Parole e Realtà dell'amicizia Medievale - Atti del Convegno 2010

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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”

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PAROLE E REALTÀ DELL’AMICIZIA MEDIEVALE

Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno

(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010)

a cura di

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ISA LORI SANFILIPPO e ANTONIO RIGON

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2012


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III serie diretta da Antonio Rigon

Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

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Comune di Ascoli Piceno

Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno

Istituto storico italiano per il medio evo

© Copyright 2012 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO

Redazione: SILVIA GIULIANO, SALVATORE SANSONE ISBN 978-88-89190-97-5

Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2012


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Ringrazio il Prof. Morganti per le cortesi parole nei miei riguardi e il Prof. Rigon per la bella lettera che mi ha inviato. Io intervengo a queste giornate di studi medioevali non per meriti di competenza ma per la curiosità che sempre mi ha attratto verso il medioevo così ricco di arte, di filosofia, di teologia e, particolarmente, per la cultura che aveva affratellato l’Europa. Mi è stato detto che in queste giornate di studio si sarebbe riflettuto sul tema della amicizia: tema affascinante e mai sufficientemente indagato. Il mio intervento scaturisce in parte dalle letture fatte e particolarmente dalle esperienze vissute. Vorrei dire qualcosa sul significato della amicizia nella cultura giudaica e cristiana. L’amicizia, a mio parere, è uno dei temi più delicati che meriterebbe una straordinaria attenzione. Oggi se ne parla, ma non si riesce ad esprimere la valenza del termine. Il motto popolare: «Chi trova un amico, trova un tesoro» sta ad indicare che trattasi di merce di grande valore ma rara. Va ricercata e può essere trovata solo se siamo capaci di impegnare le nostre migliori risorse. Che cos’è l’amicizia? L’amicizia è una forma di amore umano, reciproco e simultaneo tra due persone. In quanto tale è un fattore primario di spiritualità. Intavolare un rapporto di amicizia tra due persone non è solo dare e ricevere bensì è aprire il cuore e partecipare i desideri, i sogni, i progetti ad un’altra persona e comunicarsi reciprocamente. Per cui l’amicizia non è una somma, ma è qualcosa che supera quello che l’uno e l’altro può dare. Nella nostra grande lunga storia io voglio fare solo tre riflessioni: nel mondo giudaico prima che nascesse Gesù Cristo, ci sono tante frasi che parlano dell’amicizia; però non c’è una vera trattazione perché – come dire – c’era quasi la convinzione che l’amicizia è una cosa rara, bisogna parlarne poco: la gente parla di amicizia, ma molte volte inganna. Anche la men-


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talità beduina portava a questo. Si, è vero, abbiamo l’esempio di due grandi amici. Gionata e Davide. Gionata era il figlio di Saul, Saul voleva uccidere Davide e Gionata gli dice: «Guarda io e te siamo la stessa cosa, per cui mi farei uccidere pur di salvarti». Abbiamo dei testi belli. Ad esempio si dice «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova trova un tesoro; per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore, un amico fedele è un balsamo di vita» (Sir 6, 14-16). Però sembra quasi che l’amicizia si veda più nel senso di utilità; io ho un amico, quindi ho un protettore. Chi dà una svolta a questo è Gesù. Gesù è il grande maestro che vive col suo gruppo e dice «Io vi ho chiamato amici, perché tutto quello che sapevo ve l’ho detto». Quindi l’amicizia non è basata sull’interesse ma sulla comunicazione delle cose più profonde, più vere, più esistenziali che una persona possiede. Io, nella mia piccola povera vita di prete, trovavo questi sentimenti nei giovani, soprattutto. Il giovane, quando fa amicizia, non calcola, noi adulti tante volte calcoliamo. Ragioniamo cosi: «Sappiamo che lei è amico di quel tale, quindi mi può fare un favore?». Il ragazzo questo non lo fa. Il ragazzo vede l’amicizia proprio nel senso bello cioè cercare sempre qualcosa che ci supera, qualcosa che dovrebbe essere quasi perfetto, umanamente impossibile, un sogno molto bello. Quando Giuda lo tradisce, Gesù gli dice «Amico, con un bacio tradisce l’amico!». Chiamava Lazzaro amico. Quindi lui (Gesù) usa sempre questo rapporto di amicizia coi suoi apostoli che quasi li metteva sullo stesso piano, difatti l’ultima sera lava i piedi ai suoi. Colui che ha riflettuto sul tema dell’amicizia, è stato un grande pensatore del medioevo cristiano, Tommaso d’Aquino, un italiano che si è formato a Colonia e ha insegnato poi a Parigi e quindi uno che ha conosciuto tutta la cultura europea. Era discepolo di sant’Alberto a Colonia – Colonia era anche la città di Duns Scoto – e ultimamente è stata anche la città di Edith Stein; un grande centro di cultura cristiana. S. Tommaso dice che l’amicizia è una forma di amore. L’amore di amicizia è la più delicata e sublime espressione dell’amore umano, si basa sulla benevolenza – qui si parla di amor benevolentiae, termine latino – per cui si ama il bene in sé. Io ti voglio bene perché ci sei, perché sei Tu – al di là di tutte le tue caratteristiche – ed è contrastato dall’amore di concupiscenza: dico di amarti perché spero di ottenere dei favori; quello non è vero amore, non è amicizia quella … quella è furbizia!; la benevolenza, a sua volta, è un moto diretto verso l’altro ed è il fondamento dell’amicizia, per cui cosa fa colui che ama? vorrebbe che le persone che lui ama lo amassero. Quando il ragazzo si innamora di una ragazza e vice-


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versa sogna che l’altra persona corrisponda. In una bella frase san Tommaso dice «amicus amat amari»: l’amico desidera essere amato. A questo punto dobbiamo allargare la nostra riflessione. Tommaso, ragionando su queste cose dette fino ad ora, si attiene molto ad Aristotele: infatti è stato il primo filosofo cristiano che ha valorizzato Aristotele in Europa. Si pone poi una domanda: «Può esistere amicizia dell’uomo con Dio?», Aristotele dice di no, perché è troppo l’abisso tra l’uomo e Dio. È una relazione impossibile. Tommaso dice sì, è possibile, ci può essere l’amicizia tra l’uomo e Dio, perché dice l’amicizia o ti trova uguale o ti rende uguali. E aggiunge «Dio innalza l’uomo». Egli usa un termine che oggi non si capisce tanto facilmente, “la Grazia”: che cosa vuol dire? Cos’è la Grazia? È una relazione vitale e personale con Dio, che ti sublima, ti porta in alto per cui il mio Io si confronta col Tu di Dio e si parla assieme. Vi faccio un esempio per farmi capire bene, se voi andate in una qualsiasi cappellina della Congregazione di Madre Teresa di Calcutta, troverete vicino al crocifisso lo scritto “I thert”. Quella frase inizialmente la dice Gesù. Gesù dice «io ho sete del tuo amore» io desidero di essere amato da te come tu desideri di essere amato da Dio. Questa è la forma sublime, direbbe Tommaso, di amicizia perché non c’è nessun interesse umano, ma soltanto idea di qualcosa di così bello che fa compenetrare due esseri nella profondità dell’intelligenza e del cuore e creare un equilibrio di gioia che è quasi indescrivibile. È straordinaria questa realtà: la possibilità dell’uomo di diventare amico di Dio e perché questo sia credibile, Dio si è fatto Uomo, ha avuto bisogno di essere amato, Gesù ha avuto bisogno di essere amato dalla sua mamma, da Giuseppe, dai suoi amici; ecco allora capite quant’è bello questo fatto dell’amicizia! Dicevo all’inizio che, quando parlo di queste cose, ho paura di parlarne perché se ne parla in maniera così superficiale e, a volte, volgare in maniera imprecisa per cui si riduce l’amicizia a un amore di concupiscenza, a una furbata, farti degli amici per avere del potere … capite? È tutto il contrario! L’amicizia vera è quella che si può capire stando con i ragazzi; gli adolescenti son quelli che ti fan capire di più queste cose, perché in loro c’è l’utopia, c’è il sogno, forse non lo realizzeranno, non lo so, però c’è e questo fa piacere! Grazie.

S. E. Mons. Silvano Montevecchi Vescovo di Ascoli Piceno


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PRIMA GIORNATA


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Introduzione ai lavori


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L’introduzione ai lavori che, in qualità di presidente del Comitato scientifico dell’Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli” e della Giuria del Premio internazionale Ascoli Piceno, sono impegnato a svolgere ogni anno è sempre stata anche un rapido bilancio delle attività passate, una riflessione sul presente, uno sguardo sulle prospettive future del nostro Centro di studi. Il bilancio è positivo: non ultima prova ne è la puntuale uscita del quarto volume della nuova serie, contenente gli Atti del convegno del 2008 sulle pratiche della “damnatio memoriae” nel medioevo che verrà presentato sabato prossimo a conclusione dell’incontro di quest’anno. Chi ha qualche esperienza nel campo della pubblicazione di Atti congressuali sa quanto difficile sia mantenere le promesse, stare nei tempi previsti, far uscire puntualmente i volumi. Grazie dunque agli autori e a quanti hanno lavorato, con diverse responsabilità, per rispettare gli impegni. L’efficienza diventa, in questo caso, eccellenza. Quanto alla qualità dei risultati scientifici non devo essere io a parlare, anche perché innovatività di temi, apertura internazionale, coinvolgimento della città, delle scuole, degli studiosi e del mondo della cultura ascolana sono testimoniati e riflessi nelle manifestazioni che abbiamo promosso con successo, nei libri pubblicati, nelle attività alle quali si è dato impulso in rapporto al Premio e ai convegni ad esso collegati. Ci conforta il consenso della comunità scientifica che non ci è mai mancato, l’adesione di tanti colleghi, tra cui molti giovani, alle nostre iniziative, il parere di illustri studiosi, non ultimo il patriarca dei medievisti e uno dei più grandi storici viventi, Jacques Le Goff, del quale sabato prossimo, in occasione del conferimento del premio di quest’anno, leggerò una lettera che mi ha fatto gentilmente pervenire, manifestando il proprio apprezzamento per il lavoro che andiamo svolgendo.


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Tutto bene? Non proprio: Quest’anno la crisi economica che attraversa il nostro paese ha raggiunto pesantemente anche noi, come altri istituti italiani di cultura e di ricerca: drastici tagli, risorse dimezzate. Non entro nei dettagli che meglio di me conosce il presidente dell’Istituto superiore di studi medievali, Luigi Morganti; neppure voglio intonare la litania delle lamentele. Siamo consapevoli delle difficoltà del momento e, sia pure in condizioni oggettivamente non facili che forse ci porteranno a ridurre e ridimensionare le nostre attività, intendiamo rimboccarci le maniche perché crediamo nella bontà di quello che stiamo facendo, consapevoli del patrimonio di stima e , perché no, di amicizia che ci siamo guadagnati. So che la Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno, il Comune di Ascoli e la Provincia sono impegnati a sostenerci nei modi possibili e con le risorse disponibili; so che anche la Regione Marche presta crescente attenzione al Premio, al convegno e alle attività dell’Istituto “Cecco d’Ascoli” che, fortunatamente, è guidato da un presidente entusiasta, attivo, innamorato di Ascoli, un vero mastino nel difendere l’Istituto, nel propagandarne le manifestazioni, nel procacciare risorse. Le parole di ringraziamento che, anche a nome dei colleghi del Comitato scientifico, rivolgo a lui e al gruppo dei suoi e nostri collaboratori non sono né rituali né d’occasione, ma frutto di sincera stima e, ancora una volta, perché no, di amicizia.

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Il convegno che oggi si inaugura ha appunto per tema l’amicizia, precisamente le parole e la realtà dell’amicizia medievale: un argomento nuovo, o quanto meno poco frequentato dalla medievistica italiana. Certo fin dal liceo abbiamo imparato a conoscere i legami che univano personaggi come Dante Alighieri, Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, l’amicizia intesa come condivisione di aristocratici sentimenti e raffinate convenzioni espressive che costituì lo sfondo sul quale fiorì il cenacolo dei rimatori noti come stilnovisti; sappiamo quale rete di relazioni amicali fra laici ed ecclesiastici si stringesse attorno all’imperatore Ottone III e ai suoi progetti di “renovatio imperii” e riforma del papato; conosciamo la forza di attrazione e la densità di significati dell’amicizia spirituale negli ambienti monastici dell’ XI-XII secolo, cui hanno accennato già ieri con finezza, nell’anteprima di questo incontro, mons. Silvano Montevecchi, e Davide Rondoni. Di questi aspetti, momenti e figure dell’amicizia in età medievale sentiremo parlare, credo, nelle relazioni che ci accingiamo ad ascoltare. Ma l’ambizione del convegno è quella di ampliare gli orizzonti, moltiplicare le prospettive, estendere l’analisi alle diverse concezioni dell’amicizia, ai


INTRODUZIONE AI LAVORI

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diversi modi e ai diversi contesti in cui si espresse. Come sottolineato nel pieghevole di presentazione di queste giornate di studio la parola “amicizia” non significa sempre e comunque la stessa cosa in luoghi, in tempi, in contesti differenti. Cosa si intendeva con quel termine nel medioevo e che funzioni assumeva questo legame nella realtà dei rapporti sociali, politici ed anche economici di quell’epoca? Poteva, l’amicizia, superare le barriere di censo, di religione, di genere? Quel che teologi, letterati e giuristi scrivevano dell’amicizia corrispondeva all’esperienza reale che uomini e donne facevano dei rapporti con amici ed amiche? Queste le domande, o alcune delle domande, alle quali il convegno che ora si apre intende rispondere. Il filo conduttore sarà il linguaggio: le parole (forse si sarebbero dovuti aggiungere i gesti e le immagini) e la realtà dell’amicizia. E mi piace ricordare come, anche nei due precedenti convegni, uno degli elementi portanti e unificanti sia stato proprio quello del linguaggio, come chiave di volta per interpretare significati e pratiche della damnatio memoriae, priva nel medioevo, a differenza del mondo romano, di una chiara definizione giuridica e di procedure attuative fissate in una sicura normativa di riferimento; oppure come espressione di una publica vox e fama capaci di incidere pesantemente nella vita sociale, politica, economica, culturale. Il linguaggio non è, d’altronde, solo un modo di narrare e descrivere la realtà, ma è esso stesso realtà gravida di significati. Nei regimi signorili del basso medioevo il linguaggio dell’amicizia rivestì i legami di dipendenza e di clientela, oltre che dell’alleanza politica, sui quali si reggevano. Nei registri delle cancellerie, come nella storiografia di corte le dinamiche politiche sono spesso rappresentate come mutevoli rapporti di amicizia/inimicizia con un ricorso ad un lessico della fedeltà/infedeltà che non rappresenta più legami giuridici tradizionali di tipo vassallatico, ma nuovi vincoli di natura clientelare e affettiva. L’ambiguità di questo modo di intendere la politica e l’amicizia e il potenziale elemento di corruzione insito in questa maniera di governare era ben presente a teologi, trattatisti e letterati e veniva da essi denunciato. D’altra parte, pur rimanendo l’amicizia una componente essenziale dell’esistenza, non vi furono nel medioevo un giudizio e un atteggiamento costantemente positivo e favorevole verso di essa. Basta leggere il De amicitia di Boncompagno da Signa, le sue distinzioni tra amicizia celeste e amicizia terrena, la divisione di quest’ultima in 26 tipi per rendersi conto del profondo scetticismo che il magister bolognese nutriva circa la possibilità di vivere su questa terra un’autentica esperienza di amicizia.


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Forse anche su questo si avrà modo di ragionare. Non abbiamo peraltro nessuna pretesa di esaustività, anzi fin d’ora penso che molto ci sarebbe da dire sulla fratellanza d’armi, l’amicizia al femminile, le solidarietà confraternali. Albertano, un giudice di Brescia che, a metà del Duecento, fu anche consigliere del podestà di Genova, scrisse in un sermone che il banchetto confraternale al quale, secondo tradizione erano invitati i poveri, era un “coagulo di amicizia”. Anche questi aspetti, in parte noti, andrebbero approfonditi in rapporto al tema del convegno ma, ripeto, qui non si vuol dir tutto, si vogliono invece avanzare proposte, individuare problemi, aprire piste di ricerca, approfondire tematiche relative alla storia e alla civiltà medievale, nella convinzione di offrire un contributo di riflessioni e di conoscenze importanti non solo per il passato, ma anche per il nostro presente.


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Amicizia e cittadinanza nel Duecento. Un percorso (non lineare) da Boncompagno da Signa alla letteratura didattica


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1*. Dagli ultimi decenni del secolo XIII molti intellettuali scolastici riattivarono il linguaggio dell’amicizia per definire i legami tra gli uomini dentro una comunità politica e l’affetto che si doveva portare a quella stessa comunità: il discorso fu ripreso, è abbastanza noto, anche da predicatori di alta cultura, come Remigio de’ Girolami1. Fu importante in questo indirizzo la nozione di amicizia politica offerta nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea, indagata in vari commenti al testo aristotelico che sono stati studiati qualche anno fa da Bénédicte Sère proprio in riferimento al tema che ci interessa2. Qui vorrei invece puntare l’attenzione verso un periodo precedente e una diversa zona culturale, laica e pragmatica, proseguendo un lavoro iniziato alcuni anni or sono3. Esiste nella cultura comunale prearistotelica (lo schematismo serve almeno per intenderci sull’impronta prevalente di alcuni testi) un movimento, certo non lineare, verso la teorizzazione dei cives come amici fra loro e amici del comune, una tendenza alimentata da materiali che per larga parte del Duecento sono di provenienza disparata: spes-

* Ringrazio Élisabeth Crouzet-Pavan per avermi invitato a discutere dell’amicizia comunale in un seminario tenuto presso l’Università di Paris IV-Sorbonne il 12 marzo 2009 e Antonio Rigon per avermi dato l’occasione di riprendere il tema. 1 A. Black, The Individual and Society, in The Cambridge History of Medieval Political Thought, cur. J.H. Burns, Cambridge 1988, pp. 596-597; Black, Political Thought in Europe, 1250-1450, Cambridge 1992, pp. 18 e 119-121. 2 B. Sère, Penser l’amitié au moyen âge. Étude historique des commentaires sur les livres VIII et IX de l’Éthique à Nicomaque (XIIIe-XVe siècle), Turnhout 2007, soprattutto pp. 227-246 su amicizia e comunità politica. Altri testi si possono trovare nella bella raccolta Sagesses de l’amitié II. Anthologie de textes philosophiques patristiques, médiévaux et renaissants, cur. J. Follon - J. McEvoy, Paris-Fribourg 2003. 3 E. Artifoni, Segreti e amicizie nell’educazione civile dell’età dei comuni, in Il Segreto, Firenze 2006 (= «Micrologus», 14 [2006]), pp. 259-274.


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so ciceroniana (il Laelius de amicitia) ma altrettanto spesso biblica, sentenziosa, esemplare, senza dimenticare gli umili testi dell’alfabetizzazione latina di base, tra cui emergono i Disticha Catonis, letteralmente onnipresenti; il tutto raccolto in scritture didattiche in prosa che non mancano mai di insegnare, fra molte altre cose, secondo quali modalità è opportuno che si sviluppi amicizia fra gli uomini. Escludo dunque i testi in versi, di cui in questo incontro si parla con la competenza che è necessaria4. Anche se un numero recentissimo della rivista «Arzanà», dedicato proprio a Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, ha affrontato in parte questa produzione didattica5, qualcosa rimane da dire, e cercherò di farlo sottolineando due punti, tenendomi sempre nella prospettiva del rapporto fra amicizia e cittadinanza: la riflessione sull’amicizia sullo sfondo di una storia dei gruppi intellettuali duecenteschi; la capacità dell’amicizia di disporsi in rapporto con altri luoghi sensibili della cultura civica, tra cui la nozione di fides. 2. Che il percorso non sia lineare, né dal punto di vista della qualità culturale né da quello dell’atteggiamento intellettuale, è dimostrato proprio dal pezzo di apertura obbligato, il Liber de amicitia scritto intorno al 1205 dal dettatore e maestro di retorica Boncompagno da Signa6. Trovano

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4 Cfr. la relazione di E. Pasquini in questo volume e, dello stesso autore, le voci amica, amicizia, amico, amistà, amistanza, in Enciclopedia dantesca, I, Roma 1970. In generale, per il linguaggio poetico del Duecento, J. Schulze, Amicitia vocalis. Sechs Kapitel zur frühen italienischen Lyrik mit Seitenblicken auf die Malerei, Tübingen 2004. Il tema ha assunto particolare rilievo negli studi guittoniani, da C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966 (capitoli I e II della terza parte) fino a H. Wayne Storey, Guittone e la societas amicorum: i due “tempi” della lettura del De amicitia, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cur. M. Picone, Firenze 1995, pp. 53-70. 5 Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010 (= «Arzanà», 13 [2010]), in cui interessano particolarmente il nostro discorso, oltre all’introduzione della curatrice, questi interventi: P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la concordia civium. Le Favolello de Brunet Latin [et une nouvelle source du Tresor], pp. 55-108 (la fonte per i capp. 105 e 106 del secondo libro del Tresor, cioè il cap. 33 del Liber de amicitia di Boncompagno da Signa, è già segnalata in Artifoni, Segreti e amicizie cit., p. 271 nota 24); C. Le Lay, La consolation par la citation: la lettre de Guittone d’Arezzo à un ami ruiné (Lettre III), pp. 109-128; A. Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» [LX.3]. Amicizia, precettistica erotica e cultura podestarile-consiliare nel Fiore, pp. 137-170. 6 Edizioni: “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (da cui citerò in seguito, con introduzione ancora utile); il testo Nathan è riprodotto, con lievi correzioni, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia, introduzione di M. Baldini, traduzione e note di C. Conti, Signa 1999 (edizione poco diffusa e fuori commercio, fornita di ottime note). La bibliografia sull’opera non è troppo estesa; per limitarci a voci relativamente recenti: G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, [1960], ora in Il pensie-


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giustificazione le letture che hanno visto nel Liber un catalogo anticiceroniano e alquanto pessimista delle specie dell’amicizia, o quelle che l’hanno considerato soprattutto nel suo ruolo di fornitore di molti materiali al Favolello di Brunetto Latini. Rimane che il lavoro di Boncompagno è una macchina culturale a molte dimensioni. Certamente, sarebbe assurdo negarlo, propone una tipologia gustosa. Non c’è dubbio che la descrizione di ventisei genera amicorum, dall’amico fedele a quello eguale, dall’amico sofistico a quello versipelle, passando per l’amico ventoso, il vitreo e il ferreo senza dimenticare il futile, il condizionale e l’amico di ventura (mi fermo a dieci per brevità), non c’è dubbio, dicevo, che questa descrizione sia difficile da dimenticare. Per avere un’idea, proviamo a moltiplicare per ventisei l’energia definitoria impiegata per l’amico altezzoso, colui - dice Boncompagno - che sembra portare nel naso dei granelli di senape, per cui pare che gli puzzi l’amicizia di chiunque7; oppure quella applicata all’amico mercantesco, che elargisce a piene mani per mostrare liberalità ma sperando in un tornaconto raddoppiato: in un tripudio elencatorio i vari amici mercanteschi donano elefanti, cammelli, cavalli, orsi, bestie e uccelli, anel-

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ro e l’opera di Boncompagno da Signa, cur. M. Baldini, Signa 2002, pp. 67-77; M. Gallina, L’amicizia tradita, ovvero la prigionia in Monferrato di un sovrano bizantino nell’Amicitia di Boncompagno da Signa, [1990], ora in Gallina, Conflitti e coesistenza nel Mediterraneo medievale: mondo bizantino e Occidente latino, Spoleto 2003, pp. 221-248; G. Fasoli, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp. 317-330; M. Baldini, Introduzione, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia cit., pp. 9-33; P. Garbini, L’amicizia in palio, il campione di nuoto e l’azzardo: sport e gioco in Boncompagno da Signa, «Ludica», 8 (2002), pp. 163167; M. Dunne, Good Friends or Bad Friends? The Amicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship. Essays in Medieval Thought and Beyond in Honor of the Rev. Professor James McEvoy, cur. T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004, pp. 399-400; Artifoni, Segreti e amicizie cit.; Gasparini, L’amitié comme fondement cit. Oltre che nel saggio citato sopra, ha dedicato in più luoghi pagine importanti all’Amicitia Paolo Garbini, del quale si vedano per i riferimenti completi le introduzioni a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, ed. P. Garbini, Roma 1996, a Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, ed. P. Garbini, Roma 1999 e a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii. Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, ed. P. Garbini, Firenze 2004. Anche se citerò dalle edizioni a stampa, segnalo l’utile sito Medieval Diplomatic and the ‘Ars dictandi’, curato da S.M. Wight, contenente tutte le opere di Boncompagno secondo varie edizioni <http://scrineum.unipv.it/ wight/wight.htm>. 7 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 25, p. 63: «De superstitioso amico. Superstitiosus amicus in naribus defert spiritum et sinapim, unde quorumlibet amicitia sibi fetere videtur, et ex quodam arrogantie fastu cuilibet superesse laborat, nam omnibus detrahit, cunctos deridet, mores alienos reprehendit et suos commendat».


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li, gemme, vasi e altri oggetti di metallo, pallii, coperte, cuscini, pelli e panni, balsamo, triaca, muschio, noci moscate e indiane, garofani e altri aromi8. Mi fermo qui appunto perché vorrei proporre una lettura che, al di là della sorprendente invenzione letteraria, metta in rilievo altre cifre culturali ben marcate del trattato di Boncompagno. Cominciamo con la cornice. Il Liber de amicitia si presenta come una altercatio fra il Corpo e l’Anima dell’autore stesso, secondo un modello di cui si trovano antecedenti precisi già nel vecchio libro di Hans Walther sulle controversie poetiche nella letteratura mediolatina9. Il modello è organizzato dal maestro di Signa in forme che richiamano in primo luogo il linguaggio delle cause giudiziarie e, in misura minore, quello della quaestio scolastica. Il Corpo mette in dubbio la possibilità di una vera amicizia fra gli uomini, l’Anima si oppone a tale rimostranza:

inter Corpus et Animam Boncompagni oriebatur materia questionum quibus Corpus non desinebat de amicorum tergiversationibus lamentari et Anima conquerendi causam expressis rationibus removebat10.

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Tra i due contendenti assume funzione di giudice, con il consenso delle parti, la Ragione («iudicis ordinarii locum assumens ex utriusque partis consensu»), la quale ordina al Corpo di illustrare la sua querimonia, il che subito avviene (cap. 2)11. Seguono le allegazioni contrarie dell’Anima (cap. 3) e una replica del Corpo che si rivolge alla Ragione annunciando la sua volontà di riprendere l’argomento «a creatione mundi» (cap. 4). La Ragione lo esorta con ironia a non trattare cose troppo grandi e a tenersi stretto al tema dell’amicizia (cap. 5). Il Corpo ubbidisce, non senza notare

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Ibid., cap. 28, p. 66: «De amico mercali. Amicus mercalis propria sub quadam curialitatis specie largitur, sperans recipere duplicata [...]. Item quidam elephantes, quidam camelos, quidam equos vel ursos et diversa genera bestiarum et volucrum, quidam anulos, gemmas, vasa et huiusmodi metallica instrumenta, quidam pallia, cultras, pulvinaria, pelles et pannos diversorum generum, quidam balsamum, tyriacham, muscum, nuces muscatas et indicas, gariopholos et huiusmodi aromata sub eadem curialitatis specie donant». 9 H. Walther, Das Streitgedicht in der lateinischen Literatur des Mittelalters, München 1920, pp. 63-88 (Streit zwischen Körper und Seele und Ähnliches). Sul modello giudiziario nella letteratura delle origini cfr. M. Corti, Il genere disputatio e la transcodificazione in dolore di Bonvesin da la Riva, in Corti, Il viaggio testuale, Torino 1978, pp. 257-288. 10 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 1, p. 46. 11 Ibidem: «Iubet igitur quod Corpus inprimis alleget et sue conquestionis ordinem prosequatur». Ha precedenti anche il ruolo di Ratio come giudice fra parti che contendono in causa: cfr. Walther, Das Streitgedicht cit., pp. 204, 216.


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che la Ragione sembra manifestare un certo favore per la parte avversa (cap. 6). Replica irata della Ragione: l’insinuazione è vile, il Corpo deponga l’arroganza e interroghi piuttosto con zelo l’Anima «de amicitia et generibus amicorum» (cap. 7). Il cap. 8 segna la cerniera con una diversa parte del trattato: il Corpo sottopone le sue questiones all’Anima ordinandole in un elenco di trenta capitula, quattro generali sull’essenza dell’amicizia e ventisei più particolari sui tipi degli amici, pregando l’Anima di rispondere distincte, punto per punto, nello stesso ordine. Quest’ultima si impegna perciò a cercare di solvere le questiones corrispondenti ai trenta capitoli. Detto questo, risulta chiaro che la pittoresca casistica dell’amicizia, cioè la parte più citata del trattato, è di fatto strutturalmente costituita dalle singole solutiones elaborate dall’Anima su ogni voce proposta dal Corpo in seguito a un ordine della Ragione. Su tutto il materiale prodotto, la Ragione può alla fine esprimersi come giudice con cognizione di causa nel lungo e finale cap. 39. La finitiva sententia Rationis approva le questiones proposte dal Corpo e conferma «irrefragabili auctoritate» le solutiones dell’Anima. In realtà, spiega la Ragione, se vogliamo indagare le cose con maggiore diligenza, bisogna ammettere che esistono due tipi di amicizia: quella terrena, di origine diabolica, che opera sempre di conserva con una sorella inseparabile, l’inimicitia; e l’amicizia celeste, che ha ispirazione divina. Il dissidio di partenza fra i contendenti nasce dunque da una mancanza di chiarezza rispetto all’oggetto, il Corpo non ha considerato il carattere equivoco dei termini di fondo (amicitia e amicus), l’Anima difendendo l’amicizia difendeva in realtà quella celeste e non teneva conto della terrena12. L’alterco insomma deve cessare, si veneri l’amicizia celeste e si evitino le varie forme di quella terrena, illustrate a dovere nell’opera. Non si può nascondere che il bottino è magro, perché alla fine su ventisei categorie risultano di natura celeste solo gli amici pares, uniti da eguaglianza assoluta di intenti e sentimenti, gli amici fideles, cioè quelli che conservano intatta la fides nella fortuna e nell’ avversità e gli amici reales, che prendono il nome da res, perché volentieri mettono a disposizione le cose proprie. Ma poiché i pares sono nel mondo quasi inesistenti, alla fine le categorie di amici celesti si riducono ai fideles e ai reales.

12 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 39, p. 88: «Multos igitur habet amicitia terrena ministros, de quibus Corpus in huius libri primordio querimoniam non inmerito deponebat non considerans equivocationem amicitie vel amici; Anima vero celestem amicitiam excusabat, ad terrenam non habendo respectum, unde omnis error ex ignorantia diversimode procedebat».


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Come si vede, siamo davanti a una struttura fortemente ispirata dalla mentalità scolastica e dalla forma giuridica, in cui Boncompagno, che era notoriamente tra i maestri di retorica il più interessato al diritto e alla filosofia, perviene a cogliere, attraverso uno sviluppo di questiones che è anche una causa in tribunale, la fides reciproca e la disponibilità reciproca all’aiuto materiale come elementi portanti del legame tra gli amici. La struttura ha un corrispettivo preciso nel lessico impiegato, che è sia quello delle cause, con un actor che si presenta nell’aula ideale come querelante (conquerens) davanti a uno iudex ordinarius portando un’allegatio, sia, in misura meno evidente, quello delle discussioni scolastiche (questiones e solutiones).

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3. La cornice è una chiara esibizione di cultura alta, secondo una tendenza tipica di Boncompagno da Signa, sempre impegnato a rivendicare il monopolio dei maestri universitari e dei litterati di formazione retoricodettatoria di fronte alle trasformazioni della società cittadina del primo Duecento. Il dato nuovo con cui fare i conti era il primo affermarsi nei governi podestarili di un ceto di pratici dell’amministrazione, formati dall’esperienza più che dalla scuola e forniti di una cultura latina modesta (i laici rudes et modice literati di cui parla negli anni Venti il prologo dell’ Oculus pastoralis). A questa trasformazione Boncompagno aveva già reagito nel 1201 nel suo Cedrus, dedicato alla redazione degli statuti comunali, un compito che gli pareva da non lasciare all’improvvisazione dei politici bensì da riservare agli esperti di retorica e diritto; e l’operazione proseguirà nel 1235 con la Rhetorica novissima, in cui distribuirà insulti agli oratori delle assemblee, descritti come istrioni perché ignari delle regole dell’eloquenza e forniti solo di una dottrina plebea nata dalla consuetudine. Il trattato sull’amicizia è parte a suo modo di questo tentativo di salvaguardia di una superiorità culturale: vuole rivendicare che anche sul terreno della costruzione di un ordine degli affetti, di cui l’amicizia è parte centrale, è bene lasciare la parola ai sapienti13. Come vedremo più avanti, le cose cambieranno quando, dalla metà del secolo, il comune comincerà a costruirsi in casa i suoi intellettuali, e la bar-

13 E. Artifoni, Boncompagno da Signa, i maestri di retorica e le città comunali nella prima metà del Duecento, in Il pensiero e l’opera di Boncompagno da Signa cit., pp. 23-36; Artifoni, L’oratoria politica comunale e i “laici rudes et modice literati”, in Zwischen Pragmatik und Performanz: Dimensionen mittelalterlicher Schriftkultur, cur. C. Dartmann - T. Scharff - C.F. Weber, Turnhout 2011, pp. 237-262.


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riera tra laici e litterati sarà non certo superata, ma in qualche modo resa più mobile in virtù dello sviluppo da parte dei dotti di espliciti programmi educativi. Ma Boncompagno rimane a testimonianza di una fase intellettuale che, se certamente non versò la sua cultura in direzione della cittadinanza, nondimeno lavorò sull’amicizia con grande originalità. Riprendiamo l’analisi del trattato da un altro punto di vista. Quale è per il maestro di Signa la natura profonda di questo rapporto di dilezione fra gli uomini? L’inizio solenne dell’opera ci mette sull’avviso: «Dum girum celi amicitia circumiret, manum super filios hominum extendendo, ut videret si esset intelligens aut requirens eam, inter Corpus et Animam Boncompagni oriebatur materia questionum...». Ora, l’amicizia è qui concepita come una specie di grande intelligenza celeste, un principio di affetto che trascorre tra le sfere superiori, come una riserva di dilezione cui gli umani possono attingere quando appunto sono in grado di comprenderla e di cercarla14. Il principio è cosa ben diversa dagli uomini che possono talvolta incarnarlo, non risiede nel mondo terreno ma agisce nel mondo: di qui la specificazione in altro luogo che non bisogna coltivare l’amicizia pensando che essa consista nelle persone degli amici, perché è risaputo che essa ha la sua sede principale nei luoghi eccelsi («principalem sedem noscitur in altissimis retinere»)15. Ancora, è un effetto della divina potenza, attraverso il quale la somma natura opera negli angeli e negli uomini16, gira per il cielo in una specie di inenarrabile sottilità («quadam inenarrabili subtilitate girum celi circuit»)17.

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4. Sospendiamo per un attimo il giudizio sulla matrice culturale di queste affermazioni, perché per procedere abbiamo bisogno anche noi di allegazioni. Spostiamoci alla Rhetorica novissima che Boncompagno portò a termine nel 1235. Qui troviamo nel nono libro una celebre visione (la visio Boncompagni), nella quale il maestro di retorica, quasi un novello san Paolo, contempla dall’alto il funzionamento della macchina del mondo, articolato nel movimento formato da undici ruote principali coordinate

14 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 1, p. 46; il rilievo sull’amicizia concepita come intelligenza celeste è di C. Conti, nell’annotazione a Boncompagno da Signa, L’Amicizia cit, p. 36 nota 1, con segnalazione dei passi correlati. 15 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 3, p. 48. 16 Ibidem, cap. 9, p. 52: «Amicitia est effectus divine potentie, quo summa natura in angelis et hominibus operatur». 17 Ibidem, cap. 11, p. 53.


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con cinque ruote minori. A questo portentoso ingranaggio sono fatte corrispondere le arti e le professioni umane secondo il procedimento retorico della transumptio, la lettura metaforico-simbolica continuata, di cui si afferma a più riprese nello stesso nono libro il fondamento filosofico: tutto può essere detto transuntivamente nel mondo, perché tale lettura porta alla luce le rispondenze occulte e i collegamenti di un cosmo che è appunto una macchina ordinata dalla divinità, restituisce attraverso il linguaggio legami e contatti che sono sul piano ontologico18. Se poi andiamo all’inizio della stessa Rhetorica novissima, incontriamo un passo in cui Boncompagno, per rivendicare la novità assoluta della sua opera, prende le mosse nientemeno che dalla hyle, la materia primordiale, l’infaticabile grembo generatore da cui per azione della sapienza divina la natura avrebbe tratto i singoli elementi e le cose del mondo19. Che dire di questo gioco grandioso tra la creazione divina, la natura personificata e creatrice in secondo grado, la capacità del linguaggio simbolico di svelare le corrispondenze dell’universo e la generale armonia tra gli elementi? Il meno che si può affermare è che tutte queste uscite portano il segno di una ispirazione in senso molto lato platonica, assunta da Boncompagno per vie difficili da precisare, anche se il tramite più ovvio potrebbero essere i grandi poemi cosmologici degli autori francesi del secolo precedente, da Guglielmo di Conches a Bernardo Silvestre e Alano di Lilla. Una conoscenza di questi autori da parte dei maestri di retorica

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18 Boncompagni Rhetorica novissima, ed. A. Gaudenzi, in Scripta anecdota glossatorum, Bologna 1892 (Bibliotheca iuridica medii aevi, 2), l. IX, cap. 3, pp. 285-286. Sulla cosmologia di Boncompagno si vedano H. Wieruszowski, An Early Anticipation of Dante’s «Cieli e Scienze», [1946], in Wieruszowski, Politics and Culture in Medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 503-514 e M.T. d’Alverny, Notes sur Dante et la Sagesse, [1965], in d’Alverny, Études sur le symbolisme de la Sagesse et sur l’iconographie, cur. C. Burnett, with a Preface by P. Dronke, London 1993, saggio IV, soprattutto pp. 11-12. Sul significato profondo della sua dottrina transuntiva cfr. P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medioevali, [1986], Bologna 1990, pp. 36-40. Altri rilievi si trovano in E. Artifoni, Sapientia Salomonis. Une forme de présentation du savoir rhétorique chez les dictatores italiens (première moitié du XIIIe siècle), in La parole du prédicateur, Ve-XVe siècle, cur. R.M. Dessì - M. Lauwers, Nice 1997, pp. 291-310 e 306-308 e Artifoni, Il silenzio efficace nella retorica laica del Duecento italiano, in Il silenzio, Firenze 2010 (= «Micrologus», 18 [2010]), pp. 147-165. 19 Boncompagni Rhetorica novissima cit., prologus, p. 252. Sulla questione della materia originaria cfr. S. Gentili, La selva, gli alberi e il suicidio nell’ Inferno di Dante: fonti e interpretazione, in Letteratura e filologia fra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, I, Dante: la Commedia e altro, cur. M.A. Terzoli - A.Asor Rosa - G. Inglese, Roma 2010, pp. 149-163.


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italiani della prima metà del Duecento si può ritenere accertata: nel prologo della Gemma purpurea, scritto negli anni Quaranta, Guido Faba cita il trattato di tecnica epistolare di Bernardo Silvestre20; nel circolo retorico di Pier della Vigna erano probabilmente noti testi di Pietro di Blois e di Alano di Lilla, come ha mostrato in un libro importante Benoît Grévin21; se ci spingiamo alla seconda metà del secolo, è risaputo che il Tesoretto di Brunetto Latini accoglie elementi platonici dal De planctu naturae, sempre di Alano di Lilla22. È dunque in questo quadro retorico-filosofico di assai mediata derivazione platonica, che va vista la cosmologia di Boncompagno: non è solo una delle sue tante esibizioni, ma anche la testimonianza di un fenomeno culturale ancora in gran parte da studiare, la migrazione di materiali filosofici dalle scuole francesi del secolo XII alla cultura dei maestri di retorica italiani. Comunque sia, per concludere su questo, l’amicizia di Boncompagno di Signa, quando sia intesa come amicizia celeste, si pone sia come intelligenza dell’universo sia come il grado più alto di ogni possibile forma di legame affettivo. In quanto tale essa subordina a sé ogni altro affetto tra gli uomini, esattamente come una specie è subordinata al genere che la comprende. Si veda infatti il rapporto tra amore e amicizia impostato dal maestro di Signa. In polemica con Cicerone e con la tradizione dei lessici e dei glossari, Boncompagno mette una cura particolare nel dire che etimologicamente l’amore deriva dall’amicizia e non viceversa, «amor quidem ab amicitia dicitur et amicitia non dicitur ab amore»23: l’etimologia riproduce un rapporto gerarchico, perché l’amore è semplicemente lo strumento con il quale talvolta l’amicizia universale opera. In quanto strumento operativo, l’amore rimane concettualmente inferiore all’amicizia celeste, che lega gli uomini, le cose e l’universo per l’eternità in modo reciproco. Può stupire che un maestro di retorica si avventuri su questi terreni e si muova con baldanza tra cosmologia, etica, teologia e diritto. C’è indubbiamente una ostentazione enciclopedica di Boncompagno, di cui lui stesso si

20 A. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da Buoncompagno a Bene di Lucca, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 14 (1895), pp. 86-174: 128. 21 B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècle), Rome 2008. 22 H.-R. Jauss, Brunetto Latini poeta allegorico, [1964], in Jauss, Alterità e modernità della cultura medievale, Torino 1989, pp. 135-174; E. Costa, Il Tesoretto di Brunetto Latini e la tradizione allegorica medievale, in Dante e le forme dell’allegoresi, cur. M. Picone, Ravenna 1987, pp. 43-58. 23 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 39, p. 82.


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gloriava insinuando l’autocelebrazione negli interstizi dei genera amicorum e affermando di saper trattare ogni scienza, anche quelle che non aveva mai studiato24. Ma la ragione vera è che la cultura retorico-dettatoria di questa generazione intellettuale, attribuendo un valore fondamentale alla conoscenza del linguaggio e del suo ordine, per ciò stesso si pensava in grado di conoscere l’universo e il suo ordine, il funzionamento armonico di ogni ingranaggio materiale e immateriale della macchina del mondo.

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5. Le notizie su Boncompagno cessano poco dopo il 1240. Qualche anno prima, nel 1238, il giudice Albertano da Brescia aveva cominciato la sua attività di maestro di costumi con il Liber de amore et dilectione Dei et proximi et aliarum rerum et de forma vite, primo tassello di una trilogia di trattati morali che includerà nel 1245 il Liber de doctrina dicendi et tacendi e nel 1246 il Liber consolationis et consilii. Le tre opere danno forma a una pedagogia unitaria: si trattava di sottoporre a un’analisi ravvicinata i punti ancora in via di definizione della convivenza nelle città comunali, gettando le basi di un’etica in grado di accompagnare con sicurezza, ma senza troppe durezze, lo sviluppo urbano, l’affermarsi nei governi dei laici modice litterati, l’incremento della partecipazione politica. Se i trattati del 1245 e del 1246 hanno struttura monografica (la disciplina del parlare; la pratica del dare e assumere consigli), il Liber de amore, primo della serie, è una specie di piattaforma generale dell’operazione di ammaestramento, vertendo sull’amor di Dio, sull’insieme delle relazioni sociali, sull’uso cristiano della ricchezza, sul sistema delle virtù. L’amore e la dilezione sono le stelle polari cui tale etica deve guardare, sono le espressioni di una carità che, muovendo dall’amore di Dio, deve circolare nella società, animarne i valori e formarne gli individui: l’obiettivo è di fatto la formazione di un civis Christianus, un uomo di fede che sia al tempo stesso uomo comunale. Si può solo accennare ai tre principali terreni di coltura di questo progetto: da un lato il riuso di una vasta letteratura moraleggiante, dai libri sapienziali della Scrittura ai Disticha Catonis, dalle sentenze di Publilio Siro alla Formula honestae vitae di Martino da Braga (lo pseudo-Seneca), fino alla

24 Ibidem, cap. 30, p. 67-68: «[Dice l’amico versipelle] “Iste Boncompagnus diu est in isto dictamine commoratus, unde non est mirum si quasdam epistolellas facere novit et aliqua dictamina memorie commendavit”. Respondit quidam quicum vitium intellexerat versipellis: “Istud enim est super omne mirabile ammirandum, cum numquam studuerit in theologia, non in iure canonico vel civili, nec etiam in scientia physicali, et ita tractat de qualibet facultate sicut esset in omnibus eruditus”».


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Disciplina clericalis di Pietro Alfonsi e al Moralium dogma philosophorum; d’altro canto, una personale esperienza di Albertano a Brescia e a Genova come predicatore laico in confraternite di giudici e di notai; infine, la sua attività di giudice collaboratore di podestà, e dunque di uomo pienamente omogeneo alle nuove forme politiche di metà Duecento. Detto questo, non sorprende lo stacco dalla generazione di Boncompagno da Signa. Albertano non è un maestro universitario che concede con degnazione il suo sapere, è un uomo di cultura di una generazione che ha nel comune il suo habitat naturale. E per venire al nostro tema, con lui l’amicizia letteralmente discende dalle sfere cosmiche ed entra nel cuore della vita cittadina. Come vedremo più avanti, a una generazione ancora successiva toccherà di situarla al cuore del politico. Una buona parte del secondo libro (De amore proximi et dilectione), il più ampio, del De amore et dilectione Dei è dedicata alle regole dell’amicizia25. Rispetto alle sue fonti Albertano non mostra particolare originalità, il che sarebbe difficile vista la fisionomia soprattutto centonatoria dell’opera, qui più marcata che nei trattati successivi. E dunque la Bibbia, i Disticha Catonis, Cicerone e le altre consuete fonti moraleggianti alimentano i capitoli negativi sulla necessità di evitare l’amicizia dello stolto, dell’avaro, del superbo, del loquace, dell’iracondo, del malvagio, ai quali fanno seguito i capitoli positivi, tra cui quello sull’utilità dell’amicizia e sulla conservazione dell’affetto attraverso la reciprocità. Assai più interessante è a mio parere la disposizione dell’amicizia lungo il percorso complessivo descritto dal trattato.

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Albertano da Brescia, De amore et dilectione Dei et proximi et aliarum rerum et de forma vite, l. II, edd. S. L. Hiltz, Ph. D. Diss., University of Pennsylvania, 1980, pp. 40-156. Cito dall’edizione cartacea, ma segnalo che l’opera omnia di Albertano è disponibile in edizioni varie, con altri testi correlati, nel sito monografico curato da Angus Graham, <http:// freespace.virgin.net/angus.graham/Albertano.htm>. La bibliografia sull’autore è assai cresciuta negli ultimi anni. La si può vedere integrando i titoli elencati in J. M Powell, Albertanus of Brescia. The Pursuit of Happiness in the Early Thirteenth Century, Philadelphia 1992 e in Albertano da Brescia, Liber de doctrina dicendi et tacendi. La parola del cittadino nell’Italia del Duecento, ed. P. Navone, Firenze 1998. Successivamente, altro si può trovare in E. Artifoni, Prudenza del consigliare. L’educazione del cittadino nel Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia (1246), in Consilium. Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, cur. C. Casagrande - C. Crisciani - S. Vecchio, Firenze 2004, pp. 195-216, in Artifoni, Segreti e amicizie cit., in Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» cit.


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L’opera muove da un primo libro sull’amore di Dio, cui segue nel secondo libro l’amore del prossimo, nel terzo l’amore delle cose materiali e nel quarto l’amore delle cose immateriali e delle virtù. Fortificato dalle virtù e ammaestrato dalla conoscenza acquisita nell’itinerario compiuto dentro l’opera, il lettore può approdare infine, nel penultimo capitolo dell’ultimo libro, a una conversio ad Dominum, con cui di fatto la conclusione del lavoro si ricongiunge al suo inizio, l’amore di Dio, indirizzando nuovamente verso Dio le forme di dilezione di cui si è a lungo trattato nelle pagine precedenti26. Dobbiamo soffermarci sul passaggio tra il primo e il secondo libro: è il ponte che istituisce proprio l’amicizia come termine medio tra amore per Dio e amore per il prossimo. Posto che l’amicizia è manifestazione di amore, secondo una linea più tradizionale di quella seguita da Boncompagno, che vedeva invece l’amore subordinato all’amicizia, il passaggio dall’amore all’amicizia è impostato tuttavia da Albertano in modo originale, perché richiede un preciso intervento delle relazioni sociali in qualità di catalizzatori del processo di trasformazione27. Attraverso i rapporti di fides, convivium, locutio e bona servitia avviene la metamorfosi decisiva, l’amore si fa amicizia: «amor [...] in amicitiam convertitur». In modo rivelatore, tali rapporti sociali sono definiti coagula, parola tecnica che indica proprio i fermenti, qui usata per significare le condizioni che permettono la trasformazione della sostanza affettiva, il suo cambiamento di stato nel corso di una delicata chimica dei sentimenti in cui intervengono sia spinte interiori sia i rapporti in società. Nel dettaglio, fides è ovviamente la fiducia, fedeltà, confidenza reciproca, il convivium è l’onesta e dilettevole frequentazione, la locutio è la disciplina della parola che addolcisce l’affetto ed evita la calunnia, i bona servitia sono la disponibilità disinteressata tra amici per scopi virtuosi. Se si onorano questi rapporti la trasformazione già avviata conosce l’ultima fase: dopo che l’amore è trapassato in amicizia, quest’ultima diventa quasi una natura dell’individuo («quasi in naturam deducitur»), diventa cioè una modalità spontanea del frequentarsi tra uomini virtuosi. Quello che vorrei mettere in rilievo è proprio la dimensione in senso lato sociale di questa amicizia, ribadita in negativo dall’attenzione estrema nell’evitare le situazioni di mala societas e di mala vicinitas, cioè le frequen-

26 Albertano da Brescia, De amore et dilectione Dei et proximi cit., l. IV, cap. 23, pp. 281-286. 27 Ibidem, l. II, cap. 1, pp. 42-51.


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tazioni e i vicinati pericolosi . In altri termini, l’amicizia lega pur sempre due individui, ma il loro rapporto è influenzato profondamente, nella genesi e nel consolidamento, dai momenti della vita associata. Passato dalle sfere cosmiche di Boncompagno alla concreta realtà di una vita cittadina ispirata dall’amore di Dio, l’affetto scambievole tra gli uomini appare certo meno epico, ma prende il suo posto preciso dentro un più ampio processo di costruzione della costumanza urbana29. In questo processo la fides appare l’elemento più interessante (ricordiamo di sfuggita che anche Boncompagno metteva gli amici fideles tra i pochissimi rappresentanti di un’amicizia celeste). Sappiamo soprattutto dagli studi di Todeschini che proprio intorno alla nozione ampia di fides, coincidente all’incirca con quella che potremmo definire l’affidabilità pubblica, si tracciano i perimetri dell’esclusione e dell’inclusione nella società urbana; che nell’affetto tra due amici si insista sulla stessa ratio fiduciaria, che è al tempo stesso unitiva e divisiva, perché chi non è affidabile non può essere accolto da nessuno come amico, ci fa constatare una tendenza all’isomorfismo tra criteri dell’amicizia e criteri dell’appartenenza morale alla cittadinanza, che più avanti potremo rilevare con maggiore chiarezza30.

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6. Parlare di due amici nel contesto sociale non significa ancora parlare di un’amicizia erga omnes, non solo tra individui ma anche tra gruppi sociali e professionali, come anima ideale della vita cittadina. A questo arriverà alcuni decenni dopo, impiegando proprio il termine di amicizia sociale (socialis amicitia), il domenicano Iacopo da Cessole, frate in un convento genovese, che scrisse il suo Libellus de moribus hominum in una data incerta che si può collocare tra il 1259 e il 1273, e con probabilità maggio-

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Ibidem, l. II, cap. 8, pp. 78-83. Sulla costumanza cfr. E. Artifoni, Tra etica e professionalità politica: la riflessione sulle forme di vita in alcuni intellettuali pragmatici del Duecento italiano, in Vie active et vie contemplative au Moyen Âge et au seuil de la Renaissance, cur. C. Trottmann, Rome 2009, pp. 403-423; J. Najemy, The medieval Italian city and the “civilizing process”, in Europa e Italia. Studi in onore di Giorgio Chittolini. Europe and Italy. Studies in honor of Giorgio Chittolini, Firenze 2011 (Reti Medievali E-Book, 15; <http://www.retimedievali.it>), pp. 353-367. 30 Il tema è presente in molti studi di Todeschini, tra i quali si veda soprattutto G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal medioevo all’età moderna, Bologna 2007 e Todeschini, Fiducia e potere: la cittadinanza difficile, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, cur. P. Prodi, Bologna 2007, pp. 15-26. La raccolta di studi più recente mi risulta Fama e publica vox nel medioevo. Atti del convegno di stu-


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re per gli ultimi anni della spanna31. L’opera diventò in pochi decenni celeberrima e fu tradotta, come i trattati di Albertano, in molte lingue europee. Contribuì in modo decisivo alla sua fortuna la struttura da gioco della società, secondo un’organizzazione formale per cui si è proposta anche una funzione mnemotecnica32: Iacopo faceva infatti corrispondere i ruoli sociali e il sistema dei loro rapporti alle figure e ai movimenti del gioco degli scacchi, illustrati da una grande quantità di exempla ripresi per la maggior parte dalle più diffuse raccolte. La ricchezza del materiale esemplare e l’interesse per la metafora della scacchiera come modo di rappresentazione delle forme sociali hanno di solito posto in secondo piano negli studi i riferimenti, in realtà ben presenti nell’opera, alla società italiana contemporanea33: ripromettendomi di tornare sull’argomento, mi limito a segnalare per ora alcuni passi dedicati ai conflitti nelle città lombarde e toscane, all’importanza e alla pericolosità sociale dei notai nel mondo comunale, a un exemplum che ha per protagonista il mercante e cambiatore attivo a Genova «Obertus Guterinus nomine, Astensis natione» (evidentemente un membro della famiglia astigiana dei Guttuari), a un furto subito a Parma da un cavaliere, al caso dell’imprudente Giovanni Cavazza che aveva dato tutti i suoi averi alle figlie (con un’interessante citazione in lingua volgare), ai popolani come cattivi consiglieri in genere e nei consigli cittadini34. Si badi che la proposta di Iacopo da Cessole è conservatrice. Alla complessità dinamica del mondo comuna-

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dio svoltosi in occasione della XXI edizione del premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009), cur. I. Lori Sanfilippo - A. Rigon, Roma 2011. 31 Datazione proposta in J.-M. Mehl, L’exemplum chez Jacques de Cessoles, «Le Moyen Âge», 84 (1978), pp. 227-246: 229, e ribadita in Mehl, Introduction, in Jacques de Cessoles, Le livre du jeu d’échecs, ed. Mehl, Paris 1995, p. 13. 32 R.D. Di Lorenzo, The Collection Form and the Art of Memory in the Libellus super ludo schachorum of Jacobus de Cessolis, «Mediaeval Studies», 35 (1973), pp. 205-221. 33 Uno sfondo infatti non preso in considerazione in due buoni contributi recenti, il richiamo ai quali vale anche per la bibliografia precedente: P. Kalning, Virtues and Exempla in John of Wales and Jacobus de Cessolis, in Princely Virtues in the Middle Ages, 1200-1500, cur. I. P. Bejczy - C. J. Nederman, Turnhout 2007, pp. 139-159 e S. I. Luchitskaya, Chess as a Metaphor for Medieval Society, in Saluting Aron Gurevich. Essays in History, Literature and Other Related Subjects, cur. Y. Mazour-Matusevich - A. S. Korros, Leiden 2010, pp. 277299. Un’eccezione è costituita da J. Adams, Power Play. The Literature and Politics of Chess in the Late Middle Ages, Philadelphia 2006, pp. 15-56. 34 Jacobus de Cessolis, Libellus de moribus hominum et officiis nobilium ac popularium super ludo scachorum, ed. M. A. Burt, Ph. D. Dissertation, University of Texas, 1957, tractatus II, cap. 5, pp. 59-60; tractatus III, cap. 3, pp. 85-92; tractatus III, cap. 4, pp. 103-104;


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le il domenicano rispondeva con un modello di società a ruoli bloccati, fondato su una partizione fondamentale tra scacchi nobili e scacchi popolari e su possibilità di movimento limitate e predeterminate, appunto come negli scacchi. Tra le figure popolari compaiono in terza posizione, raggruppati sotto la categoria di coloro che lavorano su materiali tessili, sulla pelle e sul cuoio, i notai, considerati a loro modo lavoranti della pergamena. Con uno scatto repentino che in effetti può sorprendere, il discorso sui notai introduce immediatamente una serie di citazioni sull’amicizia da Cicerone e da Seneca, nelle quali si distinguono anche le tre categorie di amicizia rivolta al bene, all’utile e al piacere (distinzione aristotelica divenuta quasi proverbiale). E alle citazioni fanno seguito exempla sull’argomento da Valerio Massimo e dalla Disciplina clericalis di Pietro Alfonsi. Come è avvenuto il brusco passaggio dai notai all’amicizia? La risposta è che Iacopo, criticando lo schieramento dei notai sul fronte popolare nei conflitti interni delle città lombarde, e anzi il loro ruolo di guida delle iniziative organizzate, reclama da loro l’adozione di comportamenti virtuosi che possano garantire la concordia; e tali comportamenti sono appunto l’amicizia sociale, la continenza onesta, la verità delle parole (socialis amicitia, honestatis continentia, verborum veritas)35. Ma è l’amicizia sociale il vero cuore del discorso, come dimostra il seguito del capitolo, che, conclusa la tirata sull’amicizia, riserva pochissime pagine alla continenza onesta e non più di

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tractatus III, cap. 6, p. 120; tractatus III, cap. 7, pp. 129-132; tractatus IV, cap. 1, pp. 138139. Cfr. anche Burt, Introduction, ibidem, p. XXVI. 35 Ibidem, tractatus III, cap. 3, pp. 85-93, da cui riporto l’avvio del discorso: « Tertium popularem sic describimus […]. Hi omnes praedicti, lanificii nomine appellantur, quia aut notarii aut pelliparii vel coriarii circa pellem ipsam operantur [...]. Ad hos omnes pertinet artes, quibus dediti sunt diligenter et fideliter exercere. In his precipue debet esse socialis amicitia, honestatis continentia, et verborum veritas. Notarii rei publicae multum utiles caveant, ne sibi approprient quae communitatis sunt. Hi enim, si boni sunt, optimi sunt; si mali, rei publicae pessimi sunt. Cum enim causae et quaestiones per eos sub iudice et assessore scribantur, multa in eis sit veritas et legalitas, quae, si fuerit, magna communitati civium emergit utilitas [...]. Statuta civitatum cum continuo perlegant atque sciant, considerent si contra deum et iura ea esse confecta noverint populum atque rectores aliciant ad mutandum. Ius enim non habet vinculum, quod contra fidem et bonos mores sanctum est. Sed heu hodie, qui plura de re publica noverunt bona agere, praetermisso Dei timore, infirmiores et inscios populares seducunt. Ad coniurationes et inepta collegia attrahunt et venientes in unum, seditiones in civitate potius quam concordiae foedere nectunt. Nullum hodie Lombardis tantum est nocuum collegium quantum notariorum, in quibus invenitur discordia voluntatum. Ut igitur civitates pace gaudeant, ad concordiam et sinceram amicitiam se hortentur, de qua dicit Tullius etc.».


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alcuni cenni alla verità delle parole36. In Iacopo la nozione di amicizia ha superato i confini individuali, si deve insediare – almeno nei suoi auspici – tra i ceti, ed è ormai diventata il crisma di una comunità che si vorrebbe pacificata. Insomma, una salvifica discesa dell’amicizia nel vivo del conflitto, come coagulum di concordia tra i gruppi sociali, avrebbe forse detto Albertano. Non è ovviamente un caso che proprio dal più antipopolare tra gli scrittori che stiamo esaminando il concetto di amicizia sia inteso soprattutto come un’efficace terapia della crisi sociale.

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7. Riassumiamo la strada finora compiuta. Dopo l’esordio di Boncompagno da Signa, in cui l’amicizia è l’occasione per un’exploit culturale che serve anche a chiarire al mondo che la retorica può parlare con sicurezza di etica e di filosofia, Albertano da Brescia e Iacopo da Cessole cominciano a legare il nostro tema a quello della cittadinanza, il primo affermando la determinazione sociale dell’amicizia fra individui, il secondo postulando che non solo gli individui, ma anche i gruppi sociali e professionali devono essere fra loro amici nella prospettiva di una generale concordia. Vuole dire che dagli anni Quaranta del secolo è cominciata una fase di acuta sensibilità al valore politico dell’amicizia, detto per ora in senso molto ampio. Vorrei mostrare adesso come il concetto di amicizia assunse invece anche un valore politico in senso proprio. Ciò avviene dal 1260 in avanti nel contesto del deciso riorientamento civico della tradizione didattica che si può compendiare nel nome di Brunetto Latini, la cui produzione si racchiude tutta tra il 1260 e il 1266. Siccome ho escluso deliberatamente da questo contributo i testi in versi, come il Favolello e il Tesoretto37, il pensiero corre al Tresor, ma dico subito che, volendo privilegiare una zona di cultura prearistotelica, condurrò piuttosto il discorso sulla base della Rettorica brunettiana. Sul Tresor basterà dunque l’informazione oggettiva che di amicizia Brunetto parla in tre nuclei testuali che si trovano tutti nel secondo libro, quello dedicato all’etica e a virtù e vizi (II, cap. 43-45; II,

36 37

Ibidem, pp. 93-95. Sui quali si possono comunque vedere, da ultimo, Artifoni, Segreti e amicizie cit., E. Fenzi, Brunetto Latini, ovvero il fondamento politico dell’arte della parola e il potere dell’intellettuale, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studi, Università di Basilea, 8-10 giugno 2006, cur. I. Maffia Scariati, Firenze 2008, pp. 323-369; Gasparini, L’amitié comme fondement cit.


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cap. 64; II, cap. 102-106). Se il secondo nucleo (cap. 64) attinge dalla Doctrina dicendi et tacendi di Albertano da Brescia e fa parte di un più ampio blocco derivante dalla stessa opera (capp. 62-67), e il terzo (capp. 102-106) si fonda, oltre che su materiali provenienti dal Favolello e dal Liber de amicitia di Boncompagno, sulla Summa de virtutibus di Guglielmo Peraldo e sul Moralium dogma philosophorum, il primo nucleo (capp. 4345) assume come fonte il compendio dell’Etica Nicomachea noto come Summa Alexandrinorum, e segna appunto un momento importante della confluenza di contenuti aristotelici dentro la tradizione didattica38. Il lavoro di Sonia Gentili, che ha svolto studi importanti sulla questione, mi esime dall’affrontare i complessi rapporti che legano il testo del Tresor alla traduzione volgare della Summa Alexandrinorum effettuata da Taddeo Alderotti, una traduzione che fu probabilmente la fonte diretta di Brunetto39. Arrivo così a quel testo capitale che è la Rettorica, cioè il volgarizzamento – intercalato da un amplissimo commento di Brunetto – dei primi diciassette capitoli del De inventione di Cicerone, un volgarizzamento scritto, secondo l’opinione prevalente, prima del Tresor. Mi serve per dire due cose. La prima è che, senza alcuna volontà di attenuare la trasformazione aristotelica, da cui lo stesso Latini fu toccato nel Tresor, vale comunque la pena di cogliere lo sforzo brunettiano di dare forma nella Rettorica, fondandosi su ciò che aveva allora a disposizione, a una qualche dicibilità del rapporto fra amicizia e politica. La seconda è che questo sforzo, come vedremo, instaura l’amicizia nella genesi stessa delle comunità umane in quanto comunità politiche, agli albori della storia degli uomini. Le pagine iniziali della Rettorica sono le più dense. Brunetto vi commenta a lungo il celebre mito con cui si apre il De inventione, quello del passaggio da uno stato ferino dell’umanità a una condizione politica regolata da leggi e costumi civili, attraverso l’opera di un eroe dell’eloquenza che seppe ridurre a mansuetudine e a socialità gli uomini primitivi40. Ma prima ancora di esporre il mito, traducendo il testo ciceroniano Brunetto

38 Per l’identificazione e le fonti dei luoghi “amichevoli” del Tresor cfr. Artifoni, Segreti e amicizie cit., pp. 270-272 e Gasparini, L’amitié comme fondement cit., pp. 61-74. 39 S. Gentili, Destini incrociati. Taddeo Alderotti docente allo studio bolognese e la letteratura volgare delle origini, «Quaderni di filologia romanza», 17 (2005), pp. 169-210; Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma 2005. 40 Di questo tema ciceroniano-brunettiano è stata più volte segnalata l’importanza, insistendo sul passo della Rettorica o su quello parallelo, del Tresor: cfr. C.J. Nederman, The


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loda in genere le virtù dell’eloquenza, che servì nella storia a costruire città, a sedare i conflitti, a saldare frequentazioni, a stringere amicizie (hedifficare cittadi; stutare molte battaglie; fare fermissime compagnie; anovare santissime amicizie)41. E si applica nel commento a spiegare le parole-chiave: «è bene convenevole di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che llo sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica tutto lo ’ntendimento»42. Se la città è un raggruppamento di persone fatto per vivere secondo il diritto43, se il compagno è colui che si associa a un altro uomo con un’unione finalizzata e pattizia44, l’amico si conquista la definizione più ampia:

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Che è amico. – Amico è quelli che per uso di simile vita si congiugne con un altro per amore iusto e fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d’una vita e d’una costumanza, e però dice «per uso di simile vita» [Brunetto cita qui e dopo il commento di Mario Vittorino al De inventione]; e dice «giusto amore» perché non sia a cagione di luxuria o d’altre laide opere; e dice «fedele amore» perché non sia per guadagneria o solo per utilitade, ma sia per

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Union of Wisdom and Eloquence before the Renaissance: The Ciceronian Orator in Medieval Thought, «Journal of Medieval History», 18 (1992), pp. 75-95, poi in Nederman, Medieval Aristotelianism and its Limits. Classical Traditions in Moral and Political Philosophy, 12th15th Century, Aldershot 1997, saggio XII; E. Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Rome 1994, pp. 157-182; E. Artifoni, Orfeo concionatore. Un passo di Tommaso d’Aquino e l’eloquenza politica nelle città italiane nel secolo XIII, in La musica nel pensiero medievale, cur. L. Mauro, Ravenna 2001, pp. 137-149; V. Syros, Founders and Kings versus Orators: Medieval and Early Modern Views on the Origins of Social Life, «Viator», 42 (2011), pp. 383-408. 41 Brunetto Latini, La Rettorica, a cura di F. Maggini, prefazione di C. Segre, Firenze 1968, pp. 11-12: «[Tullio]. Sì come quando ordino di ritrarre dell’antiche scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordança per loro antichezza, intendo che eloquenzia congiunta con ragione d’animo, cioè con sapienzia, piùe agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad hedifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie», che traduce De inventione, I, 1: «cum autem res ab nostra memoria propter vetustatem remotas ex litterarum monumentis repetere instituo, multas urbes constitutas, plurima bella restincta, firmissimas societates, sanctissimas amicitias intellego cum animi ratione tum facilius eloquentia comparatas». 42 Ibidem, p. 13. 43 Ibidem, « Che è cittade. - Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini d’uno medesimo comune perché siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere ad una ragione». 44 Ibidem, «Che è compagno. - Compagno è quelli che per alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi divegnono fermissimi».


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constante vertude. Et così pare manifestamente che quella amistade ch’è per utilitade e per dilettamento nonn è verace, ma partesi da che ’l diletto e l’uttilitade menoma»45.

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Il discorso che ne risulta, fra testo tradotto e commento, è questo: se l’eloquenza congiunta a sapienza è fattore di civiltà, la sostanza di quella civiltà si dimostra attraverso la cittadinanza, le relazioni sociali governate da un patto e l’amicizia. Insomma, l’amicizia è parte costitutiva del formarsi della dimensione politica nella storia degli uomini, potremmo forse dire che è il versante affettivo di quel grande avvenimento di civiltà che sottrasse in tempi immemorabili il genere umano alla condizione ferina. Si sa bene che il commento brunettiano, sia chiaro, anche in questo luogo, è debitore di una anonima Ars rhetorice del secolo precedente, come ha mostrato Gian Carlo Alessio46. Rimane che la fonte del secolo precedente viene tradotta in volgare a uso di un pubblico comunale, e soprattutto è potentemente rideterminata attraverso la sua immissione in un’elaborazione collettiva che era in corso e che Brunetto conosceva bene: in tal modo l’idea che gli uomini sono diventati civili anche perché sono diventati amici si inserisce bene nella tendenza di pedagogia sociale brunettiana, in quel suo celebrato agire come «cominciatore e maestro nel digrossare i Fiorentini», secondo le parole famose di Giovanni Villani (IX, 10).

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8. Non ci fu solo Brunetto, naturalmente. Chiudo con un’ultima scheda che mi pare confermi in modo luminoso quella tendenza all’isomorfismo tra amicizia e cittadinanza cui ho fatto cenno in precedenza. Nel Libro de’ vizî e delle virtudi del giudice fiorentino Bono Giamboni, all’interno di una struttura che qui sarebbe troppo lungo esporre, la terza porta del Paradiso è sorvegliata dalla virtù di Giustizia, decisa ad aprirla solo ai giusti che appunto ‘rendono ragione’ alle persone verso le quali hanno obblighi: ne deriva una lunga casistica dei doveri da rispettare, che prende tra l’altro in considerazione sia i doveri del cittadino verso la città, sia quelli dell’amico verso l’amico47. Ora, ed è l’unico caso in tutto il lungo elenco di obblighi, i doveri del cittadino e quelli dell’amico sono compendiati in una formula che si ripete praticamente identica nei due diversi luoghi:

45 46

Ibidem. G.C. Alessio, Brunetto Latini e Cicerone (e i dettatori), «Italia medioevale e umanistica», 22 (1979), pp. 123-169: 137-138. 47 Bono Giamboni, Il libro de’ vizî e delle virtudi e Il trattato di virtú e di vizî, cur. C. Segre, Torino 1968, cap. 71, pp. 111-114.


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E ’l cittadino è tenuto naturalmente di rendere alla sua città due cose, cioè consigliarla e atarla: consigliarla è tenuto, cioè darle buoni e diritti consigli; atarla è tenuto in su’ bisogni e pericoli suoi. L’amico è tenuto a l’amico, e ’l parente al parente, a due cose, cioè a consigliarlo e aiutarlo: a consigliarlo è tenuto, cioè a darli fedeli e diritti consigli; ad atarlo è tenuto in su’ bisogni e pericoli suoi48.

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Siamo di fronte a una piena assimilazione concettuale tra gli impegni della cittadinanza e gli impegni dell’amicizia, che si intendono governati dalle medesime regole. Un’assimilazione di tale forza da riconvertire nel senso della lealtà civica un linguaggio antico, visto che non sarà sfuggito che le parole di Bono Giamboni richiamano anche la classica formula di consilium et auxilium dei giuramenti di fedeltà vassallatica49.

48 Ibidem, p. 112. L’isomorfismo tra consigliare e aiutare il comune/consigliare e aiutare l’amico compare già nel Trattato di virtú e di vizî, prima redazione dell’opera, ibidem, capp. XIII-XIV, p. 134. 49 J. Devisse, Essai sur l’histoire d’une expression qui a fait fortune: Consilium et auxilium au IXe siècle, «Le Moyen Âge», 74 (1968), pp. 179-205; F.L. Ganshof, Che cos’è il feudalesimo?, [V ed. 1982], Torino 1989, pp. 97-103.


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L’amicitia nei primi comuni italiani Un sondaggio nelle artes dictandi alla luce dei recenti orientamenti della storiografia tedesca sull’amicizia medievale


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I. Introduzione

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«L’amicitia, l’essere uniti cioè con uomini influenti idealiter in virtù dell’honestum, ma al contempo concretamente in virtù dell’utile, [...] rimase come nell’Antichità accanto alla parentela (aristocratica) il criterio per eccellenza dell’importanza sociale e dell’influenza politica»1. «Tali forme di amicizia si fondavano meno sull’inclinazione personale e sull’affetto che su un sistema valoriale reciproco, che si basava su prestazione e controprestazione»2. «L’istituto dell’alleanza per amicizia (Freundschaftsbund) fu utilizzato in maniera crescente durante la crisi dell’impero carolingio, per costituire una rete di relazione personali, che garantisse aiuto in tutti gli ambiti di vita»3. «Coloro che stringevano un patto si consideravano amici che si erano obbligati non dal punto di vista affettivo, bensì secondo il principio del do-ut-des. In primo piano non stava l’affinità personale, bensì il dare e prendere reciproco e orientato allo scopo»4. L’amicitia – secondo quanto sostenuto nella tesi di dottorato pubblicata nel 2000 da Claudia Garnier – si fondava su un sistema valoriale di reci-

1 V. Epp, Amicitia. Zur Geschichte personaler, sozialer, politischer und geistlicher Beziehungen im frühen Mittelalter, Stuttgart 1999 (Monographien zur Geschichte des Mittelalters, 44), p. 303. 2 C. Garnier, Amicus amicis - inimicus inimicis. Politische Freundschaft und fürstliche Netzwerke im 13. Jahrhundert, Stuttgart 2000 (Monographien zur Geschichte des Mittelalters, 46), p. 3; cfr. Garnier, Freundschaft und Vertrauen in der politischen Kommunikation des Spätmittelalters, in Freundschaft. Motive und Bedeutungen, cur. S. Appuhn-Radtke - E. Wipfler, München 2006, pp. 117-136. 3 G. Althoff, Verwandte, Freunde und Getreue. Zum politischen Stellenwert der Gruppenbindungen im frühen Mittelalter, Darmstadt 1990, p. 111. 4 Garnier, Amicus cit., p. 297.


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procità, che si basava su prestazione e controprestazione5. Questa definizione è, nel suo orientamento utilitaristico, paradigmatica per la medievistica tedesca. Qui di seguito intendo delineare lo sviluppo di queste ricerche nei suoi tratti salienti. Successivamente alcuni di questi metodi saggiati nella medievistica tedesca saranno utilizzati come punto di partenza per l’analisi dell’amicizia nella prima fase di sviluppo dei comuni cittadini italiani. II. Panoramica sulla ricerca 1. La ‘nuova storia costituzionale’

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Sin dagli anni ’80 del secolo scorso l’amicizia medievale è stata oggetto di intensa attenzione nella medievistica tedesca6. Punto di partenza è stata la critica al modello ideale dello Stato nazionale e costituzionale, che aveva condizionato durevolmente la Verfassungsgeschichte, la ‘storia costituzionale’, fin dal XIX secolo7. Sulle orme della più risalente ‘storia costituzionale’ tedesca anche il regno medievale era stato definito secondo categorie statuali e concepito come uno «stato territoriale istituzionalizzato»8. Nella più recente ‘storia costituzionale’ di Otto Brunner e poi anche di Walter Schlesinger il concetto di stato è stato poi sostituito da quello di Herrschaft9, cioè di un potere dominante che tuttavia rimaneva una relazione verticale, ‘dall’alto in

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5 Nello stesso senso si veda la ricerca di Epp, Amicitia cit., pp. 302s.; Althoff, Verwandte cit.; G. Althoff, Amicitiae und Pacta. Bündnis, Einung, Politik und Gebetsgedenken im beginnenden 10. Jahrhundert, Hannover 1992 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica, 37). 6 Ad esempio: K. Schmid, Zur amicitia zwischen Heinrich I. und dem westfränkischen König Robert im Jahre 923, «Francia», 12 (1984), pp. 119-147; Althoff, Verwandte cit.; Althoff, Amicitiae cit. Per l’orientamento della ricerca a partire dagli anni ’80 v. Garnier, Amici cit., p. 10. 7 Per un’eccellente presentazione critica della Verfassungsgeschichte si veda: E. W. Böckenförde, Die deutsche verfassungsgeschichtliche Forschung im 19. Jahrhundert. Zeitgebundene Fragestellungen und Leitbilder, Berlin 1961; più recentemente St. Patzold, Episcopus. Wissen über Bischöfe im Frankenreich des späten 8. bis frühen 10 Jahrhunderts, Ostfildern 2008 (Mittelalter-Forschungen, 25), pp. 30-33; Epp, Amicitia cit., pp. 3-5. 8 In particolare cfr. G. Waitz e G.V. Below. 9 O. Brunner, Moderner Verfassungsbegriff und mittelalterliche Verfassungsgeschichte, in Herrschaft und Staat im Mittelalter, cur. H. Kämpf, Darmstadt 1960 (Wege der Forschung, 2), pp. 1-19, pubblicato per la prima volta nel 1939; Brunner, Zum Problem der Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, «Zeitschrift für Nationalökonomie», 7 (1936), pp. 671-


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basso’ . Questo paradigma si è saldato con la tesi di Theodor Mayer sul Personenverbandsstaat, cioè sullo «stato come associazione di persone»11. Dunque, la statualità altomedievale non si basava sul potere del re su un territorio, bensì sul suo potere sopra un’associazione di ‘nobili’, che a loro volta esercitavano funzioni dominanti nel proprio territorio. Nel frattempo si è compreso quanto la ‘nuova storia costituzionale’ abbia fortemente orientato i suoi concetti e le sue idee secondo la visione sciovinistica del regime nazionalsocialista12. ‘Seguito’ (Gefolgschaft) e ‘fedeltà’ (Treue) divennero allora dei paradigmi concettuali strettamente connessi all’attualità13. Otto Brunner e Walter Schlesinger avevano cercato di penetrare l’essenza ‘germanica’ dello stato medievale e quindi di dimostrare la sua novità rispetto all’antichità greco-romana14: questo orientamento ‘nazionalistico’, in relazione ad una specifica concezione ‘germanica’ dell’amicizia, influenzò ancora il lavoro di Wolfgang Fritz sull’amicizia giura-

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685; W. Schlesinger, Kaiser Arnulf und die Entstehung des deutschen Staates und Volkes, «Historische Zeitschrift», 163 (1941), pp. 792-857; Schlesinger, Die Entstehung der Landesherrschaft. Untersuchungen vorwiegend nach mitteldeutschen Quellen, Dresden 1941 (Sächsische Forschungen zur Geschichte, 1). 10 Per l’interpretazione di questo concetto in Brunner cfr. Epp, Amicitia cit., p. 4. 11 Th. Mayer, Die Entstehung des “modernen” Staates im Mittelalter und die freien Bauern, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abteilung», 57 (1937), pp. 210-288; Mayer, Über Entstehung und Bedeutung der älteren deutschen Landgrafschaften, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abteilung», 58 (1938), pp. 138-166; questo concetto si trova anche in O. Brunner, Das Problem einer europäischen Sozialgeschichte, in Brunner, Neue Wege der Sozialgeschichte. Vorträge und Aufsätze, Göttingen 1956, pp. 7-32. 12 Per il pensiero di Brunner cfr. G. Algazi, Otto Brunner - “konkrete Ordnung” und Sprache der Zeit, in Geschichtsschreibung als Legitimationswissenschaft 1918-1945, cur. P. Schöttler, Frankfurt a. M. 1997, pp. 166-203; R. Jütte, Zwischen Ständestaat und Austrofaschismus. Der Beitrag Otto Brunners zur Geschichtsschreibung, «Jahrbuch des Instituts für Deutsche Geschichte», 13 (1984), pp. 237-262; per Brunner si veda anche O. G. Oexle, Sozialgeschichte - Begriffsgeschichte - Wissenschaftsgeschichte. Anmerkungen zum Werk Otto Brunners «Verfassungs-, Wirtschafts- und Sozialgeschichte», 71 (1984), pp. 305-341. 13 Per la critica si veda K. Kroeschel, Verfassungs- und Rechtsgeschichte des Mittelalters, in Gegenstand und Begriffe der Verfassungsgeschichtsschreibung, Berlin 1983 (Der Statt, 6), pp. 47-77; F. Graus, Verfassungsgeschichte des Mittelalters «Historische Zeitschrift», 243 (1986), pp. 529-589; Althoff, Verwandte, Freunde und Getreue cit., p. 7. 14 Per la “natura germanica” del regno medievale cfr., tra i numerosi esempi, O. Brunner, Politik und Wirtschaft in den deutschen Territorien des Mittelalters «Vergangenheit und Gegenwart», 27 (1937), pp. 404-422; G. Tellenbach, Germanentum und Reichsgedanke im frühen Mittelalter, «Historisches Jahrbuch», 62-69 (1949), pp. 109-135; una illustrazione del concetto in Epp, Amicitia cit., p. 4.


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ta franca dell’epoca merovingia, pubblicato nel 195415. Per contro Bruno Paradisi postulò già allora la continuità delle concezioni antiche dell’amicizia16: ma in Germania non fu ascoltato. Pur essendo frattanto divenuti obsoleti gli assunti fondamentali di Mayer17, permase tuttavia l’idea che i regni altomedievali si comprendessero meno come istituzioni con stabili regole procedurali, che come il ‘cooperare’ di persone associate, le quali erano tra loro legate da vincoli di tipo consortile o signorile. Dagli anni ’60 del secolo scorso la ‘storia costituzionale’ tedesca si interrogò di conseguenza sulle Machtstrukturen, sulle strutture di potere (e non solo sulla Herrschaft, cioè sul potere dominante come diritto ancestrale), sull’esercizio del potere (e non solo sulla norma), sui suoi mezzi e sulle sue forme18. 2. Schmid / Keller /Althoff

In particolare, alcuni esponenti della ‘scuola di Friburgo’ costituitasi intorno a Gerd Tellenbach, specificamente Karl Schmid e dopo di lui Hagen Keller e Gerd Althoff, nella scia di questo sviluppo storiografico, hanno iniziato a prendere più attentamente in considerazione non solo le singole persone, bensì anche i gruppi che stavano dietro di loro, i quali avevano influenzato in notevole misura i modelli di comportamento dei singoli19. La ricerca sull’amicitia sviluppatasi in questo ambiente sin dagli anni

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15 W. Fritze, Die fränkische Schwurfreundschaft der Merowingerzeit. Ihr Wesen und ihre politische Funktion «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abteilung», 71 (1954), pp. 74-125; nello stesso senso in precedenza: O. Brunner, Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs im Mittelalter, Wien 1939; per la critica di questo concetto cf. Garnier, Amicus cit., pp. 9s. 16 B. Paradisi, L’”amicizia” internazionale dell’alto medioevo, in Scritti in onore di C. Ferrini, Milano 1947, II, pp. 178-225. 17 Si vedano ad esempio i giudizi della Epp, Amicitia cit., p. 4; Patzold, Episcopus cit., pp. 31-33. 18 H.-W. Goetz, Staatlichkeit, Herrschaftsordnung und Lehnswesen im ostfränkischen Reich als Forschungsproblem, in Il feudalesimo nell’alto medioevo, Spoleto 2000 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 47), pp. 85-143: 92; per la “Neue Verfassungsgeschichte” e i nuovi paradigmi sul potere medievale cfr. T. Reuter, PreGregorian Mentalities, «Journal of Ecclesiastical History», 45 (1994), pp. 465-474: 467. 19 G. Tellenbach, Der Liber Memorialis von Remiremont. Zur kritischen Erforschung und zum Quellenwert liturgischer Gedenkbücher, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 25 (1969), pp. 64-110; Tellenbach, Liturgische Gedenkbücher als historische


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’80 si basava sulla tesi che gli uomini del medioevo fossero parte di una Sippe, cioè di un’ampia struttura parentale, e membri di gruppi20. Dunque erano calati nel mezzo di relazioni personali. Lo ‘stato’ o la ‘società’ si basavano propriamente su tale tipo di relazioni21. Le forme di questo legame di gruppo potevano essere dominanti (come nelle relazioni feudali), amicali/consortili22 o parentali. Karl Schmid e Gerd Althoff si sono dedicati a portare avanti ed estendere questo modello fondamentale nella dimensione politica, in particolare nello stringersi di alleanze. Essi hanno comparato le registrazioni di nomi nei libri memoriales dei monasteri di Reichenau, San Gallo e Fulda: in queste infinite serie di iscrizioni onomastiche essi hanno sempre riscontrato il combaciare degli stessi raggruppamenti di nomi23. I due studiosi hanno inteso tali raggruppamenti come associazioni laiche di persone che erano tenute insieme non dal vincolo familiare, ma da una comunità volontariamente costituita. La comune registrazione nei libri memoriales e il conseguente affratellamento nel servizio di preghiera sono stati interpretati come elementi comprovanti l’esistenza di amicitia-allenza. Anche il re Enrico I compariva nei raggruppamenti ricorrenti24. Schmid e Althoff hanno letto

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Quellen, in Mélanges Eugène Tisserant, 5, Roma 1964 (Studi e Testi, 235), pp. 289-399; K. Schmid, Über das Verhältnis von Person und Gemeinschaft im frühen Mittelalter, «Frühmittelalterliche Studien», 1 (1967), pp. 225-249; H. Keller, Grundlagen ottonischer Königsherrschaft, in Reich und Kirche vor dem Investiturstreit. Festschrift für Gerd Tellenbach, cur. K. Schmid, Sigmaringen 1985, pp. 17-34; Althoff, Verwandte cit. 20 Ibid., p. 8. 21 H. Keller, Reichsorganisation, Herrschaftsformen und Gesellschaftsstrukturen im Regnum Teutonicum, in Il secolo di ferro: mito e realtà del secolo X, Spoleto 1991 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 38), pp. 159-195: 179; Goetz, Staatlichkeit cit., p. 108; recentemente: H. Keller - G. Althoff, Die Zeit der späten Karolinger und der Ottonen. Krisen und Konsolidierungen 888-1024 (Gebhardt, Handbuch der deutschen Geschichte. Zehnte, völlig neu bearbeitete Auflage, 3), Stuttgart 2008, pp. 348-372. 22 Per queste forme di relazioni cfr. Althoff, Verwandte cit., p. 86: «Nel medioevo la consorteria e l’amicizia sono con tutta evidenza così strettamente legate, che vale la pena di riflettere sugli elementi comuni di entrambi i tipi di relazione». 23 G. Althoff, Das Necrolog von Borghorst. Edition und Untersuchung, Münster 1978 (Veröffentlichungen der Historischen Kommission für Westfalen, 40. Westfälische Gedenkbücher und Nekrologien, 1); Althoff, Adels- und Königsfamilien im Spiegel ihrer Memorialüberlieferung. Studien zum Totengedenken der Billunger und Ottonen, München 1984 (Münstersche Mittelalter-Schriften, 47). Una sintesi di questi concetti in Althoff, Amicitiae und Pacta cit.; si veda però già in precedenza Tellenbach, Der Liber Memorialis von Remiremont cit.; Tellenbach, Liturgische Gedenkbücher, cit. 24 G. Althoff - H. Keller, Heinrich I. und Otto der Große. Neubeginn auf karolingischem Erbe, Göttingen-Zürich 1985.


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questi affratellamenti come un indizio del felice tentativo di assicurare la pace interna del regno attraverso la stipulazione di amicitiae-alleanze25. Sulla base dello specifico stato delle fonti Althoff si è concentrato quasi esclusivamente sulla corte regia, su gruppi di opposizione o in generale sulle élite nella struttura di potere del regno26 ed è giunto a questo risultato: senza ordinamento costituzionale fissato per iscritto, senza un solido apparato di uffici, differenziato secondo i diversi incarichi e competenze, spesso senza un’evidente separazione tra funzioni dell’ufficio e diritti personali, gli Herrschaftverbände, cioè le configurazioni associative del potere, si fondavano su una rete di relazioni strette personalmente, almeno nell’alto e nel pieno medioevo27. Inoltre, l’amicizia serviva in quella società turbolenta a costituire uno spazio di comportamento pacifico, che garantiva sostegno, aiuto e protezione in tutti gli ambiti di vita. Nel 1990 Althoff ha riassunto questa analisi sull’amicizia nel suo libro Verwandte, Freunde und Getreue (Congiunti, amici e fedeli) non solo per il regno di Enrico I, ma anche per l’intero alto medioevo sin dalla dinastia merovingia, sottolineando l’importanza dell’amicizia nella società medievale28.

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25 La ricerca condotta da Althoff sulle amicitiae-alleanze è stata però anche contestata; i suoi risultati sono comunque per lo più condivisi; si veda ad esempio la recente biografia di Enrico I: W. Giese, Heinrich I. Begründer der ottonischen Herrschaft, Darmstadt 2008, pp. 145-151. Certo, le fonti storiografiche offrono a malapena qualche attestazione per tali amicitiae; tuttavia Althoff si appoggia sui riferimenti ad azioni di valore rituale, che erano inserite nella pratica delle amicitiae-alleanze, quali il convivium e il munus; v. G. Althoff, Amicitiae und Pacta cit., p. 28. 26 G. Althoff, Verwandtschaft, Freundschaft, Klientel. Der schwierige Weg zum Ohr des Herrschers, in Althoff, Spielregeln der Politik im Mittelalter. Kommunikation in Frieden und Fehde, Darmstadt 1997, pp. 185-198: 197. Solo chi fosse direttamente parente, amico o persona di fiducia del sovrano, o avesse parenti, amici o persone di fiducia che avessero una tale relazione con il re, disponeva della possibilità di avvicinare il sovrano e di presentargli efficacemente delle richieste. 27 Althoff, Spielregeln der Politik im Mittelalter cit.; Althoff, Die Macht der Rituale. Symbolik und Herrschaft im Mittelalter, Darmstadt 2003; da ultimo in sintesi per il regno ottoniano: Keller - Althoff, Die Zeit der späten Karolinger cit., pp. 348-372. Sulla ‘storia culturale del politico’ Was heißt Kulturgeschichte des Politischen?, cur. B. Stollberg-Rilinger, in Zeitschrift für historische Forschung. Beiheft, XXXV, Berlin 2005; Neue Politikgeschichte. Perspektiven einer historischen Politikforschung, cur. U. Frevert et al., Frankfurt 2005 (Historische Politikforschung, 1); recentemente anche C. Dartmann, Zwischen demonstrativem Konsens und kanalisiertem Konflikt. Ein Essay über öffentliche Kommunikation in der italienischen Stadtkommune, in Funktionen der Beredsamkeit im kommunalen Italien. Funzioni dell’eloquenza nei comuni italiani, cur. F. Hartmann, Göttingen 2011 (In alta perennis. Studien zur Wirkung der Klassischen Antike, 9), pp. 27-40. 28 Althoff, Verwandte, Freunde und Getreue cit.


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A partire da queste acquisizioni sulla struttura del potere regio, basata su relazioni personali, Bernd Schneidmüller ha presentato nel 2000 le sue idee sulla ‘konsensualen Herrschaft’, cioè sul ‘potere consensuale’. Dunque, il potere regio era fondato nel medioevo, almeno fino al secolo XIII, sul consenso tra il re e i grandi del regno; il re era per i suoi legami e per i suoi patti di amicizia obbligato a richiedere consiglio e aiuto ai grandi. Le più risalenti concezioni della plenipotenziarietà di un re ‘sovrano’, che avevano ancora le proprie radici nel XIX secolo, sono state così profondamente riviste29. Gli intrecci di relazioni personali amicali convergenti verso il re hanno trasformato la concezione datata del sovrano plenipotenziario in quella di una figura di integrazione dell’élite politica30. 3. Verena Epp

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Nella sua Habilitationschrift del 1999 sull’amicitia dal V al VII secolo Verena Epp ha recepito molti stimoli provenienti dalla cerchia di Gerd Althoff31. Il suo contributo personale al dibattito consiste soprattutto nell’aver contraddetto le tesi ancora virulente della ‘nuova storia costituzionale’, elaborate a partire dagli studi di Otto Brunner e Walter Schlesinger, confutando l’idea di una radicale contrapposizione tra paradigmi anticoromani e paradigmi germanici dell’amicizia32. La Epp ha sottolineato la persistente forza dei modelli antichi dell’amicizia, che furono sostanzialmente più determinanti rispetto a quelli concorrenti di derivazione germanica. Il linguaggio dell’amicizia dal IV fino al VII secolo rimase costante; e a questa continuità, secondo la Epp, corrispose anche una costanza dei modi di percezione della realtà33. Per il resto la Epp ha rinunciato a tesi nette34. Piuttosto ha messo in primo piano una panoramica sul molteplice

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B. Schneidmüller, Konsensuale Herrschaft. Ein Essay über Formen und Konzepte politischer Ordnung im Mittelalter, in Reich, Regionen und Europa im Mittelalter und Neuzeit. Festschrift für Peter Moraw, cur. P.-J. Heinig, Berlin 2000 (Historische Forschungen, 67), pp. 53-87. 30 Giese, Heinrich I. cit., p. 150; cfr. anche J. Fried, Der Weg in die Geschichte. Die Ursprünge Deutschlands bis 1024, Berlin 1994 (Propyläen Geschichte Deutschlands, 1), p. 463: «L’amicizia significa l’uguaglianza degli amici». 31 Epp, Amicitia cit.: su Brunner e Schlesinger cfr. sopra le note 12-14. 32 Epp, Amicitia cit., p. 5. 33 Ibid., p. 302. 34 Così la recensione di R. Schieffer, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 56 (2000), p. 325.


