152; CACIORGNA, Alterazioni e continuità cit.; CENGARLE, A proposito di legittimazioni: spunti lombardi cit.; G.M. VARANINI, Esperienze di governo personale nelle città dell’Italia nordorientale, in Signorie cittadine nell’Italia comunale cit., pp. 45-76. 11 Sul termine “mutazione signorile” si v. ZORZI, Le signorie cittadine cit., p. 108. 12 Si v. in particolare CHITTOLINI, “Crisi” e “lunga durata” cit., pp. 142-145; MAIRE VIGUEUR, Introduzione cit. 13 Si v. ZORZI, Le signorie cittadine cit.; e si cfr. i riferimenti offerti dai saggi contenuti nella terza parte del volume già citato Signorie cittadine nell’Italia comunale, intitolata I signori e il governo delle città e dedicata all’analisi dei cambiamenti che nel corso del XIIIXV secolo hanno portato alla costruzione del nuovo sistema politico. 14 Per un riesame complessivo delle trasformazioni che caratterizzano l’età di Gian Galeazzo Visconti e le interpretazioni più recenti offerte dagli studi si v. ora F. DEL TREDICI, Il quadro politico e istituzionale dello Stato visconteo-sforzesco (XIV-XV secolo), in Lo stato del Rinascimento in Italia, 1350-1520, cur. A. GAMBERINI - I. LAZZARINI, Roma 2014, pp. 149-166; e A. GAMBERINI, Milan and Lombardy in the era of the Visconti and the
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La doppia investitura ducale, a sua volta – quella del 1395, per la città di Milano e il suo distretto; e quella successiva del 1396, che estende i poteri ducali a tutti i domini viscontei – sia pure nelle varie interpretazioni che ne sono state date15, resta un passaggio importante, che marca una svolta rispetto al periodo precedente. Proprio questi due motivi – il senso della continuità del rapporto fra signore e città; l’attenzione alla costruzione di un potere nuovo – si ritrovano direttamente nell’orazione di Pietro Filargis di cui ho parlato all’inizio. Con un’aggiunta, che mi pare particolarmente significativa, visto il modo in cui egli collega questi due temi tanto ripresi dalla storiografia con il problema più generale dell’Ordine francescano. Protagonista di una carriera politico-ecclesiastica per certi aspetti eccezionale, culminata con l’ascesa al soglio pontificio come il “papa del concilio di Pisa” nel 1409, Pietro Filargis è una figura largamente ricordata: ora come teologo di fama; ora come figura di primo piano della vita intellettuale lombarda; ora come fidato collaboratore di Gian Galeazzo Visconti. Pochissimi sono d’altra parte gli studi sul personaggio e sulla sua attività – vuoi per la mancanza di fonti, vuoi per la scarsità di riferimenti concreti, che rendono indubbiamente difficile ricostruire in modo dettagliato la sua esperienza16. Alcuni elementi, tuttavia, possono essere individuati.
Sforza, in A companion to late medieval and early modern Milan: the distintive features of an Italian State, cur. A. GAMBERINI, Leiden-Boston 2015, pp. 19-45 (cui rimando, più in generale, per i singoli aspetti richiamati nel testo). 15 L’investitura ducale è stata in effetti interpretata di volta in volta come la ricerca di una nuova e più salda legittimazione, come uno strumento per ampliare i propri poteri ai danni delle comunità soggette, come mezzo per legittimare l’annessione delle terre che spettavano allo zio Bernabò Visconti, oppure come parte di un più generale processo di rifondazione dello stato: si v. rispettivamente F. SOMAINI, L’età della signoria e del principato. Processi costitutivi, dinamiche politiche e strutture istituzionali dello Stato visconteo-sforzesco, in La grande storia di Milano. Dall’età dei Comuni all’unità d’Italia, I/2, Torino 2010, pp. 681-786: 710-723; F. CENGARLE, Le arenghe dei decreti viscontei (1330 ca.-1447): alcune considerazioni, in Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento, cur. A. GAMBERINI - G. PETRALIA, Roma 2007, pp. 55-88; J. BLACK, Giangaleazzo Visconti and the Ducal Title, in Communes and Despots in Medieval and Renaissance Italy, cur. J.E. LAW - B. PATON, London 2010, pp. 119-130; GRILLO, Signori, signorie cit. 16 Il punto di riferimento principale restano le voci curate da A. PETRUCCI: Alessandro V, antipapa, in Dizionario biografico degli Italiani, 2, Roma 1960, pp. 193-196; PETRUCCI, Alessandro V, antipapa, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2010, pp. 610-613. Altre indicazioni utili sono offerte anche da A. GAMBERINI, Il principe e i vescovi. Un aspetto della politica ecclesiastica di Gian Galeazzo Visconti, in GAMBERINI, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, pp. 69-136; M. ZAGGIA, Linee per una storia della cultura in Lombardia dall’età di Coluccio Salutati a quella del Valla, in Le strade di
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Un primo elemento riguarda senz’altro, come accennato, il suo rapporto con l’Ordine17. Teologo affermato18, egli mantiene in effetti nel corso degli anni uno stretto legame con l’Ordine, come confermano i suoi successivi interventi da pontefice, in particolare i due testi, emanati poco dopo la sua elezione19, a difesa delle prerogative e dell’unità dell’Ordine. Mi riferisco cioè alla lettera Ordinem fratrum minorum, che annulla le concessioni fatte dal papa avignonese Benedetto XIII ai frati “osservanti” del regno di Francia per quel che riguarda, fra l’altro, il reclutamento dei frati, le regole di vita comune e la sottomissione alle gerarchie dell’Ordine; e la bolla Regnans in excelsis, che riconferma contro i rinnovati attacchi dei maestri dell’Università di Parigi e del clero secolare i privilegi in materia di predicazione, confessione e sepoltura già concessi dai papi precedenti ai Minori20. Si tratta di interventi che rimandano ad un senso forte della real-
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Ercole. Itinerari umanistici e altri percorsi, cur. L.C. ROSSI, Firenze 2010, pp. 3-125. Alla figura del Filargis rimandano inoltre, in termini più generali, gli studi sulla storia dello Scisma d’Occidente (si cfr. ad esempio A. LANDI, Il papa deposto (Pisa 1409). L’idea conciliare nel grande scisma, Torino 1985, pp. 199-219). Analisi specifiche sono state invece dedicate in anni più recenti prevalentemente ad alcuni aspetti particolari del suo pensiero teologico: si cfr. T.E. MORRISSEY, Peter of Candia at Padua and Venice in March 1406, in Reform and renewal in the Middles Ages and the Renaissance. Studies in honor of Louis Pascoe, cur. Th.M. IZBICKI - CH.M. BELLIT, Leiden 2000, pp. 155-173; S.F. BROWN, Peter of Candia and his use of John Duns Scotus, in La réception de Duns Scot, cur. M. DREYER E. MEHL - M. VOLLET, Münster 2013, pp. 75-91. 17 Nato intorno al 1340 a Creta, è allevato da un frate minore ed entra a sua volta nell’Ordine intorno al 1357, passando quindi, più o meno nello stesso periodo, in Italia: si v. PETRUCCI, Alessandro V cit., p. 610. 18 Dopo il baccellierato ottenuto ad Oxford, il Filargis continua i suoi studi, secondo il tradizionale percorso previsto per gli esponenti dell’Ordine, a Parigi, dove consegue nel 1381 il titolo di maestro di teologia: ibid., p. 610. La sua fama come teologo è legata soprattutto al suo Commento alle Sentenze di Pier Lombardo, ampiamente diffuso nell’Europa del tempo, come conferma il gran numero di manoscritti che lo tramandano: si cfr. F. EHRLE, Der Sentenzenkommentar Peters von Candia, des Pisaner Papstes Alexanders V., Münster 1925. Diverse parti del Commento sono ora disponibili in edizione online attraverso il sito del progetto internazionale Peter of Candia project organizzato in collaborazione fra l’Institute of Medieval Philosophy and Theology del Boston College e il Department of History and Archaeology dell’Università di Cipro: http://www2.ucy.ac.cy/isa/Candia/index.htm. 19 Avvenuta precisamente il 17 giugno 1409. 20 I due testi sono datati rispettivamente 24 settembre e 12 ottobre e sono pubblicati in Annales Minorum seu trium ordinum a S. Francisco institutorum, cur. L. WADDING, IX (1377-1417), Ad Claras Aquas 1932, n. VII, pp. 620-622 e n. IX, pp. 623-627 (che qui riprendo); e in Bullarium Franciscanum, sive Romanorum pontificum constitutiones, epistolas, diplomata tribus Ordinibus Minorum, Clarissarum, Poenitentium a seraphico patriarca sancto Francisco institutis ab eorum originibus ad nostra usque tempora concessa, VII, Roma 1904, n. 1187, pp. 417-418, e n. 1191, pp. 420-423.
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tà istituzionale dell’Ordine, della sua “tradizione” così come si è venuta ridefinendo dopo lo scontro con Giovanni XXII – per quel che riguarda il modo di vita dei frati, l’impronta strutturata e gerarchica dell’Ordine – in una decisa riaffermazione del ruolo centrale dei frati Minori rispetto alla Chiesa, alla società, nel rapporto con le nuove realtà politiche21. I due testi, d’altra parte, indicano un’esigenza di ordine, di autorità, che risulta ancora più accentuata alla luce del confronto con i problemi ecclesiologici, religiosi e politici posti dal perdurare dello scisma22. La pre-
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Si v. in questo senso l’avvio della lettera Ordinem fratrum Minorum: «Ordinem Fratrum Minorum praecipuae dilectionis affectu prosequentes, ad hoc summae sollicitudinis studio extendimus vires nostras, ut Ordo ipse quibuslibet semotis obstaculis in vinculo unitatis et firmitate caritatis juxta ejus fundationem et regolaria instituta integre conservetur» (p. 620) e poi p. 621 «Et nihilominus volumus et eadem auctoritate statuimus et ordinamus omnibus et singulis fratribus dicti ordinis, praesentibus et futuris, […] sub poena excommunicationis, quam incurrant ipso facto, districte praecipiendo mandamus, ut juxta votum per eos emissum, ac observantiae et statuta praedicta, Generali et Provincialibus Ministris et Custodis praefatis parere et obedire debeant, et teneantur ac realiter cum effectu pareant et obediant, nec aliquam personam saecularem ad Ordinem, seu novitium ad professionem hujusmodi absque speciali commissione Generalis vel Provincialium Ministrorum eorundem quoquomodo recipiant […] juxta modum et formam per felicis recordationis Joannem Papam XXII praedecessorem nostrum super hoc ordinatos gestent, nec praesumant per se vel alium seu alios, publice vel occulte, directe vel indirecte, litteras quascumque promotorias, ut ab eorumdem Ministrorum et aliorum superiorum suorum obedientia eximantur, vel alias qualitercumque contra hujusmodi observantias et statuta quovis quaesito colore licentientur, a Regibus, Principibus, et aliis quibuscumque Dominis vel Dominabus seu personis ad Romanum Pontificem seu ad alios superiores procurare vel impetrare aut undecumque procuratas recipere sive eisdem procuratis, eis oblatis vel exhibitis, uti praesumant, sed eis penitus renuncient ac alios ejusdem Ordinis fratres et personas quascumque, regulares aut saeculares, tales litteras impetrare seu procurare volentes, impediant juxta posse». Per un primo orientamento sui problemi qui richiamati – per quel che riguarda in particolare le crescenti tensioni interne all’Ordine fra istanze di gerarchizzazione e di istituzionalizzazione, da un lato, e istanze invece di riforma, di ritorno all’ “osservanza” della regola originaria, dall’altro lato, e il loro rapporto con il problema della ridefinizione dell’ “identità” francescana e del ruolo dei Minori rispetto alla Chiesa e alla società – si v. G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sin agli inizi del XVI secolo, Padova 2006, pp. 201-362; D. NIMMO, Reform and division in the medieval Franciscan Order. From saint Francis to the foundation of the Capuchins, Roma 1987; R. LAMBERTINI, La scelta francescana e l’università di Parigi: il “Bettelordenstreit” fino alla “Exiit qui seminat”, in Gli studi francescani dal dopoguerra ad oggi, cur. F. SANTI, Spoleto 1993, pp. 143-172; LAMBERTINI, La povertà pensata. Evoluzione storica della definizione dell’identità minoritica da Bonaventura ad Ockham, Modena 2000; Il francescanesimo dalle origini alla metà del secolo XVI: esplorazioni e questioni aperte, cur. F. BOLGIANI, Bologna 2005. 22 Nominato da Innocenzo VII nel 1405, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, cardinale dei Santi Apostoli e quindi legato apostolico nell’Italia settentrionale, a partire da
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occupazione per l’unità, per il ruolo dell’Ordine fa tutt’uno infatti nel Filargis con la preoccupazione per l’unità della Chiesa, per il ruolo del papato23, in una prospettiva che trova agganci diretti con il grande dibattito che, già a partire dalla fine degli anni ’70, si sviluppa intorno al tema dell’autorità papale, del suo possibile rapporto con il concilio, intorno al tema stesso della riforma. È un dibattito che il Filargis, a sua volta, ha ben presente24, e che riflette il confronto con l’emergere di nuove aspirazioni ed esperienze religiose, o politico-religiose – basti pensare, in questo senso, agli sviluppi della predicazione di Wycliff e di Ian Huss, contro cui il papa pisano si pronuncia nel dicembre 140925. Si tratta, soprattutto, di un dibat-
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questa data il Filargis assume un ruolo di rilievo nelle trattative per cercare una possibile soluzione dello scisma: già alla fine del 1405 si reca infatti, su incarico di Innocenzo VII, a Venezia e a Padova (dove incontra, fra gli altri, F. Zabarella), e successivamente, nel 1408, partecipa all’incontro dei cardinali a Bologna che contribuirà ad aprire la strada alla convocazione del concilio di Pisa: si v. in particolare PETRUCCI, Alessandro V cit., p. 612; e MORRISSEY, Peter of Candia at Padua and Venice cit. 23 La stessa redazione della lettera Ordinem Fratrum Minorum riflette la piena consapevolezza da parte del Filargis per il pericolo rappresentato per l’unità dell’Ordine dalla divisione delle obbedienze e dalla possibilità offerta ai vari frati di ottenere dai diversi papi privilegi ed esenzioni: si v. in merito le osservazioni di MERLO, Nel nome di san Francesco cit., pp. 316-317. In modo non troppo dissimile, nella bolla Regnans in excelsis la difesa delle prerogative dei Minori (e, con esse, si potrebbe dire, di una determinata visione della identità francescana) è in grande parte basata sulla parallela difesa e riaffermazione dell’autorità del papato che, a partire da Bonifacio VIII, Clemente V per arrivare infine a Giovanni XXII, le ha concesse. 24 Come è stato notato, nel discorso tenuto nel corso della prima sessione del concilio di Pisa, il Filargis difende la strada del concilio generale come unica soluzione per la fine dello scisma usando quasi le stesse argomentazioni già richiamate da Enrico di Langenstein (Epistola pacis, 1379 e Epistola concilii pacis, 1381) e da Corrado di Gelnhausen (Epistola Concordiae, 1380): si v. F. CENGARLE, I Visconti, signori di Milano, e lo scisma (1378-1402), in Avignon/Rome, la Papauté et le Grand Schisme. Langages politiques, impacts institutionnels, ripostes sociales et culturelles. Actes du colloque International, Avignon, 13-15 novembre 2008, in corso di stampa; LANDI, Il papa deposto cit., pp. 165-166. Si cfr. anche in questo senso l’avvio della bolla Regnans in excelsis: «Regnans in excelsis triumphans Ecclesia, cui pastor est Pater aeternus cuique sanctorum ministrant agmina et laudis gloriam angelorum chori decantant, in terris sibi Vicarium constituit Ecclesiam militantem, unigenito filio Dei vivi Domino nostro Jesu Christo ineffabili commercio copulatam: in hac quidem ipse Christus a Patre progrediens per illustrationem Paracleti, qui ab utroque precedit, statuit fidei firmamentum, ut ab ea, velut a primitivo fonte, ad singulas orthodoxas nationes ejusdem fidei rivuli deriventur. Ad hujusmodi autem Ecclesiae regimen voluit Christi clementia Romanum pontificem deputare ministrum, cujus instructionem ac doctrinam eloquio veritatis evangelicae traditam cuncti renati fonte baptismatis teneant et observent. Qui enim sub hac doctrina cursus vitae non peregerint, aut errores contra illam tenuerint, damnationis sententia ferientur» (p. 623). 25 Si v. Annales Minorum cit., p. 409; PETRUCCI, Alessandro V cit., p. 613; LANDI, Il papa deposto cit., p. 218.
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tito che riporta in primo piano, fra ecclesiologia e politica, il ruolo della comunità dei fedeli rispetto al pontefice, al governo della Chiesa26. A questo primo elemento si aggiunge un secondo elemento, cioè la collaborazione con Gian Galeazzo Visconti. L’incontro con il futuro duca di Milano risale probabilmente al 1384-85, quando il Filargis è a Pavia per partecipare al capitolo generale dell’Ordine27. Fin da subito, Gian Galeazzo vede in lui, come è stato scritto, l’«uomo capace di condurre abilmente un negoziato e di imporre, con la persuasione del discorso e la forza degli argomenti, la propria opinione»28. L’incontro, in particolare, segna l’avvio della carriera politico-ecclesiastica del Filargis, una carriera che, a sua volta, segue da vicino le tappe dell’espansionismo visconteo. Nominato inizialmente vescovo di Piacenza nel 1386 (dopo il trasferimento di Guglielmo Centueri, altro francescano, a Pavia)29, nel 1388 egli diventa vescovo di Vicenza, conquistata l’anno prima dal Visconti, e viene nominato commissario a Feltre, a sua volta appena annessa al dominio visconteo. Divenuto successivamente vescovo di Novara, nel 1399 – ormai nel pieno dell’avanzata viscontea in Toscana – assiste a Pavia alla conclusione dei patti fra Pisa e il Visconti, nuovo signore della città; e poco dopo è inviato a Siena, che governa per breve tempo a nome del duca30.
26 Per un primo orientamento, con riferimento anche al rapporto fra conciliarismo e contrattualismo, si v. G. ALBERIGO, Le dottrine conciliari, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, 3, cur. L. FIRPO, Torino 1987, pp. 157-252; A. BLACK, Monarchy and Community. Political ideas in the later conciliar controversy (1430-1450), Cambridge 1970; BLACK, The Council and the Commune. The conciliar movement and the 15th century heritage, Cambridge 1979; LANDI, Il papa deposto cit.; e si cfr. anche P. EVANGELISTI, I francescani e la costruzione di uno stato: linguaggi politici, valori identitari, progetti di governo in area catalano-aragonese, Padova 2006. 27 Un primo anche se incerto riferimento colloca il Filargis come ministro della provincia francescana di Lombardia già a partire dal 1370 (o pochi anni dopo): cfr. A. CALUFETTI, I superiori provinciali dei Frati Minori in Lombardia dalle origini alla soppressione napoleonica, «Archivum Franciscanum Historicum», 73 (1980), pp. 226-256: 231. Più sicura è invece la sua presenza a Pavia nel 1381, quando ripete la sua lettura sul libro delle Sentenze. Nel 1384 è quindi citato come professore in sacra pagina e poi come lettore presso il convento di S. Francesco di Pavia: si v. PETRUCCI, Alessandro V cit., p. 610. 28 Ibid., p. 611. 29 Si cfr. B. BALDI, “Pro tranquillo et pacifico statu humanae reipublicae”: Guglielmo Centueri fra religione e politica nell’età di Gian Galeazzo Visconti, in The languages of political society. Western Europe, 14th-17th centuries, cur. A. GAMBERINI - J.-PH. GENET - A. ZORZI, Roma 2011, pp. 121-146. 30 Si cfr. per un primo orientamento sulla politica di ampliamento territoriale di Gian Galeazzo Visconti A. GAMBERINI, Gian Galeazzo Visconti, in Dizionario biografico degli Italiani, 54, Roma 2000, pp. 383-391; e per quel che riguarda il ruolo del Filargis, si v. GAMBERINI, Il principe e i vescovi cit. Il Filargis rientra dunque a pieno titolo in quel gruppo di “vescovi al servizio dello stato” identificati dall’autore, anche se, come nota Gamberini,
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La posizione assunta dal Filargis può ben essere considerata come un chiaro indice della fiducia che Gian Galeazzo ripone nel personaggio e dello stretto legame che si è venuto via via a creare31. Contemporaneamente, questi riferimenti suggeriscono – anche se delle indagini più accurate restano da fare – l’idea di un suo coinvolgimento diretto nella ridefinizione del rapporto fra le varie città, ora soggette, e il nuovo signore – quasi un’esemplare conferma di quel tema di fondo ricordato all’inizio – fra continuità e discontinuità – verificato più e più volte. Indubbiamente, da questo punto di vista, l’esperienza del Filargis appare caratterizzata da una partecipazione intensa al processo di “costruzione” dello “stato” di Gian Galeazzo, in una direzione che si allarga anche alla considerazione dei suoi rapporti con il papato, con l’impero, con le altre forze politiche italiane. Nel corso di questi anni egli è impegnato, infatti, in numerose missioni diplomatiche, che corrispondono a momenti importanti dell’affermazione del dominio visconteo: nel 1388, ad esempio, è a Venezia, per la conclusione dell’alleanza contro i Carraresi; e poi ancora nel 1390, per le trattative di pace con le città di Firenze e di Bologna32; nel 1392 partecipa alla conclusione della pace di Genova33, e nello stesso anno, è a Firenze. Fino, appunto, alla missione svolta nel 1394 a Praga, quando ottiene per Gian Galeazzo, in cambio del pagamento di una somma consistente di denaro, la concessione del titolo ducale da parte dell’imperatore Venceslao34.
questo non esclude, anzi, un senso vivo e profondo delle prerogative episcopali e della loro difesa, come conferma anche il fatto che, proprio in occasione del suo viaggio presso l’imperatore nel 1395, il vescovo di Novara si preoccupi di ottenere la riconferma imperiale sulla giurisdizione di Gozzano e la Riviera d’Orta: ibid., p. 106 nota 135. 31 L’indicazione più evidente, in questo senso, è sicuramente data dalla scelta del Visconti di sostenere, nel 1401, l’ascesa del Filargis come arcivescovo della città di Milano: si v. GAMBERINI, Il principe e i vescovi cit., p. 99. Il Filargis è inoltre membro del Consiglio segreto e del Consiglio di reggenza. Altri segnali della stretta vicinanza fra i due personaggi sono offerti dalla presenza largamente attestata del Filargis alle cerimonie di cresima e di battesimo degli eredi di Gian Galeazzo Visconti, e, come rappresentante di quest’ultimo anche in occasione del battesimo dei figli di alcuni importanti collaboratori viscontei. Si v. anche A. CADILI, I Frati Minori e i Visconti nella Milano trecentesca, «Cristianesimo nella storia», 30 (2009), pp. 73-98; e si cfr. più in generale MERLO, Francescanesimo e signorie cit. 32 Alle trattative è presente anche il legato papale, Cosimo Migliorati, il futuro Innocenzo VIII, che il Filargis conosce proprio in questa occasione. 33 È la pace che segna la fine della guerra con la repubblica di Firenze e con i suoi alleati: Gian Galeazzo ottiene il riconoscimento del possesso di Feltre e di Belluno, ma non di Padova. 34 Le trattative, interrotte dalla prigionia di Venceslao, catturato nel 1394 da alcuni principi ribelli, sono successivamente ostacolate da un’ambasceria fiorentina e si concludono infine con la concessione del titolo ducale l’11 maggio 1395: si v. GAMBERINI, Gian Galeazzo Visconti cit., p. 387.
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Il sottofondo dell’orazione a questo punto è chiaro e, in effetti, se se ne seguono i motivi così come il Filargis li sviluppa, se ne ha una conferma evidente35. L’orazione pone infatti in primo piano il senso della novità, del passaggio rappresentato dalla concessione del titolo ducale. Il potere di Gian Galeazzo Visconti trova ora la sua legittimazione nell’autorità dell’imperatore e, per suo tramite, direttamente da Dio, perché, come ricorda il vescovo di Novara, tutto ciò che è fatto, è fatto per mezzo di Dio (Giovanni, 1, 3) e tutti i regni degli uomini sono soggetti alle leggi della sua Provvidenza (Agostino, De civitate Dei, V, 11):
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Dico igitur primo quod sacrum movit cesareum animum Mediolanensium patrie ducatus exhibere fastigium dirrigens benignitas regis eternalis, quoniam in nullum beneficentiae actum potest secunda causa pertransire secluso primariae causae suffragio dirigente. Theologorum hoc multiplex declarat autoritas. […] Unde est Iohannis primo «Omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil». […] Erubescat igitur philosophorum vesana sententia asserentium actus nostros disponendi, providentiam non precedere. Contra quos doctor egregius Aurelius Augustinus, V De civ. Dei XI cap., taliter protestatur: «Deus utique summus et verus cum verbo suo et spiritu sancto quae tria unum sunt non solum caelum et terram, non solum angelum et hominem, sed nec exigui et contemptibilis animantis viscera nec avis penulam, nec herbe flosculum, nec arboris folium sine suarum partium convenientia ac quadam veluti pace dereliquit. Nullo igitur modo credendum est regna hominum eorumque dominationes et servitutes a sue providentie legibus alienas esse noluisse»36.
Anche in questa chiave, il Filargis insiste con forza nell’affermazione dell’autorità imperiale, della sua superiorità rispetto agli altri poteri temporali37, riprendendo, fra l’altro, i riferimenti biblici tratti da Daniele (4, 89) e da Ezechiele (17, 3): 35
L’orazione muove dal richiamo ad Isaia, 55, 4: «Ecce testem populis dedi eum ducem ac preceptorem gentibus», e si articola in una prima parte, nella quale il Filargis spiega le ragioni che hanno indotto l’imperatore a concedere alla città di Milano e a Gian Galeazzo Visconti il titolo ducale, cui segue, nella seconda parte, il richiamo all’autorità imperiale, un breve accenno alle lodi di Gian Galeazzo Visconti, e, infine, la descrizione della città di Milano. 36 Petri de Candie Sermo, f. 30r. 37 «Primo, inquam, serenissimi principis persona reddit excessive commendabilem celebris potentia validi vigoris, de qua in persona imperatoris in exordio primi de Clementia loquitur Seneca: «Ego ex omnibus mortalibus placui ellectusque sum, qui in terris vice deorum fungerer? Ego vite necisque arbiter gentibus? Qualem quisque sortem statumque habeat, in manu mea positum est? Quid quique mortalium fortuna datum velit, meo ore pronuntiat?». Ex meo responso leticie causas populi urbes que concipiunt. Nulla
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Hec igitur cunctis mortalibus admiranda potestas Danielis IIII extitit figurata: «Ecce, inquit, arbor in medio terre et altitudo eius nimia, magna arbor et fortis et proceritas eius contingens celum. Aspectus eius erat usque ad fines universe terre. Folia eius pulcerrima et fructus illius nimius et esca universorum in ea. Subter eam habitant animalia et bestie et in ramis eius conversabantur volucres celi et ex ea vescebatur omnis caro». Hec ille. Hanc imperialem potentiam, quam Daniel per arborem figuravit, Ezechiel sui vaticinii XVII per aquilam figuravit: «Aquila, inquit, grandis, magnarum alarum, longo membrorum ductu, plumis plena et varietate, venit ad Libanum et tullit medulam cedri»38.
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Questa affermazione del ruolo dell’impero si ricollega alla pari affermazione delle virtù, dei meriti della casa di Lussemburgo, cui l’imperatore Venceslao appartiene: una dinastia di antica e nobile origine, che annovera fra i suoi esponenti conti, duchi, e imperatori come Carlo IV:
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Dixi secundo quod serenissimi principis domini imperatoris personam reddit excessive commendabilem nobilis prosapia fulgidi decoris. Ipso namque de domo nobilissimorum principum de Lucinburg traxit orriginem, de qua innumerabiles prodierunt comites, marchiones, duces et reges, ac sacri imperii longissimis retroactis temporibus possessores proavum namque imperatorem simul et regem habuit presens imperator, patrem similiter Karulum, scilicet sancte memorie regem Boemie et Christianitatis universe imperatorem gloriosissimum. Qui qualis fuerit, si singule Christianitatis patrie perquerantur, procul dubio una concinaque voce clamabunt quod frequenter canit ecclesia: «Non est inventus similis illi qui conservaret legem excelsi»39.
