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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D'ASCOLI”
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CECCO D'ASCOLI: CULTURA SCIENZA E POLITICA NELL’ITALIA DEL TRECENTO a cura di Antonio Rigon
Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno
Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-3 dicembre 2005
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2007
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III serie diretta da Antonio Rigon
Comune di Ascoli Piceno
Fondazione CARISAP
Istituto storico italiano per il medio evo
© Copyright 2007 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO
Redazione: CHIARA DI FRUSCIA, SILVIA GIULIANO, CLAUDIA GNOCCHI, ALESSANDRO PONTECORVI ISBN 978-88-89190-40-1 Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2007
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La Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno opera per la valorizzazione del territorio, una finalità chiaramente dichiarata all'interno del proprio Statuto, dove si afferma che la Fondazione “non ha fini di lucro e persegue esclusivamente per il territorio di propria competenza scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico”. Un obiettivo, d'altra parte, che si sviluppa intorno ad un costante e trasparente dialogo con il territorio, dei cui bisogni la Fondazione è espressione ed interprete, con la finalità di creare valore aggiunto attraverso le idee e la capacità di realizzarle.
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L’operare della Fondazione nel territorio e per il territorio trova evidenza e rispondenza nella sinergia con l'Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d'Ascoli”, di cui la Fondazione stessa è socia e finanziatrice. Attraverso l'Istituto e collaborando con lo stesso, la Fondazione sostiene la divulgazione e la promozione della cultura, nonché la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e folclorico del Piceno: da qui la volontà di sostenere il “Premio Internazionale Ascoli Piceno”, che ha conquistato un importante ruolo nei circuiti medievistici europei permettendo la diffusione del patrimonio locale in un vasto contesto di promozione e visibilità. Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
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Vent’anni fa, l’allora sindaco Gianni Forlini pensò di promuovere Ascoli, la sua storia, le sue bellezze monumentali con un premio di spessore internazionale che servisse a introdurre le cento torri nel panorama culturale internazionale. Nacque così il “Premio Internazionale Ascoli Piceno”, con la presenza di autorevoli studiosi di rilevanza internazionale: Jacques Le Goff, Elèmire Zolla, Franco Cardini. In questi vent’anni il Premio ha costantemente proposto momenti di assoluto valore, mantenendo sempre ad altissimo livello l’impostazione originaria, diventando un appuntamento d’obbligo per la medievistica. Oggi aggiungiamo un ulteriore, prestigioso tassello a questo impegno culturale. Diamo alle stampe, infatti, gli atti relativi alla XVII edizione del Premio dedicato alla figura di Cecco d’Ascoli: Cecco d’Ascoli. Cultura, scienza, e politica nell’Italia del Trecento. È il primo volume della nuova collana “Atti del Premio Internazionale Ascoli Piceno” aperta presso il prestigioso Istituto storico italiano per il medioevo di Roma. Un’ulteriore, prestigiosa vetrina per la nostra città, che conserva appieno il suo impianto urbanistico medievale tanto da farne un unicum a livello regionale e nazionale. Ed è in questa ambientazione che va in scena il “Premio internazionale Ascoli Piceno”, che tanto lustro ha dato e dà alla nostra città, consentendo l’analisi e l’approfondimento di un’età quanto mai affascinante quale il Medioevo. «Un periodo – come ha scritto Jacques Le Goff – vitale, di grande progresso, un periodo tutt’altro che buio, anzi meravigliosamente colorato. Un mondo molto concreto ma anche straordinariamente capace di sognare». il Sindaco (Dr. Ing. Piero Celani)
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A nome dell’Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” porgo il saluto deferente e cordiale a tutte le autorità, ai relatori e agli studiosi presenti a questa seduta inaugurale delle giornate di studio su Francesco Stabili, che si svolgono in occasione della XVII edizione del “Premio Internazionale Ascoli Piceno”. Intendo, poi, esprimere subito la mia soddisfazione nel vedere nella sala un uditorio così numeroso, come raramente mi era capitato di scorgere nei precedenti convegni. Oltre a confermare il forte vincolo della città con l’Istituto e a ribadire il noto legame sentimentale degli Ascolani con le proprie tradizioni storiche e culturali, tante e qualificate presenze evidenziano, da un lato, il notevole interesse suscitato dal tema del convegno di quest’anno e, dall’altro, l’autorevolezza dei relatori. Simili constatazioni mi obbligano ad esprimere la mia gratitudine e quella dell’Istituto a tutti i membri del Comitato Scientifico - Giuria e in modo particolare al suo Presidente, Prof. Antonio Rigon, per aver ideato e predisposto due giornate di studio di notevole spessore scientifico, che costituiscono un momento significativo della storia dell’Istituto che mi onoro di rappresentare (è, infatti, la prima volta che il congresso annuale è dedicato all’eponimo). Come lascia arguire il programma dei lavori, il convegno non è stato organizzato con intenti celebrativi, ma con la duplice finalità di fare il punto degli studi sul rimatore e astrologo ascolano e, soprattutto, di mettere a fuoco le ambiguità e le congetture della vita e delle opere di Cecco d’Ascoli, un personaggio difficile, impregnato, come pochi, dello spirito e delle cultura del Medioevo, sbozzato ma non rifinito dalla moderna critica letteraria e scientifica. Sono sicuro che, al termine dei lavori, grazie alla sistematicità degli interventi e all’alta preparazione dei relatori, avremo una maggiore conoscenza dello Stabili, ma anche – elemento tutt’altro che marginale nello specifico – dei rapporti degli intellettuali con il potere nel Trecento. Nel concludere, voglio rinnovare i ringraziamenti più cordiali ai relatori per la collaborazione che si accingono a dare ai lavori del convegno e al pubblico che, con la sua presenza, conferma la validità dell’Istituto e delle sue proposte culturali.
Giannino Gagliardi (ex presidente I.S.S.M. “Cecco d’Ascoli”)
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Eccellenza, autorità, illustri colleghi, gentili signore e signori,
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A tre anni dall’ultima edizione, il Premio internazionale Ascoli Piceno torna ad essere assegnato e si tiene il convegno di studi medievali ad esso tradizionalmente abbinato. La pausa ha consentito un’opportuna riflessione sull’esperienza passata, l’avvicendamento dei membri della Giuria del Comitato scientifico, l’avvio di un necessario chiarimento sulle difficoltà che hanno via via reso arduo e alla fine hanno inceppato un cammino felicemente intrapreso vent’anni fa. Quelle difficoltà, che pure hanno steso un’ombra anche su questo convegno, alla fine sono state superate, e sono lieto di potere dire che, se questa manifestazione oggi si tiene, lo si deve all’impegno, al senso di responsabilità, alla passione di chi ama questa città e crede in ciò che veramente conta, in ciò che veramente vale, in ciò che veramente resta. E ciò che conta, ciò che vale, ciò che resta è lo spessore culturale di un’iniziativa che, al di là della pur utile e sempre gradita pubblicità, ha in sé, e nel valore scientifico della propria proposta, la forza promozionale a favore di Ascoli e del suo territorio. Abbiamo alle spalle un patrimonio singolare, una ricca galleria di studiosi e di intellettuali di altissimo prestigio che hanno onorato gli studi medievali e che Ascoli, città medievale, ha onorato con il Premio. Ma soprattutto possiamo contare su una serie di ricerche, raccolte nei dodici volumi di Atti del Premio, che con vivacità hanno permesso di compiere un affascinante viaggio attorno al medioevo, soprattutto lungo i percorsi della storia della storiografia e della riflessione sul concetto stesso di medioevo (convegni del 1988, 1989, 1996), e lungo quelli dell’agiografia, della storia della cultura e della mentalità religiosa (convegni del 1991, 1997, 1999, 2000, 2001). Più timide e sporadiche aperture ci sono state sul versante della storia cittadina (tranne il convegno del 1998 sugli statuti del XIV secolo). Per l’evidente preoccupazione di cadere in una storia locale malintesa si è preferito
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proiettare Ascoli su uno scenario un po’ astrattamente mondiale o calarla, in maniera sfumata e indistinta, nella realtà regionale piuttosto che approfondire la conoscenza dell’identità storica della città. Eppure nella storia delle città - asse portante della storia d’Italia - Ascoli ha un posto di sicuro interesse storiografico, come centro di frontiera, cerniera fra Stato della Chiesa e Regno, ai margini di grandi formazioni politiche connotate in modo differente, protagonista di un’esperienza pienamente e lungamente comunale, con sporadiche e deboli affermazioni di governo signorile, e in ciò diversa da altre città della Marca «terra di signori». Tra di esse, nei decenni a cavallo del Due e Trecento, Ascoli si distinse per consistenza demica (25000 abitanti circa), per fioritura urbanistica ed edilizia, per una forte espansione economica fondata su attività mercantili e manifatturiere più che su risorse agricole, ed infine per aver dato i natali a figure di spicco della cultura laica e religiosa. La Ascoli della seconda metà del XIII secolo e degli inizi del XIV è la città di Agostino, maestro in teologia, reggente dello studio di Padova, confessore apostolico, autore di commentari sulla Fisica di Aristotele e sulle Sentenze di Pietro Lombardo; di Girolamo Masci poi papa Nicolò IV, che volle istituire uno Studium ove, stando agli Statuti ascolani del 1377, si insegnavano diritto canonico, diritto civile, medicina. È infine la città di Francesco Stabili: Cecco d’Ascoli. Da lui, riprendendo un’idea già discussa all’interno del passato comitato scientifico, si riparte e prende il via la nuova serie di convegni. Conosciuto per la polemica su Dante, per la tragica morte sul rogo, che finì col farne una sorta di martire del libero pensiero, per essere l’autore dell’“Acerba”, summa enciclopedica in versi del sapere e delle conoscenze scientifiche del tempo, Cecco fu un protagonista della cultura trecentesca e del travaglio di quel secolo in bilico tra medioevo ed età nuova. Si può discutere - e si discuterà - sul valore dell’“Acerba”, e in particolare sulla sua qualità poetica; certo è, tuttavia, che quest’opera dal titolo misterioso (“Acerba vita”: immatura? dura?), sulla quale continuano ad affaticarsi studiosi di tutto il mondo, ebbe una straordinaria fortuna, attestata dalle decine e decine di manoscritti e poi di opere a stampa circolanti in Europa: una ricchezza di testimoni che, come è noto, rende da sempre assai ardua un’edizione critica. Al di là della possibilità o meno di realizzare quest’impresa (compito degli specialisti), sul piano storico una diffusione tanto capillare non può giustificarsi se non con le risposte che nell’autunno del medioevo i contenuti dell’opera dell’Ascolano sembravano poter dare alle domande di conoscenza e di senso, nella prospettiva di una scienza magica e sperimentale che si misurava con la cosmologia e l’astronomia, la medicina e l’arte sanitaria, l’astrologia e il mondo della natura e dei simboli.
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Quei contenuti e quelli delle altre opere dello Stabili, in particolare il Tractatus in Sphaeram, commento all’opera dell’astronomo e astrologo inglese John Halifax Holywood (Sacrobosco), lo portarono sul rogo a Firenze nel 1327. Cecco non fu il solo uomo di scienza a subire quella sorte: in quel giro di anni bruciarono a Padova le spoglie riesumate di Pietro d’Abano, uno dei grandi magistri di quell’Università ove, fra Due e Trecento, prendeva vita una illustre tradizione scientifica italiana. Nell’epoca dei grandi processi che coinvolsero interi ordini religiosi, nobili casate, uomini di scienza e umili frati colpevoli di proclamare la povertà di Cristo e degli Apostoli, l’azione inquisitoriale contro Cecco d’Ascoli fu uno dei punti di arrivo di un lungo cammino di contrasto e di repressione del dissenso da parte delle autorità ecclesiastiche e del Papato, con finale enfatizzazione della minaccia stregonica e assimilazione della divinazione e della negromanzia all’eresia. Non si dimentichi che proprio nel 1326, con la costituzione Super illius specula, Giovanni XXII aveva autorizzato l’adozione della procedura inquisitoriale contro le streghe. Ma nei confronti dello Stabili pesarono non soltanto le accuse di pratiche magiche e divinatorie. Alla sua rovina concorsero anche motivazioni politiche: l’essere alla fine risultato sgradito con i suoi oroscopi al potere, in specie quello rappresentato in Firenze dal duca di Calabria. A questi temi è dedicato il convegno, che, su richiesta degli Ascolani, il comitato scientifico che mi onoro di presiedere ha organizzato. Articolato in tre sezioni (Il letterato, L’uomo di scienza, Cecco e il potere), e chiuso da una tavola rotonda su «Intellettuali e potere nel Trecento», esso darà modo agli studiosi qui convenuti, che cordialmente ringrazio, di approfondire linee di ricerca già consolidate o di aprire piste nuove di indagine. Cecco d’Ascoli, la sua opera, la sua umana vicenda, pur ancorati al contesto culturale, politico, religioso del Due-Trecento, sollevano problemi universali: il rapporto tra scienza e fede, l’uomo di fronte al cosmo, l’uomo di fronte alla natura, l’uomo di fronte alla morte. A che serve guardare al passato, a questo passato? Un po’ a sorpresa la domanda mi fu posta quando, partendo dal progetto di questo convegno, avanzai la possibilità di farne il primo gradino per una futura e aggiornata storia di Ascoli, in uno o più volumi, della quale pur ci sarebbe bisogno. Perché mai? A che serve la storia? Marc Bloch, uno dei più grandi storici del secolo scorso, per rispondere ad una simile domanda, postagli dal giovane figlio, scrisse l’Apologia della storia. Potrei limitarmi a rimandare a quell’aureo libretto la cui lettura è sempre consigliabile, anche per la tensione morale e la passione civile
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che lo animano. Non voglio però eludere la questione e, riferendola al contesto specifico nel quale quella domanda mi fu posta (utilità di parlare ancora di Cecco, utilità di un’opera sulla storia di Ascoli), mi pare di poter dire che i processi di globalizzazione, oggi più che mai, impongono a ogni realtà di riflettere su se stessa e sulla propria identità per misurarsi consapevolmente con la contemporaneità e, nel confronto con le infinite identità locali in Europa e nel mondo, recare il contributo della propria tradizione e della propria cultura. Siamo studiosi, la nostra professione è la ricerca. Siamo convinti che, al di là di ogni proclamazione teorica e di ogni propaganda più o meno rumorosa, attraverso la ricerca non fine a se stessa ma posta al servizio delle persone e della comunità, si possa fornire un apporto importante alla crescita comune. Lungi dall’isolarci facciamo appello a tutte le istituzioni della città e alle persone di buona volontà per camminare assieme e, assieme, mirare a questo scopo. È con questo spirito che ringrazio quanti, pur tra mille difficoltà, dovute in parte anche alla congiuntura economica del nostro Paese, hanno contribuito alla realizzazione di questo convegno. Grazie, dunque, all’Istituto superiore di studi medievali e al suo presidente, all’Amministrazione Comunale e al sindaco, che con grande sensibilità ci è stato sempre vicino, alla Provincia di Ascoli, alla Camera di Commercio, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno che si è assunta l’onere finanziario maggiore, giustamente reclamando per l’iniziativa, tramite il suo presidente, il massimo di professionalità e il massimo di visibilità a vantaggio di Ascoli e del suo territorio. Un ringraziamento particolare devo infine rivolgere alla dottoressa Calilli: senza la sua dedizione, la sua determinazione, il suo impegno questo convegno forse non si sarebbe potuto organizzare. Il trittico entro il quale sono raccolti e distribuiti gli interventi prefigura quello che potrebbe diventare (il condizionale è d’obbligo) la linea guida e il fondamento culturale della futura attività: cultura e politica, calate nel vivo delle istituzioni e della società medievale; incontro di studiosi di formazione diversa; valorizzazione della città e del territorio di Ascoli Piceno. Con la speranza che si possa veramente andare verso questa direzione e con l’augurio di buon lavoro a tutti apro il convegno e chiamo a presiedere la prima sessione Fulvio Brugnolo, professore ordinario di Filologia romanza e caro collega nell’Università di Padova.
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Dei sonetti di Cecco si parla di norma fuggevolmente, sommersi come sono per quantità e interesse dai versi dell’Acerba; se ne parla magari per sottolinearne il carattere tangenziale rispetto all’opera maggiore, come recentemente proprio Claudio Ciociola, che ricorda Cecco quale «titolare anche di uno sparuto manipolo di sonetti, due dei quali in corrispondenza con Cino da Pistoia»1. Oppure, altre volte, come il sottoscritto una trentina d’anni fa2 e più recentemente Marco Santagata3, per estrarne qualche traccia di possibili rapporti con Petrarca. In quest’occasione ne farò invece l’oggetto privilegiato dell’indagine, sia per tentare di fissarne più precisamente il corpus, sia per comprenderne le relazioni con l’opera maggiore e gli auctores di Cecco, e ricavarne magari qualche indicazione sul modus operandi del «grande Ascolan che tutto il mondo alluma», come all’incirca suonava un sonetto a lui rivolto nientemeno che da Petrarca, secondo una testimonianza manoscritta, per la verità poco attendibile4. I sonetti si leggono riuniti, «con indebite giunte», chiosava Ciociola nell’occasione già ricordata5, nell’edizione dell’Acerba a cura di Pasquale Rosario6. Sono i seguenti: 1) Chi solvere non sa nè [sic] assottigliare;
1 C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, II: Il Trecento, Roma 1995, pp. 327-454: 432. 2 R. Antonelli, Rima equivoca e tradizione rimica nella poesia di Giacomo da Lentini, 1. Le canzoni, «Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani», 13 (1977), pp. 20-126, specialmente pp. 109-111. 3 M. Santagata, Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna 1990, in particolare pp. 223-246. 4 Antonelli, Rima equivoca cit., p. 110 e nota 137. 5 Ciociola, Poesia gnomica cit., p. 432 nota 236. 6 Cecco d’Ascoli, L’Acerba, a cura di P. Rosario, Lanciano 1916.
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2) Di ciascheduna mi mostra la guida, in risposta a Cino da Pistoia, Cecco, i’ ti prego per virtù di quella; 3) La ’nvidia a me à dato sì de morso, pure indirizzata a Cino, secondo l’unico ms. relatore (Magliabechiano 991. CL. VII) utilizzato dal Rosario; 4) Tu vien da lunge con rima balbatica, indirizzato a Dante nell’edizione Rosario, che però ricorda in nota la diversa attribuzione di altri codici e il relativo dibattito;
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5) Io solo sono in tempestati fiumi, in risposta a Petrarca, si diceva, Tu se’ ’l grande Ascolan che ’l mondo allumi secondo l’edizione Rosario, che però anche in questo caso ricorda la diversa attribuzione, contenuta in altri testimoni, della proposta “petrarchesca” e le diverse ipotesi formulate al riguardo;
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6) I’ non so ch’io mi dica, s’io non taccio, secondo il ms. Riccardiano 1103, pure indirizzato a Petrarca secondo Rosario, che ricorda la connessione già precedentemente stabilita col sonetto Pace non trovo, e non ho da far guerra di Petrarca. Non affronterò analiticamente il problema della paternità dei sonetti 1, 4 e 6. L’unico che meriterebbe ancora molte attenzioni, ma in altra sede, è in realtà il primo, Chi solvere non sa nè [sic] assottigliare, proprio per le sue caratteristiche così vicine agli interessi “naturali” di Cecco, eppure così lontano dagli altri attribuibili con certezza allo stesso Cecco. Degli altri due, l’unico appiglio per l’attribuzione a Cecco del sonetto 4, Tu vien da lunge con rima balbatica, tutto in rime sdrucciole, è la testimonianza del ms. della Stadtbibliothek di Trier 2285/2226 (già 289 della Biblioteca Boncompagni di Roma, descritto da Enrico Narducci7), in risposta ad un altro sonetto attribuito erroneamente a Dante, Cecco, io son qua giunto in terra acquatica, escluso ancora recentemente anche dalle rime dubbie nell’edizione curata da Domenico De Robertis ed attribuito altrove a Ventura Monachi o a Giovanni di Lambertuccio Frescobaldi8.
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Catalogo dei manoscritti ora posseduti da D. Baldassarre Boncompagni, compilato da E. Narducci, Roma 1892. 8 Dante Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, voll. 3, I/2: I documenti, Firenze 2002, pp. 662-663.
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Per il sesto, I’ non so ch’io mi dica, le considerazioni già da me svolte9 sono state confermate anche da Santagata10; posso aggiungere che ad un esame appena più ravvicinato, non c’è praticamente nessuno stilema (a comiciare dall’empio laccio di v. 5), rimante o serie rimica, che non rimandi a Petrarca, a cui per primo risalgono alcuni elementi rimici caratteristici, a cominciare da –arme, assolutamente senza precedenti prima di ser Francesco, che è l’unico, con Cecco, a utilizzare come rimante farme (cui Cecco aggiunge guidarme e contentarme, senza altri riscontri altrove), come, pur non essendo unico, utilizza il binomio manto : canto di Cecco in modo assolutamente specifico nella storia rimica due- e trecentesca.
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È sempre stata invece tranquillamente accettata la paternità di Cecco per i sonetti 2, 3 e 6: il n. 2, in special modo ha goduto anche di edizioni particolari11. La struttura metrica di Di ciascheduna accoglie ovviamente la proposta di Cino (A B A B, B A B A; C D D, C D D), con inversione di A e B nella seconda quartina, ma in qualche modo sottolinea la coscienza della novità della proposta metrica ciniana, poiché a sua volta inverte l’ordine delle rime proposto da Cino per l’ottetto e da ella, ida passa a ida, ella. Cino nella proposta a Cecco realizza un ottetto senza precedenti nella lirica duecentesca (Stil nuovo compreso), che sarà poi ripreso invece da Petrarca (i nn. 7 e 8 del repertorio di Massimo Zenari12) in due sonetti del Canzoniere, nessuno dei quali però con lo stesso sestetto di Cino e Cecco, ma con il più consueto C D C, D C D e il relativamente innovativo C D E, D C E. Il sestetto di Cino e Cecco rimarrà anzi un elemento eccezionale: ne conosco un solo altro esemplare, in Onesto da Bologna, ma, ovviamente, con diverso ottetto. È un elemento che va sottolineato, poiché da una parte testimonia in qualche modo una rivendicazione “autonomistica” di Cecco rispetto al proponente, non del tutto consueta nel genere “tenzone”, e dall’altra congiunge risolutamente la tenzone a Petrarca, che già per elementi interni era stato indicato (da me) come possibile ma non certo lettore del sonetto di Cecco e (da Santagata) come sicuro lettore del sonetto ciniano. Ora si aggiunge un altro elemento, macrostrutturale, che rende meno problematica la derivazione petrarchesca della rima equivoca su no-
9 Antonelli, Rima equivoca cit., p. 110. 10 Santagata, Per moderne carte cit., pp. 234-236. 11 Cfr. ad esempio Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Firenze 1969, pp. 802-
803.