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spettro di forme dell’amicitia: relazioni personali, relazioni proprie della clientela e del seguito, alleanze politiche esterne e rapporti spirituali. Secondo la Epp l’amicizia poteva quindi sia assolvere una funzione ‘conservatrice’, come strumento di equilibrio politico tra le élite, sia costituire un canale di mobilità che consentiva ascese sociali. L’onnipresenza di relazioni di amicizia tra V e VII secolo è il punto di partenza per la tesi più importante della Epp: i gruppi politici, che si erano coesi attraverso l’amicizia, erano divenuti le cellule embrionali delle formazioni statuali germaniche sorte sul territorio dell’impero romano. Perciò queste amicizie influenzarono fortemente la nascita dei regni del primo medioevo35. Con ciò la Epp ha preso decisamente le distanze dai lavori tanto della scuola di Freiburg quanto della scuola di Münster – quella di Althoff/Keller –, le quali hanno analizzato l’amicitia nei suoi aspetti utilitaristici in maniera certamente molto unilaterale. Nondimeno la Epp ha anche condiviso le tesi di Althoff sull’utilità dell’amicitia, come si può ad esempio evincere da questa sua constatazione: «Il potere regio poteva diventare efficace se si serviva degli uomini attraverso l’amicizia»36. 4. Van Eickels: amicizia, parentela e vassallità

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In simile modo Klaus van Eickels ha dimostrato in numerose pubblicazioni, richiamandosi ai lavori di Susan Reynolds, che l’amicizia e la relazione feudale potevano essere accostate37. Del resto l’amicizia nel medioevo non presupponeva alcuna uguaglianza38. Piuttosto l’amicizia costituiva uno spazio libero, in cui questioni di rango o di manifestazione di rango

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Epp, Amicitia cit., p. 301. Ibid., p. 4. K. van Eickels, Verwandtschaft, Freundschaft und Vasallität. Der Wandel von Konzepten personaler Bindung im 12. Jahrhundert, in Lehnswesen im Hochmittelalter. Forschungskonstrukte - Quellenbefunde - Deutungsrelevanz, cur. J. Dendorfer - R. Deutinger, Stuttgart 2010 (Mittelalter-Forschungen, 34), pp. 401-411; Van Eickels definisce il feudo come «die feste Verbindung zwischen (a) einer Symbolhandlung der Unterordnung/Unterwerfung (commendatio, hominium, homagium), (b) einem zum Treueid ausgestalteten Sicherheitseid, (c) der Vergabe eines Lehens und (d) der Festlegung eines servitium debitum». 38 K. van Eickels, Verwandtschaftliche Bindungen, Liebe zwischen Mann und Frau, Lehnstreue und Kriegerfreundschaft: unterschiedliche Erscheinungsformen ein und desselben Begriffs?, in Freundschaft und Verwandtschaft. Zur Unterscheidung und Verflechtung zweier Beziehungssysteme, cur. J. F. K. Schmidt et al., Konstanz 2007, pp. 157-164.


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non giocavano alcun ruolo. Il partner di rango più alto era obbligato a trattare il suo amico di rango inferiore come se gli fosse pari, mentre l’amico di rango inferiore era obbligato a non mettere in discussione la posizione più elevata del suo partner39. Ma Van Eickels ha collocato l’amicizia non solo nel contesto della relazione feudale, bensì anche di altre forme di rapporto. Considerando la reciproca prestazione di consiglio e aiuto come carattere fondamentale dell’amicizia medievale, i confini concettuali tra parentela, amore coniugale, fedeltà vassallatica, amicizia guerriera, svaniscono40. In tutti questi diversi sistemi di relazione l’obbligazione si lascia definire solo negativamente come ‘patto di non aggressione’. L’amicizia sostituirebbe così una parola del linguaggio politico che era completamente sconosciuta al medioevo: neutralità41. Gli obblighi, che legavano l’un con l’altro due amici, non erano fondamentalmente diversi da quelli che sussistevano tra un cavaliere e il suo compagno, tra il signore e il suo vassallo, tra due fratelli o tra coniugi. In ogni caso si impiegava, nonostante altre possibilità linguistiche, la stessa terminologia latina per tutte queste forme di relazione42: amor designava l’amore tra coniugi così come quello tra due amici, senza con ciò implicare componenti omoerotiche. 5. Freiburg: amici, protettori e fedeli

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Dal 2006 i membri dell’attuale Graduiertenkolleg di Freiburg, dedicato a «Amici, protettori e fedeli» (Freunde, Gönner und Getreue), hanno dato rinnovato impulso agli sforzi compiuti dalla Epp per mettere in discussione il modello interpretativo tendente a concentrarsi unilateralmente sugli aspetti utilitaristici e sulla strumentalizzazione dell’amicizia. L’amicizia e le

39 Ibid., p. 161; van Eickels, Verwandtschaft, Freundschaft und Vasallität cit., p. 409: l’amicizia costituiva uno spazio libero, in cui le questioni di rango o l’ostentazione del rango non giocavano alcun ruolo. Se ad esempio un re si rivolgeva ai suoi uomini come amici, li onorava con la concessione di una parità di rango. Ma ciò era possibile solo quando i rapporti di rango erano chiaramente stabiliti. Il vassallo si aspettava l’appellativo di amico, fintantoché egli non metteva in discussione la posizione sovraordinata del suo signore. 40 Van Eickels, Verwandtschaftliche Bindungen cit., p. 160. 41 Ibid. Similmente K. Oschema, Freundschaft und Nahe im spätmittelalterlichen Burgund. Studien zum Spannungsfeld von Emotion und Institution, Koln-Weimar-Wien 2006 (Norm und Struktur, 26), p. 270. 42 Van Eickels, Verwandtschaftliche Bindungen cit., p. 169.


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relazioni clientelari costituivano per le persone coinvolte, cioè per gli amici, per i protettori (patroni) e per i fedeli (clienti), un “capitale sociale”. Questo capitale non è tuttavia sempre o del tutto convertibile in chances economiche o in potere ed influenza, e non può perciò essere considerato esclusivamente sotto tali punti di vista43. 6. Klaus Oschema

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Una proposta alternativa rispetto al paradigma di Althoff, che costituisce anche in un certo modo il primo lavoro complessivo sull’amicizia nel tardo medioevo, è stata presentata nel 2006 da Klaus Oschema con lo studio su Freundschaft und Nähe im spätmittelalterlichen Burgund44. Oschema non ha condiviso l’assunto di Althoff secondo cui l’amicizia come legame personale si dovrebbe interpretare unilateralmente in un’ottica funzionale e pragmatica. Oschema ha in sostanza approvato le tesi dello stesso Althoff per l’alto medioevo, cioè per un’epoca carente di statualità e di certezza del diritto, ma, per contro, ha interpretato il periodo tardomedievale in Borgogna come un periodo di rottura45. Il passaggio da uno ‘stato feudale’, centrato sulle relazioni personali, ad un sistema politico statuale allora avvenuto, istituzionalizzato in senso moderno, avrebbe comportato una separazione della sfera del pubblico e di quella del privato. Il discorso sull’amicizia nella ricca storiografia borgognona e i gesti di ostentata amicizia avrebbero dovuto idealmente ricongiungere queste due sfere, quella privata e quella pubblica, per offrire ai contemporanei, divenuti insicuri, un modello esemplare del ruolo istituzionalizzato dell’amicizia. L’amicizia, come categoria di percezione sociale, aveva mantenuto il suo più generale valore esplicativo dei rapporti umani46.

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Cfr. http://www.grk-freundschaft.uni-freiburg.de. Oschema, Freundschaft cit.; nello stesso senso vanno gli interventi pubblicati nel volume Freundschaft oder amitie? Ein politisch-soziales Konzept der Vormoderne im zwischensprachlichen Vergleich (15.-17. Jahrhundert), in Zeitschrift fur Historische Forschung. Beihefte, 40, cur. K. Oschema, Berlin 2007. 45 Oschema, Freundschaft cit., p. 27; non si tratta solo di una rottura dal punto di vista politico, ma anche da quello della mentalità, sulla via che conduce verso l’interiorizzazione e l’emozionalizzazione dell’amicizia, la quale diverrà poi evidente nel XVI secolo con Montaigne. Ma cfr. van Eickels, Verwandtschaftliche Bindungen cit., p. 161, che definisce l’emozionalità delle relazioni tra uomini una competenza sociale fondamentale già per il pieno medioevo. 46 Oschema, Freundschaft cit., p. 381.


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7. Riepilogo

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Se si cerca di ricapitolare paradigmaticamente gli studi tedeschi degli ultimi decenni, si scopre che essi si sono nel complesso concentrati per lo più sui temi dell’alleanza e dell’attività politico-sociale. In altri termini, sono state le problematiche riguardanti il potere, e quindi gli aspetti utilitaristici dell’amicitia, ad essere poste al centro dell’attenzione47. Gli studi sull’amicizia, sviluppati nella scia di Schmid e Althoff, sono in generale riconducibili ai paradigmi della ‘storia culturale del politico’48. L’amicitia è stata inserita per così dire come fattore ‘molle’, flessibile di ordinamento delle strutture politiche contro le concezioni più rigide derivate dall’ambito della storia del diritto49. ‘Regole del gioco’, che non erano messe per iscritto, e modelli di comportamento comunicativo governavano dunque la realtà sociale più robustamente che le norme giuridiche, la cui rilevanza sarebbe stata sopravvalutata dalla ‘storia costituzionale’ e dalla storia del diritto precedenti. Questo distacco dalle impostazioni storico-giuridiche e la maggior attenzione ai contesti comunicativi sono certamente le caratteristiche fondamentali della più recente medievistica tedesca50.

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47 Nell’ambito storiografico anglo-americano l’attenzione si è appuntata invece sulla forma di amicizia colta, dotta e per così dire privata. Cfr. il giudizio di H.-W. Goetz, ‘Beatus Homo qui invenit amicum’. The Concept of Friendship in Early Medieval Letters of the Anglo-Saxon Tradition on the Continent (Boniface, Alcuin), in Friendship in Medieval Europe, cur. J. Haseldine, Phoenix Mill 1999, pp. 124-136: 126; J. Haseldine, Friendship and Rivalry: The Role of Amicitia in Twelfth-Century Monastic Relations, «Journal of Ecclesiastical History», 44 (1993), pp. 390-414; Ch. St. Jaeger, Ennobling Love: In Search of a Lost Sensibility, Philadelphia 1999; ulteriori riferimenti in Oschema, Freundschaft cit., p. 97 nota 316. 48 Cfr. sopra nota 27. 49 Laddove l’uomo moderno richiede regole stabili, il medioevo sembra avere avuto fiducia nella possibilità di trovare un consenso nella concreta situazione, potenzialmente conflittuale. Si pensi ad esempio alla formula ‘spugnosa’ salvo honore Dei o salvo honore regni che offriva certamente materia e spazio per il contendere; ma era usuale nonostante la, o proprio a causa della, sua apertura. Per l’amicizia ciò significa in particolare che gli obblighi, cui i partner aderivano con lo stringersi di un’alleanza per amicizia, non erano dettagliatamente definiti per iscritto in precedenza, bensì solo negoziati nel caso concreto, quando l’adempimento degli obblighi era richiesto. Dopo lo stringersi del patto, solo nel caso di attivazione del collegamento gli amici definivano concretamente quegli obblighi su cui si era raggiunto un accordo generico. 50 Proprio in relazione al tema dei comuni auspica un distacco dall’impostazione storiografica storico-giuridica già H. Keller, Die Entstehung der italienischen Stadtkommunen


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III. L’amicizia nell’Ars dictaminis comunale 1. Un’evidenza: la rilevanza dell’amicitia

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Dopo questa breve panoramica sulle principali teorie che la medievistica tedesca ha sviluppato sull’amicitia, si può ora proporre, sulla base di alcuni esempi, la loro applicazione alle artes dictandi composte nell’ambito dei comuni italiani del XII secolo51. A tale scopo l’ars dictaminis, come genere testuale, si presta in maniera particolare. È infatti addirittura una miniera per l’analisi delle reti di amicizia, dei modi di acquisire nuovi amici e dei vantaggi pratici che potevano risultare da tali reti52. Un quarto dei modelli epistolari nelle prime Artes dictandi si occupa di amicizia; nessun altro tema è trattato così diffusamente come questo. Ciò vale per Adalberto Samaritano, Ugo di Bologna, per la Aurea Gemma e persino per i Modi dictaminum del Magister Guido53. Boncompagno da Signa, di per sé conosciuto come maestro di retorica ed esponente dell’ars dictaminis,

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als Problem der Sozialgeschichte, «Frühmittelalterliche Studien», 10 (1976), pp. 169-211: 174s. Molto brevemente scrive su questi sviluppi generali anche H.-W. Goetz, Moderne Mediävistik. Stand und Perspektiven der Mittelalterforschung, Darmstadt 1999. 51 Per uno sguardo complessivo sulle artes dictandi del XII secolo cfr. F.J. Worstbrock - M. Klaes - J. Lütten, Repertorium der artes dictandi des Mittelalters. Teil I: Von den Anfängen bis um 1200, München 1992 (Münstersche Mittelalter-Schriften, 66); A.-M. Turcan-Verkerk, Répertoire chronologique des théories de l’art d’écrire en prose (milieu du XIe s.-années 1230). Auteur, oevre(s), inc., édition(s) ou manuscrit(s), «Archivum Latinitatis Medii Aevi», 64 (2006), pp. 193-239; più generale J.J. Murphy, Rhetoric in the Middle Ages. A History of Rhetorical Theory from Augustine to the Renaissance, Berkeley 1974, pp. 194268. 52 Le amicizie laiche, che si formavano nelle cerchie ristrette di persone delle protouniversità nel contesto delle città italiane, sono state finora a malapena oggetto di attenzione nella ricerca; Van Eickels, Vom inszenierten Konsens zum systematisierten Konflikt. Die englisch-französischen Beziehungen und ihre Wahrnehmung an der Wende vom Hoch- zum Spätmittelalter, Stuttgart 2002 (Mittelalter-Forschungen, 10), p. 26, con la riduttiva nota 35; esempi paralleli sono soltanto quelli di alcune città universitarie inglesi per cui tali fenomeni sono stati indagati a partire dal XIII secolo. Addirittura J. McEvoy, nella sua peraltro notevole panoramica sull’amicizia nel medioevo latino, trascura gli intellettuali italiani dei secoli XII e XIII; cfr. J. McEvoy, The Theory of Friendship in the Latin Middle Ages: Hermeneutics, Contextualization and the Transmission and Reception of Ancient Texts and Ideas, from c. AD 350 to c. 1500, in Friendship in Medieval Europe cit., pp. 3-44. 53 Adalbertus Samaritanus, Praecepta dictaminum, ed. F.-J. Schmale,Weimar 1961 (Monumenta Germaniae Historica. Die deutschen Geschichtsquellen des Mittelalters 5001500. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 3); Hugo von Bologna, Rationes dictandi prosaice, ed. L. Rockinger, in Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des elften bis vierzehnten Jahrhunderts, München 1863-1864 (Quellen zur bayerischen und deutschen


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scrisse, come è noto, un’intera opera sull’amicizia . La prima ars dictandi comunale, che risale al 1115, inizia la raccolta epistolare con due lettere sull’amicizia di due nobiles. Altrettanto si può rilevare per l’Aurea Gemma, databile all’incirca al 1130, in cui quasi il 40% delle lettere riguarda l’amicizia e in cui l’amicizia aristocratica tra due nobiles è ancora una volta posta all’inizio della raccolta55. La particolare trattazione del tema dell’amicizia nelle artes dictandi comunali è di per sé degna di rilievo. Le prime artes dictandi comunali si rifacevano da vicino, come è noto, all’opera di Alberico di Montecassino56 e Alberico rimase il punto di riferimento per i dictatores comunali57. Nel suo Breviarium non si trova tuttavia alcuna particolare trattazione sull’amicitia. I singoli modelli epistolari in Alberico riguardano l’imperatore e il papa, senza la presenza di una terminologia specificamente relativa all’amicizia, come ci si può del resto attendere dall’ambiente curiale di produzione58. Ma proprio in relazione all’amicitia le artes dictandi comunali non seguirono il modello di Alberico. Esse elevarono piuttosto l’amicizia a tema centrale in maniera autonoma. L’ampia tematizzazione dell’amicitia fu dunque una consapevole decisione dei dictatores comunali. Quindi, per l’élite istruita dei comuni, da poco costituitisi, la relazione amicale era chiaramente un tema cui prestare particolare attenzione. In altri termini, poiché le artes dictandi sono manuali sulle regole comunali di comunicazione, e sono, per così dire, fondative del discorso comunale, si può desumere che l’amicizia fosse considerata una parte costitutiva di tale discorso da parte delle élite urbane.

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Geschichte), pp. 53-94; Oberitalienische Aurea Gemma Willehelmi, ed. H.-J. Beyer, in Beyer, Die “Aurea Gemma”. Ihr Verhältnis zu den frühen Artes dictandi, Bochum 1973; Magistro Guido, Modi dictaminum, Verona, Biblioteca capitolare, Cod. CCLXII (234). 54 “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (Miscellanea di letteratura del medio evo, 3); cfr. l’edizione online di Steven M. Wight: http://scrineum.unipv.it/wight/amic.htm. Per Boncompagno da Signa basti qui il rinvio al contributo di Enrico Artifoni in questo stesso volume. 55 Aurea Gemma Willehelmi, ed. Beyer cit., Epp. 1, 2, 7, 8, 9, 14, 15, 16, 31, 32, 33, 34, 37, 38, 40, (41). 56 Alberico di Montecassino, Breviarium de dictamine, ed. F. Bognini, Firenze 2008 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini, 21, Serie 1/12). 57 Bastino al riguardo le brevi note di J. Lütten - F. J.Worstbrock, Adalbertus Samaritanus, in Worstbrock - Klaes - Lütten, Repertorium cit., pp. 1-6. 58 Per l’origine del Breviarium di Alberico nell’ambito della curia papale cfr. F. Hartmann, Das Enchiridion de prosis et rithmis Alberichs von Montecassino und die Flores rhetorici, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 89 (2009), pp. 1-30.


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2. Amicizia e coniuratio

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Nel discorso politico dell’élite comunale ci si occupa costantemente della costituzione e del mantenimento dei rapporti di amicizia. Le Artes dictandi sostituiscono insomma come fonte per l’analisi dell’amicizia i Libri memoriales dell’alto medioevo, in relazione ai quali Schmid e Althoff hanno sviluppato il loro paradigma interpretativo. Le Artes dictandi non tramandano liste di amicizie effettivamente strette, bensì consentono di prendere visione del vocabolario relativo alla realizzazione, al mantenimento e alla strumentalizzazione dell’amicizia. Se nei Libri memoriales si fissano gruppi di persone legati da amicizia, che si sono unite con giuramento nelle coniurationes59, le artes dictandi offrono indicazioni sul valore dell’amicizia bilaterale nel contesto sociale delle coniurationes comunali60. Certo le coniurationes impiegano allo stesso modo la terminologia che era stata già sviluppata sul modello dell’amicizia. Tuttavia c’è una sostanziale differenza. Le coniurationes sono associazioni di parecchie persone, l’amicitia nelle artes dictandi è di regola bilaterale; nelle artes dictandi essa viene cioè stretta di volta in volta tra due persone. Come accennato, nei suoi precepta dictaminum del 1115 Adalberto Samaritano inizia la raccolta dei suoi modelli epistolari nel contesto del nascente comune bolognese con una coppia di lettere di due viri nobiles, che stringono amicizia.

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«G. egregio et nobilissimo viro W. Societatis et dilectionis vinculum. Bonorum frequens astipulatio de tuis sanctis moribus in hoc me desiderium provocavit, ut amicitias tuas ardenter exoptem, nam qui bonorum plurium ore celebrantur et probitatis sunt fama laudabiles, merito a bonis omnibus sunt amabiles. […] Idcirco, amabilissime domne, tuam, ut dixi, amicitiam incomparabiliter expetens, has tibi litteras scripsi, orans et summa prece deposcens, ut, quid tibi super his placeat, quam cito rescribas»61.

A questa richiesta di stringere un patto di amicizia segue una risposta positiva nella lettera immediatamente seguente. Così veniamo a sapere

59 Per le coniurationes altomedievali si veda G. Althoff, Zur Frage nach der Organisation sächsischer Coniurationes in der Ottonenzeit, «Frühmittelalterliche Studien», 16 (1982), pp. 129-142; Althoff, Verwandte cit., pp. 119-133. 60 Per la bilateralità dell’amicizia nel tardo medioevo cfr. anche E. Muir, The sources of civil society in Italy, «The Journal of Interdisciplinary History», 29 (1999), pp. 379-406: 394. 61 Adalbertus Samaritanus, Praecepta dictaminum cit., p. 43.


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qualcosa sulla costituzione concreta di queste amicizie, che innanzitutto erano stabilite solo per via epistolare. «G. superno munere, si quid est, W. Honeste indolis adolescentulo mutue affectionis dilectionem. […] Quod vero postulas, ut rescribam, quid de petitione tua mihi placeat, paucis adverte. Auro obrizo preciosior, cunctis opibus est tua mihi dilectio carior ac per hoc quarta feria proxime ebdomade in urbem conveniamus et amicitiam verbis inceptam revenire satagamus. Vale»62!

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Evidentemente queste lettere sono piene di topoi e servono come esercizio per l’espressione stilisticamente perfetta dell’amicizia e dell’amore. Ma, nonostante questo contenuto fittizio e stilizzato, è sempre da considerare il fatto che queste lettere furono inventate in un contesto sociale e politico reale. Sono sì fittizie, ma non arbitrarie. Le idee e le concezioni che sono costantemente ripetute nelle artes dictandi riflettono la consapevolezza sociale degli autori. Foss’anche nello specifico inventato il contenuto, le concezioni fondamentali che vi stavano dietro apparivano all’autore perlomeno plausibili. Le massime e i principi addotti in questo modo e sostenuti da un generale codice di valori sono tanto più significativi in quanto consentono di gettare uno sguardo sui presupposti e quindi sull’autocomprensione del mondo comunale63. Dal punto di vista della teoria del discorso la costante ripetizione delle stesse concezioni mostra che queste erano “dicibili”64, cioè erano ben ancorate nei modelli interpretativi della società. Perciò da una parte esse rappresentano le concezioni correnti di una società, ma dall’altra le costruiscono e le rinsaldano, dal momento che sono costantemente ripetute e persino difese argomentativamente. Gli autori delle artes dictandi appartenenti all’élite cittadina presentano in questa forma la loro

62 Ibid. 45; e anche Aurea Gemma Willehelmi cit., p. 125*; cfr. anche ibid., p. 130*: «D. nobilissima prosapia orto ac morum honestate preclaro E. sincere dilectionis unionem. […] Quapropter optimum factu ratus sum tuam amicitiam appetere, qui tuis omnibus compatriotis tam genere quam moribus honestissimis precellis. Tuam igitur benignitatem suppliciter exoro, quatenus Idibus Octobris in Ponte Lavino colloquii gratia conveniamus, ut amicitiam verbis inceptam rebus venire satagamus». 63 A. Landwehr, Geschichte des Sagbaren. Einführung in die historische Diskursanalyse, Tübingen 2001 (Historische Einführungen, 8); Landwehr, Macht - Diskurs - Wissen. Perspektiven einer Kulturgeschichte des Politischen, «Archiv für Kulturgeschichte», 85 (2003), pp. 71-117; Landwehr, Historische Diskursanalyse, Frankfurt am Main 2008, p. 19. 64 Si veda su ciò in generale Landwehr, Geschichte des Sagbaren cit. e in maniera ancora più pregnante: Landwehr, Historische Diskursanalyse cit., pp. 21s.


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immagine della società o il loro sapere della realtà sociale, che in forza della loro autorità può essere imposto e istituzionalizzato come ovvio modello di pensiero e di percezione65. Inoltre si deve insistere sul fatto che le artes dictandi come genere perseguivano una finalità didattica. Esse presentavano agli studenti le regole fondamentali della comunicazione epistolare e le esemplificavano attraverso modelli fittizi di lettere. Tali modelli non servivano tuttavia solo alla dimostrazione delle capacità stilistiche dell’autore, bensì avrebbero dovuto essere anche di immediata utilità per gli studenti. In altre parole il contenuto avrebbe dovuto essere selezionato in modo che esso potesse essere almeno teoricamente anche reimpiegato. Interpretando quindi queste lettere fittizie come un riflesso plausibile della realtà sociale, esse cominciano anche dirci qualcosa di più. Il già citato scambio epistolare tra i due nobili W. e G. mostra che, dopo il contatto scritto, il pratico avvio dell’amicizia era realizzato con un incontro personale. Ciò che la lettera formula allora come finzione teorica, avrebbe potuto – agli occhi degli studenti – essere effettivamente accaduto. Seguendo questo ragionamento le amicizie come quelle tra G. e W. possono essere considerate consuete nel mondo comunale. In linea generale questa evidenza non sorprenderà. Le amicizie furono strette dovunque e in ogni tempo. Tuttavia, l’assoluta rilevanza delle amicizie tra nobili, che viene significativamente espressa con la collocazione di entrambe le lettere all’inizio della raccolta epistolare, diventa un problema se queste amicizie bilaterali dei nobili all’interno del comune divengono più forti del riconoscimento della ‘concordia’ comunale. Quei nobili, che si ponevano proprio al vertice dell’autogoverno cittadino66, stringevano tra loro amicizie all’interno del comune. Queste alleanze amicali tra nobili portavano già in sé il germe delle successive fazioni comunali. E potevano ben eccedere le amicizie bilaterali allargan-

65 Sull’impiego di conoscenze tratte dalla sociologia del sapere nella medievistica si veda Patzold, Episcopus cit., p. 41. Per i fondamenti di sociologia del sapere si veda M. Haugaard, The Constitution of Power. A Theoretical Analysis of Power, Knowledge and Structure, Manchester et al. 1997, p. 31; B. Barnes, The Nature of Power, Cambridge 1988, pp. 60-75; P.L. Berger - Th. Luckmann, Die gesellschaftliche Konstruktion der Wirklichkeit. Eine Theorie der Wissenssoziologie, Frankfurt a. M. 1969. 66 Sui nobiles come protagonisti della prima fase comunale si vedano ancora i lavori di Keller, Die Entstehung der italienischen Stadtkommunen cit.; Keller, Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien - 9. bis 12. Jahrhundert, Tübingen 1979 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 52).


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dosi a più consistenti fazioni all’interno dei comuni . Certo, i nobili erano anche partecipi e fautori dell’ordinamento comunale. Ma nondimeno una configurazione fondamentale della complessiva storia comunale rimase quella che opponeva la nobiltà come gruppo organizzato ad un raggruppamento molto più esteso delle componenti sociali cittadine68. Hagen Keller ha da tempo fatto notare il «contrapporsi di una collettività non chiaramente definita dal punto di vista cetuale e di uno specifico gruppo nobiliare»69. Lo scopo principale delle famiglie potenti nei comuni era secondo Jean-Claude Maire Vigueur, «di accedere agli organi dirigenti del comune, di entrare nei consigli e di avere una funzione politica o amministrativa, insomma di esercitare il potere»70. Dunque le lotte per queste posizioni furono condotte anche con metodi duri, per quanto le fonti tacciano sulle modalità del confronto politico nella prima fase dei comuni71. Proprio le elezioni dei consoli e di altri ufficiali furono certo all’inizio non particolarmente formalizzate72. Spesso i consoli designavano i loro successori, come è attestato per Genova nella seconda metà del secolo XII73. Queste decisioni informali e non trasparenti nelle procedure elettorali74 erano naturalmente condizionate in maniera particolare da alleanze personali. Ed era qui che contavano le amicizie bipolari strette in precedenza.

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Per esempio Adalbertus Samaritanus Praecepta dictaminum cit., pp. 68-70, n. 17. G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia nei comuni dell’alta e media Italia, «Rivista di storia del diritto italiano», 12 (1939), pp. 86-133, 240-309; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa dalle origini del podestariato alla Signoria dei Donoratico, Napoli 1962 (Pubblicazioni dell’Istituto italiano per gli studi storici, XIII); J.K. Hyde, Society and Politics in Medieval Italy. The Evolution of the Civil Life 1000-1350, London 1973, pp. 104ss. 69 Keller, Die Entstehung der italienischen Stadtkommunen cit., pp. 198s. 70 J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004 (edizione francese originale: Cavaliers et citoyens. Guerre, conflits et société dans l’Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Paris 2003 [Civilisations et sociétés, CXIV]), p. 389. 71 E. Occhipinti, L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Roma 2000, pp. 33-35; E. Coleman, Cities and Communes, in Italy in the Central Middle Ages, cur. D. Abulafia, Oxford 2004, pp. 27-57: 49. 72 C. Dartmann, Eine Kultur der Niederlage? Wahlen in der italienischen Stadt des Hoch- und Spätmittelalters, in Technik und Symbolik vormoderner Wahlverfahren, cur. C. Dartmann - G. Wassilowsky - T. Weller, München 2010 (Historische Zeitschrift. Beihefte, 52), pp. 53-70: 64. 73 Obertus Cancellarius, Annales Ianuenses a. 1164-1173, ed. G. H. Pertz, Hannoverae 1863 (Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, 18), pp. 56-95: 61. 74 Dartmann, Eine Kultur der Niederlage cit., p. 64.


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Nelle artes dictandi erano chiaramente messi in rilievo proprio questi «diversi sistemi di alleanza che si contendevano l’accesso al consolato»75. A ciò che secondo Jean-Claude Maire Vigueur è attestato solo a cavallo tra il XII e il XIII secolo da parte degli Annales Ianuenses, cioè quelle conspirationes et compagnie che «mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa del regime comunale»76, alludono già le prime artes dictandi, quando si riferiscono alla rilevanza di queste alleanze. Non è allora un caso che Adalberto accanto a queste amicizie di singoli ‘nobili’ evochi anche la Concordia dell’intero comune77.

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«Se i cittadini con i cittadini vivessero in concordia (viverent et concordarent), come prescrive lo ius civile, manterrebbero nel modo giusto l’onore e lo stato della loro città. […] Perciò, consoli di Parma, se Voi civilmente e concordemente conduceste le Vostre vite, come Vi compete, l’onore, la forza e l’ordinamento della Vostra città in Voi sarebbero mantenute e preservate. Perciò, per quanto possibile, non dovete discordare in nessuna situazione confacente ed onorevole»78.

In maniera del tutto simile nell’Aurea Gemma, composta poco più tardi in Italia settentrionale e ampiamente diffusa, si legge:

«Se i cittadini con i cittadini gareggiassero nella virtù e secondo l’uso antico concordassero sull’ordinamento della città e sull’utilità pubblica e si adoperassero per entrambe, se essi non preferissero i vantaggi privati al pubblico interesse, bensì estendessero il lustro e la fama della città quotidianamente, giammai l’ordinamento della città cadrebbe o vacillerebbe»79.

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Maire Vigueur, Cavalieri cit., p. 390. Ibid. E così come Althoff ha preso seriamente in considerazione il discorso sull’amicizia dell’epoca ottoniana e lo ha definito come uno dei fondamenti culturali della struttura del regno, ci si può porre anche riguardo ai comuni la questione se la relazione amicale dei cittadini garantisse la coesione della struttura comunale da poco costituitasi o la mettesse in pericolo. 78 Adalbertus Samaritanus, Praecepta dictaminum cit., p. 60: «Si cives cum civibus, qualiter ius civile precipit, viverent et concordarent, honorem et statum sue civitatis equabiliter retinerent […]. Parmenses igitur consules, si vos civiliter ac concorditer vitam duceretis, sicut conveniret, honor, vigor statusque vestre civitatis in vobis retineretur et conservaretur; quod ut sit possibile, in nullis rebus utilibus ac honestis discordetis». 79 Oberitalienische Aurea Gemma Oxoniensis (AGO), ed. Beyer cit., p. 73*: «Si cives cum civibus de virtute certarent et de civitatis statu et publica utilitate maiorum more concordarent ac laborarent, si privata commoda publicis utilitatibus non prerogarent, sed decus suum et famam cottidie propagarent, nequaquam status civitatis precipitando vacillaret».


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L’unità della coniuratio e la relazione personale delle amicizie bilaterali costituiscono un rilevante campo di tensione cui i comuni erano continuamente soggetti. Già tutte le prime artes dictandi dal 1115 mostrano queste tensioni strutturali. Le amicizie individuali sono costituite per essere al momento opportuno utilizzate strumentalmente. I vantaggi riguardano ad esempio l’assegnazione di uffici nei procedimenti elettorali comunali80 o anche la possibilità di aprirsi, con l’aiuto degli amici, la strada verso l’ ‘orecchio’ di un signore81. Nella raccolta epistolare del maestro Guido, ad esempio, uno iudex scrive ad un amicus iudex che presta servizio alla corte imperiale. In questo tipico modello epistolare si dice: «Omni probitate fulgenti B. Christi gratia sacri palatii dignissimo iudici I. indissolubili sibi amore unitus indeficientis dilectionis et vere salutis copiam. Licet longa terrarum intercapedine nostra corpora disgregentur, amice karissime, sincerus tamen cordis mei amor adeo circa te viget et regnat, ac si cotidie oculis corporeis videremur et ore ad os alternatim loqueremur. Sed quoniam te potenter amare, honorare ac, que tibi sint grata, semper agere cupio, confidenter latorem presentium capellanum domine abbatisse Sancte Marie Maioris tue providentie dirigo te quam plurimum deprecans, quatinus eum apud te benigne recipere peroptans sic eius negotia provide apud piissimum Romanorum imperatorem exercere procures ut tui [sic] studio ad bonum effectum valeat conducere. Quod si facere volueris, et a me amorem et ab ea honorem et celestis regine patrocinium consequi poteris»82.

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L’amicizia spiana l’accesso all’ ‘orecchio’ di colui che prende le decisioni. La lettera è in un certo qual modo tratta dalla vita e ci mostra le strategie per la strumentalizzazione mirata delle amicizie esistenti. Le artes dic-

80 Nelle fonti le procedure elettorali della prima fase comunale rimangono intenzionalmente nell’oscurità. La mancanza di precise disposizioni elettorali fa tendenzialmente propendere tuttavia per l’ipotesi che influissero sulle elezioni colloqui informali; v. E. Coleman, Representative Assemblies in Communal Italy, in Political assemblies in the earlier middle Ages, cur. V.P.S. Barnwell - M. Mostert, Turnhout 2003 (Studies in the early middle ages, 7), pp. 193-210: 205; R. Celli, Pour l’histoire des origines de pouvoir populaire. L’expérience des villes-états italiennes (XIe-XIIe siècles), Louvain 1980, pp. 30s. 81 Cfr. Aurea Gemma Willehelmi, ed. Beyer cit., p. 169*, dove, con il riferimento ad una «amicitiam igitur mutuam et fedus iure iurando inter nos initum», viene richiesto l’aiuto militare ad un nobile. 82 Savignano di Romagna, Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi, ms. 45, ff. 138v139r.


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tandi con i loro squarci di cultura quotidiana della richiesta/preghiera83 forniscono indicazioni sul significato dei canali informali attraverso i quali le decisioni sono influenzate, ma che non sono per lo più riportate nelle altre fonti. Come è noto, le fonti storiografiche non esistono per la prima fase comunale e quelle più tarde si sforzano in ogni modo ad occultare la storia degli inizi del comune84. Inoltre tali canali di comunicazione informali rimangono comunque spesso al di fuori della storiografia ufficiale. L’esistenza di tali reti di relazioni, all’interno di una “militia” comunale o di una “nobiltà cittadina”85, è stato già dimostrato nel caso di alcuni comuni sui quali sono stati condotti studi di tipo prosopografico86. Tuttavia sull’efficacia e sugli obblighi di tali reti di relazioni e alleanze si conosce per ora molto poco. Che secondo la testimonianza delle artes dictandi fosse usuale il ricorso a canali di comunicazione informali, si desume semplicemente dal fatto che essi fossero parte costitutiva dell’insegnamento nella comunicazione comunale. Naturalmente tali rapporti amicali bilaterali tra due nobiles non rimanevano confinati ai modelli epistolari. Queste amicizie erano rinsaldate anche attraverso un colloquium che avveniva durante un incontro personale87. In tali incontri non si trattava ovviamente di dar luogo solo a una conferma rituale di un’alleanza tra amici iniziata per via epistolare, bensì il colloquium è da intendersi assolutamente come un (privato) abboccamento, in cui l’amicizia veniva concretizzata nei suoi obblighi e accordi. Quan-

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83 Su ciò in generale C. Garnier, Die Kultur der Bitte. Herrschaft und Kommunikation im mittelalterlichen Reich, Darmstadt 2008 (Symbolische Kommunikation in der Vormoderne. Studien zur Geschichte, Literatur und Kunst). 84 Ch. Wickham, The Sense of the Past in Italian Communal Narratives, in The Perception of the Past in twelfth century Europe, cur. P. Magdalino, London 1992, pp. 173189: 176. 85 Maire Vigueur, Cavalieri cit., pp. 459s. 86 Perlomeno nella prima fase non si deve supporre un’istituzionalizzazione formale del comune. Vedi ad esempio l’idea di un «insieme di nuclei, di forze e di poteri non ancora coesi, senza che questo significhi necessariamente considerarle associazioni strettamente private» presentata in E. Faini, Firenze nell’età romanica. L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze 2010 (Biblioteca storica toscana, LXII), p. 262; cfr. anche la definizione di H. Keller, La responsabilità del singolo e l’ordinamento della comunità, in Il secolo XII: la «renovatio» dell’Europa cristiana, cur. G. Constable et al., Bologna 2003 (Annali dell’Istituto storico italico-germanico, LXII), pp. 67-88, che definisce il primo comune come una «società segmentata». 87 Adalbertus Samaritanus, Praecepta dictaminum cit., p. 45; e anche Aurea Gemma Willehelmi cit., pp. 125*, 130*.


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to concretamente potessero questi accordi nel caso specifico, è mostrato da un’ulteriore lettera di amicizia tratta dall’Aurea Gemma Willehelmi:

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«A. de villa sancti Martini inclito et magnifico viro N. cum omnibus ordinibus salutem perpetuam et fidelissima famulamina. Quod vobiscum peregimus, bona fide peregimus; per amicitiam igitur mutuam et fedus iure iurando inter nos initum vestram nobilitatem versa vice rogamus, ut, quod nobis pepigistis statuto die – sicut nos decet – perficiatis et id caute et private peragatis et nulli mortalium iter et egressum nostrum confiteamini, nisi qui huius secreti participes sacramento tenentur, et sexta die Augusti advesperascente cum loricatis equitibus iuxta Renum castra locetis; et ibi secundum promissum vobis occurremus et vestro consilio advocato, quod hinc Deus permiserit, faciemus»88.

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In sintesi le artes dictandi presentano quindi nel loro complesso l’amicizia come un tema fortemente ancorato al discorso comunale; le lettere di amicizia appartenevano infatti al repertorio standard dei dictatores. Le alleanze basate sull’amicizia erano strette tra due persone in vista di aiuto, protezione e consiglio in situazioni di conflitto. All’alleanza basata sull’amicizia preparata per via epistolare seguiva spesso la sua concretizzazione in un incontro privato89. Amicizie di questo tipo furono di regola strette tra persone di alta estrazione sociale90, non di rado tra ‘nobiles’. In determinate situazioni di necessità o di conflitto gli amici accorrevano dal proprio partner e fornivano aiuto militare, politico o finanziario a seconda del genere di amicizia che si era stretta91. E quest’ultimo punto merita in conclusione ancora una specifica attenzione. Nel quadro della stilistica epistolare le artes dictandi insegnano tra l’altro anche una strategia argomentativa. La struttura esemplare della lettera secondo un sistema in cinque parti è stata per così dire canonizzata alla metà del secolo XII dal maestro Bernardo92. Decisivo per il successo di una

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Ibid., p. 169*. Adalbertus Samaritanus, Praecepta dictaminum cit., p. 45; Aurea Gemma Willehelmi cit., p. 170*: «Vos itaque humiliter rogo, ut promissio sepe exhibita nunc appareat fida, et per presentium latorem vestram voluntatem aperiendo scriptis reprendite colloquia». 90 Cfr. Maire Vigueur, Cavalieri cit., p. 399. 91 Un esempio stilistico è offerto dall’Aurea Gemma Willehelmi cit., p. 170*: «Vos itaque humiliter rogo, ut promissio sepe exhibita nunc appareat fida». 92 A.M. Turcan-Verkerk, La Ratio in dictamina, les Precepta prosaici dictaminis secundum Tullium et Bernard de Bologne (ou: 1 + 4 = 5), in Parva pro magnis munera. Études de littérature tardo-antique et médiévale offertes à François Dolbeau par ses élèves, cur. M. Goullet, Turnhout 2009 (Instrumenta patristica et mediaevalia. Research on the Inheritance


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richiesta presentata per via epistolare risultava l’Exordium. In esso occorreva iniziare con una massima comunemente nota di un’autorità riconosciuta e da quella trarre la legittimità della concreta richiesta. Bene di Firenze descrive questi Proverbia introduttivi nel suo Candelabrum come «quasdam sententias generales et lucidas et probatas, que bene possunt exordia nominari, quia thema totius epistole inde trahit efficaciam et vigorem»93. Nel caso in cui non fosse stato possibile trovare Proverbia adatti derivati dalla penna di autorità riconosciute, il dictator avrebbe dovuto rifarsi ad una massima generalmente valida, conveniente per l’argomentazione della lettera, secondo il procedimento che si rinviene nell’esposizione metodicamente e stilisticamente fondante del De inventione di Cicerone, ereditata poi dalle artes dictandi medievali94. Questo procedimento è generalmente consueto nella teoria epistolare dell’ars dictaminis: esso è formulato nella maniera più chiara in un’ars dictaminis francese, la Summa Cognito di Radulfo di Vendôme, composta alla fine del secolo XII: «Proverbium ita debet inveniri: eligat sibi dicator materiam et illam colligat in unam formulam et ex illa forma formare debet quandam clausulam, que sit generalis sententia»95. Ora, tornando al tema dell’amicizia, per persuadere gli amici a soddisfare la richiesta del loro partner, si poteva ad esempio richiamare, secondo l’insegnamento delle artes dictandi, l’amicitia esistente e i doveri a ciò connessi, che trovavano così nell’exordium un’espressione aforistica. Un

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of Early and Medieval Christianity, 51), pp. 919-956; Turcan-Verkerk, Le Liber artis omnigenum dictaminum de maître Bernard (vers 1145): États successifs et problêmes d’attribution, «Revue d’Histoire des Textes», n. ser. 5 (2010), pp. 99-158. 93 Bene Florentinus, Candelabrum, ed. G.C. Alessio, Padua 1983 (Thesaurus Mundi. Bibliotheca scriptorum Latinorum mediae et recentioris aetatis, 23), pp. 208s.; allo stesso modo si esprimeva già in precedenza il Magister Gaufredus, Summa de arte dictandi, ed. V. Licitra, in Licitra, La Summa de arte dictandi di Maestro Goffredo, «Studi medievali», III ser., 7 (1966), pp. 865-913: 885-913, 892: «Exordium sive proverbium est oratio sententiam continens prodeuntem a consuetudine vel a natura». Natura e consuetudine si costituivano quasi come ineludibili precondizioni valoriali che, in quanto fondamenti morali e ideali di una società, erano implementati dalla costante ripetizione. Proprio nella consuetudinarietà di questi valori è celata la loro fondamentale arbitrarietà. 94 Cfr. Marcus Tullius Cicero, De inventione 2, 15, 48-16, 51; si veda su ciò, anche per quanto segue, F.J. Worstbrock, Die Frühzeit der Ars dictandi in Frankreich, in Pragmatische Schriftlichkeit im Mittelalter. Erscheinungsformen und Entwicklungsstufen, cur. H. Keller K. Grubmüller, München 1992 (Münstersche Mittelalter-Schriften, 65), pp. 131-156: 147s. 95 Radulf von Vendôme, Summa Cognito, Brüssel, Stedelijke openbare bibliotheek, Cod. 549, f. 46r.


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caso esemplare si trova ad esempio nell’opera di Ugo da Bologna: «Omnem amicum ab amico suis in necessitatibus expectare subsidium decet»96. Le ampie raccolte di esordi presenti nelle artes dictandi comunali dimostrano quindi, anche riguardo al tema dell’amicizia, la loro particolare significatività, confermando la loro rilevanza nella comunicazione epistolare quali florilegi di introduzioni plausibili dal punto di vista della strategia argomentativa. Insomma, rientravano in quel “dicibile”, con cui si riproducevano concezioni valoriali generalmente condivise nella cultura comunale97. Le artes dictandi forniscono così un accesso ad alcuni dei modelli comportamentali con cui si strutturava concretamente il potere sociale e politico all’interno del comune. Tra tali modelli comportamentali socio-comunicativi si annovera anche l’amicizia, specie nella sua declinazione strumentale. E con questa interpretazione dell’amicizia in chiave utilitaristica, desunta dalle indicazioni fornite dalle artes dictandi, mi riallaccio alla panoramica delle tendenze più recenti della ricerca storiografica tedesca sull’amicitia, presentata all’inizio di questo contributo.

96 Hugo von Bologna, Rationes dictandi prosaice cit., p. 86. 97 Cfr. Landwehr, Geschichte des Sagbaren cit.; e dello stesso Historische Diskursanalyse

cit., pp. 21s.


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Scripsit amica manus: l’autografia nelle lettere monastiche d’amicizia (XI e XII secolo)


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Nell’ambito di uno studio che mirava a ricercare riferimenti all’autografia nelle lettere latine di religiosi tra XI e XII secolo ho avuto modo di constatare la relativa ricchezza di dichiarazioni di autografia nelle lettere monastiche di amicizia di questo periodo. In merito a tale particolare idoneità sono possibili diverse spiegazioni: in primo luogo, le lettere di amicizia risultano spesso ricche di riferimenti all’atto stesso della scrittura, quando illustrano l’occasio o ratio scribendi o rappresentano l’autore nell’atto di produrre la lettera. In entrambi i casi necessità pratiche, quali quella di presentare e giustificare la propria iniziativa scrittoria, illustrandone le circostanze, e di dipingere, a beneficio del destinatario, un quadro il più possibile vivo del mittente per aiutare la finzione di un colloquio orale tra i due1, si sviluppano in topoi largamente diffusi. Proprio questo tipo di riferimenti al tempo («haec vestrae sinceritati una post matutinas vigilias lucubratiuncula propria manu exaravimus»2) e

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È noto che gran parte dei tratti caratteristici della comunicazione epistolare (su cui cfr. A. Petrucci, Prima lezione di paleografia, Roma-Bari 2005, p. 87 e A. Petrucci, Scrivere lettere, Roma-Bari 2008), a cominciare dall’uso di rivolgersi al destinatario con la seconda persona come se lo si avesse davanti, derivano proprio da questo modello del colloquio orale. La definizione, diffusa nel Medioevo, della lettera come colloquium absentium deriva dagli amicorum conloquia absentium citati da Cicerone nelle Filippiche, ma preferita a partire dai Padri della Chiesa nella variante sermo, come ricostuisce E. Rauzy, Les représentations mentales mises sur pied dans la lettre par Cicéron, in Colloquia absentium. Studi sulla comunicazione epistolare in Cicerone, cur. A. Garcea, Torino 2003, pp. 101-121: 106-107. 2 Wibaldi abbatis Stabulensis et Corbeiensis Epistula 32, ed. P. Jaffé, in Bibliotheca rerum germanicarum, I, Berlin 1864, p. 111. Una nuova edizione a cura di Martina Hartmann è in stampa per la sezione Die Briefen der deutschen Kaiserzeit dei Monumenta Germaniae Historica: una versione preliminare è liberamente disponibile nella sezione Datenbanken del sito degli MGH: < http://www.mgh.de>.


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al luogo («hoc iuxta capellam scripsi Sancti Aigulfi tibi»3) in cui la lettera viene scritta o al proprio stato fisico ed emotivo nell’atto di produrla4 si rivelano spesso fonti utilissime per la ricostruzione delle pratiche di produzione epistolare dell’autore in questione, rivelando ad esempio la presenza di un segretario o, al contrario, una circostanza di dichiarata autografia. In effetti la lettera, e in particolare la lettera di amicizia, è da sempre luogo privilegiato di informazioni di tipo autobiografico, specialmente in un’epoca in cui il genere letterario dell’autobiografia era lontano dai canoni secondo cui lo concepiamo ora5. Ciò si deve sia alla flessibilità del genere epistolare, sia alla sua natura di monologo, specialmente se si considera la rivalutazione dell’autoanalisi e dell’espressione di sé caratteristica del periodo in esame6. Questo tipo di tendenza consente a volte di indagare la concezione e la pratica della scrittura caratteristiche di un autore; altre informazioni ci sono inoltre fornite dal fatto che spesso egli riflette anche sul suo rapporto con il destinatario della lettera e sul medium che lo rende possibile e al tempo stesso lo condiziona. In secondo luogo, rispetto alle lettere che contengono comunicazioni di natura più pratica e contingente, legate per esempio all’esercizio dell’amministrazione, o alle lettere-trattato in cui la forma epistolare è essenzialmente una cornice, le epistole di amicizia appaiono più legate alla materialità del supporto, facendovi spesso riferimento. A mio parere ciò nasce proprio dal fatto che, mentre in altri casi ad essere importante è il messag-

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Petri Cellensis Epistula 70, ed. J. Haseldine, in The letters of Peter of Celle, Oxford 2001 (Oxford Medieval Texts), pp. 324-326. 4 Cfr. ad es. Anselmi Cantuariensis Epistula 156, edd. I. Biffi - C. Marabelli, in Anselmo d’Aosta, Lettere 2.1. Arcivescovo di Canterbury, Milano 1990 (Di fronte e attraverso, 212), p. 124: «ecce nunc in hac ipsa locutione, qua vobis absens loquor dictando, testes mihi sunt lacrimae quas continere nequeunt oculi mei, et vim mihi facientes singultus gutturis mei inundantes “a gemitu cordis mei” obturantes et interrumpendo tardantes scriptori verba oris mei». 5 Cfr. J. Benton, Consciousness of Self and Perception of Individuality, in Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, cur. R. Benson - G. Constable, Oxford 1982 pp. 263295: 265-266 e A. Gurevich, La nascita dell’individuo nell’Europa medievale, Roma-Bari 1996 (Fare l’Europa), pp. 129-134. 6 Penso in particolare alla fortuna, in questo periodo, dell’invito a conoscere se stessi come tappa dell’iter verso Dio, a proposito del quale Étienne Gilson ha coniato la felice espressione “socratismo cristiano”, ripresa da M.D. Chenu nel suo Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, Milano 1981 (Già e non ancora. Poket, 57). Per la connessione tra questo tipo di spiritualità e la scrittura autobiografica cfr. C. Morris, The Discovery of the Individual 1050-1200, London 1972 (Church History Outlines, 5), pp. 64-86.


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gio, concepito come indipendente dal medium (tanto è vero che può essere parzialmente o interamente affidato alla bocca del latore, per il quale la lettera funge da presentazione), nelle epistole di amicizia la situazione è spesso diversa, in alcuni casi perfino rovesciata, ad esempio quando si scrive senza avere nulla da comunicare, solo per rinnovare il contatto tra i corrispondenti7. Da molte di queste lettere sembra emergere la consapevolezza che quel pezzo di pergamena costituisce il tramite reale, concreto, che passerà dalle mani del mittente a quelle destinatario: non a caso si descrive spesso il modo in cui la lettera è stata ricevuta, letta e riletta, mostrata ad altri, conservata8. È possibile che proprio in base alla consapevolezza che l’epistola, in tutti i suoi aspetti, è un dono all’amico, ci sia una maggiore cura anche per l’aspetto materiale e grafico-formale, in cui sarebbe da inquadrare anche la possibile scelta autografa, intesa dunque come valore aggiunto al testo. Immagini del corpo dello scrittore e della materialità della lettera stessa possono poi costituire un veicolo privilegiato per esprimere, concretizzandole, emozioni come amicizia e affetto9. L’analisi di alcuni casi concreti consentirà ora di verificare le ipotesi finora avanzate e di mettere in luce alcuni elementi della concezione monastica dell’amicizia epistolare. Naturalmente occorre tenere presente che non è possibile raggiungere, esclusivamente sulla base di un’analisi testuale, una certezza in merito a un caso di autografia, ma del resto la stessa cosa vale per attribuzioni paleografiche non supportate da raffronti documentari. Tuttavia è possibile, a mio parere, raggiungere un sufficiente grado di probabilità e soprattutto risulta ugualmente rilevante, ai fini della ricostru-

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Cfr. ad es. Petri Venerabilis Epistula 57, ed. G. Constable, in The letters of Peter the Venerable, I, Cambridge 1967 (Harvard Historical Studies, 78), p. 179: «materiam scribendi non habeo, sed ad semper scribendum magna estis michi ipse materia». 8 Per citare qualche esempio illustre, Pietro il Venerabile scrive a Bernardo di Chiaravalle di aver baciato la sua lettera («perlectam epistolam mox exosculatus sim»), Pier Damiani racconta di tenere sempre presso di sé nella sua cella l’epistola dell’amico («eam quippe cohabitatricem michi in cellula iugiter teneo, cum ea sepe confabulor») e Sugero di Saint-Denis chiede al re di conservare sempre con sé la sua lettera («hanc epistolam, quia me non potestis, vobiscum semper retinete»), cfr. rispettivamente: Petri Venerabilis Epistula 111, in The letters of Peter the Venerable cit., I, p. 275, Petri Damiani Epistula 87, ed. N. D’Acunto - L. Saraceno, in Pier Damiani, Lettere (68-90), Roma 2005 (Opere di Pier Damiani, 1/4), p. 355 e Sugerii S. Dionysii Epistula 26, ed. F. Gasparri, in Suger, Oeuvres, II, Paris 2001 (Les classiques de l’histoire de France au Moyen Âge, 41), p. 97. Sugli aspetti antropologici dell’uso della scrittura cfr. G.R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino 1981, pp. 154-193. 9 Cfr. G. Schneider, The culture of Epistolarity. Vernacular Letters and Letter Writing in Early Modern England, 1500-1700, Newark 2005, p. 123.


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zione del clima culturale dell’epoca, individuare e analizzare dichiarazioni di autografia, anche ove esse dovessero rivelarsi non corrispondenti alla pratica. Il primo epistolario da cui ho tratto alcuni esempi è quello di Nicola de Clairvaux o de Montieramey, monaco prima benedettino e poi cistercense vissuto tra il 1110 e il 1180 circa e noto per essere stato, per un certo periodo, segretario di Bernardo di Chiaravalle, prima di essere da lui cacciato con accuse di falsificazione e furto10. Nicola fu in relazione con alcuni tra i più grandi personaggi della sua epoca e seppe conquistare la loro fiducia e la loro amicizia: oltre a Bernardo, anche Pietro il Venerabile, Giovanni di Salisbury e Pietro di Celle, cui sono indirizzate le tre lettere che contengono dichiarazioni di autografia: «haec propriis manibus scripsi», «propriis manibus exaravi» e «manibus meis scripsi». La formula manu propria, che sembra essere l’espressione più diffusa fra i medievali per esprimere la nozione dell’autografia, si trova qui declinata al plurale, forse con diretto riferimento alla quotidianità del lavoro dello scriba, nel quale in effetti intervenivano entrambe le mani, per reggere una la penna e l’altra il cultellus, che serviva a tenere fermo il foglio ma anche ad aiutare il bilanciamento, considerando che la mano che scriveva non doveva appoggiare sulla pagina11. Nei primi due casi la scelta autografa è motivata, in modo piuttosto esauriente, in base ad una volontà di segretezza, direttamente rispecchiata nella richiesta al destinatario di mantenere riservata la lettera: «claudite epistolam hanc nisi vestris et vestrorum oculis, quam idcirco propriis manibus exaravi, ne in oculos aliorum incideret»12. C’è però una differen-

10 Su Nicola de Montieramey o di Clairvaux cfr. J. Benton, Nicolas de Clairvaux, in Dictionnarie de spiritualité, 11, Paris 1982, coll. 255-259, J. Benton, The Court of Champagne as a Literary Center, «Speculum», 36 (1961), pp. 555-557 e A. Steiger, Nikolaus, Mönch in Clairvaux, Sekretär des hl. Bernhard, «Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktinerordens und seiner Zweige», 38 (1917), pp. 45-50. 11 Sul lavoro dello scriba cfr. R.H. Rouse, Manuscript books, production of, in Dictionary of the Middle Ages, 8, New York 1987, pp. 100-105 e D. Frioli, Gli strumenti dello scriba, in Lo spazio letterario del Medioevo. I. Il medioevo latino, cur. G. Cavallo - C. Leonardi - E. Menestò, La produzione del testo, I, Roma 1992, pp. 293-324: 301. 12 Nicolai Claraevallensis Epistula 52, ed. J.P. Migne, in P.L. 202, Paris 1855, col. 479B. Lo stesso concetto è presente anche nell’Epistula 65: «Tu autem, dilecte mi, claude epistolam nisi tibi et Thomae tuo, nec me perducas in publicum, qui secretum professus sum, dignus latebris et omni solitudine in aeternum et in saeculum saeculi. Propterea enim haec propriis manibus scripsi, cum nimia vertigine capitis fatigarer, nec etiam familiarissimos familiarium meorum admisi, ne forte vel ad curiositatem vel ad suspicionem iuveniles et fer-


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za nel contenuto delle due epistole: se nella prima è effettivamente possibile intravedere una certa pericolosità, dal momento che Nicola cerca di difendersi dalla contestazione di una sua interpretazione teologica, il che poteva essere una questione delicata, specialmente visto che ne stava discutendo non con il suo abate, ma con quello di un altro ordine, nella seconda non è facile rintracciare qualcosa di paragonabile. Inoltre va tenuto presente che la prima lettera fu inclusa neanche troppi anni dopo nella raccolta di lettere curata da Nicola stesso13. Se un certo gusto per la segretezza appare caratteristico della sua figura e del suo epistolario14, vorrei suggerire che essa possa essere anche parte del suo ideale di amicizia, in particolare dell’amicizia per corrispondenza. Rispetto alla concezione corrente nel Medioevo che la lettera avesse sempre un carattere semi-pubblico, Nicola sembra in alcuni casi porsi in contrasto, o forse in alternativa, al modello dominante, che infatti contesta lamentandosi, per esempio, che alcune sue lettere siano circolate più di quanto desiderava15. È noto quanto sia importante nella concezione monastica dell’amicizia il tema del colloquio spirituale tra amici, che è sempre un momento riservato («nullo nobiscum admisso mortalium» afferma Pietro il Venerabile rievocando le conversazioni con l’amico Pietro di Poitiers16), probabilmente in base all’idea che l’amico è un alter ego con il quale si può parlare come

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ventes animos mutarem» (ibid., col. 505C). È in preparazione a cura di Lena WahlgrenSmith un’edizione più recente delle lettere. 13 Cfr. L. Wahlgren-Smith, Editing a medieval text: the case of Nicholas of Clairvaux, in P. Skinner, Challenging the boundaries of medieval history. The legacy of Timothy Reuter, Turnhout 2010 (Studies in the Early Middle Ages, 22), pp. 173-191: 176-177. 14 È anche l’opinione di Giles Constable in The letters of Peter the Venerable cit., II, p. 329, che cita ad esempio il caso in cui Nicola chiede a Pietro il Venerabile di inviargli copie segrete delle sue ultime lettere («Rescriptum autem litterarum illarum quas mittes, mitte michi secreto», Nicolai Claraevallesis Epistula 179, ibid., I, p. 422). Come ulteriore esempio, si può citare Nicolai Claraevallesis Epistula 10, (P.L. 202 cit., col. 1607C): «Porro illa duo secretiora verba, quae mihi mandastis, collegi et collocavi inter verba mea; quae etsi personata non sunt, tamen serpere desierunt». 15 Cfr. Nicolai Claraevallensis Epistula 62, ibid., coll. 490D-491A: «parvam suspiciunculam meam vobis aperio. Litteras vobis donaveram donandas Lecelino; sed nescio quo pacto Arremarensis abbatis manibus inhaeserunt. Utrumque difficile imo impossibile est, ut vel vos ei dederitis vel ab illo illas acceperit, cum ego de vestra veritate et de illius taciturnitate non dubitem. Proclivius tamen crediderim iuvenem iuvenili levitate seductum, quam vos ad id deductum, amantissime Pater; sit tamen in beneplacito vestrae dignationis ut mihi rescribatis, qualiter Epistolam reddideritis ei». 16 Petri Venerabilis Epistula 58, in The letters of Peter the Venerable cit., I, p. 181.


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con se stessi, condividendo anche le questioni più intime. Nicola sembra trasporre fedelmente questo modello nella sua concezione dell’amicizia per corrispondenza, che è in fondo una sorta di colloquio virtuale, dissociato nei due momenti della scrittura e della lettura, che vengono dunque caratterizzati come idealmente solitari. Le dichiarazioni di autografia (per non parlare della possibilità di circostanze di autografia più numerose, ma che non hanno lasciato tracce nelle fonti) trovano un parallelo nell’ideale della lettura in solitudine della lettera ricevuta, che si tratti di una richiesta in questo senso al destinatario o della testimonianza di Nicola sulla sua scelta di recarsi in un luogo riservato per leggere la lettera di un amico17. Egli descrive questa celletta adibita a scriptorium presentandola come il luogo consacrato alla lettura, alla meditazione e alla scrittura, intesa sia come composizione letteraria (dictare) sia come scrittura materiale (scribere); l’accostamento di queste attività mi sembra particolarmente interessante se interpretato nel senso dell’attribuzione ad esse di un comune valore spirituale. Quest’ultimo risulta evidente per la lettura di testi edificanti, intimamente legata, nella tradizione monastica, alla meditazione e alla preghiera18, ed è noto come al lavoro dello scriba sia stato progressivamente

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17 «Litteras tuas tam libenter suscepi quam ardenter eas desideraveram; quae, ut per fidelem nuntium manus meas occupaverunt, exoccupavi me, ab omni negotio et otio remotissimo mox admotus, vix me ipsum mihi ipsi credebam. Est mihi scriptoriolum in mea Clarevalle, vallatum undique officinis coelestibus et celantibus illud, compunctionem eliciant et devotionem. [...] Plena est libris electissimis et divinis, ad quorum iucundam inspectionem, despectionem mundanae hujus vanitatis agnosco, considerans quia vanitas vanitatum et omnia vanitas; et quia nihil est vanius vanitate, haec mihi tradita est ad legendum, ad scribendum, ad dictandum, ad meditandum; ad orandum, et adorandum Dominum maiestatis, hic saepius infelicis conscientiae mole depressus solus solitudinem mei cordis ingredior, et est mihi ratio iudex, conscientia testis, timor carnifex, statuoque me ante faciem meam, ne me statuat ante faciem suam terribilis illa maiestas in cuius manibus est horrendum incidere; hic aperui Epistolam tuam et praevolantibus oculis legi avide, relegi avidius, avidissime lego», Nicolai Claraevallensis Epistula 35, in P.L. 196, Paris 1955, coll. 1626D-1627C. Un esempio simile di descrizione di lettura di una lettera di amicizia “in privato” si trova in Bernardo di Chiaravalle: «abripui tamen me, et eripui votis et responsionibus omnium, et inclusi me cum Nicolao illo, quem diligit anima vestra. Legi et relegi dulcedinem, et magnam dulcedinem, quae de vestris litteris emanabat» in Bernardi Claraevallensis Epistula 389, ed. F. Gastaldelli, in San Bernardo, Lettere, II, Milano 1987 (Opere di San Bernardo, VI, 2), p. 500. 18 Cfr. J. Dubois, Comme les moines du Moyen Âge chantaient et goûtaient les Saintes Écritures, in Le Moyen Âge et la Bible, cur. P. Riché - G. Lobrichon, Paris 1984 (Bible de tous les temps, 4), pp. 261-298 e J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Firenze 1965 (Biblioteca Sansoni, 42), pp. 93-95.


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attribuito, specialmente in ambito monastico, un valore spirituale ; forse non altrettanto risaputo è il fatto che anche la composizione letteraria potesse essere ritenuta un metodo di meditazione e pratica contemplativa20. Del resto esistono notevoli similitudini tra la prima fase, puramente mentale, di elaborazione di un testo e la meditazione o addirittura la visione: per i secoli in questione l’esempio migliore è probabilmente quello di Ildegarde di Bingen, nelle cui descrizioni il momento dell’ispirazione letteraria e quello della visione divina coincidono pressoché sempre. Nel caso delle lettere di amicizia meritano di essere rilevati gli evidenti rimandi a una concezione della scrittura epistolare come esercizio di autoanalisi e espressione di sé (ad esempio, Ivo di Chartres invita il suo corrispondente a dipingere il proprio homo interior nelle lettere, come già egli ha fatto21). Il tema della segretezza permette di introdurre una seconda fonte, le lettere in versi di Baudri (1060-1130), abate di Bourgueil e poi arcivescovo di Dol-en-Bretagne, cronachista, agiografo e poeta. Nel suo caso si pone con particolare evidenza la necessità di tenere conto dell’influenza di modelli letterari classici (in particolare, per la lettera su cui mi soffermerò, le Heroides di Ovidio), così come di interrogarsi se le lettere siano state concepite per essere spedite. Non mi sembra però che ciò debba escluderlo dal panorama delle fonti, dal momento che, di fatto, tutte le epistole che ho preso e prenderò in considerazione sono consapevoli prodotti letterari, soggetti all’influenza di modelli retorici e letterari antichi; ogni caso ha le proprie specificità che devono essere tenute in considerazione per valutarne la rappresentatività ai fini della ricostruzione del panorama culturale.

19 Per una panoramica cfr. M.B. Parkes, Their Hands Before Our Eyes: A Closer Look at Scribes. The Lyell Lectures delivered in the University of Oxford, 1999, Aldershot 2008, p. 13 e J. Stiennon, L’écriture, Turnhout 1995 (Typologie des sources du moyen âge occidental, 72), pp. 47-50. 20 Cfr. B. Stock, “Lectio divina” e “lectio spiritualis”: la scrittura come pratica contemplativa nel Medioevo, «Lettere italiane», 2 (2000), pp. 169-183 e M. Carruthers, The craft of thought: meditation, rhetoric, and the making of images, 400-1200, Cambridge 1998 (Cambridge studies in medieval literature, 34), pp. 171-220. 21 «fac ut videam interiorem hominem tuum in litteris tuis, sicut ex parte vidisti meum in meis», in Ivonis Carnotensis Epistula 38, ed. J. Leclercq, in Yves de Chartres, Correspondance, I, Paris 1949 (Les classiques de l’histoire de France au Moyen Âge, 22), p. 158. Anche Pier Damiani affermava di vedere nell’epistola dell’amico il suo vero volto: «in ea interioris hominis vestri speciem ac veri vultus imaginem manifeste contemplor», in Petri Damiani Epistula 87, in Lettere cit., p. 355.


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Si ritrova nella celebre lettera in versi indirizzata ad una monaca di nome Costanza22 l’invito a leggere da sola la lettera («perlege sola meos versus») e a conservarla con cautela («caute complectere cartam») per proteggere, come già nel caso di Nicola, la reputazione del mittente («ne noceat famae lingua maligna meae»), ma la notevole insistenza sulla circostanza dell’autografia sembra avere anche altre implicazioni. In particolare, la pretesa autografia («scripsit amica manus et idem dictavit amicus») deve probabilmente essere interpretata sia come una garanzia di riservatezza sia come una testimonianza tangibile del coinvolgimento del mittente. Si potrebbe infatti affermare che caratteristica di questa epistola in versi sia la tendenza a rappresentare in termini concreti, riferendole alla lettera nella sua fisicità, tutte le implicazioni del messaggio: ad esempio, un eventuale inganno è paragonato ad un veleno che si rivela al tocco («inque brevis tactu nulla venena latent»). Allo stesso modo, l’atteggiamento con cui Costanza dovrebbe accogliere fiduciosamente l’offerta di amicizia appare traslato nella descrizione del modo in cui si immagina che debba trattare la lettera ricevuta: «Ipsa potes nostram secura revolvere cartam Inque tuo gremio ponere tuta potes».

Questo passo rappresenta anche uno dei numerosi riferimenti al valore dell’epistola, nella sua materialità e fisicità, come tramite di contatto, che ritornano nella lettera di risposta di Costanza, sulla quale si è dibattuto, ma forse è più probabilmente opera di Baudri stesso:

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«Perlegi vestram studiosa indagine cartam et tetigi nuda carmina vestra manu».

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Baldrici Burguliani Epistula 200, ed. J.Y. Tilliette in Baudri de Bourgueil, Poèmes, I, Paris 1998 (Auteurs latins du moyen âge, 1), p. 125. Cfr. P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo: scrittrici medievali dal 2. al 14. secolo, Milano 1986 (La cultura, 39), pp. 84-86 per l’identificazione di Costanza, che lo studioso ritiene essere l’autrice della seconda lettera; per un parere diverso cfr. J.Y. Tilliette, Hermès amoureux ou les métamorphoses de la Chimère. Réflexions sur les carmina 200 et 201 de Baudri de Bourgueil, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 104/1 (1992), pp. 121-161.


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Come si nota, sono ripresi non solo i concetti ma perfino i termini esatti dell’epistola precedente, e l’idea del contatto risulta ulteriormente sviluppata nella rappresentazione di Costanza che si mette la pergamena non in grembo, ma in seno, sulla parte sinistra, più vicina al cuore, la tiene in questo modo per la notte23. È ovvio che queste epistole costituiscono un caso limite, in bilico tra l’amicizia e un modello di rapporto di tipo erotico, ed effettivamente nella letteratura anche medievale spesso le lettere di amore sono autografe24, ma questo valore dell’autografia, come vorrei illustrare, si trova anche in alcune epistole di amicizia. Se ne può portare ad esempio una di Baudri stesso, che risponde a un amico, Gualtiero, il quale gli ha inviato dei carmi autografi: anche qui l’accento risulta essere posto, più che ad esempio sul piacere del riconoscimento della grafia25, o sulla fatica che ha comportato lo scrivere a mano (elementi che si ritrovano altrove), sul collegamento diretto, attraverso la pergamena, tra mittente e destinatario: «Carmina Gauteri nuper mellita recepi te scribente, tuam quae tetige manum»26.

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Come ultimo elemento vorrei soffermarmi sulla possibilità di attribuire all’autografia un valore peculiare in quanto lavoro manuale e impiego del proprio tempo, dimostrati e in un certo senso offerti in dono al destinatario. Innanzitutto è piuttosto frequente che nelle dichiarazioni di autografia si sottolinei l’avversità delle condizioni, che conferiscono dunque al gesto un valore ancora maggiore, analogamente, in fondo, ai casi nei quali si afferma di aver scritto la lettera nonostante i molti impegni o altri impe-

23 «Composui gremio posuisque sub ubere laevo / scedam, quod cordi iunctius esse ferunt»: Baldrici Burguliani Epistula 201, in Poèmes cit., p. 130. 24 Cfr. D. Ganz, “Mind in character”: ancient and medieval ideas about the status of the autograph as an expression of personality, in Of the making of books. Medieval manuscripts, their scribes and readers. Essays presented to M.B. Parkes, cur. P.R. Robinson - R. Zim, Aldershot 1997, pp. 280-299; 290-291 e E. Ruhe, De amasio ad Amasiam. Zur Gattungsgeschichte des Mittelaterliche Liebesbriefes, München 1940 (Beiträge zur romanischen Philologie des Mittelalters, 10). 25 Cfr. ad es. Gozechini Scholastici Epistula ad Walcherum, ed. R.B.C. Huygens, in Apologiae duae. Gozechini epistola ad Walcherum, Burcardi, ut videtur, abbatis Bellavis apologia de Barbis, Turnhout 1985 (CCCM, 62), pp. 11-12, in cui un maestro descrive la sua gioia nel vedere i codici autografi che il suo antico allievo gli ha inviato; non l’ho presa qui direttamente in considerazione perché l’autografia in questione non è epistolare. 26 Baldrici Burguliani Epistula 6, in Poèmes cit., p. 14.


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dimenti. Nel caso specifico dell’autografia, già in uno degli esempi citati, Nicola di Clairvaux dichiarava di aver scritto in preda al mal di testa («cum nimia vertigine capitis fatigarer»). Sempre del mal di testa, unito a problemi di vista, si lamenta anche Wibaldo di Stavelot27 in una lettera a suo dire autografa: «dolor capitis et invalitudo oculorum suadent nos eruditioni tuae brevius scribere, quam vel tempus vel materia postulat; precipue cum haec, que scribimus, tam secreta sint, ut alienae manus uti non presumamus amminiculo»28. Esplicito è, in un’altra lettera sempre di Wibaldo, il fatto che l’impegno e forse anche l’umiltà dimostrati nel sobbarcarsi la fatica di scrivere, anche a mano, la lettera, debbano produrre un effetto sul destinatario, in questo caso spingendolo a scrivere a sua volta: «Tantis et tam amaris occupationibus distracti, animum colligimus, manu propria scribimus; et tu iuvenis et expeditus cessas»29 (lo scopo della lettera è di invitare un giovane monaco a comporre un’opera). Se quest’ultima non è precisamente una lettera di amicizia, mi sembra però che risulti utile per provare a comprendere i motivi per i quali, a partire dall’antichità30, un’epistola autografa poteva essere considerata un gesto di particolare affetto o di onore verso il destinatario. Un maggior coinvolgimento dell’autore nella realizzazione della lettera costituisce un dono al destinatario del proprio tempo e delle proprie energie, che si tratti di dettare parola per parola invece di lasciare il compito dell’elaborazione al segretario o addirittura di scrivere personalmente a mano. Un esempio che, per quanto ambiguo nella formulazione, va con ogni probabilità inquadrato in una prospettiva simile è quello della lettera nella quale Bernardo di Chiaravalle afferma: «haec ipse dictavi, sic me habens, ut per notam vobis manum agnoscatis affectum»31. C’è chi ha pensato che si trat-

27 Abate benedettino attivo nella prima metà del XII secolo e importante soprattutto come diplomatico nei rapporti tra Papato e Impero: fu infatti al servizio di Corrado III e Federico Barbarossa. Cfr. G. Michels, Wibald de Stavelot, in Dictionnaire de spiritualité, 16, Paris 1994, coll. 1418-1419 e Wibald of Stavelot, in Dictionary of the Middle Ages, 12, New York 1989, pp. 626-627. 28 Wibaldi abbatis Stabulensis et Corbeiensis Epistula 315, in Bibliotheca cit., I, p. 444. 29 Ibid., Epistula 127, p. 205. 30 Cfr. ad es. M. Tullii Ciceronis Epistula 3 Liber VII, ed. C. Di Spigno, in Cicerone, Epistole ad Attico, I, Torino 1998 (Classici latini, 12), p. 595: «tuas litteras legi [...] e quibus hanc primo aspectu voluptatem cepi, quod erant a te ipso scriptae» e L. Annaei Senecae Epistula 40, ed. U. Boella, in Seneca, Lettere a Lucilio, I, Torino 2004 (Classici latini, 1) p. 227: «nam quod in conspectu dolcissimum est, id amici manus epistulae inpressa praestat, agnoscere». 31 Bernardi Claraevallensis Epistula 310, in Lettere cit., II, p. 314.


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ti di un caso di autografia , ma la questione è complessa e ci sono elementi che invece spingerebbero a escludere questa possibilità33; in ogni caso è evidente che si sottolinea l’eccezionalità dell’apporto personale dell’autore, che lo presenta come una dimostrazione di affetto per il destinatario. Avviandomi a concludere, spero di aver illustrato qualche aspetto della concezione monastica dell’epistolografia d’amicizia. Le dichiarazioni di autografia epistolare che ho citato, potrebbero essere considerate casi limite in cui il desiderio dell’autore di imprimere la propria impronta personale nella lettera si realizza in modo anche concreto, come testimonianza materiale dell’individualità del mittente (di cui la lettera può diventare addirittura un simulacro), come dimostrazione e prova tangibile di impegno e come tramite idealmente riservato, intimo, tra individui, almeno nella finzione retorica, che rappresenta però l’ideale. A proposito della possibilità di una connessione tra epistolografia autografa d’amicizia e individualità, si può citare ancora una lettera di Pietro di Celle alla sua comunità, che termina con le parole: «ecce, singulos singillatim manu propria saluto, omnes simul toto corde et ore saluto semper»34. Se può essere interpretato come un caso di subscriptio autografa35, mi pare particolarmente interessante per l’associazione implicita tra scrittura epistolare, qui addirittura autografa, e individualità36, mentre all’opposto la dimensione orale risulta essere il mezzo privilegiato per una comunicazione che si rivolga alla collettività in quanto tale. È evidente che questa lettera rappresenta lo strumento di cui Pietro si serve per rendersi presente alla sua comunità anche quando è lontano («absens nunc corpore non spirito», dice), esercitando a distanza il suo ruolo di abate e di direttore spirituale. In questo senso forse la lettera, tanto più se autografa, può rappresentare un segno tangibile della sua presenza, che ogni monaco può individual-

32 Cfr. P. Rassow, Die Kanzlei St. Bernhards von Clairvaux, «Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktiner-Ordens und seiner Zweige», 34 (1913), p. 70. 33 In primo luogo il fatto che ipse dictavi sia usato un’altra volta in un contesto in cui il riferimento dovrebbe essere allo stile e non alla grafia: «qui legit agnoscat stilum, quia ipse dictavi» (Bernardi Claraevallensis Epistula 304, in Lettere cit., II, p. 292). 34 Petri Cellensis Epistula 41, in The letters of Peter of Celle cit., p. 158. 35 La scelta del verbo saluto potrebbe rimandare alle sottoscrizioni autografe nelle epistole paoline, cfr. I Cor. 16; 21: «salutatio mea manu Pauli», specialmente visto che in entrambi i casi si tratta di lettere indirizzate a una comunità. 36 Il legame tra scrittura epistolare, in particolare del tipo finora preso in considerazione, e individualità è stato messo in luce da J. Leclercq, Lettres chretiennes, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 8/2, Paris 1929, coll. 2684-2685.


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mente vedere e perfino toccare. Il procedimento letterario del parallelismo oppone ai singoli presi individualmente («singulos singillatim») tutti i monaci presi nel loro insieme («omnes simul»); mentre ai primi si rivolge il saluto della mano dell’abate in persona, cioè la lettera nel suo aspetto grafico (la cui lettura è effettivamente un’operazione che può essere eseguita da un solo individuo per volta), i secondi, in quanto comunità riunita, sono raggiunti simultaneamente dalle parole del messaggio, probabilmente letto a voce alta. Forse in questo senso si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra l’atto scrittorio, ancorato alla realtà concreta della lettera («ecce [...] manu propria saluto»), e il messaggio, che invece da essa si emancipa per assumere una durata eterna («saluto semper»). I due aspetti non sono però in contrapposizione, dal momento che il primo rende possibile il secondo, e anzi lo influenza, potenziandolo, se l’autografia può, in questo e in altri casi, essere considerata un valore aggiunto al testo.


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Amicizie vere e presunte. Qualche eco dal pieno Medioevo


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1. Riccardo di Siracusa, Thomas Becket. Celebre il secondo, molto meno conosciuto e frequentato il primo ovviamente, se non dai normannisti. Non erano monaci. L’amicizia, va da sé, non è solo un elemento monastico. Anche se l’amicizia monastica è un argomento ghiotto a proposito del quale non ci si è fatta mancare l’occasione di esercitarsi variamente: il caso di Aelredo di Rielvaux e della sua concezione particolare dell’amicizia per l’importanza profonda e teologica che le attribuisce è sufficientemente esemplare1. E, indubbiamente, la fantasia si è scatenata: le sollecitazioni del presente, come sempre, hanno stimolato nuovi punti di vista d’indagine e dunque fatto procedere la ricerca verso prospettive nemmeno immaginabili pochi anni prima, spesso fecondissime ma a volte piuttosto inadeguate, anzi fuorvianti. Quale ambiente migliore per le insorgenze di sessualità fra persone dello stesso sesso che l’ambiente «concentrazionario» monastico? dove la carenza di affettività, la perdita della madre (pensiamo a Guiberto di Nogent) e la sua possibile sostituzione con la Vergine Maria, il rapporto seduttivo con i maestri, la sublimazione culturale della relazione antica e contemporanea puer-senior, le attenzioni istituzionalmente previste agli equilibri interni delle comunità2, tutto insomma può sollecitare gli adattamenti di schemi psicoanalitici freudiani (dimenticando che lo stesso Freud, che pure aveva qualche pratica di psicoanalisi…, aveva garbatamente messo in

1 Cfr. L. Braca, L’amicizia negli scritti di Aelredo di Rielvaux. Una conoscenza puntiforme,

in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive all’alba del XXI secolo, cur. G.M. Cantarella, «Reti Medievali» (Rivista», 11/1 2010), url: http://www.rivista.redimedievali.it, 1-24. 2 N. D’Acunto, «Amicitia monastica». Considerazioni introduttive, ivi, pp. 1-7: 3-4; cfr. il mio I monaci di Cluny, Torino 20106, pp. 63-65.


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guardia dalla tentazione di utilizzare l’offensiva psicoanalitica nei confronti di testi scritti e antichi, perché in sé non in grado – soggettivamente e oggettivamente – di reagire ad essa)3, sociologici, à la Foucault, anche alla Malaparte («l’internazionale degli invertiti», «una società segreta governata dalle leggi di un’amicizia tenera e profonda»: La pelle4)… Mi è già capitato di dire che noi, che siamo abituati a spostarci e viaggiare liberamente, probabilmente non siamo in grado di apprezzare l’intensità del senso di chiusura di un monastero: oggi, ma soprattutto nel medioevo. L’ambiente del castello era forse meno concentrazionario5? O quello della corte? E magari è per questo che negli anni ’80 del secolo scorso si è assistito ad una interpretazione del mondo dei Plantageneti che ricordava tanto la contemporaneità6? I monaci, è vero, non potevano spostarsi liberamente: ma potevano farlo se autorizzati. Il concentrazionismo non è mai assoluto, se non è l’anticamera dello sterminio industriale (Vernichtung)… 2. Premessa lunga, noiosa e scontata. Ma almeno sarà chiaro che, per quel che mi riguarda, se si parla di un argomento scivoloso, sfuggente e vischioso (apparentemente una contraddizione in termini, una chymera huius saeculi come diceva di se stesso Bernardo di Clairvaux) come quello dell’amicizia (e ultimamente se ne parla di frequente: forse un’esigenza di ridefinire il concetto o di ridare corpo e spessore, in un mondo di relazioni frammentarie e parcellizzate, ad un lessico depotenziato o svuotato? chi ha la mia età non può non ricordare che amico/amici era una qualificazio-

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3 Cfr. S. Freud, Un sogno di Cartesio: lettera a Maxime Leroy (1929), trad. it. in S. Freud, Opere, 11, Torino 1978, pp. 549-551. 4 C. Malaparte, La pelle, Milano 1978 (ma 1° ed. 1949), pp. 73, 114; comunque passim. Per san Pier Damiani E. D’Angelo ha usato la seguente espressione: «La presenza di relazioni sessuali “incestuose” ai livelli alti di prelatura espone la Chiesa al rischio della creazione di sette omertose, legate da vincoli morbosi difficilissimi da spezzare»; e anche: «un andazzo, durato secoli, che aveva contribuito a condurre la Chiesa sull’orlo di quel baratro morale, cui solo la Riforma potette probabilmente strapparla» (San Pier Damiani, Liber Gomorrhianus, ed. E. D’Angelo, Alessandria 2001, pp. 109, 110). Cfr. Kr. Skwierczyñski, L’apologia della Chiesa, della società o di se stesso? Il «Liber Gomorrhianus» di s. Pier Damiani, in Pier Damiani: l’eremita, il teologo, il riformatore (1007-2007). Atti del XXIX Convegno del Centro Studi e Ricerche Antica Provincia Ecclesiastica Ravennate (FaenzaRavenna, 20-23 settembre 2007), Bologna 2009 (Ravennatensia, XXIII), pp. 259-279: 260261, 279. E ora Skwierczyñski, Mury sodomy. Piotra Damianiego «Ksiêga Gomory» i walka z sodomi¹ wœród kleru, Kraków 2011. 5 Rimando al mio A margine. Riflessioni minime, in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive cit., pp. 1-17: 5. 6 H.J. Kuster - R.J. Cormier, Old Views and New Trends. Observations on the Problem of Homosexuality in the Middle Ages, «Studi Medievali», III ser., 25 (1984), pp. 587-610.


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ne politica come compagno/compagni o camerata/camerati… Ma, in fondo, tanto in Cicerone come in Sallustio l’«omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio» o l’«idem velle atque idem nolle» si ponevano sul piano della condivisione politica dell’affettività, acquisizione problematica quest’ultima, a quanto pare, dell’immeticciamento fra la cultura classica e la religione di Cristo; e come non ricordare che il Liber ad amicum di Bonizone prevede un destinatario che è insieme compagno di fede e compartecipe delle passioni e degli ideali della Riforma romana?)7 si parla del codice retorico dell’amicizia, quello che definisce o tenta di definire in termini razionali e abbordabili un campo che è essenzialmente dell’affettività e della stima o della stima e dell’affettività, perché questa sequenza binaria è perfettamente reversibile. Il codice retorico, per paradosso, potrebbe essere visto come una forma d’indagine psicoanalitica antica, se si pensa al fatto che il buon esito della terapia freudiana consisteva nell’approdo all’ortoprassi… Dunque potrebbero essere nel giusto coloro che vedono in certi tratti l’emergenza di affetti veramente profondi e chissà fino a che punto inesprimibili: insomma, se nei primi mesi del 1151 Nicola di Montiéramey scrivendo a Pietro il Venerabile esordiva con una trasparente citazione-collage del Cantico dei Cantici e del Salmo 41 (tanto più trasparente quanto più riconoscibile: e tanto più riconoscibile quanto più si voleva che lo fosse: e costituendo l’inizio della lettera certamente lo era), «Indica michi quem diligit anima mea, quando ueniam et apparebo ante faciem tuam», non intendeva forse essere esplicito, cioè inteso chiaramente, cioè (meglio ancora) evitare a tutti i costi di essere frainteso? Ovviamente la lettura del Cantico dei Cantici era allegorica, ma comunque queste parole indicavano esplicitamente ciò che il destinatario aveva a sua volta, una decina d’anni prima, scritto al vescovo di Troyes: il «desiderium, immo esuriem…uidendi». L’assoluta necessità di vedere l’amico. E nel punto in cui lo stesso Nicola aggiungeva: «Sanctissimae animae tuae commendo me, quia tuus fui, tuus sum, tuus ero quamdiu fuero in uisceribus Christi», si raccomandava forse alle preghiere dell’abate di Cluny? no, non proprio, o almeno non solo: perché la lettera è una pressante richiesta a Pietro che insista

7 Laelius de amicitia 20.1; Bellum Catilinae 20.4. Braca, L’amicizia negli scritti di Aelredo di Rielvaux cit., pp. 22-23; D’Acunto, «Amicitia monastica» cit., pp. 2-3. Bonizonis episcopi Sutrini Liber ad amicum, ed. E. Dümmler, Hannoverae 1891 (M.G.H., Libelli de lite, I), pp. 568-620.


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presso Bernardo di Clairvaux perché lo lasci andare a Cluny a visitare l’amico, e termina con: «Quid plura? Praecipe ut ueniam». E questo ci fa tornare alle prime righe e ci aiuta a capirle meglio. Perché il Cantico dei Cantici recitava: «indica michi quem diligit anima mea ubi pascas ubi cubes in meridie, ne vagari incipiam per greges sodalium tuorum», e il Salmo 41 si capisce solo con la lettura del versetto precedente: «Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus; sitivit anima mea ad Deum fontem: vivum quando veniam et parebo ante faciem Dei». Pietro è come l’Onnipotente, può ottenere che il povero, accorato Nicola (perché, poi, chi abbia in mente il versetto immediatamente successivo dello stesso Salmo sa che «fuerunt mihi lacrimae meae panis die ac nocte») non sia lasciato a sperdersi fra le greggi dei suoi sodali8. Nicola non si limitava a cucire fra loro due citazioni: inventava un nuovo testo, le cui implicazioni non dovevano affatto sfuggire al destinatario. Registro metaforico e registro pratico, dunque, quanto meno si mescolano e si intrecciano. Anzi, forse sono chiamati a mescolarsi proprio per rendersi inestricabili. È ciò che la storiografia chiamava, e forse ancora chiama, spiritualità. Ma certo in questo caso si potrebbe essere più sospettosi, più disincantati, anzi più perfidi… Nicola di Montiéramey, una vita difficile. O meglio, piuttosto una vita travagliata. Monaco benedettino, cappellano e segretario del vescovo di Troyes, Attone; strettissimo amico Pietro il Venerabile almeno dal 1138 («a close, and at times emotional, friendship», come ha scritto un Maestro di tutti i cluniacisti, Giles Constable); poi, entrato Attone a Cluny nel 1145/1146, passato a Clairvaux e divenuto segretario e uomo di fiducia di Bernardo di Clairvaux fino a quando questi (1152) non lo additò a papa Eugenio III come ladro e traditore, anzi come un nuovo Arnaldo da Brescia, di più: «ecce plus quam Arnaldus hic»; poi forse di nuovo a Montiéramey e al servizio di Enrico, conte di Champagne, per l’ultimo quarto di secolo della sua vita9. Una vita movimentata. Di cui sappiamo molto poco, ma possiamo intuire abbastanza. Anche la reazione bernardi-

8 The Letters of Peter the Venerable, ed. G. Constable, I, Cambridge (Mass.) 1967, n. 179, pp. 421, 422. Cant. I.6, Ps. 41.2-3. 9 G. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable, in Constable, The Letters of Peter the Venerable, II, Cambridge (Mass.) 1967, pp. 316-330: 316. Opere di San Bernardo, ed. F. Gastaldelli, VI/2, Lettere II, Milano 1987, n. CCXCVIII, p. 280 (dopo il 1152: ibid., p. 279 nota 1).


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na, in sé nemmen troppo sorprendente se si considerano i tratti fondamentali del santo, può darci qualche indicazione rilevante: perché non fu soltanto rabbiosa e furbonda, ma lucidamente mirata a trascinare verso la rovina totale quell’ormai ex uomo di fiducia (in realtà non sappiamo niente delle sue colpe, nonostante le affermazioni del sant’uomo; Bernardo potrebbe anche aver prestato fede alle accuse di certi canonici di Auxerre)10; anche questa reazione potrebbe far pensare alla delusione dell’amicizia (o meglio, in questo caso, della fiducia) tradita: «Nicolaus ille exiit a nobis, quia non erat ex nobis»11; scoperta sconvolgente, certo, tanto più per un uomo che, come Bernardo, aveva scritto in termini appassionati del rapporto con i suoi monaci e i suoi amici12; ma anche indizio inquietante della capacità dello stesso Bernardo di scegliersi gli uomini di fiducia, visto che Nicola lo era stato per anni... E apparentemente uomo privilegiato e selezionato per le sue relazioni con l’abate di Cluny: nel 1149/50 Bernardo aveva scritto a Pietro che aveva ricevuto le sue lettere in un momento di grandissimo daffare, «abripui tamen me et eripui uotis et responsionibus omnium, et inclusi me cum Nicholao illo quem diligit anima uestra»13. Dunque che credito attribuire alle affermazioni di un paio d’anni dopo: «Et ego longe ante hominem noveram; sed expectabam ut aut Deus eum converteret, aut, instar Iudae, ipse se proderet: quod et factum est»14? Comunque Eugenio III evitò di seguire le indicazioni bernardine, e anzi Adriano IV e Alessandro III manifestarono apprezzamento per Nicola. Ma anche questa reazione, come le apparenti sensibléries tra Pietro il Venerabile e Nicola, potrebbe dover essere letta in cifra, insomma decrittandola a partire dal proprio codice retorico; Bernardo, come già aveva fatto Pier Damiani, considerava i suoi monaci come un’unità inscindibile di aspiranti all’unica perfezione possibile, quella della sua esperienza isti-

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Cfr. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., p. 330 nota 64. Ep. n. CCXCVIII cit., p. 278. Cfr. Epistola n. LIII, in Opere di San Bernardo, ed. F. Gastaldelli, VI/1, Lettere I, Milano 1986, p. 270 (presenta al cancelliere Aimerico due suoi monaci): «Tres in duobus conspicitis, quoniam absque me esse non possunt, in quorum iugiter pectoribus requiesco, et quidem securius atque suavius quam in proprio. Mentiri videor, sed ei qui amicitiae vim numquam sensit, qui virtutem caritatis ignorat, qui non credit multitudinis credentium fuisse cor unum et animam unam: Qui ergo videt eos, videt et me, etsi non in meo corpore; et quod loquuntur ipsi, ego pariter loquor, sed eorum linguis». 13The Letters of Peter the Venerable, ed. cit, n. 152, p. 172 (= Epistola n. CCCLXXXIX, in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., p. 500). 14 Ep. n. CCXCVIII cit., p. 278.