La concessione del titolo ducale, d’altra parte, risponde ad un rapporto particolare che lega nel tempo l’impero e i Visconti e che è scandito dal binomio «largitas» «clementia» dell’imperatore da un lato40, e «fidelitas» della casa viscontea dall’altro. Fra le ragioni che hanno spinto Venceslao a concedere l’investitura ducale il Filargis ricorda infatti il desiderio dell’impars usquam, nisi volente propitioque me foret. Hec tot milia gladiorum, que pax mea comprimit ad nutum meum stringentur. Quas nationes funditus excidi, quas transportari, quibus libertatem dari, quos erripi, quos reges mancipia fieri, quorumque capiti regium circumdari decus oporteat, que ruant urbes, que oriantur, mea iurisdictio est. Hec ille merito ei conveniat, quod Iobbis XLI primo versiculo sic scribitur: «Non est super terram potestas que comparetur ei, qui factus est ut nullum timeat»», ibid., f. 32r. 38 Ibid., f. 32r. 39 Ibid., f. 32v. 40 Si cfr. anche ibid., f. 32v: «Magnitudo namque generose clementie in largiendo ex universis magnitudine comprobatur».
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peratore di conformarsi agli atti dei suoi predecessori e alla «beneficentia» da essi dimostrata verso i Visconti:
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Dixi secundo quod sacrum movit cesareum animum Mediolanensium ducatus exhibere fastigium prosequens confirmitas actus parentalis. Re enim vera omnium parentum in reverentiam debent liberi summo studio precavere simul et inniti, cum teneantur parentibus honorum exhibere servitia non dolorum. Istud divina proclamata auctoritas, Exodo XX: «Honora patrem tuum et matrem tuam, ut sis longevus super terram». Nam propter parentum irreverentiam servitus inter homines extitit introducta […]. Similiter et alii reges quos scriptura commemorat multa nedum pennalia sed et culpabilia perpessi sunt propter deviationem a paternis limitibus. Quedam enim dubio procul videtur irriverentia parentibus irrogari si filii parentum vestigia non prosequantur. Debent ergo filii circa ea maxime que beneficentia concernunt obsequia parentum semitas immitari. […] Nec igitur sanctissimus imperator diligenter attendens cogitavit, nedum paternos limites immitari rerum ipsos perpatens beneficium propensius transcendere cum amore41.
L’autore enumera così i privilegi, i «beneficia» concessi ai Visconti, e questo elenco, in breve, si rivela un elenco di alcuni dei passaggi più importanti che segnano l’affermazione del loro potere all’interno della città di Milano: il ritorno dall’esilio di Matteo Visconti nel 1310, grazie all’appoggio di Enrico VII, «cum suis benevolis et amicis»42; l’espulsione dei loro nemici «sine spe ullo tempore redeundi»; il recupero «honorum patrimonialium cum suis honoribus et iuribus universis»; il capitanato e «liberum regimen» sul popolo di Milano; il vicariato imperiale su Milano e su alcune altre città lombarde nel 131143; per terminare infine con la concessione del titolo ducale44.
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Ibid., f. 30r-30v. Ibid., f. 30v. Matteo Visconti viene esiliato in seguito alla rivolta popolare del 1302 che segna anche il temporaneo ritorno dei Della Torre in città: si v. M. FOSSATI - A. CERESATTO, L’età della signoria e del principato. La Lombardia alla ricerca di uno stato, in La grande storia di Milano cit., pp. 483-572: 503-509. 43 Matteo Visconti nel 1295, dopo la morte di Ottone Visconti, già aveva cercato di consolidare la sua autorità assumendo in molti comuni le cariche di podestà e di capitano del popolo e nel 1294 ottiene anche il titolo di vicario imperiale: si v. ibid., pp. 502-503. 44 Si cfr. Petri de Candie Sermo, f. 30v: «His quinque beneficiis imperator sapientissimus dominus videlicet Vinceslaus, ne a paternis usquam videretur discedere limitibus, beneficium sextum huic generosissime domui nixus est liberalius cumulare, ducatus siquidem dignitatem ut in senario numero, qui secundum aritmeticos persanctissimus esse concluditur, cum ex omnibus suis partibus integretur alliquotis cuiusdem privilegii magnitudo innotesceret universis cum debito supplemento».
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Dal canto loro, come lo stesso imperatore ha riconosciuto, i Visconti si sono meritati i benefici ricevuti grazie alla fedeltà, alla «reverentia» sempre manifestata verso l’impero nella difesa dei diritti e delle prerogative imperiali:
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Dixi tertio quod sacrum movit cesareum animum Mediolensis patrie ducatus exhibere fastigium obsequens fidelitas domus imperialis. Tria equidem, si rite complector, tenent dominio familiaritas exhibere fidelitatem, scilicet reverentiam et debitum obsequii famulatum, que singula nobis ad Coll. III clare demonstratur apostolus «Servi, inquit, obedite per omnia dominis carnalibus, non ad oculum servientes, quasi hominibus complacentes, sed in simplicitate cordis». Cuius autoris pars prima reverentiam et secunda obsequium tertia vero fidelitatem evidenter insinuat. Hec sunt tria illa pretiosa munera, que domus imperialis domui scilicet Vicecomea sacro imperio igitur legitur fidelius exhibuisse ut idem sanctissimus imperator in concesso eidem domui privilegio pulcerrimo sic declaravit. «Scimus», inquit, «et longi temporis experimento didicimus quod ardor tue fidei corpore paulatim senescente, non deficit, sed vergente deorsum conditione corporea, fervor spiritus in sublimiora conscendit. Scimus enim quod a longis retroactis temporibus nobiles quondam progenitores tui, et demum tu, pro thuendis nostris et Imperii sacri iuribus, que diversorum magnatum et procerum in Italie et aliis finibus existentium turpis conculcare temptavit ambitio, propria aperire non orruerunt erraria. Insidiosis bellorum se summiserunt eventibus, ipsorumque solicitudine id actum est, ut ipsa iura stabili et fixo manent in robore et pro eisdem recuperandis imperium quiesceret a labore. Hec igitur et alia multiplicia probitatis merita et preclare devotionis insignia, que in te et eisdem progenitoribus tuis domus Mediolanensis pia mater radicavit, antiquitas et grata novitas solidavit»45.
Ma questa affermazione del dominio, del potere – ora ducale – di Gian Galeazzo non si configura come la rappresentazione di un potere autoritario, monarchico, quanto piuttosto come quella di un dominio scandito da un rapporto preciso con Milano – richiamata dal Filargis come protagonista dell’orazione46: un rapporto che è definito attraverso il richiamo al «bonum commune», all’«utilitas generalis» della «civitas», all’immagine 45
Ibid., ff. 30v-31r. Il Filargis riprende qui quasi le stesse esatte parole del diploma imperiale: si cfr. il testo in J.C. LÜNIG, Codex Italiae diplomaticus, I, Amsterdam 1725, coll. 419-422: 419-420. 46 Il diploma imperiale comprende due atti, da un lato l’elevazione della città di Milano e del suo contado a ducato; e dall’altro l’investitura di Gian Galeazzo Visconti e dei suoi successori a duchi: allo stesso modo, l’avvio dell’orazione è rivolta direttamente alla città di Milano, che ha ricevuto il beneficio del titolo ducale.
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dell’esercizio di governo come servizio reso al popolo, e al ruolo dei Visconti come «domini naturales» della città. Il proposito principale dei governanti deve infatti essere quello di tendere al benessere, all’utilità di coloro che sono soggetti al loro governo:
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Dixi quarto et ultimo quoad hec quod sacrum movit cesareum animum Mediolanensis patrie ducatus exhibere fastigium congruens utilitas plebis generalis. Quoniam cuiuscumque rectoris principale propositum circa utilitatem precipue intendere debet subiectorum, ut enim morales tradunt philosophi. Rem publica gubernans tribus merito venit comparandus: capiti scilicet in humano corpore, fonti a quo descendit rivolus et radici arboris humorose. Ut quemadmodum a capite in cetera membra corporea motus et sensus diffunditur et a fonte rivolo aquarum fertilitas propinatur et a radice humor radicalis super arboreas partes extenditur, sic et a naturaliter dominante subventionis infusio tamquam lacte procedere debet in subditos, presertim cum eos viderit in necessitatibus constitutos47.
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Ancor più, coloro che governano, ricorda il Filargis riprendendo sant’Agostino (De Civitate Dei, XIX, 14), devono servire il popolo ed esercitare il loro dominio non spinti da «cupiditas» o «superbia», ma «officio consulendi» e «providendi misericordia», in una prospettiva che si richiama direttamente all’esempio di Dio nella cura del suo gregge: [...] «qui imperant, serviant eis quibus videntur imperare. Neque dominandi cupiditate imperant, sed officio consulendi, neque principiandi superbia, sed providendi misericordia». Ad hec Ezechielis XXXIIII rex regum et dominus dominantium suo nobis declarat exemplo qualiter regentes alios comoditatibus intendere debent subditorum. «Ecce, inquit, ego requiram oves meas et visitabo eas et sicut pastor visitat gregem suum et sequitur sic visitabo eas: quod perierat, requiram et quod abiectum fuerat reducam et quod confractum fuerat alligabo et quod infirmum fuerat consolidabo»48.
La concessione dell’investitura ducale da parte dell’imperatore, a sua volta, risponde a queste prospettive, poiché proprio dal dominio di Gian Galeazzo, cioè dal governo del suo «dominus naturalis», potrà derivare per Milano quell’«utilitas», quel bene comune che consiste nella corretta
47 48
Ibid., f. 31r-31v. Ibid., f. 31v.
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gestione del patrimonio pubblico e nel rispetto delle leggi49. Sotto la guida di Gian Galeazzo «dominus naturalis» i sudditi saranno dunque trattati come figli, nessuno di loro sarà oppresso, e soprattutto sarà garantito il rispetto di quella pace e di quell’ordine sociale, etico-religioso e politico su cui si fondano la città stessa e la sua prosperità:
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Nunc igitur dicat imperator ut tu, Mediolanensis patria, regaris utiliter tibi providi de dominio naturali. Nam ut sententialiter in quampluribus polliticorum partibus Aristotiles pertractavit per dominium naturale hec omnes utilitates oriuntur in populis. Bona procurantur communia, iura conservantur civilia, subditi pertractantur ut filii, nullus subditorum opprimitur, sapientum honorantur consilia, summa libertas in matrimoniis conservatur, adversus hostes aliosque novitios casus debita fit inventionum provisio, divinus cultus ampliatur in populis, vitiorum cupiditas extirpatur et dominii perpetuatur autoritas50.
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Questa visione, questo rapporto così rappresentato trova peraltro una ulteriore, forte conferma nella parte finale dell’orazione, dedicata proprio alla descrizione della città. Il Filargis riprende qui direttamente il De Magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva51, insistendo senz’altro sull’esaltazione di Milano come una sorta di seconda Roma52, di paradiso terrestre: […] si consideremus ipsam Mediolenensem patriam in habitudine ad subcelestium sive rerum elementariarum regionem ipsamque procul dubio reperiemus agrum serenissimum possidentem, in puteis et fontibus aquarum habundantia perfruentem, summa continentia naturaque lenissima singulariter insignitam, lacus uberrimos numero decemseptem non humano confectos artificio fluminaque gratissima ducenta sexaginta quatuor terre superficiem irrigantia continet evidenter, ut in sui libello frater
49 Si v. in merito in particolare CENGARLE, A proposito di legittimazioni cit.; CENGARLE, Lesa maestà all’ombra del Biscione. Dalle città lombarde ad una ‘monarchia’ europea (13351447), Roma 2014, soprattutto pp. 90-98, 122-125. 50 Petri de Candie Sermo, f. 31v. 51 BONVESIN DA LA RIVA, Le meraviglie di Milano, cur. P. CHIESA, Milano 2009: per quel che riguarda la citazione del testo nell’orazione del Filargis si cfr. in particolare Introduzione, pp. IX-XLII: XII. 52 L’immagine di Milano come una “seconda Roma” è confermata dal fatto, ricorda l’autore, che molti imperatori la scelgono come sede: il legame con l’impero, già ricordato per Gian Galeazzo Visconti, vale così anche per la città di Milano. Fra gli imperatori ricordati vi sono Nerva, Traiano, Adriano, cui il Filargis aggiunge il riferimento all’iscrizione posta da Teodosio sul monumento di Porta romana: si v. Petri de Candie Sermo, f. 34r.
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Bonvicinus de Ripa rerum etiam coadiuvante experientia, clarissime demonstravit. Montes in eadem palam videmus altissimos, colles gratissimos et denique planities absque fine fructuosissimas inthuemus […]. Propter que regio hec non immerito paradisus terrestris valeat appellari […]53.
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La città di Milano si distingue da tutte le altre vicine non solo per la sua mirabile posizione geografica, per le sue ricchezze naturali54, ma anche e soprattutto dal punto di vista economico, sociale, religioso e morale. Essa può infatti contare su contadini fortissimi, artigiani «peritissimos», mercanti «fideles et gratissimos», magistrati equi e giusti, medici esperti, soldati e condottieri valorosi, consiglieri capaci e preparati, in una rappresentazione che accentua l’immagine di Milano come quella di una comunità che vive e prospera grazie all’armonica cooperazione di tutte le sue parti:
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Cetum nempe laycalem, sive congregationem politicam octo presertim decorant genera personarum, videlicet agricolarum, artificum, mercatorum, iudicum, medicorum, bellatorum, consiliariorum atque rectorum. Primum quidem genus propter metendum necessarium esset dignoscitur; secundum propter vestitum, habitaculum et reliquum hominum cultum; tertium ad supplendam civitatum indigentiam; quartum propter litigia in civilibus disceptatoribus terminanda; quintum propter corporum sanitatem; sextum propter tutellam ad hostium incursibus; septimum ad providenda, ordinanda atque conservanda proficua iuraque concivium; octavum propter iusticiam inter omnes indifferenter exibendam. Ista sunt octo personarum genera, que ad cuiuslibet terrene civitatis perfectam essentiam necessario requiruntur prout philosophorum tradunt instituta moralium. Que, si in Mediolano eiusque dyocesi subtiliter attendantur, omnium aliarum superexcellunt genera civitatum. Nam quaeres particulariter civitatem ipsam et patriam in qua dubio procul reperies agricolas robustissimos, artifices in quovis artificii genere opereque peritissimos, mercatores fideles et gratissimos, iudices equissimos atque iustissimos, medicos tam in medenda scientia quam philosophie doctrina perspicuos, bellatores militarium armorum cura studioque strenuissimos, consiliarios omni morum gravitate preditissimos […]55.
53 Ibid., f. 33v. 54 Ibid.: «De hac tamen civitate et patria omnes hic circumstantes tute dicere possumus
quod psalmo XLVII scribitur «Sic audivimus, sic vidimus in civitate Domini virtutum in civitate Dei nostri. Deus fundavit eam in aeternum». 55 Ibid., ff. 33v-34r.
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La grandezza di Milano è esaltata inoltre dal numero di pontefici, cardinali, di santi, vescovi e beati, fra cui il Filargis ricorda il vescovo Ottone Visconti, da cui prende origine il dominio temporale dei Visconti, e il suo successore, Giovanni56. L’orazione, così, nel suo complesso, offre una interpretazione del nuovo potere di Gian Galeazzo Visconti che mescola fra loro temi diversi – la legittimazione imperiale, il richiamo a Dio, l’ideologia del bene comune della «civitas», il riferimento al «dominus naturalis» – e che trova il suo motivo centrale nella ricerca di una possibile mediazione fra la spinta all’ordine e istanze comunitarie, cittadine e, in questo senso, essa assume un rilievo diretto rispetto a quelle tendenze più generali della storiografia che ho ricordato all’inizio.
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Ibid., f. 34r.
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«Per quisti ribaldi fray se disfa il mondo». Il contrasto tra Bernardino da Siena e Amedeo Landi
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Il 13 aprile 1445 due uomini fanno una denuncia. L’instrumentum protestationis redatto alla presenza di sei testimoni riguarda un episodio accaduto due giorni prima a Milano. Al ritorno dal vespro celebrato nella chiesa di Santa Maria Maggiore un gruppo di persone si era fermato a discutere, sulla porta di casa di dominus Cristoforo degli Omodei, della predica del frate Minore Alberto, del convento osservante di Sant’Angelo (plausibilmente frate Alberto da Sarteano), tenutasi nella chiesa di San Francesco, quando era giunto magister Amedeo, insegnante d’abaco. Sentendo i loro discorsi, così s’inseriva e interveniva: «Per quisti ribaldi fray se disfa il mondo»1. La polemica è chiaramente rivolta contro i frati osservanti. Appesantendo il giudizio, rincarava: «Voy si de quili ipocreti che adore un stronzo». L’inusualità di tali parole e la gravità dell’epiteto ingiurioso – risaltanti anche per l’uso del volgare (nel senso della lingua e del termine)2 – sollecitarono la denuncia di dominus Beltrame della Sala e di Baldassarre da Seregno che, a loro volta ribadendo questi fatti, aggiunsero una testimonianza risalente al 1437, a otto anni prima. A quel tempo il maestro d’abaco era stato ascoltato dall’inquisitore e dal vicario dell’arcivescovo, a margine dell’interrogatorio avrebbe detto «Insci se po leva un pezo de pano
1 L’edizione critica dei processi contro Amedeo Landi è in fase di pubblicazione nella collana “Fonti e documenti dell’inquisizione (secc. XIII-XVI)”, corredata da alcuni studi introduttivi a cui si farà riferimento (M. BENEDETTI - N. COVINI - B. DEL BO - M. BASCAPÉ, mentre l’edizione critica è a cura di T. DANELLI). Per tale ragione, le citazioni saranno così indicate: Processo, in corso di pubblicazione; tranne per i riferimenti alla trascrizione (parziale) di padre Cestino Piana (C. PIANA, Un processo svolto a Milano nel 1441 a favore del magister Amedeo de Landis e contro frate Bernardino da Siena, in Atti del simposio internazionale cateriniano-bernardiniano, cur. D. MAFFEI - P. NARDI, Siena 1982, pp. 762-789). 2 Sull’uso della lingua volgare nei processi inquisitoriali del XV secolo, alcune osservazioni in M. BENEDETTI, I margini dell’eresia. Indagine su un processo inquisitoriale (Oulx, 1492), Spoleto 20142, pp. 90-95.
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como se leva el corpo de Christo a la messa»3. Un episodio dell’immediato presente viene strettamente collegato a un fatto di un passato lontano e a un personaggio ‘scomodo’4. Evidenti emergono i contrasti dilaceranti che oppongono un uomo (magister Amedeo) ad un gruppo di cittadini – da lui definiti ipocreti – che adorano qualcuno verso cui Amedeo non ha la minima ammirazione («un stronzo»): qualcuno individuabile con un frate Minore osservante, frate Alberto da Sarteano o addirittura frate Bernardino da Siena. Costui è plausibilmente coinvolto nel giudizio in quanto ciò che è stato appena illustrato non è che un episodio di una vicenda assai più lunga e complessa. Non solo un uomo contro un gruppo di cittadini (e sullo sfondo un futuro santo), ma un uomo in contrasto con i frati dell’Osservanza cittadina artefici del “disfacimento del mondo” («per quisti ribaldi fray se disfa il mondo»). La percezione di un cambiamento radicale è espressa attraverso un’espressione di forte impatto visivo: «Insci se po leva un pezo de pano como se leva el corpo de Christo a la messa»5. La denuncia dell’aprile 1445 s’inserisce in un contesto delicatissimo: era iniziato il processo in partibus che avrebbe portato alla canonizzazione del frate senese nel 1450 e il maestro d’abaco rappresentava evidentemente ancora un ostacolo pericoloso. Perché era un ostacolo? Perché era pericoloso? E soprattutto: chi era il maestro d’abaco Amedeo Landi? In primo luogo, era uno straniero, era stato accolto a Milano, come si rileva dalle definizioni e dalle descrizioni contenute negli atti processuali: uno «straniero grasso» («alierigerum grassum»), «un maestro forestiero che aveva la scuola d’abaco» («unum magistrum forensem esse qui tenebat scholas abachi»), un «veneto o forestiero» («quidam venetus seu forensis, qui docebat artem seu scientiam abachi»)6. A differenza di quanto si è creduto finora, non è accreditabile la sua pro-
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Processo, in corso di pubblicazione. Per la prima volta il «curious case» di Amedeo Landi venne affrontato in H.-C. LEA, A History of the Inquisition of the Middle Ages, II, London 1888, pp. 271-272, ma è con il contributo di padre Celestino Piana del 1982 che il maestro d’abaco entra in un circuito storiografico francescano (PIANA, Un processo cit., pp. 753-793). Recentemente se ne sono occupate Marina Gazzini relativamente al contesto mercantile milanese (M. GAZZINI, Dare et habere. Il mondo di un mercante milanese del Quattrocento, Firenze 2002, pp. 51-62) e Letizia Pellegrini nell’intersecazione con il processo di canonizzazione di frate Bernardino da Siena (L. PELLEGRINI, Introduzione, a Il processo di canonizzazione di Bernardino da Siena (1445-1450), introd. e ed. PELLEGRINI, Grottaferrata 2009, pp. 88-91). 5 Processo, in corso di pubblicazione. 6 Processo, in corso di pubblicazione. Su questi aspetti biografici, si vedano gli interventi di Nadia Covini e Beatrice Del Bo nel volume contenente l’edizione critica.
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venienza dalla vicina Lodi, bensì dalla cosmopolita Venezia7. Amedeo Landi o de Landis – e non da Lodi come erroneamente finora è stato scritto – era giunto a Milano per esercitare il mestiere di insegnante di computo o calcolo («habens scholas in computis docendis»)8 dedicandosi, più precisamente, a «la scienza dell’aritmetica che da alcuni è detta scienza del computo d’abaco» («scientiam arismetricae, quae dicitur per alios scientia rationis abaci»)9. Maestro nell’arte di fare i conti, Amedeo Landi era molto apprezzato, non solo tra i mercanti del Broletto dove teneva la propria schola. Anche frate Bernardino da Siena era stato accolto benevolmente a Milano. Filippo Maria Visconti avrebbe donato l’area su cui costruire la chiesa di Sant’Angelo come si legge nel processo milanese «frate Bernardino fece iniziare il locum dell’Osservanza di Santa Maria degli Angeli fuori Porta Comacina» («frater Bernardinus de Senis ordinis Minorum inchoari fecisset locum Observantiae Sanctae Mariae de Angelis extra portam Cumanam Mediolani»)10, un segno della straordinaria capacità di collegamento non solo con i più alti livelli, ma addirittura con i vertici della società politica attraverso la fondazione di nuovi insediamenti11. Il ruolo di Filippo Maria Visconti rappresenta proprio il vertice di un triangolo ai cui angoli inferiori si trovano Bernardino da Siena e Amedeo Landi, un triangolo entro cui ascrivere le coordinate di una vicenda coinvolgente frati Minori conventuali e osservanti, membri dei gruppi dirigenti cittadini: una vicenda che addirittura giungerà a mettere a repentaglio il buon esito della canonizzazione di Bernardino da Siena. Sono fatti abbastanza noti, ma alla luce dei recenti rinvenimenti documentari – tra cui le testimonianze appena illustrate – potranno essere contestualizzati in modo più chiaro e preciso. 7 PIANA, Un processo, pp. 767, 781. 8 Ibid., p. 755. 9 Processo, in corso di pubblicazione. 10 PIANA, Un processo, p. 763. 11 G.G. MERLO, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi 20072, pp. 360-363. Sull’Osservanza, in un contesto di lungo periodo, si
veda MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003, pp. 305-38; sul XV secolo, cfr. I frati Osservanti e la società in Italia nel XV secolo, Spoleto 2013; in modo specifico sulle fondazioni osservanti, si veda ora Fratres de familia. Gli insediamenti dell’Osservanza minoritica nella penisola italiana (sec. XIV-XV), cur. L. PELLEGRINI - G.M. VARANINI, Verona 2011 («Quaderni di storia religiosa», XVIII), in cui manca uno studio per gli anni che ci interessano; specificamente su Milano, invece, ma soprattutto sui frati Predicatori, si veda S. FASOLI, Perseveranti nella regolare osservanza. I Predicatori osservanti nel ducato di Milano (secc. XV-XVI), Milano 2011. Sul signore di Milano, si veda ora Il ducato di Filippo Maria Visconti, 14121447. Economia, politica, cultura, cur. F. CENGARLE - N. COVINI, Firenze 2015.
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In seguito al prorompente contrasto tra frate Bernardino da Siena e Amedeo Landi vengono attivati dei procedimenti giudiziario-inquisitoriali in cui figurano membri delle élites cittadine (ad esempio delle famiglie Cattaneo, Garbagnate, Panigarola, Ferrari, Burri, Novate, Pusterla). Se finora era nota soltanto l’inchiesta del 1441, ora è possibile tentare di completare il quadro documentario con la precedente e inedita procedura giudiziaria del 1437. A tale gruppo di documenti appartengono gli interrogatori del frate Predicatore e inquisitore Giovanni da Pozzobonello, tenutisi presso il convento di Sant’Eustorgio di Milano dal 23 aprile al 21 maggio 1437, ovvero immediatamente dopo la predica quaresimale di frate Bernardino da Siena, e un’ampia lista di articoli accusatori «scandalosi» e «turbativi» della pace pubblica estratti da interrogatori tenutisi il 20, 21, 23 settembre e 2 ottobre (plausibilmente sempre del 1437) da Giovanni da Appiano, notaio cancelliere della curia dell’arcivescovo di Milano12. Inoltre, ci sono le due protestationes del 13 aprile 1445, cui si è fatto riferimento, che – è opportuno ribadirlo – si situano nella fase avviativa del processo di canonizzazione di Bernardino da Siena: il 1° giugno 1445 inizia la prima indagine in partibus; la seconda indagine, del 1447, intersecherà – come già ricordato – il cammino di un futuro santo (Bernardino da Siena) e di un non-eretico (Amedeo Landi). Accanto alla documentazione inedita del 1437, a completamento e complemento si pone la fase del 1441, di cui una trascrizione non priva di omissioni e imprecisioni è stata pubblicata da padre Celestino Piana nel 1982, basandosi non sull’originale, ma su fotografie a lui fornite da padre Sevesi che si raccomandava «non me le smarrite perché temo che l’originale sia stato incendiato»13. Per lungo tempo dimenticate in un armadio, anche questa documentazione fotografica, smarrita e ora ritrovata, convergerà nel corpus documentario sul ‘caso’ Landi. In tal modo si intende contribuire a rischiarare una zona grigia dell’inquisizione – il XV secolo14 – in particolar modo in Lombardia, in cui titolari dell’officium fidei sono i frati Predicatori che, in questo caso, agiscono in seguito alle accuse di eresia lanciate da un pulpito, durante le prediche pubbliche, da un frate Minore osservante: Bernardino da Siena. La peculiarità del ‘caso’ Landi consiste nella possibilità di misurare gli effetti delle parole o, meglio, le azioni conseguenti all’atto persuasivo della parola. 12
Su questo notaio, si veda I notai della curia arcivescovile di Milano (secoli XIV-XVI), cur. C. BELLONI - M. LUNARI, Roma 2004, pp. 6-7. 13 PIANA, Un processo, p. 762. 14 Assai poco si trova in Frati Minori e inquisizione, Spoleto 2006.
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Entro quale cornice cronologico-fattuale possiamo inserire questi fatti? Nel 1426 Amedeo Landi giunge a Milano dove svolge l’attività di maestro d’abaco con un certo successo. Il suo insegnamento non si limita al calcolo, ma con i suoi studenti si dilunga in consigli etici, morali e comportamentali– «in modum quasi praedicationum»15 – oltre che in disquisizioni teologiche. Le parole del maestro d’abaco sono vivide e forti, e riguardano la formazione e l’educazione nel complesso della libertà religiosa dell’individuo. Durante gli interrogatori, alcuni studenti testimonieranno la sua ortodossia, altri lo accuseranno di posizioni eterodosse: un segnale della spaccatura provocata dal passaggio di frate Bernardino da Siena. Dopo l’attacco pubblico e plateale di frate Bernardino durante la quaresima del 1437, il maestro Amedeo subisce un processo plausibilmente da parte del canonico Francesco de la Croce, vicario dell’arcivescovo, e dell’inquisitore Giovanni da Pozzobonello, viene imprigionato nel carcere dell’inquisizione, ma infine liberato con la promessa di non pronunciare più parole scandalose e turbative della pace pubblica, pena la scomunica16. In seguito, il maestro Amedeo invia una supplica a Eugenio IV. Senza mai nominare frate Bernardino – l’unico riferimento è ad «alcuni membri degli Ordini Mendicanti» («nonnulli ordinum Mendicantium»)17 – dichiara di essere stato pubblicamente infamato di eresia. A quel punto il papa incarica un suo delegato, Giuseppe Brivio – maestro di teologia e dottore in diritto canonico, oltre che poeta legato all’ambiente culturale milanese e, quindi, alla corte sforzesca18 – di fare giustizia. Il nuovo processo del 1441 sarà preceduto dalla pubblica affissione delle convocazioni nelle chiese di Santa Maria Maggiore e di San Francesco, oltre che nel Broletto nuovo: nel luogo in cui il maestro d’abaco teneva la sua schola. Nel 1445 sappiamo di due denunce, mentre nel 1447 – con i processi in partibus già avviati – interviene Eugenio IV con una lettera (Ad perpetuam rei memoriam). Sempre nel 1447 scompaiono alcuni importanti protagonisti della vicenda: Eugenio IV, Filippo Maria Visconti e il frate Predicatore-inquisitore Giovanni Pozzobonelli. Nel 1450 frate Bernardino da Siena diventa san Bernardino; a Milano governa Francesco Sforza; del maestro di abaco, invece, non sappiamo più nulla.