12 M. Zenari, Repertorio metrico dei “Rerum vulgarium fragmenta” di Francesco Petrarca, Padova 1999.
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ve di Cecco, in Di ciascheduna, vv. 10-13: Petrarca può certo aver “reinventato” lo stesso ottetto di Cino e Cecco ma è molto più economico pensare che ricordasse uno dei due sonetti, probabilmente tutti e due, data la loro natura di tenzone. Sarebbe naturalmente possibile pensare che potesse aver letto soltanto l’amato Cino, come dimostrato da Santagata13, ma non è così. Cecco oltre l’equivoca su nove (nei sonetti 42 e 43 dei Rerum vulgarium fragmenta, fra loro, e con 41, organicamente legati), che poteva lasciare qualche dubbio (peraltro già risolto positivamente da Santagata, ma su basi probabilistiche generali vs la mia prudenza), utilizza infatti nel suo sonetto un rimante forte, quasi fatidico, spetra (assente nel sonetto di Cino), mai impiegato da nessun altro poeta duecentesco, se ho visto bene, e che ritroviamo invece in Petrarca, come già la rima equivoca su nove. Spetra non per nulla in Petrarca sarà usata proprio nella canzone delle metamorfosi, la 23, prima canzone dei Rerum vulgarium fragmenta, una delle più antiche scritte dal poeta aretino per sua stessa dichiarazione nel codice degli abbozzi («est de primis inventionibus nostris»14), ma soprattutto canzone “canonica”, emblematica, poi citata nella canzone delle auctoritates, la 70 del Canzoniere, Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi. Che la direzione dell’influenza proceda senza alcun dubbio da Cecco a Francesco è dimostrato dalla data della canzone 23 Nel dolce tempo, collocabile al più presto, nella prima redazione, fra il 1327 e il 1334, dunque a Cecco già morto. Il rilievo è tanto più interessante poiché riguarda una rima fatidica della poesia dantesca e petrarchesca, connotativa di un genere e di filone amoroso, con una coscienza del suo senso che per la verità risulta più dal sonetto di Cecco che non dal più organico Cino. In Cecco infatti spetra, neologismo dunque non petrarchesco (come nei due ultimi e peraltro ottimi commenti al Canzoniere di Santagata15 e Rosanna Bettarini16), rima col dantesco impetra (usato solo in 14 casi, prima di Cecco), fortemente connotato di contro al più anodino, per quanto raro, tetra (solo al maschile in Dante). Cino insomma riprende ma innova, dimostrandosi ben consapevole della storia e degli usi rimici e linguistici della grande poesia contemporanea, perfino interpretandola ed estendendola su un registro, quello antonimico dell’emblematico petra, spetra, «che già non vide Dan-
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Santagata, Per moderne carte cit., pp. 232-233. Postilla 5: cfr. Francesco Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca - L. Paolino, Milano 1996, p. 842. 15 Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano 1996, p. 113. 16 Francesco Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di R. Bettarini, voll. 2, I, Torino 2005, p. 118.
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te», per dirla con lui (e sorprendentemente, potremmo aggiungere), e che invece il grande rielaboratore e legislatore aretino arpionerà e farà subito suo, proprio in coppia con petra. Cecco peraltro non innova soltanto nella serie rimica in –etra. Della rima A del sonetto ciniano di proposta (corrispondente, si ricordi, alla rima B di Cecco), giocata sulla serie quella : stella : bella : appella, mantiene il solo appella, per riprendere le altre rime, con ogni probabilità, dal suo abituale thesaurus, l’odioso-amato “rivale” Dante: favella : ella : (ri)novella (Paradiso, XXIV, 95 ss.). Sarebbe interessante, ma in questa sede fuori luogo, seguire la rima in –ella e lo sviluppo del binomio favella : ella, apparentemente così facile e banale ma in realtà così raro nella lirica precedente Cecco: scopriremmo anche per questa via percorsi che individuano ambiti semiorimici molto precisi, da Giacomo da Lentini a Guittone, a Cavalcanti, a Dante e Cino, e poi a Nicolò de’ Rossi e Petrarca. Rimane intanto il fatto che Dante appare, con un possibile precedente guittoniano17, l’unico testimone completo del trittico e che il movimento costruttivo di Cecco nella risposta a Cino sembra congiungere Dante al proponente, a partire, come quasi sempre, dalla Commedia; tranne pensare che Cecco proceda da un’innovazione autonoma (ipotesi alquanto antieconomica). È quanto sembra accadere, con ancora maggiore probabilità, per la rima B, ove alla serie della proposta ciniana guida : rida : sfida : grida, corrisponde, nella rima A della risposta, una serie in cui è conservato il solo rimante guida (in incipit, al primo posto, come nella serie B di Cino), mentre per le altre rime Cecco innova risolutamente con affida : annida : divida. Non c’è in realtà un luogo della poesia precedente in cui compaia l’intero trittico: è soprattutto irreperibile annida, salvo numerati casi, anche fuori rima (eccettuato Jacopone, che ogni tanto sembra affacciarsi negli usi di Cecco). Delle cinque occorrenze precedenti Cecco nella banca dati dell’OVI (Opera del Vocabolario Italiano), integrata da mie ricerche specifiche sui rimari (come del resto in tutti gli altri casi, a causa della parziale attendibilità dell’OVI), solo Dante ne risulta frequentatore, con due serie, fida : incida : annida (Inferno, XI, 53 ss.) e rida : annida : confida (Paradiso, XXIX, 116 ss.), forse all’origine della struttura di Cino e certamente di quella di Cecco, con l’eccezionale annida appaiato alla variante affida, secondo un movimento che ritroveremo in Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 360 Quell’antiquo mio dolce empio signore, vv. 70-71, annida : sfida (di nuovo un antonimo). Cecco però non dimenticherà il precedente
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La coppia ella : favella appare già nella canzone Ahi, Deo, che dolorosa, vv. 4 e 8: cfr. Le Rime di Guittone d’Arezzo, a cura di F. Egidi, Bari 1940.
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ciniano di grida, obliterato qui nella risposta; quando si troverà a ri-usare il rarissimo e peraltro evidentemente amato annida, nell’Acerba, vv. 2325232718, ricorderà forse nei recessi della memoria il precedente ciniano e l’accoppierà con grida: un dittico esclusivo di Cino e Cecco. Il che, sia detto en passant, rende certamente inaccettabile la lezione v’ancida proposta, senza giustificazione, nell’edizione Marti19. Non sembri tutto ciò un eccesso di zelo e un’eccessiva confidenza nella forza portante dei rimanti e delle serie rimiche: anche in questo caso la sequenza storica e l’ambiente semiorimico di riferimento non consentono grandi margini di dubbio: fra Dante, Cino, Cecco e Petrarca c’è contiguità e Cecco opera secondo modalità compositive, nel ri-uso, che testimoniano di una specifica cultura poetica che va al di là di Dante, con una notevole autonomia stilistica (si ricordi il caso spetra), e che coinvolgerà Petrarca, forse anche oltre quanto dimostrabile grazie alle sole relazioni biunivoche. Se infatti è ormai dimostrata la lettura dell’intera tenzone fra Cecco e Cino da parte di Petrarca, sarà anche lecito pensare che la lettura e il recupero di stilemi da parte dell’aretino possa coinvolgere anche luoghi di non esclusiva pertinenza del «grande Ascolan». A questo punto si può riprendere perfino il fascicolo dei rapporti fra Cecco e Giacomo da Lentini, già da me socchiuso in una notazione di alcuni anni fa: la cultura di Cecco si dimostra infatti più mossa e “originalmente” disposta di quanto non si potesse supporre nella lettura e nel ri-uso dei predecessori, forse anche al di là degli stessi Dante e Cino. Nell’ultima serie rimica della risposta a Cino, ovvero nei quattro rimanti in D, due, si è visto, sono rappresentati dalla rima equivoca in nove, il cui unico precedente risale appunto al Notaro20, Amor non vole, vv. 37-40: E·lle merzé siano strette, nulla parte non sian dette perché paian gioie nove: nulla parte sian trovate né dagli amador chiamate infin che compie anni nove.
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Al tempo guardavo con molta cautela e qualche scetticismo la possibilità di una lettura diretta di Giacomo da parte di Cecco, ricordando anche
18 Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002. 19 Poeti del Dolce stil nuovo cit., p. 802. 20 Antonelli, Rima equivoca cit., p. 104 ss.
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Intelligenza, 308, vv. 4-921, in analogo contesto cosmologico: «La ’Ntelligenza stando a Dio davanti, / a lo piacer di Dio li angeli move, / e gli angeli li ciel muovono quanti / che, co’ lo ’Mpirio, l’uom gli appella nove; / li ciel’ muovono le cose elementanti / e naturanti, che danno le piove; / e muovon la vertute alterativa, / e la vertute attiva e la passiva, / che fanno generar sì cose nuove». Malgrado il contesto latamente analogo, ma in realtà distante, oggi punterei con più sicurezza su Giacomo per indicare il possibile precedente memoriale di Cecco. Innanzitutto non è il solo rimante la parte in comune fra Giacomo e Cecco, ma l’intero sintagma finale, anni nove, ed è comune anche la iunctura dell’altra rima in coppia, gioie nove vs ricchezze nove, in perfetta sovrapponibilità dunque, in entrambi i casi. Ma ora è forse possibile aggiungere qualche altra suggestione, dall’Acerba, dove la rima pure equivoca su viso di vv. 1965-1967 è quantomeno di sicura ascendenza lentiniana, pur se mediabile da altri, e dove sono riprese altre coppie rimiche “inventate” da Giacomo, a volte quasi una firma d’autore: le banali amo: bramo, vv. 3337-3339 e vv. 4069-4071, como : nomo, vv. 4623-4624 e vv. 4746-4748 (già meno banale, seppure anche guittoniana); la derivativa, più volte replicata fiama : infiama, vv. 1347-1349; la rara crido : strido, vv. 2807-2809; l’equivoca turba vv. 2664-2667, preceduta, quale rima tecnica, dalla sola derivativa lentiniana turba : sturba; la rarissima e da Cecco amata airo/e : vairo/e, vv. 2203-2205, vv. 3182-3185, vv. 4028-4030 e vv. 42604262, iniziata con Giacomo Amando lungiamente, vv. 60-61. Infine, e non ultimo, accanto ad altre possibili suggestioni, un paragone certo non isolato nella poesia italiana del Due- e Trecento, la cui prima attestazione è di nuovo in Giacomo: Al cor m’ard’una doglia, com’ om che te·lo foco a lo suo seno ascoso, e quanto più lo ’nvoglia, tanto arde più loco e non pò star incluso.
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La forma lentiniana è l’unica che possa essere sovrapposta, in sede letteraria, all’Acerba 1703-1704: «Sì come il fuocho non si può cellare / tenendolo cellato nel suo seno», se non altro per la presenza di seno, ignoto a tutti i successori di Giacomo e il cui unico possibile precedente comune al
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L’Intelligenza. Poemetto anonimo del XIII secolo, a cura di M. Berisso, Parma 2000, con lievi ritocchi alla punteggiatura del passo citato.
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Notaro e a Cecco potrebbe semmai essere nella Bibbia (Proverbi, 6, 27): «Numquid potest homo abscondere ignem in sinu suo». Non insisto e mantengo ancora qualche riserva, ma credo che possa bastare per giustificare anche ulteriori e più approfondite analisi. Con l’Acerba, del resto, l’elenco delle letture di Cecco esplicitamente citate nel testo (come Guido Cavalcanti e Dante, addirittura con rimandi ad locum) si estenderebbe di parecchio, come è arcinoto: non è, dicevo all’inizio, mia immediata intenzione una ricognizione analitica dell’Acerba, ma ricorderò almeno, per citazione allusiva o evidente riecheggiamento, Guido Guinizzelli, Andrea Cappellano, l’onnipresente Cino (ovviamente), forse Guittone (non solo per la rarissima e certo non banale rima derivativa face : sface e famiglia, se non è implicato un altro siciliano, Jacopo Mostacci, primo proponente della rima tecnica) e perfino Jacopone. Ma torniamo ai sonetti. Abbiamo già visto che tra il sonetto di risposta a Cino e l’Acerba c’è contiguità (si ricordi annida e la stessa equivoca su nove, per comune riuso dello stesso auctor): è quanto risulta in modo addirittura eclatante per gli altri due sonetti di certa attribuzione. Per l’altro sonetto indirizzato a Cino, La ’nvidia a me à dato sì de morso, non possediamo il corrispettivo ciniano (se c’è stato) e non siamo quindi in grado di valutare comparativamente il senso della struttura di Cecco, ma anche in questo caso siamo di fronte ad una struttura eccezionale nell’ambito metrico due- e trecentesco: A B B A, A B B A; C D C, D E E, non registrata né presso i lirici duecenteschi, stilnovisti compresi, né poi presso Petrarca. È notevole perciò che in entrambi gli scambi con Cino (ammesso che anche questo sonetto sia parte di uno scambio epistolare) siano impiegate strutture molto innovative, in questo caso con particolare riferimento al sestetto. Si potrebbe pensare, nel caso del proponente Cino, ad un desiderio di stupire, di “derogare”, di fronte ad un personaggio anch’egli fuori del comune, ab-norme; ovvero, per questo secondo sonetto di Cecco, ad un analogo desiderio di confermarsi fuori dalle regole, “originale” e “autonomo”, come abbiamo in parte già notato anche per le scelte rimiche del primo sonetto. Le serie rimiche impiegate in La ’nvidia sono invece più scontate, poiché rimandano o a rime di largo uso (-ene con bene : spene : convene : mantene; -egno, con regno : malegno; -ace con giace : pace) o ad una serie, quella in –orso, non in sé frequentissima, ma ben nota alla Commedia dantesca (e già a Jacopone, poi a Nicolò de’ Rossi e, in variatio, a Petrarca, nel tipo con soccorso). In Dante ritroviamo la bina morso : corso (Purgatorio, III, 5 ss.) e morso : soccorso, con un terzo elemento variato: dunque Cecco anche in questo caso, se ha usufruito della Commedia, ha “composto” e incrociato più luoghi, come per la rima in –ene (mai nella stessa serie nei predecessori) e come per –egno, ove fonde due tipi in Dante ovviamente ben distinti, -egno e -igno, realizzan-
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do un altrimenti ignoto regno : malegno (ben presenti in Dante, anche nell’intero sintagma, questo regno, ma nelle rispettive rime, mai insieme), laddove nel tipo in -ace la coppia era già ben legittimata dall’uso dantesco. Proprio la rima “ascolana” in -egno / -egna (ben frequentata da Cecco, cfr. vv. 780-782, 3870-3872, 3886-3887, 4307-4311, 4851-4852) offre altri importanti elementi di riflessione, poiché i relativi versi (9 e 11) sono perfettamente sovrapponibili con l’Acerba, vv. 2529 e 2531, ove trascinano con sé tutta la “doppia terzina” di cui fanno parte (cfr. III, cap. xxii, quarta “mossa”): 2529
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Vegio cader diviso questo regno, vegio ch’è tolto l’ordine e lo bene, vegio rignar ciaschuno huomo malegno, vegio li boni qui non aver luocho, vegio che tacer ciaschuno conviene, vegio che l’arde qui l’oculto fuocho.
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Si noti infatti come, se vv. 2529 e 2531 sono perfettamente uguali a vv. 9 e 11 (salvo una piccola variante per v. 2531), gli altri utilizzano le stesse rime in -ene del sonetto (bene : conviene, quest’ultima ripetuta anche in v. 10), rielaborando i relativi versi, con procedimento esteso anche alla rima in -oco ove v. 2532 è perfettamente accostabile al v. 10 del sonetto (che però rima in -ere). E si noti che anche v. 2534 rielabora versi precedenti, quelli già citati per il Notaro, vv. 1703-1704, con l’immagine del fuoco nascosto, così come il distico finale del capitolo (xxii), a rima baciata (come al solito), riprende nientemeno che l’ultimo verso e la penultima rima dell’altro sonetto di Cecco indirizzato a Cino: «Veggio venire qui le pene nuove, / (dico) se la pietà ciò non rimuove» (dove è da meditare sulla lieve variante fra sonetto e poema, almeno a fini ecdotici). Prima il sonetto o il poema? Prima probabilmente il sonetto, se guardiamo alle possibili date della corrispondenza con Cino (1303-1306?), mentre potrebbe forse essere anche contemporaneo alla stesura dell’Acerba l’altro sonetto in cui compare il medesimo fenomeno, il n. 5, Io solo sono in tempestati fiumi. Cecco ri-usava anche se stesso e i propri materiali (sembra difficile immaginare altri personaggi chini a comporre sonetti ricavati dal poema), secondo un costume quasi professionale, quello che Umberto Eco raccomanda per le tesi di laurea, paragonando i relativi materiali ai maiali, dei quali, come è noto, non si butta nulla. È infatti proprio il terzo sonetto certamente attribuibile a Cecco, Io solo sono in tempestati fiumi, che conferma le modalità compositive dell’Ascolano e insieme la paternità di entrambi i sonetti. Lo schema di questo sonetto, A B B A, A B B A; C D E, E D C, può godere di numerosi pre-
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cedenti, tutti peraltro molto compatti, di ambiente stilnovistico: Cavalcanti, Dante, Cino e il cosiddetto “Amico di Dante”. Il punto di congiunzione con gli altri sonetti di Cecco, per tecnica e modalità compositive, è però di nuovo nelle rime: -umi, -egno, -etto, -ice, -elo. Segnate ancora in modo esplicito, quasi sfacciato, dalla presenza della Commedia (cfr. quantomeno le vele mio ingegno, al v. 2, evidentemente rifatto su la navicella del mio ingegno, pure v. 2 di Purgatorio, I e sanza sospetto di v. 9 su Inferno, V, 129 sanza alcun sospetto), sono però talvolta, come molto spesso quelle dell’Acerba, svincolate da ogni precedente: così tumi, pur inserita in una serie, fiumi : costumi : fumi già tutta della Commedia (Purgatorio, XXII, 86 ss.), così aggelo, vero hapax, e prima attestazione, come già spetra; così infelice (poi anch’esso di nuovo in Petrarca, e così di nuovo l’accoppiata di malegno con ingegno : segno : regno). Fruizione della tradizione e del grande concorrente fiorentino ma deposizione di un segno proprio, in entrambi i casi; e in entrambi i casi, di nuovo, ri-uso degli stessi materiali nell’Acerba e nel sonetto (come anche, fuori rima, fra il v. 13 e Acerba v. 204422). La seconda quartina è infatti, per intero, anche in due diversi luoghi dell’Acerba, ai vv. 1312-1314: Di grande altura vengnon li gran tumi, e vidi humiliare la vista acerba, el tempo variando li costumi
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e ai vv. 4307 e 4311, con in mezzo, al v. 4310, la rielaborazione del verso finale della quartina del sonetto: Per quatro tempi passa onne creato: non è fermeza nel terestro rengno. Chi va, chi vèn, chi piange, chi è beato: tute l’umane cose sono in moto. Del stremo rixo vèn pianto malegno. Felic’è chi da Deo non sta rimoto!
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Dove è da notare forse non solo per il valore simbolico quel terestro rengno, anche del sonetto, che si oppone di fatto ai precedenti danteschi celeste regno e beato regno, quasi riassuntivo di quei motivi di risentita polemica antidantesca, contro il «modo de le rane» e di «chi finge, imaginando, cose vane» e «sogna per la selva obscura», in nome di quella filosofia naturale, dove
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Dove piacerebbe anche pensare che Cecco non fosse ignaro di Cecco Angiolieri, S’ i’ fosse Cecco, com’ i’ sono e fui già classico.
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«resplende e luce onne natura» (vv. 4669-4672), che doveva portarlo, almeno nelle motivazioni ufficiali, e a poema ancora incompiuto, sul rogo. Il riuso si rivela così, e infine, non come un’operazione scolasticamente centonizzatrice, ma il mezzo per richiamare continuamente un dialogo e un confronto col grande oppositore, l’odioso-amato, appunto, Dante, l’unico di cui nell’Acerba siano trascritti interi versi accanto ai suoi, se la testimonianza è fededegna (vv. 1439-1444 e vv. 1445-1456). Ho terminato quindi anch’io col solito trito confronto, peraltro autorizzato e cercato in primis da Cecco, ma stavolta per restituire a Cecco quella dimensione che i suoi contemporanei gli riconobbero immediatamente, e per lungo tempo, quasi parificando nelle copie, e quindi nel successo, come egli aveva voluto e sperato, il suo troppo più grande predecessore.
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Se una certa attenzione è stata dedicata a studiare le fonti poetiche del trattato stabiliano1, la complessità della materia trattata e la mancanza di un’edizione attendibile e commentata hanno ostacolato invece l’analisi della fortuna che essa dovette avere presso i rimatori successivi, in particolare quelli del Trecento. Eppure, i pochi tentativi compiuti in questa direzione hanno dato risultati significativi, tanto è vero che persino nel Canzoniere di Francesco Petrarca2 emergono a più riprese echi della poesia di Cecco. Benché sia stata esclusa l’esistenza di un rapporto diretto tra i due autori, è del resto verisimile che Petrarca - studente a Bologna negli stessi anni in cui Cecco vi insegnava - dovesse conoscere L’Acerba. Fabio Troncarelli ha parlato di circostanze biografiche comuni (alludendo alla frequentazione dell’ambiente universitario, e al rapporto con i Colonna) e di una affinità psicologica, per cui Petrarca troverebbe in Cecco «singolari premonizioni: accenti malinconici, turbamenti, desideri, […] quel dubitar che per Cecco è “grande virtute” praticare, così diverso dalla sicurezza dantesca. È questa sorta di precoce primavera dell’anima moderna che Petrarca sa valorizzare nello scontroso astrologo ribelle senza una causa»3.