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tuzionale, e chi se ne separava non poteva che condannarsi all’elisione e alla misura fra tutte da considerarsi la più tremenda, la damnatio memoriae, che annullava15. Pietro risponderà a Nicola: «Sed credo deo, quia rumpetur male fixa stabilitas, et qui meam de te esuriem satiare nequeo, saltem hanc breui tempore iocundo ac dulci tuo colloquio releuabo»16. Ritorna la parola esuries; ma soprattutto compare un’espressione inquietante, visto che proviene dal vertice di una delle massime istituzioni monastiche e in un’età in cui le discussioni e le polemiche sull’interpretazione della Regula erano all’ordine del giorno: «male fixa stabilitas». Pietro sente tanto profondamente l’assenza dell’amico da tirare in ballo uno dei capisaldi della regola benedettina, o tirando in ballo uno dei capisaldi della regola benedettina fornisce un indizio, che per il destinatario potrebbe essere anche un’informazione? Nicola, uomo inquieto. Voleva uscire da Clairvaux? Pietro il Venerabile mirava a farlo entrare e trattenerlo a Cluny? e perché, perché aveva fame e sete dell’amico o (insieme) perché Nicola conosceva molto delle cose segrete di Bernardo (Bernardo ovviamente avrebbe detto che conosceva troppo, dato che nella sua denuncia metteva in guardia il pontefice da lettere scritte da Nicola a suo nome e di cui lui non sapeva nulla: quindi, ahilui, credibili e nella sostanza e nella forma)17, o anche perché stava cercando di trasformare Cluny in ciò che non era mai stata, un centro di cultura in cui attirare gli uomini di cultura, potenzialmente antagonista dunque nei fatti e non nelle invettive e nelle censure (e dunque credibile e utile) agli studia: e Nicola, pur non avendo la levatura di Abelardo, era certamente uno di loro18… Codice retorico degli affetti dell’amicizia o (anche) gli accenti dell’amicizia come sostegno a manovre e interessi concreti, come strutture di interessi e giochi concreti? Magari è per questo che nell’autunno 1150 Pietro aveva scritto a Nicola «Si meus es ut dico, si opinio mea

15 U. Longo, «O utinam anima mea esset in corpore tuo!». Pier Damiani, l’amicitia monastica e la riforma, in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive cit., pp. 1-14: 7ss.. Ep. n. CCXCVIII, loc. cit.: «Nullus perpetua dignior inclusione, nihil ei perpetuo silentio iustius». Si vedano le stimolanti indicazioni metodologiche di G. Schwedler, «Damnatio memoriae»-oblio culturale: concetti e teorie del non ricordo, in Condannare all’oblio. Pratiche della «damnatio memoriae» nel Medioevo, Roma 2010, pp. 5-17. 16 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 182, pp. 425-426 (marzo 1151: The Letters of Peter the Venerable cit., II, p. 220). 17 Ep. n. CCXCVIII, p. 278: «Quis possit dicere ad quam multas personas sub nomine meo, me ignorante, quae voluit scripsit?». 18 Cfr. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., pp. 328-330.


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non fallit, licet homo sub potestate [Mt 8.9; Lc 7.8] sis, mando tamen et omnino uolo ut uenias»19? un anno prima, in un contesto di grande ed esibita affettività, era stato più allusivo: «Maluissem te meum quam alterius, sed quia ubique dei es, meum quoque te ubique reputo. Redde ergo uicem, ut uere te diligentem diligas […] Nosti quod nichil temporalis commodi praestoler a te, nosti quod nulla alia causa me mouerit ad amandum te, nisi ea quae sola diligenda erant in te […] quia te litteratum, quia strenuum, quia quod plus est religiosum»20. E magari è proprio per questo che l’epistolario del Venerabile, curato da lui stesso, si chiude con una lettera ancora a Nicola, che protesta amicizia e insieme impotenza e lucidità: come potevi pretendere che ti scrivessi durante il mio viaggio in Italia? e anche al ritorno a Cluny, dove per poco non sono stato sommerso dagli affari della mia congregazione? Come hai potuto pensare che non ti fossi amico? E le frasi finali sono caldissime e freddissime insieme: «Dominum abbatem ut te nobis citissime mittat, rogaui. Tu uero nullo modo citius uenire graueris. Es enim michi et propter ista et propter quaedam alia multum necessarius. Cursori quod tamdiu moratus est noli imputare, sed michi, excusaque eum, apud ceteros. Vale»21. Insomma: non mi metterò in altri problemi con Bernardo solo perché tu insisti, mi sono già esposto molto e forse troppo (del resto ne è testimonianza lo scambio di lettere, dell’autunno 1150, conservate nell’epistolario di Bernardo22)… ma visto che insisti tanto, «non ti sia grave» sbrigarti a venire! Che differenza con il bigliettino scritto quattordici mesi prima «statim fere» apposta per accusare ricevuta

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19 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 176, p. 417. 20 Ibid., n. 151, p. 372. 21 Ibid, n. 193, pp. 448-450 (maggio 1152: The Letters cit., II, p. 230): «Vt absque proe-

mio loquar, quid plane, quid est? Et tu ille es cui dicatur, modicae fidei quare dubitasti? (Mt 14.31) Sed nec ego Christus sum, nec tu Petrus es. An bone uir ut cum stomacho loquar, me putasti alium esse factum? […] Quod silui […] factum est, non quia nolui, sed quia non potui. Quid poteram positus in itinere scribere, qui uix poteram uiuere? […] Integra pene semper die equitanti, media nocte edendi, ualde mane surgenti, in agone continuo desudanti, quis animus ad meditandum, quae lingua ad dictandum, quae manus ad scribendum parare se poterat? […] Inundauerunt aquae super caput meum, et pene dixi paruus… Aquae istae populi fuerunt et gentes ab Italia, Germania, Hyspania, Anglia, ab ipsa nostra Gallia Cluniacum diriuatae, ibique simul per totam illam absentiam meam, in immensos causarum cumulos congregatae […] Iam uero in itinere meo super quo certificari rogasti, quid egerim, quid dixerim, quid inuenerim, ad litteras quas domino Clareuallensi facio, per eas de his omnibus ad instruendum te mitto». 22 Cfr. Epp. CCLXIV-CCLXV, in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., pp. 200-204; da vedere l’eccellente status quaestionis del curatore, ivi, pp. 200-203 nota 1.


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delle mellae litterae mandategli da Nicola23… E degna conclusione di un intero epistolario, perché riassume tutti i motivi dell’abbaziato di Pietro e include il registro dell’amicizia, ma dimostra come il senso del ruolo prevalga su ogni altra motivazione!

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3. Già. Tutto è lecito, anche essere sospettosi e guardinghi. Ma un momento, fermiamoci. Questa lettura può apparire o essere molto o troppo riduttiva, anzi ispirata alla diffidenza nei confronti di queste fonti proprio per la sovrabbondanza di segni che esse presentano, le tenerezze, i sospiri, come se la sovrabbondanza di segni ne inficiasse necessariamente la credibilità (come «i baciamani, scappellate e complimenti» dell’infastidito principe di Salina in una celebre, cinica scena del Gattopardo: che difatti si sentiva rispondere dal cinico o disincantato, e comunque vanaglorioso, colonnello Pallavicino: «qui da noi, in Italia, non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti: sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo»)24. Ma che cosa ci autorizza a trattare sempre tutto con diffidenza, come se gli uomini che hanno scritto quelle pagine fossero dei perfetti ipocriti? Che cosa ci autorizza ad escludere la sincerità degli affetti? l’intensità ambigua (nel senso di duplice e reciproca), ad esempio, del rapporto maestro-discepolo25… La comunione delle anime si esprime anche o forse soprattutto con la comunicazione attraverso un medesimo registro di stile, che marca l’appartenenza ad un medesimo mondo (non solo sociale ma culturale, quindi costituito di valori e fecondato dall’arduo percorso comune dell’acculturazione)26, che è quanto si dicono a vicenda Nicola e Pietro il Venerabile anche quando in explicito affermano il contrario, e cioè che la parola parlata val più della parola scritta – perché nel farlo ammiccano a Cicerone, ed anzi lo citano (Nicola: «Absit autem ut me consoletur illa uerisimilis sed non uera sententia: Praesentiores, inquit, sunt qui se animis quam qui oculis intuentur, et plus est corde connecti, quam corpore […] Sed haec sicut arbitror, ex ratione non ex affectione locutus est ille Romanae aeloquentiae splendor, cum quo aeloquentia nata est et educta in lucem, Tullius hic est»; Pietro risponde alzando la posta: «Nam si talis est stilus tuus, qualis est animus tuus? Si talis littera tua, qualis lingua tua?

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The Letters of Peter the Venerable cit., n. 180, pp. 422-423. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 196050, pp. 276, 277. Cfr. le considerazioni iniziali di Longo, «O utinam anima mea esset in corpore tuo!» cit., pp. 1-3. A. Ricciardi, L’epistolario di Lupo di Ferrières. Intellettuali, relazioni culturali e politica nell’età di Carlo il Calvo, Spoleto 2005, pp. 34ss. 26 Cfr. Cantarella, A margine cit., pp. 1-17: 4-5.


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[…] Etsi conferre minorem maioribus licet, non solum tuum sequeris Tullium Tullianus, de quo scripsisti […] sed quod est dignius imitaris apostolum apostolicus», e giù a citare II Cor. 10.10-11)27. Ma questo ci dice anche della cautela con cui ci si deve avvicinare a questo mondo degli affetti, senza escludere nulla (come invece faceva un inorridito Huizinga a proposito dell’«amicizia greca»28), ma anche senza lasciarsi troppo prendere dalle svenevolezze, dai sentimentalismi testuali e dalle costruzioni retoriche di adulazione e corteggiamento (si pensi a quanto Pier Damiani scriveva all’imperatrice Agnese fra il 1065 e il 1066 per invitarla a rassegnarsi alla vita monastica: «poiché sono lontano dalla vostra santa presenza e in questo tempo non posso essere insieme a voi, assai mi dolgo e sospiro in quotidiano lamento»29), e senza lasciarsi andare a giudizi di difficile probabilità sul personal charm, «the indescribable quality which, like physical beauty, can dazzle the mind’s eye and blind the judgment»30, e includere tutto: e qui le considerazioni generali di Huizinga conservano il loro valore, e le si potrebbero integrare con quelle, recentis-

27 The Letters of Peter the Venerable, n. 179, p. 421; n. 182, p. 426. 28 Cfr. J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. ital. Firenze 1978, pp. 69-71: 70. 29 Die Briefe des Petrus Damiani, ed. K. Reindel, Weimar 1989 (M.G.H., Die Briefe der

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Deutschen Kaiserzeit, IV/3), n. 130 (ex. 1065 / 1066 in.), pp. 435-436: «Quoniam a sancta praesentia vestra remotus sum, et hoc tempore vobiscum esse non possum, satis doleo et cotidiana lamentatione suspiro. Interim autem antequam ad vos redeam, hortor sanctam patientiam vestram, ut non ei grave sit aspera quaelibet ac dura perferre, et pro amore caelestis sponsi solitudinem vel etiam necessarii sumptus inopiam sustinere. Cum enim Christus pro te pertulerit crucem, quid mirum si tu sustineas pro illius amore pauperiem? […] Porro autem, qui hodie induitur purpura, cras includitur sepultura. Hodie quis hominibus dominatur, cras autem a vermibus factus putredo corroditur. Hodie regalibus infulis redimitur, cras vilibus panniculis exanime cadaver obvolvitur. Hodie splendet coronatus in regalis excellentiae solio, cras fetet marcidus in sepulchro. Haec igitur et huiusmodi, domina mi, suptiliter pensa, et huius vitae labores cum Iesu nunc aequanimiter tolera, ut cum ipse qui iudicatus est iudicaturus advenerit, tu velut una de sapientibus virginibus ornatis lampadibus ei decenter occurras, et pro temporali purpura stolam immortalitatis accipias. Ac pro corona quae de terreno fuerat fabricata metallo, illud diadema suscipias quod in caelo factum est de lapide precioso». Considerato quanto avviene a corte fra la fine del 1065 e il gennaio 1066, con l’estromissione di Adalberto di Amburgo-Brema e il ritorno di Annone di Colonia, verrebbe da pensare ad una Agnese fremente per rientrare ufficialmente nel circuito della vita politica e lasciare quella condizione monastica che, a giudicare dalle parole di Pier Damiani, le andava stretta… Sulla situazione rimando al mio Pier Damiani e lo scisma di Cadalo, in Pier Damiani: l’eremita, il teologo, il riformatore (1007-2007) cit., pp. 233-257: 252-255; sul brano in particolare, alla cursoria osservazione nel mio Medioevo. Un filo di parole, Milano 20022, p. 146. 30 Parole di dom David Knowles, citate dal Constable a proposito proprio di Nicola (Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., p. 329). È solo una curiosità: ma


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sime, di Barbara Rosenwein31. Bisognerebbe allora fare uno sforzo per sottrarsi il più possibile alle suggestioni della contemporaneità (ad esempio, non leggere il racconto dell’assassinio del prete «a puero, quem familiariorem habebat» che fa Guiberto di Nogent come se appartenesse all’età post-tridentina o ai tempi nostri)32, pur sapendo che non è possibile… Si tratta di comunicazioni scritte: e con le parole ci si misura a vicenda, ci si avvicina e ci si comprende (è con compiacimento che Attone di Troyes rispondeva nel 1141 a Pietro in un modo che a noi, se ancora afflitti dai pre-giudizi crociani sulla retorica, potrebbe apparire affacciato sul limite della scortesia: «Repressi autem me, ne eloquentia uestra paupertatem uerborum meorum sepeliret»)33, ma anche ci si tiene a distanza. Certe volte lo si sottolinea: nel 1149 san Bernardo scrisse a Pietro il Venerabile che non avrebbe sempre dovuto prenderlo alla lettera: «Multitudo negotiorum in culpa est, quia dum scriptores nostri non bene retinent sensum nostrum, ultra modo acuunt stilum suum, nec videre possum quae scribi praecipi». Un’affermazione importante che potrebbe dare importanti indicazioni di metodo allo studioso e riproporre la domanda: se l’autore fa corpo con un gruppo scelto di scrittori, fino a che punto si può indagare lui? dove iniziano loro34? Che ne sarebbe, insomma, della cosiddetta autorialità, tanto più di fronte all’ammissione dell’assenza di controllo sulla pagina scritta? ma, a questo, dobbiamo proprio crederci come voleva Bernardo? Daccapo. Diffidenti, noi? lucidi, strumentali, loro? Ma allora: uomini soli, tutti, noi e loro. Sempre in guardia, loro, certo. Sempre attenti. Sempre consapevoli del fatto che il «privato» non si dava – e dunque la loro comunicazione è tanto più preziosa in quanto è offerta al pubblico, quel pubblico scelto (eletto) in grado di decifrarla… Quel pubblico che proprio per questo si sentirà ammesso al grande privilegio di partecipare del mondo dei grandi che comu-

un’espressione molto vicina a questa è stata usata da Claude Carozzi per sintetizzare Adalberone di Laon e il codice della regalità: «cette qualité indescriptible qu’est la beauté» (C. Carozzi, D’Adalbéron de Laon à Humbert de Moyenmoutier: la désacralisation de la royauté, in La cristianità dei secoli XI e XII in Occidente: coscienza e strutture di una società, Milano 1983, pp. 67-84: 72). 31 Cfr. B.H. Rosenwein, Emotional Communities in the Early Middle Ages, Ithaca NYLondon 2006, pp. 28-29. 32 Guibert de Nogent, Autobiographie, éd. et trad. E.-R. Labande, Paris 1981, III.XI, p. 374. 33 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 95, p. 256. 34 Epistola n° CCCLXXXVII, in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., p. 498 (la datazione, con eccellenti interrogativi metodologici, ivi, pp. 497-499 nota 2).


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nicano fra loro e insieme saprà di esserne, proprio perché testimone, sostanzialmente escluso, ma anche che in questo modo può disporre dei modelli per creare un nuovo più specifico e appropriato mondo di relazioni, fatto su misura, e che a sua volta potrebbe ispirare altri a fare altrettanto, innescare altri mondi, innervare altri circuiti… Il mondo dell’amicizia, cioè, è probabilmente un modello: dunque con una sua forza pragmatica oltreché pregnante.

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4. Si, l’amicizia è un modello quasi ecclesiologico. Esoterico, come in Pier Damiani, inclusivo, come in Pietro il Venerabile, di valenza teologica e centrale, come in Aelredo di Rielvaux: comunque totale. È lo specchio della vita monastica e delle sue bellezze, è la rappresentazione vivente della sua forma ideale35. Delle sue norme come delle sue trasgressioni. Perché l’amicizia stessa è, paradossalmente, una trasgressione. I monaci, a Cluny, non possono parlare fra di loro: dunque come potrebbero coltivare amicizie? ma Pietro il Venerabile menziona e pregusta lo iocundum ac dulce colloquium con il suo Nicola, quando l’avrà con sé a Cluny36. È l’abate che scioglie dal vincolo della norma, solo la sua autorizzazione rende legittima la trasgressione: a Cluny, nell’età di Pietro, si doveva sapere bene, perché era già entrata nella storia ufficiale dell’abbazia e dell’istituzione (e perché Nalgodo era stato incaricato di attualizzare formalmente il testo), cos’era accaduto al monaco impudente che si era rifiutato di rispettare il silenzio e il linguaggio dei segni imposto da Odone: era diventato muto e in breve era morto senza ottenere l’assoluzione37. Se è il colloquio che rende possibile l’amicizia,

35 Cfr. ancora Longo, 36The Letters of Peter

«O utinam anima mea esset in corpore tuo!» cit., pp. 12ss. the Venerable cit., n. 182, pp. 425-426: «et qui meam de te esuriem satiare nequeo, saltim hanc breui tempore iocundo ac dulci tuo colloquio releuabo. Vere iocundo, uere dulci. Nam si talis est stilus tuus, qualis est animus tuus? Si talis littera tua, qualis lingua tua? Non es enim, non es talis, quales quidam loquaces stilo, muti aeloquio, uel econuerso profusi loquentes, muti scribentes». Il contesto è trasparente: si riferisce a conversazioni! 37 Cfr. ancora i miei I monaci di Cluny cit., p. 61; È esistito un «modello cluniacense»?, in Dinamiche istituzionali delle reti monastiche e canonicali nell’Italia dei secoli X-XII, Negarine di S. Pietro in Cariano 2007, pp. 61-85: 61-62. Sull’attività di Nalgodo è fondamentale il pioneristico studio di M.L. Fini, Studio sulla «Vita Odonis reformata» di Nalgodo. Il Fragmentum mutilum del codice latino NA 1496 della Bibliothèque Nationale di Parigi, «Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», Cl. di Scienze Morali, a. 69°, Rendiconti, 63/2 (1974-1975), pp. 35-147, che tanto più andrebbe ripreso in quanto in questi decenni la ricerca ha messo a punto nuove prospettive e nuovi modelli di interpretazione della storia cluniacense, monastica e delle istituzioni ecclesiastiche; ad esempio l’osser-


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l’amicizia non sarà tanto la norma quanto piuttosto l’eccezione, il premio concesso dall’autorità abbaziale? il che forse potrebbe aiutarci a comprendere il perché della scelta del vocabolario e a riconsiderarne la possibilità del grado, se non di sincerità (perché mai come nella lettura delle fonti occorre ricordare la saggezza del «de interiore homine iudicat Deus»!) almeno di verisimiglianza, di applicabilità al campo d’esperienza: per descriverlo, riprodurlo, circoscriverlo. L’amicizia non sarà la trasgressione che contraddice tanto le circospezioni istituzionali quanto la stessa essenza del monaco, «monachus hoc est solus»? Una concessione rara e preziosissima, che la suprema prerogativa abbaziale (il controllo e l’amministrazione della discretio) offriva graziosamente a chi veniva riconosciuto meritevole, e forse meritevole di essere elevato dopo essere stato messo alla prova; il che ovviamente trasformava il tradimento della fiducia in disobbedienza istituzionale, colpa suprema: quella di cui, a stare a Bernardo di Clairvaux, si era macchiato Nicola di Montiéramey… È una inestimabile occasione della vita, che non a tutti viene concessa (nel senso strettissimo della parola). E allora potrebbe diventare più chiaro perché il lessico monastico dell’amicizia, pur avendo com’è forse inevitabile dei punti di contatto con i linguaggi degli affetti esterni al mondo del monastero, ha una propria specificità: concreta, nella pratica quotidiana. Perché è traducibile in vita vissuta. Come avviene nel mondo del secolo, nelle amicizie cavalleresche ad esempio38. Perché è vita. E arriviamo di nuovo al campo dell’inesprimibile. L’amicizia è davvero l’inesprimibile, per la mozione degli affetti e dei sentimenti naturalmente ma anche, più banalmente, perché nella vita monastica è proibita in generale l’espressione verbale – e allora resta l’inespresso, e chissà di quante amicizie mute, immaginate, desiderate in Dio si è nutrito il Moloch monastico… Il monaco è solo, unico nel mondo, solo con Dio, non deve dimenticarselo! neppure se non si è monacato per scelta… 5. Ma ero partito dai casi di Riccardo di Siracusa e Thomas Becket. Tutt’altro ambiente, ovviamente, problemi completamente diversi. Anche

vazione che l’A. faceva a proposito dell’«impegno speculativo, in qualche maniera scolastico» e dei «valori piuttosto retorico-dialettici» dell’opera (p. 103) potrebbe ora essere apprezzata meglio proprio in ragione dei nuovi contesti che sono stati delineati. 38 Cfr. G. Duby, Guillaume le Maréchal ou Le meilleur chevalier du monde, Paris 1984, p. 62.


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perché in questo caso è stata la storiografia a dichiararli amici: il Kamp più di trent’anni fa, di recente ripreso da Jean-Marie Martin39. Riccardo, proveniente dall’Inghilterra, percorse nel regno del Sud una carriera non sappiamo quanto rapida, perché non sappiamo per quali vie e quando sia arrivato in Sicilia. Ripropongo qui le domande che ho fatto di recente in altra sede: un uomo del circolo del Becket o un suo amico, che però non era riuscito a trovare una collocazione in Inghilterra? il che implicherebbe dunque che non aveva potuto contare su un patronato efficace… Così avrebbe preso la via della Sicilia sperando di far fortuna con i propri mezzi. Proviamo ad approfondire il campo delle ipotesi e delle suggestioni, partendo dalle considerazioni del Kamp: Riccardo, uomo di studi a Parigi, area d’elezione per i literati inglesi; uomo che segue la via del Sud, come altri durante il regno di Ruggero II: Roberto di Selby sul finire degli anni ‘30, poi Thomas Brown… Amico del Becket? e perché? Solo perché il Becket nel 1168, dal suo esilio in Francia, gli scriverà una lettera devota e fiorita in cui, dopo aver elogiato il suo timor di Dio e la duratura caritas, gli raccomanderà suo nipote Goffredo? Ingenuamente ci si potrebbe chiedere: ma se erano tanto amici perché non gli ha mai scritto prima, quando era potente e temuto in Inghilterra e fuori? Meglio: perché non l’ha assunto nel servizio regio o di Canterbury quando avrebbe potuto farlo? magari perché Enrico II l’aveva scelto come cancelliere solo nel 1155 e il suo presunto «amico» forse era già in Sicilia? Perché nel gennaio 1157 Riccardo è arcivescovo eletto di Siracusa e rappresenta il re quando i consoli di Genova «una cum trecentis hominibus Ianuae de melioribus» giurano di «observare firmam et fidelem amicitiam» nei confronti di Guglielmo I: non può essere arrivato nel regno da poco… È un uomo di primo piano, anche se non ai vertici del regno: a quei livelli ci sono Maione, Matteo, Romualdo di Salerno, protagonisti del trattato di Benevento dell’anno prima; però Riccardo era insieme con il re a Salerno, proprio in quella circostanza… È un uomo in ascesa; e trovarlo nel 1166 nel consiglio di reggenza, e non trovarvi invece Romualdo che nel

39 N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I.3, München 1975, pp. 1013-1018 (1013 nota 20 per la questione del cognome); J.-M. Martin, L’immigrazione normanna, inglese e francese nel Regno normanno di Sicilia, in Studi in onore di Salvatore Tramontana, cur. E. Cuozzo, Pratola Serra 2003, pp. 281-289: 288. Riprendo d’ora in poi, sintetizzandolo, il mio Nel Regno del Sole. Falcando fra inglesi e normanni, in Scritti di storia medievale offerti a Maria Consiglia De Matteis, Spoleto 2011, pp. 96-100 (chiedo perdono per l’autocitazione finale: ivi, 100).


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1156 era appunto una figura di primissimo piano, indica che ha saputo costruirsi una carriera progressiva e inarrestabile… A lume di buon senso è difficile pensare che fosse soltanto un uomo di Guglielmo I, cioè che fosse arrivato nel regno solo nel 1154: in tre anni non si fa tanta strada, a meno che non si appartenga a qualche famiglia di rilievo, di quelle che lasciano tracce di sé; ma non è il caso del nostro. Se, invece, fosse arrivato in Sicilia negli anni di Ruggero II, anzi nell’età di Roberto di Selby o Thomas Brown, allora avrebbe potuto fare il proprio apprendistato proprio nei centri dell’amministrazione del regno: e questo lo renderebbe anzi uomo degli apparati «burocratici», dunque renderebbe comprensibile il suo protagonismo nella difesa dei notai di corte contro Stefano del Perche (1167-1168) nonché, prima dell’arrivo di quest’ultimo, la sua vicinanza a Matteo di Salerno, con cui siede nel consiglio di reggenza insieme con il qa’id Pietro. Matteo ha fatto carriera perché è uomo di Maione, il qa’id Pietro perché è uomo del diwán che ha goduto incondizionatamente della fiducia del re, di Riccardo l’inglese possiamo solo constatare il fatto che la sua scalata sociale gli ha fatto raggiungere uomini che una decina d’anni prima erano già ai livelli più alti del regno; ma sappiamo anche che nel 1161 era stato, insieme a Romualdo di Salerno, l’ispiratore della rivolta con cui la plebe palermitana aveva liberato Guglielmo I dalla prigionia dove l’aveva ristretto la congiura dei nobili, e il portavoce ufficiale del re durante la regia epifania ai palermitani: «hec et his similia que rex non sine lacrimis demissius loquebatur, electus Siracusanus, vir licteratissimus et eloquens, ad populum referebat»; a lui, e non a Romualdo, era toccato essere la voce e la parola del re… «Licteratissimus et eloquens»: condizioni che non lo rendevano diverso da quei literati di professione che venivano cooptati nel servizio dei re d’Inghilterra e degli arcivescovi di Canterbury o York e potevano trovare impiego, ad esempio, nello Scacchiere: anche il luogo di formazione (le scuole di Parigi) era il medesimo; supporlo nelle clientele di qualcuno chiamato in Sicilia dall’Inghilterra darebbe fondamenti più credibili alla sua vertiginosa carriera. Riprendiamo brevemente il confronto fra le traiettorie del Becket e di Riccardo: 1155, cancelliere del regno d’Inghilterra il Becket, non sappiamo nulla di Riccardo; 1156/57, Riccardo eletto di Siracusa e in ascesa alla corte palermitana; 1162, Becket arcivescovo di Canterbury; 1164 il Becket è esule presso Luigi VII da novembre; 1166, Riccardo è designato da Guglielmo I al vertice del consiglio di reggenza in Sicilia, anche se la regina-vedova preferirà in quel ruolo il qa’id Pietro;


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1168-1169, il Becket interviene in Sicilia in favore di Stefano del Perche per conto proprio e del Re Cristianissimo Luigi VII: Riccardo, che appartiene al partito di coloro che hanno conseguito la cacciata del Perche, è nel secondo posto del consiglio ristretto. «Le due carriere non sono state simmetriche, i rapporti non sono stati paritari e magari non avrebbero potuto esserlo: certo, alla grande caritas elogiata dall’esule possiamo credere, se solo vogliamo farlo… In ogni caso lo stesso Becket ci parlerebbe di una caritas a senso unico, da parte di un potente Riccardo verso l’antico «amico» in disgrazia»; di più, la sua lettera si propone come una risposta ad una comunicazione di Riccardo, dunque come un segno di riconoscimento e di riconoscenza: caritas? degnazione? l’amicizia ha una gerarchia variabile che (come si sarebbe detto nel sec. XII) ruota e si capovolge seguendo i corsi della terribile macchina della Fortuna? Insomma, amicizia? Ci si potrebbe persino chiedere: davvero il Becket non avrebbe potuto fare nulla per il suo «amico» anche quando era soltanto un compagno di sollazzi di Enrico II? Anche noi storici dovremmo usare cautela nell’impiegare certe parole, che spesso sembrano chiamate in causa per tirarci fuori dagli impacci, vere e proprie scorciatoie che, lungi dal togliere dagli imbarazzi, dovrebbero causarne di maggiori. Da un pezzo si è smesso di vedere in Bernardo di Clairvaux un amico dell’abate di Cluny, anche se gli scriveva (o gli faceva scrivere…): «Legi et relegi dulcedinem, et magnam dulcedinem, quae de uestris litteris emanabat», e Pietro a sua volta: «Si de amico et tanto licet conqueri, queror […] Sicut dicitur, inter amicos omnia nuda… coram amico nudaui»40…

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6. Il tema, ovviamente, per usare una meritatamente fortunata espressione di Giuseppe Fornasari, rimane «non esaurito». Mi fermo qui. Solo un’ultima divagazione, che non c’entra nulla, ma è suggerita dalla rilettura di queste fonti: qualunque cosa si voglia pensare delle manifestazioni dell’amicizia, qualunque interpretazione si voglia dare, esse ci impartiscono degli insegnamenti umanistici cui noi, umanisti per il lavoro che facciamo, dovremmo più spesso prestare attenzione. I protagonisti di queste pagine rassomigliano un po’ a noi, si dicono: faccio non ciò che voglio, ma ciò cui sono costretto, anche se non posso e non voglio lamentarmi… «Irascor occupationibus meis, quibus factum est non ut non uellem, sed ut non possem, et etiam ut nescirem» (Nicola a Pietro, inizi 1151); «Quid dicam?

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The Letters of Peter the Venerable cit., n. 152, p. 172; n. 180, pp. 423, 424.


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Tedet animam meam uitae meae [Iob.10.1]. Quare? Quia non quod uolo hoc ago, sed quod odi illud facio. Datum est michi hoc, et nescio si desuper, ac uelut insuperabile accidens, fere a puero michi inhesit, ut pene semper impellar ad haec quae nolo, et repellar ab his quae uolo. Et licet haec dicam, non sum tamen de illis, qui non sunt contenti de sorte sua, qui propria fastidiunt, aliena ambiunt» (Pietro a Nicola, marzo 1151)41. Ma c’è una voce discreta42 che, pur avendo il carattere di un vero e proprio ápax, si propone con lucidità e saggezza: «Sed si negotiis credimus, quando negotia finem habebunt?» (Attone di Troyes a Pietro il Venerabile, 1141)43. Mi verrebbe quasi da dire: questa si, è la voce di un amico vero… Sono voci che vengono dal passato, e che, come sempre fa la storia, non insegnano nulla. Ma possono indurci a sostare e pensare*.

41 42

Ivi, n. 179, p. 421; n. 182, p. 425. Sono ancora da vedere le bellissime annotazioni di P. Lamma, Momenti di storiografia cluniacense, Roma 1961, pp. 150-151. 43 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 96, p. 257. * Vorrei esprimere il mio ringraziamento agli amici, complici e sodali che hanno sopportato le mie manie di condivisione e di discussione delle ricerche: Germana Gandino (Università del Piemonte Orientale, Vercelli); Umberto Longo (Università La Sapienza, Roma); Francesco Paolo Terlizzi, Francesco Renzi (Università degli Studi, Bologna).


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1. L’omosessualità di re Riccardo: il problema*

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Le fonti dirette (letterarie e documentarie) sulla vita e l’opera di Riccardo I d’Inghilterra sono numerose e tutt’altro che laconiche. È uno dei personaggi meglio noti della storia del pieno Medioevo, anche grazie a una critica che ha partorito una bibliografia ricca e approfondita, soprattutto sotto il profilo biografico1. Uno degli aspetti particolarmente controversi di questa critica riguarda la presunta omosessualità2 del sovrano inglese. Questo intervento tenta una messa a punto della situazione, mediante l’accertamento di nuovi elementi (filologici, e per questo, forse, maggiormente solidi), per una definizione più sicura del dubbio storiografico.

*Questo lavoro costituisce un ampliamento e aggiornamento soprattutto bibliografici de Il peccato di re Riccardo, che ho pubblicato in Corrispondenza d’amorosi sensi. L’omoerotismo nella letteratura medievale, cur. P. Odorico - N. Pasero - M.P. Bachmann, Alessandria 2008, pp. 135-150. 1 Rinvio qui soltanto alle maggiori – e maggiormente recenti – biografie generali di Riccardo: J. Gillingham, The Life and Times of Richard I, London 1973; A. Bridge, Richard the Lionheart, London 1989; Gillingham, Richard Coeur de Lion. Kingship, Chivalry and War in the Twelfth Century, London 1994; Gillingham, Richard Coeur de Lion, Paris 1996; R. Pernoud, Riccardo Cuor di Leone, trad. ital. Milano 2000; J. Flori, Riccardo Cuor di Leone. Il re cavaliere, trad. ital. Torino 2002. 2 Sul tema dell’omosessualità nel Medioevo mi permetto di rinviare a E. D’Angelo, San Pier Damiani, «Liber Gomorrhianus». Omosessualità ecclesiastica e Riforma della Chiesa, Alessandria 2001. Per la Francia nel sec. XII sono poi da tenere presenti: G. Duby, Medioevo maschio. Amore e matrimonio, trad. ital. Roma-Bari 1988; J. W. Baldwin, Five Discourses on Desire: Sexuality and Gender in Northern France around 1200, «Speculum» 66 (1991), pp. 797-819.


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2. Le “prove” La penitenza a Messina

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Nell’ottobre del 1190 la flotta crociata franco-inglese è a Messina in viaggio verso la Terrasanta (III Crociata): i due sovrani, Filippo Augusto e Riccardo d’Inghilterra, guidano i contingenti che si sono acquartierati in città aspettando la successiva primavera per prendere il mare verso la Terrasanta. In città, data la permanenza lunga di soldatesche numerose e in buona parte tutt’altro che disciplinate, si verificano gravissimi scontri tra le diverse etnie e contingenti militari (Franchi, Normanni, Inglesi, Greci, Longobardi, etc.); in particolare imperversano gli Inglesi di Riccardo: costruiscono addirittura un castello, che chiamano Matagrifon, cioè «uccisore di Grifoni», in riferimento ai Greci abitanti in città. Ma la permanenza di Riccardo nell’isola è resa problematica anche da una serie di rilevanti problemi politici e dinastici. Il re d’Inghilterra reclama dal re di Sicilia in carica, Tancredi d’Altavilla, la restituzione dell’eredità di sua sorella Giovanna, moglie del defunto predecessore di Tancredi, Guglielmo II († 18 novembre 1189). Tancredi non vorrebbe restituire il dotario, ma ha bisogno dell’appoggio politico di Riccardo: incombe sul regno di Sicilia la rivendicazione del trono da parte dell’imperatore di Germania, Enrico VI, in quanto marito di una zia di Guglielmo II, Costanza d’Altavilla3. In questo clima straordinariamente “mosso” dal punto di vista non soltanto politico, Riccardo si reca sulla Sila, in Calabria, a rendere visita a uno dei più importanti “profeti” in quel momento viventi: fra’ Gioacchino da Fiore. L’abate di Corazzo, interrogato dal sovrano, esprime una grandiosa profezia di trionfo per la spedizione crociata, e per Riccardo in particolare, per mano del quale verrà ucciso nientemeno che l’Anticristo, incarnato in quel momento storico dal Saladino. Forse in conseguenza di questa visita a Gioacchino da Fiore, nell’imminenza della Crociata, e forse dell’arrivo della sua promessa sposa, Berengaria di Navarra, probabilmente sotto il Natale 1190, Riccardo, riuniti i vescovi che lo accompagnano nella spedizione, si abbandona a una clamorosa confessione pubblica. Il re d’Inghilterra confessa «l’ignominia dei suoi peccati», la foeditas (come dice Ruggero di Hoveden)4 «i cespugli spinosi della libidine»; egli «prese chia-

3 Per la problematica si veda, per tutti, S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Torino 1986, pp. 212-217. 4 Nato a Howden, nello Yorkshire, chierico della corte inglese, assai ben informato, è una delle fonti più affidabili sul sovrano inglese. La sua Chronica e i Gesta Henrici II


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ra coscienza del suo peccato» e i vescovi gli infliggono così la penitenza, dopo la quale egli cambia repentinamente e completamente vita [v. Appendice 1]. Nei Gesta Henrici II5 si insiste, al singolare, sul peccatum illud al quale il re, pentito, «abiurò». Si tratta della fornicatio; e non dovrebbe essere quella eterosessuale, dato che per i sovrani le scappatelle erano assolutamente normali6, al punto che ai figli illegittimi venivano poi riconosciuti feudi e cariche anche importanti. Inoltre, Riccardo non era sposato (e non ci sono note sue relazioni femminili per quel momento).

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Il rifiuto di sposare Alice di Francia Una seconda prova a sostegno dell’omosessualità di Riccardo dovrebbe essere rappresentata dal suo “eterno” rifiuto di sposare la sua promessa sposa, Alice, sorella del re di Francia Filippo Augusto. Nel racconto di Ruggero di Hoveden, al sovrano francese che lo accusa di tergiversare sul matrimonio, Riccardo risponde che la ragazza è stata già oggetto delle mire di suo padre, Enrico II, dal quale aveva generato addirittura un figlio [v. Appendice 2]. Il lungo celibato

Terza prova addotta da coloro che sostengono l’omosessualità è il lunghissimo celibato del re d’Inghilterra, che si sposa (con Berengaria di Navarra) solo a 34 anni7. La separazione uomini/donne al banchetto nuziale

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La quarta prova sarebbe data dalla separazione tra uomini e donne che Riccardo volle instaurare tra gli invitati alla sua festa di matrimonio8.

(Rogerius de Hoveden, Chronica, ed. W. Stubbs, London 1884-1885 e [Rogerius de Hoveden], Gesta Henrici II, ed. W. Stubbs, London 1867) spesso concordano, ma presentano talvolta tratti originali. 5 Questa cronaca è stata a lungo attribuita a Benedetto di Peterborough, ma oggi la critica riconosce unanimemente l’attribuzione a Ruggero di Hoveden. 6 Si pensi ad es., proprio in àmbito plantageneto, alla relazione che ebbe il padre di Riccardo, Enrico II, con la fidanzata-bambina del figlio, Alice di Francia, come si dice più avanti. 7 Su Berengaria, e sul suo rapporto con Riccardo: J. Gillingham, Richard I and Berengaria of Navarre, in Gillingham, Richard Coeur de Lion cit., pp. 119-139; I. Cloulas – A. Denieul, Bérangère et Richard Coeur de Lion: chronique d’amour et de guerre, Paris 1999. 8 Si veda la trattazione in J. Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., pp. 386-387.


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Mancanza di figli La quinta prova verrebbe data rappresentata dalla qualità del matrimonio con Berengaria: Riccardo forse sta lontano dalla moglie, dato che non hanno figli9. Amicizia equivoca con Filippo Augusto

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La sesta prova è rappresentata dalla sottolineatura di un’amicizia fortissima, ai limiti dell’equivoco, tra il re d’Inghilterra e il re di Francia. Riccardo di Devizes10 scrive che Riccardo e Filippo passarono a Messina parecchi giorni insieme, divertendosi, e che alla fine i due sovrani «si separarono stanchi ma non paghi» per ritornare ai loro alloggi11; l’espressione costituisce la citazione di una frase di Giovenale in cui si parla della libidine di Messalina12. I Gesta Henrici II sono anche più espliciti, e parlano tout-court di «amore» tra i due sovrani [v. Appendice 3]. Le espressioni sono in questo caso davvero molto forti: si parla di lectus unus che non separava Riccardo e Filippo nemmeno di notte, dopo lunghe giornate trascorse sempre insieme (anche a mangiare ad unum catinum), e compare direttamente la parola amor, facendo pensare a una vera e propria relazione omoerotica tra i due giovani. Ammonimento dell’eremita

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La settima e ultima prova addotta da chi crede al comportamento omosessuale di Riccardo si fonda su un passo della Chronica di Ruggero di Hoveden, nel quale si racconta come il Cuor di Leone fu colpito da un forte pentimento in conseguenza di una grave malattia che egli reputava inviatagli dal Signore, per non aver ascoltato l’invito a redimersi rivoltogli da un santo eremita. Siamo nel 1195 (quarto anno del matrimonio con Berengaria) [v. Appendice 4]: «coram se viris religiosis vitae suae foeditatem

9 Rogerius de Hoveden, Chronica, III, pp. 288-289 (v. anche infra). Ambroise, L’Estoire

de la guerre sainte, ed. G. Paris, Paris 1897, vv. 1135 ss. (egli è un poeta-giullare normanno, di Evreux, che partecipa alla Crociata al seguito di Riccardo, quindi un testimone oculare di numerosi dei fatti narrati) è l’unico che parla del grande amore di Riccardo per Berengaria, sostenendo che fu lui ad affrettare il matrimonio. 10 Riccardo, monaco dell’abbazia di Saint Swithun di Winchester, scrive intorno al 1198 e racconta i fatti di Riccardo tra il settembre 1189 e l’ottobre 1192. 11 Richardus Divisiensis, Chronicon de tempore regis Richardi primi, ed. J.T. Appleby, London 1963, p. 16. 12 Iuvenalis Satirae, VI 136: «Et lassata viris necdum satiata recessit».


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confiteri non erubuit, et accepta poenitentia, mulierem suam, quam a multo tempore non cognoverat, recepit, et abiecto concubitu illicito, adhaesit uxori suae, et facti sunt duo in carne una; et dedit ei Dominus sanitatem tam corporis quam animae» (Rogerius de Hoveden, Chronica, III 289). In questo caso, viene richiamata addirittura la subversio Sodomae, che, insieme all’espressione illicitus concubitus, suggerisce l’allusione, da parte dell’eremita che catechizza Riccardo, a una relazione omosessuale. Inoltre, nello stesso passo si sottolinea l’assoluta lontananza sessuale del Cuor di Leone da Berengaria.

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3. Le posizioni della critica

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Sulla base di questi elementi, molti studiosi si sono schierati per l’omosessualità di re Riccardo, altri l’hanno declinata13. Dei due più importanti (e recenti) biografi del sovrano plantageneto, John Gillingham e Jean Flori, il primo ritiene l’omosessualità di Riccardo un’idea “alla moda” non suffragata dalle fonti; il secondo crede che un’incontinenza sessuale del sovrano è indubbia, e che essa può essere stata molto probabilmente – anche se non necessariamente e/o esclusivamente – di natura omosessuale. In effetti, come per l’omo-, esistono delle “prove” anche per l’eterosessualità del plantageneto. Nel racconto dei Gesta Henrici, Riccardo «toglieva a forza le mogli e le figlie e le parenti degli uomini liberi e ne faceva le sue concubine; e quando aveva spento in loro i suoi ardori libidinosi, le abbandonava ai suoi cavalieri a guisa di donne pubbliche»14. Ruggero di Hoveden parla di un suo figlio illegittimo, Filippo, che lo avrebbe vendicato uccidendo il visconte di Limoges15. Stefano di Bourbon racconta un episodio quanto mai indicativo dei gusti sessuali del sovrano: invaghitosi di una monaca di Fontevrault, Riccardo ordina gli sia consegnata; la religiosa, dalla castità incrollabile, fa chiedere al re cosa lo attraesse di più in lei; avendo Riccardo risposto «gli occhi», la monaca avrebbe preso un coltello e si sarebbe strappata gli occhi per farli avere al re che tanto li desiderava16! 13

J. Harvey, I Plantageneti, trad. ital. Varese 1965, pp. 75-76; Pernou, Riccardo Cuor di Leone cit., p. 120; Gillingham, Richard I and Berengaria of Navarre cit., che raccoglie le fila di tutta la discussione, soprattutto p. 136; Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., pp. 386-394. 14 Rogerius de Hoveden, Gesta Henrici I cit., pp. 291-292. 15 Ibid., p. 97. 16 Stephanus de Borbone, Tractatus de diversis materiis praedicabilibus, in Anecdotes historiques, ed. A. Lecoy de la Marche, Paris 1877, pp. 211-212 e 431 (lo leggo in Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., p. 395).


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Oltre a queste notizie sugli appetiti eterosessuali di Riccardo, va rilevato che quelle a favore dell’omosessualità meritano una serie di riflessioni. Innanzitutto, alcune di esse risultano a un esame anche superficiale effettivamente forzate e poco indicative. Tre si mostrano più valide: I. la penitenza a Messina; II. l’amicizia equivoca con Filippo Augusto; III. l’ammonimento dell’eremita.

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Relativamente alla terza, John Gillingham – che nega tutta la questione dell’omosessualità di Riccardo – sostiene che la presenza del riferimento a Sodoma nella minaccia dell’eremita significa soprattutto il tipo di castigo (fiamme, etc.), più che la colpa. D’altra parte, nella Bibbia, i riferimenti all’omosessualità non fanno allusione alcuna alla città di Sodoma. Si tratta dunque, secondo lo studioso inglese, del peccato di adulterio commesso dal re d’Inghilterra. Legge altrimenti la questione Jean Flori, secondo il quale Sodoma è un riferimento a comportamenti omosessuali, o comunque rimanda a un peccato sessuale in genere: egli avanza l’ipotesi di un Riccardo bisessuale17.

4. Una rilettura “letteraria” delle fonti

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Per elementi nuovi in più ai fini di una soluzione della questione è necessario non tanto un ampliamento “quantitativo” dei materiali, quanto una loro rilettura in chiave metodologicamente diversa. In particolare, è opportuno leggere i testimoni sotto un’ottica squisitamente “letteraria”, e non solo con gli occhi dello storico a caccia di “dati” e di “fatti”. È questo uno dei problemi dell’utilizzo delle fonti storiografiche mediolatine più volte segnalato18, ed è sempre valida la metafora di Gustavo Vinay, per il quale lo storiografo mediolatino è come un «pozzo» al quale i moderni cercano di attingere l’«acqua» (i “fatti”) per la ricostruzione storiografica, perdendo spesso completamente di vista il «pozzo» dal quale attingono19. In realtà, per un’età – come quella medievale – in cui la concezione retori17 Vedi la discussione in Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., pp. 391-395, basata comunque in buona parte su una serie di riflessioni un po’ generiche, e a conti fatti inutilizzabili, sui riferimenti a Sodoma nell’Antico e nel Nuovo Testamento. 18 Mi permetto di rinviare a E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, p. 1. 19 G. Vinay, Otlone di Sant’ Emmeram. Ovvero l’autobiografia di un nevrotico, in La storiografia altomedievale, Spoleto 1970 (Settimane di studio, 17), pp. 15-37: 16.


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ca domina e caratterizza tutti i tipi di testo, per quelli storiografici in particolare sono necessari gli strumenti e i metodi della letteratura e della filologia, per tentare di estrarne (eventualmente!) i dati evenemenziali. Per quanto riguarda i testi qui specificamente in questione, una lettura che li proietti nel contesto delle loro “fonti” consente di gettare non poca luce sulla dimensione e sul significato da conferire alle singole espressioni e agli episodi nel loro complesso. Le opere storiografiche qui citate sono in generale edite nelle buone edizioni della collana inglese dei Rolls Series, che si rivela scadente, però, proprio sul piano dei riferimenti letterari (citazioni e loci similes), in pratica del tutto assenti. Proviamo ad analizzare di nuovo i tre brani maggiormente probanti l’omosessualità di Riccardo secondo quest’ottica. I: la penitenza a Messina [v. Appendice 1]

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L’impostazione del brano dei Gesta Henrici II sul pentimento messinese di Riccardo è tutta letteraria, come dimostra l’Apparatus fontium con cui corredo la trascrizione del testo in appendice. Lo sfondo è dato dalle Confessiones di Agostino: «foeditas vitae suae», «vepres libidinis», «manus eradicantis», sono tutte espressioni preconfezionate riprese dal tono della più famosa confessione tardoantica; appare molto difficile, quindi, che possano aver alcun risvolto personale, nel senso di individuale (omosessualità), su Riccardo20. Come anche tutta l’espressione successiva, relativa al Signore che va incontro al peccatore: si tratta ancora di una citazione da Agostino, De natura boni (inframezzata da continue allusioni alla Vulgata). L’espressione «peccatorum suorum foeditatem coram illis confiteri non erubuit» è invece derivata dalla topica davidica del re che si pente: fonte soprattutto Ambrogio (Apologia prophetae David e Expositio Psalmorum): qui, i nessi lessicali che Ambrogio attribuisce a Davide sono esattamente gli stessi che l’autore dei Gesta Henrici II attribuisce a Riccardo: «peccatum proprium», «peccatum tuum». Di omosessualità, cioè, non solo non si parla, ma nemmeno è metodologicamente lecito intravedervi allusioni. II: l’amicizia equivoca con Filippo Augusto21 [v. Appendice 3]

La lettura in chiave “omoerotica” di questo brano (Gesta Henrici II, II 7) è da ritenersi fuorviante. In questo caso, il timore del padre di Riccardo, 20 21

A meno di non immaginare atteggiamenti omosessuali anche da parte di Agostino. Per la concezione dell’amicitia in età altomedievale si può vedere V. Epp, «Amicitia». Zur Geschichte personaler, sozialer, politischer und geistlicher Beziehungen im frühen Mittelalter, Stuttgart 1999.


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Enrico II, è tutto e solo “politico” («praecavens sibi in futurum, machinaretur», etc.): non c’entra niente il risvolto affettivo e tanto meno quello sessuale (sul peso secondario dell’attrazione sessuale nel concetto monastico di amicitia ha scritto Katherine Yohe)22. Re Enrico è già andato incontro alla ribellione dei due figli maggiori, Enrico il Giovane († 1183) e Goffredo († 1186): e nel 1187 teme gli si ribelli anche Riccardo23. Paul Dalton in un recente articolo mette in luce l’importanza degli scritti teorici sull’amicizia di Elredo di Rievaulx sulla promozione della pace in Inghilterra durante il regno di Stefano di Blois (1135-1154)24. E, ancora più specificatamente, da un lato Klaus Eickels, nell’ambito di uno studio sui rapporti feudali, esamina il passaggio dall’homagium alla definizione del duca come amicus del re nei rapporti diplomatico-politici tra Francia e Inghilterra nel secolo XII25, e Claudia Garnier insiste sui rapporti di amicizia «strutturati verticalmente e orizzontalmente» nella classe dirigente tedesca tra XIII e XIV secolo26; dall’altro Karl Schmid studia l’“amicizia” tra Enrico I l’Uccellatore e re Roberto di Francia27. La stessa presenza del lessema amicitia è alla base, secondo Julian Haseldine, Ambrogio Maria Piazzoni e Patrick McGuire (ma in chiave di declino secondo quest’ultimo), dei tentativi di tessere rapporti pacifici tra i diversi ordini monastici, soprattutto quelli di recente creazione, nel corso del sec. XII28. Nel suo volume sulla topica, Reginald Hyatte insiste sul concetto, oltre che di amicitia Dei,

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22 K.M. Yohe, Sexual Attraction and the Motivations for Love and Friendship in Aelred of Rievaulx, «American Benedictine Review», 3 (1995), pp. 283-307. 23 Per tutti: Pernoud, Riccardo Cuor di Leone cit., p. 69. 24 P. Dalton, Churchmen and the Promotion of Peace in King Stephen’s Reign, «Viator», 31 (2000), pp. 79-119; P.M. Gasparotto, La amistad cristiana según Aelredo de Rievaulx, Ciudad do México 1987, e Gasparotto, De Ciceron a Cristo: la amistad espiritual en Elredo de Rieval, «Cuadernos monásticos», 23 (1988), pp. 437-449; G. Menta, Aelredo di Rievaulx e l’amicizia spirituale nel quadro dei principali autori monastici, «Rivista Cistercense», 15 (1998), pp. 65-98. 25 K. Eickels, «Homagium» and «amicitia»: Rituals of Peace and Their Significance in the Anglo-French Negotiations of the Twelfth Century, «Francia», 24 (1997), pp. 133-140. 26 C. Garnier, Amicus amicis, inimicus inimicis. Politische Freundschaft und fürstliche Netzwerke im 13. Jahrhundert, Stuttgart 2000. 27 K. Schmid, Unerforschte Quellen aus quellenarmer Zeit. Zur amicitia zwischen Heinrich I. und dem westfränkischen König Robert im Jahre 923, «Francia», 12 (1984), pp. 119-147. 28 J.P. Haseldine, Friendship and Rivalry: The Role of Amicitia in Twelfth-Century Monastic Relations, «Journal of Ecclesiastical History», 44 (1993), pp. 390-414; A.M. Piazzoni, Un falso problema storiografico. Note a proposito dell’«amicizia» tra Pietro Venerabile di Cluny e Bernardo di Clairvaux, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 89 (1980-1981), pp. 443-487; J.P. Haseldine,


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appunto di «friendship of the monastic community», e paragona i due tipi di «chivalric friendship», quello tra cavalieri di una stessa compagnia e quello tra uomo e donna29.

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Ed è comunque quello dell’amicitia un tema fondante della cultura anglonormanna di secolo XII30. Questa è una lettura già abbastanza ovvia; ma risulta certificata da un’analisi delle fonti: – il catinus in cui Riccardo e Filippo mangiano insieme è il simbolo letterario del pranzo come elemento spazio-temporale in cui coesistono la più grande amicizia e il tradimento; fonte il Vangelo: in Mc 14.20 il catinus è l’oggetto che fa riconoscere il traditore di Gesù, Giuda31; – la citazione di Dn 11.2732 fa riferimento a due re in costante rapporto di amore/odio: Antioco IV Epifane (175-165 a.C.) e il suo grande

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Understanding the Language of «amicitia». The Friendship Circle of Peter of Celle (c. 11151183), «Journal of Medieval History», 20 (1994), pp. 237-260; B.P. Patrick McGuire, The Cistercians and the Transformation of Monastic Friendships, «Analecta Cisterciensia», 37 (1981), pp. 1-63. 29 R. Hyatte, The Arts of Friendship: The Idealization of Friendship in Medieval and Early Renaissance Literature, Leiden-New York-Köln 1994, soprattutto pp. 108-132 e 211237. 30 Sulle caratteristiche dell’amicitia in Bernardo da Chiaravalle (De diligendo Deo) e in Aelredo si veda: G. Dotto, «Caritas» ed amicizia nella spiritualità del secolo XII: Bernardo di Chiaravalle e Elredo di Rievaulx, in Il concetto di amicizia nella storia della cultura europea, cur. L. Cotteri, Merano 1995, pp. 546-557; Ch. Dumont, L’amour fraternel dans la doctrine monastique d’Aelred de Rievaulx, «Collectanea Cisterciensia», 51 (1989), pp. 79-88; S. Madison Krahmer, Interpreting the Letters of Bernard of Clairvaux to Ermengarde, Countess of Britany: The Twelfth-Century Context and the Language of Friendship, «Cistercian Studies Quarterly», 27 (1992), pp. 216-250; e S. Madison Krahmer, Friend and Lover as Metaphors of Right Relation in Bernard of Clairvaux, «Cistercian Studies Quarterly», 30 (1995), pp. 15-26. Su Anselmo d’Aosta: A. Ghisalberti, «Dilecto dilectus, amico amicus, fratri frater»: l’epistolario beccense di Anselmo d’Aosta, «La Scuola cattolica», 116 (1988), pp. 339-355. Su Pietro il Venerabile: G.R. Knight, Uses and Abuses of «amicitia»: the Correspondence between Peter the Venerable and Hato of Troyes, «Reading Medieval Studies», 23 (1997), pp. 35-67. Su Giovanni di Salisbury: J. McLaughlin, «Amicitia» in Practice. John of Salisbury (c. 1120-1180) and His Circle, in England in the Twelfth Century. Proceedings of the 1988 Harlaxton Symposium, cur. D. Williams, Woodbridge 1990, pp. 165-181. Su Stefano di Rouen: Th. Haye, Ein ungeliebter Lyriker des 12. Jahrhunderts. Beobachtungen zu den kleineren Gedichten des Stephan von Rouen, «Wiener Studien», 113 (2000), pp. 281-300. 31 Mc 14.20: «qui ait illis: Unus ex duodecim qui intinguit mecum in catino … vae autem homini illi per quem Filius hominis traditur». 32 Non sfugga che Daniele è uno dei libri maggiormente politici del Vecchio Testamento.


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amico/avversario, Tolomeo Filometore d’Egitto (180-145 a.C.)33; – ancora più interessante è la citazione presente nel brano di I Sm 18.1: «et factum est cum conplesset loqui ad Saul anima Ionathan conligata est animae David et dilexit eum Ionathan quasi animam suam». Si tratta infatti di un passo – ancora una volta – tutto politico, dove l’amicizia (e certo non il sesso!) funge da antagonista drammatica alla ragion di Stato e all’ambizione personale: Gionata è l’amico per antonomasia (di Davide), è colui che per l’amicizia passa sopra anche ai propri interessi di erede legittimo. E alla morte dell’amico, Davide grida: II Sm 1.26: «doleo super te, frater mi Ionathan, decore nimis et amabilis super amorem mulierum (!)».

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La situazione per la quale Ruggero di Hoveden ritiene sensato richiamare come sfondo intertestuale il rapporto Davide/Gionata, si situa nel mezzo di una delle tante crisi tra Enrico II e Filippo Augusto, cui partecipano a vario titolo anche i figli del sovrano inglese, spesso dalla parte contraria a quella del padre. Qui siamo nell’estate del 1187, al momento in cui Filippo Augusto sta assediando Riccardo e suo fratello Giovanni (Senzaterra) chiusi nel castello di Chateauroux. All’episodio seguirà poi una tregua, stabilita il 23 giugno34. Enrico II teme che Riccardo possa di nuovo passare dalla parte del re di Francia; il parallelismo così con la situazione biblica è addirittura perfetto: Enrico II = Saul Riccardo = Gionata Filippo Augusto = Davide. III: l’ammonimento dell’eremita [v. Appendice 4]

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Anche in questo caso, una serie di considerazioni condotte in chiave letteraria e filologica conducono a un ridimensionamento del valore del brano come prova a sostegno dell’omosessualità del Cuor di Leone: – il riferimento a Sodoma non è ai peccati (sodomia) della città, ma alla

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Tolomeo fu catturato da Antioco, ma liberato grazie alle pressioni dei Romani. Antioco è un persecutore degli Ebrei, e ai due sovrani sono dedicati alcuni passi del libro di Daniele, dove Antioco, persecutore degli Ebrei, è definito il “piccolo corno”. Si veda anche Dn 11.25 «et rex Austri provocabitur ad bellum multis auxiliis et fortibus nimis, sed non stabunt quia inibunt adversum eum consilia et comedentes panem cum eo conterent illum exercitusque eius opprimeretur et cadent interfecti plurimi». 34 Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., pp. 46-48.


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sua subversio, cioè al castigo subìto da parte del Signore: Dt 29.23, come già sottolineato da Gillingham35; – l’illicitus concubitus, di cui nel brano, non è con altri maschi, ma quello extramatrimoniale, come dimostrato dal significato del nesso in numerose fonti, peraltro di tipologia differente (predicatorie, giuridiche, etc.): oltre al Vangelo (Eph 5.31), lo si ritrova in questa accezione nei Sermones di Agostino (343 [Giuseppe] «noluit impudicae mulieri ad concubitum illicitum consentire») e nel De divortio di Incmaro di Reims. Riccardo, insomma, è accusato di copula extraconiugale, di adulterio.

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È particolarmente indicativa sotto il profilo metodologico l’obiezione che, a questo riguardo, effettua Jean Flori36: «se in questo caso si fosse trattato di pratiche adulterine, come sembra suggerire John Gillingham, l’eremita si sarebbe molto verosimilmente appellato a un altro exemplum: quello di Davide e Betsabea, tra gli altri possibili». In questo caso è quanto mai evidente l’eccezionalità dei risultati che può dare un’analisi rigorosa e professionale delle fonti: la citazione di Davide c’è, anche se nessuno dei due studiosi se ne accorge! È infatti presente di nuovo l’espressione «vitae suae foeditatem confiteri non erubuit», che è tratta dall’Apologia David e dall’Expositio in Psalmos di Ambrogio37. Ancora, l’espressione peccatum proprium richiama il peccatum illud di Agostino (in Appendice 1).

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Rg 1.4.

Gillingham, Richard I and Berengaria of Navarre cit., p. 134. Flori, Riccardo Cuor di Leone cit., p. 394. Ps 24.2 «Deus meus in te confido non erubescam». E non sfugga la citazione di III


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Appendice 1 Confessione e penitenza a Messina (ottobre 1190)

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Gesta Henrici II, II, pp. 146-147 Richardus rex Angliae, divina inspirante gratia, recordatus est foeditatis vitae suae: vepres enim libidinis excreverant caput illius, et non erant eradicantis manus. Sed solus Deus […] et dedit illi cor paenitens; adeo quod ille, convocatis universis archiepiscopis et episcopis suis, qui aderant, nudus, portans in manibus tria flagella facta de virgis levigatis, procidit ad pedes eorum, et peccatorum suorum foeditatem coram illis confiteri non erubuit, cum tanta humilitate et cordis contritione, quod credatur sine dubio Illius opus extitisse, qui respicit terram et facit eam tremere. Deinde peccatum illud abiuravit, et a praedictis episcopis poenitentiam condignam suscepit; et ab illa hora factus vir timens Deum et faciens bona, ulterius non est reversus ad iniquitatem suam.

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Augustinus, Confessiones, II 1: «recordari uolo transactas foeditates meas et carnales corruptiones animae meae». Hieronimus, in Ezechielem, VII 23: «nequaquam audeas oculos tuos leuare ad chaldaeos et amatoribus pristinis ostendere foeditatem tuam; nec recorderis amplius Aegyptiorum libidinis, quorum magnitudine carnium delectabaris». Augustinus, Confessiones, II 3: «sed ubi sexto illo et decimo anno interposito otio ex necessitate domestica feriatus ab omni schola cum parentibus esse coepi, excesserunt caput meum uepres libidinum, et nulla erat eradicans manus». Augustinus, De natura boni, 48: «qui non uis mortem peccatoris, quantum ut reuertatur et uiuat: qui partibus corripiens das locum paenitentiae, ut relicta malitia credant in te, domine; qui patientia tua ad paenitentiam adducis, quamuis multi secundum duritiam cordis sui et inpaenitens cor thesaurizent sibi iram in die irae et reuelationis iusti iudicii tui; qui reddis unicuique secundum opera sua; qui in qua die conuersus fuerit homo a nequitia sua ad misericordiam et ueritatem tuam, omnes iniquitates eius obliuisceris». Ambrosius, Apologia David, IV 15: «quod erubescunt facere priuati rex non erubuit confiteri». Ambrosius, super psalmos xii, IX 5: «tantus rex, tantus propheta non erubuit peccatum proprium confiteri et ideo dictum est ei: et dominus abstulit peccatum tuum». Ps 103.32: «qui respicit terram et facit eam tremere».

Appendice 2 Rifiuto di sposare Alice di Francia

Rogerius de Hoveden, Chronica, III, p. 99 [...] his auditis rex Angliae respondit, quod sororem illius sibi ducere in uxorem nulla ratione posset, quia rex Angliae pater suus eam cognoverat, et filium ex ea genuerat, et ad hoc probandum multos produxit testes, qui parati erant modis omnibus hoc probare. Gesta Henrici II, II 160 [...] cui [Filippo Augusto] rex Angliae respondit: «Sororem tuam non abicio; sed illam ducere nequeo in uxorem, quia pater meus cognovit eam, generans ex ea filium». Quod cum regi Franciae constaret per plurimorum assertiones […].


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Appendice 3 Amicizia equivoca con Filippo Augusto

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Gesta Henrici II, II 7 [...] facta itaque pace, Richardus dux Aquitaniae, filius regis Angliae fecit moram cum Philippo rege Franciae, quem ipse in tantum honoravit per longum tempus, quod singulis diebus in una mensa ad unum catinum manducabant, et in noctibus non separabat eos lectus. Et dilexit eum rex Franciae quasi animam suam; et in tantum se mutuo diligebant, quod propter vehementem dilectionem quae inter illos erat, dominus rex Angliae nimio stupore arreptus admirabatur quid hoc esset. Et praecavens sibi in futurum, voluntatem transfretandi in Angliam, quam in animo praeconceperat, distulit donec sciret quid tam repentinus amor machinaretur. Dn 11.27: «duorum quoque regum cor erit ut malefaciant et ad mensam unam mendacium loquentur et non proficient quia adhuc finis in aliud tempus». Mc 14.20: «qui ait illis unus ex duodecim qui intinguit mecum in catino». Gratianus, Decretum II 35,6,9: «ab isto die in antea tu per nullum ingenium sociabis te huic tuae consanguineae, nec in coniugio, nec in adulterio, nec cum illa ad unam mensam manducabis et bibes, aut sub uno tecto manebis, nisi in ecclesia, aut in alio publico loco, ubi nulla mala suspicio possit esse, ut ibi coram testibus idoneis pro certa necessitate pariter colloquamini; nec aliam coniugem accipies, nisi forte post actam penitenciam tibi licentia data fuerit ab episcopo tuo, aut eius misso». Ecl 7.23: «servus sensatus dilectus quasi anima tua non defraudes illum libertate neque inopem derelinquas illum». I Sm 18.1: «et factum est cum conplesset loqui ad Saul anima Ionathan conligata est animae David et dilexit eum Ionathan quasi animam suam».

Appendice 4 L’ammonimento dell’eremita

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Rogerius de Hoveden, Chronica, III, pp. 288-289 [...] eodem anno venit quidam heremita ad regem Richardum, et praedicans ei verba salutis aeterne dixit: «Esto memor subversionis Sodomae, et ab illicitis te abstine, sin autem veniet super te ultio digna Dei». Sed rex, inhians terrenis, et non his quae Dei sunt, non potuit tam cito animum ab illicitis revocare, nisi datum ei fuisset desuper, vel signum videret. [Il Signore gli manda una grave malattia, e allora re Riccardo:] coram se viris religiosis vitae suae foeditatem confiteri non erubuit, et accepta poenitentia, mulierem suam, quam a multo tempore non cognoverat, recepit, et abiecto concubitu illicito, adhaesit uxori suae, et facti sunt duo in carne una; et dedit ei Dominus sanitatem tam corporis quam animae Dt 29.23: «sulphure et salis ardore conburens ita ut ultra non seratur nec virens quippiam germinet in exemplum subversionis Sodomae et Gomorrae […] quas subvertit Dominus in ira et furore suo». Augustinus, Sermones, 93: «si ergo ab illicitis abstinentia bona est, unde uirginitas nomen accepit».


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Augustinus, in Evangelium Iohannis, XXXVIII 4: «quid est, terram manducatis? terrenis pascimini, terrenis delectamini, terrenis inhiatis, sursum cor non habetis». Ambrosius, Apologia David, IV 15: «quod erubescunt facere priuati rex non erubuit confiteri. Ambrosius, super psalmos xii», IX 5: «tantus rex, tantus propheta non erubuit peccatum proprium confiteri et ideo dictum est ei: et dominus abstulit peccatum tuum». III Rg 1.4 «erat autem puella pulchra nimis dormiebatque cum rege et ministrabat ei rex vero non cognovit eam». Augustinus, Sermones, 392: «qui post uxores uestras uos illicito concubitu maculastis, si praeter uxores uestras cum aliqua concubuistis; agite poenitentiam, qualis agitur in ecclesia, ut oret pro uobis ecclesia». Hincmarus Remensis, De divortio, IV 1,5: «sicut ergo satius est mori fame quam idolotitis vesci, ita satius est defungi sine liberis quam ex inlicito concubitu stirpem quaerere». Eph 5.31: «propter hoc relinquet homo patrem et matrem suam et adherebit uxori suae et erunt duo in carne una».


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Amicus amico: l’amicizia nella pratica epistolare del XIII secolo


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«Quoniam que non extollitur amicitia subito tabescit et alget, necessarium inter amicos esse dinoscitur se relativis affectibus prevenire. Nam ager incultus, nisi vomeris acumine pluries rescindatur, fructus denegat expectatos. Ignis etiam ad hoc excitatur, ut ardeat, non autem concitatus morte deperit extintiva. Sic per locum a simili, amicorum unio de facili solvitur, que non est ex rebus intrinsecis excitata. Ideoque de bonis tuis, de tua tuorumque continentia expectantis non obmittas desideria recreare»1. In questo modo vengono descritti i caratteri dell’amicizia in una lettera di autore ignoto contenuta in una collezione di dictamina proveniente dall’Italia centro-meridionale e conservata in un manoscritto parigino2. Si tratta di una delle tante epistole che – lungi dall’essere fittizie o puri esercizi stilistici – avevano funzione esemplare e venivano inserite in quelle raccolte che fungevano da “manuali” di bello stile per notai, maestri e studenti di retorica3. In questo caso, le riflessioni sul significato dell’amicizia sono

1 Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini, 19), n. 212, p. 252. Traduzione: «poiché l’amicizia che non si eleva subito si consuma e si raffredda, si sa che è necessario che tra gli amici ci si prevenga l’un l’altro con il proprio affetto. Infatti il campo incolto, se non viene solcato molte volte dal vomere appuntito, nega i frutti attesi. Anche il fuoco è attizzato per questo, perché arda, e se non è ravvivato si spegne e si estingue definitivamente. Così, similmente, si scioglie facilmente l’unione degli amici che non è tenuta viva da sentimenti intimi. Perciò non omettere di far rivivere i desideri di chi attende di conoscere le tue buone cose e come ve la passate tu e i tuoi». 2 Si tratta del ms. conservato a Parigi, Bibl. Nat., Lat. 8567: sul codice cfr. la descrizione contenuta nell’introduzione a Una silloge epistolare cit., pp. LXI-LXII; e a Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione nazionale dei testi mediolatini, 9), pp. LVII s. 3 Sulla questione dell’organizzazione di questi cfr. F. Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, ricezione. I problemi editoriali delle raccolte di dictamina di epoca sveva, in


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ispirate dal desiderio di avere notizie relative alle vicende dell’interlocutore. Insomma, non hanno finalità concrete e contingenti, ma sono dettate solo dall’affetto, così come in quest’altra lettera, sempre contenuta nello stesso manoscritto, in cui il cardinale Giordano di Terracina, il più alto ufficiale della cancelleria pontificia, scrive al notaio imperiale Nicola da Rocca4: «totum quidem se tribuit affluentia caritatis amicus, sed illum fortiter corde tenet, cui se totaliter corde prebet. Plene utique possidetur, sed et plene suum possidet intra precordia possessorem. Hoc enim habet vera dilectio, ut quem amplexa fuerit, a suis amplexibus non relaxet, nec diuturnitate lentescat, sed succedente tempore vegetetur, antiquitate non languescat, sed vigeat, senio vetustatis refloreat, adolescat annosa, cana pubescat»5. Queste affermazioni sui legami che uniscono gli amici sono caratterizzate dai preziosismi retorici che caratterizzano la prosa di chi, come Giordano di Terracina, fu tra i più raffinati dictatores dell’epoca6, ma servono concretamente a rassicurare l’interlocutore sulla benevolenza della sua protezione, che sarebbe rimasta invariata anche se la situazione contingente – forse caratterizzata dalla disfatta di Manfredi del 1266 – appariva complessa e pericolosa: insomma, al di là dell’artificiosa ricchezza stilistica, rivelano comunque sincerità e profondità di sentimento. Le dichiarazioni di amicizia e le riflessioni sul suo valore, tuttavia, possono essere variamente declinate, a seconda della situazione, e divenire più dirette, come in questo caso: «habet hoc proprium amicabilis sinceritatis

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Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, II, Ariano Irpino 2009, pp. 7-33. 4 Sui personaggi cfr. P. Sambin, Un certame dettatorio tra due notai pontifici, Roma 1955; nonché l’introduzione di Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XII-XVIII e passim. 5 Ivi, n. 56, pp. 76-77: «certamente l’amico offre tutto se stesso con abbondanza di carità, ma tiene fortemente in cuore colui a cui si offre col cuore totalmente. E certamente è posseduto pienamente, ma mantiene interamente nel petto colui che lo possiede. Infatti, il vero affetto ha questo, che colui che avrà abbracciato, non lo scioglie dai suoi abbracci, né li allenta nella lunga durata, ma si rafforza col passare del tempo, non languisce ma rinvigorisce negli anni, rifiorisce col declino della senilità, ringiovanisce se anziano, torna fanciullo se vecchio». 6 È probabile che Giordano di Terracina, influente vice-cancelliere pontificio, sia stato l’organizzatore di due degli epistolari più importanti dell’epoca: quello di Tommaso di Capua e quello di Pier della Vigna. Cfr. E. Heller, Die Ars dictandi des Thomas von Capua, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Kl.» (1929), pp. 7 s.; H.M. Schaller, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 21 (1965), pp. 407 ss.; Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. LXXX ss.


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integritas, ut amicorum alter alterius onera subeat, nec reclamet si aliquando pungitur, sed cogitet inferre que patitur et pati penset moderate quod infert. Sed habet aliud adiacens pura dilectio, ut, si plus debito tangitur obviet, et si plus concepto recipit, illata nullo modo patiatur»7. In questa lettera di Nicola da Rocca, la considerazione sul giusto equilibrio che deve regolare il rapporto amichevole funge da rimprovero per i destinatari della lettera, ovvero i rettori di Monte Cassino, i quali vengono avvertiti che sono stati superati i limiti e sono chiamati a porre rimedio a una indebita sottrazione di censo. Dunque, le dichiarazioni di amicizia, nelle raccolte esemplari di dictamina, non riguardano solo l’eterea sfera affettiva, ma anche la contingente materialità. Anzi, sono frequentissime le lettere con cui l’amico si rivolge all’amico per chiedergli favori o cose, o lo ringrazia per averlo accontentato. Così, ci sono stati trasmessi biglietti e lettere con cui si accompagna l’invio di pesci, di vasi o di libri8; oppure in cui si ringrazia per il dono di fichi o di un cane da caccia9; oppure si chiede il prestito di un cavallo o di una semplice cote10. E non si tratta di lettere contenute solo nella raccolta di Nicola da Rocca o del suo gruppo, legato a Pier della Vigna: molte sono conservate anche nell’epistolario di Tommaso di Capua, dove sono in numero così cospicuo che Emmy Heller dedicò ad esse anche un lungo saggio11. Insomma, le lettere tra amici, qualunque argomento abbiano, costituiscono una parte notevole degli epistolari del XIII secolo. Anzi, evidentemente, esse erano così frequenti che risultava importante anche formalizzare le norme che ne regolavano la parte più delicata, quella che richiedeva maggiore attenzione e diplomazia, ovvero la salutatio12. Poiché, infatti,

7 Ivi, n. 111, p. 130. La prima frase della lettera-modello si trova, in forma simile, anche

in Das Baumgartenberger Formelbuch, ed. H. Baerwald, Wien 1866 (Fontes Rerum Austriacarum, Diplomata et acta, XXV), p. 102, dist. XXI, col titolo «de colenda amicicia». Traduzione: «l’integrità dell’amicizia sincera ha questo carattere proprio, che, tra gli amici, l’uno si assume agli oneri dell’altro, né si lamenta se viene talvolta disturbato, ma pensa a sopportare ciò che subisce e si preoccupa di subire con equilibrio ciò che sopporta. Ma il puro affetto ha anche un’altra caratteristica, che, se si dà più del dovuto, e si riceve più del consentito, non accetta in alcun modo ciò che viene imposto». 8 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., rispettivamente nn. 130, 133, 136. 9 Cfr., rispettivamente, ivi, n. 134; e Una silloge cit., n. 215. 10 Cfr. ivi, rispettivamente nn. 218, 220. 11 Cfr. E. Heller, Der kuriale Geschäftsgang in den Briefen des Thomas von Capua, «Archiv für Urkundenforschung», 13 (1935), pp. 198-318. 12 Sulla tradizione retorica relativa alla definizione della salutatio come una delle principali parti dell’epistola cfr. le note di commento di Gian Carlo Alessio alla sua edizione di


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è dalla salutatio che comincia a dipendere la disponibilità o l’attenzione del destinatario dell’epistola, è già in essa che il mittente – con l’adeguata scelta dei titoli con cui appellare il destinatario, o con quella dei termini finalizzati a dichiarare il proprio affetto o il proprio rispetto – deve propiziarsi il favore dell’interlocutore. Per questo, la costruzione di una buona salutatio diventa una tecnica, una scienza che non può ammettere errori: sbagliare la formula di saluto può equivalere a rendere fragili le fondamenta su cui deve appoggiare l’intera costruzione epistolare. Chi scrive, dunque, deve sapersi guadagnare la simpatia e la benevolenza dell’interlocutore, rivolgendosi a lui in modi precisi e ben studiati e deve essere in grado di distinguere tra i diversi destinatari e adattare al loro livello culturale e al loro rango le forme e i modi della prosa da adottare. In questo contesto, naturalmente, particolare attenzione ricevono le esemplificazioni relative alle comunicazioni ufficiali e istituzionali, ma, nelle trattazioni specifiche, non mancano neppure quelle, per dir così, di tipo più informale. Così, solo per fare qualche esempio, in una Summa salutationum di età sveva si prescrive: «amicus amico hoc modo: “Predilecto amico suo I.”; vel “intimo et precordiali”; vel “speciali amico suo et quam plurimum diligendo R. vota salutis et gaudii”; vel “salutem et quam sibi desiderat sospitatem”; vel “salutem quam sibi”; vel “quicquid Lelius Scipioni”; vel “salutem et omnem bonum”; vel “gaudium cum salute”; vel “salutem et hominis interioris affectum”; vel “se sibi”; vel “se et sua pro se et suis”; vel “salutem et intimi amoris constantiam”; vel “salutem cum videndi desiderio”; vel “salutem et prosperos ad vota successus”; vel “salutem et indissolubile amoris vinculum”»13. Tali formule sono di tipo, per dir così, generico, perché, parlando del modo in cui salutano e vengono salutati alcuni particolari rappresentanti del potere o membri di determinati gruppi sociali, si fanno esemplificazioni più specifiche. E così come si riscontra nelle V

Bene Florentinus, Candelabrum, Padova 1983. Per una trattazione più ampia e dettagliata cfr., però, C.D. Lanham, Salutatio Formulas in Latin Letters to 1200. Syntax, Style, and Theory, München 1975. 13 F. Delle Donne, Le formule di saluto nella pratica epistolare medievale. La Summa salutationum di Milano e Parigi, «Filologia Mediolatina», 9 (2002), pp. 251-279: 278. La redazione della Summa che è stata citata è quella offerta dal ms. di Milano, Bibl. Ambrosiana, E 59 sup., c. 68r-v, che sembra essere stata prodotta in Italia centro-meridionale intorno al 1227. Traduzione: «l’amico scrive all’amico in questo modo: “Al suo prediletto amico I.”; oppure “intimo e profondo”; o “al suo speciale e amatissimo amico R. con i voti di salute e felicità”; o “augurando la salute e il benessere che desidera”; o “la stessa salute che augura a se stesso”; o “tutto quello che augura Lelio a Scipione”; o “salute e ogni


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Tabulae salutationum di Boncompagno da Signa, nella Summa di Guido Faba, nell’Ars di Tommaso di Capua, o nel Candelabrum di Bene Fiorentino14, si propone una variegata casistica in cui si esplicitano i modi in cui un amico viene salutato dall’imperatore, dal papa, dai duchi, dai milites o dai rustici. Insomma, possono essere vari i modi di rivolgersi agli amici, e varie possono essere anche le caratterizzazioni dell’amicizia, diversificate soprattutto nell’uso dei termini usati a suo corredo. Così, ad esempio, nelle lettere del cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, rimanendo nel campo delle relazioni affettive, si parla di amicitiae foedus, di amicorum affectio, di constantia amicitiae purae, di amicitia florigera15; ma, passando in quello dei rapporti politici, si incontrano anche espressioni come pacis amicus, amicus Dei e philosophiae amicus, o, al contrario, amicus erroris, amicus caedis e rebellionis amicus16. Ovvero, a seconda della situazione o del messaggio che si vuole trasmettere, si attribuiscono all’amicizia non solo i tratti distintivi positivi, ma anche quelli negativi; questi ultimi aggravati ulteriormente dal subdolo stravolgimento di un atteggiamento virtuoso in un’applicazione viziosa ed empia. Tuttavia, in questi ultimi casi abbiamo a che fare con giochi di variazione semantica di un termine, che riguardano più il suo aspetto denotativo che quello connotativo. E, in questo contesto, non si è inteso procedere a

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bene”; o “felicità e salute”; o “salute e affetto profondo”; o “con tutto se stesso”; o “con tutto se stesso e le sue cose per lui e i suoi”; o “salute e costanza di amore profondo”; o “salute, con la speranza di incontrarsi”; o “salute e prosperi successi desiderati”; o “salute e indissolubile vincolo d’amore”». La Summa, però, è tràdita anche in un’altra redazione, che sembra risalire al 1265-1268, conservata nel ms. Paris, Bibl. Nat., Lat. 8630, cc. 1r-4r, in cui il testo citato viene reso così: «sic scribit amicus amico: “Predilecto amico suo”; vel aliter “intimo et precordiali etc.”; vel aliter “speciali amico suo quam plurimum diligendo, S. salutem et vota salutis et gaudii”; vel aliter “quam sibi”; vel aliter “salutem et omnem bonum”; vel aliter “gaudium cum salute”; vel aliter “se et sua”; vel aliter “intimi amoris constantiam”; vel aliter “cum desiderio revidendi”; vel aliter “prosperos ad vota successus”» (Delle Donne, Le formule di saluto cit., p. 279). 14 Cfr. G. Voltolina, Un trattato medievale di ars dictandi. Le V tabule salutationum di Boncompagno da Signa, Casamari 1990, pp. 18, 21, 30, 33, 35, 37; Guido Faba, Summa dictaminis, ed. A. Gaudenzi, «Il propugnatore», n. ser., 3 (1890), pp. 300-309: 307 (par. 26); Heller, Die Ars dictandi cit., p. 30 (par. 20); Bene Florentinus, Candelabrum cit., III 44, 4. 15 Per l’edizione a stampa dell’epistolario di Pier della Vigna si fa riferimento a quella curata da Johann Rudolf Iselin (Iselius), Basilea nel 1740. Le espressioni citate si trovano, rispettivamente, alle pp. 133 e 187; 150; 419; 438. 16 Cfr. ivi, rispettivamente alle pp. 113 e 458; 199; 494; 152; 249, 525.


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uno spoglio dell’uso dei lessemi amicus e amicitia, e dei suoi campi applicativi, che pure, forse, potrebbe condurre a risultati interessanti. Piuttosto, si è preferito procedere a un’indagine sulle epistole dichiaratamente indirizzate da amico ad amico, esaminandole non solo nell’aspetto dei contenuti e delle finalità più o meno concrete, ma anche in quello, per così dire, autoreferenziale. Già in precedenza si è fatto riferimento a lettere in cui il mittente scrive a un amico riflettendo sul significato della vera amicizia; ma qualche ulteriore elemento di analisi si può trovare nelle considerazioni indirizzate dall’abate di Montecassino Bernardo Ayglerii17 a Nicola da Rocca iunior, nipote omonimo del notaio imperiale di cui abbiamo già parlato, e che fu attivo nelle cancellerie di alcuni rappresentanti della gerarchia ecclesiastica18. «Evangelicus dum pulsat amicus ad amici ostium importune, propter suam importunitatem et amicum surgere ac ostium aperire necnon et compellit concedere postulata, ostendens surdum ad instantes preces amici, vel accidiosis occupationibus torpere, vel se de verorum non esse numero amicorum. Obsequitur enim amicitia semper libens, nec, herens in obsequiis, tarditate procrastinat prestare sibi possibile, illi utile ad presens vel aliquando profuturum. Amor enim quaslibet rumpit moras et difficultates non invenit, facile reputat quod est grave, pondera non librat, distancias non metitur, penurias non allegat, impossibile ut necessarium adgreditur, atque fit contingens quod non contingere credebatur. Qualiter igitur dilectus diligere se ostendit, qui vocationibus non respondet, pulsatus non aperit, rogatus non audit et sibi facillima tacendo denegat, cum sine sui penuria ditare possit amicum?»19. Con il riferimento esplicito al Vangelo di Luca (11, 6-7), l’abate Bernardo rimproverava Nicola perché era costretto a insistere con lui, mentre le regole della

17 Fu abate di Monte Cassino dal 1266 al 1282: cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, München 1973, pp. 329 ss. 18 Sul personaggio cfr. l’introduzione di Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XIX s. e passim. 19 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 101, p. 120: «quando l’evangelico amico bussa importunamente alla porta dell’amico, e con la sua importunità spinge l’amico ad alzarsi, ad aprire la porta e a dare ciò che viene chiesto, se ci si mostra sordi alle preghiere pressanti dell’amico, o si è intorpiditi dall’accidia o non si può essere annoverati tra i veri amici. Infatti, l’amicizia fa rispondere sempre con piacere, e non si attarda in atti di deferenza rimandando ciò che per sé è possibile, e per l’altro è utile al momento o lo sarà in futuro. L’amore, infatti, rompe qualsiasi indugio e non trova difficoltà, reputa facile ciò che è difficile, non valuta i pesi, non misura le distanze, non si scusa con la penuria, va incontro all’impossibile come fosse necessario, e rende fattibile ciò che si pensava non lo fosse.


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sincera amicizia dovrebbero rendere superflua ogni richiesta. Per che cosa lo sollecitasse non è possibile saperlo. Può darsi che gli servisse un oggetto o un favore; ma non è da escludere che lo stesse semplicemente invitando a scrivergli. E non tanto per ricevere notizie sulla salute o sui successi del corrispondente, quanto per iniziare con lui un certame dettatorio, consistente in uno scambio di epistole retoricamente ornate che non avevano alcun’altra funzione pratica, se non quella di mettere alla prova l’elaborazione della propria e dell’altrui prosa. È questo, forse, uno degli aspetti più singolari della produzione epistolare di questo periodo. Infatti, i certami dettatorî dovevano costituire uno degli svaghi preferiti dai dictatores, che raramente perdevano l’occasione di sfidare gli amici, e raramente, se chiamati in causa, si tiravano indietro, dal momento che ce ne sono stati tramandati diversi20. L’impulso a confronti di questo tipo era dato, probabilmente, dal desiderio di sfuggire alla routine di un lavoro faticoso, che non permetteva di dare libero sfogo alla fantasia creativa, troppo vincolata dai rigidi impegni formali e professionali di una cancelleria21. Per comprendere meglio la situazione, è opportuno seguire uno scambio epistolare – ovvero una controversia, come si dice nel codice che lo conserva22 – intervenuto, intorno al 1246, tra Nicola da Rocca e Pier della Vigna, che, senza essere generato da un’esigenza concreta di comunicare qualcosa di preciso, prosegue per ben 8 lettere23. Si tratta di una vera e propria occasione di svago, proposta dal più anziano e influente dictator capuano, Pier della Vigna, che spiega chiaramente i motivi che lo spingono a rivolgersi al corrispondente: «credo quod labores asperos homo faci-

Dunque, in che modo l’amato dimostra di amare, se non risponde quando lo si chiama, se non apre quando gli si bussa, se non ascolta ciò che gli viene chiesto e, tacendo, nega cose per lui facilissime, potendo arricchire l’amico senza impoverirsi?». 20 Per agoni di questo tipo cfr. Sambin, Un certame cit., nonché i vari contenuti in Nicola da Rocca, Epistolae cit., e in Una silloge cit. 21 Sulla questione cfr. l’introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XXXI-LVI, da cui si riprendono qui alcune considerazioni; nonché B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen XIIIe-XIVe siècle, Rome 2008, pp. 341-357; e Grévin, Regole ed implicazioni di un gioco di chierici: le giostre retoriche (certamina) del personale delle cancellerie imperiale e papale nel secondo terzo del tredicesimo secolo (circa 1235-circa 1280), «Ludica. Annali di storia e civiltà del gioco», 13-14 (2007-2008), pp. 145-158. 22 «Controversia habita inter Petrum de Vinea et Nicolaum de Rocca» viene intitolato l’intero scambio nel ms. conservato a Parigi, Parigi, Bibl. Nat., Lat. 8567, c. 100v. 23 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., lettere nn. 16-23, pp. 34-42.


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lius tolerat quos mollire potest colloquiis amicorum. Propter quod ego […] te, carissime, deprecor […] ut litterarum tuarum solaciis penas meas frequenter allevies, sciturus quod tibi etiam verborum lenimenta proficiunt qui laborum similia pateris detrimenta»24. L’avvio si presenta come l’occasione per offrire a se stesso e all’amico interlocutore un diversivo, un divertimento che renda più sopportabili i gravosi, quotidiani impegni lavorativi. Tuttavia, non si tratta solo di un invito a intraprendere uno scambio epistolare in cui si possa reciprocamente godere dell’inventiva retorica dell’altro. Si tratta di una vera e propria provocazione, che, implicitamente, delimita anche nel gioco e nello scherzo il campo di quello che subito si profila come un agone. Lo testimonia già il fatto che il mittente di quella prima lettera, Pier della Vigna, volontariamente non rivela il proprio nome, spiegando, poi, nella lettera successiva, la ragione della sua decisione: «quod informis epistola nomen non signavit opificis, quod querendum expressius non notavit amicum, causa fuit ne, in scriptione domini, pomposa procederet et quesitum socium, intitulationis ope, cognosceret, quem experti ducis indicio facilius poterat invenire»25. Nello scambio epistolare viene rispettato un preciso gioco delle parti: da un lato c’è il più giovane dictator che si difende senza attaccare, dichiarando continuamente la propria inferiorità; dall’altro c’è il più anziano e più influente logoteta e protonotario imperiale, che, trasformato l’amico in un avversario, lo esorta a gareggiare senza timore. Così Piero, nella prima lettera di invito, si rivolge al suo interlocutore come a un pari grado nella dottrina del dictamen, mentre Nicola, nella lettera di risposta, si dichiara inferiore per capacità e ruolo. Ciascuno, però, riutilizza e varia gli argomenti e le figure retoriche usate dall’altro, in un gioco di rimandi attraverso il quale ognuno dimostra la propria inventiva e creatività metaforica. Nella sua prima lettera, Nicola esordisce: «primis nudatus interulis occurrit oratorius scribentis affectibus, hiis diebus, sub dubietate libellus, qui, nec personam expressim mittentis intitulans, nec receptoris essentiam

24 Cfr. ibid., n. 16, p. 34: «credo che l’uomo tollera più facilmente le aspre fatiche, che può addolcire grazie alle conversazioni con gli amici. Perciò [...] ti prego, carissimo, [...] di alleviare spesso le mie pene con le gioie delle tue lettere, sapendo che i lenimenti delle parole giovano anche a te, che sopporti i danni di simili fatiche». 25 Cfr. ivi la lettera 18, p. 36: «il fatto che l’epistola priva di perfetta struttura non ha dichiarato il nome del suo autore, e che non ha indicato in maniera esplicita quello dell’amico che cercava, ha la sua causa nel fatto che, nella composizione del suo signore, non intendeva procedere pomposa e riconoscere, grazie all’intitolazione, l’amico cercato, che poteva trovare piuttosto facilmente con l’indizio dell’esperta guida».