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PIANA, Un processo, p. 765. Ibid., p. 755. Ibid., p. 757. Con moltissime informazioni sul milieu letterario e culturale milanese, M. MIGLIO, Brivio, Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, 14 (1972), pp. 355-358.
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Amedeo Landi non aveva esitato ad esprimere le proprie idee con parole e con immagini. Il 2 ottobre, al tempo della vendemmia di un anno al momento non precisabile, ma sicuramente successivo ad un passaggio milanese di frate Bernardino da Siena, Gasparino de Manchaynis riferisce i contenuti di un dialogo avvenuto tra lui e magister Amedeo mentre passeggiavano lungo la riva dell’Adda, presso il borgo di Trezzo, circondati dai colori dell’autunno. Riporta che il maestro d’abaco avrebbe detto che era preferibile lo stato matrimoniale a quello religioso («melior erat status matrimonialis quam religiosorum») e che era un «magnum peccatum» indurre qualcuno ad entrare in religione («erat unum magnum peccatum ad ingrediendum religionem»)19; inoltre, non doveva essere né nominato né dipinto il nome di Gesù: era «grande malum» dipingere Gesù sull’ostia in chiesa o in una stanza («camera»), era «grande malum et peccatum» fare ciò e questa era una «trovata recente» («inventio nova») che aveva avuto “un” frate Bernardino da poco tempo: e costui era qualcuno da cui stare alla larga20. Senza entrare, ora, nel merito della natura di una fede non nascosta, la critica contro il trigramma bernardiniano e la sua ostensione quale simbolo della recente devozione al nome di Gesù si allinea alle non rare polemiche – e, in qualche caso, accuse di eresia – nei confronti di frate Bernardino21; altrettanto chiaro mi pare il collegamento con l’espressione in volgare «Insci se po leva un pezo de pano como se leva el corpo de Christo a la messa» riferita all’elevazione dell’ostia nel momento centrale della sinassi liturgica. Denso di conseguenze giudiziarie si rivelerà il commento e, soprattutto, l’intervento di Amedeo Landi per arginare l’eccezionale proselitismo, esito di una performance omiletica di grande successo e fortemente attrattiva: una predicazione che avrebbe indotto moltissimi giovani a diventare frati osservanti (addirittura tra i 50 e i 60). Il rapporto tra predicazione e reclutamento mostra la sua conclamata validità. Nel corso della passeggiata autunnale, lungo l’Adda, al tempo della vendemmia, Amedeo Landi si era espresso anche riguardo alle immagini dipinte e illuminate dei santi. Di nuovo, considerava un «magnum peccatum», anzi un «peccatum idolatrie»22, in quanto era sufficiente pregare Dio, non i santi, perché Dio sente le orazioni a lui rivolte. Il problema delle immagini richiama un’altra
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Processo, in corso di pubblicazione. Ibid. C. DELCORNO, L’Osservanza francescana e il rinnovamento della predicazione, in I frati osservanti e la società in Italia nel secolo XV, Spoleto 2013, pp. 11-17. 22 Processo, in corso di pubblicazione.
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testimonianza a dimostrazione del modo esplicito, di evidenza concretamente visiva, con cui il maestro d’abaco sosteneva e mostrava le proprie opinioni senza alcun timore. Alcuni studenti avrebbero riferito ad un testimone al processo che, a casa sua, aveva fatto dipingere una città e molte figure: le figure rappresentavano cardinali e prelati nell’atto di gettare giavellotti, frecce e lance verso la città, ovvero la Chiesa o, meglio l’«Ecclesia malignantium»23. All’efficacia delle prediche con immagini si affianca l’efficacia delle immagini domestiche: un esempio di religiosità critica dipinta24. Potremmo dire che magister Amedeo fa dipingere le proprie idee. Bernardino da Siena non conosceva personalmente Amedeo Landi, ma qualcuno si era premurato di avvisarlo non tanto di questi – e altri – convincimenti religiosi, bensì dei più fattivi e inaccettabili interventi sulle scelte religiose dei suoi allievi al fine di impedire il loro ingresso in religionem in seguito alla folgorante predicazione quaresimale milanese del frate osservante tenutasi nel 1437 sul prato (pasquerium) di San Francesco (detto anche di Sant’Ambrogio). Ma c’è altro: il «favor populi», come ha scritto Grado Giovanni Merlo, «è una condizione di presenza sociale fondamentale», ma è anche «la base del raccordo tra frati e città»25. Con una forma di predicazione laica antagonista, Amedeo Landi aveva limitato la libertas di espansione, accrescimento e reclutamento della pervasiva osservanza francescana. Se nei processi del 1437 le accuse sono artatamente sfavorevoli o, nel migliore dei casi, i testimoni sono laconici, nel 1441 la tendenza si inverte. Prenderò ora in considerazione la deposizione di Bartolomeo da Novate in quanto interrogato sia nel 1337 sia nel 1441. Bartolomeo detto Rosso (Rubeus) da Novate si presenta per la prima presso Sant’Eustorgio sabato 27 aprile 1437. La sua testimonianza è la più breve delle quattro di quel giorno: conosce il maestro d’abaco da oltre sei anni, lo ritiene una brava persona («bonus vir»), che volentieri parla male dei ‘cattivi’ sacerdoti e religiosi. Non dice altro, rifiuta di rispondere agli altri capi d’imputazione (capitula). Quattro anni dopo, il 21 giugno 1441, chiamato a difesa del magister d’abaco, risponderà ampiamente addirittura denunciando che, nell’inchiesta precedente, i capitula accusatori erano stati formati in maniera sfavorevole, anzi «revoluta in malum» con aggiunta di parole mai
23 24
Ibid. In generale, su questo tema, si veda Religione domestica, Verona 2001(«Quaderni di storia religiosa», VIII). 25 MERLO, Tra eremo e città, p. 361.
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pronunciate dal Landi26. In più, la sua testimonianza a smentita di tali accuse non fu messa a verbale perché considerata «extra capitulum»27, mostrando così il meccanismo con cui si istruiva un processo. Alcune testimonianze non interessavano e, quindi, non sono prese in considerazione orientando in tal modo l’andamento degli interrogatori e la sentenza. Che cosa rivela Bartolomeo da Novate? Quando aveva 21 anni circa era stato tra i primi a rivolgersi al Landi per imparare l’arte di far di conto con l’abaco. Può testimoniare che Amedeo Landi aveva ascoltato le prediche quaresimali di Giacomo della Marca, di Nicolò di Antonio da Fiesso, a cui aveva addirittura procurato un luogo in cui abitare (habitaculum) dal momento che viveva esclusivamente di elemosina, oltre che di un frate Predicatore di nome Alessandro (forse Alessandro da Bologna). Con tutti costoro magister Amedeo aveva familiarità: «fuit domesticus». In più, il suo padre spirituale era frate Antonio Rusconi, a quel tempo ministro provinciale e, in seguito, ministro generale dell’Ordine dei frati Minori. Ma la parte più interessante della deposizione riguarda la predica e gli effetti della predicazione. Nel pulpito presso il ‘pasquario’ di San Francesco, senza mai nominare il maestro d’abaco (ma facendo ben intendere a chi si riferiva: «erat unus homo qui practicabat multum super brollo et cum mercatoribus et erat forensis» oppure «unum magistrum forensem esse, qui tenebat scholas abaci»28), frate Bernardino lo accusa di eresia, di essere un seguace di Jan Huss, giungendo addirittura a sollecitarne l’espulsione da Milano. Siamo ben lontani dagli interventi di pacificazione o di riprovazione dei vizi che avevano reso celebri le prediche di frate Bernardino, anzi, parafrasando, siamo di fronte ad uno dei «molteplici volti dell’Osservanza»29. Non c’è nessuna tensione pacificatrice, bensì una vera e propria militanza della parola religiosa. Il tono e le accuse aumentano con il passare dei giorni fino a quando Bartolomeo, incontrato il maestro d’abaco, gli chiede: «Che cosa ha fatto a frate Bernardino che dice di voi tali cose negative?» «Non gli ho fatto nulla» risponde il maestro d’abaco «né mai ho parlato con lui, ma l’ho saputo da parecchi mercanti, mi hanno detto ciò che tu mi stai dicendo. In verità, voglio andare a trovare frate Bernardino».
26 27 28 29
PIANA, Un processo, p. 775. Ibid., p. 775. Ibid., p. 770. MERLO, Tra eremo e città, p. 305.
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Il dialogo in forma diretta tra Bernardino e il maestro d’abaco prosegue presso la cella del frate, accanto alla libraria della domus di San Francesco; si sarebbe svolto nel modo seguente o, per lo meno, così è stato riportato:
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«Mi conoscete?» chiede Amedeo Landi. «No» risponde frate Bernardino. «Per quale ragione, quindi, se non mi conoscete, avete parlato tanto male di me nelle vostre prediche […]». «Tu devi essere quel magister Amedeo, maestro d’abaco che parla male della religione». «Certo, sono io quel magister Amedeo, io vorrei ugualmente conferire con voi in confessione («in poenitentia»)». «Io non voglio ascoltarti in questo modo; dì apertamente ciò che vuoi dire»30.
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Magister Amedeo gli chiede per quale ragione dica tante brutte cose e lo diffami senza motivo. «Quale ragione ti muove a dire male del mio Ordine?» risponde frate Bernardino. «Io non dico male del tuo Ordine, né dei buoni e virtuosi frati; dico male dei frati viziosi e malvagi». «Quale ragione ti muove a dire male dei frati cattivi o viziosi?» «Mi muove la carità». «Dove hai trovato nelle Sacre Scritture che tu devi o puoi fare ciò?» «Guardatevi dai falsi profeti o dagli ipocriti, che vengono da voi vestiti da agnelli, mentre sono dei lupi rapaci».
Di fronte a questa esplicita accusa in forma evangelica (tratta da Matteo 7,15 e con cui comunemente ci si riferisce agli eretici), frate Bernardino prorompe: «Haeresia est!» «Queste non sono mie parole», risponde il maestro d’abaco, «ma di Cristo; e [allora] Gesù Cristo è eretico; per ciò io voglio essere eretico e seguire Cristo e le parole e i mandati di Cristo». «Tu sei ben eretico!», ribadisce il frate.
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PIANA, Un processo, pp. 771-773.
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Lo scontro verbale prosegue inerente al tema dei “roghi delle vanità”: «Tu critichi i peccati di vanità nelle vesti caudate («peccata caudarum») oppure lunghe che strisciano per terra portate dalle donne per cattiva consuetudine; e però hai detto che è lecito che i prelati possono portare tali code e vesti lunghe […]».
E sferra un’ulteriore accusa, denunciando un calcolo politico, oltre che una lungimirante strategia: «Tu non osi colpire gli homines magni nelle tue prediche».
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Il dialogo prosegue con un confronto sulle Sacre Scritture e si conclude con un chiarimento reciproco e un accordo finale:
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«Se vedrò un agnello mangiato da un lupo, non starò zitto», dice magister Amedeo. «Ho capito», risponde frate Bernardino «Pongo la lancia in resta e giostrerò con te».
Il giorno successivo, nello stesso luogo, durante la predica, davanti ad una grande moltitudine di persone, il frate osservante si espresse in maniera ancora più dura nei confronti del maestro d’abaco, dicendo che «c’era un tale che sbraitava dietro i sacerdoti e i frati e che diceva male di loro, ed era uno straniero e un ribaldo, e dovevano espellerlo dalla città»31. L’importanza di questo passaggio non sfugge a chi, sottolineando il testo in alcuni punti delicati, non esita ad evidenziare l’ultima parte di questa frase: «era uno straniero e un ribaldo, e dovevano espellerlo dalla città». La situazione si era messa molto male, perché alcuni uomini, sollecitati dallo zelo, mormoravano di andare a bruciare il maestro d’abaco, mentre si trovava nella sua abitazione («ad comburendum magistrum Amedeum in domo»)32. A causa della «magna denigratio», costui era ridotto sul lastrico: aveva perso molti studenti, dal momento che alcuni avevano ritirato i loro figli dalla sua schola credendo alle parole del frate33. Tale infamia ha una prima drammatica conseguenza: la moglie stava allattando un neonato, ma
31 «Erat quidam qui clamabat post sacerdotes et fratres et male dicebat de eis, et quod erat ille forensis et unus ribaldus, et quod expelli debebat extra civitatem» (ibid., p. 773). 32 Ibid., p. 778. 33 Ibid., p. 774.
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per la malinconia causata da questa situazione che la portava ad essere evitata da tutti, aveva perso il latte. Nessuna donna l’aveva aiutata. Nessuno era più disposto ad aiutarli, perché frate Bernardino aveva detto che non si doveva dare loro aiuto. E il bimbo era morto. Il 20 maggio di tre anni dopo, nel 1444, muore anche frate Bernardino. Passano alcuni mesi e, il 31 luglio, viene avviata la pratica di canonizzazione. Nello stesso mese Filippo Maria Visconti si muove per ottenere alcune reliquie del futuro santo e un esemplare della prima relazione ufficiale dei miracoli34. Nell’aprile dell’anno successivo, nel 1445, due cittadini milanesi denunciano Amedeo Landi per le sue parole recenti e antiche. Filippo Maria Visconti, appoggia gli Osservanti, ma non pare essere intervenuto contro l’intemperante Amedeo Landi che, alla fine dei processi – per quanto ne sappiamo – verrà giudicato innocente. Nel 1450 frate Bernardino viene proclamato santo. Il 17 maggio dell’anno successivo Francesco Sforza emana un decreto per la costruzione di una cappella dedicata a san Bernardino nella chiesa di San Francesco e proclama il 20 maggio giorno festivo per il ducato35. Nel 1457, il duca di Milano è garante dei lavori del capitolo generale dei frati Minori a Milano36. La saldatura tra frati Minori osservanti e il potere cittadino non è messa in discussione. La forte eco del ‘caso’ Landi si è ormai spenta. Rimane da ricordare che, nel 1440, aveva soggiornato a Milano il frate Minore osservante e inquisitore Giovanni da Capestrano. Accompagnato da alcuni cittadini milanesi, andò a cercare il maestro d’abaco per parlare del suo contrasto con il confratello Bernardino. Dopo aver a lungo conversato con lui, frate Giovanni disse di credere che frate Bernardino era stato male informato da alcuni devoti37. Frate Bernardino da Siena si sarebbe sbagliato, l’inquisitore Giovanni da Capestrano, l’anno prima del secondo processo, getta acqua sulla vicenda. Ma non è possibile dimenticare che alcuni uomini, non importa se definiti «vulgares ignorantes», erano pronti a incendiare la casa del maestro di abaco – con lui dentro – infiammati dalle parole di frate Bernardino da Siena.
34 35 36
PELLEGRINI, Introduzione, pp. 64-65. PIANA, Un processo, pp. 790-792. Sul legame ‘speciale’ tra il duca di Milano e i frati dell’Osservanza, si legga G.G. MERLO, Ordini Mendicanti e potere: l’Osservanza minoritica cismontana, in Vite di eretici e storie di frati, cur. M. BENEDETTI - G.G. MERLO - A. PIAZZA, Milano 1998, pp. 276-279. 37 PIANA, Un processo, p. 782.
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Il frate osservante – lo sappiamo – non è un inquisitore, non dovrebbe avere né l’auctoritas né la potestas di dichiarare un uomo eretico. Il pulpito però diventa lo scranno del giudice da cui si emana la sentenza. Altri sono sollecitati ad eseguirla: uomini «vulgares ignorantes» in maniera sommaria (e, per fortuna, improduttiva), i rappresentanti dei tribunali laico ed ecclesiastico (in modo più efficace). Alcuni testimoni non riescono a trattenersi dal commentare questo comportamento. Andrea Panigarola assai bene esplicita una vistosa e palese anomalia:
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«Ex quibus dictis per dictum fratrem Bernabinum multi obstupuerunt et admirati fuerunt de eo fratre Bernabino, qui presumisset et talia dicere de uno antequam requisitus et monitus foret per vicarium domini archiepiscopi, vel inquisitorem heretice pravitatis, et quia talia pertinebant eidem domino vicario domini archiepiscopi vel inquisitori predicto, qui est ordinis Predicatorum, qui consueverunt primitus requirere et monere et interrogare tales; et si confitentur vel aliter probentur in foro iudiciali, publicantur postea pro hereticis in dicta ecclesia Sancti Eustorgii; et numquam audiveram ego testis dictum magistrum Amadeum fuisse aliqualiter pro predictis vel aliquo predictorum requisitum nec monitum, nec per sententiam convictum; et si fuisset, credo quod scivissem attento quod tantum praticaveram cum eo et adidit ipse frater Bernabinus dictis suis quod non debebat dari eidem magistro ausilium, conscilium nec favorem et multa alia mala dixit de eo que nescio bene exprimere que processerunt bene in magnam denigrationem fame dicti magistri Amadei ac iacturam»38.
Le parole di frate Bernardino sono esecutive e qualcuno non esita a sottolineare nel testo ciò che appare dissonante: «multi obstupuerunt et admirati fuerunt de eo fratre Bernabino, multa alia mala dixit de eo, denigrationem fame dicti magistri Amadei ac iacturam». In questo contesto, il non conformismo religioso di Amedeo Landi sembrerebbe configurarsi come una sorta di lesa maestà nei confronti di chi non tollera interferenze ad un piano di reclutamento tanto immediato (da parte dei frati dell’Osservanza) quanto immeditato (da parte dei giovani) che un maestro – un bravo maestro – non può non osteggiare con coraggio e in prima persona, forse incosciente dei rischi a cui si esponeva.
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Processo, in corso di pubblicazione.
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La predicazione de pace di Giacomo della Marca ci consente di delineare alcuni aspetti della riflessione etico-politica trasmessi dal sermonario del frate marchigiano1. Come è stato scritto, se la predicazione si prolunga nella legislazione2, questo permette di tratteggiare lo stretto legame esistente tra la predicazione popolare osservante e alcuni temi di grande impatto per l’ordinamento civile, come lo è appunto quello della pace. A maggior ragione nel nostro caso, poiché il giurista Giacomo della Marca riserva un’impressionante mole di sermoni ai temi di natura giuridica e sociale. La predicazione si presenta, infatti, come canale privilegiato per trasmettere modelli spirituali e “normative” cui rifarsi, una regolamentazione di mores, di costumi, che si manifestano in aspetti socio-economici e politici per un rinnovamento globale della società, a partire dalle istanze religiose. L’Osservanza cercherà, infatti, di tradurre l’esperienza religiosa in autocoscienza con la costruzione di un’identità precisa e solida, legittimando il proprio modus operandi nel contesto socio-ecclesiale, per una rinnovata societas christiana, un tentativo perseguito dalla seconda generazione osservante, ormai distante dai frati di Paoluccio Trinci3.
* Colgo l’occasione di ringraziare il prof. Roberto Lambertini e la prof.ssa Francesca Bartolacci per avermi invitato a partecipare al convegno. 1 Sull’esempio del modello di Bernardino da Siena, Giacomo della Marca attua «il programma di un’articolata trattazione di problemi etico-politici, che finisce per sostituire l’esegesi letterale del Vangelo»: cfr. C. DELCORNO, Modelli retorici e narrativi da san Bernardino a san Giacomo della Marca, in San Giacomo della Marca nell’Europa del ’400. Atti del Convegno internazionale di studi (Monteprandone 7-10 settembre 1994), cur. S. BRACCI, Padova 1997, pp. 355-389: 358. 2 Cfr. F. BRUNI, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003, p. 276. 3 Nell’evoluzione del movimento dell’Osservanza si assiste al passaggio da una vita devota, che preferiva testimoniare il Vangelo tramite l’eremitismo piuttosto che con la praedicatio, alla cura per la predicazione e lo studio: cfr. M. SENSI, Le Osservanze francescane nell’Italia centrale, Roma 1985, pp. 296-302.
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Iniziamo dalla traditio. Di Giacomo della Marca possediamo tre sermoni che trattano direttamente il tema della pace, ai quali bisognerà aggiungere la predica De partialitate sulle opposte fazioni4. Il processo compositivo è variegato: i sermoni si presentano come un esempio di un work in progress, un’attività in continua tensione e mai ultimata, che rivela una meticolosità e un’attenzione non comuni5. Essi sono il risultato della “officina” del francescano – secondo una pregnante definizione di Carlo Delcorno6 –, un lavorio svolto insieme a un atelier di collaboratori. Dal prospetto dei sermones de pace si può vedere come la raccolta del Domenicale rappresenti l’ultima redazione di queste prediche7. Le precedenti redactiones sono attestate dai tre testimoni superstiti del Quaresimale8 e, in una fase di primo abbozzo del testo, dai “libri di lavo-
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Iacobi de Marchia Sermones Dominicales, introd. e ed. R. LIOI, in S. Iacobus de Marchia, Sermones Dominicales, 4 voll. (IV Supplemento), Falconara M. (AN) 1978-1982, II, p. 15. 5 Basti pensare ai passi in cui Giacomo si preoccupa di lamentare disattenzioni di alcuni collaboratori. Cfr. D. LASIÆ, Le Tabulae Librorum della Libreria di S. Giacomo della Marca, «Picenum Seraphicum», 8 (1971), pp. 13-41: 16; cfr. G. CASELLI, Studi su S. Giacomo della Marca pubblicati in occasione del II centenario della sua canonizzazione, I, Ascoli Piceno 1926, pp. 6-7. 6 Cfr. C. DELCORNO, L’Osservanza francescana e il rinnovamento della predicazione, in I Frati Osservanti e la società in Italia nel secolo XV. Atti del XL Convegno Internazionale della Società Internazionale di Studi Francescani (Assisi-Perugia 11-13 ottobre 2012), Spoleto 2013, pp. 3-53: 17. 7 Per la consultazione dei Sermones Dominicales il riferimento d’obbligo è l’opera meritoria del padre Renato Lioi, l’unico testo edito che ci presenti l’edizione integrale del Domenicale giacomiano. Soltanto due codici trasmettono per intero il sermonario domenicale: il ms. F 1 della Biblioteca Storico Francescana e Picena di Falconara Marittima, proveniente dal convento dei francescani osservanti del Parco, presso Urbania, e il ms. M 38 del Museo Civico di Monteprandone, rispettivamente denominati da Renato Lioi, codice A e codice B. Per una rassegna dei codici: cfr. D. LASIÆ, De vita et operibus S. Iacobi de Marchia. Studium et recensio quorundam textuum, Falconara M. (AN) 1974, pp. 192-193. I due studiosi non conoscevano il codice della Biblioteca Comunale di Trento, proveniente dal convento di San Francesco Grande di Padova e contenente cinque prediche del Frate piceno: cfr. M. PANTAROTTO, Nuovi manoscritti appartenuti al convento osservante di San Francesco Grande di Padova, «Il Santo», 45 (2005), pp. 730-731; cfr. I manoscritti medievali della Biblioteca Comunale di Trento, cur. A. PAOLINI, Firenze 2006, pp. 71-72. Per gli studi sul Domenicale: cfr. R. LIOI, Un gruppo di “Sermones Dominicales” di s. Giacomo della Marca contenuto nel Codice V. H. 270 della Biblioteca Nazionale di Napoli, in «Studi Francescani», 58 (1961), pp. 1-59; A. GATTUCCI, I «Sermones Dominicales» di S. Giacomo della Marca, «Picenum Seraphicum», 15 (1979-80), pp. 123-184: 126-127. 8 Sul Quaresimale si veda D. PACETTI, I sermoni quaresimali di S. Giacomo della Marca contenuti nel codice 187 della Bibl. Angelica, «Archivum Franciscanum Historicum», 46 (1953), pp. 302-340; R. LIOI, I «Sermones Quadragesimales» di S. Giacomo della Marca in un codice della Biblioteca comunale di Foligno, «Annali del Pont. Ist. Sup. di S. Chiara», 10 (1961), pp. 37-137.
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ro”9, che costituiscono le prime stesure e gli schemi dei sermoni, oggi conservati presso il Museo Civico di Monteprandone. M 42
M 46
cc. 260v265v: De pace
cc. 182r183v: De pace
M 46 bis
Vat. Lat. 7780 (ex M 3)
Quaresimale
Domenicale (ed. LIOI) vol. I, n. 20, pp. 341-350: De sanctissima pace et unitate vol. II, n. 61, pp. 392-402: De honorificentia pacis et indulgentie
Vat. Lat. 7642, n. 99, cc. 187vb-189vb: De pace
vol. III, n. 91, pp. 280-293: De pace et remissione iniuriarum
cc. 338r341r: De pace
cc. 171v-174v: De pace
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cc. 175r-178r: De honorificentia pacis et indulgentie
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Foligno, Bibl. Com. ms. 250, n. 79, cc. 145rb-147rb: De parcendo inimicis
cc. 80r-82r: De partialitate cc. 334r338r: De partialitate
cc. 249v-253v: De discordia et divisione
Bibl. Angelica, ms. 187, n. 75: De pace Vat. Lat. 7642, n. 59, cc. 117ra-119ra: De partialitate
vol. II, n. 31, pp. 15-26: De partialitate
Foligno, Bibl. Com. ms. 250, n. 39, cc. 72b-74a: De partialitate Bibl. Angelica, ms. 187, n. 37: De partialitatibus
Una concisa panoramica sui contenuti dei sermoni permette di comprendere le argomentazioni biblico-teologiche e i significati che Giacomo assegna al termine pace. Nel sermone De sanctissima pace et unitate, da recitare nella quarta domenica dopo l’Epifania, il Frate piceno sviluppa il thema della pax Christi fondato su un versetto paolino della lettera ai Colossesi: «Pax Christi exultet in cordibus vestris in qua et vocati estis in
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Nello specifico, con la definizione di “libri di lavoro” s’intendono cinque manoscritti cartacei, indicati come “autografi”, che in qualità di “libri da bisaccia” furono per molti anni fedeli compagni del Frate piceno: M 42, M 46, M 46 bis, M 60, conservati a Monteprandone, presso il Museo Civico, e l’ex M 3, attualmente confluito nella Biblioteca Apostolica Vaticana, con segnatura Vat. Lat. 7780.