1 Per i rapporti tra Cino da Pistoia e Cecco d’Ascoli si vedano A. Balduino, Cino da Pistoia, Boccaccia e i poeti minori del Trecento, in A. Balduino, Boccaccio, Petrarca ed altri poeti del Trecento, Firenze 1984, pp. 140-206: 181-183; M. Santagata, Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna 1990, pp. 236-238; E. Pasquini, Il “Dolce Stil Novo”, in Storia della Letteratura italiana, diretta da E. Malato, I: Dalle origini a Dante, Roma 2001, pp. 649-721: 657-658. 2 Per i rapporti tra Cecco d’Ascoli e Petrarca si vedano F. Troncarelli, L’acerba età e i suoi problemi, in Ascoli Piceno: una città fra la ‘Marca e il mondo’. Atti del Convegno - I edizione del “Premio internazionale Ascoli Piceno” (Ascoli Piceno, 21 febbraio 1987), a cura di E. Menestò, Spoleto 1988, pp. 23-47; Santagata, Per moderne carte cit., pp. 223-246. 3 Troncarelli, L’acerba età cit., p. 42.
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Marco Santagata poi ha illustrato precise influenze acerbiane nella poesia petrarchesca, e non solo là dove era più facile reperirle, ossia nelle similitudini tratte dal mondo animale (la fenice) o minerale (la calamita che attira la carne umana), o nella trattazione di temi astrologici4, ma anche in zone meno ovvie. Singolari consonanze presentano ad esempio alcuni scorci paesaggistici, rivisitati attraverso la lente del ricordo:
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Cecco, L’Acerba, II, xvi 1, 4 (1735-1738)5 Petrarca, Rer. vulg. fragm., 209, vv. 1-2 I dolci colli ov’io lasciai me stesso O bel paese con li dolci dolci colli, partendo….................................... […..........................................] Io ti pur io piango, dolce il mio paese! Petrarca, Rer. vulg. fragm., 320, vv. 1-2 Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli veggio apparire.....................................
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Si può addirittura arrivare a pensare che uno degli incipit più famosi del Canzoniere, «benché intriso di suggestioni classiche, debba qualcosa alla raffigurazione della cicogna […] che “Sola pensando va per la campagna”»6. Cecco, L’Acerba, III, xi 6 (2284) Sola pensando va per la campagna
Petrarca, Rer. vulg. fragm., 35, vv. 1-2 Solo e pensoso i più deserti campi vo misurando a passi tardi e lenti
Petrarca era dunque un lettore attento di Cecco. È caduta invece la tesi di un rapporto in senso contrario: il sonetto I’ non so ch’i’ mi dica, s’io non taccio, una volta attribuito allo Stabili e considerato modello di Pace non trovo, è chiaramente frutto dell’imitazione petrarchista7. Priva di fondamento è inoltre l’ipotesi di una corrispondenza poetica tra Cecco e Petrarca: molti studiosi hanno già negato la paternità petrarchesca al sonetto Tu se’l gran Ascolan che’l mondo allumi, attribuendolo semmai a Muzio Stramazzo da Perugia8, senza però togliere all’Ascolano il 4
Cfr. già V. Fera, I sonetti CLXXXVI e CLXXXVII, «Lectura Petrarce», 7 (1987), pp. 219-243: 240. 5 Qui e in seguito si cita da Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002. 6 Santagata, Per moderne carte cit., pp. 245-246. 7 Ibid., p. 234. 8 Riassumono la questione attributiva B. Bentivogli, Il ms. Silvestriano 289 dell’Accademia dei Concordi, «Studi e problemi di critica testuale», 35 (ottobre 1987), pp. 27-90: 55 note 31-32 e Paola Vecchi Galli, in Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite per la prima volta raccolte a cura di A. Solerti. Edizione postuma con prefazione, introduzione e biblio-
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sonetto responsivo. Recentemente tuttavia un brillante allievo di Emilio Pasquini ha dimostrato nella sua tesi di laurea come Io solo son ne’ tempestati fiumi sia solo un centone composto in gran parte di versi de L’Acerba9. Il sonetto - databile negli anni in cui lo Stabili era ancora in vita - comunque dimostra che l’atteggiamento degli altri rimatori nei suoi confronti poteva essere anche molto favorevole. L’autore infatti riserva all’Ascolano grandi elogi:
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Tu sei’ l grande Ascolan che ‘l mondo allumi per grazia de l’altissimo tuo ingegno; tu solo in terra de veder sei degno esperienza de gl’eterni lumi: tu che parlando il cieco errar consumi, che le cose in vulgare hai in disdegno, ora per me, che dubitando vegno, 10 pregoti che rivolghi i tuoi volumi .
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Non appare essere ostile a Cecco neppure Antonio Pucci, rimatore fiorentino vissuto tra il 1310 e il 1388, che nel suo Centiloquio, trasposizione in versi della Cronica di Giovanni Villani, ne rievoca in terzine la morte11, senza però prendere posizione sulla legittimità di tale provvedimento: Nel predett’anno, se ben mi rammento, Di settembre a’ dì sedici fu arso Mastro Cecco d’Ascoli, ti convento. Della cagion ti voglio essere scarso, perché morì; e se torto, o ragione fatta gli fu, non direi per un farso. Ma dico ch’era alla provvisione del duca di Calavria per Astrologo che non avea par di qui a Pignone. E senza far di suo’ fatti gran prolago, il vescovo d’Aversa, Cancelliere, del detto Duca, savio, e buon teologo morir lo fe siffatte maniere,
grafia a cura di V. Cian, Firenze 1909, pp. 365-366. Lo Stramazzo fu forse in corrispondenza anche con Petrarca, ibid., pp. 114-121, ma si vedano anche le note di Vecchi Galli alle pp. 369-370 e i dubbi attributivi sulla corrispondenza (con ulteriore bibliografia). 9 A.D. Mazzaferro, Dante, Petrarca e Cecco d’Ascoli: tra amore e lussuria, tesi di laurea in Letteratura italiana, relatore Prof. E. Pasquini, A.A. 1998-1999, Università di Bologna. 10 Rime disperse cit., p. 98. 11 C. Ciociola, Rassegna stabiliana (Postille agli atti del Convegno del 1969), «Lettere italiane», 30 (1978), pp. 97-123: 104, da cui si cita anche il Centiloquio.
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forse ch’a sue domande fu troppo arbo: qualchessifosse, lascio a te il pensiere. (Pucci, Centiloquio, LXVIII, vv. 49-63)
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Nel Libro di varie storie, databile all’inizio degli anni Sessanta12, inoltre si appella più volte all’autorità di Cecco, il cui trattato sembra essere per lui una delle principali fonte di ispirazione. Come ha sottolineato Claudio Ciociola13, colpisce che a soli trent’anni dal rogo il maestro di astrologia venga esplicitamente citato come somma autorità, ricoprendo un ruolo pari per importanza a quello di Dante. Lo stesso Ciociola ha definitivamente bollato come «un’arbitraria omogeneizzazione ideologica» l’ipotesi di una «solidale coesione antistabiliana»14 nell’ambiente culturale bolognese di primo Trecento. Ci si riferisce all’interpretazione antiascoliana e filodantesca di due stanze della canzone Quelle sette arti liberali in versi, attribuibile con buona probabilità a Pietro Alighieri, e del sonetto La vostra sete, se ben mi ricorda, dello stesso in risposta a Jacopo de Garatori (o Garatari), avanzata da Giovanni Crocioni15 ed accettata da Piero Ginori Conti16, ma già rigettata da Domenico De Robertis17 e ora anche dal curatore delle rime di Pietro18. Sia nel sonetto che nella canzone, effettivamente, non ci sono riferimenti precisi allo Stabili, ma si allude in generale ai detrattori di Dante, come pure accade nella lunga digressione che verso il 1324 Graziolo Bambaglioli, cancelliere di Bologna, noto all’Ascolano che gli indirizzò un’epistola ora perduta, inserisce nel suo commento al settimo libro dell’Inferno, nel passo in cui Dante parla della fortuna19. Il ruolo della fortuna era infatti uno dei principali punti dello scontro tra Dante e Cecco.
12 A. Pucci, Libro di varie storie, a cura di A. Varvaro, Palermo 1957, estratto da «Filologia romanza», ser. IV, 16 (1957), parte II, fasc. II [A.A. 1955-1956], pp. 3-312. 13 Ciociola, Rassegna stabiliana cit., p. 106. 14 Ibid., p. 103. 15 G. Crocioni, Le rime di Pietro Alighieri, precedute da cenni biografici, Lapi 1903, pp. 84-89. 16 P. Ginori Conti, Vita e opere di Pietro Alighieri, con documenti inediti, Firenze 1939, pp. 128-130. 17 D. De Robertis, Un codice di rime dantesche ora ricostruito, «Studi danteschi», 36 (1959), pp. 137-205: 204 nota 92. 18 A. Stefanin, Pietro Alighieri rimatore, ibid., 66 (2001), pp. 62-146: 80-81. 19 Su questo tema si vedano L. Rocca, Di alcuni commenti alla Divina Commedia composti nei primi vent’anni dopo la morte di Dante, Firenze 1891, pp. 72-77; G. Bambaglioli, Commento all’Inferno di Dante, a cura di C. Rossi, Pisa 1988, pp. XXXIV (con ulteriore bibliografia), 58-59.
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Eppure riesce difficile pensare che la netta posizione antidantesca assunta da Cecco potesse passare inosservata nella Bologna trecentesca degli anni Venti, definita come l’«indiscussa vestale del culto dantesco»20: in quell’epoca infatti Giovanni del Virgilio insegnava grammatica e retorica presso lo Studio, e nella città operavano i primi commentatori della Commedia (Jacopo della Lana e Graziolo Bambaglioli). La presenza di una fitta serie di citazioni delle rime e della Commedia nei Memoriali Bolognesi, a partire dal 1287,21 testimonia inoltre il diffuso favore popolare di cui godeva Dante. D’altra parte, anche Cecco d’Ascoli aveva un discreto successo, se non presso i suoi colleghi22, almeno presso il pubblico degli studenti, e la condanna non poteva essere quindi così unanime. Se dunque a Bologna i rimatori appaiono essere stati cauti nel criticare l’Ascolano, è nel Veneto che essi presero posizione più netta. Ne rimangono tracce infatti ancora in un poema composto entro il 1382, la Leandreride di Giovanni Girolamo Nadal23, laddove Dante, voce narrante del capitolo VII del IV libro, presentando una serie di poeti introduce ad un certo punto Cecco, dicendo: «Cieco d’Ascoli via mi carca il groppo», ossia “mi dà addosso”24. L’episodio più importante riguarda però la corrispondenza poetica tra Giovanni Quirini, il più importante rimatore veneziano del primo Trecen-
20 S. Bellomo, Primi cultori di Dante a Bologna, in Bologna nel Medioevo. Atti del convegno (Bologna, 28-29 ottobre 2002), con altri contributi di filologia romanza, Bologna 2004, pp. 206-222: 213-214. Su Dante e Bologna, oltre al già citato Bologna nel Medioevo, cfr. almeno G. Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, con documenti inediti, fac-simili e illustrazioni figurate, Bologna 1918; G. Livi, Dante e Bologna. Nuovi studi e documenti, Bologna 1921; Dante e Bologna nei tempi di Dante. Atti del Convegno (Bologna 1966), Bologna 1967; E. Pasquini, Dante e Bologna, «Strenna storica bolognese», 10 (1980), pp. 279-296; E. Pasquini, Dante e lo Studio, in Storia illustrata di Bologna, IV/6, San Marino 1987, pp. 61-80; G. Monacelli, Dante e Bologna, «Medioevo y Literatura», 3 (1995), pp. 331-339; G. Feo - A. Antonelli, La lingua dei notai di Bologna ai tempi di Dante, in La langue des Actes. Actes du XIe Congrès International de diplomatique (Troyes, jeudi 11 - samedi 13 septembre 2003), disponibile in rete: elec.enc.sorbonne.fr/sommaire163.html, alla voce relativa. 21 Sui Memoriali bolognesi cfr. Memoriali bognesi 1279-1300, a cura di S. Orlando, Torino 1981; S. Orlando, Le rime dei Memoriali bolognese e di altri documenti: una nuova edizione e alte riflessioni, in Bologna nel Medioevo cit., pp. 29-43. 22 Il collega Dino del Garbo fu infatti a detta del cronista Giovanni Villani - cfr. G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990-1991, II, lib. XI xlii, p. 572 - la principale causa della morte di Cecco «riprovando per falso il […] suo libello, il quale aveva letto in Bologna, e molti dissono che ‘l fece per invidia». 23 G.G. Nadal, Leandreride. Edizione critica con commento a cura di E. Lippi, Padova 1996, l. IV, vii 21, p. 129. 24 G. Marrani, Con Dante dopo Dante. Studi sulla prima fortuna del Dante lirico, Firenze 2004, p. 76 in nota.
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to, e Matteo Mezzovillani, già nota alla critica e su cui ora ci si soffermerà, estendendo eventualmente l’analisi ad altri rimatori dell’area settentrionale, ai quali tuttavia varrebbe la pena di dedicare un’indagine puntuale. La corrispondenza è costituita da cinque sonetti di Quirini e da un sonetto di Matteo Mezzovillani25, tràditi esclusivamente dal codice Urbinate latino 697, databile probabilmente ancora alla seconda metà del XIV secolo26, che riporta L’Acerba di Cecco d’Ascoli e sonetti di rimatori veneti del Trecento27. Nonostante siano stati tramandati da testimone unico, questi sonetti devono aver avuto un discreto successo, se è vero che lo stesso autore della Leandreride, Girolamo Nadal, oltre cinquant’anni dopo sembra esserne memore nel suo poema. Nella rassegna dei rimatori del quarto libro appena citata, non ricorda solo l’Ascolano, ma anche Quirini, designandolo come amico di Dante, e persino Mezzovillani tra altri rimatori bolognesi. Di lui - notaio esule nel Veneto dopo il ’21 - non ci è giunto però nessun altro componimento poetico28.
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G. Nadal, Leandr., lib. IV, vii, vv. 89-90 G. Nadal, Leandr., lib. IV, vii, vv. 49-51 il primo è Ian Querini, che mi fu amico Bernardo de Canozzo appo se assetta, in vita....................................................... Mathio de Mozzovillani et Enedì, quel de La lana con la scintilletta, Iacobo dico….................................
25 Su Mezzovillani cfr. G. Livi, Cultori di Dante nel ceto dei notari, in Livi, Dante, i suoi primi cultori cit., pp. 19-21; Bellomo, Primi cultori cit., pp. 210-211. 26 Per la descrizione del codice cfr. G. Quirini, Rime. Edizione critica e commento a cura di E.M. Duso, Padova 2002, pp. XXX-XXXI e la scheda di E.M. Duso in Parole dipinte. La miniatura a Padova dal Medioevo al Settecento. Catalogo della mostra (Padova, Palazzo della Ragione - Palazzo del Monte e Rovigo, Accademia dei Concordi, 21 marzo - 27 giugno 1999) a cura di G. Baldissin Molli - G. Canova Mariani - F. Toniolo, Modena 1999, pp. 566-567. 27 La prima edizione dei sonetti risale a Giovanni Fantuzzi: Notizie degli scrittori di Bologna raccolte da G. Fantuzzi, Bologna 1788, t. VI, pp. 13-14. Furono poi editi da G. Carducci, Studi letterari, Livorno 1874, p. 271; E. Frizzi, Saggio di studi sopra Cecco d’Ascoli, «Propugnatore», 10 (1877), pp. 468-498; S. Morpurgo, Rime inedite di Giovanni Quirini e di Antonio da Tempo, «Archivio storico per Trieste, l’Istria ed il Trentino», I (1881-1882), pp. 142-166: 155-158; V. Lazzarini, Rimatori veneziani del secolo XIV, Padova 1887, pp. 7983; C. del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri raccolte e ordinate cronologicamente con note storiche, bibliografiche e biografiche, Roma 1889, I, pp. 354-357; G. Castelli, La vita e le opere di Cecco d’Ascoli, Bologna 1892, pp. 282-283, 355-357. D’ora in poi i sonetti si citano secondo l’edizione di Duso in Quirini, Rime cit., pp. 202-210, di cui si segue anche la numerazione. 28 Si è recentemente soffermato sull’episodio Bellomo, Primi cultori cit., pp. 210-211, con qualche inesattezza.
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È possibile dunque che Nadal conoscesse Matteo Mezzovillani e forse anche Cecco esclusivamente attraverso i sonetti in questione: il ricco commento di Lippi, ad esempio, non registra nessun’eco dell’Acerba. Nel sonetto che apre la corrispondenza poetica, Giovanni Quirini si rivolge dunque al più modesto Matteo Mezzovillani, come ad un amico di vecchia data, per chiedergli in prestito l’Acerba, dicendo di aver inteso con dispiacere che in essa viene attaccato Dante; vorrebbe pertanto verificarne il contenuto. Mezzovillani risponde con fare cerimonioso, elogiando la fama del suo corrispondente («famoso signor mio venitïano» 105b, v. 6), e afferma di attendere da lui una sentenza definitiva. Sembra dunque non avere una posizione netta nei confronti dello Stabili. Si noti che il verso 10 del sonetto di Mezzovillani ricorda da vicino i vv. 53-54 del Centiloquio di Pucci («[…] e se torto, o ragione / fatta gli fu, non direi per un farso»). 105b (Mezzovillani a Quirini) Vostro saper è tal sança divieta, che può scusar non che ’l magior Toscano de la eloquentia, ma qualunque stranno Qui si ragiona che ’l maestro Cieco ch’avesse sua vertú non sí completta. à fato un libro riprendendo Dante, Vostra dimanda perché sia repletta, e chiama lui in molte parte erante; famoso signor mio venitïano, ond’io ti priego, per la fede amante, che tu mi <’l> mandi, acciò ch’io servi il beco d’amistate antica anche luntano, fatio vostro voler con mente lieta. ne le cavighie fite in legno secco.
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105 (Quirini a Mezzovillani) ..................................................
D’altrui ricever benefitio o gratia è obligarsi, et io cosí ragiono di farmi sempre tuo perfetto donno.
S’al gran Toscan fa l’Esculan ribeco29, o con ragion, o ch’el sïa fallante, vostra sententia ne fia iudicante. Et io aspeto da voi, relucante, udirne la sententia, nel qual speco vago già di veder in lui m’aspechio. Del visitar lo mio cor ve ringraccia ch’a tiò siti degnato, e me condonno sempre servir a voi, qu’ i’ vostro sonno
Letto con attenzione il poema, Quirini biasima con toni veementi l’autore, arrivando al punto di rallegrarsi della sua morte. La piccola serie poetica è databile tra il 1326 o la prima metà del 1327, quando dovette giunge-
29 Cioè “fa opposizione”, “contrasta” (ribeco vale letteralmente “protesta”, “obiezione”).
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re a Venezia la notizia della composizione del trattato, e il periodo successivo al 16 settembre 1327, giorno in cui Cecco fu messo al rogo. Ma chi era Giovanni Quirini e da dove veniva il suo interesse per L’Acerba e per Dante? Un importante studio biografico di Giorgio Padoan30 e il successivo ritrovamento del testamento nell’Archivio di Stato di Venezia31 permettono di identificare con sufficiente sicurezza il mercante veneziano Giovanni Quirini figlio di Carlo Quirini di San Polo, vissuto tra la fine del Duecento ed una data compresa tra il 21 febbraio e il 1 dicembre 1333, con l’autore di un piccolo canzoniere di un centinaio di testi, oltre che di un manipolo di sonetti di corrispondenza32. Già Marcello Aurigemma sottolineava che «la celebre posizione di Giovanni Quirini è collegata non tanto ad un atteggiamento personale ma alla storia del progressivo raffermarsi del primato culturale e linguistico della Toscana nell’Italia settentrionale»33. Effettivamente Giovanni Quirini fu il rimatore che, introducendo in Veneto un vero e proprio culto per Dante, condusse a termine il lungo processo di toscanizzazione linguistica e culturale iniziato già del Duecento34. Per lui, che si dilettava di poesia e poteva essere destinato a rimanere uno dei tanti epigoni della tradizione stilnovistica, l’incontro con la Commedia e con le rime dantesche fu folgorante e segnò l’intera produzione poetica, pervasa di echi del poema e delle rime non solo a livello lessicale e retorico, ma anche sintattico e metrico. L’adesione con cui Quirini nella sua produzione poetica abbracciò Dante fu anzi tale da dar luogo alla leggenda di una concreta amicizia tra i due, attestata già a fine Trecento nella sopracitata Leandreride e perpetuatasi fino al secolo scorso, quando Gianfranco Folena35 ricondusse definitivamente il rapporto al piano poetico
30 G. Padoan, Per l’identificazione di Giannino Quirini, amico ed imitatore di Dante, «Quaderni veneti», 10 (1989), pp. 45-67, poi in G. Padoan, Il lungo cammino del poema sacro. Studi danteschi, Firenze 1993, pp. 237-258. 31 E.M. Duso, Il recuperato testamento (1333 febbraio 21) del poeta veneziano Giovanni Quirini, «Italia medievale e umanistica», 44 (2003), pp. 235-248. 32 Quirini, Rime cit. (cui si rinvia anche per la bibliografia precedente). 33 M. Aurigemma, Interpretazioni dell’opera di Cecco d’Ascoli dal Trecento ad oggi, in Atti del I convegno di studi su Cecco d’Ascoli (Ascoli Piceno, Palazzo dei congressi, 23-24 novembre 1969), a cura di B. Censori, Firenze 1976, pp. 11-31. Cfr. poi anche A. Tartaro, Forme poetiche del Trecento, Bari 1971, p. 10. 34 F. Brugnolo, I Toscani nel Veneto e le cerchie toscaneggianti, in Storia della cultura veneta, II: Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 370-439. 35 G. Folena, Il primo imitatore veneto di Dante: Giovanni Quirini, in Dante e la cultu-
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piuttosto che a quello autobiografico, designando Quirini come «il primo imitatore di Dante nel Veneto»36. Notissimi sono ad esempio i sonetti in cui il veneziano sollecita Cangrande della Scala a pubblicare quei canti della Commedia che lui solo possedeva, o in cui compiange la morte del maestro, che chiama «padre e poeta latino» (52, v. 10), paragonandola alla morte di Cristo. L’aver quindi inteso che a poca distanza da Venezia qualcuno si era permesso di riprendere Dante, e persino di mettere in dubbio la sua ortodossia, provocò la sdegnata reazione di Quirini, che tuttavia, anziché pronunciare aprioristiche sentenze, volle controllare di prima mano le accuse. La lettura del poema dovette essere abbastanza accurata e lasciò infatti qualche eco nella sua poesia. Però, seppure egli dichiari di aver «trascorso i·libro piú e piusor volte» (108, v. 15) prima di darne un parere definitivo, non sembra esserne stato toccato troppo in profondità: non si fece coinvolgere ad esempio in quelli che erano i punti di maggior attrito tra Cecco d’Ascoli e Dante, ossia il ruolo da attribuire alla Fortuna - per Dante «general ministra e duce» (Inf., VII, v. 78) dei beni mondani - e all’esperienza amorosa37. A colpirlo sembra essere stato piuttosto il Cecco moralista, che attacca la malvagità umana, invita alla penitenza e biasima l’insidia costituita dalle donne, e che infatti sovente assume toni molto vicini a quelli che caratterizzano una buona metà del canzoniere quiriniano. Nel suo principale testimone, il ms. Marciano latino XIV 223, esso risulta bipartito in rime amorose e religioso-moraleggianti, le quali, pur essendo collocate in principio del manoscritto, parrebbero risalire ad una seconda fase della produzione poetica38. I riscontri che verranno segnalati provengono da componimenti di questo tipo, e certamente non sono tutti ugualmente probanti. Talvolta infatti la vicinanza tra gli enunciati può essere dovuta semplicemente al comune riecheggiamento di una fonte biblica, come ad esempio i Salmi nei due passi seguenti:
ra veneta. Atti del convegno di studi (Venezia - Padova - Verona, 30 marzo - 5 aprile 1966), Firenze 1966, pp. 396-421, ora in G. Folena, Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990, pp. 309-335. 36 Oltre a Nadal, parlano di un’amicizia tra i due poeti Lodovico Antonio Muratori cfr. Della perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazioni da L.A. Muratori, Modena 1906, tomo I, p. 11 -, Marco Foscarini - cfr. Della Letteratura veneziana libri VIII di M. Foscarini, cavaliere e procuratore, Padova 1752, lib. III, p. 318 nota 257 e Gian Giacomo Caroldo - cfr. G.G. Caroldo, Storia inedita della Repubblica veneta dalle origini della città fino all’anno 1382, [ms.] 1757, tomo II, p. 274. 37 G. Frasca, «Io voglio qui che ‘l quare covi il quia». Cecco d’Ascoli “avversario” di Dante, in Dante e la scienza, a cura di P. Boyde - V. Russo, Ravenna 1995, pp. 243-263. 38 Cfr. E.M. Duso, Introduzione, in Quirini, Rime cit., pp. XXI-XXII.