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subfigurans, iudiciarii ritus ornamenta redoluit, dum labores iudiciarios suasione molliri dictaminis exquisivit. Errasse siquidem videbatur ille succinctus interpres in invium, dum, ad me dyametrum dirigens, lactis indicia de petre soliditate mungebat»26. Il divertito gioco evocativo comincia immediatamente con la stigmatizzazione della nudità della lettera di Piero, priva dell’intitulatio e dell’inscriptio, rivelando immediatamente il carattere tipico dello stile di quella scuola retorica, generalmente definita capuana27, che tende all’astrazione dei concetti. Quello stile trasforma le azioni e i termini della contingenza in un sottile arcano verbale, quasi come se avesse il timore di far rapprendere nella concretezza di un’immagine troppo vivida i propri pensieri. I concetti, così, vengono espressi con parole che appartengono al sermo quotidiano, ma che vengono svuotate di tutte le loro connotazioni più comuni e riempite di nuovi e impensati significati, acquistando una leggerezza che sfiora la vacuità, per costruire trame tanto sottili da risultare spesso impalpabili. Così, i giochi metaforici vengono, in ogni momento e in ogni modo, esaltati e impreziositi dal parallelismo delle costruzioni sintattiche e dai giochi verbali, che rischiano quasi di passare inosservati in tanto complesse elaborazioni retoriche. Il dum della prima frase viene parallelisticamente ripreso nella seconda, dove il tema della nudità e della mancanza viene ripreso in maniera concreta con l’aggettivo succinctus, ma poi, in maniera più ricercata con l’inconsueto dyametrum, e infine, in maniera figurata, con l’immagine del latte munto dalla pietra, nella quale si nasconde anche un gioco verbale sul nome del corrispondente. Una gradatio sottilmente costruita che mira a negare, nel momento stesso in cui viene formulata, l’affermazione di inadeguatezza a competere con la prosa di chi lo ha sfidato.

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Cfr. ivi la lettera 17, p. 35: «spogliato dei primi indumenti si è volto, in questi giorni, agli affetti di chi scrive dubbioso un libello oratorio, che, né indicando espressamente nell’intitolazione la persona del mittente, né delineando la figura del destinatario, recava ancora l’odore degli ornamenti delle pratiche giudiziarie, mentre cercava di alleviare quelle fatiche con l’invito a scrivere. Certamente, quel succinto interprete sembrava aver sbagliato trovando un ostacolo sulla strada, dal momento che, dirigendosi a me che stavo in mezzo, cercava di mungere parvenze di latte dalla durezza della pietra». 27 La definizione di “scuola capuana” risale a K. Hampe, Über eine Ausgabe der Capuaner Briefsammlung des Cod. lat. 11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», (1910, 8). Tuttavia, quella tradizione retorica sembra comune a tutta la zona della Terra di Lavoro, e forse faceva capo a Montecassino: per una rettifica e una puntualizzazione della questione cfr. F.


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Ma le mirabolanti invenzioni retoriche non sono ancora terminate: «sane, si verum fateor, nec sit mihi missor incognitus: unde dominus invitari debuerat, inde famulus redditur invitatus; unde lenta precurrisse credebat epistola, inde preventa claudicans nomen induit responsalis»28. Sulla ripetizione del nesso unde-inde si viene a innestare il gioco di parole, con costruzione chiastica, basato sui concetti della velocità e della lentezza, del correre e dello zoppicare. Ma neanche in questa nuova immagine si perde il filo conduttore della metafora della nudità, perché essa viene richiamata attraverso l’uso del verbo induo, rivelando un complesso studio elaborativo, frutto sì di attenta meditazione, ma anche di fervida e immediata inventiva: non bisogna dimenticare, infatti, che i certami dettatorî di questo tipo venivano svolti parallelamente al lavoro ufficiale di cancelleria, che di certo non doveva essere né poco impegnativo, né doveva lasciare molto tempo libero. L’inventiva, tuttavia, non appare del tutto espressa nella seconda lettera di Pier della Vigna, forse ancora non stuzzicato abbastanza dal contendente. Così, il Capuano incoraggia il corrispondente, ancora troppo schivo: «non videor, ut dixisti, in te lac de lapide stolide mungere, sed de philosophie plenis uberibus lactea pocula prudenter haurire. Scio enim quod, qui cotidie tanta exhibes, qui talia indesinenter effundis, nisi scientie opibus affluenter afflueres, iam tua liberalitas defecisset. Eya ergo, frater, scribas assidue, nec te tedeat de thesauro isto tales margaritas educere, cum aperte connicias quod tua opulentia opulentior redditur largitate»29. Piero

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Delle Donne, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana», ser. III, 4 (1993), pp. 268-290: 287-290; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti retorici latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, cur. F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 133157; S. Tuczek, introduzione a Die Kampanische Briefsammlung (Paris lat. 11867), Hannover 2010 (M.G.H., Briefe des späteren Mittelalters, 2), pp. 37-42. Sulla diffusione della tradizione retorica campana cfr. da ultimo B. Grévin, Les mystères rhéthoriques de l’État médiéval. L’écriture du pouvoir en Europe occidentale (XIIIe-XVe siècle), «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 63 (2008), pp. 271-300: 278-281; inoltre, Grévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp. 267-270. 28 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 17, p. 35: «certamente, a dire il vero, non è che mi sia ignoto il mittente: laddove era il signore a dover essere invitato, lì il servo viene invitato; laddove la lenta epistola credeva di aver corso veloce, lì, anticipata perché zoppicava, si vestì col nome di chi risponde». 29 Cfr. ivi la lettera 18, p. 36: «non credo, come hai detto, di mungere stolidamente il latte dalla pietra, ma di abbeverarmi prudentemente alle coppe del latte munto dalle gonfie mammelle della filosofia. So, infatti, che se tu, che mostri tanta abilità ogni giorno e che


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riprende, arricchendolo e variandolo, il tema del latte munto dalla pietra30, che diventa latte attinto dalle mammelle della filosofia, a cui si abbevera Nicola. E se Nicola, nella lettera precedente, aveva dimostrato la propria perizia nell’elaborare giochi di parole, Piero non vuole apparire inferiore, e si diverte a variare il tema del verbo affluere e quello del sostantivo opulentia, che a loro volta sono inseriti in un contesto dominato dalle immagini contrastive dell’abbondanza e della privazione, suggerite soprattutto dai verbi effundere e deficere, e dai sostantivi liberalitas e largitas. I giochi costruiti sulla variazione tematiche delle parole, comunque, costituiscono una caratteristica comune dell’epistolografia dell’epoca31 e vengono abbondantemente utilizzati ancora nel prosieguo del certame. Ma più interessante, forse, è il modo in cui viene caratterizzato il certame, che appare quasi come uno scontro fisico, combattuto con la lama della lingua, paragonata a quella di spade e pugnali. Sin dall’esordio della sua terza lettera, infatti, Pier della Vigna dice: «quoscumque triumphos de duello dictaminis strenuus prestoleris athleta, ego tamen, et si fortuna consentiat, nullam quero de amicabili dimicatione victoriam, ex qua certando solummodo redditur pugil lingua fecundior, ex qua pugnatoris audacia vincendo succumberet, quia dum deficeret hostis obstaculum, virtus exercitio valida otioso tripudio perderetur. Sequitur ergo ut adversario tuo, non cedendo sed confligendo, complaceas, qui tunc succubuisse se crederet, cum obicem non haberet»32. Lo scontro verbale viene raffigurato come una contrapposizione di due lottatori che si fronteggiano per trionfare

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tali capacità effondi senza requie, non le facessi sgorgare abbondantemente dalle risorse della scienza, sarebbe già venuta meno la tua liberalità. Orsù, dunque, fratello, scrivimi assiduamente, e non ti stancare di trarre tali perle fuori da questo tesoro, dimostrando chiaramente che la tua opulenza è resa ancora più opulenta dalla generosità». 30 Nella lettera di Nicola da Rocca si legge «petre soliditate», mentre nella lettera di Pier della Vigna si legge «lapide stolide»: probabilmente la differenza è da imputare a un gioco verbale variativo, piuttosto che a un errore nella tradizione manoscritta. 31 Cfr., ad es., F. Delle Donne, Le consolationes, cit., p. 281; e Delle Donne, La fondazione dello Studium di Napoli, «Atti della Accademia Pontaniana», n. ser. 42 (1993), p. 183. 32 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 20, pp. 37-38: «per tutti i trionfi ottenuti dal duello oratorio che tu, strenuo atleta, puoi attenderti, io, certamente, se solo la fortuna lo consente, non cerco nessuna vittoria ottenuta con uno scontro amichevole, perché solo lottando è resa più feconda la pugile lingua, per la quale, pur vincendo, soccomberebbe l’audacia del lottatore, giacché, venendo meno l’ostacolo del nemico, la virtù, resa valida dall’esercizio, si perderebbe nell’ozioso tripudio. Ne consegue, dunque, che non ritirandoti, ma combattendo tu debba compiacere il tuo avversario, che allora può credere di aver perso, quando non riesce a trovare opposizione».


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onorevolmente. Per questo il duellum deve essere leale: l’avversario è uno strenuus athleta33 che non può ritirarsi e che non può contendere con amicabilis dimicatio, altrimenti il vincitore non può trarne onore. E se Nicola da Rocca, nella lettera di risposta, sembra timidamente spostare il campo della contesa dalla palestra all’aula tribunalizia o alla sala conviviale, pur continuando ad usare immagini belliche, Pier della Vigna, nella sua successiva lettera, ribadisce perentoriamente quale debba essere il terreno dello scontro: «etsi non sit de more pugnantium indefessos humeros congressoris appetere, ego tamen in hac palestra dictaminis optavi semper hostis audaciam et colluctatoris instantiam inflexibilem requisivi, quoniam, ut opinor, quicumque fugientis terga persequitur aut non rebellantem percutit inimicum, turpia bella congreditur et ignominiosa victoria gloriatur»34. L’avversario è divenuto un nemico in fuga, che sarebbe disonorevole colpire alle spalle. L’etica cavalleresca, dunque, impone ad entrambi di continuare a combattersi: «restat igitur in expertum militem insilire». Ognuno deve affilare sulla propria cote sicae et gladii, così come impongono i bellica iura, perché, a questo punto, lo scontro deve proseguire fino a quando uno dei due sarà costretto a soccombere. Ma, ormai, lo scontro, evidentemente, è durato troppo a lungo: la fantasia dei due dictatores è scemata, e le metafore si fanno sempre più ripetitive e sottili. Così, Nicola da Rocca si ritira: «sed lingue loquacitas, utilis in enigmate, iurgium quod orationis blande suasio reddit audacius, tamquam ferrum, quod ferri polituris acuitur, quanto perdignius purgari se cogitat, tanto pignoris emolumenta fecundioris acquirit. Ne igitur obvius reddar et displicens, unde placere credidi, forsan insipidus, illa repetita petitio sub silentii clave recluditur, oblate penne vestre mysterio tanto recipiendo solennius, quanto, que sine cythara luderet, discordiam lire modificans, gratiorem efficiet melodiam»35. Nicola da Rocca, con una dichiarazione di falsa modestia, afferma di non essere più in grado di affrontare il suo contendente sul campo scelto da lui, e perché la sua prosa non appaia obvia, displicens e insipida,

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Per un’immagine simile cfr. ivi l’inizio della lettera 70, p. 89. Ivi, n. 22, p. 40: «anche se non appartiene al costume dei lottatori avventarsi sulle instancabili spalle dell’avversario, io, tuttavia, in questa palestra oratoria, ho sempre desiderato l’audacia del nemico e ho sempre cercato l’inflessibile veemenza del contendente, poiché, come credo, chiunque insegue il fuggitivo che volge le spalle o colpisce il nemico che non oppone resistenza, ingaggia turpi battaglie e si gloria di una vittoria ignominiosa». 35 Ivi, n. 23, p. 42: «la loquacità della lingua, utile nell’escogitare enigmi, lo scontro che la persuasione della blanda orazione rende più audace, come il ferro che è acuito dalle levi-


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la rinchiude sub clave silentii, così che la melodia prodotta dalla cetra di Pier della Vigna non venga guastata dalla sua discorde lira. In questo modo si conclude il certame dettatorio tra Nicola da Rocca e Pier della Vigna. Una conclusione, tuttavia, resa piuttosto oscura dall’ultima, non facilmente comprensibile, metafora musicale. Un’oscurità, che, tra l’altro, costituisce una caratteristica tipica della prosa dell’ambiente federiciano, se è vero che già i contemporanei dichiaravano la propria difficoltà a comprenderla36. E che Nicola da Rocca e gli altri dictatores si compiacessero del proprio modo di scrivere volutamente poco chiaro ci viene confermato proprio dal finale di quella lettera con cui viene posto termine al certame: la lingue loquacitas è utilis in enigmate, e mysterium viene definito il prodotto della penna-plettro di Pier della Vigna. Un’affermazione che rimanda alla concezione ieratica del ruolo svolto dai notai nella cancelleria imperiale, ovvero in un ambiente in cui – mentre lo stesso Federico II proponeva la comparazione tra imperatore e sacerdote37 – i giudici e i giuristi della Magna Curia ritenevano di amministrare la giustizia come una cosa sacra38,

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gature del ferro, quanto più pensa di pulirsi meglio, tanto più acquista i vantaggi del fecondo pegno. Dunque, per non diventare cedevole e spiacevole, mentre cercavo di piacere, e forse anche insipido, viene da me chiusa con la chiave del silenzio quella ripetuta istanza, ricevendola tanto più solennemente, quanto più gradita, col mistero del plettro usato, rende la melodia, che può suonare senza cetra, correggendo la discordanza della mia lira». 36 Cfr. H.U. Kantorowicz, Über die dem Petrus de Vineis zugeschriebenen Arenge, «Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», 30 (1909), p. 653 nota 1, in cui si riporta la frase del giurista Odofredo: «volentes obscure loqui et in supremo stilo, ut faciunt summi doctores et sicut faciebat Petrus de Vineis…»; «volendo parlare in maniera oscura e in stile supremo, come fanno i sommi dottori e come faceva Pier della Vigna...». Ma si veda anche l’inizio della lettera in Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 86, p. 106, in cui, ironicamente, l’arcivescovo di Salerno Matteo de Porta ribatte a Nicola de Sanctis che «legibus amica simplicitas epistule, quam misisti, amica non fuit, que novis multiplicata decoribus et enigmaticis profunda misteriis, rusticani sermonis inscia simplicitate perscripta, novum ac nobile genus stili comptis ac floridis vernabat eloquiis, et maiestatem inaccessibili magnitudine preferebat»; «la semplicità, amica delle leggi, non fu amica dell’epistola che hai mandato, che, resa maggiore dagli insoliti abbellimenti e resa profonda dagli enigmatici misteri, stabilito che la semplicità inconsapevole è propria della lingua rustica, faceva lussureggiare il nuovo e nobile genere di scrittura con gli acconci e fioriti eloqui, e portava innanzi la maestà con inaccessibile grandezza». Matteo, poi, dichiarata la sua inabilità, comunica che a rispondergli per le rime sarà il più giovane Nicola da Rocca, il cui stile, evidentemente, era considerato altrettanto involuto. 37 Cfr. soprattutto E. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino 1989 (ed. or. Princeton 1957), pp. 84-93. 38 Cfr. Petrus de Vinea, Epistolae, III 68, p. 495 e III 69, p. 501 della citata ed. Iselius (cfr. anche P. Zinsmaier, Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II.,


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quasi fossero sacerdoti di una religio iuris, il cui cerimoniale era un iustitiae sacratissimum ministerium ovvero – con una variazione da non imputare solo a guasti o a incertezze della tradizione manoscritta – mysterium39. Come si è detto, tali certami dettatorî erano evidentemente generati dal desiderio di sfuggire alla routine dell’impegnativo e faticoso lavoro di cancelleria, che proprio in quell’epoca si andava regolamentando in maniera sempre più complessa e precisa40. I contendenti, tuttavia, potevano, allo stesso tempo, tenere in esercizio gli strumenti più utili della loro professione, ovvero l’inventiva retorica, che rischiava di intorpidirsi per la ripetitività di una scrittura basata soprattutto sulla riproduzione stereotipata di formule, che sole potevano garantire sulla precisione e sulla validità giuridica degli atti ufficiali. Queste circostanze possono spiegare perché due notai, che lavoravano nello stesso ufficio, probabilmente a pochi metri l’uno dall’altro, abbiano deciso di comunicare tra loro in forma scritta. Tuttavia, in questo contesto, assume un peculiare rilievo anche il rapporto che viene a instaurarsi tra i due interlocutori, ovvero contendenti. L’esempio del certamen tra Pier della Vigna e Nicola da Rocca, infatti, ci mostra due personaggi lontani tra loro per età e per posizione gerarchica: Piero era di qualche decennio più vecchio e si trovava al vertice dell’ammi-

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Heinrich VII., Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard, 1198-1272. Nachträge und Ergänzungen, Reg. Imp., V 4, Köln-Wien 1983, n. 605); Constitutiones Friderici II, ed. W. Stürner, Hannover 1996 (M.G.H., Const., II suppl.), I 62, pp. 227 ss.; inoltre, ivi, I 32 e I 95, pp. 186 ss. e 275 ss. Cfr. anche Grévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp. 319-330. 39 Cfr. Kantorowicz, Due corpi, cit., pp. 88 e 103 ss. Per l’uso interscambiabile di ministerium e mysterium si veda F. Blatt, Ministerium-Mysterium, «Archivum Latinitatis medii aevi», 4 (1928), pp. 80 ss., e E. Kantorowicz, Misteries of State. An absolutist concept and its late medieval origins, in Kantorowicz, Selected Studies, Locust Valley-New York 1965, p. 385 nota 22 (il saggio è apparso per la prima volta in «Harvard Theological Review», 58 [1955], pp. 65-91). Anche nella tradizione manoscritta dei documenti svevi è possibile riscontrare una simile ambiguità nell’uso dei due termini: cfr. Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, ed. L. Weiland, Hannoverae 1896 (M.G.H., Legum sectio, IV, 2), n. 200, p. 267 r. 12 ed apparato critico; Petrus de Vinea, Epistolae, III 68 e III 69; Nicola da Rocca, Epistolae cit., nn. 69, 73, 118, pp. 88, 92, 139. Per il “mistero retorico” cfr. anche E. Kantorowicz, Anonymi Aurea gemma, in Kantorowicz, Selected Studies, cit., p. 254 (il saggio è apparso per la prima volta in «Medievalia et Humanistica», 1 [1943], pp. 41-57). 40 Il funzionamento della cancelleria sveva venne precisamente regolamentato già negli anni Quaranta del Duecento, quando furono emanate da Federico specifiche Ordinanze, che permettono di conoscere, sia pure non nei più minuti dettagli, l’iter che le pratiche avrebbero dovuto compiere: cfr. E. Winkelmann, Acta imperii inedita, I, Innsbruck 1880, n. 988, pp. 733-737. Del resto, l’accresciuto impegno della cancelleria è attestato anche dal


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nistrazione imperiale; oltre a ciò, era stato, probabilmente, proprio lui ad ammettere al servizio cancelleresco Nicola, dopo averne messo alla prova le capacità41. Ma, nonostante questo, almeno per la durata di quello svago oratorio, ogni distanza viene annullata nella pratica di un gioco che non conosce differenze di età o di posizione gerarchica. Insomma, non è l’amicizia a far sì che si stimi la capacità oratoria dell’altro, ma al contrario, è l’abilità dimostrata nella perfetta elaborazione della prosa retorica a creare i presupposti per il legame affettivo che unisce i due illustri dictatores. Sono le virtù personali a essere apprezzate e a preparare il campo in cui coltivare l’amicizia. E se, come affermava già Cicerone, l’amicizia non può nascere «nisi in bonis»42, e come, intorno al 1205, ripeteva Boncompagno da Signa, uno dei maestri che più influenzò l’ars dictaminis di quel periodo, «amicitia [...] in solis virtuosis habitaculum preelegit», è la virtù posseduta e costantemente dimostrata a rendere degni di ciò che sempre Cicerone definiva «divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio»43, e che Boncompagno ribadiva essere «effectus divine potentie, quo summa natura in angelis et hominibus operatur»44. La virtù, dunque, elemento essenziale dell’amicizia, eleva chi si trova più in basso, mettendolo alla pari col più alto, così come veniva ampiamente dichiarato in una Contentio de nobilitate generis et probitate

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superstite frammento di cancelleria edito da C. Carbonetti Vendittelli, Il registro della cancelleria di Federico II del 1239-1240, 2 voll., Roma 2002. È probabile che l’organizzazione della cancelleria sveva fosse improntata a quella della cancelleria papale, su cui cfr. soprattutto E. von Ottenthal, Regulae cancellariae apostolicae. Die päpstlichen Kanzleiregeln von Johannes XXII. bis Nicolaus V., Innsbruck 1888. Sulla prassi cancelleresca cfr. anche Grévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp. 300 ss., nonché S. Gleixner, Sprachrohr kaiserlichen Willens. Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. (1226-1236), Köln-Wien-Weimar 2006. 41 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., nn. 2-3, pp. 7-12; inoltre, pp. XXXV-XXXVI. 42 CIC., Lael., 18. 43 CIC., Lael., 20. 44 Boncompagno da Signa, Amicitia, ed. S. Nathan, Roma 1909, cap. 9, p. 52: «effetto della potenza divina, con cui la somma natura opera negli angeli e negli uomini». Il testo è stato edito anche con introduzione di M. Baldini e traduzione e note di C. Conti, Greve in Chianti 1999. Sull’opera, oltre alle introduzioni alle citate edizioni e al contributo di Enrico Artifoni in questo volume, cfr. anche M. Dunne, Good Friends and Bad Friends? The Amicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship, cur.. T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; nonché P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la “concordia civium”: le Favolello de Brunetto Latini [et une nouvelle source du Tresor], in Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010, pp. 55-107.


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animi, proposta a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa dai maestri, forse, dello Studium di Napoli negli anni Quaranta del Duecento, che cercavano di capire se la vera nobiltà è quella di sangue o quella d’animo45. Così, anche il confronto che vede contrapporsi due esperti dictatores è uno scontro non vero ma scherzoso, dove le distanze tra il dominus e il famulus non vengono aumentate ma ridotte e dove le armi usate servono non a dividere ma a unire, in nome di un’amicizia che, per dirla ancora con Boncompagno, «fugat vitia, virtutes inserit, spernit superbiam et amplectitur humilitatem»46. L’amicizia che permette di avvicinare il sottoposto al suo superiore gerarchico, ma solo se poggia le sue fondamenta sulle virtù e sulle qualità personali, soprattutto quelle acquisite con l’applicazione e lo studio approfondito. Lo studio, d’altra parte, è ciò che consente di conquistare la nobiltà e il prestigio socio-professionale, come affermava Federico II nella lettera con cui annunciava l’istituzione dello Studium di Napoli del 122447, dal momento che è esso «que suscitans a terra inopem et erigens de stercore pauperem, cum principibus eum locat»48, così come enfaticamente dichiarava suo figlio Manfredi invitando, nel 1259, gli studenti a Napoli. E se questa era la concezione che – almeno secondo le affermazioni contenute nelle locuzioni retoriche dei dictamina – veniva sostenuta in quell’epoca e in quell’ambiente, non può sorprendere che il rapporto biunivoco che caratterizza l’amicizia “virtuosa” permettesse – almeno a parole – di annullare le distanze; non solo quelle che intercorrevano tra il più alto fun-

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Cfr. F. Delle Donne, Una disputa sulla nobiltà alla corte di Federico II di Svevia, «Medioevo Romanzo», 23 (1999), pp. 3-20. 46 Boncompagno da Signa, Amicitia cit., cap. 11, p. 53: «fuga i vizi, semina le virtù, disprezza la superbia e abbraccia l’umiltà». 47 «Cum sterilis esse non possit accessio, quam nobilitas sequitur, cui tribunalia preparantur, sequuntur lucra divitiarum, favor et gratia comparantur»; «non potendo essere sterile l’accessibilità, che trova seguito nella nobiltà, per la quale si dispongono i tribunali, a cui succedono i guadagni di ricchezze, e sono preparate il favore e la grazia», afferma Federico II nella lettera di fondazione, edita in F. Delle Donne, «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum»: edizione e studio dei documenti relativi allo Studium di Napoli in età sveva, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 111 (2009), doc. 1, p. 165; saggio ripubblicato in volume, con qualche aggiunta, col titolo «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010, dove la lettera è alle pp. 86-87. 48 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 19, pp. 200-201 della versione in rivista, e pp. 128-129 di quella in volume, dove Manfredi, intorno al 1259, invitando gli scolari a frequentare il rinnovato Studium di Napoli, dichiara più completamente: «hec est autem illa scientia, que diligentibus eam thesauros aperit et ad divitias pontem facit. Hec


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zionario dell’amministrazione imperiale e un suo sottoposto, ma anche quelle tra il sovrano e tutti gli uomini che coltivavano le scienze e la filosofia. Fu lo stesso Manfredi, infatti, a ricordare ai dotti maestri dell’università di Parigi che, per loro, egli era non solo il rex, il signore degli uomini, ma anche l’amicus che fa doni utili e preziosi49, senza aspettare che siano gli amici a chiedere, così come esige la vera amicizia e così come veniva affermato anche nelle epistole più sopra ricordate. Ma se è vero che Manfredi aveva concesso ai maestri parigini le sue inedite traduzioni dal greco e dall’arabo di importanti trattati logici e matematici aristotelici, senza attendere la loro richiesta, nel momento stesso in cui dava, tuttavia, chiedeva anche che accettassero quelle traduzioni gratanter, con gratitudine, e soprattutto che le rendessero pubbliche «ad [...] evidens fame nostre preconium»50. Insomma, contravveniva a una regola fondamentale dell’amicizia, che cioè essa sia desiderata in sé e per sé, come già diceva Cicerone, e che non pretenda nulla in cambio51. Forse, non era molto quello che Manfredi chiedeva, rispetto a ciò che concedeva. Tuttavia, la formazione culturale offerta da lui e da suo padre Federico attraverso lo Studium di Napoli, pur promettendo i titoli della nobiltà di merito e adeguate retribuzioni, serviva essenzialmente a procurare ai regnanti una grande disponibilità di persone fornite di cultura elevata, tanto necessarie all’amministrazione dello stato, che si andava organizzando in maniera sempre più centralizzata. Insomma, anche il favore concesso ai dotti e ai filosofi non era gratuito, ma si configurava come un utile instrumentum regni. E l’ami-

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est illa scientia, que scalas erigit ad honores et gradaria construit ad fastigia dignitatum. Hec est illa scientia, que suscitans a terra inopem et erigens de stercore pauperem cum principibus eum locat»; «questa, dunque, è quella scienza che disserra tesori a coloro che la amano e costruisce ponti verso le ricchezze. Questa è quella scienza che innalza scale verso gli onori e costruisce gradini verso eccelse dignità. Questa è quella scienza che, alzando il misero da terra e sollevando il povero dallo sterco, lo pone assieme ai principi». 49 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 21, pp. 202-205 della versione in rivista, e pp. 131-134 di quella in volume. 50 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 21, p. 205 della versione in rivista, e p. 134 di quella in volume. «Vos igitur viri docti [...] libros ipsos tamquam exennium amici regis gratanter accipite, et ipsos [...] tum mittentis favore commoniti, tum etiam clari transmissi operis meritis persuasi, ad communem utilitatem studentium et evidens fame nostre preconium publicetis»; «voi dunque, uomini dotti, accogliete con gratitudine gli stessi libri come dono dell’amico re, e [...] consapevoli del favore del mittente, nonché persuasi dei meriti dell’opera trasmessa, li pubblichiate per la comune utilità degli studenti e per l’evidente lode della nostra fama». 51 Cfr. CIC., Lael., 80: «amicitia per se et propter se expetita».


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cizia dichiarata da Manfredi sembra somigliare, in definitiva, a quella descritta da Boncompagno nel paragrafo dedicato all’amicus dominabilis: «amicus dominabilis gradum trascendit et amicitia gradum ignorat, ergo est oppositio in adiecto. Verumtamen aliqui sunt dominabiles amici, licet raro contingat, qui cum subicibilibus familiariter conversantur; set tibi studiosius ab illo amico dominabili precave, qui tuum velle retinet carceratum et suum»52.

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Boncompagno da Signa, Amicitia cit., cap. 16, p. 56: «l’amico potente trascende i gradi e l’amicizia ignora i gradi, perciò è una contraddizione in termini. Tuttavia, vi sono alcuni amici potenti che, sebbene capiti raramente, si intrattengono familiarmente con i subalterni; ma tu guardati molto attentamente da quell’amico padrone, che tiene incarcerate la tua e la sua volontà».


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Amicizia, città e spazio sociale nell’«Etica di Aristotele» volgarizzata da Taddeo Alderotti


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L’Etica Nicomachea, testo fondativo per la riflessione politica e morale del Medioevo latino, “riscoperta”, come si usa dire, nel secolo XII per via di nuove traduzioni e citatissima dagli scrittori in volgare soprattutto attraverso il diffusissimo volgarizzamento attribuito a Taddeo Alderotti, presenta per il lettore medioevale vari punti critici. Prendiamo il tema della naturale socialità umana, affermato come principio generale nel I e nel X libro, e sviluppato nella sua peculiare dimensione interpersonale ed affettiva – cioè come naturale amicizia tra gli uomini – all’inizio del libro VIII. Per Aristotele la politicità è un valore «architettonico» (Eth. Nic. 94a27): misura di tutti gli altri, a questo subalterni e relativi. Per i suoi lettori cristiani, al contrario, la relazione fondativa è quella tra uomo e Dio ed ogni tipo di socialità umana le è subordinata. Questo scarto di prospettiva produce nei commenti medioevali un continuo e non risolto campo di tensioni tra testo e glossa. All’inizio della Nicomachea Aristotele dimostra che l’attività umana cui tutte le altre sono ordinate è la politica; anche la vita contemplativa (cioè la vita di studio) è da considerare sommo bene «sufficiente in sé» («t®leion œgaqšn aåtarke@») non in relazione ad un singolo che viva una vita solitaria («oßk aßtÐ mÖnw? tÐ zønti bÇon monöthn»), ma in relazione all’individuo calato nel suo contesto familiare e sociale, perché per natura l’uomo è un animale politico («fâsei politikšn Õ +nqrwpo@»). La vita contemplativa si contrappone dunque all’attiva solo nell’esigenza di ozio speculativo – eliminazione cioè degli impedimenti pratici – ma necessita anch’essa delle relazioni sociali: / Perfectum enim bonum per se sufficiens videtur. Per se sufficiens autem dicimus non ipsi soli viventi vitam solitariam, sed et parentibus et filiis et uxori et omnino amicis et civibus, quia natura civile homo. Horum autem assumendus terminus quis. Extendenti enim ad parentes et propinquos et amicos amicorum, in infinitum procedit. Set hoc quidem rursum perscrutandum. Per se sufficiens


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autem ponimus quod solitarium eligibilem facit vitam et nullo indigentem. Tale 1 autem felicitatem estimamus esse .

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Nei commenti cristiani alla Nicomachea, la vita contemplativa viene invece assimilata alla vita eremitica di stampo religioso, e dunque contrapposta alla vita civilis in quanto prevede l’eliminazione del contatto umano (Eustrazio: «communicationem cum hominibus abnegans»2): la felicitas contemplativa è, in questi commenti, la felicitas eremitica. L’elaborazione neotestamentaria del rapporto tra vita contemplativa e vita attiva (legata all’interpretazione delle figure evangeliche di Marta e Maria di Betania) sembra risentire del dibattito cristiano attorno alla vita contemplativa di tradizione aristotelica «exterius […] bonorum indigens»3. Le oscillazioni del testo di Lc X, 42 riflettono la concorrenza di una risposta radicalmente antimondana («Una sola cosa è necessaria» alla vita, cioè la parola di Dio) ad una risposta più conciliante («servono poche cose, oppure una sola»)4. Nell’ambito di questo confronto con i temi della vita contemplativa pagana, il pensiero cristiano assorbe la nozione di vita solitaria, tipica-

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1Aristoteles Latinus, Ethica Nicomachea. Translatio Roberti Grosseteste Lincolniensis, textus purus, ed. R.A. Gauthier, XXVI 3, Leiden 1972 (d’ora in poi = Eth. Nic.), I, i 97 b 717. Il concetto è riaffermato in Eth. Nic. 99 a 31- b 6: «Videtur tamen et eorum que exterius sunt bonorum indigens, quemadmodum diximus. Inpossibile enim vel non facile bona operari, inpotentem tribuere existentem. Multa quidem enim operata sunt quemadmodum per organa, per amicos et divicias et civilem potenciam. Quibusdam autem denudati coinquinant beatitudinem, ut puta nobilitate, bona prole, pulcritudine. Non omnino enim felix, qui specie turpissimus, vel ignobilis, vel solitarius et sine prole. Amplius autem forte minus, si cui pessimi filii sunt vel amici, vel boni existentes, mortui sunt». 2 The Greek Commentaries on the Nicomachean Ethics of Aristotle in the Latin Translation of Robert Grosseteste, edd. H. Paul - F. Mercken, I, Eustratius on Book I and the Anonymous Scholia on Books II, III, and IV, Leiden 1973, pp. 1-193: 106, 32-33. 3 Questa osservazione non sembrerà azzardata, poiché anche in altri luoghi biblici sono riprese esplicitamente formule filosofiche pagane. Vedi ad esempio Acta ap. 17, 28, dove Paolo, nel discorso all’areopago di Atene, usa ed attribuisce ai pagani una definizione di effettiva origine stoica (sul passo cfr. S. Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma 2005, pp. 91-93). 4 In Lc 10, 38-42 («Factum est autem, dum irent, et ipse intravit in quoddam castellum: et mulier quaedam, Martha nomine, excepit illum in domum suam: et huic erat soror nomine Maria, quae etiam sedens secus pedes Domini, audiebat verbum illius. Martha autem satagebat circa frequens ministerium: quae stetit, et ait: Domine, non est tibi curae quod soror mea relinquit me solam ministrare? Et respondens dixit illi Dominus: Martha, Martha, sollicita es, et turbaris ergo plurima. Porro unum est necessarium. Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea») la riduzione delle cose necessarie alla sola contemplazione di Dio è una tensione ma non una posizione definita, come risulta dalle quattro varianti testuali di Lc X, 42, che per chiarezza traduco: 1) «servono poche cose, oppure una sola» nella cosiddetta “versione lunga”: Basilio di Cesarea in greco, Girolamo, Ep. 22, e Giovanni


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mente aristotelica, ma espressione, per il Filosofo, di un disvalore , e la risemantizza in chiave positiva ed eremitica. Prima che il concetto cristiano di vita solitaria eremitica venga rivitalizzato nella sua originaria vis antiaristotelica da Petrarca, la cultura religiosa trecentesca fonda esplicitamente sulla concorrenza delle due autorità, aristotelica e biblica, la trattazione del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa (ad es. Giordano da Pisa, predica del 22 luglio 13056). Sul piano filosofico, il Medioevo scolastico tenta di conciliare politicità aristotelica e spiritualità cristiana attraverso l’introduzione di una sorta di doppia verità, come emerge dal seguente passo di Alberto Magno:

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Quarto videtur quod felicitas civilis sit principalior, quia est bonum gentis, quod est divinius quam bonum unius hominis, ut dicitur in Primo [scil. Eth. Nic. I, 1, 94b9-10]. Secundo, sicut dicit Avicenna vita unius hominis solius est “peior quam potest esse”; sed hanc vitam perficit felicitas contemplativa, unde dicitur eremitica felicitas; ergo videtur esse minus principalis. [...] Quinto, homo est natura politicum; sed principalior felicitas est, que est magis naturalis homini; ergo civilis est principalior. Solutio. [...] Ad secundum dicendum, quod vita solitarii dicitur esse pessima per accidens, inquantum non sufficit sibi ad necessaria vitae, sed Aristoteles supponit, quod contemplativus habeat necessaria vitae, alias indigenti melius est ditari quam philosophari. [...] Ad quintum dicendum, quod homo est politicum naturaliter quantum ad inferiorem sui partem, secundum quod indiget necessariis, sed non quantum ad intellectum, neque politicum neque coniugale, secundum quem tamen est illud quo est hominis, in quantum est homo7.

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Cassiano in latino; 2) «serve una sola cosa» nella cosiddetta “versione corta”, diffusa in Siria, Asia minore, Egitto, recepita nella Vulgata e attestata nei due papiri preorigeniani Chester Beatty e Bodmer XIV; 3) «servono poche cose» nella variante meno attestata, presente solo nella versione siriaca sirpal e in quella armena; 4) omissione della frase in Clemente di Alessandria e in codici della Vetus latina da cui dipende Ambrogio di Milano. Sulla questione cfr. A. Baker, One thing necessary, «Biblical Quarterly», 27 (1965), pp. 127-137 e A. Solignac - L. Donnat, s.v. Marthe et Marie, in Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire fondé par M. Villers et al., fasc. LXVI-LXVII, Paris 1980, coll. 664673. Il tentativo di far vincere la “versione corta”, col portato ideologico antimondano che essa implica, è chiaro anche in opere esegetiche attuali, come D. Kjaergaard, La doctrine de la primauté de la vie contemplative par rapport à la vie active dans la Somme de Théologie de Saint Thomas d’Aquin, IIa II2, qu. 179 et 182, et ses sources principales, dissertatio ad lauream […] apud pontificiam Universitatem S. Thomae de Urbe, Romae 1995. 5 Il termine ricorre in tutta l’opera (cfr. ad es. Eth. Nic. 99 b 4, 57 b 21, 70 a 5); v. su ciò le osservazione di Gauthier in Aristote, L’Éthique a Nicomaque. Intr., trad. et comm. R. A. Gauthier - J.Y. Jolif, II, Commentaire), Louvain - Paris 1959, ad Eth. Nic. 97 b 7, p. 52). 6 Prediche del B. Fra Giordano da Rivalto recitate in Firenze dal MCCCIII al MCCCVI, cur. D. Moreni, I, Firenze 1831, pp. 180-189. 7 Albertus Magnus, Super Ethica Commentum et Quaestiones, ed. W. Kübel, Münster i. W. 1987, lib. X, lect. 13, pp. 761, par. 909.


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La divisione tra homo inferior e civilis e homo superior e solitarius porta l’irrisolta tensione tra ideale cristiano-monastico e aristotelismo politico nel cuore della riflessione medioevale sulla politicità umana; nel lessico filosofico degli scolastici la vita solitaria è ormai heremum, e tuttavia l’eremo può esprimere tanto il positivo ideale religioso quanto il disvalore aristotelico. Questo fenomeno è chiarissimo nel volgarizzamento duecentesco della Nicomachea di Taddeo Alderotti, menzionato da Dante in Convivio I, X 10 e assai presente nella letteratura in volgare8. L’Etica in volgare assorbe la distinzione tra una vita contemplativa celeste e solitaria e una vita contemplativa che ha bisogno di beni esteriori, per poi trattare distesamente della beatitudine «la quale è in terra»9, genuinamente aristotelica nel bisogno di socialità e beni materiali: Di due modi del bene. Capitolo IIII. Bene è secondo due modi, che è un bene lo quale l’uomo vuole per sé, e un altro lo quale l’uomo vuole per altro <bene ch’è per sé>: bene per sé sicome la beatitudine; bene per altro sono dette gli onori e le

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8 Il volgarizzamento duecentesco è una traduzione rielaborativa della Summa alexandrinorum, epitome dell’Etica vòlta dall’arabo in latino nel 1243 o 1244 da Ermanno Alamanno (ce ne sono note due redazioni, cfr. infra) e poi da Taddeo Alderotti in lingua toscana (cfr. i capp. I e IV di S. Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma 2005; Gentili, L’«Etica» volgarizzata da Taddeo Alderotti (m. 1295). Saggio di commento, «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medioevale», 17 (2005), pp. 249281; I. Zavattero, I volgarizzamenti duecenteschi della «Summa Alexandrinorum», in corso di stampa negli Atti del convegno per il Sessantesimo compleanno di R. Imbach, svoltosi presso l’Istituto Svizzero di Roma nel giugno 2011). Nel presente articolo il volgarizzamento e le sue fonti si indicheranno con le seguenti sigle: 1) Etica volgarizzata da Taddeo Alderotti, che trascrivo dal ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II. iv. 274 (= Etica in volgare); Summa alexandrinorum, versione vulgata edita in C. Marchesi, L’Etica Nicomachea nella tradizione latina medioevale, Messina 1904, pp. XLI-LXXXVI (= Sa1); Summa alexandrinorum, revisione patavina edita in G.B. Fowler, Manuscript Admont 608 and Engelbert of Admont (c. 1250-1331). Appendix 14. «Summa Alexandrinorum», «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 49 (1982), pp. 151-252 (= Sa2); Etica Nicomachea, versione araba edita in The arabic version of the Nicomachean Ethics, edd. A. Akasoy - A. Fidora, Leiden 2005 (= Ea). 9 Etica in volgare, f. 18 vb: «Onde viene la beatitudine e di che abisogna. Capitolo X. Beatitudine sì è cosa octima e eletta, giochundissima e dilectabilissima. §[2] La beatitudine [19ra] la quale è in terra sì à bisogno delli beni di fuori, perciò che non è possibile a l’uomo ch’elli faccia belle opere e ch’egli abbia arte la quale si convegnia a buona vita, e abondança d’amici e di parenti, e prosperità di ventura sança li beni di fuori. E per questa chagione non abisognia niuna cosa che faccia manifestare il suo honore e il suo valore. §[2] Se alchuno dono è facto da domenedio glorioso e excielso, e dato agli uomini del mondo, degna cosa è da credere che quello dono sia la beatitudine, inperciò ch’ella sì è la più octima cosa che possa essere nell’uomo, ch’ella sì è cosa honorevole molto, e compimento e forma di virtude».


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virtudi, perciò che queste cose vuole l’uomo per avere beatitudine. §[2] Naturale cosa è a l’uomo ch’egli sia cittadino e conversino gli uomini artefici, e contra la natura degli uomini sì è abitare in solitudine nel diserto e là dove non sieno genti, 10 perciò che l’uomo naturalmente si diletta in compagnia .

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Qui la vita solitaria aristotelica appare, come si diceva, nella veste cristiana di deserto eremitico, e tuttavia mantiene l’originario valore negativo e antipolitico. Più giù l’immagine del deserto è abbinata a quella del bosco, altro topos dell’ascesi eremitica11, ma anche, nell’immaginario medioevale, spazio anticittadino ed antisociale per eccellenza. Il «deserto e bosco» simboleggia il regresso della città e della campagna coltivata a spazio selvaggio e antipolitico nelle società non virtuose: Lo vigore dell’aguagliança sta fermo per lo osservamento delle leggi della città, e le cittadi>ni< crescono per lo osservamento delli cittadini della città e abitatori. E li abitatori delli campi creschono simigliantemente, e gli abitatori della città e lle culture de’ campi sì crescono simigliantemente. §[7] E per le ingiurie le quali si fanno nelle cittadi adiviene tucto il contrario, e a l’ultimo sì tornano a diserto e a bosco12.

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Etica in volgare, f. 18 ra. La perfezione spirituale raggiunta attraverso la solitudine nella selva è topos letterario nella Vita Merlini di Geoffroy (testo latino di origine gallese databile al 1148 - 1150); il mago fugge la corte e si rifugia nel bosco luogo di scienza ed esercizio spirituale (Life of Merlin of Geoffroy of Monmouth, ed. B. Clarke, Cambridge 1983, v. 1289: «Hic ero dum vivam pomis contentus et herbis / et mundabo meam pia per jejunia carnem / ut valeam fungi vita sine fine perhenni»). 12 Etica in volgare, f. 30ra. Il passo (sulla cui contestualizzazione culturale vedi S. Gentili, La selva, gli alberi e il suicidio nell’«Inferno» di Dante: fonti e interpretazione, in Miscellanea di studi offerta a Guglielmo Gorni, cur. G. Inglese - M.A. Terzoli, Roma 2010, pp. 149-163) dipende da Eth. Nic. 32 b 31-33 («Set in concomitacionibus quidem commutativis continet tale iustum contrapassum secundum proportionalitatem et non secundum aequalitatem. In contrafacere enim proportionale commanet civitas»), ma ne costituisce una rielaborazione ampliata, il cui dettato appare ridondante e non del tutto chiaro. Tracce di amplificazione del passo a detrimento del senso sono già nella versione araba della Nicomachea (Arabic Version of the Nicomachean Ethics, p. 311), dal cui ambito, come si è accennato, il nostro volgarizzamento discende. Un ampliamento simile è in Alberto Magno (Albertus Magnus, Super Ethicam cit., p. 343: «Aut igitur iustitia facet sibi contra fieri, et sic habetur propositum, aut non, et tunc coget ipsum operari et sic reducet eum in servitutem, quod non est iustum, aut non coget, et sic ille non operabitur, non reportans ex opere, quod bene quaerit, et sic destruitur civilitas, quae sine tali operatione non potest esse. Si autem non bene quaerit, sed male, ergo non erit sibi facienda retributio; sed propter retributiones operum commanent et operationes artificum et civilitates, quae his indigent; ergo iterum non commanebit civilitas, quod est inconveniens in civilibus». Sul valore materiale e culturale dell’opposizione tra città e selva nel mondo classico e tardo antico cfr. S. Mazzarino, Si può parlare di rivoluzione sociale alla fine del mondo antico? in Il passaggio dall’antichità al


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Questo grandioso affresco dello spazio selvaggio che vince sullo spazio fisico, istituzionale e morale della città in decadenza, di sapore fortemente medioevale, è presente nella sola Summa alexandrinorum e nelle sue traduzioni in volgare: l’immagine è assente nella Nicomachea, mentre i commenti medioevali si limitano a riprendere qui e là il tema classico e ciceroniano degli «homines silvestres», cioè di uno stadio di vita presociale, radicalmente estraneo al «bonum civile»13. Quali conseguenza ha la cristianizzazione della vita contemplativa aristotelica sulla nozione di amicizia trattata nel libro VIII dell’Etica Nicomachea? La più evidente è che la necessità dell’amicizia, affermata da Aristotele, nei commenti viene revocata in dubbio e diviene un quesito preliminare alla disamina di tutta la materia14. La ricca dossografia di opinioni contrarie alla necessità dell’amicizia citata da Alberto Magno per rispondere al quesito offre una buona mappa delle fonti su cui si fonda la posizione che nega, per la vita contemplativa, la naturale socialità umana15. L’«abon-

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Medioevo in Occidente. Atti della IX Settimana di Studio, 6-12 aprile 1961, Spoleto 1962, pp. 411-425: 425 e A. Giardina, Allevamento ed economia della selva in Italia meridionale: trasformazioni e continuità, in Società romana e produzione schiavistica, I, L’Italia: insediamenti e forme economiche, cur. A. Giardina - A. Schiavone, Roma-Bari 1981, pp. 87-113. 13Albertus Magnus, Super Ethica cit., lib. I 1, lect. I, p. 16, dubita che l’inclinazione politica sia innata nell’uomo basandosi sul noto passo di Cic., De inv. I, i, 2, in cui la società è conquista progressiva e non stato di natura. L’accento antipolitico di questo passo ciceroniano non va tuttavia assolutizzato, per il lettore medioevale, poiché in altre opere dell’Arpinate, altrettanto note nel Medioevo, abbondano affermazioni della naturale politicità umana (ad es. Cic., De fin. II, 62-69: «Pertinere autem ad rem arbitrantur intelligi natura fieri, ut liberi a parentibus amentur; a quo initio profectam communem humani generis societatem persequimur […]. Ex hoc nascitur, ut etiam communis hominum inter homines naturalis sit commendatio, ut oporteat hominem ab homine ob id ipsum, quod homo sit, non alienum videri. […] Multi coniunctius [quam membris corporis, quam bestiis] homines. Itaque natura sumus apti ad coetus, concilia, civitates. Mundum autem censent [Stoici] regi numine deorum, eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et deorum»). 14 Albertus Magnus, Super Ethica cit., lib. VIII, lect. I, p. 591: «Ad evidentiam primae partis tria quaeruntur: primo de necessitate et ordine istius tractatus; secundo, utrum amicitia sit virtus vel non sine virtute, ut dicit; tertio, utrum sit necessaria ad vitam». 15 Ibid., pp. 592-593.: «Circa tertium sic proceditur: Videtur, quod amicitia non sit necessaria ad humanam vitam. Necessarium enim est, sine quo aliquid non potest esse; sed sine amicitia ad alterum potest aliquis vivere, sicut patet in eremitis; ergo etc. Praeterea, Tullius dicit in principio Rethoricae [De inv. I, 2, 2], quod a principio fuerunt homines agrestes, sed per artem eloquentiae facti sunt civiles; sed agrestium non est amicitia, sed conviventium, ergo etc. Praetera, sine quo potest esse optimum humanae vitae, potest esse alicuius solitarii et sic sine amicitia; ergo etc. Contra est, quod dicit Avicenna in VI De naturalibus, quod vita solitarii non est nisi “peior, quae potest esse”; sed qui sine amicis vivit, vivit solitarius; ergo maxime necessaria est amicitia. […] Solutio: Sicut dicit commentator


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dança d’amici» prescritta all’uomo contemplativo nell’Etica in volgare (cfr. nota 9) è dunque un tratto di ortodossia aristotelica del volgarizzamento16; tuttavia in questo testo la nozione stessa di amicizia risente fortemente della doppia dimensione umana – solitaria e civilis – di ispirazione cristiano-eremitica. Il valore positivo e cristiano della vita solitaria come relazione con Dio investe la nozione di amicizia, che, come la felicità contemplativa, presenta nel volgarizzamento una duplice realizzazione, umana – la vita di relazione – e spirituale – l’amicizia tra uomo e Dio:

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L’amistà sì è una delle vertudi dell’uomo e di dio, e è molto mestieri alla vita dell’uomo. E l’uomo sì à bisogno d’amici come di tutti gli altri beni, e gli uomini ricchi e potenti e principi di terre sì abisognano d’amici alli quali elli facciano bene, e dalli quali elli ricevano servigi, honore e gratie. E grande sicurtade è quella che gli uomini hanno per gli amici; e quanto è maggiore l’uomo e più alto, tanto li sono più mestieri gli amici, perciò che quanto lo grado della grandeça è più alto, cotanto è più agevole a chadere, e la sua chaduta è più pericolosa. Adunque vi sono molto mestieri gli amici. E anche sono mestieri gli amici nelle brighe e nelle anghoscie, e nelle aversitadi che ll’uomo àe, perciò che ‘l buono amico è sichuro rifuggio. E l’uomo che è sança l’amico sì è solo nelli suoi fatti. E quando l’uomo è coll’amico suo sì è acompagniato, e ànne perfecto aiuto a conpiere le sue operationi, perciò che di due persone perfecte sì viene perfetta operatione e perfecto intendimento17.

Questa seconda dimensione dell’amicizia, tutta interiore e sentimenta-

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Aspasius, qui hunc librum commentat, necessarium ad vitam dicitur dupliciter: aut sine quo non potest esse vita, et hoc est necessarium ad esse, et sic non est necessaria amicitia. Aut sine quo nullus eligit vivere, et hoc est necessarium ad bene esse; et sic amicitia est necessaria ad bene operandum in vita activa et ad bene intelligendum in vita contemplativa, quia quamvis contemplativus possit esse solitarius quantum ad habitationem, oportet tamen, ut amicos habeat et socios, cum quibus veritatem inquirat, alias non potest perfecte veritatem intelligere et sic non erit felix; unde etiam in principio II Metaphysicae agit gratias Aristoteles praecedentibus dicens, quod multum iuverunt nos ad sciendam veritatem illi qui praecesserunt, et in I De coeli et mundi dicit, quod veritatem de natura caeli ereditaverunt illi qui fuerunt in coniunctionibus suis ad invicem non semel neque bis, sed multotiens; et quod sic est necessarium, est simpliciter necessarium quantum ad ethicum, quia ethicus non considerat vitam, secundum quod est simpliciter vivere, sed secundum quod est bene vivere». 16 Cfr., oltre al passo citato alla nota 9, Etica in volgare, ff. 41 ra-b: «Lo compimento della felicitade umana sì è in accattare amici, perciò che niuno huomo vorrebbe avere tucti li beni del mondo acciò ch’elli vivesse solo. Adunque a l’uomo beato sì abisognia huomo al quale elli faccia bene, e col quale elli comunichi l’uso della sua felicitade, perciò che naturale cosa sì è a l’uomo vivere cittadinamente, e necessaria cosa sì è a l’uomo conpiere le sue necessitadi e li suoi mestieri per li suoi vicini e per li suoi amici, le quali elli non puote conpiere per sé». 17 Etica in volgare, f. 36 va e vb.


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le, ovviamente assente nell’originale aristotelico (Eth. Nic. VIII, 1, 55 a 3: «Post hec autem de amicicia sequitur pertransire. Est enim virtus quedam vel cum virtute»), ma anche nella Summa alexandrinorum, è forse non estranea alla tradizione di linea araba che è a monte del volgarizzamento, in cui la parola amicizia è sostituita con il più affettivo e interiore ‘amore’18. Nei commenti latini l’elemento spirituale e per così dire “interiore” dell’amicizia è basato sulla reinterpretazione cristiana della caritas che è alla base dell’amicizia secondo Cicerone19. Continuiamo a leggere l’inizio del libro VIII della Nicomachea (54b34 e ss.): l’amicizia è esplicitamente considerata come necessaria all’attività intellettuale: Post hec autem de amicicia sequitur utique pertransire. Est enim virtus quedam vel cum virtute. Adhic maxime necessarium in vitam. Sine amicis enim nullus utique eligeret vivere, habens reliqua bona omnia […]. «Simul duo venientes…» et enim intelligere et agere potenciores.

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Per affermare che l’amicizia aiuta anche l’attività contemplativa Aristotele evoca la massima omerica – così nota ai suoi contemporanei che gli è sufficiente accennare le prime parole di Il. X, 224 – con cui nell’Iliade Diomede motiva la richiesta, rivolta ai comandanti greci, che uno di loro lo accompagni nel campo troiano. Non solo in questo passo aristotelico ma in tutto mondo classico, anche latino, i versi 224-226 del X libro dell’Iliade sono evocati in forma proverbiale e allusiva (segno evidente che i lettori antichi erano in grado di completarli a memoria) soprattutto, sembrerebbe, per esprimere l’efficacia dell’alleanza tra due individui della stessa parte politica20. Ecco il distico omerico completo: «quando due camminano

18 Ea, 55 a 1-2, p. 425, traduce il greco filia con mahabbah, e solo secondariamente con sadaqah (entrambe le possibilità sono nel Muktar al-ikham, citato nell’introduzione di Anna Akasoy ad Ea, p. 66, che traduce: «wa ol-mahabbah at-tammah hiya sadaqah al-akhyar...») tradotto «amor sive dilectio» di Sa (Sa1, p. 72; Sa2, p. 232: «Amor sive dilectio est una virtutum nostrarum et est de rebus deductioni [deductionis Sa2 ] vite necessariis»). L’Etica in volgare ripristina invece sostantivo amicitia di Eth. Nic. 19 Alberto Magno (Super Ethica cit., p. 591) osserva: «Tullius in libro De amicitia dicit, quod “amicitia nihil aliud est quam divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio”», ed interpreta nel senso di un doppio livello, naturale (cioè divino) e umano (cioè legato alla regola sociale) dell’amicizia Cic., De amicitia VI, 20: «amicitia nihil aliud est quam divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio, quia quidem haud scio an, excepta sapientia, nihil melius homini sit a dis immortalibus datum» 20 Cfr. ad esempio Cic., Att. IX, 6, 6: «Ut quidem scias quod sequamur, q. Titini filium cum Caesare esse nuntiat – sed illum maiores mihi gratias agere quam vellem. Quod autem


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insieme, se non è l’uno è l’altro a vedere (‡no>s+) il vantaggio da cogliere; se si vede da soli (moäno@ d*eÊper no>s+) la vista resta corta (œll¢ tŠ oÆ br¡sswn te nÖo@, leptì dŠ te mòti@)»; di questa «vista» è stata giustamente rilevato, nell’uso aristotelico, il significato teoretico più che fisico21. Aristotele commenta i versi omerici affermando che questo vale in varie circostanze, ad esempio «nei viaggi» (‡n taÉ@ pl¡nai@). Questo passo subisce nel mondo medioevale interessanti trasformazioni. Anzitutto i commentatori cristiani, evidentemente sensibili allo smarrimento morale e alle immagini a ciò connesse, sentono il bisogno di volgere in negativo l’esempio della guida offerta dagli amici nelle circostanze di viaggio: il commentatore greco Aspasio osserva che gli uomini «non […] ab avaritia perversi», cioè non guidati né dal piacere sensuale né dall’utile, e capaci dunque di amicizia virtuosa, aiutano il loro prossimo «in erroribus»22, con doppia allusione al cammino materiale ed etico. Nella parafrasi offerta dai commentatori latini il passo assume quindi la forma di una più ampia riflessione sulla forza del legame tra gli uomini nella realizzazione di un comune percorso morale, che si articola più o meno come segue: l’amico salva dall’errore quando il pellegrino perde la retta via («unus revocat alium ab errore, sive notum, sive ignotum, ut si videat aliquis etiam peregrinum declinantem a recta via»); coloro che sono amici del genere umano in quanto tale cooperano alla realizzazione del fine cui la natura umana tende («philantropos, idest amatores hominum, quasi perficientes illud ad quod etiam natura communis inclinat»23). Sono proprio le idee di cui Dante sviluppa la forza – nell’ideale politico dell’impero, tracciato nel Convivio in

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me roget, paucis ille quidem verbis sed ‡n dun¡mei, cognosce ex ipsius epistula. Me miserum quod tu valuisti! Una fuissemus; consilium certe non defuisset. «sân te dâ*‡rcom®nw...». Sed acta ne agamus, reliqua paremus». 21 È il Gauthier a notare che «Aristote […] se contente d’approuver Homère dont il conserve meme le mot (no>sai); cependant il est permis de deviner chez lui une arrière pensée: la vue que l’amitié favorise, ce n’est pas seulement le coup d’oeil qui prépare l’action, c’est la contemplation du sage» (Aristote, L’Éthique a Nicomaque cit., p. 661). 22 Il testo è citato alla nota 24. 23 Albertus Magnus, Super ethica cit., lib. VIII, lect. II, p. 594, lin. 62-70; Thoma Aquinas, Sententia libri ethicorum, ed. R.A. Gauthier, Roma 1969, lib. VIII, lect. I, p. 443: «Illis autem qui sunt in summo, id est in perfecta aetate, sunt utiles ad bonas actiones exequendas; quando enim duo conveniunt, sunt potentiores et in opere intellectualis speculationis, dum unus videt quod alius videre non potest, et ad opus exterioris actionis […]. Est enim naturalis amicitia inter eos qui sunt unius gentis ad invicem, […] et ideo laudamus philanthropos, id est amatores hominum, quasi implentes id quod est homini naturale, ut manifeste apparet in erroribus viarum; revocata nam quilibet alium, etiam ignotum et extraneum, ad errorem, quasi omnis homo sit naturaliter familiaris et amicus omni homini».


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strettissima dipendenza testuale dalla Nicomachea – e il limite, cioè l’insufficienza della cooperazione tra gli uomini non sorretta da Dio. La Commedia offre di questo principio un esempio in positivo, cioè Dante stesso, peregrinus deviante dalla retta via, salvato dall’errore grazie all’amicizia virtuosa di Virgilio e all’intercessione celeste, e un esempio negativo, Ulisse, che trascina invece i suoi compagni in un’erranza contraria al volere di Dio e condotta con i soli mezzi della ragione. Perché proprio Ulisse? Aspasio, il commentatore greco che segna tutta l’esegesi latina del passo trasformando la neutra notazione aristotelica sui viaggi nella devianza cristiana dalla retta via, sviluppa e deforma anche il cenno aristotelico dei versi dell’Iliade informandoci del fatto che la massima è pronunciata da Ulisse quando sceglie Diomede come compagno per ingannare l’esercito troiano («Homerus enim dicit illud ut ex persona Ulixis quando quaesivit Diomedem ut cum ipso collaboraret ad explorandum troianorum exercitus»)24. Oltre a scambiare le parti facendo di Ulisse il protagonista dell’episodio – è in realtà Diomede a pronunciare la massima e poi a scegliere Ulisse – Aspasio ne fonde i due momenti: la massima pronunciata da Diomede per motivare la richiesta da lui rivolta ai comandanti greci (vv. 224-226), cioè il punto veramente citato da Aristotele, e il momento successivo in cui Diomede, ricevuta dai suoi interlocutori la facoltà di scegliere lui stesso un compagno, indica Ulisse perché, dice, la sua intelligenza permetterebbe loro di uscire «anche da un fuoco ardente» (Il. X, 246-7: «toâton g*‰spom®noio kaÈ ‡k purš@ aÅqom®noio / +mfw nost>saimen, ‡peÈ perÇoide noòsai»). Una non esigua tradizione esegetica interpreta il fuoco ardente da cui Ulisse sarebbe capace di uscire come un fuoco divino25: notevole suggestione teologica e “infernale” per un lettore come Dante, che d’altronde, anche in altro luogo della Commedia, mostra di leggere Omero attraverso la Nicomachea26. Effettivamente, in Inf. XXVI la pena di Ulisse

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Aspasius, Ad Eth. Nic. VIII, 1, 55 a 15 (The Anonymous commentator on book VII, Aspasius on book VIII and Michael of Ephesus on books IX and X, ed. H.P. Mercken, Leuven 1991, p. 108): «Et hominibus natura inest amicitia omnibus ad omnes. Manifestum autem hoc in erroribus maxime. Etenim non scientibus vias nuntiant et suscipiunt et auxiliantur, siquidem non ab avaritia perversi sint. (Hoc autem verbum simulque duo venientes sumptum est de Homero. Homerus enim dicit illud ut ex persona Ulixis quando quaesivit Diomedem ut cum ipso collaboraret ad explorandum troianorum exercitus). 25 Scholia Graeca in Homeri Iliadem (scholia vetera), ed. H. Erbse, Berlin 1974, III, ad Il. K, 246, p. 47. 26 È il caso di Il. XXIV, 258-9, in cui Priamo dice Ettore simile al figlio non di un uomo ma di Dio, verso citato da Dante in Vita nova, II, 7-8 attraverso Eth. Nic. VII, 1, 45 a 20; su questo v. G. Cerri, Dante e Omero, Lecce 2007, pp. 102-103. Il Cerri, meritevole d’aver


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e Diomede sembra ribaltare in contrappasso la fiducia di Diomede nell’intelligenza di Ulisse: avevano entrambi confidato di poter uscire persino dal fuoco ardente grazie ad un comune sforzo di intelligenza, e Dio punisce questa fiducia condannandoli a non poter mai più uscire dal fuoco ardente in cui entrambi restano imprigionati per l’eternità. Il contrappasso colpisce, a guardar meglio, la stessa dottrina aristotelica che Dante aveva scelto come ratio penale dell’inferno, ma che restava un testo pagano, da correggere nei punti in cui la virtù aristotelica implicava un’umanità non bisognosa di Dio. Uno di questi punti era proprio l’inizio del libro VIII, elogio dell’amicizia come realizzazione collettiva e politica della virtù simboleggiata da Ulisse e Diomede. Per i lettori cristiani, lo si è letto nell’Etica in volgare, l’amicizia è una virtù «dell’uomo e di Dio»: al di fuori della grazia nessuno strumento e nessuna cooperazione umana è fonte di salvezza. Abbiamo visto che nel commentare l’inizio dell’VIII libro della Nicomachea, Aspasio accenna all’amicizia non virtuosa – cioè quella basata sulla cupidigia personale, di beni (utile) o di piaceri (diletto). Questo concetto conosce interessanti sviluppi medioevali, che ci conducono ancora una volta dall’Etica in volgare a Dante. Nella Summa alexandrinorum l’amicizia descrive non solo il rapporto dell’uomo col suo simile, ma anche quello tra l’uomo e l’attività intellettuale che della vita umana costituisce il fine. L’amicizia che lega un uomo a una «amicha» come quella che lega l’uomo alla filosofia, deve essere virtuosa in quanto disinteressata; se è per utile o per piacere sensuale, è invece come quella per le arti meccaniche che si praticano per ottenerne un guadagno. L’amiciza virtuosa e disinteressata per la filosofia è affidata all’exemplum di Pitagora, che ai discepoli chiedeva solo «honore et reverentia» ma non danaro:

indagato la conoscenza dantesca dell’Iliade non solo attraverso i sunti classici e medioevali di materia troiana ma anche attraverso la Nicomachea, non si pone però la questione dei commenti aristotelici, che aggiungono spesso alla citazione omerica di Aristotele ulteriori loci paralleli. Mi riprometto di effettuare una ricerca in merito al nostro luogo, e inoltre di verificare la fortuna latina dei versi omerici in questione sulla base di alcune osservazioni preliminari: 1) alcuni contenuti delle glosse di Eustazio erano già noti al mondo latino, certo in virtù di fonti comuni, attraverso Servio (M. Negri, Il commentario di Servio all’Eneide e l’esegesi greca di Omero. Osservazioni sul commento ad Aen. VI 288 ed Eustazio ad Il. VI 181, «Eikasmos», 12 [2001], pp. 323-336); 2) i versi compaiono in Philod. De bono rege 14.20, opera largamente citata da Servio (cfr. A. Setaioli, Interpretazioni stoiche ed epicuree in Servio e la tradizione filosofica dell’esegesi filosofica del mito e dei poeti a Roma (Cornuto, Seneca, Filodemo), parte I e parte II, rispettivamente «International Journal of the Classical Tradition», 10 [2003-2004], pp. 335-376 e 11 [2004-2005], pp. 3-46); 3) per via latina classica il verso è citato in Suet. Tib. 21.


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Quali sono buone amistadi e quali no. Cap. II. Quando l’amico ama la sua amicha per dilettatione e quella sì ama lui per utilitade e non ama l’uno l’altro per diricto bene, cotale amore avaccio si diparte. E ogni amistà che è per chagione lieve avaccio si diparte. Ma le chagioni che sono ferme e forti fanno lungo tempo durare l’amistade. Adunque l’amistade la quale è per la veritade e è per lo bene, questa basta lungho tempo, perciò che la vertù non si può lievemente rimuovere. Ma l’amistade la quale è per utilitade sì ssi parte quando l’utilitade è tolta di meço. §[2] Verbigratia l’uomo che canta per isperança di guadagnio, se l’uomo li rendesse cantare per il canbio di quello non se ne chiamerebbe contento né paghato, perciò ch’aspetta d’avere altro guiderdone. Adunque non sarà concordia di volontade, la qual cosa adiviene quando l’uomo riceve per quello ch’elli dà quello ch’elli vuole. §[3] E talora sì è che per quello che l’uomo da l’uomo non vuole se none honore e reverença, siccome faceva Pittagora, lo quale dalli suoi discepoli per chagione di sua doctrina non voleva se none honore e reverença. E talora è che per chagione di doctrina vuole l’uomo danari, sì ccome adiviene nell’arte mecchanica, ma non è così in filosofia, perciò che vi si debbono rendere più nobili guiderdoni. Adunque colui che insegna altrui scrivere, dee avere dalli suoi discepoli honore e subiectione, siccome padre e signore27.

Da questo passo, e in generale dalla sezione dell’Etica in volgare dedicata all’amicizia è certamente partito Dante per costruire l’analogo ragionamento contenuto in Conv. III xi sull’amicizia virtuosa tra uomo e filosofia28. Dante parte dal significato della parola filosofia – ‘amore di sapienza’ – per poi legarvi la nozione di amicitia – amor tra uomo ed enti teologico-metafisici presente nella Summa alexandrinorum e nel nostro volgarizzamento, che ne discende:

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27 Etica in volgare, f. 39 va e vb, che traduce Sa1, pp. 76-77: «Quando amasius amaverit amasiam ratione delectionis et amoris, amasia autem amaverit amasium utilitatis causa neque amaverit uterque alterum per se, talis amor velociter dissolvetur. Et quecumque dilectiones sunt propter causas facile dissolubiles facile dissolvuntur. Cause vero permanent sive perseverare faciunt dilectiones. Dilectio vero que propter virtutem est perseverat. Virtus enim difficile mobilis est que vero propter utile solvitur utili sublato vel modo quo ipsum cupitum finitur; ut si cantantem sub spe muneris cantatione similiter velis remunerare non satisfacies ipsi, non enim hanc remunerationis speciem expectabat, et in reliquis similibus. Non ergo stabit concordia connegotiantium nisi steterit voluntatum convenientia. Quod maxime fit cum uterque accipit pro eo quod dat desideratum et modo desiderato. Et interdum opere pretium est reverentie et honoratius repensi quemadmodum non querebat aliud Pictagoras a suis discipulis pro sue doctrine emolumento. Interdum vero pecunie querentur vel eius simile ut ab eis qui in mechanicis desudant; secus est enim in philosophica et in mechanica contractione. Nobiliorum enim contractuum nobiliores merito sunt corretributiones; meretur sapientie instructor repensionem reverentie et subiectionis a discipulis qualiter debent patribus atque deo». L’esempio di «colui che insegna a scrivere» non è nei testi latini; in Sa1 compare una generica figura di «sapientie instructor» (Sa1, p. LXXVII; «scientie et sapientie instructor» in Sa2, X, iv, p. 238-9). 28 Dante Alighieri, Convivio, ed. F. Ageno, Firenze 1995, p. III xi 11-14.


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Dico adunque che anticamente in Italia […] vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. […] Questo Pittagora, domandato se elli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo, e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse ‘amatore di sapienza’ chiamato, cioè ‘filosofo’; che tanto vale in greco ‘philos’ che a dire ‘amore’ in latino, e quindi dicemo noi ‘philos’ quasi amore, e ‘sophia’ quasi sapienza. […] Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto, Filosofia, sì come dello amico nasce lo vocabulo del suo proprio atto, cioè Amicizia.

In particolare, valgono per il rapporto uomo - filosofia i limiti dell’amicizia umana:

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E sì come l’amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è amistà vera ma per accidente, sì come nell’Etica ne dimostra [scil. Aristotele], così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia, ma per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno diletto, colla sapienza in alcuna sua parte sia amico: sì come sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l’altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di sapienza. Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, medici e quasi tutti religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero allo studio. E sì come intra le spezie dell’amistà quella che per utilitade è meno amistà si può dicere, così questi cotali meno participano del nome del filosofo che alcuna altra gente. Per che, sì come l’amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta, che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade dell’anima amica, che è per diritto apetito e per diritta ragione. Sì ch’omai qui si può dire, come la vera amistà delli uomini intra sé è che ciascuno ami tutto ciascuno, che ‘l vero filosofo ciascuna parte della sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto tutto a sé lo riduce e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere. Onde essa Sapienza dice nelli Proverbi di Salomone: «Io amo coloro che amano me». E sì come la vera amistade, astratta dell’animo, solo in sé considerata, ha per subbietto la conoscenza dell’operatione buona, e per forma l’appetito di quella, così la filosofia, fuori dall’anima, in sé considerata, ha per subbietto lo intendere, e per forma una quasi divino amore allo ‘ntelletto.

Dante rielabora e supera la sua fonte. In primo luogo, nell’Etica in volgare l’amicizia non disinteressata per le arti e le scienze si riduce alla sola categoria dell’utile, in cui rientrano le arti meccaniche o “di intrattenimento” (il canto); l’amicizia virtuosa, che chiede in cambio solo «onore e reverenza», è invece quella del filosofo per la filosofia (ne è exemplum Pitagora) e quella del magister dictaminis («colui che insegna altrui scrivere») per l’ars dictandi. Dante reintegra invece anche l’altro


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tipo aristotelico di amicizia interessata, cioè quella motivata dalla ricerca di un piacere sensibile, e vi colloca il canto, che nel volgarizzamento esemplificava l’arte praticata per guadagno. Liberata dal vecchio esempio, la categoria delle amicizie motivate da «moneta» viene da Dante sviluppata e rinnovata in due direzioni: 1) in essa rientrano tutte le arti, quando siano praticate senza virtù: l’accento dantesco è insomma sui buoni e cattivi artefici, come già nel I trattato, e sul fondamento (origine e fine) che ha l’arte nel soggetto che la pratica29; 2) la categoria dell’utile comprende non solo la «moneta» ma anche la «dignitade»: la «reverentia et honore» che nell’Etica in volgare Pitagora chiede ai discepoli diventa nel Convivio un disvalore, poiché rientra nella categoria dell’utile. Ecco perché Dante “varia” l’exemplum di Pitagora con un diverso e altrettanto noto aneddoto tratto da altra fonte: Pitagora non vuole definirsi filosofo ma solo amante della filosofia, di modo che la sua identità è estranea a qualunque “corporazione” e risultanza sociale. Così facendo, Dante porta a compimento una trasformazione già avviata nel passaggio dalla Nicomachea greca a quella araba. Nel testo greco, come anche nella sua traduzione latina, Protagora (Pitagora è un errore, attestato anche in una parte della tradizione che fa capo al commento di Tommaso30) non chiede solo onore, ma affida il calcolo della sua retribuzione al discepolo; nella Summa e nel volgarizzamento, invece, per una resa errata o forse solo tendenziosa delle versioni arabe (yukrima rende il greco timòsai)31 questa figura si limita a chiedere «reverentia et honore». L’irrisolta tensione tra l’amicizia / socialità aristotelica e quella teologico-eremitica si scioglie, presso alcuni lettori del testo, nella valorizzazione di una delle due strade. I due più illustri fruitori del volgarizzamento, Dante e Petrarca, imboccano due vie opposte in virtù di due opposte posizioni (incline alla socialità quella dantesca, alla Vita solitaria – noto titolo dell’opera del 1346 – Petrarca) dovute anche a mutate condizioni storiche. Il prevalere dell’uomo animale sociale è fondamentale in Dante, che fonda su questo l’operazione divulgativa del Convivio, rielabora le righe di Eth.

29 30

Vedi su ciò il cap. IV del mio L’uomo aristotelico cit. Thoma Aquinas, Sententia libri Ethicorum cit., lib. IX, lect. I, p. 502: «Dicit ergo primo quod ordinare dignitatem recompensationis pertinet ad utrumque, scilicet ad eum qui ante dedit et ad eum qui ante accepit beneficium. Sed tamen ille qui ante dedit videtur concedere iudicium recompensationis illi qui accepit, sicut dicitur de Pitagora philosopho quod, cum doceret discipulos, iubebat quod discipulus honoraret eum muneribus quantum dignum sibi videbatur dare pro his quae eo docente sciebat». 31 Ea, p. 483.


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Nic. I, 5 relative alla naturale politicità dell’uomo e del suo sviluppo dalla famiglia allo stato per fondarvi la necessità dell’impero come via alla felicità (Conv. IV, 1, 11), e utilizza nella Commedia l’immagine della natura incolta come simbolo dell’effetto antisociale del peccato. Dai suicidi di Inf. XIII, collocati in una selva simile alla Maremma, dove non erano né sentieri segnati, né luoghi coltivati, ma sterpi «di color tosco» e rami «nodosi e ‘nvolti» (Inf. XIII, 4-5), all’indovino Aronte, che, collocato in una spelonca presso la sua città distrutta dalle guerre civili, scruta un orizzonte marino, sublime in quanto illimitato per l’occhio, e terribile in quanto emblema di un mondo deserto e privo di comunità umane (Inf. XX, 46-51) fino al viaggio illegittimo di Ulisse, che desidera fare «esperienza […] del mondo sanza gente» (Inf. XXVI, 117) e lì, nel deserto antidivino ed antisociale del peccato di ybris, farà naufragare la sua «compagna picciola», Dante disegna un mondo in cui il peccato è spazio selvaggio e solitarius, mentre la virtù è spazio sociale. Dante e Taddeo Alderotti avevano fondato il dovere di divulgare scienza sulle due prerogative umane – desiderio naturale di conoscere e naturale socialità umana – che formano il tema aristotelico del theoretikós bíos; in esso, e in queste due prerogative dell’uomo, la cultura universitaria dei secoli XII e XIII aveva trovato una formidabile proiezione ideologica delle condizioni di lavoro dell’intellettuale scolastico e del suo ruolo all’interno delle città. Sul finire del Trecento, a seguito della crisi economica che colpì le città e le loro corporazioni, il mestiere e il ruolo dell’intellettuale scolastico conobbero una fase di conseguente crisi e trasformazione. Ciò comportò un profondo ripensamento del modello di vita intellettuale che la cultura scolastica aveva espresso, e dunque dei temi aristotelici del desiderio di conoscere e della naturale socialità umana. È espressione di ciò, alla vigilia dell’umanesimo, il De vita solitaria di Francesco Petrarca. Il De vita solitaria (1346) riformula condizioni, obiettivi e valore dell’attività intellettuale nel segno esplicito del rifiuto dei precetti aristotelici cari alla tradizione scolastica, presentati, fin dal prologo come l’antimodello della vita solitaria petrarchesca32. A questo fine Petrarca rivitalizza quel corpo a corpo col testo aristotelico – citato, riscritto e ribaltato nei suoi significati di fondo – che era stato parte fondamentale della costruzione cristiana dell’opposizione tra vita attiva e vita contemplativa. Certi punti di

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Per il panorama qui tratteggiato relativo al Dante del Convivio, a Taddeo Alderotti e al Petrarca del De vita solitaria si vedano i capitoli I, IV e VII del mio L’uomo aristotelico cit.


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questa riflessione cristiana tardo antica – ad esempio la corrispondenza origeniana tra gerarchia delle vite e gerarchia delle scienze, con conseguente deprezzamento della medicina, massimamente “pratica”33 – vivranno una vera e propria rinascita nella polemica antiaristotelica del Petrarca solitarius.

33 Origenis Homelia in Lucam 1, 5, Paris 1962 (Sources chrétiennes, 87), pp. 106-107; l’esempio della medicina è introdotto a proposito dei due livelli, contemplativo e pratico, della fede cristiana, implicati da Lc 1, 2.


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Concezione e lessico dell’amicizia fra Stilnovo e «Commedia»


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È nozione comune che la scuola denominata «dolce stil novo» grazie a un celebre passo del Purgatorio (XXIV 49-63), ripreso e valorizzato da Francesco De Sanctis1, sia dominata – su uno sfondo borghese e comunale – dal tema dell’amicizia, reso tangibile dal proliferare di rime di corrispondenza, le quali denunciano «la forza del gruppo nei legami dell’amicizia»2, ma insieme inaugurato dalla singolare espressione «fedeli d’amore» nell’esordio della Vita nova. Ciò equivale a distinguere l’amicizia stilnovistica dall’àmbito semantico del compagnonnage, così diffuso nella letteratura transalpina fra le chansons de geste, segnatamente entro la Chanson de Roland. Di contro al legame eroico tra forti individualità, quali Rolando e Ulivieri, si accampa fra gli stilnovisti un rapporto corale, fatto di sorridente complicità e di sapidi ammicchi3. Va detto che in parallelo alla straripante prevalenza del lessema amore sul lessema amare, si ha una netta prevalenza di amico rispetto all’astratto

1

Cfr. E. Pasquini, Il «Dolce stil novo», in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, I: Dalle origini a Dante, Roma 1995, pp. 649 ss. 2 Mario Marti, nell’introduzione alla sua ed. dei Poeti del Dolce stil nuovo, Firenze 1969, p. 12. Ed è proprio per questa ragione che Gianni Alfani e Dino Frescobaldi rientrano «nel giro di amicizia del gruppo e nell’ordine di quella poetica» (ivi, p. 10). Cfr. anche U. Bosco, Gli affetti familiari di Dante nella «Commedia» (1984), in Altre pagine dantesche, Caltanissetta-Roma 1987, p. 12: «Non ci vuole molto acume critico per accorgersi del posto che negli scritti di Dante ha l’amicizia. Lo stesso esercizio della poesia, almeno di quella lirica, è indissolubile da un sodalizio di vita e di arte: stanno insieme i poeti, stanno insieme anche le loro donne, cioè i miti che esse impersonano…»; e Pasquini, Il «Dolce stil novo» cit., pp. 649-721, passim. 3 Cfr. Marti, introduzione cit., pp. 20-21 e 23.


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amicizia , che è addirittura un hapax in Dante5. E va anche precisato che esistono testi che hanno al centro, solare, il mito dell’amicizia senza che vi ricorrano la parola o un termine qualsiasi di quel campo semantico: lo si dica a proposito del più celebre sonetto dantesco, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io, che fra l’altro ricevette una risposta sgarbata da parte del Cavalcanti6; ma qualcosa di simile potrebbe ripetersi per tante rime di corrispondenza degli stilnovisti7.

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Prendiamo le mosse dagli usi propri dei termini che ci interessano. Il sostantivo amico si trova in Cavalcanti in uno dei suoi testi di corrispondenza, Certe mie rime a te mandar vogliendo (XXXVI, 5), dove l’amico sembra proprio essere Dante, probabile destinatario del sonetto8. Gianni Alfani si rivolge a Guido come a «maestro e amico»9; Dino Frescobaldi indirizza una sua canzone (XIX) a un innominato amico, con echi dell’ Inferno dantesco. Più variegato il repertorio di Cino da Pistoia, il quale usa il vocativo amico mio per Onesto da Bologna10, mentre si rivolge con amato Gherarduccio ad altro poeta bolognese, il quale lo ripaga con «dolce d’amore amico»11. In altri casi, riferendosi a personaggi sconosciuti, egli

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4 Ivi, p. 22; ma cfr. anche le mie voci corrispondenti nell’Enciclopedia dantesca, cioè: amica, amicizia, amico, amistà, amistanza. Nell’ordine cronologico del Grande Dizionario della Lingua Italiana (d’ora in poi GDLI), per amico “legato da amicizia”, a Brunetto Latini, Iacopone e altri duecentisti, segue il Dante della Vita nova e del Convivio, poi quello della Commedia, a partire da Inf. II 61. 5 Si deve infatti rinviare a un solo luogo del Dante prosatore (Conv. III xi 6). Non è un caso, dunque, se il GDLI, s. v. amicizia, passa dalle attestazioni nel Tesoretto di Brunetto Latini («Son l’amistà divise, / perché la gente invizia / la verace amicizia») e in Iacopone («Amor, la tua amicizia è piena de letizia; / non cade mai en trestizia lo cor che t’ha assaiato», detto del divino Amore) a quelle del Boccaccio e dell’Ottimo, saltando Dante. S’aggiunga, per esaurire il circuito degli allotropi, che amistà, oltre che in Cavalcanti, ricorre in Vita nova 3 e che amistanza (sul provenzale amistansa) è ben attestato nel GDLI con esempi di Guittone e Iacopone, mentre ricorre un’unica volta nel Dante prosatore (Conv. III xi 6), nel quale si incontrano piuttosto gli allotropi amistà, amistade, amistate. 6 Cfr. E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della «Commedia», Milano 2001, pp. 52-53. 7 Cfr. i sonetti inviati da Cavalcanti a Gianni Alfani (XLIII dell’ed. Marti) e a Guido Orlandi (XLVIII); ma lo stesso Orlandi replicava (ivi, La) all’attacco di Guido, rivolgendosi a lui col vocativo Amico. 8 Contrassegnati dalla parola amico sono anche il sonetto di Bernardo da Bologna a Cavalcanti con la risposta di Guido (ed. Marti, XLIVa e b). 9 Ivi, IV 18-18; ma cfr. anche VII 1 e 8. 10 Ivi, pp. 759 e 762 11 Ivi, pp. 786 e 788. Si tratta in quest’ultimo caso di un uso figurato, come in «Bella e gentile amica di pietate, / valente donna» (p. 648) o dove egli parla della «perfetta amista-


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impiega i vocativi amico saggio o semplicemente amico (pp. 816 e 821), come pure in un sonetto indirizzato forse a Dante (p. 691)12. Venendo agli usi figurati, i punti estremi sono raffigurati da Guinizzelli (dove tali impieghi latitano) e Guido Cavalcanti, di cui annotiamo almeno un paio di esempi, fra XV 1 («Se Mercé fosse amica a’ miei disiri») e XXXV 27-28 («Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate /quest’anima che trema raccomando»)13, quest’ultimo con appello al sostantivo astratto, nell’onda degli usi figurati di amico: non diversamente da Lapo Gianni, dove si parla di una amistate (cioè “benevolenza”) della morte (VI 63), mentre altrove la stessa morte viene definita (XIII 33) «partimento d’amistate», cioè “distacco dagli amici”14. Ma sulla stessa linea si colloca Cino da Pistoia, in grazia del souhait LIV 315 Deh, com’ sarebbe dolce compagnia, che parla della «perfetta amistate» che intercorre fra la donna, Amore e Pietate16. Il prospetto qui abbozzato quanto agli usi stilnovistici trova conferme, ma soprattutto incrementi, nel circuito del sistema espressivo dantesco: a parte, annoto che mi pare un’incongruenza diffusa quella di studiare e pubblicare gli stilnovisti senza includere anche i relativi testi danteschi. Si pensi – per quanto concerne il femminile amica – al prevalere dei valori metaforici, fra madonna «amica di pietate» (Rime 57), cosa che «amica sia di veritate» (Rime 85), la Filosofia in quanto derivante dall’anima e dalla sapienza «fatte amiche» (Conv. III xii 4), la nobiltà amica della filosofia (Conv. IV Le dolci rime 146 e xxv 6), rispetto all’isolato valore concreto di “amante” veicolato da Mirra, «al padre fuor del dritto amore amica» (Inf. XXX 39). Sullo stesso versante, ma senz’ombra di risvolti negativi, si richiami il celebre passo della Vita nova dove si parla di Guido Cavalcanti come del «primo de li miei amici» (III 14) e di Manetto Portinari come del

te» che intercorre fra la sua donna, Amore e Pietate (ivi, p. 554). Interessante, per quanto diremo appresso, la parificazione fra amico e amante (ivi, p. 762). 12 Topico invece l’inizio di altro sonetto «Chi ha un buono amico e nol tien caro, / molt’è leggiero il suo cognoscimento…» (ivi, p. 848) 13 Ivi, p. 213. 14 Giustamente Marti definisce questa forma un provenzalismo, da amistat (ivi, pp. 291 e 313). Da segnalare l’hapax, con valore proprio, amistìa nel sonetto (CL 1) inviato da Cino a Binduccio da Firenze (ivi, p. 814). 15 Su cui cfr. E. Pasquini, Cino da Pistoia e i lirici del Quattrocento, in Atti Lincei, Roma 1976, pp. 87-127. 16 Opportunamente Marti (ed. cit., p. 553) cita la glossa dell’Ottimo: «Amicizia non è altro che uno consentimento di cose divine ed umane con benevolenza di caritate».


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secondo, in questa speciale graduatoria (XXXII 1). Sul versante opposto, spicca quel luogo del prosimetro giovanile (XXII 2) dove si discorre dell’«intima amistate» che intercorre tra «buon padre e buon figliuolo». Ma è nel Convivio che il concetto e il lessico dell’amicizia sembrano conseguire sviluppi importanti, con una relativa rarità di passi a valenza concreta17, rispetto ai tanti caratterizzati da un senso figurato. Ciò si verifica soprattutto nel terzo trattato, il quale si configura come una sorta di De amicitia dantesco, apparentemente nel solco della lettura del trattato ciceroniano, chiaramente delineata (di concerto con quella del De consolatione philosophiae di Severino Boezio) a II xii 1-4. Eccezionale nel Convivio, e isolato anche nel sistema tematico dantesco, il passo che sta al centro di III xi, con quella sua rete di analogie fra i campi semantici di “amicizia” e di “filosofia”, non senza i dovuti e reiterati rinvii all’ Etica nicomachea di Aristotele, ma soprattutto i fitti rapporti tra i campi lessicali e tematici di “amicizia” e di “amore”:

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Ne la ‘ntenzione d’Aristotile, ne l’ottavo de l’Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche amica, sì che la benevolenza sia da ogni parte: e questo conviene essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. […] E sì come l’amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per accidente, sì come l’Etica ne dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente. […] Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio. E sì come intra le spezie de l’amistà quella che per utilitade è, meno amistà si può dicere, così questi cotali meno partecipano del nome di filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l’amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l’anima amica, che è per diritto appetito e per diritta ragione. […] E sì come de la vera amistade è cagione efficiente la vertude, così de la filosofia è cagione efficiente la veritade. E sì come fine de l’amistade vera è la buona dilezione, che procede dal convivere secondo l’umanitade propriamente, cioè secondo ragione, sì come pare sentire Aristotile nel nono de l’Etica; così fine de la Filosofia è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s’acquista.

17 Come quando (Conv. IV xxv 1) definisce l’adolescenza come l’età soave in cui si semina «la maggiore parte de l’amistadi».


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Più coinvolgente il ventaglio dell’“amicizia” come istituto sociale e insieme affettivo all’interno del poema, nel riverbero del De amicitia ciceroniano, specie nella seconda cantica, nata, per consenso generale, sotto l’egida dell’amicizia: un giudizio che poggia sull’analisi dei memorabili incontri con Casella e Belacqua, con Nino Visconti e Currado Malaspina, soprattutto con Forese Donati. Non possiamo certo soffermarci, qui, sulle diverse accezioni di amico, s’intende anche metaforiche, nella Commedia, ma dobbiamo limitarci a qualche esempio più significativo. Si parte, ovviamente, dal celebre sintagma «l’amico mio e non de la ventura», posto in bocca a Beatrice nella rievocazione che ne fa Virgilio (Inf. II 61), eco del nesso amicus fortunae presente in Boncompagno da Signa18; più normali, per il sostantivo, il valore di “alleato, fautore” (Purg. XX 57) e quello di “persona amata”, per Titone «dolce amico» dell’Aurora (Purg. IX 3), da confrontare con l’occorrenza già vista a Inf. XXX 39. Così, per l’aggettivo, il valore di “animato da sentimenti amichevoli” nelle Rime e in Inf. V 91 («se fosse amico il re de l’universo») o di “amato, caro” per le «serpi amiche» di Inf. XXV 4, in un contesto sarcastico; mentre tale semantema si rapporta a una dimensione sacra per i poverelli che «si fero amici a Dio» (Par. XII 132) e per le anime che Dio «s’ha fatte amiche» (Par. XXV 90). Non sarà qui inutile uno sguardo al sottotesto del De amicitia ciceroniano, dove il discorso si sviluppa sotto la costellazione del “senza amicizia la vita non è vita”, «sine amicitia vitam esse nullam»19, ma dove, accanto ad amicizie straordinariamente strette come quella fra Lelio e Publio Scipione20 e al conseguente dolore per la morte di un uomo sommo ed amicissimo21, si danno anche esempi di grandi amicizie tramontate22 o insi-

18 Sul quale rinvio alla relazione di Enrico Artifoni, utile anche per i riscontri con Brunetto Latini e con Bono Giamboni. In ogni caso, la formula amor ab amicitia risulta opposta all’idea dantesca di un’amicizia secondaria (e quasi epifenomeno) rispetto all’amore. Interessante nella relazione di Glauco Cantarella il rilievo circa l’influsso del Cantico dei Cantici sul lessico dell’amicizia. 19 L’amicizia, introduzione e note di E. Narducci, Milano 1994, pp. 76-77. 20 Ivi, p. 25: «maxime memorabilem C. Laelii et P. Scipionis familiaritatem fuisse». 21 Ivi, pp. 26-27: «sed ego id respondeo, quod animum adverti, te dolorem, quem acceperis cum summi viri tum amicissimi morte, ferre moderate, nec potuisse non commoveri, nec fuisse id humanitatis tuae». Occorre riflettere che, quando viene composto il Convivio, Guido è morto da almeno quattro anni; ma a lungo in Dante persisterà il dolore per quella perdita e per le amare incomprensioni subentrate a un certo punto della loro vita, fino a quando, come priore, egli voterà per l’esilio di Guido (e da quel momento i due non si rividero più). Cfr. Pasquini, Dante e le figure del vero cit., pp. 48 ss. 22 L’amicizia cit., pp. 22-23.