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uno corpore» (Col. 3, 15). Secondo la tecnica del sermo modernus10, seguendo come modello la consuetudine del suo maestro Bernardino da Siena di fare delle prediche «tanto bene partide»11, Giacomo articola il discorso in cinque punti, dei quali gli ultimi due non verranno sviluppati12. I temi sono: la magnificenza della pace («quantum ad pacis magnificationem»), la sua conservazione tra i cittadini («quantum ad eiusdem inter cives conservationem»), il suo vincolo («quantum ad omnium obligationem»), e gli aspetti mancanti riguardanti la sollecitazione («quantum ad omnium provocationem») e il compimento della pace («quantum ad omnium bonorum pro ea consummationem»)13. Per Giacomo la pace rappresenta il tesoro più prezioso: è un thesaurus da cui tutti naturaliter sono attratti14; lo stesso Cristo – continua il frate piceno – sopra ogni cosa onorò la pace, tanto che del Figlio di Dio si dice: Ecce rex pacificus15. Tuttavia, la pace ha diversi aspetti connessi: dopo averne esaltato il valore, l’attenzione passa alla sua conservazione inter cives,
10 Il sermo modernus si sviluppa o per la divisione in diversi membri delle parole che compongono il thema, oppure con la distinctio dei molteplici significati che si possono attribuire a una sola delle parole tematiche. Dopo l’introductio, lo sviluppo del tema consisteva di norma in tre o quattro parti principali, ovvero delle articolazioni del versetto scritturistico ciascuna delle quali si poteva a sua volta suddividere in altre distinzioni o dilatazioni. Al corpus del sermone seguiva infine la conclusione. Cfr. C. DELCORNO, La predicazione nell’età comunale, Firenze 1974, pp. 15-19; D. PACETTI, L’importanza dei “Sermones” di S. Giacomo della Marca, «Studi Francescani», 14 (1942), pp: 125-168: 127. 11 «E poi erano tanto bene partide quelle sue prediche, che ogniuno de ogni qualità ne portava a caxa»: Iacobi de Marchia Sermone e predica ad honore e laude de Santo Bernardino, ed. C. DELCORNO, in DELCORNO, Due prediche volgari di Jacopo della Marca recitate a Padova nel 1460, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti», 128 (1969-70), pp. 135-205: 178. 12 «De aliis duabus principalibus pro nunc dimictemus»: Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., I, p. 350. Non è insolito imbattersi in alcune prediche che non vengono concluse, a motivo della natura dinamica del dettato o dei rimandi ad articoli di altri sermoni, utilizzando il termine require, nei quali rintracciare punti simili. 13 Ibid., p. 341. 14 Ibid., p. 342. Il concetto viene espresso in modo esemplare nel secondo sermone sulla pace, il De honorificentia pacis et indulgentie, laddove Giacomo si abbandona a una sorta di cantico dell’intera creazione: «Et tantum bonum est pacis quod etiam infideles et ydolatre et quilibet peccator pacem querunt et pacem amant; celum et terra et omnis creatura unanimiter una voce pacem clamant. Stelle clamant pacem et concordiam in se naturaliter, quia, uno discordante, celum videretur confundi; elementa clamant pacem et concordiam, quia, corrupta, dissolverentur; et finaliter arbores, herbe, animalia, maria, mercatores, cives, rustici, omnes clamant pacem et concordiam»: ibid., II, p. 398. 15 Ibid., I, p. 342.
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che per Giacomo si delinea in cinque caratteristiche. Muovendosi tra considerazioni biblico-teologiche, il Frate piceno chiama pax monastica quella interiore, che riequilibra le facoltà interne dell’uomo, ed iconomica quella di coloro che abitano nella stessa casa. La pax politica riguarda il buon governo, mentre quella ierartica e theartica si instaura tra l’uomo, gli angeli e Dio16. La seconda parte del secondo argomento principale si sposta, più propriamente, su indicazioni pratiche riguardo la conservazione del buon ordine cittadino e della patria, che necessita di «triplicem pacem et unitatem» vissuta corde, ore, opere17. Una personale analisi, frutto di una registrazione accurata dei motivi di discordia che Giacomo deve aver incontrato durante i cicli di predicazione cittadini, individua il fondamento di un amore vicendevole nel precetto evangelico del «se diligere corde», espressione di un’amicizia autentica che si mostra «in licitis et honestis», ricorrendo anche alla citazione dei classici, ad esempio, del Laelius De amicitia di Cicerone e delle Epistulae morales ad Lucilium di Seneca18. Inoltre, l’unità dei cittadini deve essere vissuta tramite parole sincere, per scongiurare la fittizia amicizia di pericolosi falsi amici verborum, e tradursi in gesti concreti19: in un altro sermone del Domenicale il frate racconta quanto a lui accaduto proprio ad Ascoli Piceno. Ecco il passo latino: Ut in civitate Esculi post multa centenaria hominum mortuorum, in manibus meis, cuncto populo flente, omnes partes renuntiaverunt, omnes viri me obsculati sunt et super sanctam crucem iuramento firmaverunt. Et post modicum tempus numquam peius fecerunt. Quia pax, pax, et non erat eis pax vera, sed simulata20.
Questo esempio rimanda a una pratica utilizzata dal frate piceno per la conservazione della pace, quella dei “giuramenti collettivi”. Si tratta di cerimonie pubbliche con cittadini scelti, che avevano la finalità di mantenere l’armonia civitatis attraverso l’impegno per un comportamento retto
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Ibid., p. 334. Ibid., p. 345. Ibid., pp. 345-346. Ibid., p. 346. Ibid., II, p. 20. Ad esempio della “stratificazione letteraria” delle varie redazioni giacomiane si noti come nel primo abbozzo di questa predica, a c. 81r di M 42, il testo, completamente autografo, si era limitato al breve cenno «exemplum in Offida et Esculi».
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e una costante esortazione alla pace. Giacomo promosse questi giuramenti in diverse occasioni, ad esempio a Foligno nel 144521. Il frate piceno, difatti, era consapevole dei diverbi che potevano facilmente verificarsi, per questo, cogliendo argutamente il motivo della sopportazione del prossimo nell’impossibilità di ciascuno di essere senza difetto e, in questo modo, di non poter evitare anche accidentalmente motivi di offesa, Giacomo indica nel «supportare, suscipere et honorare» gli strumenti per sanare i focolai di divisione che nascono da dissidi, ignoranza, malizia, debolezza e detrazione22. Molto interessante, a questo riguardo, è l’exemplum personale che Giacomo inserisce nel secondo sermone De pace et remissione iniuriarum, nel quale escogita singolarmente una forma di honesta vindicta per coloro che subiscono un’ingiuria, quella del parcere iniuriam. Il frate piceno si presenta come un modello di sopportazione e indulgenza da seguire; nonostante egli si spenda con grande sudore nell’esercizio della cura animarum23, non è esente da denigrazioni e malevoli accanimenti24 – spesso rivol-
21 Cfr. M. SENSI, Rapporti tra S. Giacomo della Marca e le confinanti città umbre (Assisi, Foligno, Spoleto), «Picenum Seraphicum», 13 (1976), pp. 308-325: 310. Per le vicende di Giacomo in Ascoli cfr. G. FABIANI, Ascoli nel Quattrocento, I, Ascoli Piceno 1950, pp. 158159. Ringrazio p. Marco Buccolini per la segnalazione, che fa parte del suo lavoro di ricerca sulla cronologia della vita di Giacomo della Marca, che speriamo di vedere presto pubblicato. 22 Cfr. Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., I, p. 346. 23 L’impegno incessante e senza posa del Frate piceno è ricordato dal fedele compagno e segretario fra Venanzio da Fabriano nella Vita del Frate piceno, da lui scritta. Egli racconta come Giacomo, sebbene anziano e malfermo, volesse ancora compiere viaggi di apostolato all’estero, con la sensazione di perdere del tempo prezioso al di fuori della praedicatio: «Et quando era vecchio infermo quasi a presso la morte era volenteroso e desideroso essere in quelle parte quando se ricordava del fructo et grande honore de Dio che haveva facto là, et diceva ad me frate Venanzo: qua perdimo el tempo nostro». Venanzio da Fabriano, Vita Beati Iacobi de Marchia, in U. PICCIAFUOCO, La vita di S. Giacomo della Marca (1393-1476) secondo gli antichi codici di fr. Venanzio da Fabriano (1434-1506), Monteprandone 1977, p. 59. I tre diversi codici delle Vitae di Giacomo ad opera di Venanzio da Fabriano, quello Pesarese – ora Fiorentino –, quello Isidoriano e quello Vaticano, sono stati editi in T. SOMIGLI, Vita di S. Giacomo della Marca scritta da Fra Venanzio da Fabriano, O. M. Obs., «Archivum Franciscanum Historicum», 17 (1924), pp. 378-414 [= Cod. Pesarese, ora Fiorentino S. 380, della Biblioteca della Provincia toscana dei Frati Minori]; M. SGATTONI, La Vita di S. Giacomo della Marca (1393-1476) per fra Venanzio da Fabriano (1434-1506), Zara 1940 [= Cod. 2/44 dell’Archivio di S. Isidoro in Roma e Cod. Vat. lat. 10501]; successivamente pubblicati insieme da Umberto Picciafuoco, con la denominazione di Vita I, Vita II e Vita III. 24 Si noti come nel brano seguente Giacomo ripeta l’avverbio sepe per due volte, ad indicare le frequenti difficoltà incontrate.
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ti alla modalità della sua predicazione25 –, per i quali ricorre al perdono come rimedio: Ergo tu non es primus neque ultimus; crede mihi et non dubites, quia ego nulli iniuriam facio, ymo cum magno sudore laboro ut omnibus bonum faciam et tamen sepe sepe multi contra me detrahunt et me persecuntur. Statim vado ad armariolum sacristie et armo me omnibus armis vestium sacerdotalium et procedo ad campum altaris et dum elevo Corpus Christi dico: clementissime Pater, parce meis persecutoribus in celo, sicut ego in terra. Et statim sum pacificatus et possum communicare et confiteri et studere et quiete omnia facere, quia vindicavi me de inimicis meis [...]26.
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Nella sua predicazione, Giacomo è attento ad argomentare le implicazioni etico-civili del dettato evangelico dell’accoglienza e benevolenza verso il prossimo. Egli indica lo stretto legame tra l’«evangelium» che «clamat unumquemque remictere iniuriam proximo suo»27 e la stabilitas cittadina, poiché per il frate piceno il male è come una parva scintilla, la quale può divampare in magnum ignem e consumare l’intera città28, mentre dal buon esempio «multi conmoventur ad bonum», dato che un singolo che mostra misericordia per qualcuno – come Giacomo racconta in prima persona di aver visto in diverse città – può muovere l’intera città allo stesso atteggiamento29. A questo riguardo si pensi all’ufficio dei pacieri, come è noto un’istituzione costituita da cittadini di “buona fama” e al di sopra delle parti, ai quali venivano concessi poteri speciali per favorire il mantenimento della pace. A livello documentario siamo a conoscenza che Giacomo, in alcune città, intervenne suggerendo di ampliarne il numero, come, ad esempio, nel 1444 a Terni, dove il numero dei componenti passò da 12 a 1830.
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In alcuni accenni autobiografici disseminati nel sermonario, Giacomo racconta, in più di un episodio, di alcuni «dectractorum et sussurronum» che lo accusavano di non predicare il Vangelo, allontanandosi dalle Scritture. Il Frate piceno si difende rispondendo di attenersi al midollo della Parola Divina e non alla superficie: «Non debemus putare in verbis Scripturarum esse evangelium, sed in sensu; non in superficie, sed in medulla; non in sermone et in foliis, sed in radice veritatis». Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., I, p. 191; III, p. 262. 26 Ibid., III, p. 286. 27 Ibid., p. 280. È l’esordio del sermone De pace et remissione iniuriarum. 28 Ibid., p. 290. 29 Ibid., p. 291. 30 Cfr. A. GHINATO, Vita religiosa nel Quattrocento italiano. Apostolato religioso e sociale di S. Giacomo della Marca in Terni, «Archivum Franciscanum Historicum», 49 (1956), pp. 106-142; 352-390.
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Secondo Giacomo, difatti, sono le fazioni distruttrici della città e di ogni bene, che creano discordie e non permettono di far regnare la pace: in un passaggio del De partialitate, il Monteprandonese afferma, in modo ironico, che chi vuole portare divisioni attribuisce persino ai santi e agli animali la rivalità politica: «Dicunt enim quod Deus est guelfus, Ioannes evangelista ghibellinus, Baptista vero guelfus; leo vero guelfus, sed aquila ghibellinus. Sed unum vellem scire: asinus quid est? De qua parte? O insensati dicite mihi si asinus est de parte vestra»31. Un terzo aspetto della pace, infatti, è inevitabilmente legato al perdono delle offese, inserito nell’ultimo articolo principale sviluppato nel sermone, sui “vincoli” della pace. In un lungo elenco che il Frate piceno denomina i signa amoris, vengono descritti nove aspetti del perdono. Si sottolinea, in particolare, come il perdono autentico debba essere anche “dimostrato”, per questo va espresso «cum verbis», «in aspectu» e «in gestu», poiché «odium et amor in vultu relucent»32. Il perdono deve essere accompagnato anche da un impegno tangibile, un’opera di carità: è quello che Giacomo indica con il termine operatione, ultimo dei nove segni. Richiamandosi all’immagine paolina della lettera ai Romani delle membra unite le une alle altre (Rom 12, 4) e paragonando il proprio fratello che pecca a una parte inferma dell’unico corpo, ciascuno è tenuto ad aiutare e perdonare il prossimo «currentem et penitentiam agentem et indulgentiam petentem»33, che rischia di essere soffocato dalle mani del diavolo come un uomo sommerso da un fiume. Agli occhi del Frate piceno appare maggiore la colpa di colui che non mostra il perdono rispetto a colui che ha offeso, poiché, mentre la divina giustizia non tarderà a perdonare quel peccatore che chiede clemenza, non sarà invece benevola verso chi si sarà mostrato così duro e crudele34. Così scrive al termine del sermone con toni accorati: Quia si esset unus peccator qui interficeret Virginem et filium eius et omnes angelos et sanctos et tamen diceret: o piissime Deus, doleo de tanto malo, parce mihi! Statim illa divina clementia aperiret brachia sue pietatis et indulgeret sibi omnem offensam, et ipsum reciperet in suum carissimum filium35.
31 Iacobi de Marchia 32 Ibid., I, p. 349. 33 Ibid., p. 350. 34 Ibid. 35 Ibid.
Sermones Dominicales cit., II, p. 24.
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Il tema de pace nella predicazione del Marchigiano è connesso a un’immagine, che Paolo Evangelisti in un magistrale contributo non esita a definire imago politica di Giacomo: la Passione di Cristo. Per il frate la Passio è, secondo Evangelisti, «speculum del perfetto civis»36: la pace si ottiene perdonando e il perdono si offre e si riceve per la Passione di Cristo. Gli esempi sono numerosi. Nei tre sermoni de pace ricorrono diversi exempla che hanno la finalità di muovere a compassione l’uditorio e comprovare l’effetto positivo delle conseguenze della pacificazione. Nel 1425 a Norcia, durante una predicazione de passione et pace, Giacomo viene a conoscenza dello straziante episodio di un giovane barbaramente ucciso. Il frate piceno, in pergulo, al padre del ragazzo, che in lacrime era presente alla predica, chiede di perdonare una tale scelleratezza pro amore del crocifisso, offrendosi di prendere il posto del figlio37. Un altro episodio si situa durante una delle predicazioni di Giovanni da Capestrano a L’Aquila, quando diciotto omicidi giunsero in una certa chiesa a Monte Reale per chiedere perdono a coloro che avevano subito il delitto. Qui il crocifisso si volse prodigiosamente verso di loro, quasi a indicare di concedere il perdono38. La modalità della supplica per l’indulgenza è la stessa di un altro episodio: il penitente si mostra denudato, legato e, con una cinghia di cuoio in bocca, chino in ginocchio. Questa volta la scena si svolge tra un uomo e l’omicida di suo fratello: il perdono è faticosamente donato grazie alla passio Christi che viene invocata per compiere l’eroico gesto. Inoltre,
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P. EVANGELISTI, ‘Quis enim conservat civitatem, status et regimina?’. Il linguaggio politico e la pedagogia civile di Giacomo della Marca, in Gemma Lucens. Giacomo della Marca tra devozione e santità. Atti dei convegni (Napoli 20 novembre 2009, Monteprandone 27 novembre 2010), cur. F. SERPICO, Firenze-Monteprandone 2013, pp. 164-172: 164; pubblicato anche in Sui fondamenti del governo della civitas e della Res Publica. Note sul linguaggio politico di Giacomo della Marca, «Pensiero politico medievale», 7 (2009), pp. 127-144. 37 Cfr. Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., II, pp. 396-397. L’episodio mostra non solo il senso spirituale del gesto di Giacomo, ma anche l’impegno concreto di assistere l’uomo per tutto il tempo della vita del francescano: «Et dum mecum cum existens in pergulo rogavit ut pro amore illius crucifixi, qui pro nobis mortuus est, quod parceret inpiis tantam insupportabilem iniuriam, inrecuperabile dampnum et reciperet me in filium loco filii sui cum ipsum nutrire conarer omnibus diebus vite mee». 38 Ibid., II, p. 396. L’exemplum ci fa sapere che gli omicidi presero la decisione di andare a Monte Reale, un borgo non distante da L’Aquila, nonostante il parere contrario del Capestranense: «Exemplum: dum frater Ioannis de Capistrano predicaret in civitate Aquile, circa decem et octo viri homicide contra voluntatem predicti fratris venerunt ad Montem realem in quadam ecclesia prope portam terre ad suos inimicos pro indulgentia et factus concursus populi ad illos ducti fuerunt inimici ipsorum [...]».
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la forza prodigiosa della passione sembra rivestire la capacità di “ripristinare” il tessuto sociale dilaniato, se porta anche all’accoglienza come fratello dell’omicida perdonato, rendendolo partecipe dell’eredità39. D’altra parte, a proposito d’immagini significative rintracciabili negli scritti di Giacomo, oltre al perfetto civis, vi è quella del perfetto rector. Il gubernator civitatis dovrebbe assomigliare curiosamente a una gallina, secondo il frate piceno; infatti, la gallina è un animale dalle molte virtù, come si legge in un passo autografo appuntato nel margine inferiore di M 46:
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Nota quod gallina habet septem proprietates: prima, circa pullos est avis pya; secunda, sub alis fovet eos; tertia, infirmatur propter eos; quarta, invenit cibum et vocat eos; quinta, defendit cibum cum alis; sexta, habet plumam hyspidam; septima, habet vocem raucam propter clamorem; octava, semper respicit in altum pro milvo. Significat rector: circa suos cives et subditos debet esse iustus et pyus; secundo, retinere eos sub alis iustitie; tertio, plus utilitatem communem quam suam debet inquirere; quarto, invenire viam et utilitatem rei publice ad quam vocet omnes cives; quinto, defendere debet eos sub alis; sexto, debet esse hyspidus et durus contra malos; septimo, debet esse raucus, id est habere sollicitam curam, sicut Paulus; octavo, debet a longe respicere rector ne irruat malum in regnum suum et tunc iustitia ante eum ambulabit et ponet in via gressus suos [Ps 84, 14]40.
Questo passo autografo, di grande impatto e suggestione, è di estrema importanza per la nostra angolatura poiché riassume la concezione del Frate piceno sulla gestione del governo e della pace. Caratteristiche personali del rector per esercitare in modo appropriato l’ars gubernandi sono l’amorevolezza, la custodia della giustizia, la ricerca del bene comune, delle
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Ibid., p. 393. Significativo è il dialogo in cui la passio Christi viene invocata sia dall’assassino per implorare il perdono, sia dalla vittima per chiedere la forza di perdonare e non cedere all’ira, utilizzando la spada già sguainata. Giacomo inserisce l’exemplum nel contesto dell’articolo del sermone sull’utilità della pace, e mostra come i gesti di perdono possano ottenere la liberazione delle anime dal Purgatorio: «[...] ego sum interfector tui fratris, mortem mereor, sed pro paxione Christi parce. Et ter tentatus interficere ipsum, gladio evaginato et exclamans: passio Christi adiuva me, et contritus miles solvit manus eius et corrigiam et amplexatus est eum pro Christi passione et induens ipsum vestibus suis dicens: parcat tibi Deus in celo sicut ego in terra; sed postquam recepisti a me misericordiam, te in fratrem meum recipio loco illius et dabo tibi partem hereditatis». 40 Monteprandone, Museo civico, M 46, c. 53r. Ora la traduzione in italiano si può leggere in T. LUCCHETTI - F. NOCCO, A convivio con Giacomo della Marca. Un inedito da “gustare” del Santo di Monteprandone. Presentazione di L. TURCHI, Ancona 2015, pp. 4849.
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vie percorribili e dell’utilità della res publica, la difesa dei cives, la fermezza contro coloro che attentano alla stabilitas, l’attenzione e la sollecitudine, l’ampiezza di vedute per evitare il male. In merito all’importanza della passio Christi nel corpus letterario di Giacomo bisognerà segnalare il notevole exemplum dato da quanto avvenuto nel giugno del 1426 a Camerino, laddove un magister medicus racconta al frate piceno l’uccisione di cinque suoi figli da parte di un certo Antonio, abitante di Visso41. Nella forma di una testimonianza diretta, il Monteprandonese restituisce il mosaico di una vicenda cittadina che aveva scosso profondamente il tessuto sociale camerinense: un fatto di cronaca che aveva colpito la famiglia di Azolino – questo è il nome dell’uomo – diventa per il predicatore marchigiano l’occasione per elaborare dal pulpito il tema della riconciliazione, proponendo la virtus della pace. Il perdono avviene durante la predicazione, che diventa in questo modo un momento di regolamentazione politico-sociale della vita cittadina: Giacomo, il giorno seguente al racconto, predica davanti al Palazzo dei Priori esortando i cittadini alla pace e invitando il medico che sedeva vicino a lui ad alzarsi e recarsi verso i Priori e perdonare coram populo l’omicida per amore della Passione di Cristo. Il frate piceno introduce l’exemplum richiamando l’efficacia della passio Christi, che diventa «esempio supremo di identità e identificazione dei cives-fideles chiamati a consolidare e a potenziare la res publica»42. Fino ad oggi, da una prima ricognizione43, l’unico codice che restituiva il testo era la redazione del libro di lavoro M 4244, nel quale Giacomo aveva assegnato alla mano di uno dei suoi collaboratori la stesura di questo exemplum. Ora è possibile rilevare la presenza dell’episodio di Azolino, indicato nel margine interno con la dicitura «Exemplum magistri Azolini de Camereno»45, anche nel ms. Nicholson 20 della Fisher Library University di Sidney, in Australia46. Nel codice, di chiara origine francescana, la stu-
41 42 43
149.
Monteprandone, Museo Civico, M 42, c. 264v. EVANGELISTI, ‘Quis enim conservat civitatem, status et regimina?’cit., p. 168. Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., IV (Supplemento), pp. 108-110; e nota
44 Sempre in M 42 Giacomo accenna all’esempio del medico di Camerino senza dilungarsi a scriverlo: «Exemplum de maistro Anzelino de Camberino». Monteprandone, Museo Civico, M 42, c. 343v. 45 Sidney, Fisher Library University, Ms. Nicholson 20, c. 261r. 46 Il manoscritto è stato brevemente descritto nel 1964 dalla studiosa Keith Val Sinclair: cfr. K.V. SINCLAIR, Manuscrits médiévaux d’origine franciscaine en Australie, «Archivum Franciscanum Historicum», 57 (1964), pp. 367-377.
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diosa Sinclair riconosceva espressamente al marchigiano il sermone sulle stimmate, recante nel titulus l’indicazione dell’autore: «Sermo fratris Iacobi de Marchia de sacris stigmatibus beati Francisci»47. Analizzando le riproduzioni digitali48 è emersa l’attestazione della paternità giacomiana anche della predica de pace, segnalata come anonima, che si rivela essere un testimone inedito di uno dei sermoni del Frate piceno sul tema della pace, come si legge poco sopra l’incipit del testo, lì dove una mano coeva appunta: «Iste sermo fratris Iacobi de Marchia»49. Questa redazione di Sydney appare molto vicina a uno dei sermoni de pace del Domenicale, con verosimili operazioni di riscrittura mutuate dal Quaresimale: ripercorrendo il prospetto iniziale, il testo del ms. Nicholson 20 è pressoché simile alla terza predica domenicale de pace, cioè il sermone De pace et remissione iniuriarum50, dal quale riprende gli stessi argomenti principali con le rispettive articolazioni, che però omette l’exemplum di Azolino. In questo prospetto51 si può vedere come le tre redazioni dei sermoni de pace di M 42, del Domenicale e del ms. Nicholson 20 abbiano un proprio versetto come thema iniziale e un diverso explicit, ma conservino la medesima articolazione principale, seguita anche nello svolgimento dei singoli punti52:
47 Sulla natura della raccolta Sinclair si esprimeva in questi termini: «Quant aux autres sermons du ms., la plupart sans attribution, je ne sais pas si l’on a affaire à un sermonnaire écrit par un seul auteur ou à un recuil de sermons disparates». Ibid., p. 372. 48 Questo lavoro fa parte della ricerca della mia tesi di dottorato: L. TURCHI, L’immagine di san Francesco nei sermoni di Giacomo della Marca, Pontificia Università Antonianum, Roma 2015, in fase di pubblicazione. Si desidera ringraziare a questo riguardo Jacqui Grainger e Julie Price della Fisher Library University of Sydney per la gentilezza e la disponibilità con la quale hanno provveduto alla digitalizzazione del codice, grazie alla quale è stato possibile questo studio. 49 Sidney, Fisher Library University, Ms. Nicholson 20, c. 261v. Il codice contiene una prima tabula con i sermoni quaresimali di Bernardino da Siena, alla quale segue una tabula brevis, nella quale si indicano undici titoli di sermoni, i primi due dei quali, Sermo de pace e Sermo de stigmatibus beati Francisci, collegati da un tratto verticale di penna, hanno nel margine interno della carta un’ulteriore attribuzione esplicita al frate piceno: «et sunt de fratre Iacobo» (c. 258v). 50 Cfr. Iacobi de Marchia Sermones Dominicales cit., III, pp. 280-293. 51 Con la sigla FG si indicano gli interventi di Frate Giacomo. 52 La stessa cosa vale anche per il Quaresimale: cfr. D. LASIÆ, Sermones S. Iacobi de Marchia in cod. Vat. lat. 7780 et 7642 asservati, «Archivum Franciscanum Historicum», 63 (1970), pp. 476-565: 555.
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Ms. A: De pace et remissione iniuriarum [Sermones dominicales, ed. LIOI, III, n. 91, pp. 280-293]
<E>cce quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum, Ps. 141 [132]. Sostituito da FG con: Ad Phil. 4: Pax Dei, que exsuperat – pro temate – custodiet corda vestra et intellegentias vestras in Christo Iesu.
Pacem meam do vobis, pacem meam relinquo vobis, Io. 21.
Tradidit eum tortoribus donec reddat universum debitum, Mt. 18.
Inc.: Angelicam victoriam pacis (agg. FG) opportunum vincere prelium et quia inter bonos et malos semper erit odiosum prelium, quia mali semper inique consuncti sunt persequi iustos… Dicit ergo ecce quam bonum, ubi tres contemplationes de ista sancta indulgentia et pace facemus:
Inc.: Quia filius Dei missus a patre ad reconciliandum mundum et pacem contexendum quia in primo adventu per profetiam dictum fuit: Ecce rex pacificus… Ps. 141: Ecce quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum; et hoc quoniam ad tria:
Inc.: Karissimi in Christo, in isto sacro evangelio tria principalia ponit magister noster benedictus Iesus Christus. Et ideo proter tria magnifica bona debet unusquisque parcere proximo offedenti offensam, ut sibi Deus remictat universum debitum suorum peccatorum considerando istum sanctum parcere:
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1. 2.
3.
Quantum sit utile (agg. in marg. int. FG) et bonum cui indulgentis - ecce quam bonum; Quantum sit utile et bonum proximi - et quam iocundum; Quantum sit placibile Deo habitare fratres in unum. Quia ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo ibi sunt in medio eorum (quia-eorum agg. FG in marg. inf.)
Expl.: Exemplum de magistro Anzolino de Camberino medico; exemplum de illa nobili matre de Salerno, que pepercit militi rustico interficienti duos suos filios milites53.
1.
Quanto sia ad se utilita;
1.
Quante sibi sit utilitas;
2.
Quanto sia bene del proximo;
2.
Quantum sit bonum proximo;
3.
Quanto sia piacere de Dio.
3.
Quantum placeat Deo.
Expl.: Ita vos dulcissimi filii indulgere dignanimi propter Christum, qui vos et me conducat ad vitam eternam. Amen.
Expl.: Et ita vos, karissimi et dilecti in Christo filii; parcamus omnibus, ut gaudium maximum sit in paradiso coram Deo et angelis suis et recipiamus remissionem peccatorum, intercedente Christo pro nobis, qui est benedictus in secula. Amen.
Come è evidente, la presenza delle prediche di Giacomo della Marca in un manoscritto miscellaneo del XV secolo conservato oggi a Sydney, testimonia nelle raccolte di materiali predicabili l’interesse in antologia di alcuni sermoni del Frate piceno, riconducendo alla discussione sulla fortuna letteraria di excerpta giacomiani nella loro prima redazione tràdita dai 53
Qui Giacomo rimanda a c. 266 del primo sermone de pace di M 42 (c. 264v nella numerazione moderna), lì dove compare la trascrizione dell’exemplum di Azolino.