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Salmo 50 19 Quirini, 58, vv. 12-14 cor contritum et humiliatum Deus non spernet ché cor contrito et humile che acese il dolce fuoco, santo e benedetto, Cecco, L’Acerba, II, xxxi 13-14 (2661-2662) non spreggia quello che è sopra ogni honesto. ché ‘l core umiliato mai non sperne chi tuto regie, giudicha e discerne
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Salmo 31 9 Quirini, 4, vv. 3-6 in camo e freno maxillas eorum costringe Ahi, corpi vili, perché non pensate qui non accedunt ad te como la morte vi fa venir meno, la qual vi dovrebb’esser cammo e freno Cecco, L’Acerba, III, xxvi 13 (2599) a le massille contra la empietate, 39 e mete a la sua gola il freno e ‘l chamo
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Spesso poi gli echi sono costituiti da sintagmi, dittologie o persino interi versi che pur avendo precedenti soltanto nell’Acerba potrebbero essere anche poligenetici. Tuttavia è il loro accumularsi all’interno di uno stesso componimento, che ricorda anche tematicamente passi acerbiani, che sembra testimoniare a favore di una conoscenza diretta dell’opera da parte di Quirini. Cecco, L’Acerba, II, xviii 11 (1840) Quirini, 12, vv. 1-2; vv. 9-14 e n’è tesoro ciò che luce e splende (: offende) Perché te volgi pur con gli ochi a tera né non riguardi al ciel, che luce e spiende?40 (: offende) Cecco, L’Acerba, II, iv 30 (1008) nel ciecho mondo con li spenti lumi Tu credi forsi che esto cieco mondo, coverto d’erbe e fior, che ti par bello, Cecco, L’Acerba, II, xxxvii 23 (2791) duri in eterno e tu inseme cum ello, O morte quant’è grave quel to’ pondo e non t’acorgi, miser cativello, come l’antica serpe nel profundo ti tira sempre col suo grave pondo. Cecco, L’Acerba, II, xxxix 25-30 (2863-2868) Quirini, 13, vv. 1-12 E se peccando smarissi la via, Se l’erba e ’l fior e il fructo che produce a penitenza rason ti conduca, questa misera terra sì t’agrada sì che non chazi ne la morte ria. che tu non curi a caminar la strada Mira la morte come forte ruge! che drittamente a vita ci conduce,
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Ma ovviamente si pensi anche a Dante, Purg., XIV, vv. 143-7: «ed el mi disse: “Quel fu ’l duro camo / che dovria l’uom tener dentro a sua meta. / [...] / e però poco val freno o richiamo”». 40 Si ricordi anche Nicolò de’ Rossi, Chi se deleta, v. 14: «che luçe e spiende [...]». Qui e in seguito si cita da F. Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, I: Introduzione, testo e glossario, Padova 1974.
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leva sù gli ochi, almen, guarda la luce del sol, che adorna el mondo oveunque vada, e pensa che pur la divina ispada punisse quei che l’angel rio seduce,
Togli il disio al cuor che te manducha, e pensa che la vita ogn’ora fuge.
lo qual, come leon che rugge e grida, cercando el cibo suo per devorarlo, ti segue ognora, e tu nol sai schivarlo. Quirini, 29, vv. 1-2 Non val richeza né gloria mondana
Cecco, L’Acerba, IV, v 90 (3878) secondo che ’l mio detto te rasiona
Quirini, 30, v. 11 Secondo che per certo se ragiona
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Cecco, L’Acerba, IV, vii 11 (4067) non val richeza a povertà de core
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Quirini, 33, vv. 1-14 Per ciescun quasi si dice e ragiona che piú laudata e piú bella vertute che aver si possa e che dia piú salute e che piú cresca in pregio la persona, Cecco, L’Acerba, IV, vii 3 (4059) sia che, como il tempo il conditïona io so che tu m’entendi senza iose (: cose). o la ventura, l’huom s’armi e s’aiute et abbia providenza e sue vedute drizzi a guardar s’el è sereno o trona;
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Cecco, L’Acerba, II, vii 7-9 (1159-1161) E la memoria del tempo passato, e provedenza di quel ch’ è à venire, conserva l’uomo nel fellice stato.
e poi, secondo che corron le cose, o ch’el si vede in basso o in alto stato, cossí si mova e cossí si ripose; e chi ciò fa non rimarrà gabato. So che tu intendi ben senza altre chiose: or pensa d’emendar ciò ch’è passato.
Analogamente accade nell’unica canzone di tipo politico-morale di Quirini, la cui seconda stanza, oltre ad essere intessuta di echi danteschi, sembra risentire anche di un passo dell’Acerba: Dante, Par., XVI, vv. 1-3 O poca nostra nobiltà di sangue se gloriar di te la gente fai qua giú, dove l’affetto nostro langue
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Quirini, 54, vv. 16-30 D’ira constretti gli huomini feroci verso la anita pace son con superbia ne l’arme redocti; a confusion[e] de’ ben[i] sun sí veloci
Anche in questo caso va ricordato l’incipit di Nicolò de Rossi: «Fra tutte le gratie che Cristo dona / sí èe che l’omo proveda il suo stato».
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Dante, Par., XXVII, v. 57 “O difesa di Dio, perché pur giaci?”
e pigri a le veracce cose e del tuo iudicio non sun docti, ma nei vicii tereni [sun] sí corotti Cecco, L’Acerba, II, v 9 (1031) e sí costretti, che ’l fraterno sangue parrà che ‘l cielo la vendetta chiame si spande cum ruine e cum incendii ........................<-endi>; Cecco, L’Acerba, II, iv 28-30 (1006-1008) ànno suon di vertú: perché sí langue, Ma ‘l tempo à variati li costumi s’è la tua temperancia ch’ela bramma, di giente in giente sí che vertú langue (: sangue). la tua vendetta, e chiama nel ciecho mondo con li spenti lumi iusticia, che cum sua taliente spada radirici la tua asusata strada?
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Anche il noto capitolo in cui Cecco dichiara la sua poetica, in contrapposizione alle fabule di Dante «che finge, immaginando, cose vane» (IV, xiii 3), sembra aver lasciato tracce nella memoria di Quirini, in particolare nel sonetto che a sua volta si fa manifesto di poetica, ma nel segno di Dante. Io lasso volontier lo dir d’amore infatti si apre con un’eco palese della canzone «Le dolci rime d’amore ch’i’ solia / cercar ne’ miei pensieri / convien ch’io lasci», e si chiude con un riferimento neppure troppo implicito alla candida rosa paradisiaca (Par., XXX, vv. 124-6: «[...] nel giallo de la rosa sempiterna / che si dilata ed ingrada e redole / odor di lode al sol che sempre verna»), ma è tramato da una rete di possibili riscontri ascolani (fiction / finge; acra cosa, opre vane / cose vane): Cecco, L’Acerba, IV, xiii 1-4 (4669-4672) e 17-18 (4685-4686) Qui non se canta al modo de le rane qui non se canta al modo del poeta, chi finge, imaginando, cose vane: ma qui resplende e luce onne natura […......................................................] Lasso le çançe e torno su nel vero: le fabulle me fôn sempre inimiche.
Quirini, 21, vv. 1-8 Io lasso volontier lo dir d’amore e l’altre fictïon ch’io mi solea trovar rimando, perché me piacea acra cosa, et era grata al core, la qual via mo’ sì m’è in odio magiore che non fuor gli Troiani a Iunon dea: ch’io mi cognosco e veggio ch’io metea in opre vane tuto ’l mio labore; e voglio omai tractar d’una matera honesta, cara, bella e vertüosa, che fie piena d’odor come la rosa. Ma prima invocco e priego l’amorosa del Santo Spir[i]to e luminosa spera, che infonda in me de la sua luce mera.
E non è da escludere che la polemica contro l’Ascolano sia sottesa anche all’oscuro sonetto 36, il cui incipit sibillino ricorda un verso dell’Acer-
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ba42. In esso infatti Quirini assume toni così violenti come gli capita solo nei confronti del detrattore di Dante43:
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Cecco, L’Acerba, II, xvi 29-30 (1763-1764) Quirini, 36, vv. 1-2 carne volpina vuol salsa di cane, Qual vol dar salsa a la carne de lupo ed aspre pene li peccati granni. conven tòr prima di quella di cani, e po’ pigliar un fosto a dopie mani e far del bianco, bastonando, cupo. Di tal vivande ancora io non mi ocúpo, perch’io mi tegno pur a le nostrani, ma s’i’ cominzo usar de cibi istrani, la capra non starà su nel dirupo.
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Io non voglio dir altro a questa volta: chi à gli orechi intenda, e fia gran senno, avanti che la tasca sia dissolta, ché le speranze vane ispessor fenno danno ad altrui, che in la buona ricolta del suo vicin mise fidanza molta.
Infine, non poteva mancare di colpire la memoria quiriniana la celeberrima requisitoria contro le donne del IV libro dell’Acerba, che - come ha dimostrato Santagata - lasciò un suo ricordo persino nel Canzoniere di Petrarca44. Al di là della topicità del tema infatti, nel sonetto 24 sembra esserci un’eco precisa del passo: Cecco, L’Acerba, IV, ix 73-78 (4361-4366) E tu a me: - Perché non è fermeza in cor di donna, che, sì como vento, se move or qua or là per sua vagheza? De fin che ‘l vixo accende e’l tacto dura, ferm’è ‘l volere in donna, e ciò consento; stando divixo, più de te non cura. -
Quirini, 24, vv. 1-8; v. 13 La poca fede e il voler che non dura in buon stato un sol ponto, e come vento si voglie e cambia il giorno più di cento e più di mille volte per ventura de esti animali, ch’in la lor figura ci rasomiglia, ma non del talento,
42 Non mancano comunque altri precedenti, ad esempio Parlantino da Firenze, Come credete voi, vv. 12-14: «or non vi meravigli de’ Tedeschi: / carne di lupo vuol salsa di cani: / cosí convien che l’un con l’altro treschi». Si cita da Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano 1956, p. 351. 43 Anche il riferimento alla capra del v. 8 potrebbe far pensare a Cecco, altrove - come si vedrà - designato come «beco», ossia “caprone”. 44 Santagata, Per moderne carte cit., pp. 242-243.
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Cecco, L’Acerba, III, xxxviii 12 (2806) e sempre al suo Signor se piagne e lagna ......................forte luge e langne Cecco, L’Acerba, IV, ix 115 (4403) Femena, che fé meno à che fera
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Va segnalato a tale proposito che anche Antonio Beccari, rimatore ferrarese della seconda metà del Trecento, sembra risentire del celebre passo antiuxorio, e che le modalità del recupero acerbiano sono simili a quelle già indicate per Quirini. Nel sonetto O femene, radice d’ogni male infatti, oltre al riscontro incipitario e alla comunanza tematica, compare al v. 7 una precisa “sfraghis” ascolana. Antonio Beccari, XXXV, vv. 1-8 O femene, radice d’ogni male che ‘l mondo aviti consumato e sperso, pestilenza continua a l’universo e morte siti ben d’ogni mortale.
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Cecco, L’Acerba, IV, ix 115-123 (4403-4411) Femina, che fé meno à che fera, radice e ramo e fructo d’ongne male, superba, avara, sciocha, mata, austera, veneno che venena el cor del corpo, via iniqua e porta infernale; quando se pinge punge più che scorpo. tosicho dolce, putrida sentina, arma del diavolo, e gran flagello, pronta nel male, perfida, assasina
A vostre openïon nulla non vale, se non chi ben ve vole sia sommerso: de for mostrati il bianco e dentro il perso; demoni siti con sembiante tale.
Cecco, L’Acerba, II, xviii 22-24 (1850-1852) Ben è scoverto chi che vòl cellare a li occhi umani l’opere captive, e ‘l perso per lo biancho dimostrare.
Nonostante il commento di Laura Bellucci non segnali nessun debito con L’Acerba45, si ritiene che un esame incrociato tra questa e la raccolta poetica del Beccari potrebbe dare buoni risultati, arricchendo così l’indagine sulla fortuna dello Stabili. Ugualmente meriterebbe un’indagine la ricca produzione del rimatore trevisano Nicolò de Rossi, anch’esso contemporaneo all’ascolano cui si è già rinviato a più riprese46. Ma si torni ai sonetti di corrispondenza tra Quirini e il Mezzovillani, che, come già detto, sono collocabili tra il 1326 e il 1327. Nei sonetti quiriniani
45 Le rime di maestro Antonio da Ferrara (Antonio Beccari). Introduzione, testo e commento a cura di L. Bellucci, Bologna 1972. 46 Cfr. anche Cecco L’Acerba, lib. III, xxiv 1-2 (2551-52): «Nasse ogne corvo, per natura,
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alla feroce posizione anti-ascoliana fa da contrappunto l’elogio ad oltranza dell’Alighieri, che pochi anni prima Quirini aveva definito «[…] nostro padre e poeta latino, / chi avea in sé quasi splendor divino» (52, vv. 10-11). Non si tratta in assoluto della prima difesa di Dante in versi: si potrebbe anzi ipotizzare l’esistenza di una vero e proprio microgenere letterario di sonetti destinati a tale scopo, inaugurato nella seconda metà degli anni Novanta del XIII secolo da Cino da Pistoia con il sonetto Bernardo, quel gentil che porta l’arco. In esso Cino difendeva dagli attacchi di Onesto da Bologna lo Stilnovo in genere, ma la Vita Nova in particolare47. Ai primi anni del Trecento è databile invece il sonetto Cecco Angiolier, tu mi pari un musardo che Guelfo Taviani indirizzò in favore di Dante a Cecco Angiolieri, il quale lo aveva attaccato in Dante Alighier, s’i’ so’ buon begolardo48. In entrambi i casi però attacco e difesa riguardavano la poesia di Dante, o al massimo le sue conoscenze filosofiche, mentre Quirini, per difendere il maestro dalle critiche dell’Ascolano, non si limita ad elogiarne la lingua, ma si spinge a difenderne l’ortodossia. Mai inoltre l’attacco ad un detrattore aveva adottato toni tanto accesi: leggendo in sequenza i cinque sonetti quiriniani infatti si assiste ad un continuo crescendo di violenza verbale. Nel primo sonetto (105) Quirini, probabilmente dopo aver affermato nelle quartine - andate smarrite - di aver sentito parlare delle accuse mosse dallo Stabili a Dante, chiedeva al Mezzovillani di inviargli il poema. I toni appaiono ancora abbastanza neutri, anche se risulta inquietante la metafora dei vv. 13-14. L’interpretazione del passo non è facile: come accade anche nella Commedia, la presenza di «becco» tanto più se inserito, come qui, in una locuzione proverbiale non più in uso, crea sempre ambiguità: può riferirsi infatti tanto al rostro degli uccelli quanto al maschio della capra. In un primo momento49 si erano proposte due possibili soluzioni: se il beco è il capro (come anche nel sonetto quiriniano D. 7 7) e le caviglie sono
biancho / e pàscese dal cel di dolcie manna» e Nicolò de Rossi, 21, vv. 9-10: «El mi pare de natura di corvo, / che nasse bianco e possa nero cresse»; Cecco, L’Acerba, lib. III, xxxvi 1: «Aspro veneno dico ch’è nel botro» e Nicolò de’ Rossi, 275, v. 11: «che carga et emple l’alma come botro». 47 Sulla corrispondenza, cfr. F. Brugnolo, Cino (e Onesto) dentro e fuori la Commedia, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1993, pp. 369-386; C. Calenda, Ancora su Cino, la “Commedia” e lo “Stilnovo” (Purg. XXIV e XXVI), in Sotto il segno di Dante. Studi in onore di Francesco Mazzoni, a cura di L. Coglievina - D. De Robertis, Firenze 1998, pp. 75-83; F. Brugnolo, Appendice a Cino (e Onesto) dentro e fuori la “Commedia”. Ancora sull’intertesto di “Purgatorio” XXIV 49-63, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci, Ravenna 2003, pp. 153-170. 48 Ibid., p. 164. Per i testi cfr. Poeti giocosi cit., pp. 231-232. 49 Quirini, Rime cit., p. 203.
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i malleoli, la parte inferiore delle zampe, il legno secco potrebbe essere un ceppo al quale inchiodare l’animale per ucciderlo o per poterlo esaminare. Il poeta chiederebbe allora di consultare L’Acerba per verificare, tenendola ferma sotto i suoi occhi, se ci sono davvero le accuse a Dante di cui ha sentito parlare. In alternativa, il legno secco potrebbe far pensare all’immagine del rogo, quasi Quirini si prefigurasse già la condanna a morte di Cecco. Tuttavia, nessuna delle due soluzioni appare convincente; interpretando invece caviglia come termine tecnico per indicare un «pezzo di legno […] per lo più cilindrico e munito di capocchia da configgersi in un muro (o altrove) per sospendervi o attaccarvi qualcosa»50, spesso usato per gli animali, si incontra un proverbio che ricorda i nostri versi, ossia «legare l’asino a buona caviglia»51 (attestato ad esempio in Boccaccio, Decameron, 4, 10) col valore di “addormentarsi sicuro e tranquillo”. Si può pensare dunque ad una variante dell’immagine, già esistente ma della quale non è rimasta altra attestazione che questa, o ad una metafora coniata direttamente da Quirini, tanto più che all’epoca il becco era l’animale diabolico, in contrapposizione all’agnello, e il legno secco simboleggiava il peccato e il peccatore52. La terzina finale varrebbe allora: “ti prego di mandarmi il poema, affinché (dopo la lettura) io possa mettermi tranquillo”, e sarebbe del resto ripresa perfettamente nella coppia di versi che concludono l’intero ciclo: ...............ond’io, segondo mee, contento e pago son come si dée.
Mezzovillani rispondeva alla richiesta dell’amico manifestando - come si è visto - la propria incertezza sulle ragioni dell’Ascolano. Va notato che anche lui definisce Dante «gran Toscano» (105b, v. 8) e «magior Toscano / de la eloquentia» (105b, vv. 2-3), anticipando il giudizio che darà Quirini nel sonetto successivo (106, vv. 5-8): Vostro saper è tal sança divieta, che può scusar non che ’l magior Toscano de la eloquentia, ma qualunque stranno ch’avesse sua vertú non sí completta.