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diate dalle diverse opinioni in materia di politica23. Rapporti di questo genere si possono dunque definire secondo l’essenza dell’amicizia, cioè il massimo accordo delle volontà, delle propensioni e delle opinioni24. La definizione viene ripresa a breve distanza25, in un luogo dove colpisce l’affermazione che l’amicizia non può sussistere senza la virtù26, e poi replicata più volte27; mentre risulta di grande interesse, nella prospettiva del rapporto fra Dante e Guido, l’allusione ciceroniana alle tesi epicuree sull’anima che perisce insieme col corpo28, cui si contrappone anche la fiducia sulla corrispondenza di amorosi sensi che s’instaura con gli amici morti29. Ma lo snodo decisivo per noi (e per gli sviluppi danteschi) è quello in cui si dipanano gli stretti rapporti fra la fenomenologia dell’amicizia e quella dell’amore30:

Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniungendam. Nam utilitates quidem etiam ab eis percipiuntur saepe, qui simulatione amicitiae coluntur et observantur temporis causa. In amicitia autem nihil fictum est, nihil simulatum est et, quidquid est, id est verum et voluntarium. Quapropter a natura mihi videtur potius quam ab indigentia orta amicitia, adplicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione quantum illa res utilitatis esset habitura.

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I riflessi di questo passo si colgono con sicurezza nella serrata argomentazione di Conv. III xi, che incrocia i campi semantici di “amicizia” e “amore” proprio al crocevia della filosofia, in un passo che abbiamo già citato, importante anche per la varietà lessicale, con quel libero incrocio degli allotropi del termine astratto. Di fatto, le tre varianti lessicali di “amicizia” mancano del tutto nella Commedia, pur gremita di amici, e vi manca una vera digressione sul con-

23 Ivi, p. 45. E anche questo rilievo doveva commuovere Dante, dopo i vari dissidi con Guido. 24 Ivi, p. 33. 25 Ivi, pp. 35 e 37. 26 Ivi, pp. 42-43: «Nihil est enim virtute amabilius, nihil quod magis adliciat ad diligendum, quippe cum propter virtutem et probitatem etiam eos, quos nunquam vidimus, quodam modo diligamus». Si tratta di un’affermazione antitetica alla sentenza di Guido, in Donna me prega, circa l’amore («Non è virtù…»). 27 L’amicizia cit., pp. 43, 49, 75. 28 Ivi, p. 31. 29 Ivi, p. 39. 30 Ivi, pp. 40-41; ma cfr. anche pp. 43-45, 55, 85, 87.


CONCEZIONE E LESSICO DELL’AMICIZIA

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cetto di “amicizia”; ma sussiste una precisa ragione del fatto che Dante vi ricorra piuttosto ai campi lessicali di “amore”/“amare” o di “affetto”/“affezione”. Il passo-chiave riguarda proprio il rapporto fra Stazio e Virgilio, dove Stazio alla fine viene a recitare la parte di controfigura di Dante entro una dimensione materna31. All’origine tuttavia sta la straordinaria invenzione di un Giovenale mediatore fra i due poeti latini, in quanto portatore, al suo arrivo nel Limbo, delle novità terrene (Purg. XXII 9 ss.):

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[…] Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; onde, da l’ora che tra noi discese nel Limbo de lo ‘nferno Giovenale, che la tua affezion mi fé palese, mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, sì ch’or mi parran corte queste scale. Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m’allarga il freno, e come amico omai meco ragiona….

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Un passo dove la fenomenologia cortese dell’amor de lonh s’intreccia coi precisi richiami al De amicitia ciceroniano32, oltre che all’ Etica aristotelica cui Dante stesso rinvia espressamente. Ma soprattutto colpisce lo scambio fra i lessemi dell’amore e quelli dell’amicizia, confermato – ma non ce ne sarebbe neppure bisogno - dalla successiva risposta di Stazio: «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno…». E a questo punto non si può non misurare la distanza che separa la concezione dell’amicizia e, in parallelo, quella dell’amore, nella Commedia, dagli esiti stilnovistici (Vita nova inclusa) e da quelli dello stesso Dante autore delle grandi canzoni morali, specie le tre rifluite nel Convivio33. Riassumendo, un primo salto di qualità si verifica attraverso le riflessioni del Convivio, in pagine che intessono una fitta rete di analogie fra i semantemi di “amicizia”, “amore” e “filosofia”, sotto l’egida dell’ Etica

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Cfr. Pasquini, Dante e le figure del vero cit., pp. 202 ss. L’ amicitia cit., p. 43, s’incrocia infatti con certa poesia di Jaufré Rudel. Cfr. anche nota 26, qui sopra. 33 È in corso di stampa, nei quaderni di «Tenzone», un mio saggio su Amor che ne la mente mi ragiona.


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Nicomachea . Ma il tema dell’amicizia assume uno sviluppo decisivo nel poema, specie entro la seconda cantica, non solo nella scia di quella rilettura del De amicitia di Cicerone attestata da un celebre passo del Convivio (II xii 1-4). In quel passo Dante associava l’operetta ciceroniana al De consolatione philosophiae di Severino Boezio, additandoli esplicitamente come i veicoli di un’uscita dall’avvilimento per la morte di Beatrice, ma implicitamente come una riflessione sulla perdita dell’amico per eccellenza, Guido Cavalcanti: prima col distacco intellettuale, poi con la scomparsa fisica a distanza di pochi mesi da quella che sarebbe stata la data fittizia del viaggio oltremondano. Proprio nella Commedia esplode quel geniale parallelismo fra i campi semantici dell’amore e dell’amicizia, che vede prevalere la serie lessicale “amore-amare-affetto”, et similia, anche sul versante dell’amicizia. Tale tendenza culmina nello straordinario incontro fra Virgilio e Stazio (Purg. XXII 9 ss.), quasi controfigura (per certi aspetti) del binomio Dante-Guido, con un ventaglio di termini apparentemente eterogenei posti sullo stesso piano («amor… affezion… benvoglienza… amico… amico… amor»). Quanto mai significativa, dunque, la ripresa della sentenza di Francesca da Rimini (Inf. V 103 ss.: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte…») a Purg. XXII 10 ss., con una radicale limitazione o correzione di rotta: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore…». Essa infatti chiama in causa quella virtù che Cavalcanti, all’opposto di Dante, nella sua grande canzone-manifesto (Donna me prega), escludeva senza remore dal meccanismo dell’amore.

34 Notevole la relazione di Sonia Gentili, specie per le implicazioni col volgarizzamento di Taddeo Alderotti.


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Alle origini della diplomazia comunale: amicizia e concordia nei rapporti fra i comuni italiani nell’epoca della Lega Lombarda


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È tristemente noto il brano di Rahewino, che descrivendo la partecipazione di Cremonesi e Pavesi all’assedio di Milano del 1158 affermava che i conflitti pregressi fra le città avevano creato profondi rancori e che i Lombardi si battevano fra loro «non ut cognatus populus, non ut domesticus inimicus, sed velut in esternos hostes, in alienigenas, tanta in sese invicem sui crudelitate seviunt quanta nec in barbaros deceret». Sebbene fossero tutti latini (conlatini), infierivano reciprocamente, tanto sui campi e sugli alberi da frutto, quanto sugli sventurati prigionieri, che non avevano scampo se cadevano in mano di altri cittadini. Fatti salvi gli eccessi retorici del brano, le parole di Rahewino evocano una realtà traumatica: le città lombarde, che avrebbero dovuto rappresentare una comunità di natura quasi familiare («cognatus populus») erano invece frammentate e divise dall’odio reciproco1. Al momento del trionfo di Federico I su Milano, le comunità urbane sembrano aver conosciuto il grado zero delle loro relazioni intercittadine, dominate dalla sfiducia e dall’odio e infine espressamente proibite dallo stesso imperatore durante la dieta di Roncaglia2. Non è dunque privo di interesse cercare di comprendere come in meno di un decennio esse siano riuscite a ricostruire una rete di alleanze che presupponeva collaborazione e fiducia reciproca creando quella Lega Lombarda che, come scriveva Cesare Vignati, «non uscì come Minerva dal cervello di Giove, ma ebbe

1 Bischop Otto von Freising und Rahewin, Die Taten Friedrichs oder richtiger Cronica, ed. F.J. Schmale, Darmstadt 1965 (Ausgewählte Quellen zur deutsche Geschichte des Mittelalters, 17), p. 488. 2 Per il contesto, basti il rinvio a F. Cardini, Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Milano 201010, pp. 198-208.


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principio, sviluppo, consolidamento conforme natura»3. In effetti anche ai nostri giorni è diffusa la tendenza a studiare la Lega senza tenere debitamente in conto la scarsità del retroterra giuridico e documentario su cui i comuni fondatori si trovarono a lavorare, in una situazione di emergenza dettata dall’azione imperiale, solo su sollecitazione della quale, come ha osservato Ferdinand Opll, «nella lotta collettiva per il mantenimento ed il riconoscimento dei diritti» i comuni riuscirono a superare quel «particolarismo così tipico dell’universo cittadino del Regno d’Italia»4. Il risultato di tale superamento fu eccezionale. Gli studiosi più recenti hanno ben sottolineato la grande novità rappresentata dalla Lega e la rivoluzione da essa portata nei rapporti intercittadini, regolando la coesistenza dei diversi comuni, creando magistrature e strumenti giuridici per la soluzione pacifica delle controversie, definendo in maniera più puntuale e precisa gli ambiti territoriali d’azione dei diversi poteri urbani. Si trattò di una grandiosa opera di legittimazione reciproca fra le città, che pur non eliminando i conflitti fra i comuni, ne delimitò radicalmente la portata cancellando di fatto per tutto il Duecento la possibilità di esiti clamorosamente traumatici quali la distruzione totale o la completa sottomissione di una città a un’altra, che invece si erano verificati nella prima metà del XII secolo5. Dall’epoca precedente, che soltanto in Lombardia aveva visto la distruzione di Lodi (1117), Como (1127), Tortona (1153), Crema (1161) e Milano (1162), il mutamento fu abissale. È necessario chiedersi come i comuni italiani riuscirono a creare uno strumento complesso e articolato quale la Lega Lombarda e a elaborare gli strumenti documentari e giuridici in grado di sostenerne l’azione. Qui, in particolare, si vuole concentrare l’attenzione sugli aspetti retorici e sulla costruzione di un quadro “emozionale” nel quale inscrivere l’azione collet-

3 C. Vignati, Storia diplomatica della Lega Lombarda, con prefazione e aggiornamento bibliografico di R. Manselli, Torino 1966, p. 89. 4 F. Opll, La politica cittadina di Federico I Barbarossa nel Regnum Italicum, in Federico I Barbarossa e l’Italia nell’ottocentesimo anniversario della sua morte, a cura di I. Lori Sanfilippo, «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo-Archivio Muratoriano», 96 (1990), pp. 85-114: 99. 5 G. Fasoli, La Lega Lombarda. Antecedenti, formazione e struttura, in Fasoli, Scritti di storia medievale, cur. F. Bocchi - A. Carile - A.I. Pini, Bologna 1974, pp. 157-278; R. Bordone, I comuni italiani nella prima Lega Lombarda: confronto di modelli istituzionali in un'esperienza politico-diplomatica, in Kommunale Bündnisse Oberitaliens und Oberdeutschlands im Vergleich, cur. H. Maurer, Sigmaringen 1987 (Vortrage und Forschungen, 33), pp. 45-58; A. Degrandi, La riflessione teorica sul rapporto città-contado


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tiva delle città “amiche” nell’ambito dell’alleanza . Un quadro emozionale che era evidentemente necessario, dopo il durissimo conflitto intercittadino che aveva preceduto la creazione della Lega e che, significativamente, ha pochi riscontri nella documentazione prodotta anteriormente. 1. I primi accordi intercittadini (1100-1158)

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Gina Fasoli, studiando gli antecedenti della Lega Lombarda ha segnalato l’esistenza di alcuni accordi intercittadini già nei primi decenni del XII secolo, spesso attestati solo da fonti cronachistiche. Dalle sue pagine emerge bene la moltitudine delle tipologie documentarie utilizzate. Così, ad esempio, nel 1107, un accordo fra Verona e Venezia prese le forme di un diploma concesso dal doge di Venezia, nel quale si regolavano i commerci e le relazioni militari fra le due città. Cinque anni dopo Milano e Tortona strinsero un’alleanza tramite un giuramento reciproco a difendersi «contra quemlibet mortalem». Verso il 1113 Padovani e Vicentini si promisero aiuto gli uni agli altri nell’ambito di un contratto destinato a regolare il potenziamento e l’uso di un canale7. A partire dal terzo decennio del XII secolo i trattati intercittadini presero una struttura più definita, quali brevia recordationis di giuramenti reciproci, che contenevano gli impegni delle città stipulanti. La molteplicità delle modalità di validazione utilizzate – sigillo comunale, «carta partita», sottoscrizione notarile – restituisce comunque l’impressione di un processo ancora in gran parte in fieri, nel quale le forme documentarie non erano ancora definite e, in mancanza di modelli di riferimento precisi, venivano variate a seconda delle necessità immediate8. Il nucleo più consistente di queste carte è rappresentato da accordi fra Genova e città dell’entroterra,

nello scontro tra Federico Barbarossa e i comuni italiani, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 106/2 (2004), pp. 139-167. Per una messa a punto recente: G. Raccagni, The Lombard League. 1167-1225, Oxford 2010 (British Academy Postdoctoral Fellowship Monographs). 6 Per il ruolo delle emozioni nella storia medievale e il loro studio, il riferimento fondamentale è B.H. Rosenwein, Emotional communities in the early Middle Ages, Ithaca London 2006. 7 Fasoli, La Lega Lombarda cit., p. 258. 8 Il problema dei trattati intercittadini e delle loro forme di validazione è ancora aperto nella riflessione dei diplomatisti. Per una messa a punto, si veda D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia dal saggio del Torelli ai giorni nostri, in La diplomatique urbaine en


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conclusi fra il 1140 e il 1156 . Un altro, piccolo nucleo documentario proveniente dall’area emiliano-romagnola vede quali protagoniste Ravenna e Bologna10. Altri atti, più isolati, riguardano infine Piacenza, Milano e Pisa11. Non è inoltre improbabile che un certo numero di accordi – impossibile da quantificare – venisse affidato alla sola tradizione orale. I contenuti erano di norma piuttosto scarni. Le parti promettevano di non recarsi reciprocamente danno, di fornirsi aiuto in caso di guerra e, talvolta, di garantire libero transito ai mercanti e alle vettovaglie sui propri territori. Un’eccezione è rappresentata dal noto accordo fra Ravenna e Forlì del 1138, che prevedeva una vera e propria fusione politica fra le due città, che avrebbero costituito collegi consolari comuni12. Soprattutto, colpisce al primo sguardo la povertà formale di questi documenti. Nelle carte genovesi prevale una scarna elencazione degli impegni reciproci, senza alcun apparato retorico ad introdurre i testi. Nel trattato del 1149 fra Genova e Pisa, ad esempio, viene posto in primo piano l’elemento negativo, dato che il testo si apre con un impegno a non nuocere agli alleati («Per 29 anni, io console di Pisa non offenderò né permetterò di offendere alcun genovese») e solo in seguito vengono elencate le clausole positive di natura commerciale e militare13. Gli altri accordi genovesi, bolognesi e ravennati ricalcano nella sostanza questo schema. Due sole sono le eccezioni, che però ci portano ai margini del mondo comunale e sono rappresentate da altrettante carte pisane degli inizi del XII secolo. Nel precoce trattato di alleanza concluso nel 1126 fra Pisani e Amalfitani, quando, nel contesto dei soliti giuramenti reciproci, prima di elencare le clausole dettagliate, gli abitanti delle due città si promisero di

Europe au Moyen Âge, cur. W. Prevenier - T. de Hemptinne. Actes du congres de la Commission internationale de Diplomatique, Gand 25-29 août 1998, Leuwen-Apeldoorn 2009, pp. 383-406: 404-405; Puncuh, Trattati Genova-Venezia, secc. XII-XIII, in Genova, Venezia, il Levante nei secoli XII-XIV, cur. G. Ortalli - D. Puncuh, Genova 2001, pp. 129-158: 130132. 9 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I/1, cur. A. Rovere, Roma 1992 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, XIII), pp. 35-36, doc. 23, 198-199, doc. 131, 269-270, doc. 186. 10 Fasoli, La Lega Lombarda cit., pp. 258-260. 11 Si vedano i riferimenti documentari nelle note successive. 12 A. Vasina, Ravenna e Forlì nel secolo XII. Una fase nella storia delle leghe intercomunali, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna», n.ser., 10 (1958-59), pp. 93-110. 13 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, cur. C. Imperiale di Sant’Angelo, I, Dal 958 al 1163, Roma 1936 (Fonti per la storia d’Italia, 77), pp. 243-247, doc. 195.


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essere «amici» , mentre «boni amici et vicini» erano gli abitanti di Nizza ai quali verso il 1119 si rivolgeva il vescovo di Pisa15. È probabile che qui il termine sia stato utilizzato in senso strettamente tecnico, quale sinonimo di alleati, anche se le scarse possibilità di contestualizzazione dell’atto impediscono di approfondirne il significato16. 2. Le “amicizie” di Milano

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Nell’Italia settentrionale, l’assenza di arenghe e di altri spazi di elaborazione retorica non consentiva che i trattati assumessero un contenuto emozionale, che ponesse le relazioni intercittadine in un quadro di sentimenti di amichevoli e non le limitasse a un arido rapporto di do ut des. L’unica eccezione, completamente isolata, è rappresentata da un trattato fra Pavia e Piacenza del 1141, che si apre con un’invocazione a Cristo, definito «amator concordie»17. In alcuni casi si trova menzione dell’“amicizia” fra città, ma, in questo contesto documentario ancora poco strutturato, il termine veniva utilizzato in senso tecnico, senza implicazioni retoriche. Lo dimostra il caso dell’alleanza stipulata nel 1138 fra Ravenna e Forlì, a cui si è già accennato prima. Anche questo testo si presenta come un breve iuramenti e non prevede arenghe o altre forme di captatio benevolentiae retoriche. Fra le clausole si prevede però che le due città mettessero in comune le reti di alleanze: «promittimus quod quam amicitiam nos aquiremus communiter, adquiremur eam pro nobis et pro Liviensibus (o Ravennatis) hominibus»18. “Amicizia”, qui, equivaleva evidentemente ad “alleanza”: si trattava della ripresa di un uso classico: in autori noti, all’epoca, l’idea di amicizia tra popoli o tra genti era di norma connessa all’esistenza di legami uffi-

14 F. Bonaini, Due carte pisano-amalfitane dei secoli XII e XIV, «Archivio storico italiano», 3/8 (1868), pp. 3-8: 5. 15 E. Salvatori, Boni amici et vicini. Le relazioni fra Pisa e le città della Francia meridionale dall’XI alla fine del XIII secolo, Pisa 2002 (Piccola biblioteca GISEM, 20), p. 187, doc. 2. 16 Sull’uso del termine “amicizia” nei documenti altomendievali: G. Althoff, Amicitiae und pacta: Bündnis, Einung, Politik und Gebetsgedenken im beginnenden 10. Jahrhundert, Hannover 1992 (M.G.H., Schriften, 37). 17 Il Registrum Magnum del comune di Piacenza, edd. E. Falconi - R. Peveri, I, Milano 1984, pp. 504-506, doc. 243. 18 Sopra, nota 12.


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ciali e di espliciti trattati («amicitia et societas» è lemma diffuso nelle opere di Sallustio e «foedus et amicitia» in Livio)19. Ancora di più, tale concetto di “amicizia” intercittadina, quale rapporto formale, emerge durante le prime guerre federiciane, dalle pagine dei cronisti filoimperiali, soprattutto per connotare la rete di alleanze che faceva capo a Milano. Sono in particolare Ottone di Frisinga e Rahewino a disegnare la trama di rapporti che univa la metropoli ambrosiana ai centri alleati. Per Ottone Tortona era «natura et arte munita, Mediolanensibus amica ipsisque contra Papienses federe iuncta». Per Rahewino l’Isola Comacina «erat autem amica Mediolanensibus et multo tempore per fedus coniuncta» e i Bresciani a loro volta «erant quippe Mediolanensibus amicitia et societate coniuncti». È dunque evidentissimo il nesso esistente fra l’amicizia e l’esistenza di un legame formale di alleanza, fosse esso un foedus o una societas, forse messi per iscritto in carte diplomatiche, forse semplicemente consegnati ad accordi orali20. In questo senso, il termine torna nel diploma imperiale che il 7 settembre 1158, dove si assicurava che, conclusa la pace, i «confederati» di Milano, ossia Tortonesi, Cremaschi e Isolani, avrebbero potuto rimanere alleati «illibatis amicitiis» con la metropoli. Il pagamento di 120 marchi d’argento avrebbe consentito ai Milanesi «et amici eorum» di tornare nella piena grazia dell’imperatore. Come nelle testimonianze precedenti, la nozione di amicizia è strettamente legata all’esistenza di una vera «confederatio»21. La natura prevalentemente formale dei legami di amicizia è infine confermata dal fatto che tali rapporti potevano essere coatti, come ci mostra Ottone Morena nell’affermare che quando, nel 1158, i consoli di Milano imposero loro di giurare fedeltà, i Lodigiani colsero l’occasione per «ab eorum amicitia recedere sine ignominia»22.

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E. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, I, Padova 18644, ad vocem. Otto von Freising und Rahewin, Die Taten Friedrichs cit., pp. 318, 578, 596. Ibid., p. 488. Ottonis Morenae eiusdemque continuatorum Libellus de rebus a Frederico imperatore gestis, in Italische Quellen über die Taten Friedrichs I. in Italien und der Brief über den Kreuzzug Kaiser Friedrichs I., Darmstadt 1986 (Ausgewählte Quellen zur deutsche Geschichte des Mittelalters, 17a), p. 68.


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3. Dopo Roncaglia

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La pace fra il Barbarossa e Milano, come si è accennato, salvaguardava la rete di alleanze che faceva capo alla metropoli ambrosiana, ma poche settimane dopo l’imperatore smentì clamorosamente tale atteggiamento, quando a Roncaglia, alla fine di novembre, vietò esplicitamente tutte le «conventiculae et omnes coniurationes… inter civitatem et civitatem»23. Non ci sono rimasti, purtroppo, documenti che riguardino quella “Lega Veronese” che rappresentò la prima clamorosa violazione della legge di Roncaglia. Forse proprio perché formalmente illegale, l’alleanza non fu formalizzata per iscritto: Bosone, nel riferirne la nascita, insiste sul fatto che essa avvenne «occulte» e che si concretizzò, ancora una volta, in una serie di giuramenti reciproci rimasti orali24. Il caso veronese non rimase comunque isolato. È significativo delle difficoltà di Federico nel controllare la penisola il fatto che un anno prima della nascita della Lega Lombarda due città filoimperiali come Lucca e Genova abbiano proceduto senza remore a siglare un trattato di alleanza, nel 1166. Il testo introduce ormai a un nuovo clima, nel quale la retorica assume un ruolo di primo piano. L’accordo, infatti, pur presentandosi ancora una volta come un giuramento pronunciato in prima persona dai consoli lucchesi, è introdotto da un’arenga nella quale si afferma che i Lucchesi intendono concludere «pacis et amoris federa cum Ianuensibus»25. La componente emotiva rappresenta dunque un elemento dell’accordo al quale si ritenne necessario dare un certo rilievo. D’altro canto, la situazione generale richiedeva indubbiamente la messa in opera di un apparato retorico in grado di giustificare anche su un piano affettivo la costruzione di rapporti di alleanza fra i comuni, dopo che il durissimo conflitto degli anni 1158-1162 fra Milano e il Barbarossa, nonché fra le città alleate dell’uno o dell’altro contendente26, aveva lasciato un cruento strascico di odi reciproci, ben simboleggiato dall’entusiasmo con

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p. 411.

Otto von Freising und Rahewin, Die Taten Friedrichs cit., p. 498. Boson, Les vies des papes, in Le Liber Pontificalis, II, cur. L. Duchesne, Paris 1955,

25 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, cur. C. Imperiale di Sant’Angelo, II, Dal 1164 al 1190, Roma 1938 (Fonti per la storia d’Italia, 79), p. 40, doc. 14. 26 H. Berwinkel, Verwüsten und Belagern. Friedrich Barbarossas Krieg gegen Mailand (1158-1162), Tübingen 2007 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 114).


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cui cremonesi, pavesi, novaresi, comaschi e lodigiani parteciparono alla distruzione di Milano27. Quando, di fronte all’arroganza imperiale, le nemiche di un tempo dovettero unirsi nella Lega Lombarda, si rivelò necessario ricostruire non solo un tessuto diplomatico, ma anche le basi della convivenza civile fra uomini di città, che in anni vicini avevano di volta in volta inflitto e subito atrocità pesantissime. Gli atti fondativi della Lega Lombarda si distinguono dunque dall’asciuttezza degli accordi precedenti per la messa in opera di un apparato retorico che, benché tutt’altro che ridondante, grazie all’uso accorto dei termini evocava anche ideologicamente l’inizio di una nuova fase di pace nei rapporti fra i comuni. 4. Concordia: i prodromi della Lega Lombarda

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Sin dal più antico documento della Lega conservatosi, il giuramento dei Cremonesi a Milano, Mantova, Bergamo e Brescia, pronunciato nel marzo del 1167, venne utilizzato il termine che più di ogni altro connotò la lunga serie degli accordi multilaterali e bilaterali che venne a formare la Lega Lombarda: “concordia”28. L’uso di tale parola negli accordi intercittadini non è una novità. La si ritrova già in un trattato fra Genova, Milano e Piacenza stipulato nel 115629 e nella resa di Piacenza al Barbarossa nella primavera del 116230. Nei documenti costitutivi della Lega, però, il termine “concordia” è presente in maniera talmente diffusa a capillare – rispetto all’assoluta saltuarietà delle attestazioni precedenti – che risulta evidente la programmaticità con cui esso venne utilizzato. Praticamente tutti gli accordi fra le città erano definite “concordie” e in alcuni atti di particolare rilievo – per tutti basti citare il grande giuramento pronunciato dai comuni alleati il 1° dicembre 1167 – la parola si ripete oltre una dozzina di volte31. Talvolta utilizzata da sola, talvolta in coppia con altri termini («concordia et societas», «pax et concordia» o «concordia et sacramentum»), la “concordia” aveva una felice ambiguità fra il significato strettamente tec-

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Da ultimo, P. Grillo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, Roma-Bari 2010 (Storia e società), pp. 26-31. 28 L’edizione più recente è in Il Liber iurium del Comune di Lodi, ed. A. Grossi, Roma 2004 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 42), pp. 137-139, doc. 60. 29 I Libri Iurium cit., pp. 269-270, doc. 186. 30 Vignati, Storia diplomatica cit., p. 75. 31 Il Liber iurium cit., pp. 106-108, doc. 42.


ALLE ORIGINI DELLA DIPLOMAZIA COMUNALE

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nico di “accordo, pace” e quello più ampio di “armonia, vicinanza di cuori”, virtù civica per eccellenza a partire dal De republica di Cicerone per giungere – per limitarsi ad un solo esempio – all’affresco del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti32. Il valore sentimentale e retorico di tale termine era dunque evidente e non c’è da stupirsi se esso permeava letteralmente gli atti, con una significativa polisemia di significati. “Concordia” non rappresentava solo la definizione dei trattati che univano le città della Lega, ma anche la descrizione del modo in cui la Lega stessa operava. I suoi membri e i suoi rettori, infatti, dovevano decidere «in concordia» le azioni da intraprendere. La concordia era inoltre il fine di gran parte di tali azioni, visto che il mantenimento delle buone relazioni fra gli alleati era fondamentale. Così, il grande giuramento del 3 maggio 1168 era definito «lex et concordia civitatum», nell’ambito della quale i rettori delle città di Cremona, Milano, Bologna, Padova, Verona, Mantova, Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Lodi, Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona e Alessandria e Obizzo Malaspina stabilirono «in concordia» diverse norme. I membri che «contra concordiam» avessero agito sarebbero stati perseguiti dagli altri «donec ad pacem et concordiam vel ad iusticiam pervenerit»33. L’uso diffuso e pregnante della parola “concordia” caratterizzò soprattutto i primi, decisivi anni di vita della Lega. Con il consolidarsi dell’alleanza e l’assopirsi della conflittualità intercittadina, si diede progressivamente maggior peso al termine più tecnico di “societas”34. Negli atti degli anni Settanta e Ottanta, l’alleanza venne definita invariabilmente «societas Lombardorum», mentre “concordia” era la pacificazione che, da Montebello a Costanza, si ricercava non più fra le città italiane ma fra queste (o almeno fra la maggior parte di loro) e l’Imperatore. Lo slittamento semantico può in questa maniera chiudere una fase significativa. Ormai la Lega era una realtà condivisa e accettata, sicché la terminologia tecnica prese il posto di quella più evocativa utilizzata negli atti fondativi. Il problema della ricomposizione del conflitto si spostava invece su un piano più alto: era infatti con l’Impero che le città italiane dovevano e volevano ritrovare – come afferma la Pace di Costanza – le necessarie «pax et concordia»35.

32 C. Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Torino 1983 (Saggi, 651), pp. 145-146. 33 Il Liber iurium cit., pp. 109-114, doc. 43: p. 111. 34 Si veda ad esempio il testo della pace di Montebello: C. Manaresi, Gli atti del comune di Milano fino all'anno MCCXVI, Milano 1919, pp. 175-178, doc. 143. 35 Ibid., pp. 191-205, doc. 136: p. 203.


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Amicizia e fazione. A proposito di un’endiadi ricorrente nel lessico politico lombardo del tardo medioevo*


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Il 29 aprile del 1440, a Curatico, in Val Parma, dodici abitanti del luogo più un tredicesimo, residente nella vicina villa di Signatico, nominarono di fronte al notaio Giovanni Palmia alcuni procuratori, dichiarando di essere «amici» e di agire «ut et tamquam amici et de amicitia et squadra seu parte nec non homines et vasalli» del magnifico Pietro Maria Rossi, signore di diritto o di fatto di un’ampia porzione del territorio parmense1. Lo stesso giorno, a pochi chilometri di distanza, in località Costa Venturina, si svolse suppergiù la stessa scena: dieci membri della parentela dei Venturini formalizzarono la nomina dei medesimi procuratori dinanzi al medesimo notaio, che li definì – in maniera appena diversa – «amici et de amicitia et squadra seu parte nec non homines et de hominicia» del suddetto Pietro Maria2. Il formulario utilizzato da Giovanni Palmia lascia intravedere una sfumatura, per quanto appena accennata, fra due componenti dell’identità sociale a prima vista non completamente sovrapponibili: da un lato il legame di dipendenza personale, declinato nel primo caso nella forma più generica del rapporto vassallatico, nel secondo in quella più specifica della dipendenza ereditaria definita dall’hominitium; dall’altro, una condizione di appartenenza espressa dall’endiadi (o meglio, dall’endiatri) amicizia, squadra, parte3. Che cosa stanno ad indicare, nel contesto della nostra valle

* Ringrazio Letizia Arcangeli e Federico Del Tredici per aver discusso con me una versione provvisoria del dattiloscritto e per gli spunti, i suggerimenti e i documenti che mi hanno offerti e segnalati con la consueta generosità. I corsivi in tutte le citazioni tratte dalle fonti edite e inedite sono miei. 1 Archivio di Stato di Parma (d’ora in poi ASPr), Notarile, filza n. 127 (G. Palmia), 1440 aprile 29, Curatico. 2 Ibid., Costa Venturina. 3 Sull’hominitium si vedano C.E. Tavilla, Homo alterius. I rapporti di dipendenza personale nella dottrina del Duecento. Il trattato de hominiciis di Martino da Fano, Napoli 1993;


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appenninica, ma anche – più in generale – nella Lombardia di età viscontea e sforzesca, questa formalizzazione del rapporto di amicizia in un atto notarile e l’accostamento in endiadi dei termini amicus, amicitia a sostantivi come squadra o parte, che nell’Emilia occidentale del tardo medioevo sono entrambi, allo stesso titolo, sinonimi di fazione? È la domanda cui si cercherà brevemente di rispondere nelle pagine che seguono, dopo una rapida premessa di carattere generale. Il vocabolario delle relazioni di potere utilizzato dalla società politica lombarda alla fine del medioevo è caratterizzato da tinte emozionali molto forti, che sembrano scolorire a mano a mano che ci addentriamo nel XVI secolo4. Si tratta di un’impressione generale e non sostenuta da un’indagine sistematica: ma nella mia esperienza di lettore di carteggi e suppliche mi sono fatto l’idea che i rivolgimenti geopolitici verificatisi nel passaggio tra Quattro e Cinquecento abbiano finito per incidere, se non sul rilievo del linguaggio affettivo in sé nella sfera del comportamento pubblico, almeno sulla qualità delle relazioni politiche espresse attraverso una terminologia fortemente connotata in senso emozionale. Se ho ragione, tra le cause di questa trasformazione dovrebbe assumere un’importanza non trascurabile il nesso che nei discorsi attinenti alla politica collega la densità dei riferimenti a sentimenti come l’ira, la vergogna, l’amore e l’odio alla rilevanza delle relazioni personali e dei legami verticali come forma dell’organizzazione della società e dei modi della convivenza. Nell’indagare il declino di questo tipo di legami, o per meglio dire la loro perdita d’importanza da un punto di vista schiettamente politico, una linea di ricerca praticabile sembrerebbe quindi la parallela verifica del diradarsi o meno, nella documentazione che li concerne, della terminologia che esprime intrinsichezza ed

Tavilla, Martino da Fano e i rapporti di dipendenza personale: il trattato de hominiciis, in Medioevo notarile. Martino da Fano e il formularium super contractibus et libellis, cur. V. Piergiovanni, Milano 2007, pp. 157-171; in generale v. E. Conte, Servi medievali. Dinamiche del diritto comune, Roma 1996. 4 In queste pagine non farò riferimento alla nozione, da qualche anno invalsa nella storiografia politico-istituzionale sul tardo medioevo lombardo, di «linguaggio politico» (cfr. A. Gamberini, Introduzione, in Gamberini, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, pp. 11-30): ritengo infatti che un uso eccessivamente lasco del concetto finisca per annullarne i benefici euristici (cfr. sul punto specifico M. Vallerani, Introduzione. Tecniche di potere nel tardo medioevo, in Vallerani, Tecniche di potere nel tardo medioevo. Regimi comunali e signorie in Italia, Roma 2010, pp. 16-17; fermo restando che alcune generalizzazioni a proposito della storiografia sull’età visconteo-sforzesca andrebbero riviste). Dopo il saggio (pionieristico tra gli studi sull’area lombarda) di M. Della Misericordia, «Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobidienti». Patto, giustizia


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emotività . Come che sia, nel contesto spaziale e temporale che costituisce l’oggetto di queste brevi osservazioni, ovvero la Lombardia tra la fine del Trecento e i primi anni del Cinquecento, i rapporti di potere di tipo verticale e personale, nonché il loro riverberarsi sul lessico delle relazioni politiche, rimandano al peso molto forte conservato dall’aristocrazia territoriale e dalla signoria rurale nell’organizzazione della società, almeno fino alla conclusione delle guerre d’Italia6. È logico, quindi, che la documentazione in qualche modo relativa all’aristocrazia territoriale – ai gentiluomini, come vengono definiti dalle fonti – ci restituisca un vocabolario politico impregnato di emotività7.

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e resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo), in Forme della comunicazione politica in Europa (secoli XV-XVIII). Suppliche, gravamina, lettere, cur. C. Nubola - A. Würgler, Bologna 2004, pp. 147-215, la nozione di linguaggio politico ha conosciuto una rinnovata attenzione, che si è tradotta nella rapida espansione in tutte le direzioni: cfr. ad es. i volumi Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento, cur. A. Gamberini - G. Petralia, Roma 2007; The Languages of Political Society. Western Europe, 14th-17th Centuries, cur. A. Gamberini - J-Ph. Genet - A. Zorzi, Roma 2012. Per il non-specialista della filosofia analitica novecentesca (radix omnium sermonum …), tanto varrà attenersi alla vecchia definizione di cultura politica, come dichiara ad es., nonostante il sottotitolo, R.C. Head, Early Modern Democracy in the Grisons. Social Order and Political Language in a Swiss Mountain Canton, 1470-1620, Cambridge 1996, pp. 5-7. 5 «È il momento delle emozioni»: con questa secca asserzione si apre la recente rassegna di S. Ferente, Storici ed emozioni, «Storica» 43-44-45 (2009), pp. 371-392: 371. Benché mi trovi sostanzialmente d’accordo nella percezione di un’insofferenza sempre più diffusa verso modelli di razionalità di stampo economicistico applicati alle scienze umane, preciso che non intendo qui (non avendone la competenza specifica) pormi in una prospettiva di storia delle emozioni, né tantomeno esprimere una posizione eliasiana (alias «idraulica») di adesione incondizionata alla grande narrazione del passaggio dal medioevo alla modernità come «history of increasing emotional restraint», per citare B. Rosenwein, Worrying about Emotions in History, «American Historical Review», 107 (2002), pp. 821-845. Sebbene trovi di grande interesse, in prospettiva, la nozione, introdotta dalla stessa Rosenwein, di «emotional community» (Emotional Communities in the Early Middle Ages, Ithaca 2006), mi limito in questa sede – come dicevo – a registrare un elemento di cultura politica. 6 Si vedano almeno G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino 1979; L. Arcangeli, Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano 2003; M. Gentile, Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001; Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme di esercizio, cur. F. Cengarle - G. Chittolini - G.M. Varanini, Firenze 2005; A. Gamberini, Lo stato visconteo cit.; Gamberini, Oltre le città. Assetti territoriali e culture aristocratiche nella Lombardia del tardo medioevo, Milano 2009; Noblesse et États princiers en Italie et en France au XVe siècle, cur. M. Gentile - P. Savy, Roma 2009. 7 I campi d’indagine possibili sono molti: si v. ad es. sulla scrittura diplomatica il recentissimo lavoro, con ampia discussione storiografica, di I. Lazzarini, Argument and Emotion in Italian Diplomacy in the Early Fifteenth Century: the Case of Rinaldo degli Albizzi (Florence, 1399-1430), in The Languages of Political Society cit., pp. 339-364.


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Non si tratta soltanto di sentimenti – per così dire – negativi. Leggendo gli storiografi dell’età comunale, lo specialista del tardo medioevo resta a volte con l’impressione che la vocazione ad elaborare una cultura politica degna di questo nome, fondata su pilastri ideali socialmente inclusivi e coesivi, appartenga soltanto a gruppi organizzati di matrice schiettamente urbana e – a partire da una certa fase – popolare. Gli esponenti dell’aristocrazia, invece, appaiono esprimere istanze politiche autoreferenziali e predatorie, tipicamente coincidenti con gli interessi del lignaggio e sostenute dalla pratica della violenza: e in ultima analisi l’interpretazione aristocratica dei modi della convivenza affonderebbe le proprie radici in quella che di recente Jean-Claude Maire Vigueur, nel suo magistrale studio sulla milizia in età comunale, ha definita «una cultura dell’odio»8. Personalmente – a parte il fatto che l’oggetto del mio discorso riguarda un contesto lontano e sotto molti aspetti diverso – non ho alcuna intenzione di negare l’importanza dell’odio nella cultura politica aristocratica: a patto però di considerarne la rilevanza come legata a circostanze specifiche. In effetti, il termine «odio», che assieme ad esempio a una parola come «inimicizia» attiene al vocabolario del conflitto (che, semplificando, possiamo figurarci articolato sul triplice piano della vendetta, della faida e della fazione)9, dà conto solo di una faccia della medaglia: osservata da una prospettiva opposta, infatti, la cultura politica aristocratica potrebbe essere benissimo definita come una cultura dell’amicizia, se non addirittura dell’amore10. La nozione di amicizia, è superfluo ricordarlo, rinvia ad uno spettro di significati eccezionalmente vasto, che può comprendere le relazioni più disparate: il che, naturalmente, vale anche per la società medievale (e italiana) nel suo complesso11, purché si abbia l’avvertenza di tener presente

8 J-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004 (traduzione italiana di Cavaliers et citoyens. Guerre, conflits et société dans l’Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Paris 2003), pp. 388 ss. 9 Tra gli studi recenti sul tema v. ad es. A. Zorzi, «Fracta est civitas magna in tres partes». Conflitto e costituzione nell’Italia comunale, «Scienza & Politica», 39 (2008), pp. 6187; Zorzi, I conflitti nell’Italia comunale. Riflessioni sullo stato degli studi e sulle prospettive di ricerca, in Conflitti, paci e vendette nell’Italia comunale, cur. Zorzi, Firenze 2009; M. Gentile, Fazioni al governo. Politica e società a Parma nel Quattrocento, Roma 2009. 10 Di questa ambivalenza, naturalmente, Maire Vigueur è ben consapevole; tuttavia, egli tiene a sottolineare «che le due forze in campo, l’amore e l’odio, sono ben lontane dall’avere lo stesso peso e che l’odio conta, in tutta evidenza, a ogni livello ben più dell’amore». Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini cit., p. 399. 11 Ne registra un ampio ventaglio, ad es., I. Lazzarini, Amicizia e potere. Reti politiche e sociali nell’Italia medievale, Milano-Torino 2010.


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che nell’epoca di cui ci occupiamo gli attori «made very different assumptions than we do about the role of friendship in their lives»12. Sarebbe inutile, infatti, «presupporre nella vita sociale una netta separazione – anacronistica per il Medioevo – fra una sfera “interna”, individuale, fatta di sentimenti ed emozioni personali, e una sfera “esterna”, collettiva, intessuta di relazioni sociali e politiche»13; così, ad esempio, nella Firenze quattrocentesca studiata da Dale Kent, «the Florentine self as presented even in private letters and diaries was always and necessarily a social one»14. Fra i tanti significati del termine amicizia, me ne interessa uno in particolare, cioè l’appartenenza a una fazione: perché nelle fonti lombarde amicizia e fazione sono spesso veri e propri sinonimi15. Qualche anno fa, ho messo in evidenza tre elementi costitutivi del rapporto fra i gentiluomini e i loro sudditi nei piccoli stati signorili dell’area padana quattrocentesca, che rimandano alle sfere semantiche e concettuali della giustizia, della protezione e – appunto – dell’amicizia16. Non è infrequente, quindi, che gli homines dipendenti da un signore rurale lombardo possono essere definiti «amici», ma va notato che normalmente il termine non viene utilizzato in maniera generica: esso designa individui che non sono soggetti alla giurisdizione territoriale del signore, e che tuttavia sono legati al dominus da un vincolo di tipo personale o – più specificamente – fanno parte della sua

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D. Kent, Friendship, Love and Trust in Renaissance Florence, Cambridge-London 2009, p. 4. 13 Lazzarini, Amicizia e potere cit., p. 2. 14 Kent, Friendship, Love and Trust cit., pp. 5-6. 15 Nella Firenze quattrocentesca studiata da Dale Kent relativamente alla fazione medicea la nozione di «amico» non pare coincidere interamente con quella di «partigiano»: cfr. D. Kent, The Rise of the Medici. Faction in Florence, 1426-1434, Oxford 1978, pp. 16, 34-35. Di qualità sostanzialmente diversa da quelli di cui mi occupo qui mi paiono anche i legami di amicizia analizzati da F.W. Kent, «Be rather loved than feared». Class relations in Quattrocento Florence, in Society and Individual in Renaissance Florence, cur. W.J. Connell, Berkeley-Los Angeles 2002, pp. 13-50, se non per l’accenno ai «rural partisans» reclutati dai Medici nel 1465-66; cfr. O. Gori, Per un contributo al carteggio di Lorenzo il Magnifico. Lettere inedite ai Bardi di Vernio, «Archivio Storico Italiano», 154 (1996), pp. 253-378 (ad es. p. 269). Neppure a Pistoia, dove le fazioni dei Cancellieri e dei Panciatichi appaiono ben più strutturate delle reti clientelari fiorentine, la nozione di amicizia pare assumere la precisa connotazione di cui ci occupiamo; l’impressione è che per designare i membri delle fazioni pistoiesi prevalgano termini come «fautori» o «seguaci», ma occorrerebbe un’indagine specifica. Su Pistoia si v. W.J. Connell, La città dei crucci. Fazioni e clientele in uno stato repubblicano del ‘400, Firenze 2000. 16 M. Gentile, Giustizia, protezione, amicizia. Note sul dominio dei Rossi nel Parmense all’inizio del Quattrocento, in Poteri signorili e feudali cit., pp. 89-104.


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fazione politica . Per cogliere appieno il senso di questa affermazione, occorre tener presente che in molte zone della Lombardia tardo-medievale il potere dei grandi casati dell’aristocrazia territoriale non si esercita esclusivamente in un contesto rurale e castellano18. Al contrario, i poteri signorili sono più forti proprio dove è maggiore la loro capacità di costruire e di alimentare un nesso organico con il centro urbano di riferimento: e il tessuto connettivo attraverso il quale questo legame si nutre è in genere la fazione19. Quando si dice “fazione”, va da sé, si possono intendere gruppi dalla natura molto dissimile e caratterizzati da gradi di coesione e di consistenza identitaria profondamente diversi. Nella Lombardia viscontea e sforzesca occorre innanzi tutto distinguere due livelli: un piano sovra locale, sovra cittadino e interregionale dove si fa ancora uso dei vecchi (ma non poi così vecchi, visto che il loro uso nell’Italia settentrionale comincia ad affermarsi nel terzo decennio del Trecento) nomi dei guelfi e ghibellini, utilizzati in genere per costruire o attivare reti di solidarietà politica su larga scala; e un piano locale, dove gli aggregati politici di matrice fazionaria non necessariamente assumono i due nomi “classici”, non necessariamente sono due e non di rado dipendono da leader esterni alla città, cioè dai capi dei maggiori casati signorili e feudali della provincia20. Nella Lombardia viscontea e sforzesca, salvo eccezioni, gli schieramenti che le fonti chiamano parti, fazioni o squadre non si presentano come volatili aggregati di tipo informale, rapidi alla coesione come allo scioglimento e orientati a perseguire obiettivi congiunturali: spesso si tratta, viceversa, di veri e propri gruppi corporati, che si auto-definiscono universitates e che manifestano un notevole grado di formalizzazione. Siamo di fronte, in altre parole, a

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Segnalo le fini osservazioni di G. Merici, Un signore e una valle: Luigi Avogadro e la Valle Trompia (1495-1512), Tesi di Laurea in Scienze storiche, rel. Letizia Arcangeli, Università degli Studi di Milano, a. a. 2008/2009, pp. 72-73. 18 In generale v. Arcangeli, Gentiluomini di Lombardia cit.; per il caso milanese, sulla caratteristica osmosi tra ambiente rurale e ambiente urbano si v. F. Del Tredici, Comunità, nobili e gentiluomini nel contado di Milano nel Quattrocento, Tesi di Dottorato in Storia medievale, Università degli Studi di Milano, a. a. 2005/2008, pp. 231-330. 19 Si tratta di un aspetto molto importante: cfr. M. Gentile, Aristocrazia signorile e costituzione del ducato visconteo-sforzesco: appunti e problemi di ricerca, in Noblesse et États princiers cit., pp. 125-155. 20 Sulla necessità di differenziare i livelli si v. Gentile, «Postquam malignitates temporum hec nobis dedere nomina …»: fazioni, idiomi politici e pratiche di governo nella tarda età viscontea, in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, cur. Gentile, Roma 2005, pp. 249-274.


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partiti organizzati e stabili, solitamente longevi sia nella denominazione, sia nella tradizione di appartenenza da parte delle famiglie cittadine che ne fanno parte. Le fazioni lombarde molto spesso esercitano una funzione istituzionale, riconosciuta o quantomeno tollerata dal governo centrale: si dividono i seggi nei consigli cittadini e gli uffici del comune, e di frequente sono il filtro attraverso il quale si distribuisce il carico fiscale, soprattutto nel caso di oneri straordinari21. Che siano abitanti della città o del contado, i membri di queste fazioni a conduzione signorile si chiamano, tecnicamente, «amici». Nel contado, la necessità di certificare con un rogito notarile la condizione di amici sorge – come accennavo – nel caso in cui le persone coinvolte non siano giuridicamente e territorialmente soggette al signore: perché nella Lombardia di età viscontea e sforzesca capita ancora che uomini personalmente dipendenti da un signore risiedano sulla giurisdizione di un altro signore22. Se la residenza e il legame di natura personale coincidono, allora si dà per scontato che i sudditi facciano parte della fazione che fa capo al loro dominus. Se non coincidono, può rendersi necessario mettere le cose nero su bianco alla presenza di un notaio. È proprio questo il caso degli homines di Curatico e dei Venturini: costoro, infatti, non risiedevano sulle giurisdizioni dei Rossi, bensì nel territorio di Beduzzo, all’epoca possesso di una famiglia signorile rivale, i Terzi; per questo motivo si era resa necessaria una certificazione in pubblica forma. La nomina dei procuratori riguardava una causa «contra pretensam exemptionem Beducii et alicuius de pretenso plebatu ut dicitur concessam comiti Jacobo de Terciis»23. La registrazione degli atti, in altri termini, serviva a contestare i diritti sugli uomini che Giacomo Terzi poteva rivendica-

21 Per una discussione del concetto di fazione nella storiografia recente v. Gentile, Fazioni al governo. Politica e società a Parma nel Quattrocento, Roma 2009, pp. 219-226. Le fazioni potevano avere un alto profilo istituzionale anche in ambito non cittadino, come ha mostrato a suo tempo M. Della Misericordia, Dividersi per governarsi: fazioni, famiglie aristocratiche e comuni in Valtellina in età viscontea, «Società e storia», 86 (1999), pp. 715-766. 22 Sul tema si v. innanzi tutto il classico studio di G. Chittolini, La «signoria» degli Anguissola su Riva, Grazzano e Montesanto fra Tre e Quattrocento, in Chittolini, La formazione dello stato regionale cit., pp.181-253; sull’incompiutezza dei quadri territoriali nel Reggiano di fine XIV secolo si v. A. Gamberini, La territorialità nel Basso Medioevo: un problema chiuso? Note a margine della vicenda di Reggio, in Gamberini, Lo stato visconteo cit., pp. 203-230; a proposito della tensione, forte ancora in pieno XV secolo nel Parmense, tra i legami verticali e la soggezione determinata dall’appartenenza a una circoscrizione territorialmente definita, v. Gentile, Fazioni al governo cit., pp. 226-251. 23 Sull’esenzione, concessa a Giacomo Terzi da Filippo Maria Visconti nel 1438, v. A. Pezzana, Storia della città di Parma, II, Parma 1842 (rist. anast., Bologna 1971), p. 407.


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re in quanto connessi al territorio; e non a caso i convenuti dichiararono che la loro condizione di amici e uomini dei Rossi risaliva a un tempo «cuius inicii memoria non existit», e che essi «et progenitores eorum fuisse et esse pro talibus habitos, tentos, tractatos, vocatos, nominatos et reputatos», tanto da Pietro Maria e dai suoi predecessori, «quam a vicinis eorum et ab aliis eos cognoscentibus […] etiam scientibus et scire volentibus et non contradicentibus comiti Jacobo de Terciis et progenitoribus et predecessoribus suis et aliis de Terciis»24. Come notavo in precedenza, in entrambi gli atti la condizione di amico equivale a quella di membro della fazione e i termini amicitia, squadra e pars sono sinonimi. Una quindicina d’anni più tardi, lo stesso Pietro Maria Rossi scrisse al duca di Milano per denunciare quella che descriveva come una vera e propria spedizione punitiva del conte Stefano Sanvitale a Sala e a Maiatico: ville «habitate da huomeni per la magiore parte et [forse] de li cinque li quatro amici mey, et quali et suoy predecessori quasi ab eterno sono stati et sono di la amicitia et sequella et sotto protectione di casa mia». Il Rossi mischiava le carte, sostenendo che le ville dipendessero dalla giurisdizione del podestà cittadino e negando che fosse lecito al Sanvitale «exercire iurisdictione sopra li amici mei et huomeni che non sono supposti a luy in cuosa alcuna»; Stefano Sanvitale, in realtà, aveva fatto valere (in forme coercitive più o meno ortodosse) le sue prerogative di detentore del mero e del misto imperio25. Anche in questo caso, benché in modo eclatante rispetto al primo, il principio (altri direbbe linguaggio) dell’appartenenza territoriale era entrato in conflitto con quello del legame personale; anche in questo caso, i sostantivi «amicitia et sequella» giustapposti in endiadi significano “fazione”. Nelle fonti lombarde tardo-medievali è molto frequente imbattersi in questa specifica accezione del termine «amicitia». Nelle fonti narrative, innanzi tutto: così nel Chronicon bergomense guelpho-ghibellinum, che menziona fra l’altro una pace stipulata tra i ghibellini Suardi e i guelfi Bonghi, Rivola e Colleoni, i quali promettono «quod non se offendent per se nec per eorum amicos et sequaces»26; o nella Storia di Milano di Bernar-

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data.

ASPr, Notarile, filza n. 127, 1440 aprile 29, Costa Venturina; ibid., Curatico, stessa

25 Archivio di Stato di Milano (d’ora in poi ASMi), Sforzesco, 855, 1454 agosto 24, Felino (Pietro Maria Rossi a Francesco Sforza). Cfr. Gentile, Fazioni al governo, pp. 235-237. 26 Chronicon bergomense guelpho-ghibellinum: ab anno MCCCLXXVIII usque ad annum MCCCCVII, ed. C. Capasso, in R. I. S.2, 16/2, Bologna 1926, p. 121. Hitomi Sato osserva in proposito che «farsi amici e aderenti dei Suardi o dei Rivola e Bonghi» equivale


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dino Corio, il quale riferisce ad esempio che nel 1403 Ugo Cavalcabò «mandò molti suoi amici de guelpha factione a Cremona» contro i ghibellini e gli officiali viscontei, o che a Costamezzana, nel Parmense, «abitavano gibellini, per factione et amicitia congiunti al [Rolando] Palavicino»27; o, ancora, nella cronaca di Giovanni Andrea Prato, il quale ricorda come nel 1513 «vennero molte lettere dal Sig. Io. Iacobo Trivulzio a soi amici et partesani, dove li exortava a stare di lieta voglia, certificandoli fra poco di avere Maximiliano Sforza Duca de Milano in quella medesima prigione che già fu il padre Lodovico»28. La nozione salta fuori in diverse tipologie di documenti e di atti, su un arco temporale lungo e da un capo all’altro dello Stato di Milano. Nel 1409, nei capitoli presentati al signore di Bergamo Pandolfo Malatesta, le comunità ghibelline di Lovere e Costa Volpino domandarono «quod si contingeret aliquos guelfos ire contra mandata vestra ad destructionem vel damna amicorum ipsorum de Luere et de la Costa, quod possint et eis licitum sit eisdem suis amicis sucursum impendere», il che fu concesso29. Nel 1407, in una tregua fra guelfi piacentini e ghibellini pavesi, i numerosi soggetti di parte guelfa promettono «pro ipsis omnibus eorumque et cuiuslibet ipsorum locis et hominibus omnibus aliisque suis adherentibus, sequacibus, amicis et benevolis atque ipsis recomendatis Episcopatus Placentiae»30; mentre nei capitoli stipulati tra Filippo Maria Visconti e Lancillotto Beccaria nel 1415 il duca di Milano s’impegnava, tra l’altro, a proteggere «gli amici ghibellini di Lanzilotto che sono in Bassignana»31. Nell’incontro fra valtellinesi a Verona descritto da Massimo Della Misericordia nelle prime pagine di Divenire comunità, l’appartenenza alla parte guelfa viene espressa negli stessi termini. Bartolomeo

a «connotarsi come guelfi o ghibellini»: H. Sato, Fazioni e microfazioni: guelfi e ghibellini nella montagna Bergamasca del Trecento, «Bergomum. Bollettino annuale della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo», 104-105 (2009-2010), pp. 149-170: 154. 27 B. Corio, Storia di Milano, ed. A. Morisi Guerra, II, Torino 1978, pp. 985 e 983. 28 G.A. Prato, Storia di Milano scritta da Giovan Andrea Prato patrizio milanese in continuazione e emenda del Corio dall’anno 1499 sino al 1519, in Cronache milanesi scritte da Giovan Pietro Cagnola, Giovanni Andrea Prato e Giovan Marco Burigozzo, «Archivio Storico Italiano», 3 (1842), pp. 218-418: 314. 29 I “Registri litterarum” di Bergamo (1363-1410). Il carteggio dei signori di Bergamo, edd. P. Mainoni - A. Sala, Milano 2003, p. 398. 30 G. Fiori, La tregua del 1407 tra i guelfi di Val Tidone e i ghibellini dell’Oltrepò, «Bollettino Storico Piacentino», 63 (1968), pp. 80-91: 88. 31 G. Romano, Contributi alla storia della ricostruzione del ducato milanese sotto Filippo Maria (1412-1421), «Archivio Storico Lombardo», 24 (1897), pp. 67-146: 77.


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Malacrida, cancelliere di Antonio Beccaria, pone all’interlocutore tre domande allo scopo di identificare gli elementi essenziali della sua collocazione nello spazio sociale e politico della valle: i quesiti riguardano «la parentela, ossia l’ascendenza, la terra di provenienza, la rete dei legami personali e, quasi ad ulteriore specificazione dell’ultimo punto, la fazione di appartenenza»32. Alla domanda: «Cognose tu miser Antonio da Becharia e tu si di soy amici?», l’interrogato replica: «Cognosco miser Antonio da Becharia et sonto suo amico»; al che il Malacrida, ritenendo di averlo identificato come affiliato alla parte, gli affida «un delicato messaggio circa l’esito delle sue trattative per procurare ai guelfi valtellinesi il sostegno della Repubblica di Venezia»33. Nel 1408, a Besozzo, un Ambrosolo de Laveno giurò a nome suo e di un’altra persona nelle mani di Franchino Rusca (stipulante a suo nome e a nome della parte ghibellina) che entrambi sarebbero stati «fideles» del predetto Franchino e della parte ghibellina, e che non avrebbero mai agito contro Franchino, né la fazione, «eorum adherentes, benivolos, amicos, sequaces et colligatos». Anche in questo caso, tutti i sostantivi in accusativo plurale sono sinonimi, e designano l’appartenenza alla fazione ghibellina: questa era capeggiata sul Lago Maggiore dai Rusca (nell’area verbanese le denominazioni «ghibellini» e «rusconi» erano intercambiabili, come peraltro in quella lariana e nel Luganese, dove pure la fazione opposta era chiamata indifferentemente «guelfa» o «vitana»), ma vale la pena di notare che Laveno non faceva parte delle terre e delle giurisdizioni direttamente sottoposte a questi ultimi, il che rendeva opportuna la formalizzazione dell’appartenenza34. Nel 1459, nel processo istruito ad Arona contro gli eredi dei fratelli Mazzardi per i crimini commessi da

32 Su questo schema di triplice dimensione dell’appartenenza sociale nella Firenze del Rinascimento («the great trinity of Florentine social bonds», per dirla con Dale Kent), cfr. Ch. Klapisch-Zuber, Parenti, amici e vicini. Il territorio urbano d’una famiglia mercantile nel XV secolo, «Quaderni storici», 33 (1976), pp. 953-982; Kent, The Rise of the Medici cit. (donde la citazione, a p. 16); D. Kent - F.W. Kent, Neighbours and Neighbourhood in Renaissance Florence. The District of the Red Lion in the Fifteenth Century, New York 1982. 33 M. Della Misericordia, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano 2006, p. 39; cfr. Della Misericordia, La «coda» dei gentiluomini. Fazioni, mediazione politica, clientelismo nello stato territoriale: il caso della montagna lombarda durante il dominio sforzesco (XV secolo), in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento cit., pp. 275-389, in ispecie alle pp. 289 (Valtellina), 311 (Ossola), 345 (Luganese). 34 ASMi, Notarile, filza 70 (G. Besozzi), 1408 maggio 28, Besozzo (ringrazio Federico Del Tredici per la cortese segnalazione di questo documento). Sulle fazioni del Lago


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costoro contro i Mantelli, famiglia di parte guelfa (o vitana) di Cannobio, durante le guerre di parte sul Lago Maggiore avvenute circa mezzo secolo prima, due testimoni ricordano che i ghibellini (o rusconi) Mazzardi agivano «cum auxilio Rusconorum at aliorum amicorum sequatiumque suorum»; e un altro ricorda l’assassinio di due uomini di Ascona, «quia erant et reputabantur guelfi et […] amici ipsorum de Mantellis»35. Nel 1467, ancora, il podestà di Como informava i duchi di Milano «del movimento lì facto in questa comunità overo cità […] per molti adherenti e amici de quelli de Val Lugano giamati Ruschoni»: anche in questo caso i «Ruschoni», definiti aderenti e amici, sono i membri della fazione ghibellina della Val Lugano, all’epoca infeudata ai Sanseverino36. Se ci spostiamo dalla periferia settentrionale del ducato sforzesco a quella meridionale, troviamo che nello stesso anno la duchessa Bianca Maria scriveva a Battaglino Fieschi invitandolo a entrare in azione «et richiedere li amici et partesani tuoi, ai quali non deve gravare aiutarti a rientrare in casa tua»37; e nella corrispondenza sforzesca relativa ai Fieschi (maxime nelle lettere scritte dagli stessi esponenti del casato) i riferimenti spuntano ovunque38. Si potrebbero moltiplicare gli esempi per le aree rurali e semi-urbane, ma non mi pare necessario; tanto più che nelle città la terminologia non è dissimile. Vediamo brevemente e in ordine cronologico tre casi trecenteschi, nei quali le fazioni cittadine hanno in comune il fatto di essere schieramenti politici istituzionalizzati e riconosciuti dal governo centrale. Nel marzo del 1388, a Parma, gli otto cittadini designati a far parte dell’organo esecutivo del Comune per la squadra rossa rifiutarono di assumere l’incarico. Gian Galeazzo Visconti scrisse al principale referente signorile della fazione, Rolando Rossi, perché questi ne indicasse altri otto: ma neppure i sostituti accettarono l’ufficio. Sollecitato a fornire spiegazioni, Rolando rispose che a Parma «dicti amici de Rubeis» erano più della metà rispetto

Maggiore di quegli anni si v. P. Frigerio - P.G. Pisoni, I fratelli della Malpaga. Storia dei Mazzarditi, Verbania-Intra, 1993. 35 Ibid., pp. 112-113, 121, 132. 36 Ticino ducale. Il carteggio e gli atti ufficiali, II/1, Galeazzo Maria Sforza, 1466-1468, ed. G. Chiesi, Bellinzona 1999, pp. 215-216. 37 I. Cammarata, “Gatto! Gatto!”. Documenti sforzeschi per la storia dei Fieschi a Montoggio, Varzi 2006, p. 79. 38 Ibid., passim. Ma v. anche, ad es., Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, I, 1450-1459, ed. I. Lazzarini, Roma 1999, pp. 227-228 («lui et tuta la casa dal Fiesco cum li amici et sequaci suoi erano in questa dis[positione] medesima per la obligatione haveano al re Ferando»).


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ai membri delle altre tre squadre; nondimeno, ciascuna di esse disponeva di un quarto dei seggi nell’Anzianato benché tutte fossero decisamente meno numerose della fazione rossa. In questo modo, chiosava Rolando, «non possunt dicti amici de Rubeis consulere nec providere honori dominationis vestre et utilitati comunis Parme»: questa era la ragione per la quale i cittadini della fazione rossa rifiutavano di assumere incarichi di governo39. Nei patti o capitoli stipulati nel 1391 fra lo stesso Gian Galeazzo e i marchesi Niccolò, Giovanni e Federico Pallavicini, all’articolo nono questi ultimi chiesero al principe di assumere il seguente impegno formale: «quod amici omnes ipsorum […] de Parma, Cremona, Burgo Sancti Donini […] favorabiliter tractentur»; è appena il caso di precisare che in tutte e tre queste città (o quasi-città) i Pallavicini erano i capi della locale parte ghibellina40. Pochi anni dopo, nel 1395, «il podestà e il capitano di Reggio informavano il principe della crescita di consenso intorno ai Fogliano. A loro dire, sempre più numerosi erano quei cittadini che «se conabantur ad amicitiam illorum de Foliano». Nemmeno in questo caso il termine amicitia si riferisce ad una generica dipendenza clientelare41. Due anni prima, avendo lo stesso Gian Galeazzo interdetto i membri della squadra dei Roberti dai pubblici uffici, dovette constatare «quod amici predictorum de Robertis se subiciunt illis de Foliano, de Canossa, de Manfredis ut aditum habeant ad predicta officia et honorantias»42. Si può aggiungere a questi casi una missiva di pochi anni posteriore (1403) inviata dagli anziani della parte ghibellina di Tortona al comune di Voghera, dove gli amici sono i ghibellini alessandrini: «A partibus Alexandriae amici nostri ibidem […] viriliter defendunt, pro quo speramus amicorum maxime subsidio, quod civitas ipsa recuperabitur in maximum detrimentum inimicorum. Animi perfidi et tristes opiniones Guelphorum huius civitatis, nostro videre nunc incipiunt refrenari, et res non ibit ut sperabant»43.

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Gentile, Fazioni al governo cit., p. 85. Pezzana, Storia della città di Parma cit., I, appendice documentaria, p. 83. Tutt’altra cosa, ad esempio, è il «linguaggio […] dell’amicizia e del patronato» riferito da Andrea Gamberini alla contrattazione fiscale tra Filippo Maria Visconti e gli Scotti; dove, peraltro, l’unica volta che la nozione che qui ci interessa fa la sua comparsa è nella formula stereotipata del proverbio «in necessitatibus cognoscuntur amici». Cfr. A. Gamberini, «Aequalitas, fidelitas, amicitia». Dibattiti sulla fiscalità nel dominio visconteo, in The Languages of Political Society cit., pp. 428-460: 453. 42 Gamberini, La città assediata. Poteri e identità politiche a Reggio in età viscontea, Roma 2003, pp. 55 e 71. 43 I. Cammarata, La città lacerata. Una lettura politica della storia tortonese dal libero comune alla dominazione spagnola (1305-1535), Voghera 2008, p. 74.


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Nutro pochi dubbi sul fatto che un’indagine sistematica sull’uso dei termini amico, amicizia con specifico riferimento ad un’appartenenza di fazione e non semplicemente a una nebulosa clientelare tenuta insieme da legami informali potrebbe estendersi in modo fruttuoso nel tempo e nello spazio44. Sul periodo grosso modo considerato in queste brevi note, basterà porre mente alle vaste reti di solidarietà fazionaria gravitanti sugli Orsini e sui Colonna nell’Italia centro-meridionale: anche nel caso dei baroni romani, infatti, l’endiadi «amici e partesani» o «amici et parciali», nonché il riferimento a relazioni di amicizia con alcune città, designavano specificamente i rapporti politici non territorializzati45. Non c’è pericolo, credo, di enfatizzare eccessivamente la consapevolezza da parte dei «gentiluomini» dell’eccezionale importanza rivestita dai legami di tipo verticale che innervavano il loro potere in città e nelle campagne. Nel 1456 Gian Filippo Fieschi così scriveva a Francesco Sforza, giustificando la propria rinuncia ad attaccare Genova: «Io mi volli ritirare, perché era in mia possanza di urtarli ma con effusione di sangue, dalla qual cosa se io veniva era distrutta la mia parte e io in eternum perderìa la gratia de li amici …»46. Più o meno negli stessi anni, per descrivere entrambe le categorie di amici, urbani e rurali, Pietro Maria Rossi non esitava a spendere, nella corrispondenza con i duchi di Milano, la metafora del tesoro: «A me et a casa mia ne seguirìa eterna vergogna et abassamento de condicione et de reputacione, quando quello thesauro de amicitia aquistato antiquissimamente per mei predecessori cum grandissimo honore et laude di casa mia et dil quale infinitamente me facio maiore capitale che da qualunche altro thesauro del mondo me fuosse cuosì vilmente et ignominiosamente usurpato, al che

44 Registra le espressioni «amici et sequaci» e «amici et partixiani» ad es. A. Franzini, La Corse du XVe siècle: politique et société, 1433-1483, Ajaccio 2005, p. 61. 45 Cfr. C. Shaw, The Roman barons and the Guelf and Ghibelline factions in the Papal States, in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento cit., pp. 475-494: 480 (Colonna), 489 (Orsini); Shaw, The Political Role of the Orsini Family from Sixtus IV to Clement VII. Barons and Factions in the Papal States, Roma 2007 (N. Studi Storici, 73), pp. 121, 127, 134, 141. Nella monografia sui Colonna di Alessandro Serio, è probabilmente il rilievo programmatico conferito alla dimensione informale delle relazioni politiche che conduce l’autore a dichiarare l’«impossibilità di distinguere con chiarezza» i rapporti di clientela, di amicizia e di vassallaggio (A. Serio, Una gloriosa sconfitta. I Colonna tra papato e impero nella prima età moderna, Roma 2007, p. 58). In realtà, Serio introduce una «distinzione tra sudditi-vassalli e amici-cittadini» (ivi, p. 66), ma la attenua subito dopo, forse con eccessiva prudenza: «dal punto di vista dei domini, la distinzione tra “vassalli” e “cittadini” colonnesi si faceva meno netta e più sfumata» (p. 67). 46 ASMi, Sforzesco, 411, 1456 febbraio 28, Torriglia (Gian Filippo Fieschi a Francesco Sforza).


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ciertamente mal puorey havere patiencia et che non me ne adiutasse per ogni via sapesse ymaginare, sì che l’amici mei may non puossesseno dire che fuosseno derelicti da me et che ne le mane mie, como di persona pusilanime et vile fuosse periclitato et mancato quelo bienne hano aquistato et lassatomi prefati mei predecessori»47; e ancora: «el più precioso thesoro qual may ab eterno havesse la casa mia, la cui heredità è pervenuta in me et è mia obligatione conservarlo, fu et è l’amicitia di citadini de Parma, cum quella qual mediante epsa mia casa et io, successivamente, havemo consequito reputatione, honor et credito più che per qualuncha altra cosa: il che congruenter arguisse et necessario conclude tal thesoro dever esser tenuto da me ben custodito et caro sopra omne altra cosa, sì che negligendolo non me ne sigua confussione, infamia et obrobrio»48. Non bisogna sottovalutare la pregnanza di questi discorsi, tantomeno liquidarli come espressione di un paternalismo cinico e ipocrita. Nei fatti, il potere politico dell’aristocrazia lombarda e padana, ancora nella prima metà del Cinquecento, si basava più sui legami personali con i loro sudditi e i loro amici che sulla proprietà fondiaria: e per potere politico intendo la capacità degli aristocratici d’intraprendere azioni concrete con i loro «homines e partesani», in qualità di signori e capi di fazioni che erano in grado di incidere sul destino di una città e di un’intera provincia, e non solo di trescare intrighi negli anditi più oscuri della corte49. Per mantenere intatta la propria capacità di

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47 ASMi, Sforzesco, 855, 1454 agosto 24, Felino (Pietro Maria Rossi a Francesco Sforza). 48 ASMi, Sforzesco, 829, 1466 giugno 7, Torrechiara (Pietro Maria Rossi a Bianca Maria e Galeazzo Maria Sforza). 49 Su questi temi ha insistito in parecchi lavori Letizia Arcangeli, della quale si v. almeno, oltre a Arcangeli, Gentiluomini di Lombardia cit.; Arcangeli, Principi, homines e «partesani» nel ritorno dei Rossi, in Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, cur. L. Arcangeli - M. Gentile, Firenze 2007, pp. 231-306; Arcangeli, Conflitti, paci, giustizia: feudatarie padane fra Quattro e Cinquecento, in Stringere la pace. Teorie e pratiche della riconciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII), cur. P. Broggio - M.P. Paoli, Roma 2011, pp. 43-73. Spunti interessanti sono recentemente venuti dall’analisi del caso bresciano: mi riferisco a G. Merici, Luigi Avogadro. Un signore e un feudo nella congiura antifrancese del 1512, «Civiltà Bresciana», 3-4 (2009), pp. 137-181; e a F. Pagnoni, «Il trattato che fessemo cum la Illustrissima Signoria». Gian Giacomo Martinengo e la congiura antifrancese del 1512 a Brescia, ibid., pp. 97-136. Da parte sua Stephen Bowd, assumendo una prospettiva urbanocentrica, non coglie pienamente il rilievo dell’elemento signorile e delle solidarietà di fazione e finisce per ridurre l’influenza esercitata dalla nobiltà feudale su Brescia e sulla società cittadina a un patronage inteso in senso lasco e generico. Cfr. S.D. Bowd, Venice’s Most Loyal City. Civic Identity in Renaissance Brescia, Cambridge-London 2010.


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azione politica, i gentiluomini non potevano privilegiare la rendita rispetto alla necessità di alimentare una clientela50: da questo punto di vista, il senso di mutua obbligazione che costoro esprimevano nei confronti degli amici non si può liquidare come un mero espediente retorico51. Tirando le somme, la parola «amicizia», nel nostro contesto, può in determinate circostanze assumere un significato preciso e specifico. Termini come parenti, amici e vicini designano tre differenti sfere dell’appartenenza sociale; tra queste, la nozione di amicizia punta verso i legami nonterritorializzati, e fra gli ambiti costitutivi dell’identità sociale è quello dell’amicizia che rientra con più immediatezza (benché ovviamente in modo niente affatto esclusivo) nelle «categorie del politico» in uso nella Lombardia tardomedievale e premoderna52. Negli anni delle guerre d’Italia, l’endiadi che ho cercato di mettere in rilievo in queste pagine fa ancora parte a pieno titolo del bagaglio lessicale dei membri della società politica53, utilizzata anche da toscani in trasferta come Goro Gheri o Francesco Guicciardini. Il primo, governatore pontificio di Piacenza, scriveva nel 1515 al cardinale Giulio de’Medici: «Questa mattina ho avviso, come messer Matteo de’ Beccheria, ed il conte Federigo Dal Verme, con loro amici e partigiani, sono entrati in Voghera, dove erano circa centocinquanta cavalli della compagnia del Baron di Bernia, e trecento fanti; ed insomma, dice, li hanno sforzati con loro iattura, e ripreso la terra» ai francesi; e chiosava il brillante successo della parte ghibellina osservando: «Tutto mostra che le rebellioni de’ parziali fanno più effetto che la forza de’ nemici». Il secondo, governatore di Modena e Reggio, così riferiva un paio d’anni dopo al medesimo corrispondente un fallito colpo di mano contro la città

50 Cfr. E. Muir, Mad Blood Stirring. Vendetta & Factions during the Renaissance, Baltimore-London 1993, pp. 122-123; ma su questo tema già ad es. L. Stone, The crisis of the aristocracy, 1558-1641, Oxford 1965, pp. 199-272. 51 Cfr. A.L. Herman, The Language of Fidelity in Early Modern France, «The Journal of Modern History», 67 (1995), pp. 1-24; M. Gentile, La formazione del dominio dei Rossi fra XIV e XV secolo, in Le signorie dei Rossi cit., pp. 23-55; Gentile, Fazioni al governo cit., pp. 195-196. 52 Qui è scontato il riferimento a C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Schmitt, Le categorie del ‘politico’, cur. P. Schiera, Bologna 1972, pp. 87-208. Cfr. (anche per indicazioni bibliografiche) le riflessioni di Zorzi, I conflitti nell’Italia comunale cit., in particolare le pp. 38-41. 53 In generale v. L. Arcangeli, Appunti su guelfi e ghibellini in Lombardia nelle prime guerre d’Italia (1494-1530), in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento cit., pp. 391472; cfr. almeno anche Arcangeli, Principi, homines e «partesani» cit.


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da parte del famigerato Domenico d’Amorotto, capoparte della montagna reggiana: «feciono armata di molti amici et partigiani loro et la nocte avanti hieri vennono sino presso alle mura di questa terra con animo di fare uno saccho e una ruina maggiore che l’altra»54. Detto in maniera molto generale, nel corso del Cinquecento e durante i secoli successivi, il trionfo dello stato territoriale come forma standard dell’organizzazione politica contro i concorrenti non-territorializzati (non del tutto, almeno) come le fazioni, nonché il disciplinamento sociale condotto dagli stati in collaborazione con le chiese di ogni confessione, contribuirono in maniera decisiva al declino dei legami di tipo verticale come fattori cruciali nello strutturare le forme della vita associativa. Nel corso di questi processi, la nozione di amicizia è andata spostando il proprio baricentro semantico dalla sfera del pubblico a quella del privato, e ad un tempo il rapporto fra le espressioni dell’emotività e le forme di cultura politica considerate legittime si è ridefinito intorno a modelli distanti da quelli prevalenti nell’ambito spaziale e temporale che costituisce l’oggetto di queste note. L’amicizia di cui ho cercato di dar conto, in fondo, non è che la variante specifica di una tipologia di legame che è possibile indagare secondo prospettive diverse. Una possibilità potrebbe ispirarsi al dialogo tra il capitano Bellodi e don Mariano Arena nel Giorno della civetta: «No… Sì: ma io di raccomandazioni ne faccio a migliaia». «Di che genere?» «Di ogni genere: l’appalto, il posto in banca, la licenza liceale, il sussidio…» «A chi rivolge le sue raccomandazioni?» «Agli amici che possono fare qualcosa». «Ma di solito a chi?» «A chi mi è più amico; e a chi può fare di più». «E non ne ricava qualche vantaggio, qualche profitto, qualche segno di riconoscenza?» «Ne ricavo amicizia». «Tuttavia, qualche volta…» «Qualche volta, a Natale, mi regalano la cassata»55. Un’opzione diversa e non necessariamente alternativa (per quanto un po’ démodée) potrebbe prendere spunto da un famoso passaggio di Karl Marx e Friedrich Engels

54 Si v., rispettivamente, G. Gheri, Lettere di Monsignore Goro Gheri pistoiese governatore di Piacenza nel 1515 a Giuliano, Giulio e Lorenzo de’ Medici e ad altri, scelte ed estratte dal Codice Capponi CCLXXXIV ed annotate dal conte Bernardo Pallastrelli, con postille di Luciano Scarabelli, «Archivio Storico Italiano», appendice al tomo VI (1848), p. 119; F. Guicciardini, Le lettere, ed. P. Jodogne, III, Roma 1989, pp. 49-52. Il pistoiese Goro Gheri di fazioni s’intendeva naturaliter: prima di assumere incarichi di governo per conto dei Medici, infatti, si era distinto in patria fra i capi della parte panciatica. Connell, La città dei crucci cit., pp. 160, 192, 207. 55 L. Sciascia, Il giorno della civetta, in Leonardo Sciascia. Opere. 1956-1971, cur. C. Ambroise, Milano 2004, pp. 387-483.


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che evoca il meccanismo attraverso il quale sono stati distrutti «tutti i rapporti patriarcali, feudali e idilliaci», sono stati «lacerati spietatamente tutti i variopinti legami feudali che stringevano l’uomo al suo superiore naturale», per non lasciare alla fine «tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse»56. Tenendo presente, va da sé, che le categorie che abbiamo interiorizzate non sono naturali e universali e che ci occupiamo di razionalità (e di irrazionalità) diverse dalle nostre.

56 K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, cur. D. Losurdo, Roma-Bari 20087, p. 8.


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Le relazioni di amicizia nella storia politica del comune di Ascoli nel XIV secolo


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Il Quinternone1 è il libro pubblico che registra gli atti più importanti della vita politica ascolana dall’XI al XIV secolo. G. Borri, curatore dell’edizione critica del testo, lo definisce: «una raccolta di documenti selezionati e rispondenti alla realtà politica del momento della compilazione: il codice dove le autorità hanno fatto copiare «le prove scritte delle ragioni formali o giuridiche della vita del Comune», cioè i documenti attestanti la sovranità del comune sul territorio, i suoi iura, le sue prerogative politiche e giurisdizionali»2. La registrazione nel Quinternone dell’atto di vendita del castello di Belvedere (16 marzo 1301), stipulato con il comune di Ascoli dai dinasti «de Belvedere»3, e i documenti che protocollano l’acquisto da parte del Comune del castello di Montecalvo (12 novembre 1301), per otto mila libre di volterrani e ravennati4, rendono ragione di una trasformazione 1 2 3

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Il Quinternone di Ascoli Piceno, ed. G. Borri, 2 voll., Spoleto 2009. Ibid., I, p. IX. Archivio di Stato di Ascoli Piceno (d’ora in poi ASAP), Archivio storico del comune di Ascoli Piceno (d’ora in poi ASCAP), Quinternone, “Registri”, n. 40, cc. 53v-54r, già LVIIv-LVIIIr; cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 167-171, doc. 48 (1301 marzo 16, Ascoli Piceno, «in palactio comunis»): «i nobili Giacomo da Belvedere e suo figlio Giacomo, e i figli di Saladino da Belvedere Federico e Brocardo, signori del castello di Belvedere, vendono il loro castello al comune di Ascoli Piceno, nella persona del sindaco Umile, frate del monastero di San Marco, per il prezzo stabilito dagli anziani del popolo e dai capitani delle arti». È interessante notare che l’atto è rogato alla presenza degli anziani del popolo, del «nobilis et sapientis viri domini Sinibaldi de Pasinellis de Reate», vicario del podestà: il «nobilis miles dominus Gentilis Pasinelli de Reate», dinanzi a «Petro de Regio notario et vicario» del gonfaloniere di giustizia: «domini Cavalcantis de Panicis de Luca», ai capitani delle arti e a una rappresentanza significativa di domini in veste di testimoni. Si tratta di un consesso di «nobiles, magistri et notarii» rappresentativi della composizione sociale del comune ascolano nei primi anni del XIV secolo. 4 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 44v-45v, già XLIIIv-XLIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 134-137, doc. 40 (1301 novembre 12, Ascoli Piceno, «in palactio


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socio-politica-economica e culturale iniziata a metà del XIII secolo (1249), con l’ingresso in città dei nobili di Monte Passillo, Comunanza, Monte Fortino, Monte Monaco5 e di altre numerose dinastie, in seguito ai cambiamenti di rapporti e di interessi determinati in città dalla parentesi federiciana6, e continuata fino ai primi anni del XIV secolo. I discendenti dei «domini loci» di antica stirpe, già proprietari di castelli e di beni situati nei luoghi strategici del territorio cittadino, per lo più nelle zone di confine, di fronte alla crisi ormai evidente delle istituzioni universalistiche di papato e impero, dinanzi all’affermazione delle autonomie locali, constatata l’intraprendenza delle iniziative imprenditoriali e mercantili, superata un’economia di tipo esclusivamente agro-silvo-pastorale, pensarono che inurbarsi fosse la scelta più conveniente da adottare. Per questo motivo, pochi anni dopo aver assunto la cittadinanza ascolana, essi decisero di vendere al «Commune» parte dei beni e dei diritti sul territorio: «castra, turres, burgos, iura, vassallos, actiones, mansos, benefitia, ecc.», decisi a «facere communia» e a stringere “relazioni di amicizia” con i nuovi centri di potere, con i maggiorenti della città, assumendo incarichi di responsabilità, divenendo protagonisti della gestione della cosa pubblica, forti di cospicue risorse di denaro contante e di una sperimentata destrezza militare7. Per quanto riguarda i primi anni del XIV secolo, nel Quinternone sono inserite le carte che registrano i versamenti delle tasse di affitto fatti dal comune di Ascoli a favore della Chiesa di Roma, durante il pontificato di Bonifacio VIII, e depositati nelle mani dei tesorieri della Marca

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comunis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 45v-46v, già XLIIIIv-Lv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 137-142, doc. 41 (1301 novembre 12, Ascoli Piceno, «in palatio comunis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 47rv, già LIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 142-146, doc. 42 (1301 novembre 30, Montecalvo); due atti sono rogati ad Ascoli, «in palatio comunis» alla presenza dei venditori: i fratelli Giovanni e Nicolò eredi di Giacomo, il terzo documento, redatto «in castro Montis Calvi», in data 30 novembre 1301, consiste nella conferma e ratifica della vendita del castello e delle altre cessioni e concessioni fatte al comune di Ascoli da Nicoluccio, fratello di Giovanni. 5 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 54v-55v, già LVIII-LVIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 171-176, doc. 49 (1249 agosto 9, «in palactio comunis»). 6 Cfr. M.E. Grelli, Le dinamiche socio-politiche del comune ascolano nel secolo XIII, in Esculum e Federico II, L’imperatore e la città: per una rilettura dei percorsi della memoria. Atti del Convegno di studio Premio Internazionale di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, 14-16 dicembre 1995, cur. E. Menestò, Spoleto 1998, pp. 87-119. 7 Circa le dinamiche socio-politiche del comune ascolano sul finire del XIII secolo e gli sviluppi del XIV, si veda M.E. Grelli, “De festis celebrandis”. Sacro e profano nel trecento ascolano: calendario, riti e persone, in L. Ciotti et al., Segni, simboli, spazi e colori della festa mondana medievale. Atti del V convegno di studi sui giochi storici, Ascoli Piceno, 45 maggio 1996, Ascoli Piceno 1996, pp. 133-134.


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Anconitana, per lo più di origine fiorentina, incaricati dal rettore Pietro Caetani, nipote del papa8. Molti magistrati e notai «de Florentia» rogano atti notarili riguardanti il comune ascolano o vi assistono come testimoni e si costituiscono procuratori e garanti di affari pubblici e privati. Tali documenti sono a riprova del sostegno accordato da papa Bonifacio VIII ai suoi familiari9, e a conferma degli interessi economici e commerciali che legarono compagnie di mercanti, banchieri fiorentini e città toscane al suo papato10; i fiorini «boni et puri auri» erano la moneta di conto. La progressiva ascesa economica e l’affermazione dei banchieri fiorentini furono incentivate anche da papa Benedetto XI che, nel suo pur breve pontificato, continuò tuttavia ad incaricarli della riscossione dei censi11. Nella realtà politica ed economica della Marca Anconitana anche il comune ascolano segui8

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ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 214v, già CCXIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., p. 706, doc. 161 (1300 maggio 14, Macerata, «in palactio comunis»): Nicola di Gualtiero di Anagni, tesoriere nella Marca Anconetana per il rettore Pietro Caetani «domino marchione, domini pape nepote», riceve da Bilancino di Pietro, «mercatore solvente», ottanta libre di ravennati e anconetani per conto del comune di Ascoli a pagamento della tassa dovuta alla Chiesa per l’anno in corso. Sono presenti come testimoni: «magistro Naticombene Massei de Esculo notario e Iohanne Salvi de Florentia; ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 214r, già CCXIVr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 704-705, doc. 160 (1302 maggio 12, Montolmo): «Clericuccius Clerici de Esculo» versa al tesoriere della Marca Anconetana e del ducato di Spoleto, «sapiens et discretus vir Avogadus de Florentia», le tasse dovute «pro affictu» dal comune di Ascoli e da «castris, universitatibus seu villis et hominibus» di Montecretaccio, Capradosso, Collina di Colle Fornace, Portella, Montemoro, Casalena, Ripaberarda, Appignano, S. Pietro in Cerreto e Poggio Paganelli. L’atto è rogato a Montolmo, sono presenti come testimoni: «Cecchino filio Neri Raçanelli et Guiduccio Luci, ambo de Florentia». Il giudice «Galleranus Bonasii de Florentia» è il «notarius publicus et dicti thesaurarii scriba». È interessante notare che il testimone Cecchino, figlio di Nero Raçanelli, con i fratelli «Sandorus, Raçanellus et Johannes», il 24 ottobre 1297, nel palazzo del comune ad Ascoli, è tra gli uomini di Firenze che insieme ad alcuni di Arezzo e con alcuni «iudei de Urbe» chiedono ed ottengono l’autorizzazione ad aprire in città un banco di prestiti, ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 224rv, già CCXXIIIIrv, Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 744-749, doc. 181 (1297 ottobre 24, Ascoli Piceno, «in palatio communis»). 9 Il papa si accattivò molte inimicizie proprio per la parzialità con cui favorì i suoi nel governo delle province pontificie e soprattutto nell’espansione dei loro possedimenti, cfr. B. Guillemain, Bonifacio VIII e la teocrazia pontificia, in Storia della Chiesa. La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), XI, cur. D. Quaglioni, Alba (Cuneo) 1995, pp. 129-174: 130-136. 10 Molti banchieri toscani si rivelarono talmente indispensabili da diventare i tesorieri della Chiesa romana, ibid., p. 191. Firenze, Siena, Orvieto ed altre città toscane legate al papato da interessi economici appoggiavano la politica pontificia soprattutto nel sud d’Italia e in Sicilia, temendo per i loro commerci e il consolidamento della potenza aragonese nel Mediterraneo occidentale. 11 Ibid., p. 180 nota 6.


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tò a versare le tasse annuali nelle mani di un tesoriere «de Florentia», un esattore incaricato dal nuovo rettore «in Anconitana Marchia»12 . Nel 1308, nel vivo dell’inchiesta pontificia inquisitoria contro l’Ordine del Tempio13, nel delicato clima di vari altri disordini che minacciavano gli stati della Chiesa14, il comune ascolano, confederato in «sotietate et lega habita una cum civitate Anconitana et eorum sequatium», in tutto trentacinque luoghi e città della Marca Anconitana15, sotto la guida militare del nobile capitano romano Poncello «de filiis Ursi», figlio di Bertoldo Orsini16,

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12 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 213r, già CCXIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 701-702, doc. 158 (1304 giugno <19 o 26>, Macerata): il «sapiens et discretus vir Dedi Bonincontri de Florentia, thesaurarius Anconitane Marchie per sanctam Romanam Ecclesiam constitutus» ricevette «a Roçerio domini Herrici de Esculo, ambaxiatore» il pagamento delle tasse annuali dovute dal comune di Ascoli e da «castris, universitatibus seu villis et hominibus» di Montecretaccio, Capradosso, Collina di Colle Fornace, Portella, Montemoro, Casalena, Ripaberarda, Appignano, S. Pietro in Cerreto e Poggio Paganelli. L’atto è redatto a Macerata, sono presenti come testimoni: «Gallucttio de Sancto Miniate e Geppo Bonaiuti de Florentia», il giudice ordinario e pubblico notaio «Bonaiutus ser Ghalçani de Florentia» funge da scriba del tesoriere. ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 213v, già CCXIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 702-704, doc. 159 (1305 luglio 7, Macerata): al tempo della rettoria del magnifico «viri domini Rambaldi Tarvisii comitis», «Franciscus Cose de Sancta Victoria» versa al tesoriere della Marca Anconitana Dedo di Bonincontro «de sotietate Circulorum de Florentia» le tasse del corrente anno dovute dal comune di Ascoli e da «castris, universitatibus seu villis et hominibus» di Montecretaccio, Capradosso, Collina di Colle Fornace, Portella, Montemoro, Casalena, Ripaberarda, Appignano, S. Pietro in Cerreto e Poggio Paganelli, il giudice ordinario e pubblico notaio «Bonaiutus ser Ghalçani de Florentia» funge da scriba del tesoriere. 13 A. Demurger, Vie et mort de l’ordre du Temple, Paris 1985. 14 B. Guillemain, Il papato sotto la pressione del re di Francia, in Storia della Chiesa. La crisi del Trecento cit., pp. 222-223, il papa doveva fronteggiare le lotte di fiorentini e lucchesi contro Pistoia, la disfatta della gente di Arezzo e il rischio consapevole dell’allontanamento progressivo delle città dalla soggezione all’autorità pontificia. 15 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 188rv, già CLXXXVIIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., p. 612, doc. 116 (1310 giugno 22, Avignone): le città, le «communitates et universitates», i castelli, le terre e i luoghi ribelli furono: Ancona, Senigallia, Numana, Ascoli, Ripatransone, Monterubbiano, Santelpidio, Montefiore, Montegranaro, San Giusto, Civitanova, Montecosaro, Morrovalle, Montelupone, Monte Santo, Ficardi, Offagna, Monte Santa Maria in Giorgio, Montelupone, Santa Vittoria, Penne S. Giovanni, Sarnano, Montefortino, Arquata, Montemonaco, Monte Santa Maria in Lapide, Montelparo, Montalto, Cossignano, Patrignone, Porchia, Force, Rotella, Colloto Nuovo, Tolentino. 16 Bertoldo Orsini, figlio del rettore del patrimonio in Tuscia nominato da papa Niccolò III, Orso Orsini, nel 1277 aveva ottenuto dal papa lo stesso incarico per la Romagna, quindi papa Niccolò IV lo aveva nominato suo vicario nell’ufficio di senatore conferitogli dalla città di Roma, nel secondo semestre del 1288, P. Herde, I papi tra Gregorio X e Celestino V. Il papato e gli Angiò, in Storia della Chiesa. La crisi del Trecento cit., pp. 37 nota 66, 88 e 362.