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libri di lavoro. Una fortuna testimoniata anche dalla circolazione di materiali del Marchigiano mentre egli era ancora in vita, come abbiamo potuto attestare in una raccolta di prediche rintracciate a Praga54, con la copia del codice datata 1469, e da un recente nuovo esame di un manoscritto della Bodleian Library dell’Università di Oxford, nel quale sono riportati due sermoni di Giacomo, al termine dei quali una mano anonima appone l’anno 147155. Tutto questo non fa che aprire futuri spazi per ulteriori indagini sui testi del Frate piceno.
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Concludo con una suggestione riguardante la pace e il legame tra la città di Ascoli e il Frate piceno che si preoccupa costantemente per essa; nell’inedito processo di canonizzazione ascolano di Giacomo, del 15251526, il canonico della chiesa cattedrale di Ascoli Piceno, Alexander Ioannes Petri Lucae, uomo giunto alla veneranda età di novant’anni, dichiara di aver conosciuto personalmente il frate e racconta che in una circostanza, a Roma, essendo alla presenza del cardinale Francesco Piccolomini, dell’ascolano Tommaso Guiderocchi e del frate piceno: Ipse beatus Iacobus vocavit dictum testem et dixit eidem: “Come sta quella città d’Ascoli?”. Et ipse – cioè il canonico – respondit: “Sta bene et sta in pace”. Et dictus beatus Iacobus se retro revolvit in praesentia praefatorum et incepit flere dicendo: “Povera città che mo sta in arme”. [...] et repperit ipsam civitatem esse in armis causa partialitatis56.
54
Praga, Biblioteca del Museo del Capitolo metropolitano, ms. O 47, c. 119v. Mi permetto di rimandare a L. TURCHI, Cherso e Praga: Giacomo della Marca in due inediti itinera, in L’Osservanza francescana fra Italia ed Europa Centrale: istituzioni, società e religiosità. Atti del Convegno internazionale a Szeged - Ungheria (27-29 novembre 2014), in corso di pubblicazione. 55 Oxford, Bodleian Library, Ms. Canon. Misc. 34, c. 178v. In un recente viaggio di studio, a una prima analisi, ho potuto verificare che il codice, il quale si presenta come un libro di materiali predicabili con una tabula iniziale dei titoli, oltre ai sermoni di Giacomo, contiene anche alcune prediche di Roberto da Lecce e di Giovanni da Capestrano. 56 L’episodio è stato trascritto in LASIÆ, De vita et operibus cit., p. 388; FABIANI, Ascoli nel Quattrocento cit., p. 165. Il lavoro sul processo di canonizzazione ascolano di Giacomo della Marca, che sta curando Francesco Nocco e che speriamo di vedere presto pubblicato, aprirà nuove prospettive alla ricerca.
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Lectio magistralis
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Ringrazio i giurati e i promotori del Premio per l’onore che mi fanno. Spero che non abbia fatto loro velo l’amicizia per la persona. L’occasione, poi, mi è grata perché allude ai miei studi francescani. Ringrazio i presenti per la pazienza con cui ascolteranno questa lectio magistralis. Lectio magistralis che, data l’età ormai inoltrata di chi vi parla, ha il sapore del consuntivo. Perciò i ringraziamenti che voglio dichiarare sono molti altri. Ringrazio la buona sorte per avermi concesso la fortuna di nascere al momento giusto e di trovare un lavoro molto piacevole, gratificante, denso di rapporti umani, infine fisso e ben retribuito, il che non guasta. Fortune che non capitano più e si mischiano alla coscienza di un fallimento personale, collettivo, nazionale. Ringrazio gli studenti di Perugia, Venezia, Padova, Roma che anno dopo anno mi hanno insegnato a insegnare. Ringrazio i colleghi e il personale degli istituti e dipartimenti nei quali ho compiuto i passi della mia vita di lavoro. Tutti mi hanno accolto e trattato con amicizia e rispetto. Dovessi scegliere i miei punti di riferimento nelle tre università in cui ho principalmente lavorato, ossia Perugia, Venezia e Padova, nominerei Alberto Caracciolo, Gherardo Ortalli e Antonio Rigon, capaci di una leadership insieme organizzativa, istituzionale, scientifica, morale. Quanto al personale d’ufficio voglio fare qualche nome, poiché non capita spesso di darne ricordo: Leo Merli e Willelma Rosignoli, Donatella Vianello e Betty Conte, Alessandra Targa e Lorenzo Zanetti, la cui capacità di sopportazione – loro e di tutti gli altri collaboratori – ho più volte messo a dura prova. Ringrazio gli studiosi con cui ho condiviso interessi e attività di ricerca: nella paleografia, nella diplomatica, negli studi francescani, nello studio della storia politica e sociale e religiosa del medioevo. Come posso, con loro, concedermi uno dei miei piaceri preferiti, quello di nominare?
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Impossibile. Facciamo così: mi limito ai frontespizi. Nomino cioè coloro, e non tutti, insieme ai quali ho scritto o curato qualcosa. Sono Serenella Baggio, Adriano Bei, Maria Immacolata Bossa, Maria Teresa Brolis e i sodali della Matricola femminile bergamasca, Severino Caprioli, Cinzia Cardinali, Lucia Fiumi, Chiara Frugoni, Mahmoud Salem Elsheik, Andrea Maiarelli, Daniele Marchesini, Laura Marconi, Renzo Nelli, Federica Parcianello, Francesco Pirani, Emanuela Prinzivalli, Eleonora Rava, Glauco Sanga, Gian Paolo Scharf, Gionata Tasini, Xenio Toscani, Loriano Zurli. Poi ci sono gli ypographeis, cioè coloro che, ben più onerosamente, hanno scritto con me e per me, supportando con la loro energia e competenza la mia pigrizia e facendomi così fare una figura molto migliore di quella che avrei fatto da solo. Verso i quali dunque sono ancora più riconoscente. Sono Massimiliano Bassetti, Gian Paolo Bustreo, Nicolangelo D’Acunto, Nicoletta Giovè, Erminia Irace, Sonia Merli, Alessandra Panzanelli, Daniele Sini. Manca, con altri, Marino Zabbia, perché alla fine lo lasciai solo, a mio disdoro. Ho fatto anch’io, curando le pubblicazioni a me affidate, da ypographeus per molti altri, ad esempio per i contributori del Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria, facendoli (se non m’inganno) scrivere meglio; mi basta il fatto che nessuno di loro abbia inteso quei miei interventi come un’indebita prevaricazione. Collaborare, lavorare insieme, dare una mano è uno dei maggiori privilegi di questo lavoro. Mi piace allora ricordare le iniziative collettive alle quali ho partecipato o sto partecipando. Prima fra tutte il seminario permanente Alfabetismo e cultura scritta, nel quale mi è stato maestro e compagno Armando Petrucci. Ma prima ancora le carte di Sassovivo, con Giorgio Cencetti e Alessandro Pratesi. E poi: i libri di famiglia, con Angelo Cicchetti e Raul Mordenti. Le scritture popolari e in specie della Grande Guerra, con il gruppo roveretano dei Materiali di lavoro, Quinto Antonelli e Antonio Gibelli. Le pubblicazioni del Dipartimento perugino, con Vittor Ivo Comparato; del Dipartimento veneziano, con Gherardo Ortalli e Marco Pozza; del Dipartimento padovano, con Antonio Rigon e Donato Gallo. Il Bollettino e i libri della Deputazione umbra, con Roberto Abbondanza, Rita Chiacchella, Romano Cordella, Carla Frova, Paola Monacchia, Maria Grazia Nico, Mario Roncetti, Luigi Tittarelli et alii. La Scuola storica nazionale per l’edizione delle fonti documentarie presso l’Istituto storico italiano per il medioevo, con Antonio Ciaralli, Giampaolo Francesconi, Antonella Ghignoli e Paolo Mari. Il Centro studi Santa Rosa da Viterbo, con Alessandro Finzi, Eleonora Rava e Filippo Sedda. La collana 750 pagine per 750 anni. La Misericordia Maggiore nella storia di
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Bergamo, con Maria Teresa Brolis e Francesca Magnoni, Paolo Cavalieri e Gianmarco De Angelis. Un’altra forma di collaborazione che mi ha fatto molto crescere è quella con le “mie” tipografie. Ci sono varie specie di tipografie. Ci sono le tipografie colte e le tipografie incolte: quelle cioè che mantengono e praticano l’ars artificialiter scribendi, l’arte di far libri, nella sua profondità storica; e quelle che pensano che per far libri basta avere un buon computer e spingere un paio di tasti. Ci sono le tipografie simpatiche e le tipografie antipatiche: quelle cioè che ti accolgono a braccia aperte e hanno piacere di lavorare con te, che sanno dirti di sì e, quando occorre, di no; e quelle che dicono ah, non si può, che ti mandano un paio di bozze e si lamentano se fino all’ultimo chiedi di ritoccare qua e impaginare meglio là (non parlo delle correzioni straordinarie, sulle quali, da curatore, sono severissimo). Ci sono le tipografie pazienti e impazienti, le tipografie tolleranti e intolleranti, le tipografie modeste e immodeste, e così via. Mettete insieme le virtù e avrete il profilo delle tipografie migliori. Per me sono state due. Una, non più attiva, fu la tipografia Porziuncola di Santa Maria degli Angeli, che stampò il Codice diplomatico del Comune di Perugia: un’opera per metà mia e per metà loro, soprattutto di Federico Aristei, sapientissimo maestro della monotype e caro amico compianto. L’altra, tuttora viva e vegeta benché ultracentenaria, è la Pliniana di Selci Lama, che molti dei presenti conoscono: un’oasi di cultura, di serenità e di laboriosità. Sono loro che mi hanno insegnato la bellezza del loro mestiere: la passione di far libri, e di farli bene. Un’altra mia passione, o meglio aspirazione, è quella di scrivere bene. Si dirà: ma questa è una conditio sine qua non, un requisito minimale. Non è proprio così, sia in generale, dato che capita di leggere testi alquanto, come dire, sbrigativi; sia in particolare, a intendere “scrivere” nel senso più ampio: costruire un testo o un libro, ossia costruire un itinerario e portare per mano il lettore a percorrerlo. Per esempio, non mi è mai piaciuta l’articolazione consueta dei saggi con documenti: prima il saggio, poi l’appendice. Cosa tristissima, perfino nel nome. Eppure il percorso che ha portato a quel saggio è esattamente l’opposto. Che si possa fare diversamente lo dimostrano gli storici della lingua o, che so, gli epigrafisti: prima il documento, poi quello che tu, autore, ne pensi e ne deduci. Non è una cosa banale, tornerò sull’argomento. Ma scrivere bene nel senso costruttivo vale anche per le edizioni di fonti. Se uno ha la fortuna di confrontarsi con fonti le più diverse, deve ogni volta trovare i modi migliori per rendere, di quella fonte, l’intero significato e l’intero spessore. Che questo possa comportare una deviazio-
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ne rispetto alle norme e alle tradizioni ricevute, è un bene e non un male. Lo stesso vale per gli indici, un punto che non tocco perché la farei lunga. Ma la scrittura consueta per gli studi di storia è quella saggistica. Essa è già di per sé una scrittura difficile. Non la rendiamo ancora più difficile. Sarebbe bello rendere semplice ciò che è complesso, facile ciò che è difficile. Da giovane non ero di quest’idea. Nel 1974, la mia relazione sarnanese sul Manifesto francescano di Perugia del 1322 pubblicata in «Picenum seraphicum» aveva 58 pagine con 238 note, molte delle quali belle lunghe. Quel saggio ha avuto un’udienza minima: l’ho visto citato qualche volta, ma senza che ne fosse recepita la portata, che naturalmente era importantissima e rivoluzionaria. Poi ho capito perché: c’erano troppe cose, affastellate con una sorta di horror vacui. Cosicché decisi che cose tanto esagerate non facevano per me. Altra esperienza giovanile presto abbandonata, per fortuna, fu quella della scrittura polemica. Mi capitò con le mie discipline professionali, la paleografia e la diplomatica. Pochi, per fortuna, ricordano un paio di mie uscite lancia in resta “per una nuova paleografia” e “per una nuova diplomatica”. Poi ho capito che molto più dei proclami conta il lavoro, senza dire che personalmente non amo litigare. A parte queste asperità giovanili, esistono alternative alla scrittura professionale, quella saggistica? Una è la scrittura erudita, che è una scrittura programmaticamente modesta, paziente, aderente al suo oggetto. Non pretende gli onori della ribalta, se ne sta in un cantuccio sapendo che alla lunga resisterà e si rivelerà utile, magari più della letteratura saggistica, che dura lo spazio di un mattino. Qui ho avuto di che esercitarmi. Ecco così le edizioni di carte (umbre, Perugia Sassovivo Assisi, e non, Fabriano Venezia Padova Cividale del Friuli); le edizioni di singoli pezzi (dagli autografi di frate Francesco e di frate Leone alla Matricola di Bergamo, dal testamento di Enrico Scrovegni e, ora, di Marco Polo ai Partiti di scacchi di Luca Pacioli, dalle scritte della Fontana Maggiore di Perugia a qualche diario della Grande Guerra); le descrizioni di codici statutari (di Perugia, di Siena, di Montone) e di singoli manoscritti (da Assisi a Gorizia a Messina). Un’altra alternativa alla scrittura saggistica, che è seria e piena di note, è la scrittura leggera, che in verità è una scrittura saggistica che non vuole apparire tale. La mia prova maggiore è La scrittura dell’italiano, quel libro pubblicato dal Mulino nel 2000, con Totò e Peppino in copertina – che è, si sappia, una dedica silenziosa a mio padre. Su un numero dell’Espresso comparve un’intervista a Ottavia Piccolo. L’intervistatore le domanda: «che cosa sta leggendo?» Risposta: «La scrittura dell’italiano» eccetera, e io
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andai in paradiso. Per ricadere subito a terra: «è un po’ difficile, ma ce la farò». Ma come difficile, ce l’avevo messa tutta... Arte ardua, quella di scrivere semplice. (Sulla genesi lontana di questo libro, una piccola annotazione autobiografica. Nel 1974 la Facoltà di lettere e filosofia di Perugia mi affidò l’incarico dell’insegnamento di paleografia e diplomatica. Preside era Francesco Ugolini, che v’insegnava filologia romanza e storia della lingua italiana. Tanto autorevole come docente, quanto autoritario come preside. A me, giovane combattente per la democrazia, Ugolini appariva lo specchio di tutte le nefandezze accademiche. Dopo l’ennesimo incontro-scontro, mi chiamò da parte. Si scusò di non potermi donare una copia del suoi Documenti volgari italiani, primo e unico volume dell’Atlante paleografico romanzo, uscito nel 1942: tutta la tiratura era nei magazzini della Biblioteca universitaria di Torino, bombardata in quello stesso anno. Mi disse che da sempre desiderava confrontarsi, su quei documenti, con un paleografo. Adesso che c’è lei, potremmo fare insieme un corso seminariale per gli studenti biennalisti. Dopo tanti no, dissi un sì emozionatissimo, e il corso si fece. Oh gran bontà de’ cavallieri antichi...). Scrivere erudito, scrivere leggero. Una miscela rischiosa, per la quale mi sento e mi so debitore del mio maestro, Ugolino Nicolini. Di lui scrissi un breve profilo in premessa alla sua edizione della trecentesca Descriptio Terrae Sanctae di fra Giovanni di Fedanzola, che Ugolino lasciò incompiuta e che Renzo Nelli portò a termine nel 2003. Scrivevo della consonanza che egli dovette sentire con quel confratello di sei secoli prima, che mostrava molti caratteri che erano suoi, di Ugolino: «la curiosità penetrante e vivace, il gusto di vedere capire descrivere, il piacere di conoscere e raccontare persone, l’attitudine a mettere insieme i dati d’esperienza e una bella erudizione» (ho minimamente adattato la citazione). Ugolino era un maestro di scrittura, capace di alternare pagine di densissima erudizione e pagine sorridenti, argute, piene di umanità. Una lezione di stile. Era anche un maestro di storia, uno fra i molti rappresentanti della medievistica cattolica che tenne il campo in Italia nel dopoguerra, per un buon terzo di secolo; una generazione di studiosi sulla quale bisognerà tornare a riflettere. Si pensi ai convegni della Mendola, alla «Rivista di storia della chiesa in Italia», alla collana Italia sacra. Personalità eponima, Paolo Sambin, il cui ruolo fu consacrato dalla formula della Sambin revolution coniata da Robert Brentano. In quegli anni molti, a cominciare da Ugolino Nicolini, lavorarono come lui, mettendo insieme la tradizione positiva dello scavo archivistico e la dominante ispirazione idealistica dell’interpretazione storica. Una storiografia cattolica, si diceva, ma laica, non confes-
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sionale né apologetica. È facile vedervi un riflesso del Concilio Vaticano secondo. Il documento, naturalmente sottoposto a quella che si chiamava “critica delle fonti”, serviva fra le altre cose a garantire di quella storiografia la neutralità, la non-strumentalità. Cose non banali, insomma; che, per tornare ai nostri temi, hanno imposto un modello di ricerca che dura ancora oggi. Strumento e forma preferenziale, il saggio con appendice documentaria che si diceva. Lo stesso Brentano però cambiava passo, là dove riconosceva che a farsi fonte sono non soltanto i contenuti oggettivi della documentazione, ma la documentazione stessa, in quanto risultato di una prassi, di un comportamento, di una strategia. Ecco la “chiesa notarile”: un’istituzione che, ovviamente perché condizionata dal contesto, decide di affidarsi ai notai per provvedere alle proprie esigenze documentarie; esigenze a loro volta ineludibili, fondanti. In questo stava la differenza della chiesa italiana duecentesca rispetto a quella inglese, oggetto delle Due chiese di Brentano. I modi rispettivi della documentazione incidevano sulla stessa figura istituzionale delle due realtà, non solo sulla loro conoscibilità storica. Nella stessa direzione andavano contemporaneamente alcuni settori della medievistica italiana, che valorizzavano il fatto documentario – un fatto complesso, comprensivo di committenza, scrittura, conservazione, uso – prima, per così dire, della sua strumentalizzazione a fini di conoscenza storica. Mentre la nouvelle histoire e i suoi epigoni italiani si lanciavano in formule rivoluzionarie (del tipo «ogni documento è un falso», «è lo storico che crea le sue fonti»), altrove andava maturando con tutta calma quello che definirei il rispetto che si deve alla documentazione, al suo intrinseco modo di farsi, alle volontà che l’hanno determinata e l’hanno conservata: si torni a leggere, tra gli altri, un bellissimo breve articolo di Giovanni Miccoli negli «Studi storici» del 1984. Non c’è dubbio che questo atteggiamento “rispettoso” sia il risultato di un circolo virtuoso tra la medievistica e la diplomatica. La diplomatica, infatti, si era mossa. Una funzione importante ebbe lo studio (formale e tipologico, come vuole la disciplina) della documentazione comunale: grande fu, in particolare, l’impatto tra gli specialisti di un libro come quello di Gian Giacomo Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel Comune di Asti, del 1977. Se la diplomatica avesse continuato ad applicarsi alle produzioni cancelleresche dell’impero, del papato, dei regni (che, si ammetterà, sono produzioni e istituzioni sui generis, eppure erano assunte a canone disciplinare), sarebbe rimasta nel suo cantuccio, peraltro dignitosissimo. La diplomatica del documento comunale fu un fattore di movimento perché affrontava il pulviscolo delle istituzioni intermedie e, con ciò, la fascia documentaria anch’essa intermedia,
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dinamicissima e ricca di variazioni nello spazio e nel tempo, riflettente gli infiniti giochi tra istituzioni e notariato, tra forme politiche e forme della scrittura politica. Emergeva così l’interesse verso le procedure e soluzioni documentarie in quanto modalità tipiche del Comune per affermarsi prima, per governare poi. Da cui la rivalutazione in chiave diplomatistica della documentazione seriale, in registro, che in precedenza era sentita come corpo estraneo dalla disciplina; o ancora la rivalutazione dei libri iurium come prodotto documentario tipico e dunque fonte in sé, quali e quante ne siano le unità “informative” interne. Venivano cambiando pure le prospettive degli studi sul notariato italiano centro-settentrionale, con l’immissione di notevoli varianti all’immagine della publica fides notarile vigente fino agli anni Settanta, un po’ piatta nella sua assolutezza. Che cosa significhi questa nuova centralità del documento – nuova perché tanto diversa da quella positivistica, anzi opposta ad essa – sul nostro modo di fare storia, non lo so. Mi accontento di poco. Il documento, il registro, il libro è cosa materiale, che sta lì, che si tocca con mano. È una scrittura realizzata da quel certo scrivente in quel certo momento per soddisfare quelle certe esigenze. Il documento è uno spicchio materiale di storia: di un’ora, un giorno, un mese di storia. Guardare i documenti, leggerli, comprenderli in questo modo, almeno in prima battuta e almeno una volta nella vita, è per lo storico un buon bagno di umiltà. Se non si passa per questo momento, il rischio è quello dell’autoritarismo storiografico. Lo Storico con la S maiuscola dice (si perdoni l’esagerazione, ma la retorica e la dialettica hanno le loro esigenze): l’ho letto, l’ho capito, ecco come la penso; inutile perder tempo. Perché, ad esempio, non si ama riprodurre? Anche in certa filologia. Il perché è chiaro: il Testo, con la T maiuscola, è creatura del Filologo, con la F maiuscola. Cose del passato, per fortuna. Ma non sarà inutile invitare a una storiografia empirica, basata sul reale, basata sul visibile. Una storiografia che sappia guardare. Qualcuno parlò della paleografia come scienza dello spirito. Ma la paleografia, la diplomatica, la stessa storiografia sono scienze dell’occhio. La parola intelligere, lo sappiamo, viene da intus legere; non è troppo chiedere che, prima, si proceda al foris legere, con altrettanta sapienza e curiosità. L’invito è a una storiografia descrittiva, capace e vogliosa di descrivere; per uno avvezzo alle edizioni è una sorta di bandiera, se è vero che in latino medievale describere significa trascrivere. L’invito è a stare coi piedi per terra, a non darsi troppe arie. Così la pensava anche Federico II, che nel prologo al De arte venandi cum avibus coniava parole d’oro: «Intentio vero nostra est manifestare [si noti il verbo] solum ea que sunt sicut sunt». Proviamoci, è un buon esercizio di misura e di realismo: far vedere le cose che sono così come sono.