50 Grande dizionario della lingua italiana, diretto da S. Battaglia, 2 (1995), sub voce. 51 Ibid., 7 (2004), sub voce. 52 Cfr. ad esempio nella seconda metà del Trecento Giovanni dalle Celle in G. dalle Celle
- L. Marsili, Lettere, a cura di F. Giambonini, Firenze 1991, I, p. 390: «e dèi essere diventato un beco e non agnello, e però t’aspeta d’essere posto, nel dì del giudicio, dalla mano sinistra
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Già nel terzo sonetto (106) però, composto una volta che giunse a Venezia la notizia della morte sul rogo di Cecco d’Ascoli, il tono di Quirini si fa più concitato, e il «malvagio Cieco» (106, v. 3 - si noti il gioco pseudoetimologico sul nome Cecco - cieco) viene decisamente contrapposto al «pedagogo e […] maestro mio / che fu spiendor e lume, fonte e rio / del bel parlar de la lingua nostrana» (106, vv. 6-8). Tramite versi intessuti di echi danteschi53 dunque, Quirini manifesta la propria adesione alla lingua del suo maestro, forse contrapponendo implicitamente il «bel parlare» di Dante alla lingua de L’Acerba, che doveva apparirgli alquanto rozza. La comparazione iniziale mette subito in rilievo come la colpa commessa dallo Stabili contro la fede cristiana fosse - per Quirini - duplice: da un lato egli commise eresia («errò») nei confronti della fede, dall’altro «le falìo», “le venne meno”, «scrivendo contra, in l’opra sua profana» (dantismo che nel vocabolario quiriniano conserva il valore etimologico di procul a fano “fuori dal tempio”, cioè “escluso della grazia di Dio”)54 all’“alta Comedia” che è invece «perfetta e sanna», ossia “piena di perfezione e sgombra da ogni errore”. Com’egli errò ne la fede cristiana, onde Firence l’arse e lí morío, cosí ’l ma‹l›vagio Cieco le falío, scrivendo contra, in l’opra sua profana, a l’alta Comedia perfetta e sanna del pedagogo e del maestro mio, che fu spiendor e lume, fonte e rio del bel parlar de la lingua nostrana. Ec<o>, or si mostra il vero e sonno in tuto ...................................<-oria> davante la doctrina e la memoria, di che riceve la cità gran gloria,
di Cristo». Per legno secco cfr. invece nel 1308 Giordano da Pisa, Prediche sul secondo capitolo del Genesi, a cura di S. Grattarolo, Roma 1999, p. 156: «lo peccato è legno secco» e «il peccatore è legno secco che li pecati ardono in Inferno come arde lo legno secco». 53 Si sommano infatti i ricordi di Dante, Due donne in cima, v. 12: «Risponde il fonte del gentil parlare», di Inf., I, vv. 79-80: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sí largo fiume» e di Purg., VII, v. 17: «mostrò ciò che potea la lingua nostra». La metafora del fiume è topica già nella poesia classica; la impiega a proposito di Dante anche Cino da Pistoia in Su per la costa, Amor, vv. 5-7: «I’ penso ch’egli è secca quella fonte / ne la cui acqua si potea specchiare / ciascuno nel suo errare». 54 Cfr. Dante, Inf., VI, v. 21: «volgonsi spesso i miseri profani»; Quirini, Rime cit., 25, v. 8: «lo qual ci liberò d’essere profani» (dove profani vale “peccatori”).
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che col suo giglio à fato sí bel fruto qual si trovase mai per fior produto.
Il torto di Cecco per Quirini è quindi duplice, e se la prima accusa corrisponde a quella ufficiale di eresia dei processi e ne rispetta anche il linguaggio55, la seconda per Quirini è dettata dall’invidia verso Dante. Lo sentenzia infatti nella conclusione del penultimo sonetto. Trascorso i· libro piú e piusor volte, quel vi rimando, e dico, al mio parere, ch’envidia tolse a Ciecco bel tacer<e>.
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Con Giovanni Quirini si definiscono allora e si fissano gli argomenti che caratterizzeranno la condanna di Cecco d’Ascoli da parte di tutti i letterati successivi, fino a Carducci56: la vera colpa che condusse al rogo l’Ascolano non fu tanto l’eresia, quanto piuttosto l’invidia verso Dante, e la conseguente calunnia nei suoi confronti. Negli ultimissimi anni del Trecento Coluccio Salutati, nel terzo libro del De fato et fortuna, biasima Cecco per aver accusato vanamente «Dantem nostrum», accecato dall’invidia57: [1-3] Nichil est quod non conetur livor inficere quodque non mordeat et obscuret invidia, que tamen invidorum prius mentes obcecat. […] Etenim Ceccus, immo Cecus (ut rectius dixerim) Esculanus non equari solum, sed preferri cupiens et forte cogitans, nostro Danti adhibens ineptos insulsosque versiculus rithmicisque consonantiis durissimos et incomptos, librum fecit quem Acerbe vite nomine vocari voluit […] [52-53] hic Ceccus primo secunde partis capitulo dicti libri reprehendit Dantem nostrum […]
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Mancano gli atti dei processi contro Cecco, ma resta una redazione in volgare della sentenza emessa dall’inquisitore Frate Accursio, per cui si veda A. Beccaria, Le redazioni in volgare della sentenza di Frate Accursio contro maestro Cecco d’Ascoli, «Accademia di Scienze di Torino», 41 (1905-1906), pp. 974-1001. In essa si trovano espressioni del tipo «Maestro Cecco spandeva molte e diverse eresie nella città di Firenze e per detta città […] e un certo suo eretico e profano libello dava come maestro per le squole a leggere» (p. 981); «[cose] infeste, orribili e sciocche, contrarie alla salute humana, eretiche e inimiche alla verità cattolica» (ibid.); «Maestro delli errori» (ibid.); «Et un certo altro libretto vulgare, intitolato acerba, il nome del quale esplica benissimo il fatto, avvenga che non contenga in sé maturità o dolcezza alcuna catolica, ma vi abbiamo trovato molte acerbità eretiche» (p. 999). Cfr. inoltre G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze (1319-1334), «Studi medievali», a. VIII, n. ser., 3 (1930), pp. 266-287. 56 G. Carducci, Della varia fortuna di Dante, in Carducci, Studi letterari cit., pp. 160-171. 57 C. Salutati, De fato et fortuna, a cura di C. Bianca, Firenze 1985, lib. III, 12, pp. 195-206.
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[332- 336] Quod tamen minus admiror cum eadem protervia contra fidem steteris ortodoxam, ex quo post abiurationem, obstinate reversus ad vomitum, pregustare vivus, nisi resipueris, igni eterni suplicium nostro cernente populo meruisti. (Salutati, De fato et fortuna, III 12)
E ancora nel 1500 Benedetto da Cesena componeva versi quasi sicuramente memori di quelli di Quirini: Quirini, 106, vv. 1-2 Com’egli errò ne la fede cristiana, onde Firence l’arse Quirini, 107, vv. 9-11 cosí malvagiamente dal sofista, detto maestro Cieco l’[e] Escolano, heresïarca e falso cristïano,
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Benedetto da Cesena58 O Asculan col tuo indurato core d’invidia pregno eresiarca, ch’arse Fiorenza te per lo tuo grande errore, le rime tue, bench’elle sieno scarse del suon ch’a pochi Calliope concede, pur fra le genti sono molto sparse.
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Se infatti il sintagma, rafforzato dall’enjambement, «arse / Fiorenza» riprende l’emistichio quiriniano «onde Firenze l’arse» del sonetto 106, l’associazione tra l’«Ascolano» e il deciso dantismo «eresiarca» (“eretico”, anche se propriamente è “il fondatore di un’eresia”) compare nel sonetto successivo (107), dedicato a celebrare Firenze, che finalmente da matrigna cattiva59 si trasforma in madre protettiva e distende la propria mano a vendicare l’ingiuria commessa nei confronti del suo figlio. In questi versi Quirini sembra concedere a Firenze una sorta di risarcimento postumo che non ha però riscontro nella realtà, in quanto pare che negli anni dell’esilio e in quelli successivi alla morte di Dante Firenze non avesse cambiato il proprio atteggiamento nei confronti dell’Alighieri. Si osservi anche la forte contrapposizione, sottolineata dalla posizione in clausola di verso, tra «artista» (termine che viene utilizzato con il significato moderno di “creatore d’opere d’arte”, come aveva fatto per la prima volta da Dante nel Paradiso)60, e «sofista», anch’esso pretto dantismo come il successivo «eresiarca». «Falso cristiano» è invece sintagma che ha qui la sua prima attestazione61. In una sola terzina si accumulano quindi tre attributi che connotano 58 Benedetto da Cesena, De honore mulierum, Venezia 1500, lib. I, epistula seconda. 59 Si ricordi la «perfida noverca» di Dante, Par., XVII, v. 47. 60 Par., XIII, v. 77, in rima con acquista, e Par., XXX, v. 33. Chiama Dante «comico arti-
sta» anche Iacopo Alighieri, Io son la morte, v. 149. 61 Almeno secondo il vocabolario del Tesoro della lingua italiana delle origini dell’Opera del Vocabolario italiano, consultabile in rete: www.ovi.cnr.it
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negativamente Cecco, cui si somma l’avverbio «malvagiamente» che riprende il «malvagio Cieco» del componimento precedente (106, v. 3). Benché talvolta algun disdegno corra tra madre e figlio, pur al streto punto non puote eser l’amor tanto consunto che l’un l’altro al bisogno non soccora da sé, per cossa che per astio corra: e se Firençe Dante fé digiunto62 il grande effetto vedendo, lui punto63 testé alme’ non parve ch’ella abborra
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cosí malvagiamente dal sofista, detto maestro Cieco l’[e] Escolano, heresïarca e falso cristïano, ch’ell’à distessa la scievéra manno a vendicar la iniuria del suo artista, col foco ond’ela pregio sempre aquista.
Non si potrà a questo punto fare a meno di notare la forte consonanza linguistica tra questi sonetti e la V stanza della canzone Quelle sette arti liberali in versi (vv. 75-83) attribuibile a Pietro Alighieri. Quel ch’era d’onor degno, abominato veggio per propria invidia dalle genti, malvagi e frodolenti, i qua’ son degni d’ogni vitipero. Deh, Segnor giusto, faccioti preghero che tanta iniquità deggi punire di que’ che voglion dire che ‘l mastro della fede fussi errante: si fusse spenta, rifariela Dante64
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Qui si ragiona che ’l maestro Cieco à fato un libro riprendendo Dante, e chiama lui in molte parte erante;
Anche «digiunto» è forte dantismo, cfr. Purg., IX, v. 51. Sul piano interpretativo il v. 7 è ambiguo. Se infatti si intende «effetto» come “risultato”, “conseguenza”, il sintagma g. e. sarebbe una perifrasi per indicare la Commedia ed il verso ricorderebbe Inf., II, vv. 17-18: «[...] pensando l’alto effetto / ch'uscir dovea di lui [...]». Intendendolo invece come “affetto” - cfr. Quirini, Rime cit., 83, v. 10 e 102, v. 9 -, a seconda che lo si unisca al periodo precedente o al successivo, il verso può valere “allontanò Dante, pur vedendo il grande affetto (che egli le portava)”, oppure “poiché ha visto il grande affetto che Dante le porta [...]”. Neppure ai versi successivi il costrutto è lineare, dal momento che il v. 7 prosegue nel v. 9. Si interpreti: “almeno poco fa non è sembrato che (Firenze) detesti lui, che è stato colpito in modo cosí malvagio dal detto maestro Cecco”. 64 Si cita da De Robertis, Un codice di rime cit., p. 203.
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Se è certo, come ha notato Ciociola65, che il «maestro che lesse a Bologna» della stanza successiva va identificato con Dante, sicuramente dovrebbe essere lui anche «quel ch’era d’ogne onor degno […] abominato […] per propria invidia dalle genti», mentre tra «que’ che voglion dire / che ‘l mastro della fede fussi errante» è probabile ci fosse proprio Cecco d’Ascoli. Il sonetto seguente (108) è speso quasi per intero nell’elogio dell’amico Mezzovilani, attraverso un raffinato gioco etimologico sul suo nome e una dotta metafora mitologica. A L’Acerba viene riservata solo la stoccata finale:
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Non vi dovrebbe dî Meçi Villani chiamar algun, ma tuto dir cortese di quella a qui l’eser vostro è palese s’envidia lor non fa dal ver luntani. Homo non fu che piú libere manni avese mai, caro mio bolognese, né piú largheçe in animo se apres‹e›, ben ordinato da consigli sanni.
Non per mio merto, non per mia cagione degnaste contentar mia voluntade, ma sol per opra de nobilitade; ond’io ringratio voi di tal bontade et ofro me, con debita ragione, in amistate, Phitia e Damone. Trascorso i· libro piú e piusor volte, quel vi rimando, e dico, al mio parere, ch’envidia tolse a Ciecco bel tacer<e>.
Nel sonetto 109, che conclude la piccola serie, infine, Quirini si rallegra perché quella che arriva a definire «l’esculana bataglia» è terminata: un campione della fede (Dio, o forse proprio l’inquisitore, Accursio Bonfantini, appassionato dantista, di cui è rimasta almeno una glossa alla Commedia?)66 ha messo a tacere Cecco, e Dante può riposare in pace circondato di gloria. Per altro canpïon fermo e costante, con iusta spada c’ogni usbergo taglia,
65 66
Ciociola, Rassegna stabiliana cit., p. 102. Bellomo, Primi cultori di Dante cit.; S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della “Commedia” da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004, pp. 189-191.
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è vinta sí l’esculana bataglia, ch’el <non> bisogna oma’ socorso a Dante. Et io, poiché confuso è l’arogante che l’aversava, e non è chi lo arsaglia, non ò mestier di darme piú travaglia c<h>’i’ ò di quel dol ch’io vi scrisi avante.
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Colui è morto che la ingiuria fé[c]e a l’alta Commedia nel suo volumme: canta<n>do radicò fuor del costume, e Dante vive co’ isplendido lume vetorïoso, ond’io, segondo mee, contento e pago son come si dée.
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Cecco è quindi accusato di aver commesso ingiuria contro «l’alta Commedia» e di essere fuoriuscito - con il suo canto - dal costume, dalla norma sociale, da un comportamento onesto e corretto (radicò è «venetismo con veste fonetica e morfologica toscana, cioè radegar “andare errando”»). Merita di essere notato che anche in questi componimenti, così chiaramente intessuti di echi danteschi, si infiltrano due spie linguistiche che provano l’avvenuta lettura de L’Acerba, e, in almeno un caso proprio dei versi contro Dante. Nel sonetto 107 infatti, Quirini utilizza per Cecco dandogli per di più maggior rilievo attraverso la collocazione in sede di rima - l’aggettivo «sofista», che questi aveva attribuito all’Alighieri (o alle sue ragioni). È difficile che si tratti di una semplice eco memoriale: Quirini pare proprio voler riprendere appositamente un’accusa che Cecco faceva allo stesso Dante, ritorcendogliela contro come un boomerang. Cecco, L’Acerba, V, i 148-150 (4842-4844) Quirini, 107, vv. 9-11; v. 14 Dunque te cessa, o loico tristo ………………………...dal sofista, Che le sophiste to’ raxoni emblanche: detto maestro Cieco l’[e] Escolano, che senza fé del ben non se fa acquisto. heresïarca e falso cristïano, [……………………………] col foco ond’ela pregio sempre acquista.
Analogamente, la sentenza che chiude il sonetto 108 sembra volutamente richiamarsi ai versi conclusivi de L’Acerba, laddove lo Stabili, facendo - secondo un noto artificio retorico - professione di umiltà, giustificava la propria poesia come dettata da profonda fede. Con un maligno colpo di coda Quirini lo rimbecca, sostenendo che solo l’invidia lo spinse ad interrompere un decoroso silenzio.
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Cecco, L’Acerba, V, ii 1-3 (4853-4855) Quirini, 108, vv. 15-17 Bell’ è ‘l tacere de cotanta cossa Trascorso i· libro piú e piusor volte, considerando el mio pocho intellecto, quel vi rimando, e dico, al mio parere, ma la gram fede mi muove e scossa. ch’envidia tolse a Ciecco bel tacer<e>.
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Posto di seguito al bestiario a chiusura del terzo libro dell’Acerba (capp. 1 XLVIII-LVI) , il lapidario non ha goduto sinora di attenzioni pari a quelle dedicate alla sezione che lo precede da Francesco Zambon2. L’unica voce specifica, se non mi è sfuggito qualcosa, è un articolo di Giulio Battelli3 in cui venivano in buona sostanza riprodotti i capitoli in questione, preceduti da poche parole introduttive dove si indicava come fonte il De lapidibus di Marbodo. L’obbiettivo che mi sono proposto per questa breve comunicazione è dunque quello di situare i capitoli dell’Acerba entro la tradizione dei lapidari medievali4. 1
Cito l’Acerba dall’edizione tratta dal codice Eugubino (= E) da Basilio Censori e Emidio Vittori: Cecco d’Ascoli, L’Acerba secondo la lezione del codice Eugubino del 1376, a cura di B. Censori - E. Vittori, Ascoli Piceno 1971, intervenendo in qualche punto a sanare errori evidenti (le proposte di intervento risalgono spesso agli stessi curatori di quell’edizione, talvolta alle due precedenti edizioni, a cura rispettivamente di Pasquale Rosario Lanciano 1916 - e Achille Crespi - Ascoli Piceno 1927). L’assenza di un testo critico del poema è questione nota. Di recente è stata pubblicata una nuova edizione (Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002): curiosa operazione in cui viene sostanzialmente riportato il testo del codice Parigino (Bibliothèque Nationale de France) ital. 579 (= P), talvolta emendato col ricorso ad altri codici (elencati alle pp. XI-XII e a cui mi riferirò occasionalmente in seguito ricorrendo alle medesime sigle introdotte da Marco Albertazzi). L’utilità maggiore di questa per altri versi discutibile operazione risiede sostanzialmente nella possibilità di disporre di un apparato di varianti per un certo numero di testimoni antichi e di un prospetto conclusivo (Varianti delle strofe: le pagine dell’intero volume, ad eccezione delle introduttive Note di edizione, non sono numerate) in cui vengono indicate le variazioni (assenze, ordine diverso dal vulgato ecc.) nella successione delle strofe all’interno di un ampio numero di manoscritti. 2 F. Zambon, Gli animali simbolici dell’“Acerba”, «Medioevo Romanzo», 1 (1974), pp. 61-85. 3 G. Battelli, Il lapidario dell’Acerba, «Rassegna», 35 (1927), pp. 205-211. 4 Per un inquadramento generale delle problematiche connesse alla tradizione dei lapidari cfr. Les lapidaires français du moyen âge des XIIe, XIIIe et XIVe siècles, a cura di L. Pannier, Paris 1882, Gènève 1977 (ristampa anastatica, da cui cito); P. Meyer, Les plus anciens lapidaires français, «Romania», 38 (1909), pp. 44-70, 255-285 e 481-552; M. Corti, La
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Penso sia opportuno, per iniziare, riassumere a grandi linee il contenuto del lapidario stabiliano. Esso si sviluppa, come dicevo, lungo nove capitoli ed esaudisce alla seconda metà della promessa fatta in chiusura del secondo libro di «far somiglie» di «certi animali e prieta»5. Le pietre menzionate e descritte da Cecco sono 28, tre per capitolo ad eccezione del cap. LIII che ne cita quattro. Questo l’elenco: diamante, zaffiro, smeraldo (XLVIII), agate, allettorio, berillo (XLIX), topazio, diaspro, gagate (L), elitropia, panterone, giacinto (LI), diacodio, asbesto, magnete (LII), carbonchio, crisopazio, epistite, ametista (LIII), cerauno, calcedonio, cristallo (LIV), enidro, chelidonio, corallo (LV), perla (anzi, «margarita»), galazia e corniola (LVI). Cecco dichiara (LVI 14) di avere «scritte le più degne», sottintendendo dunque di aver operato una selezione: potrebbe essere una pura excusatio retorica (qualcosa del genere lo affermava persino Isidoro di Siviglia prima di addentrarsi nella sua minuziosa trattazione6), ma sta di fatto che l’ordine delle pietre presentato dall’Acerba (se si fa eccezione per la menzione del diamante in apertura di trattazione, una costante nei lapidari non alfabetici) non trova riscontro in nessuno dei testi che conosco. Veniamo alla questione delle fonti. Considerando quanto scoperto da Zambon a proposito della sezione del bestiario, è stato spontaneo sospettare che anche per il lapidario Cecco abbia usufruito del medesimo repertorio, vale a dire il De rerum proprietatibus di Bartolomeo Anglico7. Zambon, lo ricordo telegraficamente, ha infatti dimostrato come proprio il De rerum proprietatibus, scelto per il suo carattere di compendio, magari un po’ pedestre, di un’ampia tradizione classica e mediolatina, sia il testo di riferimento con cui lo Stabili dialoga e talvolta persino polemizza, solo a tratti “contaminato” con informazioni provenienti dal Tresor di Brunetto Latini. L’ipotesi funziona in ampia misura anche per ciò che riguarda la sezione del lapidario, dove comunque, accanto ad aderenze perfette, si riscontrano poche discrepanze più o meno accentuate. Tali discrepanze potrebbero in linea teorica contrad-
lingua del «Lapidario estense» (con una premessa sulle fonti), «Archivio Glottologico Italiano», 45 (1960), pp. 97-126; R. Halleux, Damigèron, Evax et Marbode. L’héritage alexandrin dans les lapidaires médiévaux, «Studi medievali», n. ser., 15 (1974), pp. 327-347. 5 Così in Acerba II, XIX, 37-42. 6 «Genera gemmarum innumerabilia esse traduntur, e quibus nos ea tantum quae principalia sunt sive notissima adnotavimus»; così appunto Isidoro negli Etymologiarum libri, XVI, VI 2, citato da Isidori Hispalensis episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX, a cura di W.M. Lindsay, Oxford 1911; Oxford 1962 (ristampa anastatica, da cui cito). 7 Lo cito dalla ristampa anastatica - Frankfurt a. M. 1964 - dell’edizione francofortese del 1601, riscontrata sull’edizione di Norimberga, «per Fridericum Peypus», 1519.