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e del suo marescalco Lorenzo di Giovanni di Stazio , tentarono di «scuotere il gioco del potere pontificio»18, due anni dopo il trasferimento della Santa Sede in Francia, avvenuta per decisione dell’ex arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, papa Clemente V19.

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ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 242v-243r, già CCXXXXIIv-CCXXXXIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 814-816, doc. 211 (1308 luglio 10, Ascoli Piceno, «in palactio comunis»): i consigli generale e speciale, «dominorum ançianorum, capitaneorum artium XXIIIIarum et octo bonorum hominum vel virorum civitatis Esculi» convocati dal podestà e capitano Balduccio da Castelnovo, costituiscono Emidio di Pietruccio da Ascoli sindaco e procuratore, «una cum magistro Phylippo Petri de Esculo» sindaco generale, «ad presentandum magnifico et potenti viro domino Puncello de filiis Ursi electionem generalis capitanie, talie seu militie de ipso Puncello factam per civitates et comunantias de Marchia Anconitana de .VC. militibus e specialiter de sotietate et lega habita una cum civitate Anconitana et eorum sequatium». ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 240r, già CCXLr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 803-805, doc. 206 (1308 novembre 1, Ascoli Piceno, «in palatio comunis»): congregato il consiglio generale e speciale del comune, del popolo «et masse populi», il podestà Rainaldo de Bondelmontis da Firenze e Balduccio de Castro Novo costituiscono Giunta di Scarlatto sindaco e procuratore del comune «pro salario dando pro facto lige Marchye». ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 216rv, già CCXVIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 710-712, doc. 166 (1308 novembre 16, «in castro Murri [Morro<valle>], in domibus Fratrum Minorum»): «magnificus et potens vir Poncellus quondam domini Bertuldi de filiis Ursi» fa quietanza di pagamento a Bonaggiunta del fu Cherlatto, sindaco e procuratore della città di Ascoli, «pro adventu suo et pro capitania [...] et pro talia militum et stipendiariorum, quos secum duxit et tenuit in Marchiam ad servitia civitatis Esculi et comunantiarum». ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 242r, già CCXLIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 812-813, doc. 210 (1308 novembre 16, «Murri (Morro<valle> in loco Fratrum Minorum»): Giunta di Scarlatto, sindaco e procuratore del comune della città di Ascoli e degli uomini «universitatis dicte civitatis», promette di versare a Lorenzo di Giovanni di Stazio da Roma mille e cento libre di ravennati e anconitani parvorum «pro servitio eis prestito per milites Poncelli ac etiam ipsius Laurentii». ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 239v, già CCXXXVIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno cit., II, pp. 801-803 doc. 205 (1309 maggio 2, Sulmona, «ante apothecam Raynaldi Sanitatis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 232v, già CCXXXIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 784-785 doc. 196 (1309 agosto 1, Ascoli Piceno, «in palatio communis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 233r, già CCXXXIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 785-787 doc. 197 (1309 agosto 13, Ascoli Piceno, «in scalis palatii populi»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 234v, già CCXXXIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 787-789 doc. 198 (1309 settembre 11, Ascoli Piceno, «in hospitio olim Vitaleonis Sciolfi»); ASAP, ASCAP, Quinternone c. 236v, già CCXXXVIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 791-793, doc. 200 (1309 settembre 26, S. Egidio alla Vibrata, «in casale»): per un anno ancora il comune ascolano sarebbe stato impegnato finanziariamente per il saldo delle somme pattuite con Giovanni de Campania, conestabile di Lorenzo di Giovanni di Stazio, e con i soci e i soldati di Poncello per i servizi prestati a favore del comitato della lega della Marca Anconitana. 18 Per una ricostruzione dettagliata di fatti e personaggi legati all’avvenimento, si veda A. De Santis, Ascoli nel Trecento, I, Rimini 1984, pp. 115-157. 19 Guillemain, Il papato sotto la pressione del re di Francia, in Storia della Chiesa. La crisi


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Nel 1309, il ritorno di Ascoli sotto l’egida del papa, preoccupato della «reformatione et conservatione pacis in Marchia et iurium et iurisdictionum Romane Ecclesie protectione», per la città significò vedere assegnata la podesteria e la capitaneria dei primi sei mesi dell’anno a Giacomo Colonna, detto Sciarra20, nipote del cardinale suo omonimo21, figlio di Giovanni Colonna, che era stato nominato rettore della Marca nel 1288 da papa Nicolò IV22. In una lettera a frate Gentilesco da Fermo, proprio lo zio, il cardinale Giovanni Colonna, esprimeva l’auspicio che Ascoli tornasse «ad statum pacificum» e manifestava tutto il suo compatimento per le misere condizioni in cui versava la città23. Certamente la commiserazione, pur così enfatizzata, non era dettata da amorevole e paterna indulgenza, se si valutano i rapporti che i Colonna avevano avuto con il pontefice ascolano, Nicolò IV, il loro ruolo nell’ambito delle terre del Patrimonio al tempo del suo papato, nonché l’indubbia “inimicizia” della famiglia Colonna nei confronti degli Orsini24. Il risentimento e la veemenza di Clemente V nei confronti dell’insurrezione emergono evidenti se si calcolano le condanne di scomunica e di interdetto comminate agli insorti, su suo mandato, dai vicari generali Vitale Brost e Guglielmo da Tolosa e dal nunzio apostolico Ugolino da

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del Trecento cit., pp. 184-232. Per quanto riguarda la gestione economica, Clemente V sceglie ecclesiastici che conosce e di cui si fida, dal 1° settembre 1306 egli interrompe ogni ricorso ai banchieri toscani. Il 21 febbraio 1309 infattti è il cappellano del papa e legato apostolico nella Marca Anconitana «Huççolinus de Marsciano» che, su richiesta del tesoriere della Marca Vitale Brost, riscuote dal sindaco del comune di Ascoli il pagamento della tassa di affitto dovuto alla «Romana Ecclesia»; tuttavia è da notare che tra i testimoni presenti alla redazione dell’atto c’è anche un tale «Philippo Marci de Florentia», segno che “l’utilità” della fortuna dei «mercatores» fiorentini, in Italia continuava ad essere riconosciuta: ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 210r, già CCXr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 691692, doc. 147 (1309 febbraio 21, Montolmo, «in sala parva superiori palactii»). 20 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 206r, già CCVIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 680-681, doc. 141 (1309 novembre 4, Roma, chiesa di San Marcello); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 206v, già CCVIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 681-683, doc. 142 (1310 gennaio 6, Roma, chiesa di San Marcello): sono documenti che si riferiscono alla soluzione del pagamento di duemila e duecento fiorini “d’oro puro e di giusto peso” della carica di podestà e capitano ricoperta per sei mesi e per le spese sostenute per il salario degli ufficiali, familiari e soldati a servizio della città. 21 Dizionario biografico degli italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 311s.; L. Mohler, Die Kardinäle Jakob und Peter Colonna, Paderborn 1914. 22 A. Franchi, Nicolaus Papa IV 1288-1292 (Girolamo d’Ascoli), Ascoli Piceno 1990, p. 153. 23 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 207rv, già CCVIIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 683-687, doc. 143 (1310 febbraio 8, Avezzano, «in palatio domine comitisse Alviensis»). 24 Franchi, Nicolaus Papa IV cit., pp. 141-143, 153.


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Marsciano , trasformate, per successive mediazioni, in pesantissime pene pecuniarie. Esse furono inferte ai protagonisti della rivolta nelle città e nelle località ribelli alla «Romana Ecclesia»: podestà, capitani, rettori, priori, anziani, capitani delle arti, consiglieri, ufficiali e ai loro seguaci. Ascoli fu la città multata con l’ammenda più alta: diecimila fiorini d’oro26. Nei vari documenti, come capi della sommossa ascolana, sono nominati, in primis, i cittadini: «Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis, Amatus Iacobi milites e Parisanus de Castiniano»27, che «rebellionum, excessuum huiusmodi actores fuisse precipui dicebantur». Ad espiazione della colpa fu data loro la possibilità di scegliere tra la visita alla tomba di Pietro, o a quella di S. Giacomo apostolo o la crociata in Terra Santa «ad partes ultra marinas [...] in subsidium Terre Sancte [...] in servitium crucifixi»28. L’ordine di condanna espresso dal papa fu prontamente recepito da Arnaud de Pellegrue, cardinale diacono dal titolo di S. Maria in Portico e legato della sede apostolica29. Il pontefice intimò anche il recupero dei

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25 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 179r-180r, già CLXXVIIIr-CLXXVIIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 578-582, doc. 110 (<1310> giugno 22, Avignone); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 188rv, già CLXXXVIIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno II cit., pp. 611-615, doc. 116 (1310 giugno 22, Avignone). 26 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 185v-187v, già CLXXXIIIIv-CLXXXVIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 600-611, doc. 115 (1310 ottobre 17, Firenze, «in hospitio Moçorum»). 27 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 174r-175r, già CLXXIIIr-CLXXIIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 563-567, doc. 107 (<1310> marzo 20, Avignone): il papa, in seguito a successive mediazioni, dichiara al rettore «in spiritualibus» e tesoriere della Marca Vitale Brost di essere disposto a concedere delle dilazioni di pagamento della condanna di diecimila fiorini d’oro inflitta ad Ascoli e a commutare l’ingiunzione ai capi dei ribelli di andare «causa peregrinationis ad Sanctum Iacobum» con la visita «ad limina beati Michaelis archangeli in Apulia». 28 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 176r-178v, già CLXXVr-CLXXIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 569-578, doc. 109 (<1310> giugno 22, Avignone): il papa scrive ad Arnaldo, cardinale diacono dal titolo di S. Maria in Portico e legato della sede apostolica. L’atto è trascritto in copia da «Franciscus magistri Alegricti de Sancta Victoria», a Firenze, «in hospitio de Campana», il 20 ottobre 1310. 29 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 184r-185r, già CLXXXIIIr-CLXXXIIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 595-600, doc. 114 (1310 ottobre 17, Firenze, «in hospitio Moçorum»); ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 185v-187v, già CLXXXIIIIvCLXXXVIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 600-611, doc. 115 (1310 ottobre 17, Firenze, «in hospitio Moçorum»): il cardinale Arnaud de Pellegrue, capo del partito guascone, era parente di Clemente V. Il papa si servì del suo operato anche per scagliare scomunica e interdetto contro i veneziani e l’interdizione di commerciare con loro, cfr. G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905.


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beni e dei diritti della Chiesa Romana, dispersi da Gerardo de Tastis, «miles Marchie Anconitane in temporalibus vicarius generalis»30, perché concessi imprudentemente a comunità, baroni e nobili. In un documento del 24 dicembre 1311, con il quale si dichiarava evaso il pagamento di diecimila fiorini per la pena inflitta alla città di Ascoli per la ribellione alla Chiesa, a conferma del ruolo svolto nell’insurrezione da «Parisanus de Castiniano, Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis31, Amatus Iacobi milites», sono nominativamente elencati i seguaci degli ascolani nella sommossa: gli abitanti di Offida, di Castignano, di Force, di Patrignone e di Morta, in particolare sono menzionati anche «Iacobuctius [fratello di Parisano], dominus Cicchus, Riccarductius, Vannuctius et Nicoluctius filii dicti domini Parisani, Franciscus, Gualterius, Raymundus famuli eiusdem domini Parisani», i figli di Saladino di Belvedere, «Iacobus de Belvedere» e tutta una serie di personaggi ad essi collegati, destinati ad assumere un ruolo preminente nelle alterne vicende della vita cittadina nel corso del ’30032. Si evidenzia in tal modo un dato costante delle dinamiche socio-politi-

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30 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 175v-176r, già CLXXIIIIv-CLXXVr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 567-569, doc. 108 (<1310> giugno 22, Avignone): il papa dichiara di essere occupato «sollecitudo continua mentis et [...] cura precipua intima cordis [...] circa recuperationem deperditorum Ecclesie Romane bonorum et iurium» concessi in occasione «rebellionum et excessuum» contro di lui «et Romanam Ecclesiam» e di vigilare continuamente perché un’operosa prosecuzione delle fatiche intraprese «in statum pristinum restaurentur [al suo] ministerio servitutis». La lettera papale è copiata dal notaio «Iohanninus Guilielmi de Ofida, [...] scriba reverendi viri domini Vitalis Brost», a Macerata, «in domo uxoris domini Mathei de Murro, ubi idem dominus moratur», il 20 novembre 1310. Tenendo conto della perentoria disposizione del papa, il 27 marzo 1311, Raimondo di Attone di Spello, rettore della Marca Anconitana, restituisce al vescovo Buongiovanni e al comune di Ascoli il castello di Appignano, ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 32v-33r, già XXXVIv-XXXVIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, I cit., pp. 92-94, doc. 25 (1311 marzo 27, Corinaldo, «in domo Mictie»). 31 Riguardo alla famiglia Bonaparte, si vedano: L. Pastori, Le patrie memorie del medio ed infimo evo, appartenenti alla storia civile della città di Ascoli, Biblioteca comunale di Ascoli Piceno (d’ora in poi BCAP), ms. 1; C. Mariotti, Pagine di storia ascolana, Ascoli Piceno 1932, pp. 25-32; G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento, II, Ascoli Piceno 1968, pp. 116-117 nota 15, dove l’autore riferisce di aver rinvenuto nel «Bullarium» dell’Archivio vescovile di Ascoli (c. 45v) la notizia che Giovanni Bonaparte aveva un figlio, Cola, che nel 1331 fu nominato canonico della cattedrale «dilecto nobis Cole nobilis militis domini Iohannis Bonapartis de Esculo», a riprova di un altro elemento degno di nota, del fatto cioè che generalmente le famiglie più in vista del laicato cittadino erano degnamente rappresentate anche nei ranghi illustri della gerarchia ecclesiastica . 32 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 180r- 183r, già CLXXVIIIIr-CLXXXIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 582-591, doc. 111 (1311 dicembre 24, Macerata).


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che del comune ascolano nel XIV secolo: l’esistenza di gruppi familiari leader, consorterie, nuclei di potere emergenti, per lo più nobili, ex abitanti del contado, animati da mire egemoniche in città, capaci di aggregare adepti dal territorio, creando “amicizie”, vincoli di solidarietà ideologica in funzione pro o antipapale, a seconda delle convenienze. Fin dall’inizio del secolo le loro ambizioni furono senza dubbio agevolate dalla lontananza del papa e dalle difficoltà dei suoi vicari di imporre una politica di accentramento, furono incentivate dall’allargamento della loro sfera di influenza oltre i confini cittadini e furono garantite dalla realizzazione di una fitta rete di alleanze e di “amicizie” con famiglie e personaggi altrettanto influenti di altre città sottoposte al dominio papale, animati dalle stesse mire e guidati dagli stessi interessi. Un apporto significativo in tal senso fu fornito, per dirla con lo storico ascolano F. A. Marcucci: «dall’allor costume delle cospicue città di mandar per l’Italia de’ messi per far le note de’ cospicui soggetti in arme e valore, affin poi di eleggerli in podestà o in capitani del popolo»33. Lo storico ascolano si esprime così proprio per riferire il fatto della scelta dei perugini di nominare come loro capitano del popolo Giorgio de’ Tibaldeschi: «Georgius Boniiohannis de Theballensis de Esculo». Egli ricoprì tale carica da maggio ad ottobre 1313; nel 1314 fu podestà di Fano e nel primo semestre del 1326 fu invece nominato podestà di Bologna; dal novembre 1326 all’aprile 1327 e dal settembre 1337 al febbraio1338 fu di nuovo capitano del popolo di Perugia. Il figlio, «Nicola Georgii de Thebaldischis de Esculo», fu, a sua volta, podestà di Perugia dal novembre 1335 all’aprile del 133634. Allo stesso modo, «Franciscus domini Parisani de’ Parisanis de Castagnario sive Castagnano miles» ricoprì la carica di capitano del popolo a Firenze da novembre 1336 a maggio 133735. Questi due riferimenti sono riportati a solo titolo dimostrativo, 33 F.A. Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane e de’ Vescovi di Ascoli nel Piceno, dalla Fondazione della Città sino al corrente Secolo decimottavo e precisamente dall’Anno Mille Settecento Sessantasei, Teramo 1766 (rist. anast. Bologna 1984), p. 270. 34 Per i personaggi e gli incarichi assunti da altri illustri personaggi dei Tibaldeschi nei secoli successivi, si veda: B. Carfagna, Il lambello, il monte e il leone. Storia araldica della città di Ascoli e della Marchia Meridionale tra Medioevo e fine dell’ancien regime. Acquaviva Picena (AP) 2004, pp. 262, 309, 316, 337, 367. 35 «Parisanus de Castigniano» è il primo personaggio della nobile famiglia Parisani menzionato nei documenti ascolani del XIV secolo; per i riferimenti ai figli: «Cicchus, Ricarductius, Vannictus» e al fratello «Iacobuctius» e a «Nicoluctius, Franciscus, Gualterius, Raymundus famuli», per altre informazioni sugli incarichi di podestà e capitano del popolo ricoperti da Francesco di Parisano nel sec. XIV a Firenze e a Orvieto e da Amelio Parisani e suo figlio Marco nel sec. XV si veda inoltre N. Marcucci, Arbore overo discendenza della famiglia de Parisani d’Ascoli, Ascoli Piceno 1675, perché dall’analisi dei


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perché l’elenco dei «milites» ascolani, annoverati tra i nobili atti ad assumere le magistrature comunali per prestigio economico e valore militare, e che di fatto le ricoprirono, è costituito da un numero notevole di soggetti36. Gli esempi evidenziano che in molti casi gli incarichi, a turno, furono riassegnati alle stesse persone o a persone della stessa famiglia, cosa che emerge anche dall’elenco dei podestà eletti ad Ascoli nel XIV secolo37. Da ciò è facile supporre che la reiterata frequentazione e il ripetuto incontro di ambienti e persone avessero creato allora tra alcune città un clima politico e culturale di vivace intesa e di condivisione di idee, quindi, come si vedrà, non sarebbe stato a loro difficile, ad un certo punto, tentare di modificare gli assetti politici tradizionali (si veda infra). C’è da aggiungere che in questo periodo in molti casi si assistette anche ad un incredibile trasformismo: venute meno le grandi idealità che avevano animato e visto fronteggiarsi le opposte fazioni di guelfi e ghibellini, le aggregazioni spesso si costituirono più in vista di immediati scopi contingenti e in previsione di facili guadagni materiali, piuttosto che per astratte idealità politiche di parte. Dell’antica funzionalità delle divisioni di parte, dell’originario significato della loro stessa denominazione si perdevano progressivamente il senso e la ragione, ormai gli scontri intestini nelle città si dovevano ricondurre alle divisioni locali pure e semplici38; anche se va osservato che il cambio di orientamento e di scelte fu certamente influenzato dalle prese di posizione, dagli interessi e dalle determinazioni dei vari pontefici e, in loro assenza, dalle scelte dei loro delegati. La documentazione del Quinternone relativa all’ultimo biennio del pontificato di Clemente V (1312-1314) si compone quasi esclusivamente di atti che rendono conto di pagamenti versati dal camerario e sindaco del comune ascolano, il «nobilis vir dominus Ioannes Nicolai», ai tesorieri e ai

documenti l’autore sostiene di presentare al lettore «la continuazione della denominanza di nobile ne’ soggetti, e la fermezza nel godere gli onori primari della patria» della famiglia Parisana, nonché le cariche, le ambascerie, «l’estrattioni delle primarie podestarie [...] e gli abiti militari, contrasegni di vera nobiltà, che adornarono le persone della famiglia» e Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., pp. 221-223, 298, 333. 36 Ibid. 37 Si veda E. Luzi, Compendio di Storia ascolana, Ascoli Piceno 1889, pp. 239-241. 38 A tale proposito, Bartolo da Sassoferrato con realistica mentalità giuridica nel Tractatus de Guelphis et Gebellinis sostiene: «Dico ergo quod hodie ille dicitur Guelphus qui adheret et affectat statum illius partis que vocatur pars Guelpha; et ille dicitur Gebellinus, qui adheret et affectat statum illius partis que vocatur pars Gebellina. Et in hoc non habetur communiter respectus ad Ecclesiam vel imperium, sed solum ad illas partialitates que in civitate vel provincia sunt», cfr. D. Quaglioni, Papato avignonese e problemi politici, in Storia della Chiesa. La crisi del Trecento cit., p. 338.


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rettori della Marca, a causa di multe, tasse e tangenti, o ai podestà e ai capitani del popolo, per gli uffici da loro prestati in città39. Il sindaco, ambasciatore e camerario «Ioannes Nicolai» era un cittadino titolato, e per questo fu scelto per incarichi particolarmente delicati che lo misero in relazione con personalità influenti40 e, come attestano le fonti, egli assunse l’incarico di capitano del popolo di Perugia nel 1316 e quello di Parma nel 132241. In un atto, datato 17 agosto 1317, «domino Iohanne Nicolai, domino Iohanne Bonepartis, domino Georgio de Teballensis, domino Amato Iacobi militibus» sono registrati come testimoni in «palatio populi» di Ascoli, alla stipula dei patti di sottomissione del castello di Cossignano alla città di Ascoli42.. La loro presenza è segno di una loro incisiva e stretta collaborazione con gli uomini «de regimine» e, se si tiene conto del fatto che Georgius de Teballensis fu eletto capitano del popolo di Perugia nel 1313 e Iohannes Nicolai nel 1316, e se vale quanto detto sopra, è facile supporre che tra il comune di Ascoli e il comune di Perugia si fosse già stabilita una tale intesa e una tale uniformità di intenti per cui, alla richiesta di aiuto dei

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ASCAP, Quinternone, c. 237r, già CCXXXVIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 793-795, doc. 201 (1312 giugno 26, Ascoli Piceno, «in palatio populi»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 238v, già CCXXXVIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 797-799, doc. 203 (1312 giugno 30, Ascoli Piceno, «in palatio populi»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 209v, già CCVIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 690-691, doc. 146 (1312 agosto 1, Macerata, «in domo heredum domini Mathei de Murro»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 243r, già CCXXXXIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 795-797, doc. 202 (1313 marzo 31, Montolmo, «in palactio communis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 241r, già CCXLIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 808-809, doc. 208 (1313 ottobre 29, «in terra Macerate, in domo filiorum domini Pauli prope plateam»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 240v, già CCXLv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 805-808, doc. 207 (31 ottobre 1313, Macerata); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 241r, già CCXLIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 808-809, doc. 208 (1313 ottobre 29, «in terra Macerate, in domo filiorum domini Pauli prope plateam»). 40 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 239v, già CCXXXVIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 801-803, doc. 205 (1309 maggio 2, Sulmona, «ante apothecam Raynaldi Sanitatis»); ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 232v, già CCXXXIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 784-785, doc. 196 (1309 agosto 1, Ascoli Piceno, «in palatio communis»): nel 1309 Iohannes Nicolay de Esculo et Innamoratus Philippy Frederici erano stati nominati da Giovanni de Compangia, abitante a Sulmona, suoi procuratori per il pagamento di sessanta libre di ravennati che gli erano state promesse dal capitano della lega «Puncello de filiis Ursi» quando era stato al suo servizio. 41 Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., pp. 325, 285. 42 ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 270r-271r, già CCLXXIIIr-CCLXXIIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 868-873, doc. 245 (1317 agosto 17, Ascoli Piceno, «in palactio populi»).


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perugini al servizio della Chiesa, nel 1319, contro gli spoletini (ghibellini), gli ascolani avrebbero deciso senza indugio di intervenire in loro soccorso43. Essi avrebbero scelto, invece, di non unirsi al tumulto antipapale delle città della «liga terrarum amicarum de Marchia» (detta anche «liga ghibellinorum Marchiae») di Fano, Osimo, Recanati, ecc. nel 132044, adottando una politica di riavvicinamento nei confronti del nuovo papa Giovanni XXII, sebbene in evidente contraddizione con quelle che erano state le scelte che avevano fatto considerare «Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis, Amatus Iacobi milites e Parisanus de Castiniano», come già detto, capi della rivolta della lega antipapale nel 1308. Giovanni XXII, il 13 maggio 1323, riconoscente per «constantiam et multa et devota servitia» che gli erano stati forniti in precedenza ma, ancor di più, per gratificare il coinvolgimento di Ascoli contro Fermani e Fabrianesi, che avevano mosso guerra al rettore della Marca45, concesse al comune ascolano, «ad opus et utilitatem», il permesso di costruire, «iure feudi […] unum bonum portum et sufficientem», nei limiti territoriali segnati dal torrente Ragnola fino alla foce del fiume Tronto, «pro indiviso», tra Chiesa Romana e Comune, «perpetuis futuris temporibus retinendus et etiam possidendus»46. È evidente che il papa utilizzò la formula «iure feudi» per rievocare e ribadire i caratteri di quel vincolo di sudditanza e di omaggio vassallatico che nella società feudale avevano legato il con43 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 280. 44 Per la ricostruzione dei fatti relativi alla ribellione e agli esiti dello scontro nel decen-

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nio 1320-1330, si veda De Santis, Ascoli nel Trecento cit., pp. 174-293. 45 ASAP, ASCAP, Archivio Segreto Anzianale (d’ora in poi ASA), Pergamene, E, II, n. 1, (29 maggio 1323): cfr. Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., pp. 274-275 e De Santis, Ascoli nel Trecento cit., pp. 320-345. 46 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, A, fasc. II, n. 1, n. 3, rogito 2; ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 264rv, già CCLXIIIIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 838842, doc. 237 (<1323> maggio 13, Avignone); ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 264v-265r, già CCLXIIIIv-CCLXVr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 843-846, doc. 238 (<1323> maggio 14, Avignone). Nel privilegio il papa prospetta agli ascolani i «multiplicia commoda», il decoro, la gloria e la ricchezza che il porto procurerà alla città e sottolinea che essi sono tenuti e debbono costruire il porto «in litore et aqua maris predictis [...] cum hedificiis actis et sufficientibus ad recipiendum et conservandum navigia salubriter in eodem et ad honerandum seu exhonerandum eadem navigia, videlicet: naves, teridas, galeas, barcas et alia quecumque lignamina, seu vasa navalia, de mercibus et mercimoniis licitis» ma precisa che la costruzione del porto è a totale carico degli ascolani e che invece «portus, litus et aqua eorumque proprietas et possessio fructus etiam redditus et proventus» devono essere condivisi con la «Romana Ecclesia» e che per la custodia o per un’eventuale riparazione futura provvederà la città se la somma sarà inferiore a cento fiorini, diversamente le spese saranno ripartite equamente.


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cedente un beneficio a un ricevente. Il privilegio perciò va letto e contestualizzato in coerenza con il progetto del nuovo pontefice, «antico cancelliere di Carlo II e di Roberto d’Angiò, energico vecchio, esperto di affari amministrativi e politici»47, che nulla giudicava tanto urgente, per un ordinato governo della cristianità, «quanto il riassetto politico dell’Italia per mezzo di forze fedeli al papato»48. Egli aveva deciso di rimpinguare le casse del fisco con un rinnovato «sfruttamento di benefici ecclesiastici: decime, servizi comuni, annate «fructus primi anni», sedi vacanti, diritto di spoglio «ius spolii», sussidi caritativi, diritti di cancelleria e sulle tasse imposte ai vescovi (visite, procure), le cui somme furono di nuovo riaffidate in gestione alle case di commercio e alle succursali delle più grosse compagnie fiorentine (Scala, Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi)49. Guidato dalla stessa logica di conservare alla Chiesa «bona et iura», su cui esercitare balzelli, Giovanni XXII, infatti, emise due bolle pontificie dirette al vescovo aprutino Niccolò degli Arcioni, perché non permettesse ai feudatari della Chiesa ascolana nel Regno di vendere i loro beni senza il consenso del Capitolo50. Gli ascolani, tuttavia, interpretarono anche troppo alla lettera la comunicazione con cui il papa li esortava a perseverare, «provide et ferventer», nel fedele servizio alla guerra contro i loro “hostes”, «contra firmanos, Ecclesie Romane rebelles», ed esprimeva la sua profonda soddisfazione per il fatto che essi avessero sottratto a Fermo nove castelli51. Ascoli infatti approfittò dell’incoraggiamento del pontefice per sferrare un attacco feroce e un saccheggio indiscriminato contro la storica rivale “nemica” Fermo52, la quale, sicuramente, non aveva accolto di buon grado il privilegio della costruzione di un porto concesso dal papa agli ascolani, dato che, 47 R. Manselli, Un papa in un’età di contraddizione: Giovanni XXII, «Studi Romani», 22 (1974), pp. 444-456. 48 G. Tabacco, Il papato d’Avignone e la politica europea al tempo di Giovanni XXII, «Nova Historia», 15 (1952), p. 152. 49 Y. Renouard, Les relations des papes d’Avignon avec les compagnies commerciales et bancaires de 1316 à 1378, Paris 1941, pp. 3-38. 50 Archivio Capitolare di Ascoli Piceno (d’ora in poi ACAP), A, 36 (1323 marzo 15, Avignone); A, 37 (1323 maggio 1, Avignone). 51 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, A, fasc. II, n. 2 (1323 agosto 10): il papa scrive «dilectis filiis potestati, capitaneo, ancianis, consilio et communi esculanis» che a stento essi potrebbero credere la sua gioia e la sua esultanza e la sua gratitudine a Dio perché, «suscepto [...] tam ylariter quam potenter contra firmanos, [suoi] et Ecclesie Romane rebelles et [degli ascolani] hostes, campestri bello, pro patria non minus quam pro ipsa Ecclesia», essi assistiti dalla divina virtù hanno preso «novem castra dictorum rebellium», per cui li esorta a proseguire quanto intrapreso «provide et ferventer». 52 Cfr. De Santis, Ascoli nel Trecento cit., pp. 320-345.


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già a suo tempo, la concessione fatta agli stessi da Federico II, nel 1245, era stata causa di lunga discordia 53. È interessante seguire gli sviluppi successivi della vicenda attraverso la corrispondenza che Giovanni XXII intrattenne con il comune di Ascoli54, con il rettore della Marca Anconitana55, con il doge e la città di Venezia56, tra il 1324 e il 1325. Essa rivela la straordinaria abilità politica e la consapevole esperienza diplomatica del pontefice: da un lato egli ripeteva ai primi la sua soddisfazione per il fattivo contributo offerto contro «rebelles, presertim firmanos perfidos» e li esortava a perseverare, dando sostegno al rettore della Marca, sicuri del fatto che un’eventuale pacificazione con i fermani non li avrebbe sfavoriti; al rettore suggeriva i piani da adottare per possibili trattative di pace con i fermani; nel frattempo informava i veneziani che gli ascolani si accingevano a «construere et edificare portum sub arce Montis Critaccii» e li esortava a trattarli benignamente, «amicabiliter et mansuete», a favorirli e a difenderli, per la sincera devozione e i meriti acquisiti nei confronti della Chiesa, e ad annotarli nei registri dei commercianti, come già era stato fatto per gli anconetani e i fermani. L’appello del papa ai Veneziani, perché concludessero un accordo “amichevole” con gli ascolani, rivela la valenza politica ed economica che il termine “amicizia” assunse nei suoi programmi: “l’amicizia” tra le due città, auspicata dal papa, fu chiaramente in previsione di proficui traffici di scambio e di redditizie relazioni commerciali, di cui anche il fisco papale avrebbe goduto i proventi, visto che le entrate, i frutti e i redditi del porto ascolano, secondo le clausole previste dal privilegio, sarebbero stati condivisi. Il richiamo del papa all’“amicizia”, tuttavia, si spiega ancor di più se si tiene conto del testo integrale del documento conservato a Venezia, già pubblicato da G. Luzzato57, e 53 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 193rv, già CLXXXVIIIrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 615-618, doc. 117 (1245 giugno, Verona). Federico II aveva concesso «portum et rivam in valle Tronti a pede Tronti usque ad confines Sancti Benedicti cum castro Montis Critatii» 54 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, E, fasc. II, nr. 2 (1324 dicembre 19, Avignone); Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Registro Vaticano (d’ora in poi Reg. Vat.), 113, c. 279 (1325 febbraio 13, Avignone); ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, A, fasc. II, n. 7 (originale), nr. 8 (copia), ASV, Reg. Vat., 113, CCCXVI, 2 (1325 ottobre 15, Avignone). 55 ASV, Reg. Vat., 113, c. 280 (1325 marzo 4, Avignone); ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, A, fasc. II, n. 4 (copia), n. 5 (originale), (1325 ottobre 1, Avignone); ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, R, fasc. I, n. 6, ASV, Reg. Vat., 113, n. 1614 (1325 ottobre 15, Avignone); ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, R, fasc. I, n. 7 (1325 ottobre 15, Avignone). 56 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, A, fasc. II, n. 6 (1325 ottobre 1, Avignone). 57 G. Luzzato, I più antichi trattati tra Venezia e le città Marchigiane, «Nuovo Archivio Veneto», 61 (1906), pp. 82-86.


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riproposto da A. De Santis , con il quale il 4 luglio 1326 Ascoli stipulava un trattato di libero, franco e vicendevole commercio con Venezia59: in premessa all’atto, infatti, il notaio enuncia espressamente che per esso si adotta la prassi consona a «conventiones et pacta aliqua inter aliquos “inimicos” ad informationem lucidam presentium et memoriam futurorum»60. Nel 1334, alla morte di Giovanni XXII, Ascoli, «mettendosi in stato di repubblica indipendente», decise di non assoggettarsi al nuovo pontefice61 Benedetto XII, che non ebbe miglior sorte nel far rispettare l’autorità della Chiesa in Italia settentrionale, nelle province della Romagna e nel resto della Marca d’Ancona62. In questa condizione il comune ascolano stabilì rapporti sempre più stretti con le città dello Stato ecclesiastico, in particolare con Firenze e con Perugia63, e cercò di consolidare la sua influenza sul territorio, attraverso accordi con il vicino Regno di Napoli64, con i castelli di Rotella65, di Arquata66, di Montalto67, di Cossignano68 e di Ripatransone69. Il tratta-

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De Santis, Ascoli nel Trecento cit., p. 372. ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 265rv, già CCLXVrv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 847-850, doc. 239 (1326 luglio 3, Venezia, «in ducali palactio»): si tratta della nomina di sindaco e procuratore fatta dal consiglio generale della città di Venezia al notaio Giovanni di Marchesino per la stipula di patti con il comune di Ascoli; ASAP, ASCAP, Quinternone, cc. 265v-266v, già CCLXVv-CCLXVIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 850-856, doc. 240 (1326 luglio 4, Venezia, Rivoalto): Tommaso di Morico è delegato dalla città di Ascoli come sindaco e procuratore per la stipula del trattato con la città di Venezia. 60 Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea atti diplomatici e privati, busta 12, nr. 435 (ex Patti Sciolti, busta 7, nr. 133). 61 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., pp. 277-278. 62 Guillemain, Il papato ad Avignone cit., pp. 254-256. 63 A titolo di esempio: già nella prima metà del secolo è evidente lo stretto rapporto di “amicizia” esistente tra il comune di Ascoli e il comune di Firenze nel ruolo svolto dal nobile ascolano Meliadusse Trebbiani, podestà di Firenze nel 1343, in occasione dell’assedio della città fatta dal Duca di Atene. Si veda M. E. Grelli, Festa, giostra e moda. Prosopografia e «liturgia del potere». (Ascoli tra 1377 e 1496), in Ascoli ai tempi dell’antica quintana: 13771496. Atti del Convegno del Centro Studi Giochi Storici, Ascoli Piceno, 19 novembre 2011, in corso di stampa. 64 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, R, fasc. II, n. 2 e 3; F, fasc. II, n. 2. Pietro di Silvestro, giustiziere d’Abruzzo, in nome di Roberto d’Angiò, re di Napoli e di Sicilia, confermava a Luigi d’Agoto (Aloisio De Got, parente di Clemente V) le terre della baronia di Tortoreto, di Colonnella, di Controguerra, di Civita Tomacchiara, di Torre a Tronto e di metà di Macchia. 65 Ibid., Pergamene, I, fasc. IV, n. 3 (1335 agosto 3, Rotella). 66 Ibid., Pergamene, G, fasc. II, n. 3 (1337 febbraio 3, Ascoli Piceno). 67 Ibid., Pergamene, H, fasc. I, n. 4 (1338 Luglio 9, Ascoli Piceno). 68 Ibid., Pergamene, G, fasc. IV, n. 5 (1345 novembre 23), nn. 6-7 (1345 dicembre 5). 69 Ibid., Pergamene, N, fasc. IV, n. 2 (1346 gennaio 8).


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to con Ripatransone rappresentò un indubbio successo strategico della città, trattandosi di un presidio sicuro che essa si procacciò contro Fermo nella zona di confine. L’accordo rispondeva alle aspirazioni di entrambi i contraenti di contrastare l’invadenza economica e commerciale della comune “nemica” Fermo, in un patto di “amicizia” di cui sono eloquenti le dichiarazioni registrate nel documento: «et homines de Ripatransone tenebunt, vocabunt, nominabunt, habebunt, verbaliter, realiter, “amicos” civitatis Esculi pro eorum “amicis”, et “inimicos” ipsius civitatis Esculi, pro eorum omnium de Ripatransone “inimicis”, omni tempore et in perpetuum». Il significato della clausola dell’“amicizia”, contenuta nel documento, si chiarisce e si giustifica alla luce di una precisa convenzione giuridica: si tratta di un patto di stabilità che nasce da un’istituzione che vanta il diritto di giurisdizione, per cui Ascoli può dettare le sue condizioni. Tuttavia, nonostante le misure cautelative, approfittando anche della peste e di altre calamità70, Fermo, dopo alcuni tentativi, nell’aprile 1348, riuscì nell’impresa di distruggere il porto ascolano71, per cui, come recitano le cronache, a maggio, «Messer Galoto di Malatesti da Rimini ebbe il dominio della città di Ascholi in la Marcha d’Ancona con la pacifica volontate de tuti li citadini de quella, i quali fecero grandissima festa»72. Ad offrirgli il generalato delle milizie per la guerra fermana, furono inviati due illustri «milites» che vantavano una pregressa e collaudata esperienza diplomatica, provata nell’esercizio di incarichi di podestaria e di capitaneria del popolo in città destinate a diventare protagoniste nel tumultuoso giuoco di leghe ed alleanze, guidate da interessi espansionistici: Pietro da Monte Moro («Petrus Jacobi Assalonis Iacobi Iohannis de Montemoro»)73 e Francesco Camporini («Franciscus domini Berardi de Camporinis»)74. 70 De Santis, Ascoli nel Trecento cit., pp. 455-467. 71 Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523, ed. A. Salvi,

Ascoli Piceno 1990, p. 3 e in particolare note 4-5. 72 Ibid., nota 6; P. Jones, The Malatesta of Rimini and the papal State. A Political History, Cambridge 1974, p. 66 nota 2. I Malatesta, dopo la conquista di Fano nel 1342 con Galeotto, avendo spodestato gli Smeducci di San Severino, i Simonetti di Jesi, i Cima di Cingoli, i Buscareto di Corinaldo, i Chiavelli di Fabriano, i Gabrielli di Gubbio in realtà reggevano tutta la Marca tranne Fermo in mano a Gentile da Mogliano. Per Gentile da Mogliano si veda A. Luchetti Giuli, Gentile da Mogliano e la sua signoria su Fermo, «Studi Maceratesi», 13 (1979), pp. 185-233. 73 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 279; Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 3; Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., p. 165. 74 Si vedano Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., pp. 279, 295, 312, 478; e Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., pp. 117-118, 287, 309, 316, 333, 334, dove l’autore, oltre a mettere in evidenza il ruolo assunto nella gestione della “cosa pubblica” da numerosi esperti milites della famiglia De Camporinis, nei riferimenti alle cariche di pode-


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Forte della presenza di Galeotto e del suo seguito militare, Ascoli continuò contro Fermo una guerra senza tregua, contrassegnata da reciproci ripetuti attacchi, saccheggi, rapine, requisizioni di castelli, assedi, atti di violenza, con il coinvogimento di comunità del territorio diversamente schierate75. Nel 1351, intenzionato a far valere la sua influenza, per contrastare la politica espansionistica dei Malatesta sulla Marca, ai quali, di fatto, ormai mancava solo di assoggettare Fermo per consolidare lo sviluppo di un sistema politico incardinato sullo stato signorile su base regionale, l’arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano, tentò la riconciliazione tra le due irriducibili “nemiche”. A Monterubbiano furono stesi sedici articoli come preliminari del trattato di pace, che poi fu sottoscritto a Rimini, nel palazzo dei Malatesta. Tra le condizioni della tregua fu espressamente sancito il fatto che Fermo dovesse riconoscere ed accettare il porto di Ascoli76. Così fu ratificato, ma il comune ascolano probabilmente continuò a nutrire qualche timore circa l’affidabilità del patto, per cui cercò di garantirsi il sostegno degli alleati nelle zone di confine. Il 20 maggio 1359, nell’atto di sottomissione ad Ascoli degli abitanti del castello di Montevecchio, come già per Ripatransone, tra le clausole dell’accordo era specificato: «quod homines dicti castri perpetuo tenebunt, tractabunt et reputabunt et habebunt “amicos” comunis civitatis predicte “pro amicis” et “inimicos pro inimicis” prout commune predictum faciet de cetero et “inimicos” ipsius non receptabunt in castro predicto et eius distripto»77. Anche in questo caso, il

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stà e capitano del popolo, assunte dal 1324 al 1400 a Firenze, Perugia, Orvieto, Bologna, propone anche la riproduzione fotografica dell’arma familiare; egli si sofferma anche su Franciscus domini Berardi de Camporinis: podestà di Orvieto nella seconda metà del 1324, capitano del popolo di Orvieto da marzo ad agosto 1328, podestà di Firenze dal luglio 1336, podestà di Perugia da gennaio a giugno 1340, podestà di Bologna nel secondo semestre del 1342, podestà di Orvieto da gennaio ad agosto 1346, probabilmente al servizio del duca d’Atene nel febbraio 1343, pp. 287-288, 309, 316, 333, 334. 75 Ibid., pp. 279-281; Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., pp. 4-8; De Santis, Ascoli nel Trecento cit., pp. 472-484 e A. De Santis, Ascoli nel Trecento, II (1350-1400), Ascoli Piceno 1988, pp. 27-36. 76 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, N, fasc. II, n. 1; Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 8, dove si legge: «Anno domini 1351 et die 6 mensis iulii dominus Galioctus et populus Asculanus ibi sedentes cum exercitu apud castellum Molischi fecerunt generalem pacem et perpetuam concordiam cum Gentile de Mogliano et populo Firmano. Ad hoc interfuit dominus Malatesta cum multis equitibus et peditibus et inter eos facte fuerunt remissiones hinc inde iniuriarum, incendiorum e damnorum et cedum inllatarum»; si veda anche Luchetti Giuli, Gentile da Mogliano cit., p. 194 e appendice I, p. 216. 77 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 274r, già CCLXXVIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 884-888, doc. 251 (1359 maggio 20, Ascoli Piceno, «in maiori palactio de Arengua»).


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richiamo alla condivisione dei comportamenti nei confronti degli “amici” e dei “nemici”, in un trattato che il comune di Ascoli stipulava con un castello situato nella valle del Tronto, a guardia del confine con Fermo, rappresentava una misura precauzionale assunta dalla città nei confronti della temuta rivale. Va osservato inoltre che l’uso del termine “amicizia” è assolutamente nuovo rispetto ad analoghi atti di alleanza o sottomissione stipulati nel XIII secolo78; in questo caso non si tratta dell’amicizia come di un rapporto privato, ma di una situazione codificata e quasi istituzionale, quindi è “amicus” del comune ascolano chi ha scelto di collocarsi sotto l’ala protettrice della città. L’amicizia ha appunto lo scopo di garantire il comune interesse attraverso scambievoli servizi e reciproca «utilitas». Certamente di altro tenore il richiamo alla «fidelitas» nei confronti della Chiesa Romana, esaltata con fervore dal cardinale Egidio Albornoz, vicario e legato di papa Innocenzo VI nella Marca Anconitana, il 9 settembre 1365. Giunto in città79, egli comunicò al comune di Ascoli alcuni provvedimenti perfettamente coerenti con il suo programma, già ampiamente svolto, di «liberazione delle città dai tiranni, per il ritorno delle stesse sotto il dominio del papa»80. A nove anni di distanza dal trattato di pace che, dopo la «tirannide domini Galiocti»81, e l’ultraventennale «stato popolare», aveva riportato la città nell’alveo dell’autorità pontificia82, dopo la 78 Cfr.

Il Quinternone di Ascoli Piceno, I e II cit., pp. 36, 65, 97, 171, 302-312, 298, 673

passim. 79

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Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 20: «1365 Egidius episcopus Sabinensis legatus in Italia venit Asculum die dominico VII septembris cum magno triumpho per portam pontis Solestani». 80 E. Baluze, Tertia vita Innocentii VI, in Vitae paparum Avenionensium, I, cur. G. Mollat, Paris 1916, p. 344. 81 Cfr. Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 9: «Eodem anno [1356] et die lune penultima mensis maii, id est finito anno postquam civitas Asculana fuit liberata a tirannide domini Galiocti et rediit ad popularem statum, in hora vespertina fuit maximus tumultus in civitate Asculana et omnes exclamabant: “Viva la parte guelfa et la libertà et mora li seguaci de miser Galiocto!”. 82 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, N, fasc. I, nn. 6-7; ACAP, B, n. 39; Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 9: «Eodem anno [1356] et die martis 14 mensis iunii facta pax et concordia inter populum Asculanum et dominum Egidium Dei gratia legatum in provincia Marchie pro Romana Ecclesia et die iovis venit tabellarius cum literis quibus significabatur populo pax predicta; et propter letitiam huius pacis et huius nuntii pulsate sunt campane per totam civitatem, et artifices propter letitiam clauserunt apotecas gaudendo et exultando per urbem. Et die mercurii sequenti, videlicet die 29 iunii, reversi sunt oratores qui iverunt ad faciendam pacem predictam cum domino legato quorum nomina hec sunt: dominus Corradus Radii, dominus Angelus Bonioannis, Coluctius Iacobuctii Salladini, Iuctius Petrucii sindicus, frater Bartholomeus magister Ordinis Sancti Agustini, prepositus Minaluctii et Nicolaus nepos domini Isahac episcopi Asculani», la presenza di


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breve parentesi della signoria del «dampnate memorie Filippi de Massa [Filippo di Massa dei Tibaldeschi] qui dapnabiliter occupavit civitatem»83, dopo il fallito tentativo di Giovanni di Massa e il raggiungimento dell’assoluzione dall’interdetto84, l’Albornoz precisava che le concessioni erano indirizzate ai fedeli ascolani «dilectis in Christo», per provvedere alla pace, alla tranquillità e al buono stato della città, in virtù della loro perseveranza «in fidelitate ac devotione Romane Ecclesie». In realtà, proprio tenendo conto delle «Costituzioni Egidiane»85 e delle condizioni sancite nel trattato di pace del 1356, le disposizioni contenute nel documento erano finalizzate ad un maggiore controllo in città del civile, del criminale, dei danni dati, della riscossione «per offitiales ibidem per Romanam Ecclesiam deputatos» e per un maggior controllo delle gabelle fissate dalla camera apostolica «in volumine statutorum civitatis». Esse erano, di fatto, il richiamo ad una «fidelitas» sottomessa e riverente e non certamente a un rapporto bilaterale tra pari86, cui si aggiungeva un monito severo contro ogni tentativo

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Coluccio figlio di Giacomo Saladini (vedi sopra), tra i legati inviati a perorare la pace con l’Albornoz, conferma quanto detto sopra circa l’assoluta variabilità delle preferenze politiche ed ideologiche degli uomini «de regimine» ad Ascoli in questo periodo; A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, I-III, Rome 1861-1862, II, pp. 332-335; De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., Appendice IV, pp. 528-531. 83 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., pp. 285-287; De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., pp. 82-84. Filippo di Massa apparteneva alla famiglia dei Tibaldeschi, che già aveva dato prova della sua appartenenza alla fazione dei ribelli contro la Chiesa al tempo della lega guidata da Poncello Orsini, vedi supra. 84 Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 9: «In eodem anno [1356] et die 2 mensis iulii dominus Hericus de Sessa secularis presbiter et spiritualis domini Egidii legati venit Asculum et ad absolvendum omnes cives et contadinos mares et feminas a vinculo excommunicationis et stetit Asculi usque ad diem 12 dicti mensis. Et die sequenti, videlicet die iovis, dominus Petrus de Sancto Geminiato (sic) venit vicarius dicti domini legati ad gubernandum Asculum»; ASV, Registrum recognitionum et iuramentorum fidelitatis civitatum ad Innocentium VI, Arm. XXXV, 20, cc. 111r-124v; J. Glenisson - G. Mollat, L’administration des États de l’Église aux XIVe siècle. Correspondance des legats et vicairesgénéraux: Gil Albornoz et Androin de la Roche (1353-1367), Paris 1964, pp. 106-107. 85 Costituzioni egidiane dell’anno MCCCLVII, ed. P. Sella, in Corpus Statutorum Italicorum, I, Roma 1912; P. Colliva, Il cardinale Albornoz, lo Stato della Chiesa e le «Constitutiones Aegidianae» (1353-1357), con in Appendice il testo volgare delle Costituzioni di Fano dal ms. Vat. lat. 3939, Bologna 1977. 86 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 275v, già CCLXXVIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 893-895, doc. 254 (<1365> settembre 9, Ascoli Piceno). Tra i provvedimenti previsti era stabilito che ufficiali competenti potessero giudicare e riscuotere le tasse ordinariamente ad Ascoli; al capitano era concessa la potestà di correggere eventuali anomalie nella riscossione delle tasse; potevano essere assunti uno o più medici e giudici per i danni dati. I due ufficiali dei danni dati, con salario di sessanta fiorini per semestre, dovevano essere dotati di due «famulos» e di un ronzino; veniva ribadito che «in beati Emindi


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di ribellione . La riconquista delle «terrae Ecclesiae» ebbe in questa strategia la sua mossa vincente, in quanto l’Albornoz, nella sua attività di restaurazione, cercò di operare senza aggravio per la Chiesa, richiedendo a città e potentati un apparentemente generico atto di sottomissione ad essa, per solito accompagnato dall’assoluzione dalla scomunica88, ma con una particolare attenzione a garantirle qualche vantaggio fiscale in più89. Proprio in considerazione del grande impegno mostrato «in recuperatione et defensatione terrarum S.R.E.» dal cardinal legato, il 2 luglio 1366, Urbano V con lettera pontificia nominò il «miles Gometius de Albornotio [Blasco Gomez Albornoz, nipote di Egidio], vicarius, rector et gubernator in temporalibus generalis» di Ascoli e del suo «comitatus et districtus», con l’autorità di costituire e creare giudici e ufficiali per le questioni civili e criminali e con la facoltà «colligendi et percipiendi ac suis usibus applicandi omnia consueta telonea, pedagia, emolumenta, fructus, redditus», ribadendo la spettanza della città, «pleno iure», alla Santa Romana Ecclesia90. Le cronache riferiscono che al suo arrivo in città egli fu salutato da tutto il popolo con letizia e con palme di ulivo sventolanti, al grido:«Viva lo signore!»91. Per avere un’idea della gestione del vicariato da parte di Gomez, del suo ossequio alle consegne ricevute dal papa e della sua ottemperanza a quella minuziosa organizzazione finanziaria e fiscale descritta in modo organico e quasi perfetto nella «Descriptio Marchiae Anconitanae»92, credo siano sufficientemente eloquenti alcuni documenti contenuti nel Quinternone.

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ceterisque aliis festivitatibus» fossero fatte oblazioni, elemosine e spese desunte dalle gabelle; G. Fabiani, Il card. Albornoz ed Ascoli, «Studia Picena», 27 (1959), p. 84. 87 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, R, fasc. II, n. 4, con tale documento il legato ribadiva le severe condanne contro i capi della rivolta guidata da Filippo di Massa: essi erano banditi dalla città con i loro discendenti fino a seconda generazione e i loro beni dovevano essere confiscati, cfr. De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., Appendice V, pp. 532-536. 88 ACAP, B, n. 38. 89 E. Duprè Theseider, Il Card. Egidio de Albornoz fondatore dello Stato della Chiesa, «Studia Picena», 27 (1959), p. 14. Cfr. anche Duprè Theseider, Albornoz Egidio de, in Dizionario biografico degli Italiani, II, Roma 1960, pp. 45-53. 90 Urbain V (1362-1370). Lettres communes, cur. M.-A.M. Hayez, V, Rome 1979, pp. 372-374, n. 17800. Cfr. anche Io. G. De Sepulveda, De rebus gestis Aegidii Albornotii, Bononiae 1521, p. XXXVI; Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 287. 91 Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 20: «Die sabbati 15 augusti, in festo Assumptionis beae Marie, ante horam tertiam Comes intravit Asculum, contra quem totus populus exivit cum letitia et palmis olivarum gridando: «Viva lo signore!», ballando. Die dominico, die noctuque dormivit in monasterio S. Antonii e intravit portam Solestani». Il Marcucci invece lo fa venire in città per stabilizzarvisi solo nel 1371, si veda: Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 288. 92 Theiner, Codex diplomaticus cit., II, pp. 338-348; E. Saracco Previdi, Descriptio Marchiae Anconitanae, Pollenza (Mc) 2000.


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Il 17 aprile 1372, a Bologna, Gomez Albornoz versò duemila ducati d’oro da parte della città e del comune di Ascoli per il sussidio dovuto alla Chiesa e li assegnò a «Simone de Baroncellis de Florentia» depositario generale della camera della Chiesa Romana dimorante a Bologna93. L’8 aprile 1374, a Fermo, Pietro, vescovo di Cuenca, e rettore «in spiritualibus» della Marca Anconitana, diede mandato a Bartolomeo di Novalia, giudice dei malefici della Marca Anconitana, di recuperare beni, terre e boschi dal mare e dal fiume Tronto e i castelli di Monteprandone, Spinetoli e Monsampolo, sottratti alla Chiesa e ad Ascoli dal giustiziere aprutino Pietro di Filippo degli Albizi di Firenze, e dai fratelli Amelio e Giovanni di Agoto (italianizzazione di De Got), figli del fu Aloisio De Got, e di riporre nel possesso Gomez e il comune di Ascoli94. Il 2 dicembre 1374, il tesoriere generale della Marca Anconitana riceveva a nome di Gomez il pagamento dell’affitto di otto anni, dal 1367 al 1374, dovuto alla Chiesa romana dalla città di Ascoli e da diversi castelli95. Lo stesso pagamento di affitto fu saldato il 25 aprile del 137596. È evidente che Gomez fu un vicario garante soprattutto della superiore autorità ecclesiastica, per la salvaguardia di imposte, taglie e collette e per il recupero di diritti e proprietà, a difesa e tutela della sottomissione di Ascoli alle “chiavi di Pietro”, «tanquam fidelis servitor et zelator status domini pape sancte Romane Ecclesie»97. Era pertanto inevitabile che, verso un papato molto impegnato nella costruzione di una sua potenza politica e terrena, insoddisfazioni e risentimenti serpeggiassero anche tra gli ascolani. Essi non avrebbero esitato, di lì a poco, ad accogliere l’invito alla rivolta sollecitato dai fiorentini, gravemente sdegnati contro il legato papale Guglielmo Noëllet, che non aveva voluto concedere loro di estrarre del grano da Bologna per sopperire alla grave carestia che li aveva colpiti. L’esortazione fu estesa dai fiorentini a tutte le città e ai signori d’Italia, con lo scopo di concludere una “lega di

93 ASAP, ASCAP, Quinternone, c. 272r, già CCLXXVr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 876-878, doc. 248 (1372 aprile 17, Bologna). 94 Ibid., Quinternone, c. 274v, già CCLXXVIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 888-891, doc. 252 (1374 aprile 8, Fermo). 95 Ibid., Quinternone, c. 276r, già CCLXXVIIIIr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 896-898, doc. 255 (1374 dicembre 2, Fermo). 96 Ibid., Quinternone, c. 276v, già CCLXXVIIIIv, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 898-900, doc. 256 (1375 aprile 25, Fermo, «in contrata Pile, in domibus domini Cole domini Vannis de Firmo»). 97 Ibid., Quinternone, c. 272r, già CCLXXVr, cfr. Il Quinternone di Ascoli Piceno, II cit., pp. 876-878, doc. 248 (1372 aprile 17, Bologna).


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libertà” per sottrarsi al governo della Chiesa, favorita dal fatto che il papa, dopo la breve parentesi del ritorno a Roma, voluta da Urbano V, durata appena tre anni (1367-1370), si era di nuovo trasferito ad Avignone. Il 1375 segnò il principio della cosiddetta “Guerra degli Otto Santi”, dell’«Italica sacra Lega», la guerra tra Firenze e il nuovo Papa Gregorio XI98, nella quale sarebbero stati coinvolti anche il comune di Ascoli e il comune di Fermo. Il 24 luglio 1375 Firenze stipulò un accordo di collaborazione con Bernabò Visconti, signore di Milano99, animato dalle stesse mire egemoniche ed espansionistiche sull’Italia che avevano guidato lo zio, l’arcivescovo Giovanni Visconti100. Attraverso ambasciatori e una fitta corrispondenza, redatta dal noto cancelliere fiorentino Coluccio Salutati, «facto vexillo in quo solum magnis literis descripta LIBERTAS»101, ai colleghi italici fu rivolto l’invito di riscoprire «la forza della tradizione italica, scrollandosi di dosso il giogo della sudditanza servile». Alla sollecitazione del segretario fiorentino risposero ben ottanta città, che entrarono a far parte della lega. In molte di esse l’insurrezione fu rabbiosa e devastante, come a Firenze, dove la ribellione assunse toni violenti, sotto l’azione degli otto Livellari dei preti e il comando degli Otto della Gilda, poi appellati per «uno universale consentimento del popolo fiorentino “Otto Santi”»102. La partecipazione alla lega tuttavia non fu simultanea: nel novembre 1375, aderirono per prime Città di Castello, Montefiascone, Narni e Viterbo; a dicembre dello stesso anno, Perugia, Spoleto, Assisi, Gubbio, Urbino, Fermo; nel 1376, Civitavecchia, Ravenna, Cagli, Imola, Cesena, Faenza, Forlì, Camerino, Macerata, Fabriano, Bologna, Ascoli e molte altre città103. Il conte Gomez, avuta notizia della sollevazione della lega, allertò la regina Giovanna e i generali pontifici per avere in suo soccorso un distaccamento di bretoni e di milizie aprutine nelle vicinanze del

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Si veda: A. Gherardi, La guerra dei fiorentini con Papa Gregorio XI detta la Guerra degli Otto Santi, «Archivio Storico Italiano», 5/2 (1867), pp. 35-131; 6/1 (1867), pp. 208232; 6/2, pp. 229-252; 7/1 (1868), pp. 211-233; 7/2 pp. 235-248; 8/1 (1868), pp. 260-296. 99 Si veda: Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 291 e Lini Coluci Pieri Salutati Epistolae, a Iosepho Rigaccio ex cod. mss. nunc primum in lucem editae, Florentiae MDCCXXXXI, Pars I, epistola (ep.) XXXVI (Firenze, 31 maggio 1377), pp. 84-85, diretta: «Colligatis» in cui Coluccio chiarisce il ruolo svolto dal Visconti: «Fratres carissimi, prout vobis credimus esse notum, societas anglicorum conducta fuit per magnificum excelsum dominum dominum Bernabovem pro se et ceteris colligatis [...]». 100 A. Sorbelli, La signoria di Giovanni Visconti a Bologna, Bologna 1902. 101 De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., p. 158 nota 10. 102 Gherardi, La guerra dei fiorentini cit., 5 (1867), II, p. 49. 103 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 290; De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., pp. 153-162.


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Tronto. Il tumulto di Ascoli contro di lui fu preparato nel gennaio del 1376, attraverso una segreta trattativa diplomatica con Perugia, Fermo e Firenze, di cui ci rende conto Coluccio Salutati. A nome della Repubblica di Firenze, con lettera datata Firenze 9 febbraio 1376, egli scrisse agli ascolani, definiti nella «salutatio» “amici carissimi”, per informarli che i fiorentini avevano ricevuto il loro “caro nobile concittadino Boffo di Massa”, di cui avevano prontamente accolto le richieste, in quanto impegnato nella liberazione della città, per cui lo raccomandavano cordialmente alla loro “amicizia”, come “amico” della loro libertà e devoto figlio di tutta la lega104. Lo stesso encomio di Boffo fu espresso nella lettera che Coluccio spedì, lo stesso giorno, al «magnifico domino, fratri et amico carissimo» Rinaldo da Monteverde, che si era mosso in difesa di Fermo; egli era figlio o parente del «nobilis vir capitaneus» Mercenario da Monteverde105 che, fino al 1340, era stato signore di Fermo e condottiero delle sue truppe, «imperii fidelis dilectus»106, dichiaratamente ostile al papa, militante con Lino di Massa e Tebalduccio di Camporo al servizio del vescovo di Arezzo, Guido Tarlati, capo dei ghibellini italiani107. Nella lettera a Rinaldo fu raccomandato di tutelare e di preservare «molto affettuosamente» da ogni offesa Boffo, «singolarissimo zelante sostenitore della santissima confederazione», per i meriti e le imprese compiute con fedeltà in favore della liberazione di Ascoli108. Il 27 febbraio, di notte, ricevuta conferma dell’aiuto di Fermo e Perugia, gli ascolani insorsero e costrinsero il conte Gomez a rifugiarsi «cum muliere et filiis et multis militibus strenuis in

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104 Salutati, Epistolae cit., «Esculanis», Pars I, ep. XXIII (Firenze, 9 febbraio 1376), p. 65: «Amici carissimi. Fuit coram nobis nobilis vir Boffus de Massa civis vester dilectus, quem et recomandationes vestrae et sincera opera quae in liberatione vestrae civitatis impedit nobis de caro carissimum effecerunt; ob id eidem in omnibus quae postulavit duximus complacendum; et quamvis credamus non oportere, nihilominus tamen eum amicitiae vestrae tamquam dilectorem vestrae libertatis et devotum filium totius ligae cordialiter commendamus». 105 De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., pp. 183, 257, 283 nota 56, 309-311 nota 24, 383, 414, 426-427 nota 69, 429-430, 530-532 Appendice XXVIII e ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, Q, fasc. III, n. 1. 106 Mercenario fu così definito dall’imperatore Ludovico il Bavaro, in un diploma diretto a lui datato 24 novembre 1329, cfr. G. De Minicis, Annotazioni e giunte alle cronache fermane di Anton di Niccolò, Firenze 1980, p. 107. 107 Si veda F. Bock, I processi di Giovanni XXII contro i ghibellini delle Marche, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 57 (1941), pp. 19-70. 108 Salutati, Epistolae cit., «Domino Ranaldo», Pars. I, ep. XXIV (Firenze, 9 febbraio 1376), p. 66.


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arcem» . I fermani intervennero a favore degli ascolani sulle rive del Tronto, guidati da Rinalduccio da Monteverde, mentre questi stavano per capitolare dinanzi alle truppe schierate di bretoni e aprutini110. Gomez rimase nella cittadella111 dieci mesi. Attraverso le epistole di Coluccio è possibile individuare gli scenari strategici che avrebbero portato alla definitiva capitolazione di Gomez. Il 6 marzo 1376 i fiorentini scrissero alla regina Giovanna per giustificare il tumulto e l’oltraggio contro Gomez, definito: «monstrum italici nominis et sanguinis inimicum, quod in sue crudelitatis furore omnem Esculanae civitatis nobilitatem exhausit, cruorem effudit, mortibus innocentium et multa pessimi exempli tirannica saevitate patravit»112. Giovanna, pur essendo entrata nella lega, ne era uscita, probabilmente per timore di un coinvolgimento dei suoi sudditi nella sollevazione. Il 9 marzo, Coluccio informò Bernabò Visconti dell’esito dell’attacco a Gomez, avvenuto il 26 febbraio, «hora secunda noctis», e del suo indicibile spavento. Il 13 marzo 1376, dalla cancelleria fiorentina uscirono due lettere: una fu spedita al «fratello e amico carissimo domino Rainaldo», l’altra al «nobile amico carissimo Boffo di Massa». Si evince chiaramente che tra i due c’era una vertenza in corso e che ai fiorentini premeva assolutamente risolverla, per cui a Rinaldo fu ricordato che c’era una causa superiore in ballo per superare le ostilità e che a Boffo era stato scritto «prout [si riteneva] ad amicitiam pertinere», nella convinzione che il suo riscontro sarebbe stato fraterno ed amichevole113. A Boffo, invece, fu rimproverato un suo presunto tentativo di sobilla-

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Specimen Historiae Sozomeni Pistoriensis, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XVI, Mediolani 1730, coll. 1095-1096: «Anno domini MCCCLXXVI, a Nativitate, Asculum oppidum die ultimo mensis Februarii dicti anni defecit ab Ecclesia, ubi erat dominus Gometius de Bonizio nepos Cardinalis Aegidii, qui cum muliere et filiis et multis militibus strenuis aufugit in arcem, ubi se defendit per decem menses, et ad eius defensionem Regina Iohanna Neapolis ter misit milites suos, et ter fugati fuerunt a militibus Florentinis et ligae, qui ibi erant pro defensione. Et tandem dictus dominus Gometius cum omni sua comitiva facto foedere cum Esculanis, sospes abiit de mense Decembri dicti anni». 110 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 291. 111 Per la cittadella delle Chiaviche, da non confondere con la fortezza di Porta Maggiore, pur trovandosi nei pressi del forte Malatesta, si veda la precisazione in De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., pp. 175-176. 112 Gherardi, La guerra dei fiorentini cit., doc. 175. 113 Salutati, Epistolae cit., «Domino Rainaldo», Pars I, ep. XXVII (Firenze, 13 marzo 1376), pp. 69-71. Nell’esordio Coluccio spiega a Rinaldo le ragioni dell’accoglienza di Boffo nella lega: «Domino Rainaldo. Frater et Amice Carissime. Recipimus litteras vestras et non sine admiratione valde pungentes super factis Boffi de Massa, quem nos et in ligam recepisse vestra nobilitas acerrime lamentatur, quum tamen eum nonnisi ad preces


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zione di alcuni abitanti e nobili del fermano contro Rinaldo, cosa assolutamente ingiuriosa, se vera, perché si sarebbe trattato di una macchinazione contro l’unità della lega, tenuto anche conto dei capitoli stipulati e decisi con lui e riservati a lui proprio per evitare ogni pregiudizio a qualsiasi altro collega, per cui gli era sollecitata una necessaria, serena composizione della contesa114. Il 21 giugno, la Signoria fiorentina incaricò Bartolomeo Smelducci di San Severino di assoldare per il comune di Firenze dieci cavalieri e duecento fanti, per condurli all’assedio della cittadella di Ascoli, dove si era rifugiato Gomez115. Il 25 agosto, Coluccio fece appello ai Perugini con la precisazione che la libertà ascolana era preludio alla libertà di tutta la «Marchia»116. Il 16 ottobre, il cancelliere, a nome degli Otto Ufficiali della Balìa del comune di Firenze, scrisse di nuovo al «magnifico militi domino Bartolomeo [Smelducci] de Sancto Severino amico reverendissimo» per proporgli l’incarico di capitano generale nella guerra di Firenze, «in partibus Marchie et specialiter Esculani belli», per tre mesi, con il compenso di 1300 fiorini d’oro mensili, da pagarsi da Firenze, Perugia, Fermo e Ascoli, con l’invito alla salvaguardia delle terre di Rodolfo da Varano e «aliquorum aliorum colligatorum», con la specifica del contingente di cui doveva essere provvisto: «duos consiliarios sive socios, unum iudicem, duos cancellarios, septem domicellos, unum dextrerium, unum curserium et unum palafrenum, tres mulos e triginta lanceas equestres, intelligendo lanceam de uno caporali et uno piacto armatis, uno paggio cum tribus equis bonis et sufficientibus ut est moris et quinquaginta famulos inter quos sint duo comestabiles et decem balistarii bene muniti»117. Muovendosi su un altro fronte Coluccio, il 20 novembre dello stesso anno, «in nome dell’amore e della sincerità degli “amici”», rivolse un accorato appello al «magnifico concittadino Nicola Acciaiuoli», siniscalco del

Perusinorum et Esculanorum, Dominorum Rodulphi [da Varano] et Bartholomei et aliorum nobilium de Marchia tamquam benemeritum noluerimus acceptare [...]». 114 Ibid., «Boffo de Massa», Pars I, ep. XXVIII (Firenze, 13 marzo 1376), pp. 71-72. Coluccio informa Boffo anche dell’arrivo di un commissario per la sicura risoluzione dell’attrito: «[...] Ceterum ad componendas has dissentiones, tum pro salute Ligae, tum pro tranquillitate istarum partium intendimus destinare nostrum specialem Commissarium, cui in honestis et tibi possibilibus placeat assentiri». 115 Gherardi, La guerra dei fiorentini cit., docc. 253-254. 116 Ibid., doc. 296. 117 ASAP, ASCAP, ASA, Pergamene, M, fasc. IV, n. 2, si tratta di una copia autentica, redatta da «Franciscus Landi notarius florentinus coadiutor notarii officialium» della Balìa, della lettera scritta da «Ser Colucius cancillarius Communis Florentie» per conto degli «Octo Officiales Florentie Balie Communis» ed estratta «ex registro et libro cancellarie dictorum offitialium et Communis Florentie».


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Regno di Sicilia, rammentandogli che il «bellum esculanum» era iniziato grazie agli aiuti e agli auspici del comune fiorentino, che, in nome della sua condizione, della dignità e fedeltà alla patria, egli era chiamato «ad liberationem Italiae», mostrandosi favorevole agli oratori fiorentini che erano ad Ascoli, negando invece aiuto ed accoglienza al signor Gomez, pubblico “nemico” dell’italico nome, per convincerlo così a desistere dal pertinace proposito, facendogli capire che «omnes florentinos patriae liberationi congruere»118. Il 7 dicembre, dopo dieci mesi di assedio, mentre Gomez era ancora asserragliato nella cittadella ascolana, i fiorentini scrissero lettere di ringraziamento e supplica a Rinaldo da Monteverde e ai Fermani, per sollecitare il loro intervento. Il tono delle missive rivela una sincera preoccupazione rispetto agli esiti della situazione. Al «magnifico miles, amico carissimo Reinalduccio», ricordando l’ingiusto esilio comminato a molti uomini di sangue italico dall’infedeltà di barbari, «sub colore Status Ecclesie», era espressa la soddisfazione di averne richiamati molti al natio suolo, fra cui lui, di aver procacciato in tal modo alla repubblica fiorentina «novas amicitias semperque duraturas» e di averne riaccese «veteres iam sopitas in pristinum vigorem»; tuttavia, «pro statu suo [...] et totius ligae exaltatione», era sollecitata l’attenzione di Rinaldo ad «esculanum bellum», perché «si prospero terminetur eventu totam provinciam Marchiae» sarebbe stata «confirmatam et pacatam», perciò erano richiesti aiuti al comune di Fermo «ut hostium insolentia deprimatur, et tanta civitas [Ascoli] de ferventis belli faucibus erepta, [...] sacrae Ligae incipiat esse comodo» dopo essere stata di «tanto periculo et labori» a Firenze e a lui119. Ai “fratelli fermani, amici carissimi”, dopo aver rammentato il prezioso contributo offerto da loro al popolo ascolano, attonito, debole e già disperante della liberazione, durante l’assedio della cittadella che si era trascinato oltre il previsto, con l’offerta di forti e copiosi sussidi di soldati, cavalieri e fanti, dopo aver ribadito che era da ascrivere a loro merito il fatto di essere stati i più importanti promotori dell’iniziativa per la salvezza della patria e per l’onore della sacra lega, di cui essi erano tra i più forti espo-

118 Salutati, Epistolae cit., «Siniscalco Regni Siciliae», Pars I, ep. XI (Firenze, 20 novembre 1376), pp. 47-48. Nicola Acciaiuoli apparteneva alla famiglia Acciaiuoli «quae plurimum in Regno Siciliae opibus, honoribus et dignitatibus polluit et tempore reginae Ioannae totius Regni moderator erat et arbiter et siniscalchi titulo, sicut et plures alii ex hac familia erat decoratus». La lettera si conclude con un appello alla sincerità degli amici: «Et mementote quod quotidie dum talia imminent, et dum fortunae vorticibus res mortalium implicantur, cognoscunt et notant populi voluntates civium, et probatur amor et sinceritas amicorum». 119 Ibid., «Domino Reinalduccio», Pars I, ep. XV (Firenze, 7 dicembre 1376), pp. 55-56.


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nenti, li sollecitava a fornire il supporto finale di aiuti per la liberazione definitiva di Ascoli, fatto che sarebbe stato degno di debita riconoscenza120. Di fatto l’intervento ci fu, e con il supporto anche dell’esercito dei perugini, convenne alla fine a Gomez di capitolare, il 13 dicembre del 1376, e di lasciare la città con tutta la sua famiglia121. Il tiranno fu costretto alla resa, ma l’entità dei danni subiti dalla città, dai castelli e dalle campagne fu tale che Marcucci sostiene che «fu avuto del riguardo alle devastazioni sofferte da Ascoli, per le continue scorrerie de’ Brittoni; essa perciò il 31 maggio del 1377 dai fiorentini, che avevano stabilito un riparto del tangente di 25000 fiorini delle città collegate, fu tassata di soli seicento fiorini»122, rispetto ai novemila imposti a Bologna, ai quattromila a Perugia o ai tremila a Siena ecc.123. A conferma delle rovine subite dai «dilettissimi amici […] il popolo ascolano e il comune», il 31 luglio del 1377 Firenze ricordava «ai carissimi fratelli Perugini», che avevano intentato delle rappresaglie e un ricorso contro gli ascolani per un salario insoluto dovuto al nobile Angelo di Leggerio di Andreotto, per un suo ufficio al tempo della «tirannide ecclesiastica», che la città non avrebbe potuto dimostrare nulla, perché «vessata ed esausta [ …] da innumerevoli disfatte, perché erano stati distrutti dall’incendio tutti i documenti pubblici […] e perché il popolo ascolano era logorato da un anno di guerra che si era combattuto non nei campi di battaglia ma dentro le mura della città», pertanto si faceva appello alla fraternità dei perugini per evitare di gravare i comuni fratelli ascolani, che per la loro fedeltà e l’incrollabile proposito avrebbero invece meritato solo benefici124. L’obiettivo della rivolta comunque era stato raggiunto e, come osserva F.A. Marcucci: «Or quale stretta confederazione passasse allora tra le repubbliche di Firenze, di Perugia, di Fermo e di Ascoli può di leggieri ognuno idearlo. Certo è che i nostri cittadini rimunerarono Bartolomeo Smeducci da San Severino, capitano della Lega comune, col donargli il castello di Monte Adamo (che poi la città si ricomprò nel 1383, sborsando mille fiorini d’oro) e si dichiararono debitori a Firenze, Fermo e Perugia della libertà»125. La valutazione proposta dallo storico ascolano conferma

120 Ibid., «Firmanis», Pars I, ep. XVI (Firenze, 7 dicembre 1376), pp. 57-58. 121 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 291. 122 Ibid. 123 Salutati, Epistolae cit., «Colligatis», Pars I, ep. XXXVI (Firenze, 31 maggio

pp. 84-85. 124 Ibid., «Perusinis», Pars I, ep. XLI (Firenze, 31 luglio 1377), pp. 92-93. 125 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 291.

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quanto già sottolineato a proposito della sinergia sociopolitica, economica e culturale che, fin dall’inizio del secolo, si era stabilita tra le suddette città per l’interazione di uomini dediti al commercio, alle armi, ma ancor di più, certamente, alle lettere, alle arti e in particolare all’esercizio del diritto. Milites, notai, funzionari, uomini che fecero una buona carriera negli uffici pubblici cittadini, mantenendo posizioni di prestigio nell’amministrazione del comune, provenienti da famiglie eminenti e dotate di risorse patrimoniali e che, in qualità di podestà e capitani del popolo o di giudici e funzionari, a loro aggregati, riuscirono a stabilire contatti ed autorevoli amicizie personali. A titolo di esempio, le fonti tramandano che negli anni della “Lega” il miles ascolano Ioannes Corradutii fu eletto capitano del popolo di Perugia nel 1375, da dicembre 1376 a giugno 1377 fu scelto come capitano del popolo di Firenze, mentre ad Ascoli era podestà il fiorentino Ciprianus de Tornaquintiis, da luglio a dicembre 1377 fu podestà di Perugia126. Da febbraio ad agosto 1378, inoltre, «dominus Franciscus domini Napoleonis de Parisanis de Esculo» fu nominato esecutore degli ordinamenti di giustizia di Perugia127, mentre il padre, l’«excellentissimus vir dominus Napoleon de Parisanis», ricopriva la carica di rettore dello «Studium» fiorentino128. In riferimento a questi nomi di ascolani illustri e a proposito degli intrecci esistenti in questi anni tra “amicizia” e politica, l’epistolario di Coluccio permette di verificare un altro aspetto. Venuto a conoscenza di una controversia sorta tra Boffo di Massa de’ Tibaldeschi e i nobili Parisano e Francesco di Napoleone de’ Parisani, il 31 luglio 1377, in una lettera, a nome della Repubblica, Coluccio implorava «molto affettuosamente» l’amicizia di Boffo perché dirimesse la disputa, rispondendo al «magnifico milite, dilettissimo figlio e amico dominus Bartolomeo di San Severino», incaricato di valutare le responsabilità129. L’epistola dimostra chiaramente che i Fiorentini avevano con i Di Massa e i Parisani una stretta confidenza e una sperimentata condivisione di idealità e relazioni politiche, consolidatesi nel tempo; si tratta di personaggi di famiglie ascolane già note per i loro tentativi di rivolta e di modifica dell’ordine costituito e che, fin dai primi 126 Per avere più precise informazioni biografiche su Ioannes Corradutii e altri protagonisti delle vicende ascolane di questi anni, si veda Grelli, Festa, giostra e moda. Prosopografia e «liturgia del potere» cit. 127 Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., p. 223. 128 G. Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti della città di Ascoli nel Piceno, Ascoli 1830, rist. anast. Bologna 1972, pp. 79-80. 129 Salutati, Epistolae cit., «Boffo de Massa», Pars I, ep. XL (Firenze, 31 luglio 1377), pp. 91-92.


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anni del secolo, erano stati scelti a Firenze e a Perugia per ricoprire le più alte magistrature comunali.

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Con Coluccio Salutati ci si è addentrati ancora di più nel tema di questo convegno, perché attraverso l’analisi di una silloge significativa delle lettere del suo Epistolario, relative al triennio 1375-1378, è stato possibile: – conoscere fasi e personaggi di Ascoli e del Piceno coinvolti nella guerra degli Otto Santi; – comprendere le dinamiche dei rapporti personali e le motivazioni politiche dei comuni “Collegati” nel Piceno; – interpretare il valore che Coluccio attribuiva ai concetti di “amicitia”, “fraternitas”, “fidelitas” tra i “Collegati”. È evidente che l’epistolario di Coluccio permette di verificare un altro aspetto della sua straordinaria abilità culturale e politica, il suo impegno civile ed ideologico e di avere ulteriori elementi chiarificatori per comprendere il senso di quel programma culturale che siamo soliti definire umanesimo civile130. Si è detto molto circa l’accezione che egli attribuì alle parole «libertas» e patria. Dalle epistole non è difficile rilevare l’ardore e la passione delle sue convinzioni politiche. Con la documentazione passata in rassegna, tuttavia, si possono analizzare anche il significato e il valore che assunse per lui e per i suoi interlocutori il concetto di “amicizia”. Egli infatti interpretò in maniera significativa lo storico e definitivo passaggio dall’«hominium» e dalla «fidelitas» feudale, che presupponevano un rapporto gerarchico, alla valorizzazione della lega tra «comites carissimi», vincolati da rapporti bilaterali di relazioni reciproche. Tutto il suo epistolario, relativamente alla corrispondenza di questi anni, conferma la grande ammirazione per Cicerone, da lui inteso come modello ideale di vita politica e culturale, perfetta sintesi di «humanitas, ars e ingenium». Il concetto di “amicizia”, espresso da Salutati, è esattamente la trasposizione dell’ideale di “amicizia” politica, così come è

130 Cfr. E. Garin, I cancellieri umanisti della repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo della Scala, «Rivista storica italiana», 71 (1959), pp. 185-208; Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965; Garin, Storia della filosofia italiana, I, Torino 1966, pp. 241-282; G. M. Varanini, Notai trecenteschi tra tradizione comunale e cancellerie signorili. Appunti, in Cecco d’Ascoli: cultura, scienza e politica nell’Italia del Trecento. Atti del convegno (Ascoli Piceno: Palazzo dei Capitani 2-3 dicembre 2005), Roma 2007, pp. 289-300; R. Fubini, Coluccio Salutati nel suo sfondo storico-politico, in Coluccio Salutati cancelliere e letterato. Atti del convegno (Buggiano, 27 maggio 2006), Buggiano Comune 2007; Coluccio Salutati e Firenze. Ideologia e formazione dello Stato, cur. R. Cardini - P. Viti, Firenze 2008.


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enunciato nel «Laelius sive de amicitia» di Cicerone, testo che Coluccio certamente conosceva131, e che forse aveva trascritto e faceva parte della sua ricca biblioteca di codici132: “amicizia” non nel gretto senso di fazione, in cui la società romana era abituata a conoscerla; bensì “amicizia” non più subordinata al gioco dei raggruppamenti personali, o ridotta a un rapporto esclusivamente privato: inserita piuttosto, a pieno diritto, nel vastissimo intreccio delle relazioni di una società complessa. Il «consensus dei boni» fondato su amicizie rette da valori etici, e non esclusivamene utilitaristici, scongiura il pericolo dei tiranni. «Dulcissima res amicitia est, sed onerosa, sed quotidianis obnoxia, et subiecta servitiis. Non enim sufficit, si tuis et etiam amicorum amicis geras, sed instant amicorum benevoli, quodque latius patet, instant et noti» scriveva Coluccio a Ser Guido di Pietra Santa, chiedendogli un favore per la risoluzione di una controversia dell’amico di un amico, sottolineando però che non gli domandava di venir meno alla rettitudine della giustizia, gli chiedeva piuttosto che la «ratio» cedesse il passo alla coscienza133. Nella «salutatio» delle epistole analizzate, i destinatari, i cittadini di Fermo, Perugia, Siena, Viterbo, Ascoli, Foligno, Arezzo ecc. o i personaggi di rilievo, sono appellati: «fratres carissimi»134, «magnifici fratres carissimi»135, «amici carissimi»136, «fratres et amici carissimi»137, «magnificus miles, amicus carissimus»138, «nobilis amicus carissimus»139, «magnificus et excelsus dominus frater et amicus carissimus»140, «nobilissimus dominus

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131 Il dato emerge chiaramente dall’epistola che Coluccio inviò a Benvenuto da Imola per parlare della morte di Petrarca: «et quanquam Lelius ille Ciceronianus invidi velit esse invidi, felicitatem amici deflere; ego tamen non invidiae, sed ut arbitror caeco mentis errore, Petrarchae hanc cum morte beatitudinem, et graviter et luctuose tuli». 132 B.L. Ullman, The Humanism of Coluccio Salutati, Padova 1963. 133 Salutati, Epistolae cit., «Ser Guidoni de Petra Sancta», Pars I, ep. LXXXI (Firenze, 7 Kal Febbraio), p.185. 134 Ibid., «Perusinis», Pars I, ep. XIV (Firenze, 3 dicembre 1376), pp. 51-54, dove, tra l’altro, si fa riferimento all’aiuto offerto da Rodolfo da Varano agli Ascolani. 135 Ibid., «Perusinis», Pars II, ep. XXI (Firenze, 16 dicembre 1377), p. 89. 136 Ibid., «Esculanis», Pars I, ep. XXIII (Firenze, 9 febbraio 1376), p. 65; «Fulginatibus», Pars I, ep. LXVIII (Firenze, 3 ottobre 1377), pp. 161-162, dove Coluccio esprime un’accorata esaltazione della libertà. 137 Ibid., «Firmanis», Pars I, ep. XVI (Firenze, 9 febbraio 1376), p. 57. 138 Ibid., «Domino Reinalduccio», Pars I, ep. XV (Firenze, 7 dicembre 1376), p. 55. 139 Ibid., «Boffo de Massa», Pars I, ep. XXVIII (Firenze, 13 marzo 1376), p. 71. 140 Ibid., «Colutius poeta florentinus pro magnifico et excelso super omnes civitates comuni Florentinorum comiti virtutum ac Mediolani imperatori vicario generali», Pars I, ep. VII (Firenze), pp. 15-16.


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amicus singularissimus» , il termine «amicitia» è variamente ricorrente nelle narratio, petitio, conclusio accanto alla «benevolentiae captatio». La struttura delle epistole è improntata alla più sofisticata «ars dicendi». Coluccio, cultore appassionato della cultura classica, non disdegna, per essere più efficace, di riferire citazioni dotte di Senofonte, Aristotele, Plutarco, Seneca, Ovidio, Dante e Petrarca, o di inserire stralci testuali142. Un aspetto è comunque ribadito con forza: gli “amici carissimi” non devono venir meno ai patti stabiliti. Il cancelliere fiorentino, nelle lettere, sostiene con veemenza la necessità di abbattere il tiranno che nello specifico è il papa, tuttavia, non nella sua veste di Santo Padre, ma come capo politico di uno stato, che egli fa governare da rappresentanti avidi e rapaci, mostri di violenza e prevaricatori senza scrupoli143. La guerra «degli Otto Santi», o meglio gli scenari di guerra, combattuti su più fronti, e tutti gestiti con abile sapienza strategica su più tavoli, anche con la redazione quotidiana144 di una fitta corrispondenza, per comporre le mosse strategiche in un puzzle coerente, hanno nel notaio-cancelliere del comune di Firenze non solo il redattore-dettatore, ma l’esperto di scienze giuridiche e di retorica, ossia delle tecniche del discorso persuasivo e delle relazioni umane, la mente coordinatrice, l’eminenza animata da lucida coscienza critica, da sagacia politica, da straordinaria memoria storica, da valutazione realistica e senso dell’opportunità145. L’invito rivolto ai colleghi italici, perché riscoprissero la forza della tradizione patria, scrollandosi di dosso il giogo della sudditanza servile, fece sì che gli esperti di diritto si mettessero all’opera, per dare dignità giuridica e dottrinale al nuovo stato di cose. Ad Ascoli, più che altrove, la competente esperienza dottrinale del diritto, elaborata alla scuola del grande 141 Ibid., «Domino Perotto Scatizzae», Pars II, ep. XLVII (Firenze, 4 marzo 1377), pp. 134-136. 142 P. Viti, La «Florentina Libertas» e l’ideologia antitirannica, in Coluccio Salutati e Firenze cit., pp. 151-157. 143 Cfr. L. Mancino, Coluccio Salutati e l’eredità di Roma e P. Viti, Tirannide e libertà, in Coluccio Salutati e Firenze cit., pp. 159-168. 144 Alcuni riferimenti, a titolo di esempio: il 7 dicembre 1376, Coluccio redigeva un’epistola indirizzata a domino Reinalduccio e una indirizzata ai Fermani; il 9 febbraio 1376 scriveva agli Ascolani, lo stesso giorno inviava un’epistola a Rinaldo; il 13 marzo 1376 redigeva una lettera destinata a domino Rainaldo e una destinata a Boffo di Massa; il 31 luglio scriveva un’epistola a Boffo di Massa e una ne scriveva ai Perugini; il 21 febbraio 1377 inviava una lettera a «domino Guglielmo vicecomiti Turennae» e un’altra ne inviava ai Perugini; il 16 dicembre 1377 scriveva agli abitanti di Foligno e nello stesso giorno indirizzava una missiva al comune di Perugia, ecc. 145 V. Arrighi, La cancelleria fiorentina al tempo di Coluccio Salutati, in Coluccio Salutati e Firenze cit., pp. 55-59.


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Baldo degli Ubaldi , fece maturare in quello che la tradizione ricorda come il «priore dell’università niccolina», Ciuffetto o Ciuffuto di Nuccio147, la coscienza che per la repubblica ascolana appena realizzata fosse necessario un codice normativo di riferimento. Il “dottore di legge” «dominus Ciuffutus» di Nuccio de’ Ciuffuti, de’ Cauzi, era figlio di Giovanni o Giovannuccio, Nuccio de’ Cauzi o de’ Kauti, che aveva ricoperto la carica di ambasciatore ascolano con Filippo Bastoni presso il comune di Firenze nel 1376148, durante la delicata fase dei tentativi compiuti per cacciare l’Albornoz e per aderire alla lega delle città collegate alla guerra fiorentina. Lo spirito che anima la redazione dello Statuto ascolano è espressa nelle parole della premessa dell’edizione latina, conclusa il 5 marzo del 1377149, a pochi mesi dalla cacciata di Gomez: «Ad honorem, triumphum et exaltationem felicis leghae “Italicae libertatis”, cunctorum colligatorum et maxime magnificorum communium civitatum Florentiae et Perusiae. Ad conservationem “perpetuae libertatis et partis guelfae”150, et popularis status dictae civitatis, et ufficiorum dominorum Antianorum et Confalonierorum libertatis “dictae partis guelfae” dictae civitatis»151. Vale qui la pena di sottolineare che la versione latina dello stesso testo, che ho trovato in un libro delle Riformanze del 1476 è così modificata: «Ad honorem, triumphum et exaltationem felicis leghae “ecclesiastice libertatis” et

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Baldo degli Ubaldi, celebre giurisperito, nacque a Perugia nel 1319 da Francesco degli Ubaldi, famoso medico; per l’encomio che ne fa Coluccio ai Perugini si veda: Salutati, Epistolae cit., «Perusinis», Pars II, ep. XVIII (Firenze, 19 luglio 1383), pp. 84-86. 147 Nel 1357 egli fu priore del Collegio degli avvocati di Ascoli, come riferisce lo Ziletti, sulla base delle parole contenute in questo documento: «conclusionem predictam prestantissimam doctoris domini Ciuffuti, nostri Collegii Prioris, nos omnes advocati dicte magnifice civitatis Asculi, comprobamus. Et ita certi iuris esse dicimus, et in veritatis testimonium munimine sigilli nostri subsignari mandavimus. Anno incarnationis 1357 die 7 septembris», si veda Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati cit., p. 76. Per altre notizie relative al ruolo politico e culturale assunto da «dominus Ciuffutus» nel comune ascolano, cfr. Grelli, Festa, giostra e moda. Prosopografia e «liturgia del potere» cit. 148 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 290. 149 Degli Statuti latini compilati nel 1377 oggi si conoscono due copie: ASAP, ASCAP, Registro 23; Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 1787, cfr. G. Breschi, Note al testo degli Statuti di Ascoli Piceno del 1496, in Statuti di Ascoli Piceno, edd. G. Breschi - U. Vignuzzi, II, Commento filologico- linguistico, Acquaviva (AP) 2004, pp. 17-32. 150 Per analogia si veda come sono descritti l’identità della parte guelfa e la fluidità dello status politico nel comune di Firenze nello stesso periodo in P. Benigni, I principali organi della direzione politica nell’età di Coluccio Salutati, in Coluccio Salutati e Firenze cit., pp. 21-23. 151 ASAP, ASCAP, Registro n. 23.