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INDICI
a cura di Francesco Veronese
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CITTÀ DEL VATICANO Archivio Segreto Vaticano Collectoriae, 250: 276n Reg. Supplic., 185: 235n Biblioteca Apostolica Vaticana Vat. lat. 7642: 317 – 7780: 317 e n – 10501: 320n
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FABRIANO (AN) Archivio Storico Comunale Brefotrofio, perg. 766: 257n Clavellorum, 690: 221n – 693: 224n Corporazioni religiose, 636: 258n, 259n Registri, vol. 700, n. 8: 256n, 257n – vol. 700, n. 9: 256n
FALCONARA MARITTIMA (AN)
Biblioteca Storico Francescana e Picena ms. F1: 316n, 327
FIRENZE
Archivio di Stato Provvisioni 24: 273n
Biblioteca della Provincia toscana dei Frati Minori Cod. Fiorentino S. 380: 320n
FOLIGNO (PG) Biblioteca Comunale ms. 250: 317
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
Sezione di Archivio di Stato Fondo notarile, 99: 222n Riformanze, 24: 236n – 26: 237n
MILANO
Biblioteca Ambrosiana Ambr. B 116 sup.: 281n
MONTEPRANDONE (AP)
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Archivio Privato Dal Verme Dal Verme: 281n
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Museo Civico ms. 38: 316n – 42: 317 e n, 319n, 325 e n, 326, 327 e n – 46: 317 e n, 324 e n – 46 bis: 317 e n – 60: 318n
OXFORD
Bodleian Library ms. Canon. Misc. 34: 328n
PARIS
Bibliothèque Mazarine ms. 1043: 97n, 101n, 102n, 103n, 105n, 107n Bibliothèque Nationale de France Hebr. 1283: 276n
INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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PARMA Archivio di Stato Feudi e comunità, 19 (codice varanesco): 223n, 231n
PAVIA
PRAGA
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Biblioteca Universitaria Aldini 173: 97n, 100n, 102n, 103n, 104n, 105n, 106n, 107n
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Biblioteca del Museo del Capitolo metropolitano ms. O 47: 328n
ROMA
Archivio di Sant’Isidoro Cod. 2/44: 320n Biblioteca Angelica ms. 187: 317
SIENA
Archivio di Stato Diplomatico, Archivio Generale dei contratti 1240 novembre 30: 189n – , – 1253 ottobre 10: 189n – , Riformagioni 1237 Aprile 9: 188n – , – 1245 Settembre 24: 189n
SYDNEY Fisher Library University ms. Nicholson 20: 325 e n, 326 e n, 327
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
TODI (PG) Biblioteca Comunale L. Leoni ms. 112 (76): 97, 107 e n, 109n 110n, 111n, 112n, 113n, 114n, 115n, 116 e n, 117
TRENTO
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Biblioteca Comunale prov. S. Francesco Grande di Padova: 316n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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Avvertenza
Nella stesura dell’indice dei nomi di persona e di luogo sono stati seguiti alcuni criteri generali. L’indicazione delle pagine corrispondente distingue sempre la presenza del lemma nel testo principale da quella in nota apponendo, in quest’ultimo caso, una n a fianco del numero di pagina; se il lemma è presente sia nel testo che in nota, il numero di pagina figura con a fianco e n (es. 82 e n). Gli intervalli di pagine in cui un lemma compare continuativamente sono stati indicati per esteso, senza l’uso di lineette (es.: 86, 87, 88, non 86-88), riservate invece a quei casi in cui il lemma compare esattamente al passaggio da una pagina a un’altra. I nomi di persona definiti tramite un toponimo (es. Giovanni da Parma) sono stati indicizzati sotto il nome proprio (Giovanni, in questo caso), ma con un rinvio anche sotto il lemma del toponimo (Parma, v. anche Giovanni). Per i toponimi non capoluoghi di attuali province è stata indicata tra parentesi la provincia di afferenza: es. Foligno (PG); per quelli stranieri tra parentesi compare la nazione: es. Erfurt (Germania). Dove possibile, e dove indicato nel testo, sono state fornite informazioni essenziali sul ruolo storico del personaggio (imperatore, papa, vescovo, ecc.) e sulla natura del luogo (chiesa, monastero, ecc.). I papi sono indicizzati sotto il loro nome papale; quello di nascita è indicato soltanto se compare almeno una volta nel volume. Laddove un nome compaia solo in forma latina, è stato lasciato in tale forma, senza italianizzarlo. Biblioteche e archivi sono indicizzati solo nel caso in cui il loro riferimento non sia esclusivamente funzionale alla citazione di un manoscritto o documento, e in particolare se non compaiono secondo la formula “Città, Biblioteca o Archivio, eventuale fondo, Manoscritto o Documento”: es. Foligno, Biblioteca Comunale, ms. 250; in tutti gli altri casi sono stati inseriti nell’indice. Sigle utilizzate: OCist OFM OFP OSC
Ordo Cistercensium Ordo fratrum Minorum Ordo fratrum Praedicatorum Ordo sororum Clarensium
285, 286n, 288 e n, 289 e n, 290 e n, 291 e n, 292, 293n, 294 e n, 295, 296 e n, 298 Alessandro da Bologna, OFP, 308 Alexander Ioannes Petri Lucae, canonico, 328 Alfieri, Ogerio, cronista, 71n, 175 Alfonso III d’Aragona, re, 124n Alford, J.A., 96n Alighieri, Dante, poeta, 136n, 150n, 195, 264, 268, 269 e n, 270 e n, 271 Allevi, F., IXn Amari, M., 124n Amatrice (RI), 125n, 127 e n, 132, 133, 134 e n, 148 e n, 149, 151n - San Francesco, chiesa, 148n, 151n - Sant’Agostino, chiesa, 148n - Santa Maria, chiesa, 148n Ambrosioni, A., 98n Ambruoso, M., 132n Amelia (TR), v. Bartolomeo Ancidei, G., XIn Ancona, 86, 186, 187 e n, 226, e v. anche Marca Andalò (degli), Loderingo, frate, 88 Andenmatten, B., 195n Andenna, G., 36n, 45n, 47 e n, 48n, 49n, 87n, 98n, 182n, 200n, 229n Andrews, F., 64n, 174-175 e n, 176, 231n Angicourt (Francia), v. Pierre Angiò (d’), famiglia, 123n, 136 e n, 137 e n, e v. anche Carlo, Carlo I, Carlo II, Giovanna, Ludovico, Raimondo Berengario, Roberto Antonelli, Q., 332 Antonio, 325 Antonio, abate, santo, 225 Antonio, frate, 221n Antonio (Fernando) di Padova, o da Lisbona, OFM, santo, 67n, 75, 76n, 95n, 97, 98, 137 e n, 193, 194, 200, 202, 203, 211 Antrodoco (RI), 125n Anzolino, v. Azolino Apel, K.-O., 94n
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Abano (PD), v. Pietro Abbondanza, R., 332 Abramo, personaggio biblico, 113n, 114n Abruzzo, 125, 148n, 149n Accrocca, F., Xn, 7n, 40 e n, 41n, 47n Accumoli (RI), 134n Aceto, F., 133n, 145n Acquasanta Terme (AP), 128 Adda, fiume, 306 Adriano, Publio Elio, imperatore, 296n Adriano V, papa, 146 Affò, I., 66n, 68n, 72n, 73n, 74n, 78n, 82n Agello (PG), 254 Agnese di Boemia, OSC, santa, 41n, 43n Agostino d’Ippona, santo, 72, 223, 224, 291, 295 Aimone di Faversham, OFM, 37, 67n Aix-en-Provence (Francia), 219n, 276 Alatri (FR), 250n Albenga (SV), 249, 250n, 251 - San Francesco, chiesa, 250n Alberigo, G., 289n Albertazzi, M., 268n Alberto, OFM, 301 Alberto, vescovo di Treviso, 172 Alberto da Pisa, OFM, 37, 38n Alberto da Sarteano, OFM, 301, 302 Alberto di Parma, OFM, 67n Alberzoni, M.P., XIII e n, 14n, 19n, 20n, 22n, 33-58, 36n, 39n, 41n, 43n, 45n, 50n, 52n, 56n, 57n, 64n, 65n, 98n, 186n, 188n, 200n, 204n, 207n, 249n Albini, G., 79n, 84n Albini, Gerardo, podestà, 68 Albornoz (di), Egidio, cardinale, 139 Al-Cabiti, Adel Aziz (Alcabitius), astrologo, 267 Alcabitius, v. Al-Cabiti, Adel Aziz Alessandria (Egitto), v. Caterina Alessandro, OFP, 308 Alessandro IV, papa, 181n, 251 Alessandro V (Pietro Filargis, Petrus de Candie), papa, XIV, 281 e n, 282n,
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
- Sant’Angelo Magno, convento, 139, 141n - Santa Maria delle Donne, convento, 139 e n, 141n - Santi Vincenzo e Anastasio, chiesa, 141n, 144n - Trivio, 127 - Via del Trivio, 141n Aspretolo, selva, 255 Assisi (PG), IX, 6, 16, 35, 47n, 129 e n, 130n, 131 e n, 136, 235, 334, e v. anche Chiara, Egidio, Elia, Francesco, Leone - Sacro Convento, v. San Francesco - San Damiano, convento, 47n - San Francesco, basilica, 129, 130n, 136 - San Martino, cappella, 137n - Santo Stefano, cappella, 137n - Santa Maria degli Angeli in Porziuncola, basilica, 199, 333 Asti, 175, 180n Asturie, 52 Aterno, fiume, 125n Atri (TE), 148n, 149 - Sant’Agostino, chiesa, 148n Aubert, R., 51n Australia, 325 Auvray, L., 70n Avarucci, G., 259n Avignone (Francia), 136n Avril, F., 124n Avvocati, famiglia, 71n Azolino, o Anzolino, magister, 325 e n, 326, 327 e n
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Appiano Gentile (CO), v. Giovanni Aquileia (UD), 206, 207, 208 Aquino (FR), v. Tommaso Aragona, 276n Aragona (d’), famiglia, 123, 124 e n, 125n, e v. anche Alfonso III, Beatrice, Giacomo, Pietro III Arcangeli, L., 228n Arcevia (AN), 250n - San Francesco, chiesa, 250n Archeoni, Niccolò, vescovo di Teramo, 145 Arezzo, 184 e n, 264, 272, e v. anche Geri Aristei, F., 333 Aristotele, filosofo, 94 e n, 296 Arnolfo di Cambio, artista, 127n, 130n, 136, 142n, 146, 150n Arpadi, famiglia, 123 Arpo da Beneceto, OFM, 77 Arquata del Tronto (RI), 134n Arrigo VII, v. Enrico VII Arscindi (degli), Gargano, podestà, 86 Artifoni, E., 16 e n, 18n, 56n, 86n, 112n, 184 e n, 185n, 187n, 215n Ascoli Piceno, IX, X, XI, XII e n, XIIIn, 6, 7, 9, 125 e n, 127 e n, 128, 133 e n, 134, 136n, 137, 138 e n, 139 e n, 140n, 141, 142n, 143 e n, 144 e n, 147, 148 e n, 149 e n, 150n, 151 e n, 172, 204, 265, 319 e n, 320n, 328, e v. anche Cecco, Girolamo - Archivio Comunale, 138n - Campo Parignano, XI - Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli”, XII, XIII, XIV - Palazzetto Longobardo, 142n - Palazzo dell’Arengo, 139-140 - Piazza del Popolo, 127 - San Francesco, chiesa, XI, 127, 136n, 137, 138, 139, 140n, 144 e n, 149 e n, 150n, 151n - San Giacomo, chiesa, 141n - San Ludovico, cappella, 138n, 140n - San Pietro in Castello, chiesa, 144n - Sant’Agostino, chiesa, 144n
Bacci, M., 205n Bacciga, E., 28n, 172n Baert, B., 143n Baffetti, G., 99n Baffolo, o Baffoli, Berardo, OFM, 77 Baggio, S., 332 Bagnoregio (VT), v. Bonaventura Baiamontis (de), Pietro, OFM, 200 Baietto, L., 19n, 20n, 22n, 111n Baldaccini, F., 232n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Bellosi, L., 129n, 130n, 137n, 230n Belludi, Luca, OFM, v. Luca Belludi Belluno, 290n Benati, D., 137n Benazzi, G., 222n, 229n Beneceto (PR), v. Arpo Benedetti, M., XIV, 13n, 19n, 23n, 108n, 116n, 299-312, 301n, 311n Benedetto, detto Cornetta, frate, 68 e n, 69, 75, 84 Benedetto XIII, papa, 286 Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 57n, 58n Benedetto da Norcia, santo, 52, 223 Benedini, S., XIIn Benvenuti Papi, A., 14 e n, 126n Berardi, M.R., 134n Berardo da Cagli, cardinale, 124 Berg, D., 35n, 36n, 37 e n, 38 e n, 39 e n, 42n, 44n, 45 e n, 51n Bergamo, 175n, 334, e v. anche Guala Berger, E., 74n Bériou, N., 68n, 249n Bernardino da Siena, OFM, santo, XIV, 234, 235, 302 e n, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 315n, 318, 326n Bernardo, OFM, 77 Bernardo da Besse, cronista, 125n Bernardo di Clairvaux, OCist, santo, 52 Bernardo di Quintavalle, OFM, beato, 199 e n, 210 Bernini, F., 70n, 72n, 74n, 75n, 84 e n, 87n, 88n Berra, C., 195n Bertazzo, L., 129n Bertelli, S., 175n Bertin, E., 269n Bertoldo di Ratisbona, OFM, 108, 116 Bertrand, G., 66n, 233n Bertuzzi, G., 56n Besse (Francia), v. Bernardo Besta, E., 76n Beumann, H., 42n Bevagna (PG), X e n, 223 Bevere, R., 273n, 276n
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Baldassarre, OFM, 206 Baldetti, E., 250n Baldi, B., XIV, 8n, 279-298, 282n, 289n Balduinus ab Amsterdan, 96n Baldwin, J.W., 51n Banchi, L., 189n, 267n Banzola, V., 66n Barbato, 138n Barberino Val d’Elsa (FI), v. Francesco Barletta, 133n, 140 e n - Santa Maria Maggiore, chiesa, 140 Barocelli, F., 62n Barone, G., 36n, 37 e n, 38 e n, 44n, 45n, 128n, 129n, 233n Barone, N., 263n, 275n, 277n Barthélemy, D., 79n Bartocci, A., 249n Bartolacci, F., XIIn, 315n Bartoli Langeli, A., XIV, 14 e n, 15n, 48n, 64n, 171 e n, 174, 179 e n, 180n, 202n, 212 e n, 214 e n, 228n, 231n, 246n, 253n, 257n, 258n, 260n, 329337 Bartolo da Sassoferrato, giurista, 89, 195, 249n Bartolomeo da Amelia, vescovo di Grosseto, 127n Bartolomeo da Breganze, o da Vicenza, OFP, beato, 62n, 71, 82, 83 Bartolomeo da Giano, OFM, 235 e n, 236 Bartolomeo da Rinonico, o da Pisa, OFM, 201 e n, 204, 211, 224n Bartolomeo della Marca, OFM, 172 Bascapè, M., 301n Bassano (VI), 208 Bassetti, M., 332 Baviera, v. Ludovico Beatrice d’Aragona, 123n Beatrice di Castiglia, regina, 43n Beccaria, A., 263n, 265n, 272n, 273n, 274n, 275n Bei, A., 332 Bellante (TE), v. Gualtiero Bellit, Ch.M., 286n Belloni, C., 304n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Borgo San Donnino (Fidenza, PR), 87 e n, e v. anche Gerardo Borri, G.M., 138n Borsa, P., 195n Bosl, K., 83n Bossa, M.I., 48n, 332 Boston (USA) - Boston College, 286n - Institute of Medieval Philosophy and Theology, 286n Bouchard, C.B., 195n Boudet, J.-P., 68n, 265n, 266n, 270n, 271n, 272n, 276n Boureau, A., 271n, 272n Bozzoni, C., 140n Bracci, S., 315n Brancaleoni, Latino, cardinale, 183 Brancaleoni, Muzio di Francesco, 274n Breganze (VI), v. Bartolomeo BrĂŠmond, A., 76n Brentano, R., 207n, 335, 336 Brescia, 78, 200, 206, 273n Brivio, Giuseppe, magister, 305 Brolis, M.T., 332, 333 Brown, D.A., 62n Brown, S.F., 286n Brufani, S., IXn Bruni, F., 315n Bruschi, C., 21n Bruzelius, C., 124n, 132 e n, 133n, 135n, 140n, 142n, 143n, 144n, 151n Buccolini, M., 320n Buffone di Bertolotto, 202 Buganza, S., 230n Buralli, Giovanni, v. Giovanni da Parma Burci, o di Burca, Salvo, 21 e n Burri, famiglia, 304 Burroni, A., 251n Bursellis (de), Girolamo, cronista, 61n Busti, famiglia, 97 Busti, Sovramonte, v. Sovramonte da Varese Bustreo, G.P., 260n, 332
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Bevignate, frate, 150n Biagio di Filippo, 257n Bindino da Travale, cronista, 278n Bingen am Rhein (Germania), v. Ildegarda Biscaro, G., 274n Bitonto (BA), v. Luca Biumo Inferiore (VA), 98, 99 Black, A., 289n Black, J., 285n Bloch, M., 195n, 245 e n Boccabadati, famiglia, 67 Boccabadati, Gerardo Maletta, v. Gherardo da Modena Bocchaccio, fornacciaro, 221n Bocchi, F., 251n Boemia, 292, e v. anche Agnese BofďŹ to, G., 265n, 270n, 278n Bolgiani, F., 20n, 26n, 179n, 287n Bologna, 18, 56n, 62n, 63n, 65n, 67n, 69 e n, 72n, 76, 88, 89, 173, 184, 249n, 251, 265, 266, 267 e n, 268, 269, 271, 277, 288n, 290, e v. anche Alessandro - Puglola, 249n - San Francesco, chiesa, 249n - San Giovanni Battista, chiesa, 249n Bonardi, A., 61n Bonato, E., 28n, 172n Bonatti, Guido, astrologo, 266, 272 Bonaventura da Bagnoregio, OFM, santo, 37, 46, 49, 57, 58 e n, 204 e n, 208n Bonaventura da Iseo, OFM, 95n, 96 e n Bonazzi, G., 61n Bonfantini, Accursio, OFM, XIV, 263, 264 e n, 265 e n, 272, 273, 274 e n, 275, 277 Bonvesin de la Riva, poeta, 296 e n, 297 Bonifacio VIII, papa, 126n, 288n Bonsanti, G., 137n Boone, M., 256n Borchi, A., 219n Bordone, R., 180n, 195n, 196n, 220n Borghetto Taro (PR), 87n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Capua (CE), 146 Caracciolo, A., 331 Cardinali, C., 332 Carlettini, I., 137n, 138n, 143n Carli, G.G., 125n Carlo d’Angiò, o di Calabria, duca, XIV, 263 e n, 264n, 265n, 268, 271 e n, 273 e n, 274, 275, 276 e n, 277, 278 Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, 89, 123 e n, 128, 132 e n, 133, 136, 138n Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, 123 e n, 124 e n, 125n, 126, 128n, 132, 134 e n, 135 e n, 136, 138n, 140n, 143, 144n, 149 Carlo IV di Lussemburgo, imperatore, 292 Carocci, S., 131n, 196n, 234n, 257n Carpegna Falconieri (di), T., 226n Carrara (da), o Carraresi, famiglia, 290 Casagrande, C., 96n Casagrande, G., 174 e n, 188n Casale Monferrato (AL), v. Ubertino Caselli, G., 316n Caserta, 147 Castel del Monte (BT), fortezza, 132, 146, 147 Casteldurante (Urbania, PU), 233 Castelfiorentino (FI), v. Gherardo Castelli, G., XI, 6 Castelli, L., 9 Castello (di), famiglia, 206 Castello di Porpetto (UD), 202 Castelnuovo, E., 136n-137n Castelnuovo, G., 195n, 214n Castiglia, v. Beatrice Castignoli, P., 231n Castracani, Castruccio, condottiero, 264 e n Catalano di Guido di donna Ostia, frate, 88 Catalogna, 125n Caterina di Alessandria, santa, 108n, 137n Cattaneo, famiglia, 304 Cattani, Pietro, OFM, 199n Cavalcabò, famiglia, 228
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Cabassi, A., 17n Cacciaconti, Ildibrandino di Guido, podestà, 187n Cacciotti, A., 65n, 96n Caciorgna, M.T., 196n, 257n, 283n, 284n Cadei, A., 132n Cadili, A., 209n, 290n Caetani, Isabella, 228n Cagli (PS), 127n, e v. anche Berardo Calabria, 188n, 263, 271, 277, e v. anche Carlo d’Angiò Calboli Montefusco, L., 184n Caleruega (Spagna), v. Domenico Calilli Nardinocchi, E., XIIn, 9 Callado Estela, E., 39n Calufetti, A., 7n, 289n Camassei, Ventura, OFP, 223 Cameli, M., 204n Camerino (MC), 151, 223 e n, 224n, 228, 231 e n, 325 e n, 327, e v. anche Giacomo - Palazzo dei Priori, 325 - San Domenico, chiesa, 223 - San Francesco, chiesa, 223, 224n, 231 en - San Giovanni de Bussis, chiesa, 224n - San Venanzio, chiesa, 223, 224n - Sant’Agostino, chiesa, 223, 224n - Sant’Antonio, chiesa, 223, 224n - Santa Maria, cattedrale, 224n Cammarosano, P., 112n, 257n Camposampiero (PD), 202 Camposampiero (da), famiglia, 200 Camposampiero (da), Tiso, cronista, 202 Cancellieri, J.A., 77n Canetti, L., 56n, 63n, 75n Canossa (di), famiglia, 84n Capestrano (AQ), v. Giovanni Capitani, O., 28, 29, 30 e n, 39n, 84n, 94n Capo, L., 233n Cappelli, F., XIII, 121-166, 127n, 129n, 132n, 141n Caprioli, S., 251n, 332
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Ciapparoni, F., 232n Ciaralli, A., 332 Cicchetti, A., 332 Cicerone, Marco Tullio, retore, 319 Cingoli (MC), v. Lamberto Cino da Pistoia, poeta, 266 e n, 278n Ciotti, L., XIIn Cipro, 286n - Department of History and Archaeology, 286n Città del Vaticano - Archivio Segreto Vaticano, 124n - Biblioteca Apostolica Vaticana, 317n Città di Castello (PG), 254n Cividale del Friuli (UD), 200, 206, 334 Clairvaux (Francia), v. Bernardo Clemente IV, papa, 88, 89, 181n Clemente V, papa, 140n, 288n Coccia, E., 275n Coimbra (Portogallo), 194 Colle Val d’Elsa (SI), 247, e v. anche Lippo Colonna, famiglia, 268n Colonna, Agapito, 128n Colonna, Giacomo, cardinale, 145 Colonna, Giovanni, cardinale, 128n Colonna, Giovanni detto Sciarra, 128n Colonna, Pietro, cardinale, 128n, 145 Colonna, Sciarra, v. Colonna, Giovanni detto Sciarra Colonna, Stefano II il Vecchio, 128 e n, 143n Colonna, Stefano III, 128 e n Colorno (PR), v. Martino Como, 207n Compagno di Pietro, penitente, 189n Comparato, V.I., 332 Conte, B., 331 Conti, Gabriele, podestà, 68 Contini, G., 266n Coppoli, famiglia, 212, 214 Coppoli, Giacomo di Buonconte, 201202 Cooper, D., 129n Coquelines, C., 71n Cordella, R., 332
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Cavalieri, P., 333 Cavallini, Pietro, artista, 130n, 135 Cecchi, D., 236n Cecchini, G., 267n Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), XIV, 263 e n, 264 e n, 265 e n, 266 e n, 267 e n, 268 e n, 269 e n, 270 e n, 271 e n, 272, 273 e n, 274 e n, 275 e n, 276, 277, 278 e n Celano (AQ), v. Tommaso Celestino V, papa, 135, 136n Cencetti, G., 332 Cenci, C., 209n, 245n, 246n, 253n Cengarle, F., 282n, 283n, 284n, 285n, 288n, 296n, 303n Cenni, C., 276n Centueri, Guglielmo, OFM, 289 Cera, M., 7n Cerboni Baiardi, G., 233n Cerea (VR), v. Parisio Ceresatto, A., 293n Ceriana, M., 222n Cerioni, C., 226n Cerreto (Sorano, GR), monastero, 78 Cesena, 227, 236, e v. anche Michele - San Francesco, chiesa, 227 Chandelier, J., 267n, 271n Checcoli, I., 234n Chiacchella, R., 332 Chiara d’Assisi, santa, 24, 40, 41 e n, 47n, 137n Chiarotto, F., 282n Chiavelli, famiglia, 221, 223 e n, 225, 228, 256n Chiavelli, Alberghetto, 256 Chiavelli, Battista, 224 Chiavelli, Chiavello, 221 e n, 222, 224n Chiavelli, Guido, 224n Chiavelli, Tommaso, 224 Chiesa, P., 296n Chiffoleau, J., 249n Chittolini, G., 39n, 71n, 220n, 228n, 233n, 248n, 283n, 284n Chiusi (SI), v. Orlando Christiansen, K., 221n Christofano, 221n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Cornazzano (da), Manfredi, podestà, 185 Cornetta, v. Benedetto Corradino di Svevia, re di Sicilia, 132 Corrado, M., 264n Corrado, R., 133n Corrado di Gelnhausen, teologo, 288n Correggio (PR), v. Guidotto Correggio (da), famiglia, 75 Corsica, 77n Corso, G., 141n, 143n, 144n, 148n Cortelazzo, M., 13n Cortenuova (BG), 249 Cortona (AR), 47, 178, 247, e v. anche Elia - Carceri, eremo, 47 Coso, Pietro, v. Cozzo, Pietro Cossandi, G., 200n Costa, P., 31n, 234n Costantino, imperatore, 132 Costantinopoli (Istanbul, Turchia), 67n Covini, M.N., 197n, 283n, 301n, 302n, 303n Cozzo, o Coso, Pietro, artista, 150n Cracco, G., 14, 170n, 172n, 202n, 272n Cremona, 48, 69, 175n, 182, 228, e v. anche Gerardo Creta (Grecia), isola, 286n Crexebenus, 103 Cristo, v. Gesù Cristofonus, 260n Crouzet-Pavan, É., 69n Cruciani, V., 229n Curradi, C., 226n Curzi, G., 133n Cusato, M.F., 16n Czortek, A., 174 e n, 180n, 188n, 247n, 251n
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Dal Pino, F.A., 208n, 210n Dalarun, J., X e n, 39n, 41 e n, 42n Dalmazia, 86 Dalpérier, Jean, legato papale, 256 Damietta (Dumyat, Egitto), 51 Danelli, T., 301n Daniele, profeta, 53n, 291, 292 Davids, K., 256n Davidsohn, R., 263 e n, 264n, 265n, 277 De Amicis, A., 140n De Angelis, G., 333 De Angelis, L., 271n, 273n De Bongars, J., 277n De Curtis, Antonio, detto Totò, attore, 334 De Filippo, Giuseppe, detto Peppino, attore, 334 De Fraja, V., 50n, 51n De l’Isle, Pierre, 133 De la Croce, Francesco, canonico, 305 De La Roncière, C., 247n, 251n De Luca, G., 256n De Sandre Gasparini, G., 200n, 201n, 203n De Vincentiis, A., 234n Del Bo, B., 301n, 302n Del Fuoco, M.G., 263n, 265n, 277n Del Garbo, Dino, magister, 267 e n, 271 e n, 272, 278 Del Giudice, P., 76n Del Mar Graña Cid, M., 18n Del Negro, Andalò, astrologo, 277n Del Tredici, F., 228n, 284n Delcorno, C., 99n, 184n, 306n, 315n, 316 e n, 318n Della Faggiuola, Uguccione, condottiero, 268 Della Gente, Giberto, signore di Parma, 69, 78, 87 e n, 88 Della Gente, Gigliolo, podestà, 69 D’Acunto, N., 332 Della Misericordia, M., 197n D’Annunzio, Gabriele, scrittore, 193 e n Della Sala, Beltrame, dominus, 301 D’Avray, D.L., 96n Della Torre (o Torriani), famiglia, 206, D’Ercole, Giovanni, vescovo di Ascoli, 6 293n D’Orsi, A., 282n Della Torre, Napoleone, OFM, 207n Da Schio, M.G.-O., 62n Della Torre, Raimondo, patriarca di Daffra, E., 222n Aquileia, 207 e n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Elisabetta di Turingia, o d’Ungheria, santa, 42, 43 e n, 137n Elm, K., 35n, 39n, 223n, 248n Elsheik, M. S., 332 Emilia, 61 Enrico VII, re di Germania, 96 Enrico VII di Lussemburgo, imperatore, 89, 136n, 293 Enrico da Milano, OFM, 62n, 185, 186n Enrico di Langenstein, teologo, 288n Enrico di Svevia, 188n Enza, torrente, 73 e n Erfurt (Germania), 43n Esch, A., 36n Eugenio IV, papa, 305 Europa, 17n, 51, 249n, 256n, 286n Evangelisti, P., 29 e n, 30n, 289n, 323 e n, 325n Ezechiele, profeta, 291, 292, 295 Ezzelino III da Romano, 76 e n, 95n, 96, 208, 266, 272
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Delle Donne, R., 85n Delumeau, J., 20n Delzant, J.-B., XIII, 217-241, 223n De Marchi, A., 222n, 257n Demontis, L., 207n Dendorfer, J., 51n Deodato di Cosma, artista, 145 Desbonnets, T., 198n Dessì, R.M., XIV, 16n, 89n, 112n, 233n, 234n, 237n, 261-278, 263n, 265n, 269n, 272n, 276n, 277n, 278n Diacciati, S., 213n Di Fonzo, L., 36n Di Giannatale, F., 234n Dickson, G., 61n Digne (Francia), v. Ugo Dolcini, C., 28n, 29, 31n Dolso, M.T., XIIn, 7 e n, 25n, 26n, 28n, 31n, 48n, 198n, 199n Domenico da Caleruega, santo, 20, 52 e n, 53, 54, 55 e n, 56, 62, 63n, 204, 223, 225n Dominicus, OFM, 258 Donati, C., 195n Donato, M.M., 137n Donnini, M., 222n, 269n Dorio, D., 228n Dresda (Germania), 35n Dreyer, M., 286n Du Pouget, Bertrand, legato papale, 269 e n Dubois, J., 248n Dunkelgrün, T., 275n
Fabiani, G., 320n, 328n Fabriano (AN), 139n, 223, 224 e n, 256 e n, 257 e n, 258 e n, 259 e n, 334, e v. anche Gentile, Jacobus, Venanzio - Bayla Sancti Donati, 257n - Brefotrofio, 257n - Sant’Agostino, chiesa, 139n - Santa Caterina, monastero, 224n - Santa Lucia Novella, chiesa, 223n, 228 Fabris, G., 266n Facio da Verona, santo, 69n Faenza (RA), v. Servasanto Ebanista, C., 151n Falaschi, P.L., 256n, 257n Eccleston (Regno Unito), v. Tommaso Falconara Marittima (AN), 316n Egidi, F., 269n - Biblioteca Storico Francescana e Egidio d’Assisi, OFM, 25, 202 Picena, 316n Egitto, X, 116n Faloci Pulignani, M., 222n, 232n, 233n, Ehrle, F., 286n 237n Elia di Cortona, o di Assisi, OFM, 24, Fano (PU), 227 e n 25, 36, 37 e n, 38 e n, 39, 40 e n, 41 e Fasoli, G., 13n n, 42, 43, 44, 45, 46, 47 e n, 48 e n, 49, Fasoli, S., 303n 55, 57, 67n, 178, 186, 188, 210 Fassò, A., 99n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