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dire una filiazione esclusiva, ma va subito aggiunto che l’assenza di una edizione critica del De rerum proprietatibus non aiuta certo ad avere sicurezze definitive in merito8. Faccio due esempi brevissimi in questa direzione: nella parte dedicata allo zaffiro, Cecco afferma (XLVIII 46) che «questa gemma vale a l’idromanti». Nell’edizione francofortese del 1601 Bartolomeo, citando direttamente Marbodo, afferma che lo zaffiro era considerato nell’antichità particolarmente caro agli dei: «Et hoc tangitur in Lapidario9 ubi dicitur: “Et plus quam reliquas amat hanc hyerophantia gemmas / Ut divina queant per eam responsa mereri” etc.»10. La differenza sembrerebbe in questo caso suggerire un rapporto diretto con Marbodo, dal momento che alcuni codici del De lapidibus hanno appunto «hydromantia»11. Sennonché proprio «hydromantia» è quanto riporta l’edizione 1519 dello stesso Bartolomeo. Secondo esempio: la pietra che Cecco chiama «panteron» (LI 19), come in Marbodo, appare invece nell’edizione 1601 di Bartolomeo col nome di «Panchrus», lo stesso utilizzato ad esempio da Isidoro (XVI, XII) e dal Damigeron non alfabetico (XXXVII)12. Ancora una volta, però, l’edizione 1519 del De rerum proprietatibus ci riavvicina all’Acerba, visto che appunto ha «Panteron». In linea di massima, comunque, l’opera di Bartolomeo si rivela come l’ipotesto dell’Acerba, forse contaminato in alcuni casi con Marbodo (intendendo con “Marbodo” un testo non meglio identificabile e appartenente anche all’ampia serie di traduzioni e rifacimenti che il De lapidibus ha generato in Europa), in qualche altro caso integrato con informazioni che derivano da altre “fonti” (anche questo da intendere in senso ampio, tanto che 8
È stata comunque avviata un’edizione del testo latino da parte di una èquipe internazionale che ha portato, tra l’altro, ad un importante congresso e alla pubblicazione dei relativi atti: Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum. Texte latin et réception vernaculaire / Lateinischer Text und volkssprachige Rezeption. Actes du colloque international / Akten des Internationalen Kolloquiums (Münster, 9-11.10.2003), a cura di B. Van den Abeelke H. Meyer, Turnhout 2005; sul libro XVI, dedicato appunto al lapidario, cfr. in particolare C. Meier, Text und Kontext. Steine und Farben bei Bartholomäus Anglicus in ihren Werk- und Diskurszusammenhängen, ibid., pp. 151-184. Ricordo inoltre che dell’edizione del volgarizzamento di Vivaldo Belcalzer si sta occupando un gruppo diretto da Rosa Casapullo. 9 Cioè appunto in Marbodo. 10 Cap. LXXXVII, corsivo mio; peraltro il testo ha più esattamente «hytrophantia». 11 Lezione anche del testo marbodiano quale inserito in Patrologia Latina, a cura di J.P. Migne, 171 (1893), ma non dell’ultima edizione - cfr. Marbode of Rennes, De lapidibus considered as a medical treatise with text, commentary and C. W. King’s translation, together with text and translation of Marbode’s minor works on stones, a cura di J.M. Riddle, Wiesbaden 1977 - che ha «negromantia» (v. 120). 12 Orphei Lithica, accedit Damigeron de lapidibus, a cura di E. Abel, Berlin 1881, Hildesheim 1971 (ristampa anastatica, da cui cito).
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si potrebbe meglio parlare di “aree testuali”). La cosa non deve sorprendere più di tanto, e non è escluso o che una tale sovrapposizione di elementi fosse già originaria o che sia da imputare a interventi e integrazioni originali di Cecco. A lui saranno infatti da attribuire, ad esempio, i versi che aprono quasi tutte le voci del lapidario e in cui si citano le influenze dei vari pianeti sulla generazione delle singole pietre. Del resto, neppure nel caso del lapidario dell’Intelligenza, la cui fonte pure è stata identificata con certezza, si riesce a verificare una perfetta sovrapponibilità13.
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Vorrei adesso fornire qualche esempio per ciascuna di queste tre componenti (derivazione diretta da Bartolomeo, elementi che risalgono a Marbodo, notizie non riconducibili né all’uno né all’altro). 1. Il lapidario dell’Acerba e il De rerum proprietatibus
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Per quello che riguarda il punto principale, cioè il rapporto diretto tra Bartolomeo e Cecco d’Ascoli, occorrerà per prima cosa isolare quelle pietre di cui il De rerum proprietatibus riporta una descrizione desunta, qualche volta persino per citazione diretta, esclusivamente da Marbodo. Si tratta, nell’ordine di apparizione, di elitropia, panterone, diadoco, asbesto, epistite, cerauno, cristallo e corniola. Persino in alcuni di questi casi si possono però segnalare alcuni indizi che, seppure cautamente, sembrano nonostante tutto avvicinare direttamente l’Acerba a Bartolomeo. Mi limito a fare un solo esempio che mi sembra di interpretazione univoca. Le due proprietà dell’elitropia indicate a LI 4-11, cioè quella di portare l’acqua fredda ad ebollizione e quella di originare eclissi di sole, derivano a Bartolomeo direttamente da Marbodo: ma l’inciso del v. 4, «ove ’l Sole spira», e l’organizzazione generale della descrizione14 sembrano più precisamente rinviare al primo15.
13 Il lapidario occupa le strofe 16-58 del poemetto, per cui cfr. L’Intelligenza. Poemetto anonimo del secolo XIII, a cura di M. Berisso, Milano-Parma 2000. La fonte riconosciuta di questa sezione è l’anonimo Libro delle virtudi delle pietre preziose, un volgarizzamento di Marbodo pubblicato in E. Narducci, Intorno a tre inediti volgarizzamenti del buon secolo della lingua contenuti in un codice vaticano …, «Il Propugnatore», 2 (1869), I, pp. 121-146 e 307-326. 14 Marbodo collega infatti le due proprietà come fasi successive di uno stesso processo (prima la luce del sole si arrossa e si origina un’eclisse, dopo di che l’acqua comincia a bollire, evapora e crea una pioggia), mentre in Bartolomeo (e Cecco) non sono messe in connessione e, per di più, sono descritte nell’ordine inverso a quello del De lapidibus. 15 Cfr. De rerum proprietatibus, cap. XLI: «si ponitur in aqua radiis Solis opposita, ebul-
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Per quel che riguarda invece tutte le altre pietre in cui Bartolomeo non utilizza Marbodo, o dove comunque quest’ultimo non è la fonte essenziale, mi limiterò a pochi esempi che credo siano sufficientemente eloquenti. Nei versi dedicati allo smeraldo (XLVIII 55-62), l’affermazione del v. 57 («di molte infermitade fa salute») non trova riscontro in Marbodo ma è quasi una traduzione da Bartolomeo16 e lo stesso si dica dei vv. 60-61 («conforta la memoria e la natura, / li spirti fuga e le lor false scorte»), per cui l’unico parallelo possibile è di nuovo con Bartolomeo e non con Marbodo17.
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A Bartolomeo risale l’affermazione a proposito dell’allettorio (XLIX 23): «sì come oscuro18 cristallo mostra aspetto», corrispondente a «crystallo obscuro similis» nel De rerum proprietatibus (cap. XVII), là dove Marbodo dice semmai l’esatto contrario (v. 79: «Crystallo similis, vel aquae, cum limpida paret»). Inoltre a XLIX 13, «fa l’uomo vincitor nella battaglia», l’Acerba si accosta di nuovo più a Bartolomeo («Hic in certamine secundum magos creditur reddere homines insuperabiles et invictos») che al De lapidibus (v. 81: «Invictum reddit lapis hic quemcunque gerentem»)19.
Per quel che riguarda la descrizione del magnete Bartolomeo afferma20 che ci sono due tipi di magneti, uno che proviene dall’India ed attira il ferro, l’altro che proviene dall’Etiopia e respinge quello stesso metallo (cap. LXIII: «In India apud Troglodytas invenitur, ferrum trahit […]. Est enim alia species magnetis in Aethiopia, quae ferrum respuit et a se fugat»), passi entrambi restituiti quasi alla lettera nell’Acerba (LII 13-16: «La calamitra per sé tira ’l ferro, / e questa nasce in India21 maggiore / e l’altra de Etiopia se
lire facit […] nam posita in pelvi in aqua clara radios Solis mutat et ex aeris repercussione obumbrare videtur radiorum solariorum claritatem et quandam inducere in colore sanguinem colorem». 16 Ibid., cap. LXXXVIII: «Habet tertio ex naturae dono virtutis beneficium diversarum infirmitatum curativum». 17 Ibid.: «[…] reddit memoriam. Valet etiam contra illusiones et phantasmata demonum». Anche la proprietà enunciata al v. 59, «conserva ’l viso che virtù non perde», pur essendo presente in Marbodo (v. 156: «emendat fessos viridi mulcedine visus») presenta una formulazione che coincide con quella di Bartolomeo («visus conservat debilem et confortat»). 18 E: «sire». 19 Da notare tra l’altro che in questo punto Bartolomeo presenta una libera parafrasi proprio di Marbodo. 20 La fonte diretta è qui Isidoro, Etymologiarum libri, XVI, IV 1. 21 E: «nasce invidia maggiore».
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non22 erro. / Da·lei lo ferro fugga coll’aspetto»). Marbodo, invece, non nomina l’India, limitandosi ad affermare (v. 284) che «Magnetes lapis est inventus apud Trogoditas», indica un solo tipo della pietra e non accenna ad alcuna virtù repulsiva nei confronti del ferro.
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Lo spunto presente nel capitolo XXVIII del De rerum proprietatibus sul calcedonio, per cui la pietra avrebbe la virtù di scacciare le entità demoniache («His lapis perforatus et portatus […] valet contra illusiones daemonum»), viene ripreso e, soprattutto, ampliato a LIV 13-18 («S’è perforato anche me’23 resiste / a spirti maligni et a·lor beffe, / mostrando in sogno le diverse viste24; / di dì e di notte fanno gran paure / che, dubitando l’uom, par che ne cesse / vegendo l’ombre e subito figure»). Tutti elementi assenti invece nei brevissimi quattro versi dedicati da Marbodo a questa pietra (XI. De Chalcedonio).
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Infine un ultimo caso. La pietra su cui si apre il cap. LV è l’enidro, che Cecco chiama «entra»25. La descrizione dell’entra è brevissima, occupando solo i vv. 1-3, e si limita a segnalare l’unica caratteristica per cui essa viene sempre menzionata nei lapidari, quella cioè di espellere continuamente acqua. Il capitolo corrispondente del De rerum proprietatibus (XLII) è in realtà per una buona metà parafrasi e talvolta citazione diretta da Marbodo26. Però Bartolomeo sente il bisogno di dare una risposta (introdotta dalla formula «ut mihi videtur») alla questione posta da Marbodo circa lo strano rapporto tra questa continua emissione di liquido e l’immutabile massa della pietra. Cito direttamente dal De rerum proprietatibus:
22 E: «se». 23 E: «non». 24 E: «liste». 25 E: «L’altra».
Le edizioni Albertazzi e Rosario stampano «Lentra», ma dirime la questione la menzione della pietra come «entrax» nel commento all’Alcabizzo: «Nam aquarius et capricornus sunt stelle Saturni et respiciunt cancrum et leonem ex aspectu inimicitie, idcirco removet tenebrositatem illorum locorum, quia in capricornio sunt stelle que habent naturaliter attrahere vapores ad se ut entrax aquam, ut dicit Yparcus in libro De rebus ubi ad licteram sic dicit: “Ut entrax aquam sibi apponit, sic vapores lumina capricornij”. Iuxta quod debetis intelligere, ut dicit Evax arabum et Zot grecus et Germa babilonensis, entrax est quidam lapis qui semper emictit aquam sive sit in igne sive in terra sive in aere, nec cessat effundere ad modum roris, et quia non minuitur in pondere, idcirco arguitur quod in se habet virtutem attrahendi ad se ex aliis elementis aquam»: Il Commento di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, a cura di G. Boffito, Firenze 1905, p. 19. 26 Vv. 602-609: «Perpetui fletus lacrimis distillat enidros / quae velut e pleni fontis scaturigine manant, / cujus naturae grave sit deprehendere causam; / nam si decurrit lapidis
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Et dicitur ibidem [cioè in Marbodo] quod difficile est huiusmodi reddere rationem, quia si gutta defluit de lapidis substantia, quare non minor efficitur vel omnino liquescit? Si vero ros vel aliud ipsum ingreditur, quid non repellit egredientem? Potest tamen esse, ut mihi videtur, quod virtus lapidis condensat in aquam aerem sibi vicinus propinquantem, ut iam videatur exire de substantia lapidis quod egreditur de substantia aeris circumstantis.
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La spiegazione fornita da Bartolomeo è appunto quella accettata dall’Acerba (vv. 1-3): «L’entra che l’acqua per virtude tira / de l’aire e sopra sé così condenza, / e’ par che dentro nasce chi la mira»27. Particolarmente significativa è in questo caso anche l’assoluta aderenza lessicale all’interpretazione di Bartolomeo («virtus lapidis condensat in aquam aerem sibi vicinus» corrisponde a «[…] l’acqua per virtude tira / de l’aire e sopra sé così condenza»).
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L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo, ma credo sia sufficiente per questa occasione quanto sin qui segnalato. L’aderenza di Cecco a Bartolomeo, come si è visto, non è solo, per così dire, di sostanza, ma anche di forma, con riprese precise del lessico del De rerum proprietatibus (come per l’entra, l’ultima pietra di cui ho parlato). Una rete, insomma, fitta e continua. 2. Marbodo
Detto questo, va aggiunto che esistono alcune discrepanze tra Cecco e Bartolomeo che trovano corrispondenza in elementi rinvenibili invece nel lapidario di Marbodo. Elencherò velocemente i (pochi) casi in questione:
1) Nel capitolo dedicato al diamante (XLVIII 13-36) l’Acerba distingue tra due diversi tipi di questa pietra. Il primo, per cui Cecco non indica un luogo
substantia, quare / non minor efficitur, vel non omnino liquescit? / Si ros exterior descendit ad interiora / ut semper refluat, cur se non impedit ipsum / scilicet ingrediens contrarius egredienti?». 27 Lo stato testuale di questi versi è dal punto di vista della sintassi tutt’altro che soddisfacente. Ho l’impressione che i copisti antichi siano stati ingannati, così come gli editori moderni, ed abbiano inteso i vv. 4-6 come riferiti all’enidro, intervenendo così sulla sintassi. L’unico emendamento che qui propongo («e’» al v. 3 anziché «e» come hanno le edizioni) cerca di ridurre economicamente il disagio (il significato è, grosso modo: “L’entra che ha la proprietà di attirare dall’aria l’acqua e di condensarla al proprio esterno, sembra all’occhio di chi la osserva che quell’acqua la tragga dentro di sé”). Faccio notare che, tra l’altro, la stessa spiegazione la si ritrova anche nel passo del commento all’Alcabizzo qui già citato alla nota 25.
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di provenienza, ha come proprietà un’eccezionale durezza e il potere di interdire la potenza attrattiva del magnete («presente questa, giamai calamita / a·lei di trager ferro non resulta, / ma fa nel tempo sua potenza quita», vv. 28-30); il secondo, «che Arabbia produce» (v. 31), è per contro fragilissimo («vaccio sì rompe sì come cristallo», v. 32). Il corrispettivo capitolo del De rerum proprietatibus (cap. IX28) cita un unico tipo di diamante, il primo dei due nominati nell’Acerba, distaccandosi però da Isidoro nell’attribuirgli non tanto un effetto di interdizione rispetto al magnete ma addirittura proprio quello di respingere il ferro. Decisamente più convincente l’accostamento a Marbodo, il quale cita quattro tipi di diamante, provenienti nell’ordine dall’India, dall’Arabia, da Cipro e dalla Grecia: quello indiano corrisponde perfettamente al primo diamante dell’Acerba, mentre la seconda pietra di Cecco ha appunto la stessa fragilità del diamante arabo29.
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2) Solo in Marbodo viene istituito un rapporto di parentela tra il nome del panterone e quello della pantera (vv. 655-658: «Pantheram patet esse feram diversi colorem / India quam gignit cujus pavefacta leonum / voce fugit rabies, quam bestia contremit ominis / hujus ad exemplar, sic est lapis iste vocatus»), rapporto assente in Bartolomeo (che per altro qui, come dicevo, presenta una voce brevissima e ripresa30nella sostanza proprio da Marbodo) e presente invece nell’Acerba, LI 19-24 .
3) Nella descrizione del diacodio31, a LII 4-5, Cecco afferma: «S’è messo in acqua, vegnon per natura / li spirti tutti della32 setta borna», con rinvio a un particolare, quello della necessità di immergere la pietra nell’acqua prima di evocare i demoni, presente in Marbodo (vv. 684-685: «Diadocos
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Anche in questo caso si tratta per buona parte un’esplicita ripresa di Isidoro, Etymologiarum libri, XVI, XIII. 29 Cfr. De lapidibus, vv. 34-35: «Alterius generis producit Arabs adamantem, / non sic invictum: nam frangitur absque cruore». 30 Per quello che riguarda invece le due principali spiegazioni fornite da Marbodo e dai suoi derivati circa una tale quasi omonimia, cfr. la mia nota a Intelligenza 54.1-2, in L’Intelligenza. Poemetto anonimo del secolo XIII cit., pp. 226-227: Cecco, in ogni caso, si limita a segnalare la presenza di un rapporto. 31 La pietra è citata anche nel commento all’Alcabizzo: «Iuxta quod debetis intelligere quod dyacodius est quidam lapis cuius color est plumeus [sic]: si ponitur in aqua cum caput vel cauda fuerint in Sagittario, naturaliter spiritus qui sunt extra ordinem gratie eveniunt ad responsa. Et hic lapis habet mirabilem proprietatem, nam si tangat corpus humanum mortuum amictit vires suas, ut dicit Evayrex [sic] arabum in libro de lapidibus»: Il Commento di Cecco d’Ascoli cit., p. 17. 32 E: «dalla».
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per aquam responsa petentibus aptus / demonis effigies varias ostendere fertur»), e assente invece in Bartolomeo (cap. XXXVI: «est apta ad responsa a daemonibus obtinenda, excitat enim daemones et phantasmata»). Anche in questo caso la voce di Bartolomeo è parafrasi quando addirittura non citazione esplicita del De lapidibus.
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4) Forse dipende da Marbodo quanto affermato nella descrizione del chelidonio a LV 6: «chiunche la vole, convien che·la sventre», particolare che non ha riscontro nel De rerum proprietatibus (dove al cap. XXX ci si limita ad affermare che «De ventre hirundinis extrahuntur») e meglio affiancabile invece a De lapidibus, v. 255: «nam niger et rufus caeso de ventre trahuntur».
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5) Potrebbe infine rinviare di nuovo a Marbodo anziché a Bartolomeo l’affermazione dell’Acerba nella descrizione della galazia a LVI 9 «così natura vuol che fredda sia»33, che riprenderebbe De lapidibus, vv. 526-527: «Cujus naturae vis tanta probatur ut omni / tempore frigida sit […]» (più neutramente il De rerum proprietatibus, cap. LI: «Et est tantae frigiditatis»). Nel complesso, come si vede, si tratta di un numero molto limitato di punti, e gli ultimi due potrebbero essere tra l’altro rielaborazioni autonome dell’Acerba a partire in qualche modo già da quanto affermato nel De rerum proprietatibus. In più, nei casi 2 e 3 il testo di Bartolomeo è una derivazione diretta del De lapidibus, per cui è legittimo il sospetto che l’assenza dei particolari qui in questione possa essere imputata allo stato della tradizione testuale. Detto questo, comunque nulla esclude, almeno in linea teorica, che Cecco sia anche ricorso direttamente, seppure in modo sporadico, a Marbodo. 3. Altre fonti del lapidario dell’Acerba?
Sotto questa rubrica dubitativa riunisco alcuni elementi presenti nell’Acerba ed assenti tanto in Bartolomeo quanto in Marbodo: prima i casi in cui, come si vedrà, l’Acerba riporta informazioni citate nella tradizione dei lapidari, in conclusione quelli di cui non mi è riuscito di individuare la provenienza.
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A proposito dell’immediatamente precedente v. 8, la lezione di E «prende colore» così anche in P, e dunque nell’edizione Albertazzi - si dovrà naturalmente correggere in «calore» - come hanno F1, M, V e l’edizione Rosario.
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3.1. Notizie presenti nell’Acerba e in altri lapidari 1) A proposito del diamante (XLVIII 25-27) Cecco afferma: «Chi ’n sangue caldo questa prieta involve, / over con piombo, per natura occulta / poca percossa in polver lo disolve». Il particolare del piombo si trova in Alberto Magno34 e nella versione latina del lapidario alfabetico francese pubblicata da Paul Meyer35.
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2) Nel capitolo sul magnete (LII 17-18) si legge: «un’altra calamitra è de dolore: / la carne umana tira al suo cospetto». Anche questa caratteristica, assente in Bartolomeo, è menzionata da Alberto Magno (cap. 11), che rinvia per questo al lapidario pseudo-aristotelico36.
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3) Nel capitolo sul corallo (LV 23) si afferma che questa pietra «lo stomaco conforta». La notizia, anche questa volta non presente in Bartolomeo, è però nel tardo lapidario veneto del Palatino 548, che rinvia per essa ad Avicenna37. 3.2. Notizie di provenienza ignota
1) Parlando dell’allettorio (XLIX 19-22) Cecco afferma: «È Jove che in testa forma e ventre / innel capone, che so’ lu’ è concetto, / pur che suo raggio sotto Cancro c’entre, / Aresta, che sì ritien lo sperma»38. Al v. 19, insomma (non credo si possa interpretare altrimenti39), si dichiara che l’allettorio può formarsi nella testa e nel ventre del cappone40. In questo caso la tradi34 Cito da De mineralibus et rebus metallicis libri quinque, Coloniae 1569, l. II, tr. I, cap.
1, p. 119: «Solvitur etiam lapis iste, quod mirabilius videtur, plumbo, propter multum argentum vivum quod est in ipso». 35 Meyer, Les plus anciens cit., p. 539: «Aspersus autem sanguine yrcino cum sera plumbea potest secari in qualiacumque frustra volueris». Meyer - ibid., p. 538 - giudica tra l’altro plausibile una provenienza italiana per questo lapidario. 36 De mineralibus cit., l. II, tr. I, cap. 11, p. 158: «Aristotelis dicit quod est quodam genus illud magnetis quod trahit carnes homines». 37 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 548, c. 42v: «Avicena in lo segundo canone in lo capitolo del coralo dixe che ’l coralo specialmente ha vertù contra tute quante le infermità del stomego». 38 Modifico la punteggiatura finale del v. 21 - l’edizione ha punto fermo dopo «c’entre» - e stampo «sì» anziché «si». 39 Bizzarra l’interpunzione di questo verso proposta da Albertazzi: «È Iove che in testa, forma o ventre». 40 Concordi nella sostanza i mss. citati da Albertazzi e l’edizione Rosario: unica differenza (unanime) «o nel» anziché «e nel».