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eorum colligatorum et maxime magnificorum communium civitatum Florentiae et Perusiae. Ad conservationem “perpetuam libertatis et status ecclesiastici”152, et popularis status dicte civitatis, et ufficiorum dominorum Antianorum et Confalonierorum libertatis “dicti status ecclesiastici” dictae civitatis». Nella versione volgare degli Statuti, stampata nel 1496, lo stesso testo è tradotto: «Ad honore, triumpho et exaltatione de la felice legha della italica libertà et de tucti l’altri colligati et maxime de li magnifichi comuni de le ciptà de Fiorenza et de Perusia et ad conservatione de la perpetua libertà de lu stato ecclesiastico, et de lu populare stato de la dicta ciptà, et de lu offitio de li signori Antiani et Confaluneri de la libertà de lu dicto stato ecclesiastico de la dicta ciptà»153. La sostituzione dei termini «partis guelfae», usate nella redazione del 1377, con le espressioni «stato ecclesiastico» nelle redazioni del testo del 1476 e del 1496 provano come dietro queste rielaborazioni linguistiche ci siano complesse vicende socio-politiche e riflessioni ideologico-giuridiche. Esse sono indubbiamente espressione di un articolato dinamismo storico politico, di una complessa serie di «rerum gestarum», a ulteriore conferma dello stretto nesso esistente tra le parole e la memoria, le parole e la storia. Il ritorno del Papa a Roma, in particolare l’elezione di Urbano VI, mise fine alla parentesi indipendentistica dei Collegati. Il 7 agosto del 1378, le città della Lega furono informate da Coluccio che alcuni ambasciatori di Firenze avevano concluso definitivamente la pace con il pontefice e che come «colligati adherentes et sequaces Summi Pontificis» dovevano inviare commissari a Roma154. Si trattò di una pace difficile, ottenuta con trattative e complessi accordi diplomatici, cercando l’intervento di amici influenti155. Ascoli il 28 e 29 luglio, nel chiostro di Tivoli, alla presenza del 152 Ibid., Riformanze n. 56, c. 3v. 153 Statuti di Ascoli Piceno dell’anno

MCCCLXXVII, edd. L. Zdekauer - P. Sella, Roma 1910, p. 3 154 Salutati, Epistolae cit., «Colligatis», Pars II, ep. LXIX (Firenze, 7 agosto 1378), p. 180; «Ambaxiatoribus existentibus Romae», ep. LXXXIV (Firenze 22 settembre 1378, di notte), pp. 201-203;«Ambaxiatoribus in curia», ep. LXXXV (Firenze 24 settembre 1378), p. 204; «Ambaxiatoribus», ep. LXXXVI (Firenze 25 settembre 1378, di notte), p. 205; «Ambaxiatoribus existentibus in curia», ep. LXXXVII (Firenze 6 ottobre 1378, ore XXI), pp. 206-207; «Ambaxiatoribus in curia», ep. LXXXVIII (Firenze 11 ottobre 1378), p. 208; «Ambaxiatoribus existentibus in curia», ep. LXXXIX (Firenze 17 ottobre 1378, ore XVI), p. 209. 155 Ibid., «Domino Galeocto», Pars. I, ep. LXXVIII (26 ottobre 1377), pp. 177-181, Coluccio si lamenta perchè il papa impone per la pace delle condizioni inaccettabili sia a livello economico, sia per quanto riguarda le punizioni nei riguardi dei ribelli, e dichiara: «[...] melior est certa pax, quam sperata victoria, ut Hannibal inquit. Sed certe periculosior est insidiosa concordia, quam acerrimum est diutinum bellum […]. Nobis tamen carior est


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papa stipulò lo strumento di pace con la definizione delle condizioni e dei patti per la resa; come oratori e procuratori furono inviati il «doctore de lege» Giovanni di Nello di Stolto (Guiderocchi) e Ser Vanni de’ Ciuffuti, fratello del “dottore di legge” «dominus Ciuffutus» figlio dell’ambasciatore Giovanni. Essi dichiararono che gli ascolani erano confessi e pentiti per aver gravemente mancato di rispetto alla Chiesa, ai suoi pontefici e ai loro rettori nelle Marche, per cui ne chiedevano perdono e assoluzioni156. Il mese di dicembre del 1379 Ascoli stabilì una lega con Fermani, Anconetani, Recanatesi e Camerinesi, ma questa volta contro un ex “carissimo amico”: Rinaldo da Monteverde. Era stato uno dei capi della lega di Fermo con i Fiorentini e il suo intervento fu decisivo per Ascoli ma, terminata la guerra, egli aveva imposto la sua tirannia sulla città di Fermo, macchiandosi di gravi misfatti e soprusi. Ascoli non esitò a correre in soccorso di Fermo per catturare Rinaldo e consegnarlo al boia con i figli, condannandolo ad una morte miserevole157. Negli ultimi decenni del secolo, secondo F. A. Marcucci, «gli Ascolani si occuparono a rimetter su la mercatura delle lane, sete e canape e il commercio nel porto e, nel maggio del 1380, [fu emesso] un diploma reale dalla scismatica Giovanna I, regina di Napoli, in cui si accordava loro il libero trasporto in Regno e l’estrazione delle loro mercanzie»158. In questo contesto, tra Ascoli, Perugia, Firenze e altre città toscane i rapporti continuarono ad essere solidi e proficui, con scambi commerciali, culturali e politici, come si evince anche dagli Statuti municipali che erano stati appena redatti159. Nicola de’ Carboneschi, nel 1393, fu podestà di Firenze e si

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contentiosa libertas, quam servitus otiosa»; «Regi Ungariae», Pars II, ep. LXI (6 maggio 1378), pp. 166-170, Coluccio chiede una mediazione per la pace con il nuovo papa e sottolinea che i mercanti fiorentini, dopo la scomunica, furono espulsi da vari territori; «Domino Francisco de Savorgnano vicedomino generali Patriarchae di Aquileiensis comitatibus terrae Utini civitatis Austriae, Clemonae et Avenzonae», Pars II, ep. XLII (Firenze, 17 maggio 1378), p. 171, Coluccio chiede di intercedere per la pace e soprattutto di far inserire nel trattato che: «omnes domini, civitates, communia, castra, villae, aque, personae in quibuscumque mundi partibus constitutae, qui, vel quae receptassent aliquem Florentinum, vel cum eodem communicassent, aut eidem dedissent auxilium, vel favorem excomunicatione, interdicto, processu, sententia, atque poena liberabuntur et penitus absolventur». 156 ASAP, ASA, Pergamene, N, fasc. I, nn. 1-2; Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 293. 157 Ibid. e De Santis, Ascoli nel Trecento, II cit., pp. 472-475. 158 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 293; ASAP, ASA, Pergamene, K, fasc. III, 2 (17 marzo 1380). 159 Statuti di Ascoli Piceno cit., Statuti del Popolo, Lib. IV, r. XXII: «Che possa venire li foresteri ad prestare socto una certa forma».


LE RELAZIONI DI AMICIZIA NELLA STORIA POLITICA

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distinse per la sua integrità morale . Nel 1395, a diciotto anni dall’instaurazione del «popularis status», ci fu un tentativo riuscito di conquista di Ascoli ad opera del duca d’Atri, Matteo Andrea Acquaviva161. Le cronache riferiscono del contributo determinante offerto al successo dell’impresa da Giovanni Maxii (di Massa de’ Tibaldeschi), irriducibile antagonista del restaurato governo papale, da Marino Lucarelli (discendente dei nobili di Monte Passillo), nonché da Petrocco Sgariglia, dal Senato, dal Consiglio e dal Popolo ascolano. F. A. Marcucci riferisce che il 24 aprile 1396 il duca emise una carta di privilegio in favore «viri nobilis Aduardi Cicchi de Esculo amici nostri carissimi»162, a vantaggio cioè del «capo guelfo» Odoardo di Cecco, passato al suo seguito e che, nell’autunno, il pontefice Bonifacio IX cercò di vanificare gli sforzi dell’Acquaviva, rimunerando “amichevolmente” Giovanni Tibaldeschi con il feudo del castel Folignano e Petrocco Sgariglia con le esenzioni dei dazi nella sua dinastia del Campo163. In questo caso, l’“amicizia”, esaltata espressamente dal duca, in ricoscenza del supporto offertogli dall’Odoardi, e proposta indirettamente dal papa al Tibaldeschi e allo Sgariglia, per il loro cambio di orientamento, era ben lontana dalle idealità che avevano infiammato le parole dei testi delle epistole di Coluccio: la finalità utilitaristica dell’amicizia, tanto contestata dal cancelliere fiorentino, diventava l’obiettivo principale delle relazioni amicali, e svelava ed anticipava scenari politici destinati ad avere seguito ad Ascoli nell’endemico trasformismo delle parti per la gestione del potere.

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160 «Nicolaus Namerii sive Nameni de Carbonischis de Exculo, miles», fu nominato podestà di Firenze il 22 settembre 1393 e capitano del popolo di Perugia da novembre 1397 ad aprile 1398 e quindi di Todi. Si tratta di un personaggio rimasto noto anche nella storia di Firenze per la sua integrità morale, in quanto piuttosto che cedere alle pressioni di Maso degli Albizzi, perché mettesse sotto processo Cipriano e Alberto degli Alberti, considerando faziosa l’accusa, a solo un mese dalla sua elezione, preferì essere rimosso dalla carica per decreto della balìa; si veda Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 303; Carfagna, Il lambello, il monte e il leone cit., p. 292. 161 Salvi, Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 24; Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., pp. 303-304; G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento, I, Ascoli Piceno 1958, pp. 38 e 85, per la famiglia degli Acquaviva e le relazioni con la storia ascolana, si veda M. E. Grelli, I capostipiti e la presenza degli Acquaviva tra Marche e Abruzzo (secoli XII-XIV), in Lo Stato degli Acquaviva d’Aragona duchi di Atri. Convegno di Studi (18-19 giugno 2005, Atri, Palazzo Ducale), di prossima pubblicazione. 162 Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane cit., p. 304. 163 Ibid., p. 305.


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La amicitia tra politica e diritto: il tractatus di Giovanni da Legnano (1320 ca.-1383)


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1. L’autore

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Questo invito mi è giunto molto gradito non solo per l’occasione di vivere un soggiorno ascolano, circostanza sempre piacevole. C’è un fatto più remoto anche, perché è da lungo tempo, da quando cercavo di approfondire le tematiche di Domenico Maffei in tema di umanesimo giuridico1, che Giovanni da Legnano era entrato come un sorvegliato speciale nel mio orizzonte di ricerca per la sua opera così eccentrica (almeno apparentemente) rispetto alla giurisprudenza tradizionale come quella di altri ‘eccellenti’ trecenteschi sempre ricordati come Luca da Penne. Ora mi è stato dato modo di affrontare da vicino una di queste sue opere eterodosse, per così dire, che mi hanno confermato pienamente la sua appartenenza a una generazione nuova di giuristi, di quelli che cominciarono a introiettare la grande lezione del Petrarca quanto meno allargando la cerchia delle letture e degli interessi2. Con le sue opere quanto meno di taglio e contenuti nuovi (oltre ad aristotelici Circulus politicorum e uno oeconomicae, ha lasciato un diffuso De bello3

1 Con il mio Giuristi, umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento: qualche problema, «Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento», 3 (1977, ma 1978), pp. 43- 73, poi confluito aggiornato con altri materiali in Diritto medievale e moderno. Problemi di storia del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini 1991, pp. 101-155. Il libro di Maffei cui ci si riferisce è il classico Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1955. 2 Sul grande aretino e il suo rapporto con il diritto saranno certamente interessanti gli atti del convegno recente tenutosi a Padova a cura dell’Ente Nazionale Francesco Petrarca presso l’Università patavina, oltre a quanto si è detto in questo convegno. 3 E gli ha meritato notorietà nella cultura internazionale: v. Giovanni da Legnano, Tractatus De Bello, De Represaliis et De Duello, ed. T.E. Holland, Washington-Oxford 1917, dopo G. Ermini, I trattati della Guerra e della Pace di Giovanni da Legnano, in Scritti di diritto comune, cur. D. Segoloni, Padova 1976, pp. 461-648.


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e un De cometa!) , accanto ai tradizionali commentari giuridici di tipo scolastico5, il Legnano seppe costruirsi già in vita la fama di gran dotto non solo come giurista, ma anche come filosofo e astrologo. Il fatto era così noto e riconosciuto che nella lapide del solenne monumento sepolcrale – ordinato e preparato per tempo per essere al momento giusto piazzata in S. Domenico (e i cui eleganti frammenti sono ora conservati al museo civico bolognese) –, si era potuto generosamente accostare a Aristotele, Ippocrate e Tolomeo6, evidentemente senza timore di cadere nel ridicolo! Certo poté essere presto conosciuto fuori Bologna, ma fu nell’ambiente bolognese e in quello giuridico che soprattutto operò, tanto da apparire anche come mediatore di atti fondamentali per la storia della città e divenirne governatore ottenendo la carica ufficiale di vicario pontificio7. Dagli anni ’60 del Trecento fino ai primissimi anni ’80, infatti, e fino alla morte che lo colse nell’83, si può ben dire che fu il personaggio centrale delle istituzioni a Bologna. Facile quindi essere indotto ad avere anche la cura di radicarvi ben saldamente la famiglia. E questa vi acquisì infatti una posizione segnalata e presto nobiliare entro il Quattrocento, venendo così annoverata tra quelle dei quaranta consoli della città. Giovanni lasciava solo per i rapporti di famiglia una fama oscurata da voci poco benevole. Come quella raccolta poi da alcuni colleghi illustri, 4

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Per bibliografia generale si veda F. Bosdari, Giovanni da Legnano canonista e uomo politico del 1300, Bologna 1901, M.C. De Matteis, Profilo di Giovanni da Legnano, in L’Università a Bologna. Personaggi, momenti e luoghi dalle origini al XVI secolo, cur. O. Capitani, Bologna 1987, pp. 157-171; E. Gianazza - G. d’Ilario, Vita e opere di Giovanni da Legnano, Prefazione di G. Spadolini, Legnano 1983 (da ora Gianazza-D’Ilario); Ch. Zendri, Utrum regis ad subditos sit amicitia: droit, politique et amitié dans la pensée de Giovanni da Legnano (vers 1320-1383), «Astérion», 6 (2009) disponibile solo in rete: http://asterion.revues.org/1473, che situa il Legnano per l’opposizione amico/nemico nella tradizione del pensiero politico europeo sino a Carl Schmitt. Per dati manoscritti dopo J.F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts, II, Von Papst Gregor IX. bis zum Concil von Trient, Graz 1956, pp. 257-261 (ed. orig. Stuttgart 1877), si veda ora J.P. Mc Call, The writings of John of Legnano with a list of manuscripts, «Traditio», 23 (1967), pp. 415-437. In Gianazza-D’Ilario tra le informazioni su testimoni manoscritti delle sue opere si segnala il ms. Marciano lat. V, 135 (Coll. 2129) che, anche se introdotto come De iudiciis, secondo questi autori (p. 271), dovrebbe essere pur sempre ‘politico’. 5 Si v. ad esempio G. Ermini, I commentari In Clementinas di Giovanni da Legnano, in Scritti di diritto comune cit., pp. 157-163. 6 Naturalmente riprodotto nell’unica biografia analitica: Gianazza-D’Ilario, pp. 38-39, ma già ricordato dal Diplovatazio (oltre, nota 8). 7 Gianazza-D’Ilario, in part. pp. 11-20 da cui traggo anche le notizie biografiche riferite in seguito. A pp. 32-33 è riprodotto il documento di concessione della cittadinanza onoraria bolognese del 1378, che non comportò tuttavia alcun ripudio dei suoi legami con l’origine lombarda.


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riportati ancora nel primo Cinquecento dal diligente e chiacchierone Tommaso Diplovatazio, di essere stato addirittura bigamo a un certo punto8, mettendo così un ostacolo (anche allora di un certo peso nonostante tutto) a divenire cardinale di Urbano V, con il quale ebbe rapporti di collaborazione strettissimi9. Da parte sua la motivazione data per la mancata accettazione della nomina fu più seria, perché in una sua opera ricordò di averla rifiutata, quando la corte pontificia si trovava a Montefiascone, con la nobile motivazione di non dover così bere il sangue dei poveri10. Come giurista si rifecero al suo insegnamento giuristi insigni come Giovanni da Imola e Francesco Zabarella (ma non Antonio da Butrio, notava argutamente Tommaso Diplovatazio11), e nel pieno Quattrocento l’Andrea Barbazza, eminente a Bologna e quindi capace di rivalorizzarne l’opera, che a fine secolo ebbe un nuovo corifeo in Ludovico Bolognini, il professore noto per la cavalcata a Firenze a riscontrare il famigerato § Cato delle Pandette12, e tra l’altro editore di testi classici della tradizione cittadina tra i quali comparve anche il De amicitia del Legnano nel 149213. 2. Alcune opere

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Il testo veniva così riscoperto, per così dire, a oltre un secolo dalla sua scrittura (ca. 1365)14, perché era stato poco presente nella tradizione manoscritta a quanto pare, a differenza dei fortunatissimi De bello o De duello, vere novità nel panorama della letteratura giuridica europea. Per dare un’idea concreta di questo esito, si pensi che, mentre del De amicitia una trentina d’anni fa erano censiti solo sette testimoni, per il De

8 In base a Baldo (che ricordava la bigamia come impedimento non dispensabile neppure dal papa) e Felino Sandei; si v. Thomae Diplovatatii Liber de claris iuris consultis. Pars posterior, cur. F. Schulz - H. Kantorowicz - G. Rabotti, Bologna 1968 (Studia Gratiana, 10), pp. 292-296. 9 Gianazza-D’Ilario, pp. 21-24. 10 In margine a X.3.5.4 riferisce sempre il Diplovatazio (p. 293). B. Pio, De fletu Ecclesie. Giovanni da Legnano, Bologna-Legnano 2006, ricorda il suo Tractatus de pluralitate beneficiorum. 11 Diplovatatii Liber de claris cit., p. 293 (del resto lo Zabarella diceva la sua opera sulle Clementine più degna di probitas che di diligentia. 12 Sulla loro centralità umanistica, si veda ora H.E. Troje, “Crisis Digestorum”. Studien zur Historia Pandectarum, Frankfurt/Main 2011. 13 S. Caprioli, Indagini sul Bolognini: Giurisprudenza e filologia nel Quattrocento italiano, Milano 1969. 14 Si veda ora McCall, The Writings cit., p. 429: la data non è comunque sicura.


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bello si arrivava già allora a cinquantadue, e le nuove possibili acquisizioni – senz’altro molte con la accessibilità di molte biblioteche all’est – non dovrebbero aver variato da allora il rapporto. Quanto alla sua fama all’estero, basterà accennare che già Chaucer, nel Clerk’s Tale con le vicende della Griselda boccaccesca, lo associò al Petrarca, ricordato come il poeta laureato e retore che illustrava l’Italia con la sua poesia15. Ebbene, vi veniva infatti presentato accanto, essendo ancora in vita, come Giovanni ‘Lynyan’, famoso come filosofo e giurista16. Qualche anno prima, al tempo della denuncia del trattato di Brétigny (1369), era già tanto famoso da essere consultato dal re Carlo V di Francia. Non stupisce quindi che il suo Somnium17, altro testo eccentrico per un giurista, venisse poi recepito quasi letteralmente nel Somnium Viridarii attribuito ora a Evrart de Trémaugon e databile al 1376, e presto volgarizzato nel Songe du Vergier – l’opera notissima18 perché è una specie di silloge dei temi dell’attualità politica e sociale del tempo, e che ha motivato in gran parte l’interesse della storiografia francese e inglese per il nostro giurista19. Senonché nella versione francese era il re al centro della scena, esaltato come vicarius Dei in temporalibus come fosse l’imperatore e, pertanto, portato a vigilare che la Chiesa non travalicasse dalle sue competenze, mentre in Giovanni era il papa cui avrebbero voluto andare in soccorso la canonica Sapientia e la civilis Sapientia, se non ne fossero state impedite da una massa confusa di preti20. Si aprirà così il confronto tra i due saperi – fatto che ci riguarda da vicino come si vedrà – e il De principatu inserito nell’opera21 veniva tutto incentrato sulla superiorità del potere papale e del diritto canonico come strumento di governo unitario della società. Queste posizioni hanno fatto giudicare Giovanni fuori del tempo per la sua anacronistica difesa della

15 J.P. McCall, Chaucer and John of Legnano, «Speculum», 40 (1985), pp. 484-489. 16 In The Works of Geoffrey Chaucer, ed. F.N. Robinson, Cambridge Mass. 1957, p. 10. 17 Sulla quale in particolare si veda M.C. De Matteis, Diritto e politica nel “Somnium”

di Giovanni da Legnano, nel volume ad essa dedicato curato da B. Pio: Somnium. Giovanni da Legnano, Legnano 2006, pp. 59-80. 18 Somnium Viridarii, éd. M. Schnerb-Lièvre, Paris 1993 (Sources d’histoire médiévale), I, pp. XXIX-XXXIV; in francese, Le Songe du Vergier, éd. M. Schnerb-Lièvre, Paris 1982 (Sources d’histoire médiévale), I, pp. XLIII-XLIX. 19 Si veda Quaglioni, Giovanni da Legnano e il “Somnium viridarii”. Il sogno del giurista tra scisma e concilio, nel suo “Civilis sapientia”. Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna, Rimini 1989, p. 156. 20 Ibid., p. 153. 21 E sul quale si veda già G. Ermini, Un ignoto trattato “De principatu” di Giovanni da Legnano, in Scritti di diritto comune cit.


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ierocrazia pontificia sostenuta anche altrove, in tema di donazione di Costantino ad esempio22. E comunque proprio il De amicitia ci consentirà di fornire un’ipotesi di spiegazione che eviti semplificazioni. Ma tutto ciò ci consente, da subito, di capire come Giovanni potesse trovare buona accoglienza negli ambienti scolastici anche a metà ’400, in piena crisi del conciliarismo e poi a fine secolo in una Bologna ormai avviata verso il definitivo prevalere del potere centrale pontificio. Ora il De amicitia ci aprirà anche alla comprensione del suo successo cinquecentesco, un po’ per motivazioni umanistiche e un po’ per il clima controriformistico – oltreché per comprensibili sollecitazioni della famiglia. Ma procediamo con ordine. 3. Ritorno ai testi

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La amicitia nei testi giuridici al tempo di Giovanni da Legnano era naturalmente già apparsa. Ma, a differenza della pax – che come si sa era uno strumento principe di composizione dei conflitti aperti da un crimine e quindi di pacificazione extra-giudiziaria e, peraltro, oggetto anche d’un apposito trattato dello stesso Giovanni23 –, per l’amicizia si trattava essenzialmente di menzioni solo effettuate incidenter tantum nel corso delle trattazioni giuridiche. Come quando si discuteva dottamente se si potesse essere testi per un amico, oppure essere suoi mandatari senza averne avuto una commissione esplicita, oppure ancora se si potesse comparire in giudizio in luogo di un amico, o ancora intervenire in modo anche violento in caso di un suo spossessamento per vim. E si potrebbe continuare a lungo, naturalmente, spigolando nei repertori analitici dei grandi commentari giuridici del Trecento24. La amicitia quindi, come si vede, era stata vista così forte da conferire una sorta di rappresentanza implicita, sentendola come un prolungamento, un ampliamento della personalità individuale. La trattazione di Giovanni da Legnano è ben altrimenti ambiziosa rispetto a quegli accenni

22 D.

230.

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Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1980, pp. 221-

E oggi oggetto di una bibliografia abbondante sulla quale ci sembra inutile soffer-

marci.

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Quello cui mi riferisco per la esemplificazione sommaria sopra riportata è il repertorio che accompagna le opere a stampa di Bartolo da Sassoferrato, il più diffuso giurista (civilista) ormai a fine Trecento.


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casistici bartoliani ricordati prima, perché non tiene conto degli scrittori recenti di diritto e s’appoggia invece apertamente, e robustamente, sui grandi referenti antichi, da Aristotele a Cicerone e a Seneca, soprattutto. Egli ancorò saldamente la sua discussione su un ampio sfondo teorico e tematico quindi, come si può immaginare. La quale discussione aspira a rintracciare la amicitia come operante nei più diversi rapporti pubblici e privati, anche se viene seguita in un modo non sempre ordinato e privo di ripetizioni nelle dense trenta e oltre lunghe colonne a stampa fortemente abbreviate dell’edizione più diffusa, quella del 158425. Nessuno, però, per quel che ne so, ha fatto finora affondi sulla tradizione manoscritta del testo, per cui non è da escludere affatto che abbia ricevuto qualche deterioramento anche grave nei vari passaggi dalla tradizione manoscritta all’edizione a stampa, tali da alterare la trattazione originaria in modo anche pesante. L’andamento esteriore è quello tipico di un’opera scolastica, che si apre con la consueta presentazione della struttura del tractatus distinguendo i vari tipi di amicitia e i suoi rapporti con le virtù, con l’amore, la giustizia e la fortitudo (peraltro ritenute queste due ultime excellentiores26), e vista nel concreto dei rapporti inter-individuali divenire volta a volta beneficenza, oppure dono, ma anche motivo di retribuzione. Impossibile riassumere il contenuto ampio e articolato (com’era ormai usuale in quel tempo) del trattato nel suo complesso e del resto un suo sunto è già stato riportato, per vero un po’ confusamente e poco espressivo dell’andamento dialettico della discussione, nell’unica opera recente complessiva sul Legnano27. L’orizzonte del nostro autore è essenzialmente la Etica Nicomachea (ma non solo, tra i testi aristotelici utilizzati), che viene messa puntualmente a colloquio con i classici romani e viene concordata con essi con una miriade di distinzioni successive secondo gli schemi tipicamente scolastici del tempo. Il proposito è quello di armonizzare le affermazioni di quei dotti prestigiosi in un continuum sapienziale, nel cui alveo si poneva ora, conclusivamente, lo stesso Giovanni. Il quale non può non tener conto del diritto naturale e divino e della reductio ad unum attuata dal cristianesimo. Così ci si muove sullo sfondo di un’armonia di tutte le cose ordinate verso Dio, nei cui confronti l’ami-

25 Ioannis de Lignano De Amicitia, in Tractatus Illustrium in utraque tum Pontificii, tum

Caesarei iuris facultate Iurisconsultorum, XII, Venetiis 1584, f. 227ra-242ra. Sintesi dei temi che qui interessano in Zendri, Utrum regis cit. 26 Il passo è a f. 235rb. 27 Mi riferisco naturalmente a Gianazza-D’Ilario.


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cizia si configura come carità, e che è presente tra gli animali della stessa specie dando luogo a quella concordia che è unione sessuale riproduttrice ed è tra gli uomini elemento fondamentale di moderazione dell’amore e dell’odio: un motivo di reciproca dilezione secondo ragione. Senonché, la trattazione di Giovanni si complica perché non bisognava caratterizzare l’amicizia solo nei confronti delle virtù, ma si doveva anche vederla concretamente, operante nelle varie categorie di rapporti umani. E allora dell’amicizia diviene rilevante il suo possibile interferire nelle attività più diverse. A cominciare da quella del legislatore, che naturalmente deve dare la preferenza alla giustizia, che è caratterizzata come usualmente dai precetti honeste vivere, alterum non ledere e suum cuique tribuere dando così l’avvio a un’analisi molto dettagliata di cui ricorderò solo una delle conclusioni. Indotta già dalla Retorica di Aristotele, che avvertiva che la giustizia poteva essere ottenebrata dalla amicizia, nemica della verità, come confermato dal Decretum grazianeo che, traendo da Gregorio Magno, additava quattro pericoli per il libero giudizio: la paura del potente, il desiderio di ricompensa, l’odio o l’amore per qualcuno28. L’amicizia deve essere indifferente in generale al legislatore attenendo ai rapporti privati, ai singoli individui. Ma gli individui formano la collettività, e sono quindi anche un corpus la cui concordia non si può trascurare. L’atto di giustizia singolo riguarda degli individui, mentre il legislatore deve badare al bonum commune anziché a quello privato. E la concordia communis civium aggiunge alla giustizia ‘particularis’, come accennato in Aristotele, una «mutua actio beneficiorum inter cives ad invicem, quod est multum necessarium ad perfectionem civitatis»29. La vita mondana felice cui conduce l’amicizia consente la «conservatio civitatis», la «abundantia divitiarum ordinatarum», la «felicitas». Il buon governo di se stessi è presupposto di quello economico e politico, del regno o della città, e perciò introduce e legittima una trattazione giuridica come quella cui s’è accinto Giovanni, non senza esame delle relazioni economiche, motivo di quelle giuridiche30. Di qui il discorso sull’amicizia ineguale tra il sovrano e i sudditi, essendo il primo dotato di risorse maggiori di quelle di cui dispongono i secondi, naturalmente. Questi, per parte loro, manifestano reverenza ed onore al principe, mentre costui deve eccellere nella virtù, e in quanto tale ha quindi anche «maior facultas benefaciendi»31. E che larghezza di mezzi rispetto 28 Ioannis de Lignano 29 Ibid., f. 228ra. 30 Ibid., f.. 228ra. 31 Ibid., f. 236ra.

De Amicitia, f. 227rb.


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ai poveri sudditi! Il superior benevolente dà leggi e poi, con il governo concreto, «eorum vitam disponit», dirigendoli verso la felicità; in più, ancora, è lui che si ‘espone’ (è il verbo usato, sic) ai pericoli nell’interesse dei suoi sudditi32. Poteva darsi una migliore immagine dell’assolutismo illuminato del principe amico dei suoi sudditi? Non a caso esso diviene il termine di comparazione di un altro rapporto d’amicizia disuguale: quella tra il padre e quel figlio, che solo finché è bambino ama più la mamma, perché ne dipende interamente. Poi le cose si sviluppano in modo molto diverso e allora la priorità del padre emerge in tutta la sua dimensione: del resto è lui che è in grado di dare veramente su vari piani, così come ha dato al tempo del concepimento, che per la donna è per Giovanni un fatto di pura recezione passiva, venendo ella solo investita dall’esterno, per così dire, ed è bene, aggiunge gentilmente il nostro Giovanni, che ciò avvenga da parte di un solo uomo perché altrimenti si perderebbero gli elementi fecondanti e in ogni caso i rapporti molteplici offuscherebbero il soggetto responsabile preciso dell’alimentazione ed educazione del piccolo. E qui perveniamo all’altro grande tema del trattato, che presenta le molte ipotesi di obbligo d’assistenza che si possono presentare in base alle diverse età delle parti, al grado di ricchezza, all’entità del bisogno ecc. È questa la parte propriamente più giuridica del trattato, che viene però svolta con le stesse tecniche delle altre parti, ossia con un colloquio continuo tra i classici greco-romani e non già discutendo la letteratura medievale. Se mai si ricorre alle fonti giuridiche dirette, dal Corpus iuris civilis a quello canonico, utilizzate però senza la mediazione dei giuristi – e non soltanto dei giuristi contemporanei, ma neppure delle glosse ordinarie ai testi. È qui anche il dato nuovo di Giovanni. 4. Perché la novità di Giovanni? La trattazione può essere considerata grosso modo scolastica e tradizionale, fors’anche poco originale, ma andrebbe valutata in modo quasi seriale la discussione su ogni punto con i referenti utilizzati per dire qualcosa di meno che impressionistico. Tuttavia, questo suo prescindere dalla tradizione dottrinale recente è un dato che non può non essere sottolineato. Nella Bologna di quegli anni c’è quindi una cultura molto complessa e per certi aspetti contraddittoria. Essa può esprimersi nelle aule universita-

32

Ibid., f. 236ra-rb.


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rie in modo tradizionale, recependo le dottrine della tradizione per discuterle e insegnarle com’era richiesto dagli studenti ancora numerosi accorsi da tutta Europa. Ed è un mondo cui appartiene Giovanni con i suoi commentari. Ma c’è anche un altro mondo, quasi parallelo, non più autoreferenziale come quello della sapienza giuridica tradizionale. Il mondo nuovo: del confronto con i grandi classici senza i grovigli ed interpretazioni plurisecolari accumulatesi sugli stessi. Il riferirsi direttamente ai testi legali in parallelo ad Aristotele è un fatto quasi eversivo: come non tener conto dei grandi maestri anche recenti da Bartolo a Giovanni d’Andrea, del quale peraltro Giovanni aveva sposato una nipote, Novella? Mentre si costruiva la tradizione della communis opinio per dare un minimo di certezze al mondo del diritto, Giovanni si rivolgeva ai testi nudi e puri, anticipando il richiamo ad fontes tipicamente umanistico. L’andamento nettamente scolastico, la forma di cui è rivestito il trattato ha tratto in inganno, quindi. Come ha tratto in inganno la lettura esteriore del De fletu ecclesiae, il trattato in cui prese posizione sull’elezione di Urbano VI che fu all’origine del grande scisma, oppure il Somnium. Anche in questi due trattati il giurista colloquia direttamente con le fonti, nullo medio. Perché? Si può rispondere che questo modo di procedere gli avrebbe consentito maggiore snellezza nell’argomentare; e/oppure gli avrebbe consentito una maggiore audience in certi ambienti ormai alla ricerca del nuovo. Certo, tutto possibile e plausibile. Ma qui c’è probabilmente anche di più. C’è la prospettazione di un metodo che fa tabula rasa delle dottrine receptae, e quindi di un certo equilibrio consolidato dei saperi e delle loro stelle di riferimento. Mi spiego. Questo modo di procedere gli fa parlare della vita cittadina e del bonum commune, come s’è visto, prescindendo totalmente dai consueti referenti in circolazione, ultimi tra tutti i trattati de regimine civitatis di Bartolo – per non parlare dell’eretico Marsilio naturalmente. Qui si parla tuttavia di legislatore e di governante come di un superior, come di un ufficio ormai distaccato dalla base comunale. Si guarda quindi a un altro modello costituzionale, lontano dalla tradizione comunale. Strano destino quello del Legnano. Di robusta famiglia lombarda, arriva negli anni ’50 a Bologna e si giova probabilmente, scrivono i suoi biografi, della prevalenza viscontea per affermarsi nello Studio. Bene, ma tornata la città alla Chiesa diviene un corifeo del nuovo governo pontificio pur scrivendo anche un trattato in difesa dei diritti cittadini (De iuribus Ecclesiae in civitatem Bononiae) per accreditarsi ancora una volta nella città indebolita dalla guerra degli Otto santi. La svolta diciamo ‘popolare’, democratica del ’76, non colpisce il nostro Legnano. Egli rimane pur sem-


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pre il personaggio più autorevole in città, nonostante il mutare delle stagioni politiche ed è il più ascoltato all’estero. E allora nelle posizioni ierocratiche filopapali e nello stile dottrinale di Giovanni, così inusuale tra i dottori, forse non c’è solo l’avversione per i Visconti, maturata nell’integrazione realizzata con la sua nuova piccola patria. Nel De amicitia c’è un passo che non lascia dubbi: ci sono dei buoni e virtuosi che vivono oppressi, per cui si sottomettono ai tiranni per mettersi al loro servizio, come avviene spesso oggi – l’Altissimo permettendolo – con la gubernatio tirannica che vige soprattutto in Lombardia, senza dubbio per i demeriti dei suoi sudditi. Sono mondi in cui non c’è amicizia tra governo e sudditi e ci sono solo servi con cui il superior non ha in comune i beni, che sono solo suoi, del tiranno «principans»33. Ma allora il suo tentativo di rinnovare i referenti dell’argomentazione giuridica, lasciando da parte le dottrine tradizionali, assume un significato preciso. Il Legnano non ha più interesse al vecchio mondo delle città-Stato, né alla loro litigiosa e infruttuosa partecipazione popolare, tutelata dagli statuti sempre fatti e sempre da rifare. Di statuti non si parla per niente nella legislazione della sua amicitia, come non si parla dei problemi posti dal loro coordinamento con il diritto comune o dei problemi della vita urbana tra cittadini uguali. Il principe, separato e sovrastante i sudditi, è il suo: un amico titolare di un dovere di governo per la felicità dei sudditi, non dei cittadini, è il suo modello. Ma un principe che non possa degenerare in un tiranno chi mai potrà essere in luogo del violento Visconti, se non il pontefice? Chi meglio di lui, il tutore di quel diritto canonico che è garanzia di civiltà? Il suo trattato ha provato a fondare giuridicamente34 i profili dell’amicizia com’erano ricavabili dai grandi testi dell’antichità e tra gli strumenti della conciliazione spiccano, al di là dei testi civilistici per gli aspetti più tecnici, i passi in particolare contenuti nel Decretum grazianeo, come si sa, spesso tratti dalla Patristica. Insomma, la crisi, il disordine, la debolezza che caratterizzavano gli ordinamenti italiani del tempo – e che esponevano a rischi gravi per l’incombere dei pagani alle frontiere della Cristianità35 – andava risolta non 33 Ibid., f. 236va. 34 Pio, De Fletu cit., p. 38, l’ha definita un’opera di “filosofia morale”, ma ciò può vale-

re per la prima impressione soltanto. 35 E che può anche essere alla radice di altri interessi: si veda il mio Quicquid cantet ecclesia. Baldo degli Ubaldi e la pace di Costanza, in VI centenario della morte di Baldo degli Ubaldi 1400-2000, cur. C. Frova - M.G. Nico Ottaviani - S. Zucchini, Perugia 2005, pp. 461-471.


LA AMICITIA TRA POLITICA E DIRITTO

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con le dure soluzioni signorili di tipo visconteo o con un imperatore debole e lontano (e, si badi, il Legnano era stato anche insignito come conte palatino da Carlo IV!), ma affidandosi a un signore disinteressato, naturalmente incorruttibile e dedito al bene comune anche nelle faccende temporali, ridimensionando il mondo comunale e la sua produzione legislativa, come pure i dottori che la armonizzavano con il diritto universale delle università. Come vicario governatore di Bologna, l’ormai maturo Giovanni fu insignito della carica funzionale alle sue convinzioni ideali. Si doveva evitare quel ribellismo che con Firenze aveva coinvolto la città nella guerra degli Otto Santi. L’Università dava non solo benessere alla città, ma anche idee concrete per il suo governo. E anche l’amicizia, specie quella vivente del papa, al di là di quella teorica esaminata nel trattato, poteva servire egregiamente allo scopo. Si spiega che l’opera trovasse posto nelle più importanti raccolte di opere giuridiche del Cinquecento. Sia nella prima grande raccolta, quella lionese del 1549, sia poi nella raccolta massima veneziana, quei Tractatus universi iuris, editi nel 1584 sotto gli auspici del concittadino di Giovanni papa Boncompagni, in diciotto grandi tomi in folio con altri quattro di indici. Ebbene, il Legnano è nel tomo XII, dopo il tomo XI dedicato ai giudizi criminali, cioè nel tomo dedicato al fisco e ai suoi privilegi, dove, dopo aver parlato di questioni direttamente fiscali come le collette, le monete, le gabelle, gli estimi e le misure, si perviene ai privilegia pacis di Antonio Corsetti36, e siamo al rimedio giudiziario di cui si diceva, cui segue appunto37 il De amicitia di Giovanni, seguito da trattati accostabili ad esso solo molto latamente38.

36 Ioannis de Lignano De Amicitia, ff. 224ra-227ra. 37 Come s’era anticipato, ai ff. 227ra-242ra. 38 De securitate di Guillaume de Cuhn, il De privata

reconciliatione di Rinaldo Corsi, il De pacificatione, dilectione inimicorum, iniuriarum remissione di Ludovico Carbone ... poi si passa alle rappresaglie e al duello, bisognoso di larghe trattazioni ormai.


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LECTIO MAGISTRALIS DEL PREMIATO 2010


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Prima di tutto vorrei ringraziare l’Istituto Cecco d’Ascoli, nella persona del suo presidente Luigi Morganti, e la Giuria del Premio internazionale Ascoli Piceno, nella persona del suo presidente, il professore Antonio Rigon. Mi avete fatto un grandissimo onore e una grande gioia, conferendo questa distinzione prestigiosa alle mie ricerche e specialmente al libro recentemente tradotto e pubblicato in italiano grazie all’amicizia d’Isabella Chabot e Paolo Pirillo, i suoi traduttori, e di Cecilia Palombelli, la sua editrice della Viella, che mi piace qui ricordare1. E voglio ancora ringraziare l’amico Giuliano Pinto per avermi introdotta in questo bellissimo paese e splendida città con tanta generosità. È certo un grande onore perché so che i criteri della scelta dei premiati sono severi e che i miei predecessori sono studiosi di grande valore! È anche un grandissimo piacere, nel quale io rinnovo il piacere spesso espresso davanti a me dal mio maestro e amico Jacques Le Goff, che fu il primo a ricevere questo premio più di venti anni fa. Egli ha più di una volta evocato i suoi felici ricordi d’Ascoli e dell’accoglienza che vi aveva trovato. Se mi permetto di sottolineare questa continuità, non è certo per coprirmi con le penne del pavone e per trarre vanto dal maestro, ma semplicemente perché credo che il filo di amicizia e di stima che unisce con questo premio prestigioso i ricercatori dei nostri due paesi, si rinnova attraverso diverse generazioni di storici. Oggi vorrei parlare di immagini, e questo non significa rompere con le ricerche anteriori, né per il loro oggetto, né per l’approccio. Loro oggetto? Studiare immagini significa piuttosto riannodare un mio antico interesse

1 C. Klapisch-Zuber, Ritorno alla politica. I magnati fiorentini 1340-1440, Roma 2009. L’edizione francese originale è intitolata: Retour à la cité. Les magnats florentins 1340-1440, Paris 2006.


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per i produttori e per i prodotti artistici. Agli inizì delle mie ricerche, Carrara e i suoi « maestri del marmo » mi avevano introdotto in una società nella quale patroni, cavatori, trasportatori e finalmente artisti collaboravano nel lavoro di creazione2. Dall’altra parte, significa anche sviluppare la tematica degli usi, impieghi e reimpieghi delle immagini, analizzati da un punto di vista storico. Le immagini non servono soltanto per fini estetici; non si possono studiare nella sola prospettiva stilistica. Sono vettori di conoscenza – per far un esempio – sia gli arbores scientiae che gli alberi genealogici ai quali ho dedicato più anni di lavoro3. Altre immagini sono ugualmente interessanti per la storia sociale, come le immagini che entrano nei cicli di scambi – scambi che possono essere affettivi, devoti, mistici – come le statuine del Bambino Gesù esposte e ritualmente manipolate sugli altari pubblici, di comunità religiose o di famiglie private4. Sono anche oggetto di scambi più economici, eppure ritualizzati, relativi ad importanti momenti del ciclo di vita individuale o domestico. I cassoni nuziali o i deschi di parto fanno parte, con i loro ammonimenti morali, del bagaglio educativo della coppia, della sposa, della discendenza dei coniugi5. Ognuna di queste immagini risponde a richieste sociali e si offre di conseguenza all’analisi dello storico della società e delle mentalità. La storica che oggi vi parla è per lungo tempo rimasta legata a metodi quantitativi applicati alla storia demografica, alla storia delle strutture e relazioni familiari. Sono naturalmente incline a vedere o ricostruire i fenomeni che mi interessano per serie. Però le mie ricerche hanno spesso avuto inizio da dettagli inaspettati, da tratti che sembravano contraddire o distaccarsi in modo anomalo da una serie coerente di dati. Ad esempio, dallo studio tutto quantitativo della popolazione toscana all’inizio del Quattrocento, intrapreso con David Herlihy sul catasto fiorentino del 14276, mi sono rivolta al vasto complesso di scritture destinate dagli scri-

2 C. Klapisch-Zuber, Les maîtres du marbre. Carrare, 1300-1600, Paris 1969. Trad. ital. di Bruno Cherubini: Carrara e i maestri del marmo (1300-1600), Massa 1973. 3 C. Klapisch-Zuber, L’Ombre des ancêtres. Essai sur l’imaginaire médiéval de la parenté, Paris 2000. 4 C. Klapisch-Zuber, Le sante bambole. Gioco e devozione nella Firenze del Quattrocento, in Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze (1a ediz. francese, 1982), Bari 1988, pp. 305-329. 5 C. Klapisch-Zuber, Les coffres de mariage et les plateaux d’accouchée à Florence: archive, ethnologie, iconographie, in À travers l’image. Lecture iconographique et sens de l’oeuvre, cur. S. Deswaerte-Rosa, Paris 1994, pp. 309-323. 6 C. Klapisch-Zuber - D. Herlihy, I Toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427 (1a ediz. francese, 1978), Bologna 1988.


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venti ai loro parenti, le cosiddette ricordanze fiorentine, per cercarvi risposte ai casi aberranti o marginali, o semplicemente ai vuoti incontrati nelle serie del catasto7. A imitazione di tanti storici della mia generazione, sono così passata impercettibilmente dalla storia delle strutture a quella delle rappresentazioni o delle sensibilità e degli affetti. Questo percorso non è molto originale. Quando oggi mi avventuro nel mondo delle immagini, è meno una risposta a domande propriamente metodologiche o euristiche, che, in primo luogo, un allargamento degli oggetti da indagare e, in secondo luogo, una riflessione sull’attrezzatura dello storico. Ora, il punto di partenza della ricerca che vorrei rievocare in questa sede è del medesimo tipo di quelli delle mie inchieste fra documenti ed archivi: la ricerca ebbe origine dalla contemplazione di varie immagini che erano d’inciampo alle serie già inventariate, e ribelli insomma all’interpretazione immediata. È così che, mentre mi ero fin’ora dedicata ai rapporti sociali e particolarmente ai rapporti familiari, alle forme e all’espressione della parentela, allo spazio lasciato alle donne e ai rapporti di genere nel mondo medievale, oggi mi arrischio ad analizzare l’universo visivo di figure umane immaginate e animate dal pennello del pittore o dallo scalpello dello scultore. Non lo faccio certo da seguace della storia dell’arte: la mia formazione non mi autorizza ad applicare i metodi di questa disciplina né a perseguirne gli scopi. Quel che m’interessa è colpire lo sguardo che i contemporanei gettavano sull’immagine, è comprendere la loro percezione del suo contenuto, la loro interpretazione del suo insegnamento. E devo confessare che lo studio delle immagini si accompagna con un piacere e un’emozione sovente più intensi di quelli suscitati dall’immersione nella polvere degli archivi e nelle « statistiche » che ne derivano – statistiche storiche di cui la maldestrezza e la mancanza di raffinatezza fanno troppo spesso ridere gli esperti sotto i baffi. La ricerca intrapresa sul posto assegnato ai due ladroni del Golgota dall’iconografia della fine del Medioevo e del Rinascimento deriva insieme dalla mia tendenza a ricercare e riconoscere le strutture attraverso l’analisi di tipo seriale e dalla mia evoluzione verso una storia più aperta alle rappresentazioni e alle sensibilità. Poiché davanti a immagini della Crocifissione mi ponevo domande su quello che rivelavano degli atteggiamenti medievali di fronte, non soltanto alla salvezza, ma alla morte e alla

7 Si veda Introduzione. Écritures de famille, écriture de l’histoire nella mia raccolta di saggi La maison et le nom. Stratégies et rituels dans l’Italie de la Renaissance, Paris 1990, pp. 5-15.


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sofferenza, alla giustizia e al castigo, e poi alla confessione e alla penitenza, ho voluto esaminare la serie, enorme a dir il vero, anzi infinita delle opere dedicate al Calvario che furono dipinte o scolpite dalla fine del Duecento nell’Occidente cristiano; ho voluto considerarla come un complesso documentario che avrebbe potuto illuminare queste rappresentazioni e questi atteggiamenti. Vari dettagli hanno stuzzicato l’appetito e mi hanno gettata in un territorio che non mi aspettavo di penetrare. Il mio interesse per i temi appena menzionati si è concentrato su un personaggio che appare spesso, ma non sempre, nelle grandi scenografie iconografiche della Passione di Cristo: il Buon Ladrone. Questo Dismas, come è stato ulteriormente chiamato, ha un compagno di sventura, il cattivo ladrone: la rappresentazione dell’uno non va senza quella dell’altro. Mentre tutti e quattro gli evangelisti ricordano che Gesù fu crocifisso tra due briganti, solo due vangeli canonici, quelli di Matteo e di Marco, riportano che questi due individui ricoprirono Cristo di insulti e sfide8. Luca solo getta le basi di una figura positiva, riportando le parole di rimorso per i suoi crimini e quelle di fede in Cristo dette da uno dei ladri e ciò gli procura da parte di Gesù la promessa della sua entrata in paradiso la sera stessa dopo la sua morte9. L’iconografia medievale ha marcato simbolicamente questa differenza tra i due ladroni nella diversa accoglienza della loro anima: da un angelo per Dismas, da un diavolo per Gestas. Confesso che il mio interesse per i ladroni è nato, anni fa, dall’osservazione della presenza di questi esseri suprannaturali accanto ai moribondi, colti nel momento in cui estraggono la loro anima e la portano via in recipienti ben differenziati – un panno simile a quello del seno di Abraham per Dismas, e per Gestas un bacino o un caldaio, e il forcone per afferrare il dannato, cosa che rammenta i supplizi infernali [Figg. 1 e 2]. Fino alla Controriforma, gli artisti evocano in modi molto diversi la crudeltà del supplizio, le sofferenze dei giustiziati, i loro atteggiamenti di fronte al loro ultimo momento di vita. Le differenze fra le scuole di pittura italiane e quelle tedesche sono ben marcate, come vedremo. Ma un tratto comune a tutte è la funzione attribuita al Buon Ladrone sempre più diffusa dalla fine del Medioevo all’età della controriforma. Il Buon Ladrone diventa un modello di fin di vita esemplare. Diventa un intercessore credibile cui la sua prossimità col Salvatore, sul Golgota, conferisce un caratte-

8 Mt 27, 44 e Mc 15, 32 associano i due malfattori nelle stesse ingiurie a Gesù, mentre Giovanni, 19, 16-37 non dice nulla delle parole dei ladroni. 9 Luca 23, 39-43.


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re sacro. È su questo intrigante processo che voglio indagare, questo processo che ha portato un volgare ladro condannato alla più infamante delle pene alla promozione sugli altari.

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Vorrei cominciare con un testo del Trecento che getta luce sulle strategie dei credenti verso l’aldilà. Alla fine del secolo, un membro anonimo della Compagnia dei Neri che da alcuni decenni accompagnava i giustiziati fiorentini alle forche, come vedremo, scrisse un ricordo veramente stupendo. Riportò la missione affidata da un condannato, del quale non si cita il nome, ad un suo confratello ricordando la data: 1361. Voleva che il confortatore andasse nella sua casa a prendere una certa somma di denaro per far dipingere « una figura del buon ladrone » in Orsanmichele. Oggi si può ancora vedere l’immagine eseguita dopo la morte del povero cristo. Se infatti andate in Orsanmichele dietro il pilastro di fronte all’altare – ma attenti ! questa manovra si farà a vostro rischio e pericolo perché richiede di valicare la graticola del coro, cosa severamente proibita! – dunque se infrangerete il divieto, vedrete sul verso del pilastro l’affresco del Buon Ladrone, modestamente nascosto agli occhi dei fedeli e dei turisti che non osano girare attorno il pilastro10 [Fig. 3]. Egli è rappresentato sospeso ad una croce a forma Tau, colle braccia contorte sopra il patibolo e legate dietro; è anche legato all’altezza delle caviglie alla base della croce; le sue gambe sono sanguinanti, le ossa rotte; l’atteggiamento suo si può definire tristissimo, umile, contrito, doloroso, ma pacato. Viste le sue ferite e lo strumento del martirio, non sarebbe lui forse un martire? Notate che la testa è circondata da un’aureola. È dunque un santo, e può utilmente intercedere presso Dio, come appunto lo pensava il nostro giustiziato nel 1361. Sotto l’affresco si legge in latino: «Tu hai avuto grande fede quando hai riconosciuto Gesù e hai creduto nella misericordia di Dio»11. Il ricordo stesso fu redatto e le ultime volontà del giustiziato fiorentino furono eseguite in epoche mal definite (ma si può pensare che Niccolò Gerini [n. 1368 - m. 1416] abbia dipinto l’affresco o almeno lo abbia restaurato ai primi del Quattrocento, più di quaranta anni dopo l’esecuzione capitale). Ora, quel giustiziato e il suo affresco saranno il punto di partenza delle

10 Riprodotto in L. Artusi - G. Silvano, Guida artistica di Orsanmichele in Firenze, Firenze 2006, p. 53. 11 «Magnam fidem habuisti/ Quando Jesum cognovisti/ Deum misericordem credidisti».


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riflessioni che vorrei presentare in questa sede. Riflessioni che, in primo luogo, riguardano la concomitanza dei nuovi spettacoli pubblici della giustizia comunale e delle grandi scenografie dipinte della Passione di Cristo. Più generalmente, m’interessano i rapporti tra le devozioni o pratiche religiose della fine Medioevo, le forme della giustizia pubblica e la produzione delle immagini.

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Ho scelto di focalizzare l’inchiesta sul Buon Ladrone, perché, mi pare, egli ha una storia più tormentata e più ricca di precedenti e di sviluppi del cattivo ladrone. Sviluppi sia sociali, cioè riguardanti il contesto contemporaneo, che artistici, aprendo nuove vie all’immaginazione degli artisti e dei loro patroni. Certo, nei testi dei Vangeli c’è poco sulla storia e sul destino dei due briganti crocefissi con Cristo: una promessa di paradiso immediato, cioè di salvezza, fatta da Cristo al buon ladrone che crede in lui, come ho detto, ma niente sul cattivo, ostinato nel suo rifiuto di Cristo come Figlio di Dio (e perciò possibile Salvatore). Tutto era da immaginare, e gli apocrifi l’hanno fatto presto12, sviluppando il contrasto fra i due ladroni e offrendo così all’Occidente, fin dall’alto Medioevo, e attraverso l’agiografia bizantina tradotta in latino, racconti e leggende che hanno disegnato sagome arricchite delle comparse della Passione13. Durante questa plurisecolare rielaborazione della vita del Buon Ladrone, questi ha assunto ruoli e profili diversi che cercherò di evocare più avanti. Ma, prima, mi pare indispensabile rammentare come questo Dismas, il Buon Ladrone, si è introdotto nell’andamento giudiziario dei comuni e città dell’occidente cattolico e più specificamente nei procedimenti delle esecuzioni capitali.

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Negli ultimi tre decenni, i lavori di più storici della società comunale della fine Medioevo e del Rinascimento fino al Seicento hanno mostrato i profondi cambiamenti della giustizia penale. Hanno collegato questi cambiamenti con mutamenti nelle concezioni attorno la colpa e il riscatto del colpevole grazie alla sua pena14. 12

Atti di Pilato e la Storia (o Dichiarazione) di Giuseppe d’Arimathia un testo probabilmente redatto tra il IV e il VI secolo. 13 Il cosidetto Vangelo di Nicodemo ( X, 2) è la principale fonte per l’Occidente ed è ripreso dalla Legenda Aurea di Jacopo da Voragine nel suo capitolo 51, La Passione del Signore. 14 A. Prosperi, Il sangue e l’anima. Ricerche sulle compagnie di giustizia in Italia, «Quaderni storici», 51 (1982), pp. 959-999; Misericordie. Conversioni sotto il patibolo tra medioevo ed età moderna, cur. A. Prosperi, Pisa 2007. E. Luttazzi Gregori, La ‘morte con-


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Nei codici di leggi barbariche, la giustizia era fondata sulla vendetta e sulla composizione, cioè l’accordo, ossia il compenso, il risarcimento, negoziato fra la vittima e l’offensore, o piuttosto fra i relativi gruppi di parentela. Il ritorno a una giustizia punitiva, in particolare alla pena di morte sanzionando la trasgressione delle norme fissate dai poteri pubblici, avviene relativamente tardi, a partire dal Dugento, con la ricomparsa del diritto antico nell’età comunale, restando però fin nel Tre-Quattrocento tracce del sistema giudiziario alto-medievale15. Le sentenze di morte non significavano però che le condanne a tale pena fossero eseguite. Un grandissimo numero di colpevoli erano latitanti e condannati in contumacia16. Inoltre il numero assoluto delle esecuzioni diminuisce: a Firenze se ne contano in media una dozzina-quindicina per anno nel Trecento, ossia un po’ più di una per mese, intorno a sette-otto per anno nel Quattrocento. Molte pene sono allora commutate o mitigate. Lo spettacolo della sofferenza inflitta al corpo del giustiziato e della morte subìta era dunque comune, però non quotidiano. Ma quando la pena capitale veniva applicata nel Tre-Quattrocento, lo era in modo violento e con una pubblicità risolutamente larga17. E questa tendenza andrà crescendo fino all’epoca moderna. Il processo per il quale si è passati a quello che è stato chiamato le grandi «liturgie giudiziarie» dell’età classica o barocca18,

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fortata’, nella Toscana dell’età moderna (XV-XVIII secc.), in Criminalità e società in età moderna, cur. L. Berlinguer - F. Colao, Milano 1991, pp. 25-91; A. Zorzi, Rituale e cerimoniali penali nelle città italiane (secc. XIII-XV), in Riti e rituali nelle società medievali, cur. J. Chiffoleau - L. Martines - A. Paravicini Bagliani, Spoleto 1994, pp. 141-157; Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte a Firenze nel tardo Medioevo tra repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo e realtà urbana nel tardo Medioevo, cur. M. Miglio - G. Lombardi, Roma 1993, pp. 1-60. 15 A. Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale nella repubblica fiorentina. Aspetti e problemi, Firenze 1988. 16 In media, quando, nella seconda metà del Trecento e nel Quattro-Cinquecento, si può confrontare il numero dei giudizi a quello delle esecuzioni, vediamo che soltanto il 25 o 30% delle condanne a morte è eseguito, di solito nelle stesso giorno o nei due giorni seguenti il giudizio. 17 R. van Dülmen, Theater des Schreckens. Gerichtspraxis und Strafrituale in der frühen Neuzeit, München 1988. L. Puppi, Lo splendore dei supplizi. Liturgia delle esecuzioni capitali e iconografia del martirio nell’arte europea, Milano 1990. M. Merback, The thief, the cross and the wheel. Pain and the spectacle of punishment in medieval and Renaissance Europe, London 1999. F. Fineschi, Cristo e Giuda, rituali di giustizia a Firenze in età moderna, Firenze 1995. 18 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris 1975 e i citati Van Dülmen, Theater des Schreckens; Puppi, Lo splendore dei supplizi; Fineschi, Cristo e Giuda; Merback, The thief, the cross and the wheel.


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questo processo inizia e si svolge dal Trecento, dalla Peste nera fino all’epoca dei Lumi. Le ricerche degli studiosi che hanno studiato le cosiddette «compagnie di conforto» o «di misericordia» hanno messo in luce i molti e profondi cambiamenti nelle concezioni del castigo e dell’espiazione19. Hanno mostrato che la loro azione intendeva rovesciare il processo di avvilimento, destruzione e esclusione del condannato trasformandolo in un processo di riscatto, salvezza e reintegrazione. Nel Medioevo la nozione della sofferenza come segno del peccato era considerata come avvilente e infamante, e perciò disprezzata. Il peccato introduceva una minaccia di disgregazione nella comunità e doveva essere combattuto da diversi rituali di purificazione attraverso i quali la comunità esprimeva il suo rigetto del colpevole che aveva rotto l’ordine umano e divino. Questi rituali tendevano a disumanizzare il giustiziato, riducendo il suo corpo a pezzi di carne che venivano buttati via o sparsi, ed a impedirgli di integrarsi nel mondo dei defunti ordinari, rifiutandogli una sepoltura cristiana, gettandolo per esempio nel fiume o lasciando il cadavere sulle forche finché le ossa non si distaccavano20. È particolarmente notevole il fatto che si permetteva a tutti, alla folla più larga convocata dagli araldi pubblici, di partecipare durante il percorso (la cosidetta «gita», o «cerca») verso il luogo delle esecuzioni (il «pratello» fiorentino del testo) o nel luogo stesso, in genere situato fuori le mura, di partecipare, dunque, al risarcimento del delinquente espresso nel suo martirio, intrattenendo un dialogo con lui, aiutando il boia o contrapponendosi al suo lavoro se male eseguito. Ora, l’incitamento, soprattutto negli ordini mendicanti, ad imitare Cristo partecipando mentalmente alle sue sofferenze ha rivalutato il dolore fisico consentito21. Pensate ai « crocefissi dolorosi » dalla fine del Duecento e del Trecento22. Dovevano suscitare un’intensa compassione verso il Salvatore, le cui piaghe e ferite erano i mezzi della purificazione dei devoti. Non altrimenti sulla scena pubblica. Se la pena è tanto pubblicizzata dalle «scenografie giudiziarie», è perchè la si voleva esemplare e nello

19 Si veda Luttazzi Gregori, La morte confortata cit.; Prosperi, Il sangue e l’anima cit.; Fineschi, Cristo e Giuda cit. 20 Fineschi, Cristo e Giuda cit. 21 A. Derbes, Picturing the Passion in late medieval Italy. Narrative painting, Franciscan ideologies, and the Levant, Cambridge 1996. 22 Vedi M. Tomasi, Il Crocifisso di San Giorgio ai Tedeschi e la diffusione del ‘Crocifisso doloroso’, in Sacre passioni. Scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, cur. M. Burresi, Milano 2000, pp. 57-76.


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stesso tempo si ricercava la comunicazione con gli spettatori. Le esecuzioni, l’esibizione del corpo martoriato dai carnefici e poi quello dei suoi miseri resti diventavano uno spettacolo edificante. L’anonimo giustiziato fiorentino del 1361 faceva parte di «que’ da doversene fare pubblico spettacolo», cioè dei giustiziati di cui si metteva in scena pubblicamente la morte. L’ipotesi mia è che la comparsa dei Calvari narrativi con Nicola e Giovanni Pisano [Figg. 4 e 5] e il loro rapidissimo successo poi con Duccio [Fig. 6], Pietro Lorenzetti [Fig. 7] e tanti altri nella prima metà del Trecento devono mettersi in relazione con la diffusione dello spettacolo urbano della morte inflitta ai criminali [Fig. 8]. A me pare che non sia un caso se gli sviluppi iconografici delle rappresentazioni della Passione accompagnano gli sviluppi giudiziari che danno al supplizio uno spazio pubblico nella città della fine del Medioevo. Se confrontiamo le due drammaturgie, vediamo che hanno molto in comune. Il legame che le unisce non è forse annodato dai confratelli detti «confortatori»? Quale era il loro ruolo? quali i mezzi per ottenere quel che volevano, cioè la salvezza dell’anima del giustiziato?

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Ormai questi non è più solo di fronte alla folla e al carnefice. Si interpongono fra di loro i membri di quelle compagnie di « confortatori », associazioni di pii laici anonimi che si diffondono in Italia dalla metà del Trecento (a Bologna e Firenze già negli anni 1330-1340, poi a Ferrara, Padova, in molte grandi città del nord e centro Italia nella seconda metà del Trecento, poi a Genova, Napoli, e finalmente Roma nel 1488 ecc.)23. I confratelli pregano per l’anima del giustiziato, si fanno carico del seppellimento del cadavere, e alla fine ricevono il monopolio dell’accompagnamento del condannato dal momento del giudizio fino all’ultimo suo “respiro” sulle forche. Vari manuali superstiti dalla fine del Quattrocento24 insegnano ai confratelli come gestire lo spavento del condannato, farlo rinunciare a desideri spropositati nei suoi ultimi momenti, riconoscere le sue colpe confessandosi, ed accettare la sua pena, ricevendo la comunione quando finalmente si è lasciato convincere che ci sia una chance di salvezza fino all’ultimo

23

Luttazzi Gregori, La morte confortata cit.; Misericordie cit.; Fineschi, Cristo e Giuda cit.; N. Terpstra, Lay confraternities and civic religion in Renaissance Bologna, Cambridge 1995; The art of executing well: Rituals of execution in Renaissance Italy, cur. N. Terpstra, Kirksville, Mo. 2008. 24 Il manuale quattrocentesco della Conforteria di Bologna. Il ms. Morgan 188 della Pierpont Morgan Library (New York), cur. A. Troiani, in Misericordie cit., pp. 347-468.


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momento (in Italia almeno, ma non in Francia o in altri paesi, dove il sacramento dato al giustiziato è oggetto di un grande dibattito25). Uno dei modi usati dai confratelli per ottenere la «buona morte» del condannato dopo la sua confessione era di insistere sulle somiglianze fra la sua pena e la crocifissione di Gerusalemme. La «gita» attraverso la città fin al luogo dell’esecuzione, le «stazioni» del misero giustiziato, spesso crudelmente attanagliato sul carro o amputato in luoghi legati al suo delitto, anche la sua espulsione dalla città fuori delle mura come quella di Gesù che esce da Gerusalemme per raggiungere il Golgota… tutte queste similitudini fra la Via Crucis hierosolimitana e il percorso ritualizzato del giustiziato attraverso la città del Tre-Quattrocento sono rammentate dai confortatori al condannato. Qui l’immagine appare come un aiuto molto efficace dell’esortazione orale. Per tutti gli spettatori che guardavano un affresco della Crocifissione, i richiami alle realia della vita cittadina e delle drammaturgie giudiziarie erano chiari: la scena del Golgota sembra spesso interpretata come un eco alle liturgie giudiziarie contemporanee, con la folla degli ebrei e dei soldati che oltraggiano il moribondo, con il centurione a cavallo che evoca il «messer cavaliere» coadiutore del magistrato comunale nel luogo delle esecuzioni, con i gruppi degli amici (o piuttosto delle amiche, le sante donne ed altre donne «che servivano Gesù», secondo Luca, e lo seguono fin ai piedi della roccia della crocifissione), con i bambini che sono portati dai genitori allo spettacolo del castigo e della morte; con i cani che divorano ossa o resti umani sotto le forche. La visione della sofferenza rappresentata nei dipinti si voleva tanto dissuasiva quanto i supplizi stessi effettuati nelle strade della città: due spettacoli che incitavano ad evitare di delinquere. A maggior ragione, l’appello all’impressione visiva era ancora più decisa per i giustiziati mentre si approssimava alla morte. Nella cappella del palazzo del Podestà, al Bargello, dove il condannato a morte passava la sua ultima notte in compagnia d’un confratello, l’affresco del Giudizio universale si accompagnava ad una rappresentazione della giustizia umana; il giustiziato era così invitato a vedere quel che l’aspettava in questo mondo e nell’altro. In Santa Maria alla Croce, chiesa della Compagnia dei Neri in Borgo la Croce, vicina al patibolo, il giustiziato faceva una «stazione» e poteva vedere e meditare sul dipinto dell’Angelico, il Compianto su Cristo morto, oggi nel museo di San Marco [Fig. 9].

25 Il dibattito è descritto da A. Prosperi, Morire volentieri: condannati a morte e sacramenti, in Misericordie cit., pp. 3-54.


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L’immagine evoca molto direttamente lo spazio che il condannato attraversa e dove morirà fra poco. Dietro la croce alla quale è appoggiata la scala, strumento reale dell’impiccagione e simbolo anche della salute, si vedono le mura della città e la «porta della Giustizia» che portava al ‘pratello’ fiorentino26. L’identificazione del giustiziato, destinato ad una morte imminente, con Cristo già morto e ben presto seppellito era evidentemente ricercata dai confortatori che facevano pressione sul condannato perché si confessasse, condizione della sepoltura ritualizzata che i confratelli gli promettevano se fosse “buono”! Toccava anche ai confratelli far sì che il giustiziato accettasse l’umiliazione, il disonore della pena, infamante non solo per lui, ma anche per la sua famiglia. Parallelamente, una gran parte della meditazione e predicazione intorno alla Passione, soprattutto da parte dei mendicanti e particolarmente dei francescani, insisteva sull’umiliazione accettata da Cristo ucciso come un qualunque ladro, e martoriato tra due veri ladri27. Le sofferenze stesse dei tre crocifissi sono il modello evocato dai confratelli per ottenere la «buona morte», la «morte domesticata», secondo le parole di Philippe Ariès28, del giustiziato, e riconciliarlo con la comunità cristiana. Tenendo davanti al suo viso, contro la sua faccia, fin’al suo ultimo respiro una di queste « tavolette » dove generalmente è rappresentato Cristo crocifisso o oltraggiato (o talvolta la Maddalena immagine delle penitenza, o il centurione che riconobbe la divinità di Cristo ecc.)29, il confortatore isolava dal mondo terrestre e dai suoi, dalla folla, dal boia, il futuro impiccato o decapitato (qualche volta, infatti, la tavoletta ha lati ortogonali che funzionano come paraocchi da cavallo). In questo modo, facendogli guardare l’immagine solo del «Christus patiens», si cercava di farlo entrare direttamente nell’altro mondo, nel mondo eterno. Centrali in questi processi di ricupero di una anima cristiana erano dunque la conversione e la confessione. Gli effetti della confessione non esentavano dal giudizio umano, ma erano uno scorciatoia verso il giudizio divino. Perché, nelle concezioni dell’accesso all’altro mondo, un giudizio individuale dell’anima appena fuggita dal suo corpo dopo la morte tende, alla fine del Medioevo, non a sostituirsi al Giudizio universale che avverrà

26 27 28 29

Fineschi, Cristo e Giuda cit., p. 53-59. Derbes, Picturing the Passion cit. Ph. Ariès, L’homme devant la mort, Paris 1977, cap. 1, La mort apprivoisée. S. Y. Edgerton, Jr., Pictures and punishment. Art and criminal prosecution during the Florentine Renaissance, Ithaca - London 1985. M. Ferretti, Pitture per condannati a morte nel 300 bolognese, in Misericordie cit., pp. 85-151.


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dopo la resurrezione dei corpi da aspettare fin alla fine dei tempi, ma a precederlo30. Pentendosi e confessandosi in extremis, nell’ultima notte di attesa del supplizio o sotto le forche, il condannato non poteva sperare di modificare la sentenza giudiziaria, di essere esentato dalla pena capitale o che questa venisse commutata. Ma quest’atteggiamento gli prometteva la salvezza, attraverso il giudizio divino particolare e immediato della sua anima. E questo lo credeva anche il condannato fiorentino, quando sperava che il Dismas dipinto ad Orsanmichele sarebbe potuto intervenire subito dopo la sua morte per ottenere la misericordia divina. Una misericordia che gli avrebbe permesso, senza o con l’indispensabile purificazione in Purgatorio, di accedere al Paradiso fra gli eletti. Infatti, taluni erano convinti che una «buona morte» sul patibolo avrebbe risparmiato al giustiziato anche il soggiorno in Purgatorio, gli avrebbe permesso, come a un martire cristiano, d’entrare immediatamente in Paradiso e di aspettarvi la fine dei tempi31. Il famoso Gilles de Rais stesso si dichiarava certo d’entrare in paradiso perché, come disse, «non c’è tanto grave peccato che Dio non lo perdoni nella sua bontà e benignità, se il peccatore ne prova nel suo cuore grande rimpianto e grande contrizione e ne chiede perdono con grande perseveranza»32.

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Da questo punto di vista, il Buon Ladrone del Vangelo di Luca poteva diventare, e infatti divenne, il modello più convincente del pentimento nell’ultimo momento di vita. Non è forse Cristo stesso che gli promette l’accesso diretto nel Paradiso in sua compagnia, la sera della loro morte? È vero che il Purgatorio, ai tempi di Cristo, non era ancora «nato»33! Comunque, ecco dunque il nostro Dismas, il Buon Ladrone, che diventa modello della «buona morte». Perché – secondo Luca – confessa le colpe sue, perché cerca di convertire l’altro ladrone, perché riconosce la divinità di Cristo ed esprime la sua speranza in lui. Diversi glossatori del vangelo di Luca, dai Padri della tarda antichità fin nel pieno medioevo, hanno sottolineato la fede del ladro alla destra di Cristo, che «non avendo nessun membro libero dal supplizio eccetto il cuore e la lingua, offre [a Cristo] tutto quello che ha di libero», manifestando così la sua fede, speranza e carità34.

30 J. Le Goff, La naissance du purgatoire, Paris 1981. J. Baschet, Les justices de l’au-delà. Les representations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVe siècle), Rome 1993. 31 Fineschi, Cristo e Giuda cit., pp. 192-193. 32 Citato da J. Baschet, Les justices de l’au-delà cit., p. 576. 33 Le Goff, La naissance cit. 34 « Magna gratia in hoc latrone eminet. Nullum membrum a supplicio liberum habet, praeter cor et linguam, totum, quod liberum habet, offert. ‘Corde credit, ore confitetur’.


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Però, un Dismas che controlla la buona morte differisce molto dal Dismas dei primi tempi cristiani e dell’alto medioevo. Fondandosi sugli Atti di Pilato e la Storia di Giuseppe d’Arimathea, i teologi dell’oriente cristiano e l’arte bizantina avevano ritenuto la figura del Buon Ladrone come quella di seguace di Cristo, non martoriato per lui ma con lui, e, perché aveva creduto in lui, introdotto da lui nel Paradiso (terrestre) dove doveva aspettare con i giusti Elia e Henoch la fine dei tempi, la risurrezione dei corpi e il giudizio universale. Così lo mostrano le immagini: condotto da Cristo verso il «reame del padre» [Fig. 10] o mandato da Cristo all’angelo guardiano della porta del Paradiso, con la sua croce, seminudo com’era su questa. Ammesso nel Paradiso, il Buon Ladrone ci rimane accanto ad Abraham che accoglie nel suo «seno» gli eletti35, ad Enoch e Elia, talvolta Maria, anche loro arrivati direttamente lì [Fig. 11]. In questa iconografia il suo ruolo di coadiutore di Cristo è poco marcato. Al massimo, potremmo dire che Dismas aiuta san Michele, Abraham e anche Maria nel loro compito di accogliere le anime dei giusti e degli eletti – santi e martiri – direttamente indirizzati al Paradiso (terrestre) dopo la morte. È anche in questo ruolo di coadiutore escatologico che «Dimas Latro» – così l’iscrizione – è dipinto in una cappella dedicata a san Pietro nella chiesa di Santa Maria infra portas, a Foligno [Fig. 12]. Lì è situato di fronte all’arcangelo Michele e vicino a Pietro, guardiano del paradiso, e a Cristo in gloria, il Cristo escatologico. È seminudo anche lì e tiene una lunga esile croce, che sarà il suo attributo ordinario alla fine del Medioevo. Ma questa croce è doppia come quella portata da Cristo resuscitato. Di fronte a tale iconografia che attribuisce al Buon Ladrone una funzione poco precisa e soprattutto simbolica, quel che cambia in Occidente, a partire del Duecento, è l’arricchimento del suo personaggio che, da puramente simbolico, diventa psicologicamente l’incarnazione del buon pentito. Nell’arte cristiana più antica, cioè nelle ampolle palestiniane di Monza, nell’immagine siriaca del codice di Rabula [Fig. 13] o nelle porte di Santa Sabina a Roma, e poi negli avorii e miniature dell’arte ottoniana, quando i

Fidem habuit quem regnaturum credidit quem secum morientem vidit. Spem habuit, qui adytum postulavit. Charitatem firmiter tenuit, qui latronem, e de sua iniquitate arguit, et vitam quam cognoverat ei praedicavit. Magne virtus, confitetur quem videt humana infirmitate morientem, quem negabant Apostoli, quem viderant miracula divina virtute facientem». Glossa ordinaria, ad Lucam 23, 42, Memento mei…, col. 993. 35 J. Baschet, Le sein du père. Abraham et la paternité dans l’Occident médiéval, Paris 2000.


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due ladroni erano introdotti nelle immagini accanto a Cristo, non erano molto differenziati fra di loro, sia che fossero le rappresentazioni dei due ladri ugualmente induriti nel loro peccato secondo gli evangelisti Marco e Matteo, sia che bastasse indicare con il movimento della testa il rigetto o l’accettazione del Salvatore secondo Luca36. Comunque, generalmente, l’arte romanica li ignora largamente, anche quando sceglie di includere diverse comparse della Passione: il porta lancia, il centurione, il porta spugna. Invece, dal momento – la fine del Duecento – in cui i due ladroni compaiono nei Calvari narrativi italiani, gli artisti scelgono sistematicamente il testo di Luca piuttosto che quello degli altri evangelisti e cercano di tradurre la differenza esemplare fra i due ladroni nel loro atteggiamento verso il Salvatore e verso la propria salvezza. Se Cristo era il modello dei primi martiri, Gestas il cattivo ladrone diventa quello dei giustiziati impenitenti e Dismas, il Buon Ladrone, mostra la possibilità del riscatto spirituale. Questa differenza può essere marcata simbolicamente dall’accoglienza della loro anima fatta dall’angelo per Dismas, dal diavolo per Gestas, come l’ho descritta prima. Nel contesto delle opere di misericordia svolte dalle compagnie di conforto, si capisce come le immagini dell’angelo e del diavolo si riferiscano al dibattito contemporaneo sulle possibilità di salvezza in extremis e sul giudizio personale imminente. La differenziazione fra i due giustiziati può anche essere suggerita dalle sofferenze subite dall’uno e dall’altro, e dai modi con cui le sopportano. L’arte italiana non cerca di esagerare la rappresentazione del dolore fisico come l’arte tedesca dalla fine del Trecento fino alla Riforma [Fig. 14]. Come Mitchell Merback ha chiarito, la rappresentazione tedesca del supplizio dei ladroni ricorda lo spettacolo quotidiano delle esecuzioni in questo paese, con la tortura della ruota che rompe le ossa e dismembra i corpi, un supplizio poco conosciuto in area mediterranea. Comunque, sembra che l’arte italiana preferisca attenuare gli aspetti più ributtanti e orribili del supplizio [Fig. 15]. Per fare un esempio, preferisce mostrare i tortores – cioè i soldati romani che rompevano le gambe dei crocifissi per accelerare la morte – nell’atto di rompere il cattivo ladrone piuttosto che il buono; permettendo così di evidenziare il rifiuto del castigo da parte del misero Gestas, urlante e contorto sotto l’impatto della scure, del manganello o della spada, e invece, la rassegnazione di Dismas, già rotto e quasi morto.

36 Sulla differenziazione dei ladri, v. V. Dalmasso, L’image du corps dans la peinture toscane (v. 1300 - v. 1450), Rennes 2006.


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Rassegnazione, accettazione del supplizio inflitto dalla giustizia umana, conversione del cuore e speranza della salvezza: tutto questo deve essere espresso dall’artista per far capire ciò che è la buona morte, ormai incarnata da Dismas. Rifiuto del giudizio, rivolta contro le sofferenze inflitte, disperazione definitiva, tutto questo deve invece essere compreso dal pubblico come immagine della mala morte attraverso il personaggio di Gestas, il cattivo ladrone, di cui prima si mostrava solo il rigetto della divinità di Cristo con le spalle o la faccia voltata verso la sinistra.

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È così che il Buon Ladrone è diventato il santo protettore dei moribondi padroneggiando la loro «buona morte» [Fig. 16]. Questo ruolo lo trasmuta in un «passatore», «un traghettatore», lui che per lungo tempo si era accontentato di essere «passato», «traghettato» da Cristo, come abbiamo visto nello smalto dell’evangeliario d’Ariberto d’Intimiano37. Nell’arte bizantina o nell’arte occidentale che ne deriva, era un guardiano immobile, vigile, posto alle soglie del paradiso, ma non vi introduceva propriamente gli eletti. Dagli Atti di Pilato, che con l’aggiunta di testi latini sono conosciuti in Occidente dal dodicesimo secolo come il «Vangelo di Nicodemo», Dismas, già arrivato in paradiso come Cristo gli aveva promesso, accoglieva i Padri e i giusti del Vecchio Testamento liberati dall’Inferno dallo stesso Cristo dopo la sua morte. E forse qui si trova l’origine di un sorprendente allargamento del suo ruolo nel Rinascimento, un ruolo non abbastanza preso in considerazione. Infatti una contaminazione sembra operarsi durante il Quattrocento fra la modesta funzione escatologico del Buon Ladrone bizantineggiante e la Discesa nel Limbo di Cristo. Mentre nell’arte bizantina e romanica la Discesa non include mai il Buon Ladrone [Fig. 17], questi appare fin dal Quattrocento dietro Cristo quando rompe le porte dell’Ades. Jacopo Bellini, seguito dal Mantegna, e poi dal Beccafumi e da pittori del Nord [Fig. 19] rappresentano il ladrone con la sua croce che segue da vicino Cristo vincitore della morte e del diavolo, mentre estrae dall’inferno (ormai si dice dal limbo) le anime dei patriarchi e dei giusti della vecchia legge, come lo stesso Cristo aveva estratto dal mondo terreno e tirato su verso il paradiso l’anima del Buon Ladrone. Questa «invenzione» dei pittori italiani, che amplifica la funzione escatologica tradizionale di Dismas, non sembra appoggiarsi su un testo particolare, per quanto ne so. Ma, mi pare, 37 Sulla storia e l’iconografia di questo Evangelario, si vedano in particolare i testi di G.A. Vergani, S. Bandera, F. Pomarici, in Evangelario di Ariberto. Un capolavoro dell’oreficeria medievale lombarda, cur. A. Tomei, Cinisello Balsamo 1999.


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quell’amplificazione fa capire le potenzialità della figura del Buon Ladrone alla fine del Medioevo: cioè come Dismas abbia potuto inserirsi sia in antichissimi dispositivi figurativi che in iconografie esemplificatorie di aspirazioni nuove, quale l’incisione della Buona Morte.

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Il Buon Ladrone ha così rivestito personaggi diversi. Da comparsa della Passione e anima giustificata anche essa grazie al suo ‘martirio’ sulla croce, da seguace o coadiutore di Cristo nel suo lavoro di riscatto delle anime giuste, Dismas si è sopratutto edulcorato in un modello addolcito della penitenza sincera, a partire del Trecento. Per i Francescani, Giotto e la sua bottega dipingono Dismas ad Assisi nella cappella della Maddalena, la più famosa delle convertite o pentite [Fig. 18]. Qui avvicina un altro convertito del Golgota, il portalancia non vedente Longino che apre il fianco di Gesù, e, secondo la sua agiografia, si converte quando recupera la vista con il sangue che scorre dalla piaga del crocifisso, e poi predicherà e morirà vescovo e martire. Allo stesso modo, l’affresco fiorentino d’Orsanmichele giustappone l’immagine del Buon Ladrone alla Maddalena, rappresentata sul lato seguente del pilastro. Ultime variazioni del nostro santo ladrone: in Germania, Austria, Boemia, Dismas (o piuttosto san Dismas) sarà esaltato sugli altari, particolarmente dai Gesuiti, oggetto di prediche e di letture divote in quanto santo della confessione, della conversione interiore; è patrono degli agonizzanti nell’Ungheria settecentesca e anche uno dei suoi santi patroni. Definitivamente santificato dalla vox populi, appare ancora fra le immagini pie distribuite agli scolari nell’Ottocento. È così che già nel Trecento il Dismas conosciuto da un qualunque Fiorentino poteva apparire come un intercessore plausibilmente efficiente, ruolo che doveva non soltanto ai suoi meriti (largamente apocrifi), ma alla sua integrazione nell’apparato della giustizia umana. Mentre le immagini estrapolavano le suggestioni dei testi, operando anche la giunzione fra Vecchio e Nuovo Testamento, quelle create fra Dugento e Controriforma hanno davvero creato un santo atto ad esprimere le nuove aspirazioni, quelle della buona morte strettamente controllata dalla Chiesa.


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Fig. 1. - Andrea Bonaiuti, Il Buon Ladrone, dettaglio dell’affresco della Crocifissione. Firenze, Santa Maria Novella, Cappella degli Spagnuoli.

Fig. 2. - Andrea Bonaiuti, Il Cattivo Ladrone, dettaglio dell’affresco della Crocifissione. Firenze, Santa Maria Novella, Cappella degli Spagnuoli.


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IS Fig. 3. - Niccolò di Pietro Gerini (attr.), Il Buon Ladrone, affresco. Firenze, Orsanmichele.


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Fig. 4. - Giovanni Pisano, Il Cattivo Ladrone. Crocifissione (dettaglio). Pisa, pulpito del Duomo.

Fig. 5. - Giovanni Pisano, Il Buon Ladrone. Crocifissione (dettaglio). Pisa, pulpito del Duomo.


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Fig. 6. - Duccio di Buoninsegna, Crocifissione, 13081311. Siena, Museo dell’Opera metropolitana.

Fig. 7. - Pietro Lorenzetti, Crocifissione, affresco, ca. 1316-1319. Assisi, Chiesa inferiore di San Francesco.


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Fig. 8. - Masolino e coll., Crocifissione. Roma, San Clemente.

Fig. 9. - Fra Angelico, Compianto di Cristo morto. Firenze, Museo di San Marco.


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IS Fig. 10. - Cristo porta il Buon Ladrone in paradiso, smalto, dettaglio della “Valva d’oro” dell’Evangeliario di Ariberto d’Intimiano, ca. 1026-1035. Milano, Museo del Duomo.


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Fig. 11. - Giudizio universale, avorio bizantino (dettaglio), X sec. London, Victoria and Albert Museum.

Fig. 12. - ÂŤDimas latroÂť, affresco, XI sec. Foligno, Santa Maria infra portas.


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Fig. 13. - Crocifissione. Codice di Rabula (a. 586). Firenze, Biblioteca medicea-laurenziana, Pluteus I, 56, c. 13r.

Fig. 14. - Luca Cranach der Ă„ltere, Crocifissione, 151012. Berlin, Kupferstichkabinett.


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Fig. 15. - Fra Angelico, Crocifissione. Firenze, Museo di San Marco.

Fig. 16. - Maestro E.S., La buona morte, dopo 1460. Oxford, Ashmolean Museum.


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Fig. 17. - Discesa al limbo, smalto, dettaglio della “Valva d’oro” dell’Evangeliario d’Ariberto d’Intimiano, circa 1026-1035. Milano, Museo del Duomo.

Fig. 18. - Giotto, San Dismas, affresco. Assisi, Chiesa inferiore, cappella della Maddalena.


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IS Fig. 19. - Domenico Beccafumi, Discesa di Cristo al Limbo, ca. 1530-1535. Siena, Pinacoteca nazionale.


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a cura di Silvia Carraro


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Le fonti archivistiche e codicologiche sono indicizzate in ordine alfabetico delle città in cui si trova l’istituzione che le possiede. All’interno di ciascuna città le istituzioni e all’interno di ognuna di esse le voci sono indicizzate anch’esse in ordine alfabetico. I nomi di persona sono indicizzati in base al cognome del personaggio o della famiglia o della dinastia (Acquaviva, Malatesta). Sono stati indicizzati in base al nome imperatori (Carlo IV, Federico II), sovrani (Riccardo I), membri delle loro famiglie (Costanza d’Altavilla), santi e beati e i personaggi designati con un generico riferimento di parentela o un toponimo d’origine (Ruggero di Hoveden). Tali toponomi ricorrono anche come voce a sé, con rinvio al personaggio (Hoveden, vedi Ruggero di Hoveden). Si è cercato di segnalare tutte le diciture sotto cui il personaggio o il toponimo sono indicati nel testo, rinviando alla voce corrispondente. Si è distinto se il personaggio o il toponimo sono indicati nel testo o nelle note, in questo ultimo caso si è aggiunto al numero di pagina una “n”. I nomi di luogo sono affiancati dalla provincia di appartenenza nel caso di luoghi italiani, lo stato di appartenenza nel caso di città straniere. All’interno delle singole città sono indicizzati, in ordine alfabetico, gli edifici e le istituzioni e i luoghi presenti nel testo. Nel caso di toponimi antichi si è affiancata tra parentesi, la dicitura contemporanea.