- Biblioteca della Provincia toscana dei Frati Minori, 320n - Santa Croce, convento, 136, 140n, 233, 264 Firpo, M., 195n, 215n, 289n Fissore, G.G., 336 Fiume (Rijeka, Croazia), 193 Fiumi, L., 48n, 332 Fleckenstein, J., 196n Floriani, P., 233n Fobelli, M.L., 138n Fogliano (RE), v. Guglielmo Foligno (PG), 219n, 222 e n, 228 e n, 232 e n, 235 e n, 236, 237, 238, 320 - Biblioteca Comunale, 235n - Palazzo Comunale, 232 - Palazzo Trinci, 219n - San Bartolomeo di Marano, convento, 222, 235 e n - San Francesco, chiesa, 228n, 232, 233 - Sant’Anna, monastero, 222 - Sassovivo, abbazia, 332, 334 Folin, M., 69n, 230n Fonseca, C.D., 36n, 185n Fontana, E., 199n Fontevivo (PR), monastero, 73n Forni, G., 99n, 125n Forlì, 233 - San Francesco, chiesa, 233 Fortunato di Todi, santo, 107, 108 Fossati, M., 293n Fraga Sampedro, M.D., 185n Franceschi, F., 135n Francesco da Barberino, giurista, 269 e n, 270 e n, 271, 276 Francesco d’Assisi, detto il Poverello, santo, IX, X, XI, 6, 7, 16 e n, 17 e n, 18, 23, 24, 26, 30, 31, 35, 39, 40 e n, 41, 46, 47n, 48n, 52, 53, 54, 55 e n, 65n, 67 e n, 82n, 83 e n, 125, 129 e n, 137 e n, 139n, 142n, 183, 184 e n, 198, 199 e n, 200, 201 e n, 202, 203, 204, 210n, 211, 213, 214, 222 e n, 223, 224n, 225 e n, 226, 227 e n, 236, 237, 258n, 326, 334 Francesconi, G., 257n, 283n, 332
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Fattorini, G., 230n Faversham (Regno Unito), v. Aimone Fedanzola (di), Giovanni, OFM, 335 Federici Vescovini, G., 266n, 267n Federico II di Svevia, imperatore, XIII, 23, 24-25, 26, 35, 36, 37 e n, 39, 42, 43, 44, 46, 47 e n, 48, 49, 50n, 51, 54 e n, 55 e n, 57, 58, 74, 79n, 85, 89, 96, 132, 186, 187n, 188 e n, 272, 337 Felten, F.J., 38n Feltre (BL), 289, 290n Fenzi, E., 270n Ferentino (FR), v. Pietro Fermo, 138n, 150 - San Francesco, convento, 138n Fernando, v. Antonio di Padova Ferrara, 96 Ferrari, famiglia, 304 Ferrari, M., 98n Festa, G., 20n, 36n Fiandre, 150 Fiastra (MC), abbazia, XIn Ficker, J., 264n Fieschi, famiglia, 64, 84 Fieschi, Maddalena, 84 Fieschi, Obizzo, vescovo di Parma, 79 e n Fieschi, Ottobono, cardinale, 65n Fieschi, Sinibaldo, v. Innocenzo IV Fiesso (da), Nicolò di Antonio, frate, 308 Filannino, A.C., 222n Filargis, Pietro (Petrus de Candie), v. Alessandro V Filippini, E., 228n, 259n Filippini, F., 266n Filippo I d’Angiò, principe di Taranto, 137n Filippo III, detto l’Ardito, re di Francia, 138n Filippo IV, detto il Bello, re di Francia, 138n Finzi, A., 332 Firenze, 89, 125, 130n, 131, 135n, 136, 140n, 149, 175 e n, 233, 263 e n, 264n, 265, 266, 268, 269, 271, 273, 275, 276 e n, 277, 278, 290 e n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Franchetti Pardo, V., 133n Franchi, A., XIIn, 124n, 125n, 126n, 127n, 128n, 138n, 142n Franchi Dell’Orto, L., 133n, 145n Francia, 65n, 135n, 137n, 150, 179n, 219n, 286 Franciscus de Monte Sancta Maria, OFM, 259n Franzinelli, M., 193n Frascati (Roma), 51 Frati, L., 249n Frazer, J.G., 68n Freudenreich, I.-M., 52n Frezzi, Federico, vescovo di Foligno, 223 Frison, C., 96n Friuli, 202, 204, 206, 207 Frova, C., 332 Frugoni, C., 129n, 130n, 151n, 332 Fumagalli, V., 62n, 68n Fumi, L., 116n Furlotti, M.R., 66n, 73n, 82n
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- Vittoriale degli Italiani, palazzo, 193 Gardoni, G., 71n, 185n Garibaldi, V., 131n Gasparri, S., 233n Gatti, I., 248n Gatti, S., 228n Gattucci, A., 316n Gauvard, C., 274n Gavini, I.C., 143 e n, 148n Gazzini, M., XIII, 59-89, 66n, 71n, 72n, 73n, 82n, 89n, 208n, 228n, 302n Gelichi, S., 66n Gelnhausen (Germania), 147n, e v. anche Corrado - Marienkirche, chiesa, 147n Genazzano (RM), 128n Genet, J.-Ph., 289n Genova, 77, 290 Gensini, S., 234n Gentile, M., 75n, 84n, 85n, 89n Gentile da Fabriano, artista, 221n Gentile da Partino, cardinale, 136, 137n, 143n Gerardo di Borgo San Donnino, OFM, Gabael (Gabellus), personaggio biblico, 49n, 65 e n 101n Gerardo di Cremona, astrologo, 267n Gabbrielli, F., 147n Geremek, B., 84n Gabellus, v. Gabael Geremia, profeta, 106n Gaborit-Chopin, D., 124n Geri d’Arezzo, letterato, 276 e n Gaffuri, L., 282n Germani, Bartolomeo di Giovanni, Gagliano Aterno (AQ), 142n notaio, 222n, 236 Gagliardi, G., XIn, XIIn, 5 e n, 138n Germania, 35 e n, 37, 43n, 46, 150, Gagliardi, I., 125n, 136n 179n, 210n Gaglione, M., 124n, 137n Germania, provincia minoritica, 46 Galletti, A.I., 14, 15n, 174 e n, 188n, Gerusalemme (Israele), 123 e n 251n Gessen, v. Göshen Gallo, v. Kalonymos ben Kalonymos Gesù Cristo, 47n, 52, 55 e n, 71 e n, 72, Gallo, D., XIIn, 129n, 332 82, 99n, 100n, 104n, 105n, 109n, Gamberini, A., 84n, 197n, 284n, 285n, 111n, 139n, 185, 225 e n, 265 e n, 289n, 290n 277, 288n, 302, 306, 309, 317, 318, Gamboso, V., 194n 321, 323, 324n, 325, 327 Gandolfo, F., 136n, 145n, 148n, 149n Gherardinis (de), Loctus, 248n Gangemi, F., 133n, 141n, 148n Gherardo, o Gerardo, da Modena Garbagnate (da), famiglia, 304 (Gerardo Maletta Boccabadati), Gardone (BS), 193 OFM, XIII, 18 e n, 24, 45, 48 e n,
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
n, 265, 269, 271 e n, 272, 273 e n, 274, 276, 277, 287 e n, 288n Giovanni d’Andrea, giurista, 269n Giovanni da Appiano, notaio, 304 Giovanni da Capestrano, OFM, santo, 235, 311, 323 e n, 328n Giovanni da Murro, OFM, 129n Giovanni da Nono, cronista, 266n Giovanni da Parma (Giovanni Buralli), OFM, 48, 57, 65 e n, 67n Giovanni da Vercelli, OFP, 138n Giovanni da Vicenza, OFP, 56 e n, 62n, 63 e n, 70n, 75 e n, 76 e n, 87 e n, 185 en Giovanni Battista, personaggio biblico, santo, 52, 68, 104n, 225, 322 Giovè, N., 332 Girgenti (Agrigento), v. Matteo Girolamo, santo, 225n Girolamo da Ascoli, v. Niccolò IV Giuda, apostolo, 111n Giuda, personaggio biblico, 102n Giulini, G., 23n Godet-Calogeras, J.F., 16n Gonzaga, famiglia, 209 Gonzaga, Elisabetta, 227 Gorizia, 202, 334 Göshen (Gessen), luogo biblico, 109n Gozzano (NO), 290n Gradara (PU), 227 Grainger, J., 326n Grazia, vescovo di Parma, 74n, 78, 79 e n Graziano, OFM, 224n Gréal, J., 222n Greccio (RI), 65n, 124 Greci, R., 65n, 66n, 69n, 72n, 73n, 77n, 84n, 87n, 88n Gregorio I Magno, papa, santo, 52, 53 Gregorio IX (Ugolino d’Ostia), papa, 19 e n, 20, 23, 37, 38, 40, 41, 42, 43 e n, 44, 45, 46, 47, 48n, 49, 50, 51, 52, 55n, 56, 57, 67n, 70, 71 e n, 74, 76 e n, 78, 83, 85, 179 e n, 203, 208 Gregorio X, papa, 89 Gregorio da Montelongo, legato papale, 73, 98, 186, 206, 207n
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62n, 63, 66, 67, 68-69 e n, 75 e n, 76 e n, 77, 78, 79, 80 e n, 81, 82, 83 e n, 84, 85 e n, 86 e n, 87, 88, 89, 185 Gherardo di Castelfiorentino, 276 e n Ghignoli, A., 332 Ghinato, A., 321n Ghisso, giudice, 257n Giacomino, miles, 77 Giacomino da Parma, OFP, 62n, 69, 76 Giacomo, apostolo, santo, 52, 100n, 103n Giacomo, frate, 151 Giacomo d’Aragona, re di Sicilia, 124 Giacomo della Marca, o da Monteprandone, OFM, santo, XIV, 227 e n, 234, 236, 237, 308, 315 e n, 316 e n, 317, 318 e n, 319, 320 e n, 321 e n, 322 e n, 323 e n, 324 e n, 325 e n, 326 e n, 327 e n, 328 e n Giacomo di Camerino, artista, 151 e n Giacomo di Tuscolo, v. Giacomo di Vitry Giacomo di Vitry, o di Tuscolo, cardinale, 51, 52 e n, 55 Giano dell’Umbria (PG), v. Bartolomeo, Giordano Giansante, M., 266n, 270n Gibelli, A., 332 Giessauf, J., 28n Gioacchino da Fiore, OCist, 49 e n, 50n, 52, 55 Giobbe, profeta, 114n, 292n Giordano, fiume, 100n Giordano, N., 256n Giordano da Giano, OFM, 38, 46 Giordano da Pisa, OFP, beato, 214n Giordano di Sassonia, OFP, 56n Giorgi, R., XIIn, 139n Giotto di Bondone, artista, 130 e n, 131n, 135, 145 e n, 146n, 266 e n Giovanna d’Angiò, 263n, 264n Giovannecta, 260n Giovanni, eremita, 52, 55 Giovanni, evangelista, santo, 52, 102n, 104n, 106n, 291, 322, 327 Giovanni XXII, papa, 28, 31, 108, 264 e
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Iancu, C., 276n Iancu, D., 276n Ildegarda di Bingen, santa, 54 e n Illuminato, OFM, 77 Inghilterra, 37, 46, 150 Innocenzo III, papa, 19, 51, 55n Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi), papa, 73, 74n, 75, 84, 85 e n, 88, 181n, 250 Innocenzo VII (Cosimo Migliorati), papa, 287n, 288n, 290n Insegna, frate, 189n Iohannes, 254 Iohannes de Sacrobosco, v. Holywood, John Ippona (Annaba, Algeria), v. Agostino Irace, E., 332 Isaia, profeta, 105n, 111n, 291n Iseo (BS), v. Bonaventura Isidoro di Siviglia, vescovo, santo, 52, 53 Italia, XIII, 5, 13, 15, 19, 23, 27, 28, 35, 61, 64, 68, 125, 127, 134n, 135n, 136, 146n, 147, 169, 170, 174, 175, 179n, 181, 195, 214, 246, 276n, 281, 284, 286n, 287n, 294, 335 Izbicki, Th.M., 286n
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Grelli, M.E., XIn, XIIIn Grillo, P., 282n, 283n, 285n Grisciano di Accumoli (RI), 125n Grosseto, 127n Guala da Bergamo, OFP, 78, 182 Gualtiero di Bellante, 128n Guarisco, G., 67n, 77n, 79n, 80n, 81n, 87n, 88n Gubbio (PG), 235, e v. anche Ubaldo Guccio di Mannaia, artista, 130n Guglielmo da Fogliano, vescovo di Reggio Emilia, 74n Gui, Bernardo, OFP, 265n Guiderocchi, famiglia, 128, 134n, 138, 142n Guiderocchi, Giovanni, OFM, 138 e n, 139 Guiderocchi, Montanea, OSC, 139 e n Guiderocchi, Nicoluccio, 138n, 139n Guiderocchi, Riccardo, OFM, 138 e n, 139 Guiderocchi, Tommaso, 328 Guidoni, E., 127 e n, 177n Guidotto da Correggio, vescovo di Parma, 71n Gunzburg, D., 266n Guyotjeannin, O., 45n, 46n, 69n, 78n, 79n, 80n
Hageneder, O., 19n, 28n Hefele, H., 13 e n Heinemann (von), L., 184n Heinisch, K.J., 43n Hinnebusch, J.F., 51n Holder-Egger, O., 125n, 185n Holywood, John (Iohannes de Sacrobosco), astrologo, 267 Houben, H., 49n Hueck, I., 136n Huillard-Bréholles, J.-L.A., 35n Huss, Jan, predicatore, 288, 308 Hyères (Francia), 49n
Jacobus de Fabriano, OFM, 259 e n Jaffé, P., 61n Jamme, A., 195n Janssens, P., 256n Jaspert, N., 38n Jesi (AN), 259 e n Johnson, T., 96n Kaftal, G., 225n Kalonymos ben Kalonymos (Gallo, Maestro Calò), traduttore, 275 e n, 276 e n Kamp, N., 36n, 188n Karbiæ, D., 86n Kehnel, A., 46n Kelly, S., 271n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Kiesewetter, A., 123n, 125n Koenig, J., 87n
Leone de Castris, P., 135n, 137n, 145n Leonessa (RI), 228n Le Pogam, P.-Y., 126n, 127n, 128n, 131n, 150n Leprai, S., 86n Lerner, R.E., 50n, 52n, 53n, 54 e n Libano, 292 Liberati, G., 138n Licciardello, P.L., 272n Licinio, R., 132n Linguadoca, 72 Lioi, R., 316n, 325n, 327 Lione (Francia), 72n, 108 Lippo di Umberto di Colle Valdelsa, podestà, 256, 257n Lisbona (Portogallo), v. Antonio Lisini, A., 180n Lodi, 303 Lomastro, F., 14, 180n, 204n, 250n Lombardia, 21, 23n, 44, 61, 63n, 70, 304 Lombardia, provincia minoritica, 98, 289n Lombardia, provincia domenicana, 20, 63n Lombardo, E., 91-117, 95n, 96n, 97n, 99n, 100n, 104n Longère, J., 51n Lonzano (Longiano, FC), 227 Lori Sanfilippo, I., 9, 141n Luard, H.R., 74n Luca, evangelista, santo, 101n, 102n Luca, OFM, 188 Luca Belludi, beato, 200, 206n Luca da Bitonto, OFM, 95 Luca di Tuy, vescovo, 52, 54, 55 e n Lucca, 49, 50n, 175n, 182 Lucchetti, T., 324n Lucera (FG), 133, 140n, 147n - San Francesco, chiesa, 147n Lucherini, V., 137n Lucioni, A., 98 e n Ludovico d’Angiò, o di Tolosa, OFM, santo, 124, 136, 137 e n, 138 e n Ludovico di Baviera, imperatore, 256, 264 e n, 275, 277
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Lacchè, L., 220n, 283n Lambert, M.D., 249n Lambertazzi, famiglia, 88 Lambertini, R., IX-XIV, 7, 9, 28n, 29, 30 e n, 31n, 65n, 116n, 245n, 287n, 315n Lamberto da Cingoli, OFP, 267 Lametti, L., 237n Lanciano (CH), 135, 149 e n - Sant’Agostino, chiesa, 149n Landi, A., 286n, 288n, 289n Landi, Amedeo, magister, XIV, 301 e n, 302 e n, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312 Langenstein (Germania), v. Enrico L’Aquila, 125 e n, 132, 134, 138 e n, 142n, 144n, 147n, 323 e n - San Domenico, già Santa Maria Maddalena, chiesa, 144n, 147n - San Ludovico, cappella, 138n - Santa Maria Maddalena, v. San Domenico Lasiæ, D., 316n, 326n, 328n Latini, Brunetto, letterato, 13 Latini, C., 220n, 283n Lattes, A., 80 e n Laureati, L., 257n Law, J.E., 285n Lazio, 131n Lazzari, A., 226n Lazzarini, I., 284n Lazzaro, personaggio biblico, 102n Le Goff, J., 14 e n, 20n, 64n, 100n Lea, H.-C., 302n Lecce, v. Roberto Lecoy de la Marche, A., 93 e n Leggio, T., 134n Lemmens, L., 16n Lemonde, A., 196n Leonardi, C., 27 e n, 94n, 98n Leone d’Assisi, OFM, 42, 183, 334 Leone da Perego, o da Milano, OFM, 23, 62n, 98, 103, 186, 207n, 208n, 249 e n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Luigi IX, re di Francia, santo, 136, 137 e n, 138n Lunari, M., 304n Luni (Ortonovo, SP), 50n Lünig, J.C., 294n Lussemburgo (di), famiglia, 292, e v. anche Enrico VII, Venceslao Lützelschwab, R., 51n Luzzatto, S., 234n
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Macchia (TE), 133 e n, 134 - Castel Manfrì, fortezza, 133, 134 Maddalo, S., 141n Maestro Calò, v. Kalonymos ben Kalonymos Maestro del Polittico di Ascoli, artista, 139n Maestro di Fossa, artista, 138n Maestro di Isacco, artista, 130n, 131n Maestro di Sant’Emiliano, artista, 139n Maffei, D., 301n Magnoni, F., 333 Maiarelli, A., 332 Maierù, A., 65n Mailleux, R.G., 245n, 246n Maire Vigueur, J.C., 15n, 16n, 69n, 86n, 187n, 188n, 196n, 199n, 219n, 221n, 230n, 234n, 237n, 257n, 282n, 283n, 284n Majocchi, P., 281n Malabranca, Latino, cardinale, 89 Malatesta, famiglia, 227 Malatesta, Andrea, 227 Malatesta, Carlo, 227 Malatesta, Domenico, detto Malatesta Novello, 227 Malatesta, Galeazzo Roberto, 227, 229 Malatesta, Galeotto, 227 Malatesta, Malatesta di Pandolfo II, detto dei Sonetti, signore di Pesaro, 227 Malatesta, Malatesta Novello, v. Malatesta, Domenico Malatesta, Pandolfo III, 227 e n Malatesta, Rengarda, 226n Malatesta, Sigismondo Pandolfo, 230
Malato, E., 264n Manchaynis (de), Gasparino, 306 Mancini, F.F., 222n Manfredi di Guido da Sassuolo, podestà, 187n Manfredi di Svevia, re di Sicilia, 132, 133 Mangona (FI), castello, 276n Mantova, 71n, 182 - Sant’Andrea, monastero, 71n Manzari, F., 133n Marburg (Germania), 42 - San Francesco, chiesa, 42 Marca d’Ancona, 128n, 129n, 138n, 139, 222, 235, 256, 259, e v. anche Giacomo Marca d’Ancona, provincia minoritica, 259n Marca di Treviso, 21, 63n, 76, 96, 185n, 208, e v. anche Bartolomeo Marcelli, F., 138n, 139n Marcelli, L., XIII, 243-260, 247n, 250n, 258n Marche, 220 Marchesini, D., 332 Marchesini, M., 251n Marchetti, P., 220n, 283n Marco, evangelista, santo, 100n Marconi, L., 332 Margherita, OSC, 139 Mari (de), Ansaldo, podestà, 77 e n Mari, M., 195n Mari, P., 332 Maria Maddalena, personaggio biblico, santa, 137n, 225n Maria, Vergine, personaggio biblico, santa, 52, 108n, 129, 228n, 322 Maria di Oignies, beata, 51 Maria di Valois, 271n Maria d’Ungheria, regina di Sicilia, 123 e n, 142n Mariani Canova, G., 266n, 269n Mariano d’Alatri, 82n, 95n, 96n, 116n, 250n Marsica, 133 e n Marsiglia (Francia), 137n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
211n, 222n, 226 e n, 228n, 233n, 234n, 235n, 249n, 281n, 282n, 287n, 288n, 290n, 303n, 307n, 308n, 311n Messina, 123, 334 Messini, A., 232n Metz (Francia), 250 Mezzogiorno, 135n Miccoli, G., Xn, 16n, 26n, 27 e n, 30 e n, 62n, 71n, 198 e n, 210n, 214n, 336 Michea, profeta, 102 Michel, R., 272n Michele di Cesena, OFM, 264 e n Michele Scoto, astrologo, 272 Michetti, R., XIIIn, 16n, 129n, 210n, 258n Micozzi, G., XIn, 138n, 140n, 141n, 142n, 143n, 144 e n Middeldorf Kosegarten, A., 146n, 147n Miethke, J., 28n, 39n, 94n Miglio, M., 9, 85n, 305n Migliorati, Cosimo, v. Innocenzo VII Milani, G., 234n Milano, 22, 23 e n, 62n, 69, 97, 99, 135n, 186, 200n, 204, 206, 207n, 208 e n, 230, 249 e n, 252, 255, 264, 281 e n, 282n, 284, 285, 289, 290n, 291 e n, 293, 294 e n, 295, 296 e n, 297, 298, 301, 302, 303 e n, 304, 305, 308, 311 e n, e v. anche Enrico, Leone - Biblioteca Ambrosiana, 281n - Broletto, 303, 305 - Pinacoteca di Brera, museo, 221n - Porta Comasina, 303 - Porta Romana, 296n - San Francesco, convento, 22, 301, 305, 307, 308, 309, 311 - Sant’Ambrogio, chiesa, 307 - Sant’Angelo, convento, 301, 303 - Sant’Eustorgio, chiesa, 230, 304, 307, 312 - Santa Maria Maggiore, chiesa, 301, 305 Miller, M.C., 175n Minutolo, Filippo, arcivescovo di Napoli, 135n Mira (Demre, Turchia), v. Nicola Mochi Onori, L., 257n
IS IM
E
Martin, J.-M., 79n Martini, Simone, artista, 137 Martino, abate, 145n Martino IV, papa, 126 Martino V, papa, 235 Martino da Colorno, vescovo di Parma, 73, 74 e n, 75 Martino di Tours, santo, 52, 136 e n Martorano (FC), 73n Martorano (PR), 66, 71 e n, 72 e n, 73 e n, 75n - San Siro delle Fontanelle, monastero, 73 - Sant’Eulalia, pieve, 73 Maselli, D., 14n Masserà, A.F., 227n Matijeviæ-Sokol, M., 86n Matteo, evangelista, santo, 103n, 104n, 309, 327 Matteo da Girgenti, OFM, beato, 235 Matteo Paris, cronista, 74n Maurisio, Gerardo, cronista, 61n, 63n, 70n Maussac (Francia), v. Raimondo Mauvoisin (de), Robert, arcivescovo di Aix-en-Provence, 276 Mazel, F., 197n Mazzatinti, G., 233n Mazzucchi, A., 264n Meccarelli, M., 220n, 283n Meco del Sacco, v. Savi, Domenico Meersseman, G.G., 71n, 72n, 83n Mehl, E., 286n Meli, famiglia, 228 Melli, M., 65n Melville, G., 35n Mendola (TN), 335 Menestò, E., IXn, 94n, 107 e n, 128n, 222n, 229n Merli, L., 331 Merli, S., 332 Merlo, G.G., XIII, 11-31, 17n, 19n, 20n, 23n, 26n, 28n, 30n, 31n, 65n, 71n, 83n, 112n, 170 e n, 176 e n, 179n, 182n, 185 e n, 186n, 198n, 200n, 207n, 208n, 209n, 210 e n,
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364
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Musco, A., 14 e n, 174n, 183n, 197n, 222n, 247n Musotto, G., 14n, 174n, 183n Mussis (de), Giovanni, cronista, 61n Napoli, 65n, 123, 125, 131, 132, 135 e n, 136, 137 e n, 140n, 142n, 144n, 149n, 268, 274, 277n - Capodimonte, museo, 136n, 137 - Castelnuovo (Maschio Angioino), 132 - Maschio Angioino, v. Castelnuovo - San Lorenzo Maggiore, convento, 132, 137n - Santa Chiara, convento, 137 e n, 142n - Santa Maria Donnaregina, chiesa, 142n Narbona (Francia), 258 Nardi, P., 267n, 277n, 278n, 301n Nasalli Rocca, E., 80n, 84n Nelli, Ottaviano, artista, 225 Nelli, R., 126n, 332, 335 Nelson, J., 229n Neri Lusanna, E., 136n, 139n Nerva, Marco Cocceio, imperatore, 296n Neuhauser, R.G., 96n Niccholaus, OFP, 188n Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini), papa, 129, 130, 134n, 136, 145 Niccolò IV (Girolamo da Ascoli), papa, 123, 124 e n, 125, 126, 127n, 128, 129 e n, 130 e n, 131n, 135, 136, 138 e n, 140n, 142 e n, 143n, 145 e n, 148n, 151n, 208 Nico, M.G., 332 Nicola di Mira, santo, 52, 109n, 137n, 228n Nicolini, U., 15n, 335 Nicoluccio di Giacomuccio, 139 Nicoud, M., 195n Nimmo, D., 287n Nitschke, A., 124n, 135n Nocco, F., XIVn, 324n, 328n Norcia (PG), 323, e v. anche Benedetto Novara, 281 e n, 289, 290n, 291 Novate (da), famiglia, 304
IS IM
E
Modena, 67, 68 e n, 69 e n, 86n, 143, 175n, 188 e n, e v. anche Gherardo Moioli, A., 256n Mollat, M., 84n, 251n Monacchia, P., 332 Monaldeschi, Manno, 255-256 Monaldo da Tolentino, frate, 256 e n Monciatti, A., 151n Monreale (PA), 147 Montanari, P., 23n Monte Oliveto (PT), monastero, 224n Monte Santa Maria (PG), v. Franciscus Montecalvo (AP), 128, 134 e n, 138 e n Montecatini Terme (PT), 268 e n Montefeltro, 233 Montefeltro (da), famiglia, 226, 233 Montefeltro (da), Antonio, 226n Montefeltro (da), Guidantonio, 226 e n, 235 Montefeltro (da), Guido, 226 Montefeltro (da), Oddantonio, 226n Montefiore dell’Aso (AP), 136, 143n Montegiorgio (FM), 143n - Cappella farfense, 143n Montelongo (CB), v. Gregorio Monteprandone (AP), 316n, 317 e n, e v. anche Giacomo - Museo Civico, 316n, 317 e n Montereale (AQ), 125n, 134n, 140n, 323 e n - San Francesco, convento, 140n Monti, I., 9 Montone (PG), 334 Mordenti, R., 332 More, A., 96n Morello, XIn Morerod, C., 52n, 53n, 54n Morganti, L., XII, 9 Morici, Bonaventura, 258 e n Morrissey, T.E., 286n, 288n Morvan, H., 204n, 205n Mosè, personaggio biblico, 103n Moulinier-Brogi, L., 195n Muessig, C., 93n Muratori, L.A., 61n, 226n Murro (Morrovalle, MC), v. Giovanni
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Novate (da), Bartolomeo detto Rosso, 307, 308 Nowak, J., 51n
- Cappella degli Scrovegni, 131n - Palazzo della Ragione, 150n, 266 e n - San Francesco Grande, convento, 316n Padovani, A., 78n, 181n Pagnani, G., IX e n, X e n, XIn Palazzolo (da), Iacobino, 273 e n Palermo, 13 Palestrina (RM), 124, 128n Pallavicino, famiglia, 75 Palma, N., 128n Palmerius, artista, 151n Palmieri (o di Palmerio), Giacomo, artista, 150 Palmieri, N., 267n Palozzi, L., 143n Panigarola, famiglia, 304 Panigarola, Andrea, 312 Pantarotto, M., 316n Panzanelli, A., 332 Paolazzi, C., 16n, 40n Paolini, A., 316n Paolini, L., 71n, 264n Paolo, apostolo, santo, 52, 324 Paolucci, A., 230n Paoluccio Trinci, v. Trinci, Paoluccio Papetti, S., XIn, 139n Paquara (San Giovanni Lupatoto, VR), 62 Paravicini Bagliani, A., 36n, 51n, 85n, 131n Parcianello, F., 332 Parent, S., 273n Parenti, Giovanni, OFM, 48n Parigi (Francia), 51, 65n, 97, 189n, 286 en - Bibliothèque Mazarine, 97 - Sainte-Chapelle, 138n Parisio da Cerea, cronista, 61n Parisoli, L., 14n Parma, 24, 48, 62n, 63, 64 e n, 65 e n, 66 e n, 67 e n, 68, 69 e n, 71 e n, 72, 73, 74 e n, 75, 76, 77, 78 e n, 79, 80 e n, 82 e n, 83n, 84 e n, 86n, 87 e n, 88, 89, 173, 175n, 185 e n, 187, 188, e v. anche Giacomino, Giovanni, Salimbene, Taddeo
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E
Oberste, J., 56n Oddetto di Donazano, podestà, 250n Odoardi, G., 36n Odorico da Pordenone, OFM, beato, 206 Offida (AP), 319n, e v. anche Raynaldus Oignies (Francia), v. Maria Oldrado da Tresseno, 23 Olgiatil, F., 7n Oliger, L., 52n Omodei (degli), Cristoforo, 301 Onorio III, papa, 20, 182 Orazio, Quinto Flacco, poeta, 210 e n Ordelaffi, Pino III, signore di Forlì, 233 Orioli, R., 65n Orlando di Chiusi, conte, 202 Orsini, Giovanni Gaetano, legato papale, 272, 273 e n, 274, 277 Orsini, Giovanni Gaetano, v. Niccolò III Orsini, Poncello, 255 Orsola, santa, 137n Orta, lago, 290n Ortalli, G., 331, 332 Orvieto, 129, 131 e n, 136, 150, 151 e n, 254n, 255, 256 Osimo (AN), 224n - San Francesco de Trabebonantis, chiesa, 224n Ostia (RM), v. Ugolino Oxford (Regno Unito), 286n, 328 - Bodleian Library, 328
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Pacetti, D., 235n, 316n, 318n Pacini, G.P., 71n Paciocco, R., Xn, 203n, 259n Pacioli, Luca, 334 Padova, 62n, 76n, 97, 131n, 150n, 172, 200, 202, 203, 206n, 266 e n, 288n, 290n, 316n, 331, 334, e v. anche Antonio, Rolandino
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Piana, C., 301n, 302n, 303n, 304 e n, 305n, 308n, 309n, 310n, 311n Piattoli, R., 247n, 248n Piazza, A., 23n, 182n, 204n, 209n, 311n Piazza, F., 93n, 94n Picciafuoco, U., 320n Piccinni, G., 256n Piccolo, Ottavia, attrice, 334 Piccolomini, Francesco, cardinale, 328 Piceno, 5, 135, 143n, 148n, 149n Pier Pettinaio, 189n Pierre d’Angicourt, artista, 133 Pierre de Saint-Benoît, frate, 108 Pietralta (TE), 134n Pietro, apostolo, santo, 52, 105 e n, 108n Pietro III d’Aragona, re, 128n Pietro d’Abano, astrologo, 266 Pietro da Ferentino, patriarca di Aquileia, 207 e n Pietro da Verona, OFP, santo, 62n Pietro Lombardo, teologo, 235, 286n Pincelli, M.A., 175 e n, 231n Pinerolo (TO), 204 Pinto, G., XIIn, 84n, 128n Pipino, Giovanni, conte, 140n Pirani, F., 256n, 332 Piron, S., XIIIn, 68n, 275n Pisa, 49 e n, 50n, 147 e n, 182, 209n, 268n, 285, 288n, 289, e v. anche Alberto, Bartolomeo, Giordano Pisano, Nicola, artista, 146n, 147 e n Pistilli, P.F., 133n Pistoia, 175n Poeschke, J., 146 e n, 147n Polcenigo (PN), 202 Polenta (da), o Polentani, famiglia, 228 Polenta (da), Bernardino, signore di Ravenna, 226n Polenta (da), Bernardino II, signore di Ravenna, 226n Polenta (da), Lamberto, 226n Polenta (da), Ostasio, signore di Ravenna, 226 e n, 229 Polenta (da), Pandolfo, 226n Polo, Marco, 334 Pontibus (de), Andrea, capitano, 134n
IS IM