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zione dei lapidari è quasi concorde: l’allettorio si forma «Ventriculo galli» (Marbodo, v. 74), «in ventriculis gallinaceis» (Bartolomeo, cap. XVII), «in ventriculis gallinaciorum» (Damigeron non alfabetico, cap. XIX) ecc.41. Quasi: perché l’Intelligenza, anzi il manoscritto Magliabechiano VII.1036, che è nel punto in questione il suo unico testimone, afferma proprio che l’allettorio «dentro al capo del pollo si trova» (per contro, la fonte diretta del poemetto, il Libro delle virtudi: «Aletorio si è una pietra la quale nasce nel ventricello del cappone poscia k’elli è vivuto .vij. anni compiuti»42). Non mi è però possibile indicare da dove i due autori traggano l’affermazione (escluderei una conoscenza dell’Intelligenza da parte dello Stabili)43.
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2) Nei versi dedicati al topazio, l’Acerba aggiunge due informazioni (L 8 e 11: «a passioni meridional resiste / […] / e credesi che dignitade acquiste»44) assenti in Bartolomeo (anche se la prima può forse essere considerata come un integrazione di Cecco a partire da quanto affermato al v. 7: «Resiste alla lunatica malia», corrispondente a De rerum proprietatibus, cap. XCVI: «Dicitur etiam quod […] contra Lunaticam valere [sic] passionem»).
3) Nella descrizione del diaspro Cecco afferma (L 23-24): «legato nell’argento portar deve / ciascun questa pietra, si fa guerra». Il problema qui non risiede nella menzione dell’incastonatura della pietra nell’argento, che è notizia diffusissima in tutti i lapidari, ma nell’inciso del v. 24 che, invece, non ho trovato in alcuna delle fonti che ho potuto vedere (anche se forse 41 42
La notizia del resto era già almeno in Isidoro, Etymologiarum libri, XVI, XIII. Da qui la mia decisione di intervenire sulla lezione, non avendo presente questo passo di Cecco. Decisione che ritengo ancora legittima e opportuna (in questo come in qualche altro caso) nonostante il parere contrario espresso negli ultimi tempi da D. Cappi, Per una nuova edizione de L’Intelligenza, «Filologia italiana», 2 (2005), pp. 49-103, e soprattutto da D. Cappi, Contributo all’esegesi de L’Intelligenza. Nuove postille sul testo, «Studi e Problemi di Critica Testuale», 71 (ottobre 2005), pp. 91-144. 43 Segnalo qui il fatto che, sempre a proposito dell’allettorio, a XLIX 17 si legge: «li amici disdegnati suol chinare». Siamo qui in presenza di un elemento già in Bartolomeo («amicos reformat») ed assente per contro in Marbodo. È però curioso sottolineare come la stessa informazione sia presente anche in testi che alla tradizione marbodiana possono essere aggregati per via diretta, a partire proprio dall’Intelligenza - 18.6: «conserva l’amistà vecchia e la nova», innovante rispetto alla fonte diretta: «riduce li honori schacciati et acquista li nuovi», quest’ultima in accordo con De lapidibus, v. 86: «Acquiritque novos, veteresque reformat honores» -, ma già nella prima versione francese edita da Léopold Pannier - cfr. Les lapidaires français cit., p. 39, v. 231: «A úme cunquert bons amis» - e nel lapidario in prosa francese pubblicato da Paul Meyer - cfr. Meyer, Les plus anciens cit., p. 274: «Ele rameinet bien les dechaiez e conquert a hume bons amis». 44 E: «acquisti».
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può essere avvicinabile il Lapidario di Berna, v. 327: «Puissant contre son adversaire»45). 4) La voce sull’elitropia si apre con il verso (LI 1): «Elitroppia, qual’è detta orfanella». Anche in questo caso si tratta di una indicazione che non ho mai trovato altrove. Lo stesso vale anche più sotto al v. 12: «e può con essa, chi vuole, esser furo», dove però si potrebbe anche trattare di una specie di deduzione indipendente, a partire dalla notissima virtù dell’elitropia di rendere invisibili coloro che la indossano portando con sé l’erba con lo stesso nome.
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5) A proposito del giacinto si legge (LI 34-36): «fuga ’l veneno e omor adequa46. / Umor che fosse de natura vaire, / per sua virtude, lo distrugge e l’equa». Se il primo emistichio del v. 34 trova corrispondenza in Bartolomeo (cap. LIV: «veneno obviar et toxico contrariatur»), gli altri risultano senza rinvii ai lapidari che ho potuto vedere. 4. Conclusioni (provvisorie) e alcune proposte testuali Come spero di aver mostrato sin qui, a parte alcuni elementi (molto limitati) extravaganti, il grosso della sezione del lapidario stabiliano dipende direttamente da Bartolomeo Anglico. Le spinte centrifughe, chiamiamole così, che ci allontanano da quella fonte potrebbero in realtà dipendere in parte da elementi di contaminazione già presenti nell’esemplare del De rerum proprietatibus utilizzato (penso in particolare agli elementi marbodiani assenti in Bartolomeo e presenti nell’Acerba), in altra parte da notizie desunte da Cecco da letture assimilabili e non sempre identificabili. La pratica contaminatoria, del resto, si può dire che sia peculiare di questo genere di testi. Per fare un esempio, il lapidario veneto conservato nel Palatino 548, che mi è capitato prima di citare, consiste principalmente in una traduzione piuttosto fedele di Marbodo, a cui vengono però aggiunte, in coda a quasi tutti i capitoli, informazioni desunte da altre fonti, introdotte con rubriche che ne indicano la provenienza. E, cosa ancor più interessante, si danno casi in cui le aggiunte ribadiscono dati già presenti in Marbodo, denunciando quindi come l’accumulo di notizie sia un obbiettivo seguito anche a costo di una inutile ridondanza informativa.
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Les lapidaires français cit., p. 117. E: «adacqua».
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Resta inteso che, in questo come in casi simili, l’interazione tra restituzione testuale e commento, con l’individuazione, per quanto possibile, delle fonti utilizzate da Cecco, può permettere una più precisa indicazione di eventuali danni della trasmissione e dei rimedi applicabili, soprattutto là dove niente denuncia, a prima vista, una patente manomissione. Vorrei quindi concludere fornendo tre ipotesi su altrettanti punti critici del testo di questa sezione che mi è capitato di individuare durante questo lavoro, elencate nell’ordine di probabilità d’intervento.
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1) Nella terza strofa del capitolo XLIX vengono elencate alcune virtù (la capacità di vincere in combattimento, di diventare facondi, di togliere la sete ecc.) che sono proprie non dell’agate, sulla cui descrizione il capitolo si apre con le prime due strofe e di cui quella in questione sembrerebbe una prosecuzione, ma dell’allettorio, che è la pietra che invece subito segue. Ci si trova insomma di fronte ad un’inversione nell’ordine delle strofe, fenomeno tutt’altro che infrequente nella tradizione dell’Acerba47. 2) Nella descrizione della perla, a LVI 4, E legge: «Delle celeste rosata si forma». La maggior parte dei codici messi in apparato nell’edizione Albertazzi presenta la preposizione al singolare (F «Da la», F1, V, M «Della» / «De la»)48, mentre P ha, come nel codice Eugubino, «De le» al plurale. Il che comporta nell’edizione Albertazzi la lezione «De le celeste, rosata si forma», e il conseguente e a questo punto necessario suggerimento di una genesi tra perle di diverso colore. In realtà qui ci si trova di fronte al sostantivo «rosata» “rugiada”, come prova senza dubbio la corrispondenza con «coelesti rore» di Bartolomeo (o forme simili49) da cui appunto trae origine la perla, tanto più che «rosata» è termine utilizzato anche altrove da Cecco nell’Acerba50.
47 Albertazzi indica ben venti manoscritti in cui l’ordine di queste tre strofe sarebbe quello corretto (e cioè con i vv. 13-18 posti a seguito dei vv. 19-24 dell’edizione Censori - Vettori), ma non so l’attendibilità del dato, visto che nell’elenco è incluso proprio E. Sicuramente lo stesso ordine di E è invece presentato dal Parigino ital. 579 posto a base della sua edizione. 48 «Da la» ha anche l’edizione Rosario. 49 Ad esempio, il primo lapidario francese edito da Pannier - cfr. Les lapidaires français cit., p. 65 - che traduce De lapidibus, v. 633: «rores […] supernos» con «Le rosee del ciel […]» (v. 859). 50 Dato desumibile dal corpus TLIO (Tesoro della Lingua Italiana delle Origini), che per «rosata» segnala, oltre a Restoro d’Arezzo, il Bestiario toscano e Antonio da Tempo, Acerba IV, IV 9 e 30. Entrambi i versi presentano in E la forma «rugiada»; per quel codice, tra l’altro, il capitolo in questione è il terzo, non il quarto.
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3) A XLIX 18, già citato in precedenza, E legge: «se non sta dentro, suo natura scocca». Pur lasciando da parte il problema posto dal verbo in rima51, rimane egualmente inspiegabile «dentro» a cosa dovrebbe stare l’allettorio per poter «scoccare» (o «sbroccare») la propria «natura». Va comunque notato che in questo punto l’edizione Rosario e i mss. P, F1 e M riportano «se non sta in oro», a cui può essere accostata la lezione di F «in loro», mentre il solo V, con «se non sta idro», potrebbe essere avvicinabile ad E. Le lezioni alternative qui segnalate, però, non forniscono ancora una soluzione del tutto soddisfacente, visto che nessun lapidario afferma che l’allettorio per essere efficace dev’essere legato nell’oro. Forse originariamente il verso suonava più o meno «se non sta in ore», cioè “se non sta in bocca”, con variazione sinonimica, dunque, rispetto al v. 16: «tolle la sete chi·la porta in bocca»? In questo senso sarebbe possibile rinvenire un parallelo con Marbodo, che infatti chiarisce (v. 91) come tutte le virtù dell’allettorio possano manifestarsi solo se «clausus portatur in ore». Se questa ipotesi venisse giudicata accettabile, si tratterebbe di un’altra traccia di derivazione diretta dal De lapidibus, visto che il particolare è assente in Bartolomeo. Va però segnalato che non mi risultano attestazioni in italiano di questo latinismo. Per concludere davvero. Dal confronto con le fonti può venire anche qualche aiuto in direzione di una corretta segmentazione delle singole descrizioni all’interno dei vari capitoli. La descrizione del chelidonio52 al cap. LV, ad esempio, a differenza di quanto appare nelle edizioni, inizia col v. 4 e non col v. 7. È infatti il chelidonio, non l’entra che subito la precede, la pietra che «la rondine la porta nel suo ventre» (v. 4).
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Che in altri testimoni, e nelle edizioni Rosario e Albertazzi, è «sbrocca». Per E «l’alidonio».
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Tav. A. Firenze, Biblioteca Laurenziana, ms. Pluteo 40.52. Cecco dâ&#x20AC;&#x2122;Ascoli, Acerba, c. IVv, Stemma del committente.
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Opera maledetta doveva essere l’Acerba. Nondimeno essa dovette continuare a circolare dopo la morte dell’autore se a circa cinquant’anni dal tragico rogo, cui nel 1327 Cecco d’Ascoli fu condannato per la sua fede nell’astrologia, un appassionato committente ne fece eseguire un esemplare di pregio, oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze (ms. Pluteo 40.52)1. Ivi egli non esitò a dichiarare ai contemporanei, in apertura di libro, la propria identità, mediante il suo stemma dipinto a piena pagina e sormontato da un elegante cimiero, e a proporre a inizio testo la figura di Cecco in cattedra quale dottore e maestro [Tav. A, Fig. 1]. Evidentemente a tale data il poema doveva avere perso molto della sua carica eversiva pur mantenendo tutto il suo fascino. Nel seguito del manoscritto laurenziano un intelligente e raffinato miniatore, forse in qualche misura coadiuvato, si impegnò a dare immagine al testo del poema dando luogo ad una fascinosa descrizione del cosmo, del firmamento, del mondo umano nelle sue virtù e nei suoi vizi,
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Per Francesco Stabili detto Cecco d’Ascoli, docente di astrologia allo Studio di Bologna almeno dal 1322, ivi diffidato dall’insegnamento nel 1324 per le sue convinzioni astrologiche dal tribunale dell’Inquisizione e nel 1327 a Firenze condannato al rogo con la stessa motivazione, si vedano soprattutto i contributi di Claudio Ciociola, autorevole studioso di Cecco d’Ascoli, e in particolare C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, II: Il Trecento, Roma 1995, pp. 430-437. Per il testo dell’Acerba si vedano recentemente L’Acerba. Secondo la lezione del Codice Eugubino dell’anno 1376, a cura di B. Censori - E. Vittori, Ascoli Piceno 1971; Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002. Per la correlazione tra testo e immagine nell’esemplare laurenziano si veda altresì il facsimile del manoscritto edito, nelle more tra la presentazione di questo intervento al convegno e la stampa degli atti, a cura del Poligrafico dello Stato con ampio commentario: I.G. Rao - G. Mariani Canova, L’Acerba di Cecco d’Ascoli, Roma 2006 (I.G. Rao, «Liber acerbe etatis»: note codicologiche sul laurenziano pluteo 40.52, pp. 7-42; G. Mariani Canova, Il cosmo rappresentato: astri, virtù, animali, pietre preziose nel manoscritto laurenziano dell’Acerba di Cecco d’Ascoli, pp. 45-83).
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degli animali e del regno minerale, evocati come interconnessi da un complesso sistema di forze misteriose e di significati simbolici. L’accenno allo stemma ci porta subito al problema dell’origine del manoscritto, che a suo tempo venne presentato come padovano, ma senza particolari motivazioni, da Muzzioli alla grande mostra della miniatura italiana del 1953-19542, che poco dopo di nuovo fu giudicato probabilmente padovano, ma sempre senza precise motivazioni, da Salmi3 e analogamente nel 1957 da Folena, che tuttavia notava semplicemente alcuni fonemi settentrionali introdotti dal copista4. Pallucchini pure si esprimeva in senso padovano, pur notando inflessioni stilistiche orientate su Verona e la Lombardia5. Dopo un intervento sempre in chiave decisamente filopadovana di Sergio Bettini nel 19746, nel 1982 interveniva Luisa Cogliati Arano che, pur significativamente notando i caratteri lombardi dell’illustrazione, ribadiva l’origine padovana del manoscritto, indicandone come committente quel Bonifacio Lupi che negli anni Settanta del Trecento fece dipingere a Iacopo Avanzi e ad Altichiero da Zevio la cappella di San Giacomo nella chiesa del Santo a Padova. A motivazione la studiosa evidenziava una somiglianza tra il cimiero che sovrasta lo stemma [Tav. A] e quelli visibili appunto nella cappella Lupi e sul sepolcro di Bonifacio7. In realtà, se i cimieri possono essere simili, ma si badi bene non uguali, differisce nettamente lo stemma, che è il principale discriminante nell’araldica, e che nella cappella Lupi si caratterizza per l’inconfondibile lupo, emblema di famiglia, mentre qui ci troviamo di fronte a uno stemma inquartato di oro e d’argento (il bianco in araldica spesso è
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Mostra storica nazionale della miniatura italiana (Roma, Palazzo Venezia, 1953-1954). Catalogo, a cura di G. Muzzioli, Firenze 1953, pp. 160-161, n. 237. 3 M. Salmi, La miniatura italiana, Milano [1955-1956], p. 39. 4 G. Folena, in Mostra di codici romanzi delle biblioteche fiorentine. VIII congresso internazionale di studi romanzi (Firenze, 3-8 aprile 1956), Firenze 1956, scheda L 48, pp. 47-48. 5 R. Pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, p. 221. 6 S. Bettini, Le miniature del «Libro Agregà de Serapiom» nella cultura artistica del tardo Trecento, in Da Giotto al Mantegna. Catalogo della mostra (Padova, 9 giugno - 4 novembre 1974), a cura di L. Grossato, Milano 1974, p. 59. Bettini esaminava in senso padovano l’Acerba anche nelle sue dispense universitarie dell’A.A. 1972-1973: S. Bettini, Formazione della pittura gotica “internazionale” studiata soprattutto attraverso l’analisi dei “tacuina sanitatis”. 7 L. Cogliati Arano, L’Acerba di Cecco d’Ascoli alla Biblioteca Laurenziana: Datazione, in La miniatura italiana tra Gotico e Rinascimento. Atti del secondo congresso di Storia della miniatura (Cortona, 24-26 settembre 1982), a cura di E. Sesti, I, Firenze 1985, pp. 243-253. Precedentemente L. Cogliati Arano, Approccio metodologico al Bestiario medioevale, in I Congresso nazionale di Storia dell’arte (Roma, 11-14 settembre 1978), a cura di C. Maltese, Roma 1980 (Quaderni de “La ricerca scientifica”, 106), pp. 149-150.
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usato per l’argento) con un virgulto nel quadrante superiore sinistro forse dipinto posteriormente, visto che intorno si scorge un’abrasione. Uno stemma identico e con lo stesso inserto appare sulla testa del cimiero. Anche questo a sua volta non collima perfettamente con quello dei Lupi, che presenta una testa di cavallo con folta criniera mentre qui ci troviamo di fronte ad una testa caprino-equina con due lunghe terminazioni. Vista tale differenza, evidentemente l’identificazione del committente con Bonifacio Lupi viene a cadere e con essa l’idea di sostenere su base documentaria l’origine padovana del manoscritto e la sua datazione, dalla Cogliati situata, del resto giustamente, prima del 1390 anno di morte di Bonifacio. Lo stemma comunque attende ancora di essere identificato con sicurezza, benché presenti qualche somiglianza con quello della famiglia veronese Zaniboni8, e pertanto la configurazione topica e cronologica dell’Acerba laurenziana deve essere affidata al giudizio stilistico, che a mio modo di vedere sembra condurre all’area lombarda, e non padovana, degli anni Ottanta del Trecento. Così, del resto, si pronunciava una mia brava allieva, Roberta Angelin, nella sua brillante tesi di laurea discussa a Padova nel 1993-19949. Se la committenza risultasse davvero veronese ci troveremmo comunque di fronte ad un fatto lombardo, o alla lombarda, che porterebbe a riflettere di nuovo sui contorni, invero ancora oggi sfuggenti, della miniatura a Verona nel secondo Trecento. Ogni altra considerazione mi sembra debba comunque basarsi sull’esame sistematico del manoscritto che è uno dei più antichi che ci rimangano dell’Acerba e certo il più antico con miniature10. Bisogna innanzitutto notare che esso non doveva essere stato progettato per accogliere una così ricca illustrazione. Infatti nella prima pagina [Fig. 1] lo spazio lasciato libero per la prima iniziale era piuttosto piccolo e il miniatore ne esorbitò i limiti spo-
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E. Morando di Custoza, Armoriale veronese, Verona 1976, n. 2877. I colori sono tuttavia scambiati nella posizione e mancano notizie sulla famiglia. 9 R. Angelin, Un poema allegorico-didascalico e le sue miniature: L’Acerba di Cecco d’Ascoli alla Laurenziana di Firenze, Tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Lettere, A.A. 1993-1994. 10 Degli altri manoscritti figurati dell’Acerba solo due sembrano recare immagini di una certa qualità, e cioè il ms. 1021 della Biblioteca Trivulziana, lombardo della prima metà del XV secolo, e il più pregevole ms. Hamilton 138 del Kupferstichkabinett di Berlino, datato 1475 e pure lombardo, che reca figurazioni iconograficamente dipendenti dal Laurenziano o dal medesimo antigrafo o da un esemplare parallelo. Gli altri testimoni figurati esibiscono, oltre ad iniziali modestamente ornate, schemi e semplici disegni acquerellati di qualità assai modesta. A parte il Parigino ms. it. 579, forse tardotrecentesco, sono tutti del XV secolo (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 3568; Firenze, Biblioteca Laurenziana, mss. Ash. 370 e 1374; Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. B 156 sup. e ms. V 13 sup., datato 1416; Milano,
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standosi con la vignetta con il ritratto dell’autore sul margine interno, tanto che dovette riequilibrare il rapporto testo-immagine con un grosso fregio. La prima delle immagini cosmologiche che appaiono nel primo libro dell’Acerba viene a sua volta a collocarsi sul margine esterno e così, nel seguito del codice, le altre figure cosmiche e quelle delle Virtù e dei Vizi che accompagnano il secondo libro sono pure tutte spostate sul margine; talora, come nel caso della Temperanza (c. 20r) [Fig. 6], la figura si tronca al momento dell’impatto con il testo. Solo quando, come spesso nel bestiario e nel lapidario del terzo libro [Fig. 16], l’immagine si inserisce bene, di per sé, in uno stretto spazio orizzontale, essa viene eseguita nell’area lasciata bianca. Nel primo libro l’Acerba parla dei pianeti, della loro incidenza sull’indole degli uomini - che è la principale idea-guida di tutta l’opera - e dei fenomeni del firmamento; nel secondo libro si tratta delle virtù umane, intese come dipendenti dall’influsso dei diversi cieli, e infine degli opposti vizi. Il terzo libro presenta i comportamenti degli animali come segno di quelli umani e illustra le virtù conferite dagli astri alle pietre preziose. L’alto livello dello stile e la bellezza delle invenzioni figurate contribuiscono a visualizzare in modo affascinante la poesia dell’Acerba e più in generale evocano in modo esemplare quello straordinario momento della cultura e della scienza italiana che, in primo Trecento e cioè proprio nel momento in cui Cecco poetava, si impegnavano nello sforzo di trovare le cause naturali del diverso aspetto fisico, della diversa indole e degli stessi diversi destini degli uomini, per la prima volta presi in esame nella loro individuale realtà psicofisica. Tale complessità di fenomeni parve riferibile all’incidenza degli astri, intesi non già come spiriti misteriosi ma come entità fisiche operanti, non a caso, ma secondo leggi precise e pertanto con effetti prevedibili. Ciò nello sforzo di sottrarre la molteplicità dei fenomeni umani al caso o ad un indiscriminato ricorso alla volontà divina. La radice di tali dottrine si trovava nella scienza tolemaica riscoperta dopo la traduzione dall’arabo in latino delle opere di Tolomeo, condotta a Toledo da Gerardo da Cremona verso il 1175 e ampiamente rivisitata in Europa nel XIII secolo con un processo giunto a piena maturità appunto all’inizio del Trecento11. Grande protago-
Biblioteca Trivulziana, mss. 1020 e 1021; Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. 697; Londra, British Library, ms. Harley 3577, datato 1481; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 2608, forse veneto). Per tutti si veda M.G. Mazzocchi Scatasta - M. Alberti Vittori, Le illustrazioni dell’Acerba nei codici italiani e stranieri e nelle edizioni a stampa della biblioteca di Ascoli Piceno, in M. Scatasta - M. Mandrelli - M.G. Mazzocchi Scatasta - M. Alberti Vittori - C. Melloni, Cecco d’Ascoli, Ascoli Piceno 1990. 11 Fondamentale in questo senso la traduzione del Quadripartito dove Tolomeo aveva
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nista dell’avvio di questa esperienza, che trovò sostegno anche nell’acquisizione della scienza araba, pure in gran parte basata su Tolomeo e che ebbe uno dei maggiori centri di elaborazione alla corte di Alfonso X el Sabio re di Castiglia12, fu nell’Italia padana Pietro d’Abano, docente allo Studio patavino e come Cecco condannato al rogo poco prima del 1318, benché una provvida morte naturale lo scampasse alla condanna13. In tale problematica furono coinvolte anche le arti figurative e Giotto stesso, che a Padova, proprio nel tempo di Pietro d’Abano e probabilmente su suo suggerimento, dipinse sulla prestigiosa volta del Palazzo della Ragione un ciclo astrologico, oggi perduto, in cui il contemporaneo Giovanni da Nono ci dice apparivano «duodecim celestia signa et septem planete cum suis proprietatibus», vale a dire con la rappresentazione dei loro influssi sull’uomo14. Cecco d’Ascoli, docente di astrologia all’università di Bologna, mostra di avere fervidamente condiviso tali ricerche e non v’è dubbio in questo senso che la cultura espressa dall’Acerba, nel suo testo, è una squisita cultura di primo Trecento, mentre l’illustrazione filtra i portati di tale cultura nella cortese raffinatezza e nel gusto della natura propri del secondo Trecento. A condurla mostra di essere stato, nell’ambito degli anni Ottanta o forse dei primi Novanta, un elegante e pur sobrio maestro lombardo, forse operante con qualche collaborazione o forse più o meno impegnato, nelle diverse minia-
per l’appunto codificato tutta la complessa teoria sull’influsso degli astri sull’umanità e i singoli individui a seconda della loro data di nascita. Per il testo in italiano, si veda Ptolemaeus Claudius, Le previsioni astrologiche, traduzione di S. Feraboli, Roma 1985. Per il ruolo di Tolomeo nella storia dell’astronomia, si veda L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science during the first Thirteen Centuries of our Era, I, New York 1923, pp. 104-116. 12 A. Domínguez Rodríguez, Astrología y arte en el Lapidario de Alfonso X el Sabio, Madrid 1984; A. Domínguez Rodríguez, La pervivencia de la astrología islámica en el arte cortesano europeo de los siglos 13 al 15, in Europa und die Kunst des Islam 15. bis 18. Jahrhundert. Akten des XXV. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte (Wien, 4.-10. September 1983), V, Wien-Köln-Graz 1985, pp. 109-119. 13 Per la vita e la dottrina di Pietro d’Abano, si veda E. Paschetto, Pietro d’Abano medico e filosofo, Firenze 1984; G. Federici Vescovini, Pietro d’Abano, Trattati di astronomia. Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae spherae e altre opere, Padova 1992, pp. 17-46; G. Federici Vescovini, La médécine, sinthèse d’art et de science selon Pierre d’Abano, in Les doctrines de la science de l’antiquitè à l’âge classique, a cura di R. Rashed - J.Biard, Louvain 1999, pp. 237-256. 14 G. Mariani Canova, Duodecim celestia signa et septem planete cum suis proprietatibus: l’immagine astrologica nella cultura figurativa e nell’illustrazione libraria a Padova tra Trecento e Quattrocento, in Il Palazzo della Ragione di Padova. Indagini preliminari per il restauro. Studi e ricerche, a cura di A.M. Spiazzi, Treviso 1998, pp. 23-62; G. Mariani Canova, Per la storia della figura astrologica a Padova: il De imaginibus di Pietro d’Abano e le sue fonti, in De Lapidibus sententiae. Scritti di storia dell’arte per Giovanni Lorenzoni, Padova 2002, pp. 213-224.