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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI


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ASCOLI PICENO Archivio Capitolare A, 36, 203n A, 37, 203n B, 38, 210n Archivio di Stato Archivio storico del comune di Ascoli Piceno, Registro 23, 222n –, Riformanze, 56, 223n –, Quinternone, “Registri”, n. 40, 191n, 192n, 193n, 194n, 195n, 196n, 197n, 198n, 201n, 202n, 204, 205n, 207n, 208n, 211n

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Archivio storico del comune di Ascoli Piceno, Archivio Segreto Anzianale, Pergamene, A, fasc. II, 202n, 203n, 204n –, E, II, 202n, 204n –, G, fascc. II, IV, 205n –, H, fasc. I, 205n –, I, fasc. IV, 205n –, K, fasc. III, 224n –, M, fasc. IV, 215n –, N, fascc. I, II, IV, 205n, 207n, 208n, 224n –, R, fasc. I, 204n, 205n, 210n Biblioteca comunale ms. 1, 198n

BRÜSSEL

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Stedelijke openbare bibliotheek Cod. 549, 54n

CITTÀ DEL VATICANO

Archivio Segreto Vaticano Registro Vaticano, 113, 204n

FIRENZE

Biblioteca Nazionale Centrale ms. II iv. 274, 132n


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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI

MILANO Archivio di Stato Notarile, filza 70, 180n –, 411, 183n –, 829, 184n –, 855, 178n, 184n Biblioteca Ambrosiana ms. E 59 sup., 112n

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PARIGI Bibliothèque Nationale Latin 8567, 109n, 115n Latin 8630, 113n

PARMA

Archivio di Stato Notarile, filza n. 127, 171n, 178n ROMA

Biblioteca Casanatense ms. 1787, 222n

SAVIGNANO DI ROMAGNA

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Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi ms. 45, 51n VENEZIA

Archivio di Stato Miscellanea atti diplomatici e privati, busta 12, 205n Biblioteca Marciana ms. Marciano latino V, 135

VERONA Biblioteca capitolare Cod. CCLXII (234), 45n


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO


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Albornoz Blasco Gomez, miles, 210, 211, 212, 213, 214, 214n, 215, 216, 217, 222 Albornoz Egidio, cardinale, 208, 208n, 209, 209n, 210, 214n Alderotti Taddeo, medico fiorentino 27, 129, 132, 132n, 143, 143n, 154n Alessandria, 167, 182 Alessandria (Egitto), v. Clemente d’Alessandria Alessandro III, papa, 79n Alessio G.C., 29, 29n, 54n, 111n Alexandria, v. Alessandria Alfani Gianni, poeta italiano,147n Alfonsi Pietro, 21, 25 Algazi G., 35n Alice di Francia, sorella di Filippo Augusto, 95, 95n, 104 Alighieri Dante, poeta 6, 18n, 19n, 132, 133n, 137, 138, 138n, 139, 140, 140n, 141, 142, 143, 143n, 147n, 148, 148n, 149, 151n, 152, 152n, 153, 153n, 154, 221 Althoff G., 33n, 34n, 35n, 36, 37, 37n, 38, 38n, 39, 40, 42, 43, 46, 46n, 50n, 163n Alverny M.T. (d’), 18n Alviensis, 196n Amatus Iacobi, miles ascolano, 197, 198, 201, 202 Ambrogio, santo, vescovo di Milano, 99, 103, 104, 106, 131 Ambroise, 96n Ambroise C., 186n Ambrosius, v. Ambrogio Ambrosolo de Laveno, 180 Amburgo (Germania), v. Adalberto Amorotto Domenico (d’), 186 Anagni (Frosinone), v. Nicola di Gualtiero di Anagni Ancona, 194n Angelico (Beato), pittore, 254 Angelo di Leggerio di Andreotto, nobile perugino, 217 Angelus Bonioannis, 208n Angiò Roberto (d’), re, 203, 205n

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IM E

A. de villa Sancti Martini, 53 Abelardo, filosofo, 80 Abraham, personaggio biblico, 248, 257 Abulafia D., 49n Acciaiuoli, famiglia di banchieri fiorentina, 203, 216n Acciaiuoli Nicola, 215, 216n Acquaviva, famiglia aristocratica, 225n Acquaviva Matteo Andrea, duca d’Atri, 225 Adalberone di Laon, 84n Adalberto di Amburgo – Brema, arcivescovo di Amburgo e di Brema, 83n Adalberto Samaritano (di Samaria), maestro di Bologna, 44, 44n, 46, 46n, 49n, 50, 50n, 52n, 53n Adams J., 24n Adriano IV, papa, 79 Aduardus Cicchi de Esculo, 225 Aelredo di Rielvaux, monaco, 75, 85, 101n Ageno F., 140n Agnese, imperatrice, 83, 83n Agostino, santo, 99, 99n, 103, 104, 105, 106 Agoto Amelio (di), 211 Agoto Giovanni (di), 211 Agoto Luigi (d’), v. de Got Aloisio Aigulfus, santo, 60 Aimerico, cancelliere, 79n Akasoy Anna, 132n, 136n Alano di Lilla, filosofo 18, 19 Alberico di Montecassino, maestro di retorica, 45, 45n Albertano da Brescia, giudice, 8, 20, 21, 21n, 22, 22n, 24, 26, 27 Alberti Alberto (degli), 225n Alberti Cipriano (degli), 225n Alberto Magno, filosofo, 131, 131n, 133n, 134, 134n, 136n, 137n Albertus Magnus, v. Alberto Magno Albizi Pietro di Filippo, 211 Albizzi Maso (degli), 225n Albornotio Gometius de Bonizio (de), v. Albornoz Blasco Gomez


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

205n, 206, 207, 207n, 208, 208n, 209n, 210, 210n, 211, 212, 213, 214n, 215, 216, 217, 218, 219, 220, 221, 221n, 222n, 223, 224, 225, 245 – Archivio vescovile, 198n – Chiaviche, cittadella, 214n – forte Malatesta, 214n – porta Maggiore, 214n – porta Solestani, 210n – porto, 207 – Sanctus Antonius, monastero, 210n – v. Aduardus Cicchi – v. Bonaparte Giovanni – v. Clerici de Esculo Clericuccius – v. Emilio di Pietruccio – v. Massei de Esculo Naticombene – v. Phylippus Petri de Esculo – v. Roçerius domini Herrici – v. Thebaldischis de Esculo Nicola Giorgii (de) Ascolus, v. Ascoli Piceno Ascona (Svizzera), 181 Asia, 131 Asor Rosa A., 18n Aspasio, commentatore greco, 135n, 137, 138, 138n, 139 Aspasius, v. Aspasio Assisi (Perugia), 212 – cappella della Maddalena, 260 Asti, 167 Atene (Grecia), 130n, 205n, 207n Atri, antica città presso Teramo, 225 Attone, vescovo di Troyes, 77, 78, 84, 90 Augustinus, v. Agostino Austri, re, personaggio biblico, 102n Austria, 260 Austria, 224n Auxerre (Francia), 79 Avenzona (Venzone) (Udine), 224n Avezzano (L’Aquila), 196n Avicenna, filosofo, 131, 134 Avignone (Francia), 194n, 197n, 198n, 202n, 203n, 204n, 212, Avogadus de Florentia, tesoriere della Marca Anconitana e del ducato di Spoleto, 193n

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IM E

Anglia, regione dell’Inghilterra orientale, 81n, 104, 105 Annone, vescovo di Colonia, 83n Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, dottore della Chiesa, 60n, 101n Anselmus Cantuariensis, v. Anselmo d’Aosta Antioco IV Epifane, re, 102, 102n Antonio da Butrio, giurista, 231 Aosta, v. Anselmo d’Aosta Appignano (Ascoli Piceno), 193n, 194n – castello, 198n Appuhn-Radtke S., 33n Apulia (Puglia), 197n Aquitania, regione francese, 105 Arcangeli Letizia, 171n, 173n, 176n, 184n, 185n Arcioni Nicolò (degli), vescovo aprutino, 203 Arena Mariano, prete, personaggio letterario, 186 Arezzo, 193n, 194n, 213, 220 Ariberto d’Intimiano, vescovo di Milano, 259 Ariès Ph., 255, 255n Aristote, v. Aristotele Aristotele, filosofo greco, 129, 13n, 131, 131n, 134, 135, 136, 137, 138, 139n, 141, 150, 221, 230, 234, 235, 237 Aristoteles Latinus, v. Aristotele Arnaldo, cardinale diacono di S. Maria in Portico, 197, 197n Arnaldo da Brescia, 78 Arnaud de Pellegrue, v. Arnaldo cardinale Arona (Novara), 180 Aronte, indovino, 143 Arquata (Ascoli Piceno), 194n, 205 Arrighi V., 221n Artifoni E., 11n, 12n, 13n, 16n, 18n, 21n, 23n, 26n, 27n, 28n, 45n, 123n, 151n Artusi L., 249n Ascoli Piceno, 24n, 191n, 192, 192n, 193n, 194n, 195n, 196, 196n, 197, 197n, 198, 198n, 200, 201, 201n, 205,


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

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IM E

Ayglerii Bernardo, abate di Montecas- Becket Thomas, arcivescovo di sino, 114 Canterbury, santo, 75, 86, 87, 88, 89 Beducius, v. Beduzzo Beduzzo (Parma), 177 Bachmann N.P., 93n Bejczy J.P., 24n Baerwald H., 111n Belacqua, 151 Baker A., 131n Bellini Jacopo, pittore, 259 Baldini M., 12n, 13n, 123n Bellodi, capitano, personaggio letteraBaldricus Burgulianus, v. Baudri di rio, 186 Bourgueil Below G.V., 34n Balduccio da Castelnovo, podestà e Belvedere, castello, 191, 191n capitano di Ascoli, 195n, 196n Belvedere Brocato, figlio di Saladino da Balduccio da Castro Novo, v. Balduccio Belvedere, 191n da Castelnovo Belvedere Federico, figlio di Saladino Baldwin J.W., 93n da Belvedere, 191n Baluze É., 208n Belvedere Giacomo (da), 191n Bandera S., 259 Belvedere Giacomo, figlio di Giacomo Barbazza Andrea, 231 da Belvedere, 191n, 198 Bardi, famiglia fiorentina di banchieri, Belvedere Saladino (da), 191n, 198 203 Bene di Firenze, maestro di retorica, 54, Barnes B., 48n 54n, 112n, 113, 113n Barnwell V.P.S., 51n Bene Florentinus, v. Bene di Firenze Baroncellis de Florentia Simon (de), 211 Benedetto XI, papa, 193 Bartholomeus, magister dell’ordine di Benedetto XII, papa, 205 Sant’Agostino, frate, 208n Benedetto di Peterborough, 95n Bartholomeus, nobile della Marca, 215n Benevento, 87 Bartolo da Sassoferrato, giurista, 200n, Benigni P., 222n 233n, 237 Benson R., 60n Bartolomeo di Novalia, giudice dei Benton J., 60n, 62n malefici, 211 Benvenuto da Imola, 220 Bartolomeo di San Severino, v. Berengaria di Navarra, moglie di Smelducci da San Severino Riccardo I, 94, 95n, 96, 96n, 97 Bartolomeo Bergamo, 166, 167 Baschet J., 256n , 257n Berger P.L., 48n Basilea (Svizzera), 113n Berlinguer L., 251n Basilio di Cesarea, 130n Bernardo, maestro, 53 Bastoni Filippo, 222 Bernardo da Bologna, poeta, 148n Baudri di Bourgueil, abate, arcivescovo Bernardo di Chiaravalle, abate, santo, di Dol-en-Bretagne, cronachista, 61n, 62, 64n, 68, 68n, 69n, 76, 78, 79, agiografo e poeta, 65, 65n, 66, 66n, 80, 81, 81n, 84, 86, 89, 101n 67, 67n Bernardo di Clairvaux, v. Bernardo di Beatrice, 151 Chiaravalle Beccafumi (Domenico), pittore, 259 Bernardus Claraevallenses, v. Bernardo Beccaria Antonio, 180 di Chiaravalle Beccaria Lancillotto, 179 Bernia (Berna) (Svizzera), 185 Beccheria Matteo (dei), 185 Berwinkel H., 165n


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Boncompagnus, v. Boncompagno da Signa Bondelmontis da Firenze Rainaldo (de), podestà di Ascoli, 195n Bonepartis Iohannes de Esculo, v. Bonaparte Giovanni Bonifacio VIII, papa, 192, 193 Bonifacio IX, papa, 225 Bonizone, vescovo di Sutri, 77, 77n Bonizones, v. Bonizone Bonghi, nobile famiglia bergamasca, 178, 178n Bordeaux (Francia), 195 Borri G., 191, 191n Bosco U., 147n Bosdari F., 230n Bosone, ecclesiastico inglese, 165, 165n Bourgueil (Francia), monastero, v. Baudri di Bourgueil Bowd Stephen, 184n Braca L., 75n, 77n Brema (Germania), v. Adalberto Breschi G., 222n Brescia 166,167,184n – v. Albertano – v. Arnaldo Brétigny (Francia), trattato di, 232 Bridge A., 93n Broggio P., 184n Brost Vitale, vicario pontificio e tesoriere della Marca, 196, 196n, 198n Brown Thomas, tesoriere di Enrico II, 87, 88 Brunner O., 34, 34n, 35, 35n, 36n, 39, 39n Buongiovanni, vescovo di Ascoli, 198n Burgus Sanctus Doninus (Fidenza) (Parma), 182 Burnett C., 18n Burns J.H., 11n Burresi M., 252n Burt M.A., 24n, 25n Buscareto, famiglia aristocratica di Corinaldo, 206n Butrio (Pavia), v. Antonio da Butrio

IS

IM E

Besozzo (Varese), 180, 180n Betsabea, personaggio biblico, 103 Beyer H.J., 45n, 50n, 51n Biffi I., 60n Bilancino di Pietro, mercante, 193n Binduccio da Firenze, poeta, 149n Bingen (Germania), v. Ildegarde Black A., 11n Blatt F., 122n Boccaccio Giovanni, poeta e scrittore, 148n Bocchi F., 160n Bock F., 213n Böckenförde E.W., 34n Boella U., 68n Boemia, 260 Boezio Severino, filosofo, 150, 154 Bognini F., 45n Bologna, 162, 167, 199, 207n, 211, 211n, 212, 217, 230, 231, 233, 236, 237, 239, 253 – San Domenico, 230 – v. Bernardo – v. Onesto – v. Ugo Bolognini Ludovico, 231 Bonaccorsi, famiglia fiorentina di banchieri , 203 Bonaini F., 163n Bonaggiunta del fu Cherlatto, procuratore di Ascoli, 195n Bonaiutus ser Ghalçani de Florentia, tesoriere e scriba, 194n Bonaparte, famiglia ascolana, 198n Bonaparte Cola, figlio di Giovanni, 198n Bonaparte Giovanni, 197, 198, 198n, 201, 202 Bonasii de Florentia Galleranus, notaio, 193n Boncompagni Ugo, v. Gregorio XIII, Boncompagno da Signa, maestro di retorica 7, 12, 12n, 13, 13n, 14, 16, 16n, 17, 17n, 18, 18n, 19, 20, 20n, 21, 22, 23, 26, 27, 44, 45n, 113, 123, 123n, 124, 124n, 126, 126n, 151


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Carruthers M., 65n Casagrande C., 21n Casalena (Ascoli Piceno), 193n Casella, 151 Cassiano Giovanni, 130n, 131n Castelnovo (Castelnuovo) (Fermo), v. Balduccio da Castelnovo Castignano (Ascoli Piceno), 198 – v. Parisanus de Castiniano Castiniano, v. Castignano Cavalcabò Ugo, 179 Cavalcanti Guido, poeta, 6, 148, 148n, 149, 151n, 152, 152n, 154 Cavallo G., 62n Cavazza Giovanni, 24 Cauzi Giovanni (o Giovannuccio o Nuccio) (dei), ambasciatore, 222, 224 – v. Ciuffetto di Nuccio Cengarle F., 173n Celli R., 51n Cerri G., 138n Cesena, 212 Cessole (Asti), v. Iacopo Chabot Isabella, 245 Champagne (Francia), 78 Chartres (Francia), v. Ivo Chateauroux, castello, 102 Chaucer Geoffrey, 232 Chenu M.D., 60n Cherubini B., 246n Chiavelli, famiglia aristocratica di Fabriano, 206n Chiesi G., 181n Chiffoleau J., 251n Chittolini G., 173n, 177n Cicchus, figlio di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Cicero Marcus Tullius, v. Cicerone Cicerone, politico romano, 19, 21, 25, 27, 54, 59n, 68n, 77, 82, 83, 123, 123n, 125, 125n, 134n, 136, 136n, 154, 167, 219, 229, 234 Cima, famiglia aristocratica di Cingoli, 206n Cingoli (Macerata), 206n Cino da Pistoia, poeta, 148, 149, 149n

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IM E

Caesar, 136n Caetani Pietro, rettore della Marca Anconetana, 193, 193n Cagli (Pesaro Urbino), 212 Calabria, 94 Calvario, monte, 248, 253 Camerino (Macerata), 212 Campo, famiglia aristocratica, 225 Camporini Francesco, 206, 207n Camporinis (de), famiglia aristocratica, 206n Camporinis Franciscus domini Bernardi (de), v. Camporini Francesco Camporo, v. Tebalduccio di Camporo Cancellieri, famiglia pistoiese, 175n Cannobio (Verbania), 181 Cantalamessa Carboni G., 218n, 222n Cantarella G.M., 75n, 82n, 151n Canterbury (Gran Bretagna), 87, 88 – v. Anselmo d’Aosta – v. Becket Thomas Cammarata I., 181n, 182n Cammarosano P., 28n Canossa, famiglia aristocratica, 182 Capasso C., 178n Capitani O., 230n Capradosso (Ascoli Piceno), 193n Caprioli S., 231n Capua (Caserta), v. Tommaso di Capua Carbone Ludovico, 239n Carboneschi Nicola (dei), 224, 225n Carbonetti Vendittelli C., 123n Carbonischis de Esculo Nicolaus Namerii sive Nameni (de), v. Carboneschi Nicola (dei) Cardini F., 159n Cardini R., 219n Cardona G.R., 61n Carfagna B., 199n, 200n, 201n, 206n, 218n, 225n Carile A., 160n Carlo II d’Angiò, re, 203 Carlo IV, imperatore, 239 Carlo V, re di Francia, 232 Carozzi Claude, 84n Carrara, 246

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Conti C., 12n, 17n, 123n Controguerra (Teramo), 205n Corazzo, monastero, v. Gioacchino da Fiore Corinaldo (Ancona), 198n, 206n Corio Bernardino, 178, 179, 179n Cormier R.J., 76n Corrado III, imperatore, 68n Corradus Radii, 208n Corsetti Antonio, 239 Corsi Rinaldo, 239n Corti M., 14n Cose de Sancta Victoria Franciscus, 194n Cossignano (Ascoli Piceno), 194n, 201, 205 Costa, v. Costa Volpino Costa E., 19n Costamezzana (Parma), 179 Costantino, imperatore, 233 Costanza (Germania), 167 Costanza, monaca, 66, 66n, 67 Costanza d’Altavilla, 94 Costa Venturina (Parma), 171, 171n, 178n Costa Volpino (Bergamo), 179 Cotteri L., 101n Crema (Cremona), 160 Cremona, 167, 179, 182 Crisciani C., 21n Cristiani E., 49n Crouzet-Pavan É., 11n Cuenca (Spagna), 211 Cuhn Guillaume (de), 239n Cuozzo E., 87n Curatico (Parma), 171, 171n, 177, 178n

IS

IM E

Ciotti L., 192n Città di Castello (Perugia), 212 Ciuffetto (o Ciuffuto) di Nuccio, 222, 222n, 224 Ciuffuti (o Cauti) Ciuffutus di Nuccio, v. Ciuffetto (o Ciuffuto) di Nuccio Ciuffuti Vanni (dei), 224 Civitanova (Macerata), 194n Civita Tomacchiara, antica località presso Teramo, 205n Civitavecchia (Roma), 212 Clairvaux (Francia), monastero, 78, 80 – v. Bernardo Clarke B., 133n Clemente di Alessandria, 131n Clemente V, papa, (Bertrand de Got), 195, 196, 196n, 197n, 200, 205n Clemona (Gemona) (Udine), 224n Clerici de Esculo Clericuccius, 193n Cloulas I., 95n Cluny, monastero, 78, 80, 81, 85 - v. Pietro il Venerabile Coleman E., 49 n, 51 Colao F., 251n Colleoni, famiglia aristocratica bergamasca, 178 Collina di Colle Fornace, antica località presso Ascoli Piceno, 193n Colliva P., 209n Colloto Nuovo (Ascoli Piceno), 194n Colonnella (Teramo), 205n Colonia (Germania), v. Annone di Colonia Colonna, famiglia aristocratica romana, 183, 183n, 196 Colonna Giacomo, detto Sciarra, 196 Colonna Giovanni, cardinale, 196 Colonna Giovanni, rettore della Marca, 196 Como, 160, 167, 181 Comunanza (Ascoli Piceno), 192 Conches (Francia), v. Guglielmo Connell W.J., 175n, 186n Constable Giles, 52n, 60n, 61n, 63n, 78, 78n, 79n, 80n, 83n Conte E., 172n

D’Acunto N., 61n, 75n, 77n d’Agoto Luigi, v. de Got Aloisio Dalmasso V., 258n Dalton P., 100, 100n Dal Verme Federigo, conte, 185 Damiani Pier, monaco, santo, 61n, 76n, 79, 83, 83n, 85 D’Angelo E., 76n, 93n, 98n Daniele, profeta, 101n, 102n Dartmann C., 16n, 38n, 49n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Dubois J., 64n Duby G., 86n, 93n Duccio (di Buoninsegna), pittore, 253 Duchesne L., 165n Dülmen R. (van), 251n Dümmler E., 77n Dumont Ch., 101n Dunne M., 13n, 123n Duprè Theseider E., 210n Edgerton Jr. S.Y., 255n Egitto, 131n – v. Tolomeo Eickels Klaus (van), 40, 40n, 41, 41n, 42n, 44n, 100, 100n Elia, profeta biblico, 257 Elredo di Rielvaulx, abate di Rielvaulx, 100 Emilia, 172 Emilio di Pietruccio da Ascoli, 195n Emindus, beato, 209n Engels F., 186, 187n Enoch, personaggio biblico, 257 Enrico, conte di Champagne, 78 Enrico I l’Uccellatore, re, 37, 38, 38n, 100 Enrico II, re d’Inghilterra, 87, 89, 95, 95n, 100, 102 Enrico VI, imperatore di Germania, 94 Enrico il Giovane, figlio di Enrico II, 100 Epp V., 33n, 34n, 35n, 36n, 39, 39n, 40, 40n, 41, 99n Erbse H., 138n Ermanno Alamanno, 132n Ermini G., 229n, 230n, 233n Esculus, v. Ascoli Ettore, figlio di Priamo, 138n Eugenio III, papa, 78, 79 Europa, 237 Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, 139n Eustrazio, metropolita di Nicea, 130 Evrart de Trémaugon, 232 Evreux (Francia), 96n

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Davide, profeta, 99, 102, 103, 105 de Foliano, v. Fogliano de Got Aloisio, parente di Clemente V, 205n de Got Bertrand, arcivescovo di Bordeaux, v. Clemente V Degrandi A., 160n Della Misericordia M., 172n, 177n, 179, 180n Delle Donne F., 109n, 112n, 113n, 118n, 119n, 124n, 125n Del Tredici Federico, 171n , 176n, 180n de Manfredis, famiglia aristocratica, 182 De Matteis M.C., 230n, 232n De Minicis G., 213n Demurger A., 193n Dendorfer J., 40n Denieul A., 95n Derbes A., 252n, 255n de Robertis, v. Roberti De Sanctis F., 147 De Santis A., 195n, 202n, 203n, 205, 205n, 206n, 207n, 209n, 210n, 212n, 213n, 214n, 224n De Sepulveda Io. G., 210n Dessì R.M., 18n Deswaerte-Rosa S., 246n Deutinger R., 40n Devisse J., 30n Devizes (Gran Bretagna), v. Riccardo di Devizes D’Ilario G., 230n, 231n, 234n Di Lorenzo R.D., 24n Diomede, 136, 138, 138n, 139 Diplovatatius Thoma, v. Diplovatazio Tommaso Diplovatazio Tommaso, 230n, 231, 231n Dismas, Buon Ladrone, 248, 249, 250, 256, 257, 258, 259 Di Spigno C., 68n Dol-en-Bretagne (Francia), v. Baudri Donati Forese, 151 Donnat L., 131n Dotto G., 101n Dronke P., 18n, 66n

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

IS

IM E

Faba Guido, 19, 113, 113n Fabiani G., 198n, 210n, 225n Fabriano (Ancona), 206n, 212 Faenza (Ravenna), 212 Faini E., 52n Falconi F., 163n Fano (Pesaro Urbino), 199, 202, 206n Fasoli G., 13n, 49n, 160n, 161, 161n, 162n Federico I Barbarossa, imperatore, 68n, 165, 159, 166 Federico II, imperatore, 121, 122n, 124n, 125, 204, 204n Felino (Parma), 178n, 184n Fenzi E., 26n Ferando, re, 181n Ferente S., 173n Fermo, 203, 206, 206n, 207, 208, 211, 211n, 212, 213, 215, 216, 217, 220, 224 – v. Gentilesco da Fermo Ferretti M., 255n Ficardi (Catelfidardo) (Ancona), 194n Fidora A., 132n Fieschi, famiglia nobile, 181, 181n Fieschi Battaglino, 181 Fieschi Gian Filippo, 183, 183n Filippo, figlio illegittimo di Riccardo I, 97 Filippo Augusto, re di Francia, 94, 95, 96, 98, 99, 101, 102, 104, 105 Fineschi F., 251n, 252n, 253n, 255n, 256n Fini M.L., 85n Fiori G., 179n Firenze, 175, 175n, 180n, 193n, 194, 194n, 197n, 199, 199n, 205, 205n, 207n, 211, 212, 212n, 213, 213n, 214n, 215, 215n, 216, 216n, 217, 217n, 218n, 219, 220n, 221, 221n, 222, 222n, 223, 223n, 224, 224n, 225, 231, 239, 251, 253 – Borgo la Croce, 254 – cappella del palazzo di Podestà, museo del Bargello, 254

– museo di San Marco, 254 – Orsanmichele, 249, 256, 260 – Santa Maria alla Croce, chiesa 254 – v. Avogadus – v. Bondelmontis Rainaldo (de) – v. Bene – v. Bonaiutus ser Ghalçani – v. Geppo Bonaiuti – v. Philippus Marci – v. Salvus Iohannes Flori J., 93n, 95n, 97, 97n, 98, 98n, 102n, 103, 103n Florentia, v. Firenze Fogliano, castello nei pressi di Viterbo, 225 Fogliano, famiglia aristocratica reggiana, 182 Foligno (Perugia), 220, 221n – cappella di San Pietro, 257 – Santa Maria Infraportas, chiesa 257 Follon J., 11n Fontes Baratto A., 12n, 123n Fontevrault, monastero, 97 Force (Ascoli Piceno), 194n Forcellini E., 164n Forlì, 162, 163, 212 Fornasari G., 89 Foucault M., 76, 251n Fowler G.B., 132n Francesca da Rimini, 154 Francesco di Bernardo di Camporini, podestà di Bologna, 207n Franchi A., 196n Francia, 81n, 87, 93, 100, 104, 105, 195, 232, 254 Franciscus, famulus di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Franciscus de Sarvognano, vicedomino del patriarca di Aquileia, 224n Franciscus magistri Alegricti de Sancta Victoria, 197n Franzini A., 183n Freiburg, v. Friburgo Frescobaldi Dino, 147n, 148 Freud S., psicanalista e neurologo, 75, 76n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

277

IS

IM E

Frevert U., 38n Gentilesco da Fermo, frate, 196 Friburgo (Germania), 41 Gentili S., 18n, 27, 27n, 130n, 132n, – scuola 36, 40 133n, 154n Fried J., 39n Geoffroy of Monmouth, 133n Frigerio P., 181n Geppo Bonaiuti de Florentia, 194n Frioli D., 62n Gerini, Niccolò, pittore, 249 Frisinga (Germania), v. Ottone di Germania, 36, 81n, 94, 260 Frisinga Gerusalemme (Israele), 254 Fritz W., 35, 36n Gestas, il cattivo ladrone, 248, 258, 259 Frova C., 238n Gherardi A., 212n, 214n, 215n Frugoni C., 167n Gheri Goro, 185, 186n Fubini R., 219n Ghisalberti A., 101n Fulda, monastero, 37 Giacomo, 192n Giacomo, apostolo, santo, 197, 197n Giamboni Bono, giudice fiorentino, 29, Gabrielli, famiglia aristocratica di 29n, 30, 151n Gubbio, 206n Gianazza E., 230n ,231n, 234n Galeotto, Galioctus, v. Malatesti da Giardina A., 134n Rimini Galoto Giese W., 38n, 39n Gallia, v. Francia Gillingham J., 93n, 95n, 97, 97n, 98, Gallina M., 13n 103, 103n Gallucttio de Sancto Miniate, 194n Gilson É., 60n Gamberini A., 172n, 173n, 177n, 182n Gioacchino da Fiore, abate di Corazzo, Gandino G., 90n 94 Ganshof F.L., 30n Gionata, personaggio biblico, 102, 105 Ganz D., 67n Giordano da Pisa, frate domenicano, 131 Garbini P., 13n Giordano da Terracina, vice-cancelliere Garcea A., 59n pontificio,110, 110n Garin E., 219n Giotto, pittore, 260 Garnier C., 33, 33n, 34n, 36n, 52n, 100, Giovanna, moglie di Guglielmo II, regi100n na di Sicilia, 94 Gasparini P., 12n, 13n, 26n, 27n, 123n Giovanna I, regina di Napoli, 212, 214, Gasparotto P.M., 100n 214n, 216n, 224 Gasparri F., 61n Giovanni, 192n Gastaldelli F., 64n, 78n, 79n Giovanni da Imola, 231 Gaudenzi A., 18n, 19n, 113n Giovanni da Legnano, giurista, filosofo Gaufredus magister, maestro di retorica, e astrologo, 229, 229n, 230, 230n, 54n 231, 232, 233, 234, 234n, 235, 235n, Gauthier R.A., 130n, 131n, 137n, 142n 236, 237, 238, 239, 239n Gebhardt B., 37n Giovanni d’Andrea, 237 Genet J.-Ph., 173n Giovanni de Campania (Compangia), Genova, 8, 21, 24, 49, 87, 161, 162, 165, conestabile di Lorenzo di Giovanni di 166, 183, 253 Stazio, 195n, 201n Gentile da Mogliano, 206n, 207n Giovanni di Marchesino, notaio, 205n Gentile Marco, 173n, 174n, 175n, 176n, Giovanni di Massa, v. Tibaldeschi 177n, 182n, 184n, 185n Giovanni di Massa (dei)


278

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Gubbio (Perugia), 206n, 212 Guglielmo I, re di Sicilia, 87, 88 Guglielmo II, re di Sicilia, 94 Guglielmo da Tolosa, vicario pontificio, 195 Guglielmo di Conches, filosofo, 18 Guglielmus, vicedomino della Turenna, 221n Guiberto di Nogent, monaco benedettino, 75, 84, 84n Guicciardini Francesco, 185, 186n Guiderocchi Giovanni di Nello di Stolto, 224 Guido, v. Cavalcanti Guido, magister, 44, 45n, 51 Guido di Pietra Santa, 220, 220n Guillemain B., 193n, 194n, 195n, 205n Guinizzelli Giovanni, 149 Guittone d’Arezzo, 148n Gurevich A., 60n Guttuari Oberto (dei), mercante e cambiatore, 24

IS

IM E

Giovanni di Salisbury, filosofo e scrittore, 62, 101n Giovanni, evangelista, santo, 248 Giovanni ‘Lynyon’, v. Giovanni da Legnano Giovanni Pisano, scultore, 253 Giovanni I, detto Senzaterra, 102 Giovanni XXII, papa, 202, 203, 204, 205 Giove, divinità romana, 159 Giovenale, poeta, 96, 96n Girolami Remigio (de’), predicatore 11 Girolamo, santo, 104, 130n Giuda, apostolo, 79, 101 Giunta di Scarlatto, procuratore di Ascoli, 195n Giuseppe, personaggio biblico, 103 Gleixner S., 123n Glenisson J., 209n Goetz H.-W., 36n, 37n, 43n, 44n Goffredo, figlio di Enrico II, 100 Goffredo, nipote di Thomas Becket, 87 Golgota, 247, 248, 254, 260 Gomez, v. Albornoz Blasco Gomez Gomorra, città biblica, 105 Gori O., 175n Goullet M., 53n Gozechinus Scholasticus, 67n Graham Angus, 21n Gratianus, monaco camaldolese, 105 Graus F., 35n Gregorio XI, papa, 212 Gregorio XIII, papa (Ugo Boncompagni), 239 Gregorio Magno, papa, 235 Grelli M.E., 192n, 205n, 218n, 222n, 225n Grevin Benoît, 19, 19n, 115n, 118n, 122n, 123n Grillo P., 166n Griselda, personaggio letterario boccaccesco, 232 Grossi A., 166n Grubmüller K., 54n Gualtiero, amico di Baudri, 67 Gualterius, famulus di Parisanus de Castiniano, 198, 199n

Hampe K., 117n Hannibal, condottiero cartaginese, 223n Hartmann F., 38n, 45n Hartmann M., 59n Harvey J., 97n Haseldine J., 43n, 60n, 100, 100n Haugaard M., 48n Haye Th., 101n Hayez M.-A.M., 210n Head R.C., 173n Heinig P.-J., 39n Heller E., 110n, 111, 111n, 113n Hemptinne T. (de), 162n Herde P., 194n Herlihy D., 246, 246n Herman A.L., 185n Hieronimus, santo, v. Girolamo Hiltz S.L., 21n Hincmarus Remensis, v. Incmaro di Reims, 106 Holland T.E., 229n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

279

Isahac, vescovo di Ascoli, 208n Iselin Johann Rudolf, 113n, 121n Iselius, v. Iselin Johann Rudolf Isola Comacina, 164 Italia, 50, 81, 81n, 82, 109, 112n, 141, 160, 163, 173, 176, 183, 185, 193, 196, 199, 203, 205, 208n, 211, 212, 216, 232, 253, 254 Iuctius Petrucii, 208n Iuda, v. Giuda Iuvenales, v. Giovenale Ivo di Chartres, vescovo di Chartres, 65, 65n Ivo Carnotensis, v. Ivo di Chartres

Iacobus, v. Giacomo (santo) Iacobuctius, fratello di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Iacopo da Cessole, frate domenicano 23, 24, 24n, 25, 26 Iacopone da Todi, 148n Ildegarde di Bingen, mistica tedesca, 65 Imbach R., 132 Imola, 212 – v. Benvenuto da Imola – v. Giovanni da Imola Imperiale di Sant’Angelo C., 162n, 165n Incmaro di Reims, 103, 106 Inghilterra, 87, 88, 94, 100 Inglese G., 18n, 133n Innamoratus Philippy Frederici, 201n Innocenzo VI, papa, 207 Intimiano (Como), v. Ariberto d’Intimiano Ippocrate, 230 Ioannes Corradutii , capitano del popolo di Perugia, 218, 218n Ioannes Nicolai, camerario e sindaco del comune di Ascoli, 200, 201, 201n Iohanna Neapolis, v. Giovanna I Iohannes de Lignano, v. Giovanni da Legnano Iohanninus Guilielmi de Ofida, scriba di Vitale Brost, 198n Ionathan, v. Gionata

Jacobus de Cessolis, v. Iacopo da Cessole Jacobus de Terciis, v. Terzi Giacomo Jacopo da Voragine, 250 Jacques de Cessoles, v. Iacopo da Cessole Jaeger Ch.St., 43n Jaffè P., 59n Jauss H.-R., 19n Jesi (Ancona), 206n Jodogne P., 186n Jolif J.Y., 131n Jones P., 206n Jütte R., 35n

IS

IM E

Homère, v. Omero Homerus, v. Omero Henoch, v. Enoch Hoveden (Inghilterra), 94n – v. Ruggero di Hoveden Huççolinus de Marsciano, v. Ugolino da Marsciano Hugo von Bologna, v. Ugo di Bologna Huizinga J., 83, 83n Huygens R.B.C., 67n Hyspania, 81n Hyde J.K., 49n Hyatte R., 101, 101n

Kalning P., 24n Kamp N., 87, 87n, 114n Kämpf H., 34n Kantorowicz E., 121n, 122n Kantorowicz H.U., 121n, 231n Kauti, v. Cauzi Keller H., 36, 37n, 38n, 40, 43n, 48n, 49, 49n, 52n, 54n Kelly T.A.F., 13n, 123n Kent D., 175, 175n, 180n Kent F.W., 175n, 180n Kjaergaard D., 131n Klaes M., 44n, 45n Klapisch-Zuber Chr., 180n, 245n, 246n Knight G.R., 101n Knowles D., 83n


280

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Korros A.S., 24n Kroeschel K., 35n KĂźbel W., 131n Kuster H.J., 76n

IS

IM E

Lori Sanfilippo I., 24n, 160n Losurdo D., 187n Lovere (Bergamo), 179 Luca, evangelista, santo, 114, 121n, 130, 130n, 144n, 248, 248n, 254, 256, 258 Labande E.-R., 84n Luca da Penne, giurista, 229 Lago Maggiore, 180, 180n, 181, 181n Lucarelli Marino, 225 Lamma P., 90n Lucca, 165 Landi Franciscus, notaio fiorentino, Luchetti Giuli A., 206n, 207n 215n Luchitskaya S.I., 24n Landwehr A., 47n, 55n Luci Guiduccio, 193n Lanham C.D., 112n Luckmann Th., 48n Lapo Gianni, 6, 149 Ludovico il Bavaro, imperatore, 213n Laon (Francia), v. Adalberone di Laon Lueris, v. Lovere Latini Brunetto, 13, 19, 26, 27, 28, 28n, Luigi VII, re di Francia, 88, 89 29, 148n, 151n Luttazzi Gregori E., 250n, 252n, 253n Lauwers M., 18n LĂźtten J., 44n, 45n Laveno (Varese), 180 Luzi E., 200n - v. Ambrosolo Luzzato G., 204, 204n Lazzarini I., 173n, 174n, 175n, 181n Lecelinus, 63n Leclercq J., 64n, 65n, 69n Macchia (Macerata), 205n Lecoy de la Marche A., 97n Macerata, 193n, 194n, 198n, 201n, 212 Legnano (Milano), v. Giovanni da Legnano Maddalena, personaggio biblico, 260 Le Goff J., 5, 245, 256n Madison Krahmer S., 101n Le Lay C., 12n Maffei D., 229, 229n, 233n Lelio C., 112, 112n, 151, 151n, 220, 220n Maffia Scariati I., 26n Lelius, v. Lelio Magdalino P., 52n Leonardi C., 62n Maggini F., 28n Licitra V., 54n Maire Vigueur J.-Cl., 13n, 49, 49n, 50, Lilla (Francia), v. Alano di Lilla 50n, 52n, 53n, 174, 174n Limoges (Francia), 97 Maiatico (Parma), 178 Lino di Massa, 213 Mainoni P., 179n Livio, scrittore romano, 164 Maione, politico barese, 87, 88 Lobrichon G., 64n Malacrida Bartolomeo, cancelliere, Lodi (Milano), 160, 167 179,180 Lombardi G., 251n Malaparte C., 76, 76n Lombardia, 160, 172, 173, 176, 177, Malaspina Currado, 151 185, 238 Malatesta, nobile famiglia, 206n, 207, Longino, soldato romano, 260 207n Longo U., 80n, 82n, 85n, 90n Malatesta Pandolfo, signore di Lorenzetti Ambrogio, pittore, 167 Bergamo, 179 Lorenzetti Pietro, pittore, 253 Malatesti da Rimini Galoto (di), 206, Lorenzo di Giovanni di Stazio, mare206n, 207, 207n, 208, 208n, 214n scalco di Poncello Orsini, 195, 195n 223n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Matteo di Salerno, politico, 87, 88 Maurer H., 160n Mauro L., 28n Mayer T., 35, 35n, 36 Mazour-Matusevich Y., 24n Mazzardi, (fratelli), 180, 181 Mazzarino S., 133n McCall J.P., 230n, 231n, 232n McEvoy J., 11n, 44n McGuire P., 100, 101n McLaughlin J., 101n Medici, famiglia aristocratica fiorentina, 175n, 186n Medici Giulio (dei), cardinale, 185 Mediterraneo, 193n Mehl J.-M., 24n Menestò E., 62n, 192n Menta G., 100n Merback M., 251n, 256 Mercenario da Monteverde, 213, 213n Mercken F., 130n Mercken H.P.,138n Merici G., 176n Messalina, 96 Messina, 94, 98, 99, 104 Michael, v. Michele Michele, arcangelo, 197n, 257 Michels G., 68n Miglio M., 251n Migne J.P., 62n Milano, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 178, 179, 181, 183, 207, 266, 270 Minerva, divinità romana, 159 Modena, 185 Mogliano (Macerata), v. Gentile da Mogliano Mohler L., 196n Molischus, 207n Mollat G., 208n, 209n Monsampolo (Ascoli Piceno ), 211 Mons Calvus, v. Montecalvo Mons Critaccius, 204, 204n Montaigne Michel (de), filosofo, scrittore e politico, 42n Montalto (Ascoli Piceno), 194n

IS

IM E

Malato E., 147n Manaresi C., 167n Mancino L., 221n Manfredi, figlio di Federico II, 110, 124, 124n, 125, 126 Manselli R., 160n, 203n Mantegna Andrea, pittore, 259 Mantelli, famiglia di Cannobio, 181 Mantellis, de, v. Mantelli Mantova, 166, 167 Marabelli C., 60n Marca d’Ancona, v. Marca Anconitana Marca Anconetana, v. Marca Anconitana Marca Anconitana, antica provincia nell’Italia centrale, 192, 193, 193n, 194, 194n, 195n, 196, 196n, 197n, 198, 198n, 201, 202, 204, 206n, 207, 208n, 215, 215n, 216, 204, 205, 206, 208, 210, 211, 224 Marchesi C., 132n Marchia, Marchya Anconitana, v. Marca Anconitana Marco, evangelista, santo, 248, 258 Marcucci F.A., 199, 199n, 202n, 205n, 206n, 209n, 212n, 214n, 217, 217n, 222n, 224, 224n, 225, 225n Maremma, 143 Margueron C., 12n Maria di Betania, 130, 130n Mariotti C., 198n Marsciano (Perugia), v. Ugolino da Marsciano Marsilio, maestro a Padova, 237 Marta di Betania, 130, 130n Marti M., 147n, 148n, 149n Martin J.-M., 87, 87n Martines L., 251n Martino da Braga, 20 Marx K., 186, 187n Massa (di), famiglia aristocratica, 218 Massei de Esculo Naticombene, notaio, 193n Matagrifon, castello, 94 Matheus de Murro, 198n Matteo, evangelista, santo, 248, 258

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Morris C., 60n Mostert M., 51n Muir E., 46n, 185n Münster (Germania) - scuola di, 40 Muratori L.A., 214n Murphy J.J, 44n Murrus, v. Morrovalle Nalgodo, monaco cluniacense, 85, 85n Najemy J., 23n Napoli, 205, 224, 253 - Studium, 12, 124n, 125 Narducci E., 151n Narni (Terni), 212 Nathan S., 12n, 45n, 123n Navone P., 21n Nederman C.J., 24n, 27n, 28n Negri M., 139n Nicola da Rocca, notaio imperiale, 109n, 110, 110n, 111, 111n, 114n, 115, 115n, 116, 118n, 119, 119n, 120, 121, 121n, 122, 122n, 123, 123n Nicola da Rocca junior, nipote di Nicola da Rocca, 114 Nicola de Clairvaux o de Montiéramey, monaco cistercense, 62, 62n, 63, 63n, 64, 64n, 66, 68, 77, 78, 79, 80, 81, 83n, 85, 86, 89, 90 Nicola de Montiéramey, v. Nicola di Clairvaux Nicola di Gualtiero di Anagni, tesoriere della Marca Anconitana, 193n Nicola Pisano, scultore, 253 Nicolaus, nipote del vescovo di Ascoli, 208n Nicolaus Clarevallensis, v. Nicola di Clairvaux Nicolaus de Rocca, v. Nicola da Rocca Nicolò, 192n Nicolò IV, papa, 194n, 196 Nicoluccio, 192n Nicoluctius, figlio o famulus di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Nico Ottaviani M.G., 238n

IS

IM E

Monte Adamo, castello, 217 Montebello, pace di, 167, 167n Montecalvo, castello, 191, 192n Montecassino (Frosinone), monastero, 111, 114n, 117n – v. Ayglerii Bernardo Montecosaro (Macerata), 194n Montecretaccio (Ascoli Piceno), 193n, 194n Montefiascone (Viterbo), 212, 231 Montefiore (Ascoli Piceno), 194n Monte Fortino (Fermo), 192, 194n Montefusco A., 12n, 21n Montegranaro (Fermo), 194n Montelparo (Fermo), 194n Montelupone (Macerata), 194n Monte Monaco (Ascoli Piceno), 192, 194n Montemoro (Ascoli Piceno), 193n, 194n – v. Pietro da Monte Moro Monte Passillo (Ascoli Piceno), 192, 225 Monteprandone (Ascoli Piceno), 211 Monterubbiano (Fermo), 194n, 207 Monte Santa Maria in Giorgio (Monte San Giorgio) (Ascoli Piceno), 194n Monte Santa Maria in Lapide, località presso Ascoli Piceno, 194n Monte Santo (Fermo), 194n Montevecchi Silvano, monsignore 6 Montevecchio (Pesaro Urbino), 207 Monteverde (Avellino), v. Mercenario da Monteverde, Rinaldo da Monteverde Montiéramey (Francia), monastero, 78 - v. Nicola de Clairvaux Montolmo (Corridonia) (Macerata), 193n, 196n, 201n Monza (Milano), 257 Morena Ottone, 164, 164n Moreni D., 131n Morganti L., 6, 245 Morisi Guerra A., 179n Morrovalle (Macerata), 194n, 195n - v. Matheus de Murro Morta, località nei pressi di Ascoli Piceno, 198


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Nizza (Francia), 163 Noëllet Guglielmo, legato papale, 211 Nogent (Francia), v. Guiberto di Nogent Novalia, v. Bartolomeo di Novalia Novara, 167 Novella, moglie di Giovanni da Legnano, 237 Nubola C., 173n Numana (Ancona), 194n

Padova, 167, 229, 253 Pagnoni F., 183n Palavicino Rolando, 179 Pallavicini, famiglia aristocratica, 182 Pallavicini Federico, 182 Pallavicini Giovanni, 182 Pallavicini Niccolò, 182 Pallavicino, colonnello, personaggio letterario, 82 Palmia Giovanni, notaio parmense, 171, 171n Palombelli C., 245 Panciatichi, famiglia pistoiese, 175n Panicis de Luca Cavalcantes (de), 191n Paoli M.P., 184n Paolo di Tarso, santo, 17n, 69n, 130n Paradisi B., 36, 36n Paravicini Bagliani A., 251n Parigi (Francia), 87, 88, 125 Parisani, famiglia aristocratica ascolana, 199n, 218 Parisani Amelio, 199n Parisani, Marco di Amelio, 199n Parisanis de Castagnario sive Castagnano Franciscus domini Parisani, v. Parisano Francesco (di) Parisanis de Esculo Franciscus domini Napoleonis (de), v. Parisano Francesco (di) Parisanis Napoleon (de), 218 Parisano Francesco di Napoleone (di), podestà e capitano del popolo a Firenze e Orvieto, 199, 199n, 218 Parisanus de Castiniano (Castigniano), capostipite della nobile famiglia Parisani, 197, 198, 199n, 202 Parkes M.B., Parma, 24, 50, 167, 181, 182, 184, 201 Pasero N., 93n Pasinelli de Reate Gentilis, 191n Pasinellis de Reate Sinibaldus (de), vicario del podestà di Ascoli, 191n Pasquini E., 12n, 147n, 148n, 149n, 151n, 153n Pastori L., 198n Patrignone (Ascoli Piceno), 194n, 198

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IM E

Obertus cancellarius, cancelliere 49n Obertus Guterinus, v. Guttuari Occhipinti E., 49n Odoardi, famiglia aristocratica, 225 Odoardo di Cecco, capo guelfo, 225 Odone, abate di Cluny, 85 Odorico P., 93n Oexle O.G., 35n Offagna (Ancona), 194n Offida (Ascoli Piceno), 198, – v. Iohanninus Guilielmi de Ofida Omero, poeta greco, 137n, 138, 138n Onesto da Bologna, poeta, 148 Opll F., 160, 160n Origenes, teologo e filososo, 144n Orlandi G., 148n Orsini, famiglia aristocratica romana, 183, 183n, 196 Orsini Bertoldo, 194, 194n, 195n Orsini Orso, 194n Orsini Poncello (de filiis Ursi), figlio di Bertoldo Orsini, 194, 195n, 201n, 209 Orvieto, 193n, 199n, 207n Oschema K., 41n, 42, 42n, 43n Osimo (Ancona), 202 Ottenthal E. (von), 123n Ottimo, 148n, 149n Otto von Freising, v. Ottone di Frisinga Ottone di Frisinga, vescovo di Frisinga, 159n, 164, 164n, 165n Ottone III, imperatore, 6 Ovidio, poeta romano, 65, 221

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Pietra Santa (Lucca), v. Guido di Pietra Santa Pietro, apostolo, santo, 197, 257 Pietro da Monte Moro, 206 Pietro di Blois, poeta, 19 Pietro di Celle, abate di Moûtier-laCelle, 60n, 62, 69, 69n Pietro di Poitiers, teologo, 63 Pietro il Venerabile, abate di Cluny, 61n, 62, 63, 63n, 77, 78, 79, 80, 81, 81n, 82, 84, 85, 89, 90, 101n Pietro, qa’id, 88 Pietro, vescovo di Cuenca, 211 Pini A.I., 160n Pinto G., 245 Pio B., 231n, 232n, 238n Pirillo P., 245 Pisa, 162, 163 – v. Giordano Pisoni P.G., 181n Pistoia, 175n, 194 – v. Cino da Pistoia Pitagora, filosofo e matematico greco, 139, 140, 141, 142, 142n Plutarco, scrittore e filosofo greco, 221 Poggio Paganelli, località nei pressi di Ascoli Piceno, 193n, 194n Pomarici F., 259 Ponte Lavino (Bologna), 47n Porchia (Ascoli Piceno), 194n Porta Matteo (de), arcivescovo di Salerno, 121n Portella (Ascoli Piceno), 193n, 194n Portinari Manetto, 149 Powell J.M., 21 Prato Giovanni Andrea, cronachista milanese, 179, 179n Prepositus Milanuctii, 208n Prevenier W., 162n Priamo, re di Troia, 138n Prodi P., 23n Prosperi A., 250n, 252n, 254n Protagora, 142 Pseudo-Seneca, v. Martino da Braga Puncuh D., 161n, 162n Puppi L., 251n

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IM E

Patzold S., 34n, 36n, 48n Paul H., 130n Pavia, 163 Paulus, nobile di Macerata, 201n Penne (Ascoli Piceno), v. Luca da Penne Penne San Giovanni (Macerata), 194n Peraldo Guglielmo, frate domenicano, 27 Pernou R., 93n, 97n, 100n Pertz G.H., 49n Perugia, 199, 210, 205, 207n, 212, 213, 215, 217, 218, 219, 220, 221n, 222, 222n, 223, 224, 225n Perusia, v. Perugia Peruzzi, famiglia fiorentina di banchieri, 203 Peterborough (Inghilterra), v. Benedetto di Peterborough Petralia G., 173n Petrarca Francesco, 131, 142, 143, 143n, 144, 220n, 221, 229, 229n, 232 Petrucci A., 59n Petrus Cellensis, v. Pietro di Celle Petrus de Regio, notaio, 191n Petrus de Sancto Geminiato, vicario del cardinale Albornoz, 209n Petrus Iacobus Assalonis Iacobi Iohannis de Montemoro, v. Pietro da Monte Moro Petrus Venerabilis, v. Pietro il Venerabile Peveri R., 163n Pezzana A., 177n Philippus Marci de Florencia, mercante 196n Philodemus, poeta, 139n Phylippus Petri de Esculo, 195n Piacenza, 162, 163, 166, 167, 185 Piazzoni A.M., 100, 100n Piceno, 219 Picone M., 12n, 19n Piergiovanni V., 172n Pier della Vigna, 19, 110n, 111, 113, 113n, 115, 115n, 116, 117, 118, 119, 119n, 120, 121, 121n, 122, 122n, 124


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Quaglioni D., 193n, 200n, 232n

Riccarductius (Ricarductius), figlio di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Ricciardi A., 82n Richardus, v. Riccardo I Richardus Divisienses, v. Riccardo di Devizes Riché P., 64n Rielvaux, abbazia, v. Aelredo di Rielvaux Rigon A., 11n, 24n, 245 Rimini – palazzo Malatesta, 207 – v. Francesca da Rimini Rinaldo da Monteverde, 213, 213n, 214, 214n, 215, 216, 216n, 220n, 221n, 224 Rinalduccio da Monteverde, v. Rinaldo da Monteverde Ripaberarda (Ascoli Piceno), 193n, 194n Ripatransone (Ascoli Piceno), 194n, 205, 206, 207 Rivoaltus, 205n Rivola, famiglia nobile bergamasca, 178, 178n Roberti, famiglia nobile reggiana, 182 Roberto d’Angiò, re, 203, 205n Roberto I di Francia, re, 100 Roberto di Selby, 87, 88 Robinson F.N., 232n Robinson P.R., 67n Rockinger L., 44n Rodolfo, Rodulphus, da Varano, 215, 215n, 220n Rogerius de Hoveden, v. Ruggero di Hoveden Rolando, 147 Roma, 192, 194n, 212, 223, 223n, 253, 257 – San Marcello, chiesa, 196n – Santa Maria in Portico, 197, 197n – Santa Sabina, chiesa, 257 Romagna, 194n, 205 Romano G., 179n Romualdo di Salerno, 87, 88 Roncaglia, dieta, 159, 165

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IM E

Rabotti G., 231n Rabula, monaco siriaco, 257 Raccagni G., 161n Radulf von Vendôme, v. Radulfo di Vendôme Radulfo di Vendôme, 54, 54n Ragnola, torrente nei pressi di Ascoli Piceno, 202 Rahewino, cronista tedesco, 159, 159n, 164, 164n, 165n Raimondo di Ottone di Spello, rettore della Marca Anconitana, 198n Rainaldo, v. Rinaldo da Monteverde Rais Gilles (de), nobile francese, 256 Rassow P., 69n Rauzy E., 59n Ravenna, 162, 163, 212 Raçanelli Cecchino figlio di Nero, 193n Raçanelli Johannes, 193n Raçanelli Raçanellus, 193n Raçanelli Sandorus, 193n Raymundus, famulus di Parisanus de Castiniano, 198, 199n Recanati (Macerata), 202 Reggio (Emilia), 182 Reichenau, monastero, 37 Reims (Francia), v. Icmaro di Reims Reinalduccio, v. Rinaldo da Monteverde Reindel K., 83n Reno, fiume tra l’Emilia e la Toscana, – castra, 53 Renouard Y., 203n Renzi Francesco, 90n Reuter T., 36 Reynolds S., 40 Riccardo di Devizes, monaco benedettino, 96, 96n Riccardo di Siracusa, arcivescovo 76, 86, 87, 88, 89 Riccardo I, re d’Inghilterra, 93, 93n, 94, 95, 95n, 96, 96n, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 10

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

218, 218n, 219, 220, 220n, 221, 221n, 222n, 223, 223n, 224n, 225 Salvatori E., 163n Salvi A., 206n, 207n, 208n, 209n, 210n, 225n Salvus Iohannes de Florentia, 193n Samaritanus Adalbertus, v. Samaritano Adalberto Sambin P., 110n, 115n Sanctis Nicola (de), 121n Sanctus Benedictus, attuale San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), 204n Sanctus Geminiatus, v. Petrus de Sancto Geminiato Sandei Felino, 231n San Gallo, monastero, 37 San Giusto (Fermo), 194n Sanitatis Raynaldus, 195n, 201n San Marco, monastero presso Ascoli, 191n San Miniato (Pisa), v. Gallucttio de Sancto Miniate San Pietro in Cerreto, località nei pressi di Ascoli Piceno, 193n Sanseverino, famiglia nobile, 181 San Severino (Macerata), 206n - v. Smelducci da San Severino Bartolomeo Santa Maria Maggiore, monastero, 51 Santa Vittoria (Fermo), 194n – v. Cose de Sancta Victoria Franciscus – v. Franciscus magistri Alegricti de Sancta Victoria Sant’Egidio alla Vibrata (Teramo), 195n Santelpidio (Fermo), 194n Sanvitale Stefano, conte, 178 Saracco Previdi E., 210n Saraceno L., 61n Sarnano (Macerata), 194n Sarvognano (Udine), v. Franciscus de Sarvognano Sassoferrato (Ancona), v. Bartolo da Sassoferrato Sato Hitomi, 178n, 179n Saul, profeta, 102, 105

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Rondoni D., 6 Rosemann P.W., 13n Rosenwein B., 84, 84n, 161n, 173n Rossi, nobile famiglia di Parma, 177, 178 Rossi Pietro Maria, nobile parmense, 171, 178, 178n, 183, 184n Rossi Rolando, nobile parmense, 181, 182 Rotella (Ascoli Piceno), 194n, 205, 205n Rouen (Francia), v. Stefano Rouse R.H., 62n Rovere A., 162n Roçerius domini Herrici de Esculo, ambasciatore, 194n Rudel Jaufré, 153n Ruggero II, re di Sicilia, 87, 88 Ruggero di Hoveden, chierico e scrittore inglese, 94, 95, 95n, 96, 96n, 97, 97n, 102, 104, 105 Ruhe E., 67n Rusca, famiglia comasca, 180, 181 Rusca Franchino, 180

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Saint-Denis (Francia), v. Sugero di Saint-Denis Saint-Swithun, monastero di Winchester, 96 Saitta G., 12n Sala (Parma), 178 Sala A., 179n Saladini Coluccio di Giacomo, 208n, 209 Saladini Giacomo, 209n Saladino, sultano di Egitto e Siria, 94 Salerno 87 – v. Matteo – v. Romualdo Salina, 82 Salladini Coluctius Iacobuctii, v. Saladini Coluccio Sallustio, poeta romano, 77, 164 Salomone, 141 Salutati Coluccio, 212, 21n, 213, 213, 214, 214n, 215, 215n, 216n, 217n,


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

179 Sgariglia Petrocco, 225 Shaw C., 183n Sicilia, 87, 87n, 88, 89, 94, 193, 205, 216, 216n Siena, 193n, 217n, 220 Signa (Firenze), 7, 12, 12n, 13, 13n, 14, 16, 16n, 17, 17n, 18, 18n, 19, 20, 21, 22, 23, 26, 27, 44, 45n, 113, 123, 123n, 124, 124n, 126, 126n, 151 – v. Boncompagno da Signa Signatico (Parma), 171 Sila, altopiano della Calabria, 94 Silvano G., 249n Silvestre Bernardo, filosofo, 18, 19 Simonetti, famiglia aristocratica di Jesi, 206n Siracusa, 88 – v. Riccardo di Siracusa Siria, 131 Siro Publilio, scrittore, 20 Skinner P., 63n Skwierczyñski Kr., 76n Smeducci (Smelducci), famiglia aristocratica di San Severino, 206n Smelducci da San Severino Bartolomeo, 215, 217, 218 Sodoma, città biblica, 97, 98, 98n, 103, 105 Solignac A., 131n Soranzo G., 197n Sorbelli A. 212n Spadolini G., 230n Spinetoli (Ascoli Piceno), 211 Spoleto, 193n Stazio, 153, 154 Stefano del Perche, arcivescovo di Palermo, 88, 89 Stefano di Blois, re, 100 Stefano di Bourbon, frate domenicano, 97, 97n Stefano di Rouen, 101n Stefanus de Borbone, v. Stefano di Bourbon Steiger A., 62n Stiennon J., 65n

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Scala, famiglia fiorentina di banchieri, 203 Scatizzae Perottus, 221n Schaller H.M., 110n Scharff T., 16n Schiavone A., 134n Schieffer R., 39n Schiera P., 183n Schlesinger W., 34, 35, 35n, 39, 39n Schmale F.J., 44n,159n Schmid K., 34n, 36, 37, 37n, 40n, 43, 46, 100, 100n Schmitt C., 185n, 230 Schneider G., 61n Schneidmüller B., 39, 39n Schöttler P., 35n Schulte J.F. (von), 230n Schulz F., 231n Schulze J., 12n Schnerb-Lièvre M., 232n Schwedler G., 80n Sciascia L., 186n Sciolfi Vitaleo, 195n Scipio, v. Scipione Scipione Publio, 112, 112n, 151, 151n Scotti, famiglia aristocratica, 182n Segoloni D., 229n Segre C., 28n, 29n Selby (Gran Bretagna), v. Roberto di Selby Sella P., 209n Seneca Lucius Annaeus, politico romano, 25, 68n, 221, 234 Senigallia (Ancona), 194n Senofonte, storico greco, 221 Sère Bénédicte, 11, 11n Serio Alessandro, 183n Servio, grammatico romano, 139n Sessa (Caserta), v. Taddeo da Sessa Sessa Henricus (de), 209n Setaioli A., 139n Sforza Bianca Maria, 181, 184n Sforza Francesco, 178n, 183, 183n, 184n Sforza Gian Galeazzo Maria, 184n Sforza Lodovico, 179 Sforza Maximiliano, duca di Milano,

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Tibaldeschi, famiglia aristocratica ascolana, 199n, 209n Tibaldeschi Boffo di Massa (dei), 213, 213n, 214, 214n, 215n, 218, 218n, 220n, 221n Tibaldeschi Filippo di Massa (dei), 209, 209n, 210n Tibaldeschi Giorgio (dei), podestà di Fano e di Bologna, 199, 201 Tibaldeschi Giovanni di Massa (Maxii) (dei), 209, 225 Tilliette J.Y., 66n Titinus, 136n Titone, 151 Todeschini G., 23, 23n Todi (Perugia), 225n Tolentino (Macerata), 194n Tolomeo, astronomo e astrologo greco, 230 Tolomeo Filometore d’Egitto, 102, 102n Tolosa (Spagna), v. Guglielmo da Tolosa Tomasi M., 252n Tomasi di Lampedusa G., 82 Tomei A., 259 Tommaso d’Aquino, filosofo, 137n, 142, 142n Tommaso di Capua, 110n, 111, 113 Tommaso di Morico, procuratore della città di Ascoli Piceno, 205n Tornaquintiis Ciprianus (de), podestà di Ascoli, 218 Torre (Macerata), 205n Torrechiara (Parma), 183n Torriglia (Genova), 183n Tortona, 160, 161, 164, 167, 182 Tortoreto (Teramo), 205n Tramontana S., 94n Trebbiani Meliadusse, podestà di Firenze, 205n Trémaugon, v. Evrart de Trémaugon Trivulzio Iacobo Io., 179 Troiani A., 253n Troje H.E., 231n Tronto (Trontus), antica località nei

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Stock B., 65n Stollberg-Rilinger B., 38n Stone L., 185n Stubbs W., 95n Stürner W., 122n Suardi, famiglia nobile bergamasca, 178, 178n Suger, Sugerius S. Dionysii, v. Sugero di Saint-Denis Sugero di Saint-Denis, 61n Sulmona (L’Aquila), 195n, 201n Sutri (Viterbo), v. Bonizone Syros V., 28n

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Tabacco G., 203n Taddeo da Sessa, 124 Tancredi d’Altavilla, 94 Tarlati Guido, vescovo di Arezzo, 213 Tarvisii Rambaldus, conte, 194n Tastis Gerardo (de), 198 Tavilla C.E., 171n, 172n Tebalduccio di Camporo, 213 Tellenbach G., 35n, 36, 36n, 37n Terlizzi Francesco Paolo, 90n Terpstra N., 253n Terracina (Latina), v. Giordano da Terracina Terra di Lavoro, antica regione nei pressi di Capua, 117n Terrasanta (Terra Santa), 94, 197 Terzi, famiglia parmense, 177, 178 Terzi Giacomo, nobile parmense, 177, 177n, 178 Terzoli M.A., 18n, 133n Thebaldis Leonardus Bartholomei (de), cittadino ascolano, 197, 198, 202 Thebaldischis de Esculo Nicola Giorgii (de), podestà di Perugia, 199 Theballensis de Esculo Georgius Boniiohannis (de), v. Tibaldeschi Giorgio (dei) Theiner A., 209n, 210n Thoma, 62n Thoma de Aquino, v. Tommaso d’Aquino


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

pressi di San Benedetto del Tronto, 205n – fiume nei pressi di Ascoli Piceno, 202, 204n, 211, 213, 214 – valle, 204n, 208 Trottmann C., 23n Troyes (Francia), v. Attone Tuczek S., 118n Tullio, 28n Turcan-Verkerk A.M., 44n, 53n Turenna, regione nei pressi di Tours, 221n Tuscia, antica regione, 194n

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171, 177 Vercelli, 167 Vergani G. A., 259 Verona, 161, 167, 179, 204 Vignati Cesare, 159, 160n, 166n Vignuzzi U., 222n Villani Giovanni, 29 Villers M., 131n Vinay G., 98, 98n Vinea Petrus (de), v. Pier della Vigna Virgilio, poeta romano, 138, 151, 153, 154 Visconti, famiglia nobile milanese, 238 Visconti Bernabò, signore di Milano, 212, 212n, 214 Ubaldi Baldo (degli), 222, 222n, 231n Visconti Filippo Maria, 177n, 182n Ubaldi Francesco (degli), 222n Visconti Gian Galeazzo, 181, 182 Ugo di Bologna, maestro nello studio di Visconti Giovanni, arcivescovo, signore Bologna, 44, 44n, 55, 55n di Milano, 207, 212 Ugolino da Marsciano, nunzio apostoli- Visconti Nino, 151 co, 196, 196n, 197 Viterbo, 212 Ulisse, 138, 138n, 139, 143 Viti P., 219n, 221n Ulivieri, 147 Vittorino Mario, 28, 28n Ullman B.L., 220n Voghera (Pavia), 182, 185 Umile, monaco, 191n Voltolina G., 113n Ungaria, v. Ungheria Voragine (Varazze) (Savona), v. Jacopo Ungheria, 224n, 260 da Voragine Urbano V, papa, 210, 212, 231 Urbano VI, papa, 223, 237 Urbino, 212 Wahlgren-Smith L., 63n Utinus (Udine), 224n Waitz G., 34n Walther H., 14, 14n Wassilowsky G., 49n Valerio Massimo, storico romano, 25 Wayne Storey H., 12n Vallerani M., 172n Weber C.F., 16n Val Lugano (Svizzera), 181 Weiland L., 122n Val Parma, 171 Weller T., 49n Vannuctius (Vannictus), 198, 199n Wibaldus, abate di Stavelot e Corvey, Varanini G.M., 173n, 219n 59n, 68, 68n Varano (Ancona), v. Rodulphus da Wickham C., 52n Varano Wieruszowski H., 18n Vasina A., 162n Wight S.M., 13n, 45n Vecchio S., 21n Williams D., 101n Venezia, 161, 180, 204, 205, 205n Winchester (Inghilterra), 96n – Rivoaltus, 205n Winkelmann E., 122n Venturini, famiglia nobile parmense, Wipfler E., 33n


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Worstbrock F.J., 44n, 45n, 54n Würgler A., 173n

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IM E

Yohe K., 100, 100n York (Gran Bretagna), 88 Yorkshire (Gran Bretagna), 94n Yves de Chartres, v. Ivo di Chartres

Zabarella Francesco, giurista, 231, 231n Zavattero I., 132n Zdekauer L., 223n Zendri Ch., 230n, 234n Ziletti (Giovanni Battista), erudito, 222n Zim R., 67n Zinsmaier P., 121n Zorzi A., 173n, 174n, 185n, 251n Zucchini S., 238n


Indice generale

Saluti delle Autorità: Pag.

V

IM E

S. E. Mons. Silvano Montevecchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prima giornata

Antonio Rigon, Introduzione ai lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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3

Enrico Artifoni, Amicizia e cittadinanza nel Duecento. Un percorso (non lineare) da Boncompagno da Signa alla letteratura didattica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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9

Florian Hartmann, L’amicitia nei primi comuni italiani. Un sondaggio nelle artes dictandi alla luce dei recenti orientamenti della storiografia tedesca sull’amicizia medievale . . . . . . . .

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31

Micòl Long, Scripsit amica manus: l’autografia nelle lettere monastiche d’amicizia (XI e XII secolo) . . . . . . . . . . . . . . . . .

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57

Glauco Maria Cantarella, Amicizie vere e presunte. Qualche eco dal pieno Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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73

Enrico D’Angelo, Le “amicizie” del Cuor di Leone . . . . . . . .

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91

Fulvio Delle Donne, Amicus amico: l’amicizia nella pratica epistolare del XIII secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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107

Sonia Gentili, Amicizia, città e spazio sociale nell’«Etica di Aristotele» volgarizzata da Taddeo Alderotti . . . . . . . . . . . . .

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127

IS

Seconda giornata


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145

Paolo Grillo, Alle origini della diplomazia comunale: amicizia e concordia nei rapporti fra i comuni italiani nell’epoca della Lega Lombarda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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157

IM E

Emilio Pasquini, Concezione e lessico dell’amicizia fra Stilnovo e «Commedia» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Marco Gentile, Amicizia e fazione. A proposito di un’endiadi ricorrente nel lessico politico lombardo del tardo medioevo . .

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169

Maria Elma Grelli, Le relazioni di amicizia nella storia politica del comune di Ascoli nel XIV secolo . . . . . . . . . . . . . . . . .

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189

Mario Ascheri, La amicitia tra politica e diritto: il tractatus di Giovanni da Legnano (1320 ca.-1383) . . . . . . . . . . . . . . . . .

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227

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243

Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .

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263

Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Terza giornata

Lectio magistralis del Premiato 2010

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Christiane Klapisch-Zuber, Il Buon Ladrone: un santo per l’Aldilà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Indici


AMICIZIA E CITTADINANZA NEL DUECENTO

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IM E

giustificazione le letture che hanno visto nel Liber un catalogo anticiceroniano e alquanto pessimista delle specie dell’amicizia, o quelle che l’hanno considerato soprattutto nel suo ruolo di fornitore di molti materiali al Favolello di Brunetto Latini. Rimane che il lavoro di Boncompagno è una macchina culturale a molte dimensioni. Certamente, sarebbe assurdo negarlo, propone una tipologia gustosa. Non c’è dubbio che la descrizione di ventisei genera amicorum, dall’amico fedele a quello eguale, dall’amico sofistico a quello versipelle, passando per l’amico ventoso, il vitreo e il ferreo senza dimenticare il futile, il condizionale e l’amico di ventura (mi fermo a dieci per brevità), non c’è dubbio, dicevo, che questa descrizione sia difficile da dimenticare. Per avere un’idea, proviamo a moltiplicare per ventisei l’energia definitoria impiegata per l’amico altezzoso, colui - dice Boncompagno - che sembra portare nel naso dei granelli di senape, per cui pare che gli puzzi l’amicizia di chiunque7; oppure quella applicata all’amico mercantesco, che elargisce a piene mani per mostrare liberalità ma sperando in un tornaconto raddoppiato: in un tripudio elencatorio i vari amici mercanteschi donano elefanti, cammelli, cavalli, orsi, bestie e uccelli, anel-

IS

ro e l’opera di Boncompagno da Signa, cur. M. Baldini, Signa 2002, pp. 67-77; M. Gallina, L’amicizia tradita, ovvero la prigionia in Monferrato di un sovrano bizantino nell’Amicitia di Boncompagno da Signa, [1990], ora in Gallina, Conflitti e coesistenza nel Mediterraneo medievale: mondo bizantino e Occidente latino, Spoleto 2003, pp. 221-248; G. Fasoli, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp. 317-330; M. Baldini, Introduzione, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia cit., pp. 9-33; P. Garbini, L’amicizia in palio, il campione di nuoto e l’azzardo: sport e gioco in Boncompagno da Signa, «Ludica», 8 (2002), pp. 163167; M. Dunne, Good Friends or Bad Friends? The Amicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship. Essays in Medieval Thought and Beyond in Honor of the Rev. Professor James McEvoy, cur. T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004, pp. 399-400; Artifoni, Segreti e amicizie cit.; Gasparini, L’amitié comme fondement cit. Oltre che nel saggio citato sopra, ha dedicato in più luoghi pagine importanti all’Amicitia Paolo Garbini, del quale si vedano per i riferimenti completi le introduzioni a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, ed. P. Garbini, Roma 1996, a Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, ed. P. Garbini, Roma 1999 e a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii. Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, ed. P. Garbini, Firenze 2004. Anche se citerò dalle edizioni a stampa, segnalo l’utile sito Medieval Diplomatic and the ‘Ars dictandi’, curato da S.M. Wight, contenente tutte le opere di Boncompagno secondo varie edizioni <http://scrineum.unipv.it/ wight/wight.htm>. 7 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 25, p. 63: «De superstitioso amico. Superstitiosus amicus in naribus defert spiritum et sinapim, unde quorumlibet amicitia sibi fetere videtur, et ex quodam arrogantie fastu cuilibet superesse laborat, nam omnibus detrahit, cunctos deridet, mores alienos reprehendit et suos commendat».


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ENRICO ARTIFONI

IM E

so ciceroniana (il Laelius de amicitia) ma altrettanto spesso biblica, sentenziosa, esemplare, senza dimenticare gli umili testi dell’alfabetizzazione latina di base, tra cui emergono i Disticha Catonis, letteralmente onnipresenti; il tutto raccolto in scritture didattiche in prosa che non mancano mai di insegnare, fra molte altre cose, secondo quali modalità è opportuno che si sviluppi amicizia fra gli uomini. Escludo dunque i testi in versi, di cui in questo incontro si parla con la competenza che è necessaria4. Anche se un numero recentissimo della rivista «Arzanà», dedicato proprio a Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, ha affrontato in parte questa produzione didattica5, qualcosa rimane da dire, e cercherò di farlo sottolineando due punti, tenendomi sempre nella prospettiva del rapporto fra amicizia e cittadinanza: la riflessione sull’amicizia sullo sfondo di una storia dei gruppi intellettuali duecenteschi; la capacità dell’amicizia di disporsi in rapporto con altri luoghi sensibili della cultura civica, tra cui la nozione di fides. 2. Che il percorso non sia lineare, né dal punto di vista della qualità culturale né da quello dell’atteggiamento intellettuale, è dimostrato proprio dal pezzo di apertura obbligato, il Liber de amicitia scritto intorno al 1205 dal dettatore e maestro di retorica Boncompagno da Signa6. Trovano

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4 Cfr. la relazione di E. Pasquini in questo volume e, dello stesso autore, le voci amica, amicizia, amico, amistà, amistanza, in Enciclopedia dantesca, I, Roma 1970. In generale, per il linguaggio poetico del Duecento, J. Schulze, Amicitia vocalis. Sechs Kapitel zur frühen italienischen Lyrik mit Seitenblicken auf die Malerei, Tübingen 2004. Il tema ha assunto particolare rilievo negli studi guittoniani, da C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966 (capitoli I e II della terza parte) fino a H. Wayne Storey, Guittone e la societas amicorum: i due “tempi” della lettura del De amicitia, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cur. M. Picone, Firenze 1995, pp. 53-70. 5 Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010 (= «Arzanà», 13 [2010]), in cui interessano particolarmente il nostro discorso, oltre all’introduzione della curatrice, questi interventi: P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la concordia civium. Le Favolello de Brunet Latin [et une nouvelle source du Tresor], pp. 55-108 (la fonte per i capp. 105 e 106 del secondo libro del Tresor, cioè il cap. 33 del Liber de amicitia di Boncompagno da Signa, è già segnalata in Artifoni, Segreti e amicizie cit., p. 271 nota 24); C. Le Lay, La consolation par la citation: la lettre de Guittone d’Arezzo à un ami ruiné (Lettre III), pp. 109-128; A. Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» [LX.3]. Amicizia, precettistica erotica e cultura podestarile-consiliare nel Fiore, pp. 137-170. 6 Edizioni: “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (da cui citerò in seguito, con introduzione ancora utile); il testo Nathan è riprodotto, con lievi correzioni, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia, introduzione di M. Baldini, traduzione e note di C. Conti, Signa 1999 (edizione poco diffusa e fuori commercio, fornita di ottime note). La bibliografia sull’opera non è troppo estesa; per limitarci a voci relativamente recenti: G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, [1960], ora in Il pensie-


AMICIZIA E CITTADINANZA NEL DUECENTO

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giustificazione le letture che hanno visto nel Liber un catalogo anticiceroniano e alquanto pessimista delle specie dell’amicizia, o quelle che l’hanno considerato soprattutto nel suo ruolo di fornitore di molti materiali al Favolello di Brunetto Latini. Rimane che il lavoro di Boncompagno è una macchina culturale a molte dimensioni. Certamente, sarebbe assurdo negarlo, propone una tipologia gustosa. Non c’è dubbio che la descrizione di ventisei genera amicorum, dall’amico fedele a quello eguale, dall’amico sofistico a quello versipelle, passando per l’amico ventoso, il vitreo e il ferreo senza dimenticare il futile, il condizionale e l’amico di ventura (mi fermo a dieci per brevità), non c’è dubbio, dicevo, che questa descrizione sia difficile da dimenticare. Per avere un’idea, proviamo a moltiplicare per ventisei l’energia definitoria impiegata per l’amico altezzoso, colui - dice Boncompagno - che sembra portare nel naso dei granelli di senape, per cui pare che gli puzzi l’amicizia di chiunque7; oppure quella applicata all’amico mercantesco, che elargisce a piene mani per mostrare liberalità ma sperando in un tornaconto raddoppiato: in un tripudio elencatorio i vari amici mercanteschi donano elefanti, cammelli, cavalli, orsi, bestie e uccelli, anelComposto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo

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ro e l’opera di Boncompagno da Signa, cur. M. Baldini, Signa 2002, pp. 67-77; M. Gallina, Finitola di stampare nel mese di novembre L’amicizia tradita, ovvero prigionia in Monferrato di un sovrano 2012 bizantino nell’Amicitia di Stabilimento Tipografico « Pliniana » Boncompagno da Signa,dallo [1990], ora in Gallina, Conflitti e coesistenza nel Mediterraneo Viale F.e Nardi, 12 -latino, 06016 Spoleto Selci-Lama medievale: mondo bizantino Occidente 2003,(PG) pp. 221-248; G. Fasoli, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp. 317-330; M. Baldini, Introduzione, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia cit., pp. 9-33; P. Garbini, L’amicizia in palio, il campione di nuoto e l’azzardo: sport e gioco in Boncompagno da Signa, «Ludica», 8 (2002), pp. 163167; M. Dunne, Good Friends or Bad Friends? The Amicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship. Essays in Medieval Thought and Beyond in Honor of the Rev. Professor James McEvoy, cur. T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004, pp. 399-400; Artifoni, Segreti e amicizie cit.; Gasparini, L’amitié comme fondement cit. Oltre che nel saggio citato sopra, ha dedicato in più luoghi pagine importanti all’Amicitia Paolo Garbini, del quale si vedano per i riferimenti completi le introduzioni a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, ed. P. Garbini, Roma 1996, a Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, ed. P. Garbini, Roma 1999 e a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii. Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, ed. P. Garbini, Firenze 2004. Anche se citerò dalle edizioni a stampa, segnalo l’utile sito Medieval Diplomatic and the ‘Ars dictandi’, curato da S.M. Wight, contenente tutte le opere di Boncompagno secondo varie edizioni <http://scrineum.unipv.it/ wight/wight.htm>. 7 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 25, p. 63: «De superstitioso amico. Superstitiosus amicus in naribus defert spiritum et sinapim, unde quorumlibet amicitia sibi fetere videtur, et ex quodam arrogantie fastu cuilibet superesse laborat, nam omnibus detrahit, cunctos deridet, mores alienos reprehendit et suos commendat».


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ENRICO ARTIFONI

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so ciceroniana (il Laelius de amicitia) ma altrettanto spesso biblica, sentenziosa, esemplare, senza dimenticare gli umili testi dell’alfabetizzazione latina di base, tra cui emergono i Disticha Catonis, letteralmente onnipresenti; il tutto raccolto in scritture didattiche in prosa che non mancano mai di insegnare, fra molte altre cose, secondo quali modalità è opportuno che si sviluppi amicizia fra gli uomini. Escludo dunque i testi in versi, di cui in questo incontro si parla con la competenza che è necessaria4. Anche se un numero recentissimo della rivista «Arzanà», dedicato proprio a Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, ha affrontato in parte questa produzione didattica5, qualcosa rimane da dire, e cercherò di farlo sottolibianca neando due punti,pagina tenendomi sempre nella prospettiva del rapporto fra amicizia e cittadinanza: la riflessione sull’amicizia sullo sfondo di una storia dei gruppi intellettuali duecenteschi; la capacità dell’amicizia di disporsi in rapporto con altri luoghi sensibili della cultura civica, tra cui la nozione di fides. 2. Che il percorso non sia lineare, né dal punto di vista della qualità culturale né da quello dell’atteggiamento intellettuale, è dimostrato proprio dal pezzo di apertura obbligato, il Liber de amicitia scritto intorno al 1205 dal dettatore e maestro di retorica Boncompagno da Signa6. Trovano

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4 Cfr. la relazione di E. Pasquini in questo volume e, dello stesso autore, le voci amica, amicizia, amico, amistà, amistanza, in Enciclopedia dantesca, I, Roma 1970. In generale, per il linguaggio poetico del Duecento, J. Schulze, Amicitia vocalis. Sechs Kapitel zur frühen italienischen Lyrik mit Seitenblicken auf die Malerei, Tübingen 2004. Il tema ha assunto particolare rilievo negli studi guittoniani, da C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966 (capitoli I e II della terza parte) fino a H. Wayne Storey, Guittone e la societas amicorum: i due “tempi” della lettura del De amicitia, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cur. M. Picone, Firenze 1995, pp. 53-70. 5 Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010 (= «Arzanà», 13 [2010]), in cui interessano particolarmente il nostro discorso, oltre all’introduzione della curatrice, questi interventi: P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la concordia civium. Le Favolello de Brunet Latin [et une nouvelle source du Tresor], pp. 55-108 (la fonte per i capp. 105 e 106 del secondo libro del Tresor, cioè il cap. 33 del Liber de amicitia di Boncompagno da Signa, è già segnalata in Artifoni, Segreti e amicizie cit., p. 271 nota 24); C. Le Lay, La consolation par la citation: la lettre de Guittone d’Arezzo à un ami ruiné (Lettre III), pp. 109-128; A. Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» [LX.3]. Amicizia, precettistica erotica e cultura podestarile-consiliare nel Fiore, pp. 137-170. 6 Edizioni: “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (da cui citerò in seguito, con introduzione ancora utile); il testo Nathan è riprodotto, con lievi correzioni, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia, introduzione di M. Baldini, traduzione e note di C. Conti, Signa 1999 (edizione poco diffusa e fuori commercio, fornita di ottime note). La bibliografia sull’opera non è troppo estesa; per limitarci a voci relativamente recenti: G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, [1960], ora in Il pensie-


AMICIZIA E CITTADINANZA NEL DUECENTO

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giustificazione le lettureinternazionale che hanno visto Ascoli nel LiberPiceno un catalogo Atti del premio - IIIanticiceroserie niano e alquanto pessimista delle specie dell’amicizia, o quelle che l’hanno considerato soprattutto nel suo ruolo di fornitore di molti materiali al Favolello di Brunetto Latini. Rimane che il lavoro di Boncompagno è una Cecco d’Ascoli. Culturaascienza politica nell’Italia del Trecento. Atti delassurdo convemacchina culturale moltee dimensioni. Certamente, sarebbe gno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionegarlo, propone una tipologia gustosa. Non c’è dubbio che la descrizione naleventisei Ascoli genera Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo fedele dei Capitani, 2-3eguale, dicembre 2005), a di amicorum, dall’amico a quello dall’amico cura di A. Rigon (2007), pp. 362, tavv. 27. sofistico a quello versipelle, passando per l’amico ventoso, il vitreo e il ferreo dimenticare futile, il condizionale e l’amico di ventura Festasenza e politica della festailnel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi(mi in fermo a dieci per brevità), non c’è dubbio, dicevo, che questa descrizione occasione della XVIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli sia difficile da dimenticare. un’idea, proviamo per Piceno, Palazzo dei Capitani,Per 1-2 avere dicembre 2006), a cura dia moltiplicare A. Rigon (2008), ventisei pp. 271. l’energia definitoria impiegata per l’amico altezzoso, colui - dice Boncompagno - che sembra portare nel naso dei granelli di senape, per cui 7 L’età che dei processi. e condanne tra politica e ideologia nel ’300. all’amiAtti del ; oppure quella applicata pare gli puzziInchieste l’amicizia di chiunque convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio co mercantesco, che elargisce a piene mani per mostrare liberalità mainterspenazionale Ascoli Piceno raddoppiato: (Ascoli Piceno,in Palazzo dei Capitani, 30 i novembrerando in un tornaconto un tripudio elencatorio vari amici 1 dicembre 2007), a cura di A. Rigon - F. Veronese (2009), pp. 404. mercanteschi donano elefanti, cammelli, cavalli, orsi, bestie e uccelli, anelCondannare all’oblio. Pratiche della Damnatio memoriae nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre ro e l’opera di Boncompagno da Signa, cur. Baldini, Signapp. 2002, pp. 67-77; M. Gallina, 2008), a cura di I. Lori Sanfilippo - A.M. Rigon (2010), 254.

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L’amicizia tradita, ovvero la prigionia in Monferrato di un sovrano bizantino nell’Amicitia di Boncompagno da vox Signa, ora in Gallina, Conflitti di e coesistenza nel Mediterraneo Fama e publica nel[1990], Medioevo. Atti del convegno studio svoltosi in occasiomedievale: mondo bizantino e Occidente latino, Spoleto 2003, pp. 221-248; G. Fasoli, ne della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp. 317-330; M. Baldini, Introduzione, in (2011), pp. 271, ill. L’Amicizia cit., pp. 9-33; P. Garbini, L’amicizia in palio, il campioBoncompagno da Signa, ne di nuoto e l’azzardo: sport e gioco in Boncompagno da Signa, «Ludica», 8 (2002), pp. 163Parole realtà Good dell’amicizia Atti convegno di studio svoltosi 167; M. eDunne, Friends ormedievale. Bad Friends? Thedel Amicitia of Boncompagno da Signa, in in Amor amicitiae: the Love that isdel Friendship. in MedievalAscoli Thought and Beyond in occasione dellaOn XXII edizione PremioEssays internazionale Piceno (Ascoli Honor the Rev. Professor James McEvoy, cur. T.A.F. Kellya -cura P.W. Rosemann, 2004,Piceno,of Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010), di I. Lori Leuven Sanfilippo pp. 147-166; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia A. Rigon (2012), pp. 292, ill. comunale, Bologna 2004, pp. 399-400; Artifoni, Segreti e amicizie cit.; Gasparini, L’amitié comme fondement cit. Oltre che nel saggio citato sopra, ha dedicato in più luoghi pagine importanti all’Amicitia Paolo Garbini, del quale si vedano per i riferimenti completi le introduzioni a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, ed. P. Garbini, Roma 1996, a Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, ed. P. Garbini, Roma 1999 e a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii. Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, ed. P. Garbini, Firenze 2004. Anche se citerò dalle edizioni a stampa, segnalo l’utile sito Medieval Diplomatic and the ‘Ars dictandi’, curato da S.M. Wight, contenente tutte le opere di Boncompagno secondo varie edizioni <http://scrineum.unipv.it/ wight/wight.htm>. 7 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 25, p. 63: «De superstitioso amico. Superstitiosus amicus in naribus defert spiritum et sinapim, unde quorumlibet amicitia sibi fetere videtur, et ex quodam arrogantie fastu cuilibet superesse laborat, nam omnibus detrahit, cunctos deridet, mores alienos reprehendit et suos commendat».


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ENRICO ARTIFONI

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so ciceroniana (il Laelius de amicitia) ma altrettanto spesso biblica, sentenziosa, esemplare, senza dimenticare gli umili testi dell’alfabetizzazione latina di base, tra cui emergono i Disticha Catonis, letteralmente onnipresenti; il tutto raccolto in scritture didattiche in prosa che non mancano mai di insegnare, fra molte altre cose, secondo quali modalità è opportuno che si sviluppi amicizia fra gli uomini. Escludo dunque i testi in versi, di cui in questo incontro si parla con la competenza che è necessaria4. Anche se un numero recentissimo della rivista «Arzanà», dedicato proprio a Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, ha affrontato in parte questa produzione didattica5, qualcosa rimane da dire, e cercherò di farlo sottolineando due punti, tenendomi sempre nella prospettiva del rapporto fra amicizia e cittadinanza: la riflessione sull’amicizia sullo sfondo di una storia dei gruppi intellettuali duecenteschi; la capacità dell’amicizia di disporsi in rapporto con altri luoghi sensibili della cultura civica, tra cui la nozione di fides. 2. Che il percorso non sia lineare, né dal punto di vista della qualità culturale né da quello dell’atteggiamento intellettuale, è dimostrato proprio dal pezzo di apertura obbligato, il Liber de amicitia scritto intorno al 1205 dal dettatore e maestro di retorica Boncompagno da Signa6. Trovano

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4 Cfr. la relazione di E. Pasquini in questo volume e, dello stesso autore, le voci amica, amicizia, amico, amistà, amistanza, in Enciclopedia dantesca, I, Roma 1970. In generale, per il linguaggio poetico del Duecento, J. Schulze, Amicitia vocalis. Sechs Kapitel zur frühen italienischen Lyrik mit Seitenblicken auf die Malerei, Tübingen 2004. Il tema ha assunto particolare rilievo negli studi guittoniani, da C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966 (capitoli I e II della terza parte) fino a H. Wayne Storey, Guittone e la societas amicorum: i due “tempi” della lettura del De amicitia, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cur. M. Picone, Firenze 1995, pp. 53-70. 5 Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010 (= «Arzanà», 13 [2010]), in cui interessano particolarmente il nostro discorso, oltre all’introduzione della curatrice, questi interventi: P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la concordia civium. Le Favolello de Brunet Latin [et une nouvelle source du Tresor], pp. 55-108 (la fonte per i capp. 105 e 106 del secondo libro del Tresor, cioè il cap. 33 del Liber de amicitia di Boncompagno da Signa, è già segnalata in Artifoni, Segreti e amicizie cit., p. 271 nota 24); C. Le Lay, La consolation par la citation: la lettre de Guittone d’Arezzo à un ami ruiné (Lettre III), pp. 109-128; A. Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» [LX.3]. Amicizia, precettistica erotica e cultura podestarile-consiliare nel Fiore, pp. 137-170. 6 Edizioni: “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (da cui citerò in seguito, con introduzione ancora utile); il testo Nathan è riprodotto, con lievi correzioni, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia, introduzione di M. Baldini, traduzione e note di C. Conti, Signa 1999 (edizione poco diffusa e fuori commercio, fornita di ottime note). La bibliografia sull’opera non è troppo estesa; per limitarci a voci relativamente recenti: G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, [1960], ora in Il pensie-


AMICIZIA E CITTADINANZA NEL DUECENTO

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giustificazione le letture che hanno visto nel Liber un catalogo anticiceroniano e alquanto pessimista delle specie dell’amicizia, o quelle che l’hanno considerato soprattutto nel suo ruolo di fornitore di molti materiali al Favolello di Brunetto Latini. Rimane che il lavoro di Boncompagno è una macchina culturale a molte dimensioni. Certamente, sarebbe assurdo negarlo, propone una tipologia gustosa. Non c’è dubbio che la descrizione di ventisei genera amicorum, dall’amico fedele a quello eguale, dall’amico sofistico a quello versipelle, passando per l’amico ventoso, il vitreo e il ferreo senza dimenticare il futile, il condizionale e l’amico di ventura (mi fermo a dieci per brevità), non c’è dubbio, dicevo, che questa descrizione sia difficile da dimenticare. Per avere un’idea, proviamo a moltiplicare per ventisei l’energia definitoria impiegata per l’amico altezzoso, colui - dice Boncompagno - che sembra portare nel naso dei granelli di senape, per cui pare che gli puzzi l’amicizia di chiunque7; oppure quella applicata all’amico mercantesco, che elargisce a piene mani per mostrare liberalità ma sperando in un tornaconto raddoppiato: in un tripudio elencatorio i vari amici mercanteschi donano elefanti, cammelli, cavalli, orsi, bestie e uccelli, anel-

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ro e l’opera di Boncompagno da Signa, cur. M. Baldini, Signa 2002, pp. 67-77; M. Gallina, L’amicizia tradita, ovvero la prigionia in Monferrato di un sovrano bizantino nell’Amicitia di Boncompagno da Signa, [1990], ora in Gallina, Conflitti e coesistenza nel Mediterraneo medievale: mondo bizantino e Occidente latino, Spoleto 2003, pp. 221-248; G. Fasoli, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp. 317-330; M. Baldini, Introduzione, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia cit., pp. 9-33; P. Garbini, L’amicizia in palio, il campione di nuoto e l’azzardo: sport e gioco in Boncompagno da Signa, «Ludica», 8 (2002), pp. 163167; M. Dunne, Good Friends or Bad Friends? The Amicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship. Essays in Medieval Thought and Beyond in Honor of the Rev. Professor James McEvoy, cur. T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004, pp. 399-400; Artifoni, Segreti e amicizie cit.; Gasparini, L’amitié comme fondement cit. Oltre che nel saggio citato sopra, ha dedicato in più luoghi pagine importanti all’Amicitia Paolo Garbini, del quale si vedano per i riferimenti completi le introduzioni a Boncompagno da Signa, Rota Veneris, ed. P. Garbini, Roma 1996, a Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, ed. P. Garbini, Roma 1999 e a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii. Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, ed. P. Garbini, Firenze 2004. Anche se citerò dalle edizioni a stampa, segnalo l’utile sito Medieval Diplomatic and the ‘Ars dictandi’, curato da S.M. Wight, contenente tutte le opere di Boncompagno secondo varie edizioni <http://scrineum.unipv.it/ wight/wight.htm>. 7 “Amicitia” di maestro Boncompagno cit., cap. 25, p. 63: «De superstitioso amico. Superstitiosus amicus in naribus defert spiritum et sinapim, unde quorumlibet amicitia sibi fetere videtur, et ex quodam arrogantie fastu cuilibet superesse laborat, nam omnibus detrahit, cunctos deridet, mores alienos reprehendit et suos commendat».


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so ciceroniana (il Laelius de amicitia) ma altrettanto spesso biblica, sentenziosa, esemplare, senza dimenticare gli umili testi dell’alfabetizzazione latina di base, tra cui emergono i Disticha Catonis, letteralmente onnipresenti; il tutto raccolto in scritture didattiche in prosa che non mancano mai di insegnare, fra molte altre cose, secondo quali modalità è opportuno che si sviluppi amicizia fra gli uomini. Escludo dunque i testi in versi, di cui in questo incontro si parla con la competenza che è necessaria4. Anche se un numero recentissimo della rivista «Arzanà», dedicato proprio a Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, ha affrontato in parte questa produzione didattica5, qualcosa rimane da dire, e cercherò di farlo sottolineando due punti, tenendomi sempre nella prospettiva del rapporto fra amicizia e cittadinanza: la riflessione sull’amicizia sullo sfondo di una storia dei gruppi intellettuali duecenteschi; la capacità dell’amicizia di disporsi in rapporto con altri luoghi sensibili della cultura civica, tra cui la nozione di fides. 2. Che il percorso non sia lineare, né dal punto di vista della qualità culturale né da quello dell’atteggiamento intellettuale, è dimostrato proprio dal pezzo di apertura obbligato, il Liber de amicitia scritto intorno al 1205 dal dettatore e maestro di retorica Boncompagno da Signa6. Trovano

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4 Cfr. la relazione di E. Pasquini in questo volume e, dello stesso autore, le voci amica, amicizia, amico, amistà, amistanza, in Enciclopedia dantesca, I, Roma 1970. In generale, per il linguaggio poetico del Duecento, J. Schulze, Amicitia vocalis. Sechs Kapitel zur frühen italienischen Lyrik mit Seitenblicken auf die Malerei, Tübingen 2004. Il tema ha assunto particolare rilievo negli studi guittoniani, da C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966 (capitoli I e II della terza parte) fino a H. Wayne Storey, Guittone e la societas amicorum: i due “tempi” della lettura del De amicitia, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cur. M. Picone, Firenze 1995, pp. 53-70. 5 Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. Fontes Baratto, Paris 2010 (= «Arzanà», 13 [2010]), in cui interessano particolarmente il nostro discorso, oltre all’introduzione della curatrice, questi interventi: P. Gasparini, L’amitié comme fondement de la concordia civium. Le Favolello de Brunet Latin [et une nouvelle source du Tresor], pp. 55-108 (la fonte per i capp. 105 e 106 del secondo libro del Tresor, cioè il cap. 33 del Liber de amicitia di Boncompagno da Signa, è già segnalata in Artifoni, Segreti e amicizie cit., p. 271 nota 24); C. Le Lay, La consolation par la citation: la lettre de Guittone d’Arezzo à un ami ruiné (Lettre III), pp. 109-128; A. Montefusco, «Mostrando allor se.ttu.ssé forte e duro» [LX.3]. Amicizia, precettistica erotica e cultura podestarile-consiliare nel Fiore, pp. 137-170. 6 Edizioni: “Amicitia” di maestro Boncompagno da Signa, ed. S. Nathan, Roma 1909 (da cui citerò in seguito, con introduzione ancora utile); il testo Nathan è riprodotto, con lievi correzioni, in Boncompagno da Signa, L’Amicizia, introduzione di M. Baldini, traduzione e note di C. Conti, Signa 1999 (edizione poco diffusa e fuori commercio, fornita di ottime note). La bibliografia sull’opera non è troppo estesa; per limitarci a voci relativamente recenti: G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, [1960], ora in Il pensie-


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