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- Capodiponte, 66n, 73 - Oltretorrente, 66, 73 - Porta San Barnaba, 66n - Porta San Paolo, 66n - San Francesco in Prato, chiesa, 66n - San Lazzaro, ospedale, 65n - Sant’Alessandro, monastero, 73 - Santa Maria Nuova, chiesa, 66, 73 Parmeggiani, R., 264n, 274n, 276n Pasini, P.G., 227n, 230n Pastore Stocchi, M., 272n Pásztor, E., 64n, 98n Paton, B., 285n Pavia, 97, 230 e n, 289 e n - Biblioteca Universitaria, 97 - Certosa, monastero, 230 e n - San Francesco, convento, 230, 289n Paul, J., 95n, 96n Peano, P., 249n Pedullà, G., 234n Pellegri, M., 66n Pellegrini, Letizia, 7 e n, 259n, 302n, 303n, 311n Pellegrini, Luigi, 7 e n, 25 e n, 58n, 200n, 202 e n, 205n, 245 e n, 259n Pellegrini, M., XIII, 26n, 167-190, 177n, 178n, 179n, 208n, 247n, 249n, 256n Peppino, v. De Filippo, Giuseppe Peraldo, Guglielmo, OFP, 108 Perego (LC), v. Leone Periæ, O., 86n Perrini, Francesco, artista, 149n Perugia, 15, 150n, 175n, 180n, 186, 188, 202, 203, 212, 214, 228n, 231, 235, 250, 252, 254, 331, 334, 335 - Fontana Maggiore, 334 - Monteripido, convento, 15, 202 Pesaro, 227 Petrus de Candie, v. Alessandro V Peterson, I., 142n Petralia, G., 285n Petrucci, A., 285n, 286n, 288n, 289n, 332 Pezzana, A., 72n Phylipputius, 259n Piacenza, 62n, 74n, 175n, 289
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Rasolofoarimanana, J.D., 96n Ratisbona (Germania), v. Bertoldo Ratzinger, J., v. Benedetto XVI Rava, E., 332 Ravenna, 226 e n, 228 - San Pietro Maggiore, chiesa, 226 e n Raynaldus, OFP, 188n Raynaldus de Ofida, OFM, 259n Recanati (MC), 236 Recht, R., 133n Redon, O., 187n Reggio Emilia, 62n, 69, 74n, 76 Regni, C., 254n Renan, E., 275n Restagno, J.C., 250n, 251n Riccetti, L., 255n Rieti, 123, 124 e n, 125 e n, 126 e n, 131 e n, 207 - Loggia delle Benedizioni, 126 - San Domenico, convento, 127 - San Francesco, convento, 125 e n - Sant’Agostino, convento, 127 Righetti Tosti-Croce, M., 127n Rigon, A., XII e n, XIII, 3-9, 6n, 14 e n, 23, 24n, 27 e n, 28 e n, 70n, 76n, 96n, 97 e n, 98n, 169 e n, 172 e n, 174, 185n, 199n, 200n, 202n, 208n, 213n, 214n, 246n, 247n, 248n, 251n, 260n, 263n, 331, 332 Rima, B., 41n Rimini, 227, 230 - San Francesco, chiesa, 227, 229, 230 Rinucci, Alessio, 276 Ríos Rodríguez, M.L., 185n Ripoll, Th., 76n Roberto d’Angiò, re di Napoli, 124, 135, 136n, 137n, 149, 268 e n, 269, 271 e n, 272, 274n, 275, 277 Roberto da Lecce, OFM, 328n Robertson, J., 236n Robson, M.J.P., 46n, 129n, 130n Rocca Contrada, v. Arcevia Rodenberg, C., 51n Rodolfo di Sassonia, OFM, 50n Rodolico, N., 263n-264n Rodulfus, 254
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Pordenone, v. Odorico Porta, G., 263n Potestà, G.L., 39n, 49n, 50n, 51n, 54 e n Potthast, A., 74n Pou y Marti, I.M., 235n Poverello, v. Francesco d’Assisi Pozza, M., 332 Pozzi, G., 41n Pozzobonello (da), o Pozzobonelli, Giovanni, OFP, 304, 305 Praga (Repubblica Ceca), 290, 328 Prandoni, Alberto, vescovo di Piacenza, 74n Pratesi, A., 332 Prato, 146, 247, 248n, 254 Price, J., 326n Prinzivalli, E., 14n, 332 Prosperi, A., 23n Provenza, 132, 275, 276n Prunai, G., 267n Prudlo, D., 260n Pseudo-Tolomeo, 265 Puglia, 135, 147 Puglisi, P., 146n Pulcinelli, B., IXn Pullan, B., 84n Pusterla, famiglia, 304
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Quadri, I., 145n
Raimondo Berengario d’Angiò, 124 Raimondo di Goffredo, OFM, 125, 126 Raimondo di Maussac, OFM, XIV, 263 e n, 264 e n, 275, 277 Rainini, M., 39n, 50n, 51n, 55n, 56n Ramakus, G., 175n Rambaldus, 259n Ramo di Paganello, artista, 150 Ramponi (de’), Taddeo, magister, 267n Rando, D., 14, 19n, 172 e n, 180n, 185n, 203n, 248n Rangoni, Iacobino, podestà, 188n Raniero da Viterbo, cardinale, 50, 51, 53n, 55
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Rusuti, Filippo, artista, 145 Sabatier, P., X Sabatini, F., 277n Sacchetti, Giannozzo, poeta, 264n Saladini, famiglia, 139 Salerno, 123, 134n, 147, 327 Salimbene de Adam, o da Parma, OFM, 18 e n, 24 e n, 36, 38, 45, 46 e n, 47, 48 e n, 49 e n, 57, 61n, 62n, 63n, 64, 65n, 67 e n, 68 e n, 71 e n, 72n, 74n, 75n, 76 e n, 77 e n, 78n, 85 e n, 87n, 94, 95 e n, 96n, 185 e n, 188 e n, 210, 211 Salimbeni, Benuccio, 276n Salvemini, G., 78n Salvi, A., 138n, 140n Salvo di Burca, v. Burci, Salvo Sambin, P., 335 San Bartolomeo di Brogliano (PG), eremo, 222 San Galgano (Chiusdino, SI), abbazia, 146 e n, 147n San Gimignano (SI), 251n San Giovanni d’Acri (Acri, Accon, Israele), 51 San Giovanni in Fiore (CS), 39, 49n, e v. anche Gioacchino Sanchez Gil, F.V., 17n, 18n Sanfilippo, M., 177 e n Sanga, G., 332 Sant’Angelo Papale, v. Cagli Santagata, M., 268n, 270n Santi, F., 27n, 287n Sanudo, Marin, cronista, 277 e n Sanvitale, famiglia, 75 Sanvitale, Alberto, vescovo di Parma, 74 Sanzio, Raffaello, artista, 146n Sardegna, 44, 268n Saresella, D., 13n Sarlis (de), Francesco, OFP, 138n Sarteano (SI), v. Alberto Sassi, R., 223n, 224n, 228n Sassoferrato (AN), v. Bartolo
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Rolandino da Padova, cronista, 61n Roma (Urbe), 6, 14, 19, 21, 24, 26, 37, 44, 63n, 72n, 76n, 125, 130n, 131 e n, 132 e n, 135, 136, 140n, 144, 145, 146, 149, 151, 256, 266, 287n, 288n, 296 e n, 320n, 328, 331 - École Française de Rome, 14, 246n - Istituto Storico Italiano per il Medioevo, XIII, XIV, 9, 332 - Palazzo Laterano, 70n - Sancta Sanctorum, 145, 146n - San Giovanni in Laterano, basilica, 129, 135, 140n, 151 - San Paolo fuori le Mura, basilica, 146n - San Pietro, basilica, 135 - Sant’Isidoro, 320n - Santa Cecilia in Trastevere, 136 - Santa Maria Maggiore, basilica, 129, 130n, 136, 143n, 145 - Santi Apostoli, basilica, 287n - Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, abbazia, 145 Romagna, 220 Romania, provincia francescana, 67n Romanini, A.M., 146n Romano, I., 275n Romano, R., 198n Romano, S., 130n, 131n, 145 e n Romano d’Ezzelino (VI), v. Ezzelino III Roncetti, M., 150n, 332 Ronchini, A., 72n, 80n Ronzani, M., 71n, 74n, 182n, 209n Rosier-Catach, I., 68n Rosignoli, W., 331 Ross Sweeney, J., 86n Rossetti, E., 228n Rossi, famiglia, 75, 84n Rossi, Bernardo di Rolando, 68 e n, 69n, 84, 85 e n Rossi, L.C., 286n Rossi, M.C., 26n Rossi, Rolando, podestà, 68 e n Rossi Caponeri, M., 255n Rotili, M., 151n Rusconi, Antonio, OFM, 308 Rusconi, R., X e n, 20n, 94n, 183n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Sforza, Francesco, duca di Milano, 305, 311 Sgattoni, M., 320n Sgueia, Pietro, 221n Shatzmiller, J., 275n, 276n Sicilia, 26, 65n, 77n, 123, 124, 125n Siena, 136, 146n, 147 e n, 149, 175n, 180n, 186, 187, 188n, 189n, 256n, 267 e n, 273n, 277 e n, 278 e n, 289, 334, e v. anche Bernardino - San Francesco, convento, 180n - Santa Maria della Scala, ospedale, 180n Sihon (Seon), personaggio biblico, 106n Silano, G., 207n Silvestro, S., 146n Simmaco, papa, 100n Simo, OFM, 259n Simoni, A., 9 Sinclair, K.V., 325n, 326 e n Sini, D., 332 Sisto IV, papa, 233 Siviglia (Spagna), v. Isidoro Sofonia, profeta, 109n Solvi, D., 7n Somaini, F., 197n, 285n Somigli, T., 320n Somma, M.C., 133n Sonetti (dei), Malatesta, v. Malatesta, Malatesta di Pandolfo II Soranzo, Giovanni, doge, 269 Soranzo, G., 61n Sorbelli, A., 61n Sovramonte da Varese (Sovramonte Busti), OFM, 94, 97 e n, 98, 99, 100 e n, 101, 102, 103, 104, 105, 107, 113, 117 Spagna, 124, 150, e v. anche Stefano Spalato (Split, Croazia), 67n, 86, 187 e n, e v. anche Tommaso Spello (PG), 235 Spiazzi, A.M., 266n Spoleto (PG), 140n, 180n, 235 - San Simone, convento, 140n Stabili, Francesco, v. Cecco d’Ascoli Stanislao da Campagnola, 169 e n, 174 e n, 188n, 231n
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Sassonia, v. Giordano, Rodolfo Sassuolo (MO), v. Manfredi di Guido Savi, Domenico, detto Meco del Sacco, XII Savoia, famiglia, 209 Sbaralea, J., 35n, 182n Sbarbaro, M., 246n Scalia, G., 18n, 48n, 61n, 96n Scalon, C., 206n Scarpellini, P., 150n Scatamacchia, R., 219n Scharf, G.P., 332 Scharff, T., 22n Schenkluhn, W., 38n Schmid, K., 196n Schmidt, H.-J., 57n Schmitt, J.-C., 20n Schneyer, J.B., 95n Schumann, R., 64n Schwartz, D., 276n Scoccianti, M.M., 127n Scotti, famiglia, 74n, 75n Scozia, 150 Scrovegni, Enrico, 334 Scurcola Marsicana (AQ), 132 - Santa Maria della Vittoria, monastero, 132 Sedda, F., 41 e n, 46n, 332 Seidel, M., 278n Selci Lama (PG), 333 Sella, P., 96n Seneca, Lucio Anneo, filosofo, 103n, 291n, 319 ªenocak, N., 107 e n Sensi, L., 228n, 233n Sensi, M., 219, 222n, 235n, 236n, 315n, 320n Seon, v. Sihon Seregno (da), Baldassarre, 301 Sergi, G., 196n Serpico, F., 323n Serra, L., 149n Servasanto da Faenza, OFM, 96 Serventi, S., 99n Sestan, E., 78n Sevesi, P., 98 e n, 249n, 304
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Thumser, M., 51n Tigler, G., 150n, 151 e n Tilatti, A., XIII, 129n, 191-216, 200n, 202n, 204n, 205n, 206n, 207n Tino di Camaino, artista, 135 Tittarelli, L., 332 Tobia, profeta, 101n Todeschini, G., 29, 100n Todi (PG), 94, 97, 99, 107 e n, 108, 116, 250, e v. anche Fortunato - Biblioteca Comunale L. Leoni, 107 e n Toledo (Spagna), 266 Tolomeo, astronomo, 266, 275n Tolosa (Francia), v. Ludovico Tomasi, M., 205n Tomasso, 221n Tomei, A., 130n, 137n, 151n Tommasi, F., 150n Tommaso, apostolo, santo, 104n Tommaso d’Aquino, OFP, santo, 266 Tommaso da Celano, OFM, IX e n, X, 6, 7 e n, 39n-40n, 41, 42n, 183, 184n, 199, 200, 210 Tommaso da Eccleston, OFM, 38, 46 Tommaso da Spalato, cronista, 16, 86n, 184 e n, 187 e n Torino, 180n, 335 - Biblioteca Universitaria, 335 Torriani, famiglia, v. Della Torre Torriti, Jacopo, artista, 130, 151 Toscana, 131n, 136, 147 e n, 149, 264, 273n, 289 Toscana, provincia minoritica, 188 Toscani, X., 332 Toscano, B., 131n Totò, v. De Curtis, Antonio Toubert, P., 36n Tours (Francia), v. Martino Traiano, Marco Ulpio, imperatore, 296n Tranfaglia, N., 195n, 215n Traù (Trogir, Croazia), 67n, 86 Travale (Montieri, GR), v. Bindino Trento, 39, 316n - Biblioteca Comunale, 316n Tresseno (Trissino, VI), v. Oldrado
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Stefaneschi, Jacopo, 126n Stefani, Marchionne di Coppo, cronista, 263n, 264n Stefano, santo, 108n Stefano di Spagna, OFP, 20, 21, 22n, 63n Sulmona (AQ), 125, 135, 140n, 142n, 143 e n, 144, 147n, 149 e n - San Filippo Neri, chiesa, 147n, 149n - San Francesco della Scarpa, convento, 140n, 143 e n, 147n - San Martino, v. Sant’Agostino - Sant’Agostino, già San Martino, chiesa, 147n, 149n Sutter, C., 62n Svevia, v. Corradino, Enrico, Federico II, Manfredi Sydney (Australia), 325, 326 e n, 327 - Fisher Library University, 325, 326n Tabacco, G., 195n, 196n, 273n Tabarroni, A., 28n, 29, 30 e n Taddei, I., 66n, 135n, 196n, 219n, 233n Taddeo di Parma, magister, 266, 267n, 277 e n Tagliacozzo (AQ), 132, 148n - San Francesco, chiesa, 148n Tanzi, Rodolfo, 73n Tanzini, L., 246n Taranto, 137n Targa, A., 331 Tarlati, Guido, vescovo di Arezzo, 264, 272 Taro, fiume, 73n Tasini, G., 332 Tellenbach, G., 196n Teodosio, Flavio, imperatore, 296n Teramo, 128n, 145, 149n, 151 Terni, 321 Théry, J., 271n, 276n Thomann, J., 266n Thomas, A., 270n Thompson, A., 19 e n, 48n, 56n, 62n, 63n, 67n, 80n, 112n Thomson, W.R., 208n
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Treviso, 62n, 172, 180n, 203, 247, 248 e n, e v. anche Marca Trexler, R.C., 175 e n Trezzo sull’Adda (MI), 306 Trinci, famiglia, 222, 223, 225, 228, 232, 235, 236, 237 Trinci, Bartolomeo, 228n Trinci, Corrado, 228n Trinci, Corrado III, 222n, 225, 235 e n, 236, 237 Trinci, Nallo, 228n Trinci, Niccolò, 222 e n, 228n Trinci, Onofrio, vescovo di Foligno, 223 Trinci, Paoluccio, OFM, beato, 228n, 315 Trinci, Trincia, 228n Trinci, Ugolino III, 222, 228n Tronto, fiume, IX Tronzo, W., 145n, 146 Turchi, L., XIV e n, 313-328, 324n, 326n, 328n Turingia, 42, 43 e n, e v. anche Elisabetta Tuscia, 187 Tuscolo, v. Frascati Tuy (Tui, Spagna), 52n, e v. anche Luca
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Urbano IV, papa, 88, 133 Urbe, v. Roma Urbino, 226, 235 - San Donato, chiesa, 226 - San Francesco, chiesa, 226n Uribe, F., Xn
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Vagnozzi, Paoluccio, OFM, 222 Val di Sasso, o Valle Romita (AN), 221 e n, 222, 223, 225n - Santa Maria, chiesa, 221-222 Valle Castellana (TE), 134 Valle Romita, v. Val di Sasso Valle Santa, 124 Vallerani, M., 77n, 181n, 274n Valnerina, 254n Vanno, 221n Varanini, G.M., 14, 180n, 203n, 220n, 284n, 303n Varano (da), famiglia, 228, 231 e n, 236 Varano (da), Gentile di Berardo, 224 Varano (da), Giovanni di Rodolfo, 236 Varano (da), Rodolfo II, 223 Varano (da), Rodolfo III, 224 e n Varese, 97, 98, e v. anche Sovramonte Varmo (di), famiglia, 206 Varmo (di), Asquino, 206 Varrone, Marco Terenzio, 125 Ubaldo da Gubbio, 268, 269 e n Vasari, Giorgio, artista, 129n Ubertini (degli), Boso, vescovo di Vasina, A., 226n, 236n Arezzo, 272 Vauchez, A., 15 e n, 18-19, 50n, 56n, Ubertino da Casale, OFM, 129n 62n, 63n, 67n, 70 e n, 76n, 79n, 83n, Udine, 205 87n, 173n, 185n, 186n, 199n, 228n, Ugo di Digne, OFM, 49n 248n Ugolini, F., 335 Vecchio, S., 36n Ugolini, Iacobus, 258n Vecellio Segate, B., 141n Ugolino d’Ostia, v. Gregorio IX Veglia, M., 264n Ugorubei, famiglia, 68n Venanzio da Fabriano, OFM, 320n Umbria, 23, 125, 131n, 171, 174, 220, Venceslao di Lussemburgo, imperatore, 332 290 e n, 292, 293n Umilia de Donatio, 98 Veneto, 61, 176, 201n Ungheria, 123, 137, e v. anche Elisabet- Venezia, 175n, 288n, 290, 303, 331, 334 ta, Maria Venier, F., 93n Urbania (PU), 316n Venimbeni, Francesco, 259n - Parco, 316n Verbeke, W., 50n
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Visso (MC), 236, 325 Viterbo, 146, 175n, e v. anche Raniero - Centro Studi Santa Rosa da Viterbo, 332 - San Francesco, chiesa, 146 Vitry (Francia), v. Giacomo Vivanti, C., 198n Vizio, Bernardo, frate, 71 e n, 73, 74 e n, 75 Voci, A., 36n Vollet, M., 286n Volpe, G., 13 e n
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Vercelli, 62n, 185, e v. anche Giovanni Vergani, G.A., 141n Vergine, v. Maria Verhelst, D., 50n Verna (AR), santuario, 130n, 202, 225 Vernio (PO), castello, 276n Verona, 62 e n, 63n, 173, 175n, 180n, 185, 200n, 203, e v. anche Facio, Pietro Veronese, F., XIIn Via Emilia, 73 e n Via Picente, 125n Via Salaria, 125 e n, 127 Viallet, L., 249n Vianello, D., 331 Vicenza, 62n, 63n, 172, 180n, 204, 250n, 289, e v. anche Bartolomeo, Giovanni - San Marco, chiesa, 180n Vienne (Francia), 129n Villani, Giovanni, cronista, 263 e n, 264n, 271n, 275, 277 Villani, V., 257n Villalta (UD), 202 Violante, C., 196n, 211n Vipera (o della Vipera), Antonio, 150n Visconti, famiglia, 206, 209, 230, 292, 293, 294, 295, 298 Visconti, Bernabò, 285n Visconti, Filippo Maria, signore di Milano, 283n, 303, 305, 311 Visconti, Galeazzo II, signore di Milano, 230 Visconti, Gian Galeazzo, duca di Milano, XIV, 230 e n, 281 e n, 282n, 283n, 284 e n, 285, 287n, 289 e n, 290 e n, 291 e n, 294 e n, 295, 296 e n, 298 Visconti, Giovanni, arcivescovo di Milano, 298 Visconti, Matteo, signore di Milano, 272, 293 e n Visconti, Ottone, arcivescovo di Milano, 293n, 298 Visani, O., 99n
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Wadding, L., 259n, 286n Waley, D., 128n Walter, I., 68n Weill-Parot, N., 267n Welkenuysen, A., 50n Wenck, K., 43n Werner, K.F., 195n Winkelmann, E., 42n Wycliffe, John, predicatore, 288 Zabbia, M., 332 Zaccheo, personaggio biblico, 102n Zafarana, Z., 48n, 67n, 94n Zaggia, M., 285n Zallo, artista, 143n Zanetti, L., 331 Zappasodi, E., 136n, 139n, 142n, 143n Zarri, G., 233n Zdekauer, L., 177n Zeckhauser, 229n Zeri, F., 130n Zolli, P., 13n Zorzi, A., 85n, 89n, 196n, 220n, 221n, 230n, 257n, 282n, 283n, 284n, 289n Zucchini, S., 131n Çure, Bartholus, OFM, 259n Zurli, L., 332 Çutii, Bartholus, 259n
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INDICE DELLE IMMAGINI
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Simone Martini, San Ludovico di Tolosa, 1317 ca.
Pag. 152 »
153
Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, 1295-1310 (dettagli)
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154-155
Roma, Abbazia dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane. Sagrestia, particolare del cantaro, 1280-1290
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155
Deodato di Cosma, portale di facciata della cattedrale di Santa Maria e San Berardo di Teramo, 1332, dettaglio
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156
Roma, Palazzo del Laterano. Cappella del Sancta Sanctorum, dettaglio della decorazione parietale, 1277-1280
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156
Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, leone stiloforo, 1295-1310
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157
Prato, Castello federiciano. Dettaglio del portale d’ingresso, 1234 ca
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157
Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, leone stiloforo, 1295-1310
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158-159
Capua, Museo Provinciale Campano. Leone frammentario proveniente dalla Porta di Capua, 1234-1239
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160
Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, capitello
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160
Arnolfo di Cambio (attr.), Tomba di papa Adriano V, 1276. Viterbo, San Francesco, capitello
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161
San Galgano, chiesa abbaziale, capitello, 1270 ca.
»
161
Ascoli Piceno, San Francesco. Portale centrale della facciata, capitello, 1295-1310
»
162
Monreale, cattedrale, chiostro monastico. Capitello binato, 1180-85
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162
Caserta Vecchia, duomo. Pulpito, capitello, 1213 ca.
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Simone Martini, Il cardinale Gentile da Partino si inginocchia al cospetto di san Martino, secondo decennio del sec. XIV
INDICE DELLE IMMAGINI
Amatrice, San Francesco. Portale di facciata, fine XIV-inizi XV sec. (e dettagli degli anni 1295-1310)
Pag. 164-165
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166
Ottaviano Nelli, Scene della vita della Vergine, Crocifissione fra santi, e San Francesco che riceve le stimmate, 1424. Foligno, Palazzo Trinci
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239
Ottaviano Nelli, San Francesco che riceve le stimmate, 1424. Foligno, Palazzo Trinci
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240
Ottaviano Nelli, I santi Domenico, Antonio abate e Giovanni Battista, 1424. Foligno, Palazzo Trinci
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Amatrice, San Francesco. Portale di facciata, Madonna in trono col Bambino tra due Angeli omaggianti, fine XIV-inizi XV sec.
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Indice generale
Roberto Lambertini, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag. VII
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Prima giornata
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3
Grado Giovanni Merlo, Francescanesimo, minoritismo e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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11
Maria Pia Alberzoni, I frati Minori nello scontro tra Federico II e il papato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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33
Marina Gazzini, Tra Chiesa e Impero, tra movimenti di pace ed eresia. Il francescano Gerardo Boccabadati da Modena, la Grande Devozione e gli statuti del comune di Parma (12321233) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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59
Eleonora Lombardo, La pragmatica politica nei sermoni minoritici tra Due e Trecento. Due casi di studio . . . . . . . . .
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91
Furio Cappelli, Tra la Chiesa e il Regno: arte, francescanesimo e società cittadina tra Niccolò IV e Carlo II d’Angiò . . . .
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121
Michele Pellegrini, Frati minori e istituzioni politiche cittadine nell’Italia comunale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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167
Andrea Tilatti, Minori e nobiltà. Qualche esempio e qualche riflessione per l’Italia del Due e Trecento . . . . . . . . . . . . . . .
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191
Jean-Baptiste Delzant, Signorie cittadine e Frati Minori nel contesto dell’Italia centrale. Appunti per lo studio di una relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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217
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Antonio Rigon, Saluto inaugurale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Seconda giornata
INDICE GENERALE
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243
Rosa Maria Dessì, Astrologie, religion et pouvoirs au Trecento: Cecco d’Ascoli, le prince, le pape et deux frères Mineurs . . . .
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261
Barbara Baldi, Tradizione cittadina e legittimazione imperiale nell’orazione a Milano di Pietro Filargis (1395) . . . . . . . . . . .
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279
Marina Benedetti, «Per quisti ribaldi fray se disfa il mondo». Il contrasto tra Bernardino da Siena e Amedeo Landi . . . . . . . . .
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299
Lorenzo Turchi, Il tema de pace in Giacomo della Marca . .
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313
E
Luca Marcelli, “Economia dell’offerta” e amministrazioni comunali: il caso dei Minori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lectio magistralis del Premiato 2014
Attilio Bartoli Langeli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
329
Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .
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341
Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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347
Indice delle immagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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373
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Indici
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Composto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo
Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 dallo Stabilimento Tipografico « Pliniana » Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG) www.pliniana.it
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Atti del premio internazionale Ascoli Piceno - III serie
Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica nell’Italia del Trecento. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-3 dicembre 2005), a cura di A. Rigon (2007), pp. 362, tavv. 27.
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Festa e politica della festa nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-2 dicembre 2006), a cura di A. Rigon (2008), pp. 271.
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L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre1 dicembre 2007), a cura di A. Rigon - F. Veronese (2009), pp. 404. Condannare all’oblio. Pratiche della Damnatio memoriae nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2008), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon (2010), pp. 254. Fama e publica vox nel Medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2011), pp. 271, ill. Parole e realtà dell’amicizia medievale. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2012), pp. 292, ill. Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del maestro di Offida (secoli XIVXV). Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-3 dicembre 2011), a cura di S. Maddalo - I. Lori Sanfilippo (2013), pp. 386, ill. I giovani nel medioevo. Ideali e pratiche di vita. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 29 novembre - 1 dicembre 2012), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon (2014), pp. 308, ill.
Comunicare nel medioevo. La conoscenza e lâ&#x20AC;&#x2122;uso delle lingue nei secoli XII-XV. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 28-30 novembre 2013), a cura di I. Lori Sanfilippo - G. Pinto (2015), pp. 354, ill.
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Francescani e politica nelle autonomie cittadine dellâ&#x20AC;&#x2122;Italia basso-medioevale. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXVI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2014), a cura di I. Lori Sanfilippo e R. Lambertini (2017), pp. 378, ill.