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ture, alla rifinitura delle immagini. Ed ecco quindi, nel primo libro dell’Acerba, la rappresentazione del firmamento con le sue stelle e con i luminari, Sole e Luna (c. 1r) [Fig. 1], e subito dopo quella delle sfere celesti ruotanti intorno alla terra e delle intelligenze che, secondo il testo di Cecco, le muovono (c. 2r) [Fig. 2]. Tale schema non è nuovo visto che ricorre anche nella precedente miniatura medievale, dove tuttavia si trova quasi sempre condotto in disegno a penna mentre qui il cosmo è rappresentato a vivi colori come per esempio, in pittura, nella Creazione del mondo di Giusto dei Menabuoi al Battistero di Padova. Ma va osservato come, in coerenza al testo così volutamente laico, manchi il cielo empireo, che invece appare, vastissimo e splendente, nella pittura di Giusto. Si passa poi, sempre seguendo il testo, alla rappresentazione degli elementi (c. 3v), delle stelle comete (c. 6r), della sfera dei venti (c. 7r), della grandine e della neve (c. 8r), dei tuoni e dei fulmini (c. 9r): si tratta di immagini molto suggestive in cui il miniatore riesce a rappresentare efficacemente uno spazio buio e profondo. Infine viene la rappresentazione rasserenante dell’arcobaleno (c. 11r). Ci si trova quindi di fronte ad un intero ciclo cosmico, implicitamente finalizzato a manifestare il potere degli astri sull’uomo, ed è estremamente significativo che in primo Trecento una analoga volontà di rappresentazione dei fenomeni cosmici si ravvisi nell’Officiolo di Francesco da Barberino, recentemente affiorato nel collezionismo, dove alla finis temporum si raffigura il fenomeno dell’eclissi e dove compaiono le raffigurazioni delle diverse età umane, in figure femminili, sullo sfondo del firmamento con il sole e la luna posti in diverse posizioni a seconda di ciascuna di esse. Possiamo ragionevolmente pensare che l’Officiolo, condotto in stile giottesco e sul modello degli affreschi della cappella degli Scrovegni, sia stato eseguito a Padova nel soggiorno di Francesco, collocabile nella seconda metà del primo decennio del Trecento15, e pertanto esso vale come documento della passione astrologica che dominava in quel momento l’ambiente culturale padovano e con ogni verosimiglianza anche quello bolognese per molti versi ad esso gemello. Non dobbiamo dimenticare che proprio a Bologna fu istituita la prima cattedra di astrologia in Italia e che gli studi astrologici nel primo quarto del Trecento furono assai vivaci, come dimostrano le opere scientifiche dello stesso Cecco d’Ascoli16.
15 K. Sutton, The lost ‘Officiolum’ of Francesco da Barberino rediscovered, «The Burlington Magazine», CXLVII, n. 1224 (March 2005), pp. 152-164. 16 Il testo della In spheram mundi enarratio è pubblicato, con introduzione, in The Sphere of Sacrobosco and its Commentators, a cura di L. Thorndike, Chicago 1949, pp. 343411. Il De principiis astrologiae è edito in G. Boffito, Il Commento di Cecco d’Ascoli all’Al-
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Tornando all’Acerba e passando al secondo libro e al primo capitolo De fortuna, incontriamo un tipo di immagine che ritornerà altrove nell’illustrazione, e cioè una di quelle arbores che venivano usate nella mnemotecnica medievale per memorizzare ed evidenziare i gradi di discendenza e di derivazione anche nel campo specifico delle virtù, come si vede per esempio nella tradizione dell’arbor virtutum17. Qui nell’Acerba l’arbor fortunae (c. 12r) ha una struttura naturalizzata che riconduce alle caratteristiche generali delle immagini del manoscritto. Il secondo capitolo De formatione humane creature mostra all’inizio (c. 13r) [Fig. 3] la scena della Infusione dell’anima in Adamo, posta a dare immagine all’inizio del testo che principia ricordando come Dio avesse creato i cieli in funzione della creatura umana, unica fatta a sua immagine e somiglianza. Ma nella poesia si tratta solo di un fuggevole accenno, poiché per il resto si parla delle fasi del concepimento e della gravidanza, specificando come le doti e i vizi dell’animo siano infusi dai pianeti nell’uomo nei diversi mesi della gestazione, mentre qui evidentemente il committente si preoccupò di proclamare solennemente l’ortodossia del poema e nello stesso tempo di indicare, con l’inusitata invenzione del grande astro posto a brillare nel cielo oscuro, la futura importanza delle stelle sulla vita dell’uomo. Va poi sottolineato come la forma dell’astro sia quella dell’emblema visconteo della “raza” che ricorre nel Libro d’Ore di Giangaleazzo Visconti, per esempio alla c. 22v del primo volume (Firenze, Biblioteca Nazionale, BR 397)18. Nelle scena, privilegiata per la sua tematica, è ben evidente quell’esorbitare dell’immagine al di là degli spazi preventivati dalla scrittura del quale si è detto, e la bellezza della realizzazione, di impegno stilistico indubbiamente più alto delle altre figure e raffinatissima nei suoi colori smorzati e nell’uso dell’oro, ci rivela in modo esemplare la capacità del Maestro dell’Acerba, che qui dà il meglio di sé stesso. Egli, pur creando nella essenziale spaziosità del paesaggio roccioso una invenzione di lontano sapore giottesco, che può in parte spiegare la corrente attribuzione del manoscritto a Padova, opera tuttavia con un raffinato linearismo tardogotico di taglio lombardo, nel gusto di
cabizzo, Firenze 1905. Il De excentricis et epyciclis figura recentemente in Federici Vescovini, Pietro d’Abano. Trattati di astronomia cit., pp. 383-406, con ampia introduzione in cui vengono messi in risalto gli elementi di demonismo e negromanzia presenti nel commento, ibid., pp. 371-382. 17 M. Evans, The Geometry of the Mind, «Aaq», 12, n. 4 (1980), pp. 43-44; M. Carruthers, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990, pp. 254-255; C. Gohdes Goggin, Copyng Manuscript Illuminations: the Trees of Vices and Virtues, «Visual Resources», XX, n. 2/3 (2004), pp. 179-198. 18 Il Libro d’Ore Visconti. Facsimile, Modena 2002, alla carta.
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Giovannino e di Salomone de Grassi, e di quello del Libro d’Ore di Isabella di Castiglia (L’Aja, Koninklijke Bibliotheek, ms. 76.F.16). Del resto non è ignoto il vasto fenomeno del neogiottismo in Lombardia. L’uso dei fasci di raggi dorati si ritrova altresì spesso nel Libro d’ore Visconti, per esempio a c. 108v del BR. 39719. Segue, accompagnata da una molto essenziale Arbor virtutum e posta all’interno delle volute di un tralcio, la raffigurazione allegorica della Virtù Regina attorniata dalle quattro virtù cardinali: Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza [Fig. 4]. L’impianto e i costumi sono assai meno evoluti rispetto al resto del codice, e in parte diversi gli attributi delle virtù, ma avrei l’impressione che potessimo trovarci di fronte ad un intervento delle stesse maestranze attive nel resto del manoscritto e qui operanti sulla base di un modello più arcaizzante che poteva trovarsi nell’antigrafo seguito per il testo. Inizia poi la rappresentazione delle Virtù realizzate, secondo una radicata tradizione europea, come eleganti figure femminili20, qui tuttavia esibite, in modo assolutamente innovativo, con una stella dorata sopra il capo ad indicare quell’origine astrale di ogni disposizione virtuosa che Cecco ben significa quando dice «vertù s’aquista per ragio di stella» (lib. II, v. 979). Come nel testo, viene per prima la Giustizia (c. 17v) [Fig. 5], che si dice dipendere dal cielo del Sole come regina delle virtù e che è preceduta da una semplice arbor iustitiae (c. 16v). Essa è seduta in trono e regge in mano la bilancia, suo tradizionale attributo. Pure preceduta dal suo albero (c. 18r) appare la Fortezza (c. 18v), fatta discendere dal cielo di Marte e rappresentata con l’attributo erculeo della pelle del leone nemeo. La Prudenza (c. 19r), riconnessa alla seconda stella, e cioè a Mercurio dio della sagacia, è accompagnata dalla sua arbor ed è raffigurata bifronte, con un pallido viso rivolto verso il passato e uno roseo proteso verso l’avvenire, con uno specchio in mano per guardarsi le spalle e con un libro nell’altra. Segue infine, dopo la sua arbor (c. 19v), la Temperanza (c. 20r) [Fig. 6] in elegante abito verde e in atto di mescolare il liquido di due vasi, poiché, fin dall’antichità, allungare il vino con l’acqua era inteso come segno di moderazione. Ed è su queste immagini di donne dal corpo snello e dalla vita sottile, con acconciature a trecce spesso conteste di perle, con abiti forniti di ampie scollature ovali che scoprono le spalle e di maniche lunghe fino al gomito, lievemen-
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Ibid., alla carta. A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtues and Vices in Mediaeval Art from early Christian Times to the Thirteenth Century, London 1939 (Warburg Studies, 10), Liechtenstein 1968 (ristampa).
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te arricciate e con sottomaniche in tinta più scura, che si può agevolmente verificare il rapporto con il mondo lombardo del tardo Trecento, e in particolare con le dame del Lancelot du Lac (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 343) [Fig. 11]21 e con quelle del già ricordato Libro d’Ore Visconti, per esempio nel Matrimonio di Gioacchino ed Anna (Firenze, Biblioteca Nazionale, BR 397, c. 1r)22, e del Messale-Libro d’Ore della Bibliothèque Nationale di Parigi (Lat. 757) eseguito nei secondi anni Ottanta a Milano per Bertrando Rossi di Parma, uno dei cortigiani più vicini a Giangaleazzo Visconti. Qui si vedano soprattutto i personaggi femminili inginocchiati intorno alla Madonna della Misericordia [Fig. 7] e Sant’Orsola con le compagne (cc. 258r, 373r)23. Si veda poi il confronto con la Madonna che cuce e il bambino che le porge l’ago in un affresco della Rocchetta di Campomorto presso Milano riferibile alla cerchia di Giovannino24. Quanto alla Temperanza è estremamente indicativo che la pettinatura a trecce avvolte intorno alle orecchie corrisponda perfettamente a quella della Temperanza nel Libro d’Ore Visconti (BR, c. 108v)25, tanto da far pensare che il miniatore ne conoscesse l’immagine. Mancano, ovviamente, le virtù teologali, poiché mai esse potrebbero essere considerate come infuse dagli astri, ma solo dalla grazia divina. Invece Cecco passa ad illustrare altre virtù e innanzitutto la Liberalità (c. 20v) [Fig. 8], che è detta procedere dal terzo cielo, cioè da quello di Venere, e cui si riferisce la rappresentazione di un gentiluomo inginocchiato di fronte ad una dama che gli pone sul capo una corona di fiori quasi a cortese investitura. Anche qui il costume è tipicamente lombardo e anche per quello maschile si possono trovare significativi riscontri nel Messale-Libro d’Ore parigino [Fig. 7]. La Castità (c. 22v), dipendente da Saturno, è ovviamente rappresentata come una vecchia con il rosario in mano, ma è l’unica tra le virtù ad essere realizzata su fondo oro, forse perché ritenuta la più nobile e difficile. Tra la Liberalità e la Castità dovrebbe stare, seguendo il testo, la figura dell’Umiltà ma nel manoscritto laurenziano l’intitolazione, al posto della dizione De Humilitate, pone il termine De
21 F. Avril - M.Th. Gousset, Manuscrits d’origine italienne, 3: XIVe siècle, I: LombardieLigurie, Paris 2005, pp. 66-71, n. 30 (con bibliografia). 22 Il Libro d’Ore Visconti. Facsimile cit., alla carta; M. Bollati, La miniatura tardogotica in Lombardia e il Libro d’Ore Visconti, in Il Libro d’Ore Visconti. Commentario al facsimile, a cura di M. Bollati, Modena 2003, figg. 152, 142. Per la datazione del Libro d’Ore agli anni Ottanta, ibid., pp. 284-290. 23 Avril - Gousset, Manuscrits d’origine italienne cit., pp. 82-92, n. 32, figg. 129, 143. 24 M. Rossi, Giovannino de Grassi. La corte e la cattedrale, Milano 1995, fig. 123. 25 Il Libro d’Ore Visconti. Facsimile cit., alla carta; Rossi, Giovannino de Grassi cit., fig. 67.
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Humanitate, cui si accompagna un’immagine (c. 21r) [Fig. 9] che in realtà mostra di tradurre perfettamente in chiave visiva l’inizio del primo capitolo del terzo libro, dove Cecco parla dell’Amore come causa della generazione. Infatti la miniatura, con invenzione singolarissima, raffigura due persone, una donna e un uomo, vestiti di abiti di identico color rosso che dalla vita in giù si uniscono a formare un’unica veste e quindi un’unica persona, mentre i busti sono distinti e i volti si avvicinano nel preludio di un bacio, a perfetta traduzione visiva dei versi: «Dal tercio ciel si muove tal vertute che fa doi corpi una cosa animata sentendo pena di dolci ferute» (vv. 19111913), con cui Cecco inizia appunto il terzo libro. Probabilmente il curatore e il miniatore pensarono opportuno operare tale spostamento d’immagine per dedicare, come vedremo, il terzo libro solo alle figure degli animali, e questo ci suggerisce che dietro al nostro manoscritto potesse stare un antigrafo che avesse già il repertorio di immagini tra le quali chi figurava il nostro potesse scegliere. La Nobiltà, virtù maschile, è fatta dipendere dal secondo cielo, e cioè da quello di Mercurio, come la Prudenza, ed è rappresentata (c. 23v) da un elegante cavaliere al galoppo sul suo destriero e con il falcone in una mano. Evidentemente Cecco, accanto alle virtù cardinali volle porre quelle relative all’esercizio di una elevata vita sociale, quale era condotta dalla cerchia che egli frequentava. Seguono nel testo dell’Acerba e nell’illustrazione del nostro manoscritto i Vizi capitali e innanzitutto l’Avarizia, che Cecco definisce «cupidità soverchia di acquistare in ogni modo pur che possa avere e retinendo quel che deve dare» (vv. 1555-1557). Pertanto essa è rappresentata in due modi, una volta come una donna vestita lussuosamente che afferra monete d’oro da un sacco, con ai piedi un serpente che difende il suo tesoro (c. 24v) [Fig. 10], e l’altra come una dama sontuosamente ammantata che con una mano offre all’altare solo una misera moneta, mentre con l’altra tiene ben stretto al petto un sacchetto pieno di danaro (c. 25v). Le ricche vesti broccate d’oro trovano numerosi riscontri nella miniatura viscontea, vale a dire nel Libro d’Ore Visconti e nel Messale-Libro d’Ore già ricordati, nonché nello stesso Lancelot [Fig. 11], mentre a Padova, dove i Carraresi tenevano a mantenere una sobrietà che li facesse degni del potere conferito loro dai populares, non se ne ha traccia. La Superbia (c. 26v), vizio tipicamente maschile è rappresentata come un gentiluomo in armi, e la Lussuria (c. 28r) è una giovane donna scollatissima con uno specchio in mano e in atto di sollevare la gonna, con ai piedi un piccolo maiale [Fig. 12]. L’Invidia (c. 29r) ha alle sue spalle delle fiamme, simbolo del fuoco interno che la divora, la Gola (c. 29v) banchetta a tavola, la Vanagloria (c. 30r), cioè l’ostentazione dei beni mondani, indossa una ricchissima veste e tiene tra le dita, per farlo ammirare, un
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grosso anello. Infine stanno l’Accidia (c. 30v) ridotta in miseria per la sua inattività, e l’Ira (c. 31r) che si indica il petto dove brucia lo sdegno. Non vi è dubbio che tutte queste grandi figure femminili presentano, pur nel loro elegante linearismo, una saldezza d’impianto e una essenzialità di immagine che sotto certi aspetti le differenziano dalla più tipica miniatura viscontea degli anni Ottanta, così fragile e ornatissima, avvicinandosi piuttosto alla sobrietà di quella del Lancelot du Lac, pur milanese per quanto talora inteso come veneto26. Ma non dobbiamo dimenticare che qui ci si trova di fronte non a un lussuosissimo manoscritto di corte, ma a un’opera poetico-scientifica relativamente più semplice e voluta da una committenza più modesta. Che poi in Lombardia si scegliesse di fare eseguire un’opera intesa ad esaminare i fenomeni naturali non deve stupire visto che l’osservazione della natura fu fra i temi preferiti della miniatura viscontea, come attestano i numerosi erbari e i bestiari. Quanto alla realizzazione, alcune figure, privilegiate per la tematica, appaiono eseguite ad un livello stilistico innegabilmente superiore alle altre - è questo il caso dell’Infusione dell’anima, della Giustizia, della Temperanza, della Castità, della Avarizia, della Vanagloria - ma è difficile capire se ad operare sia sempre lo stesso maestro, che possiamo chiamare Maestro dell’Acerba, oppure se a lui spettino per l’appunto queste figure mentre nelle più deboli si debba riconoscere una qualche collaborazione. Nel terzo libro dell’Acerba Cecco d’Ascoli, dopo una celebrazione dell’Amore e della Virtù, prende in esame il mondo degli animali mostrando, sulla traccia dei bestiari e delle enciclopedie medievali, tra cui innanzitutto il De Proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, a sua volta in buona parte modellato sul Fisiologo27, come il loro comportamento sia immagine simbolica delle virtù e dei comportamenti umani. L’argomento di per sé si lega pertanto ad una bene affermata tradizione, ma qui esso si rinnova per una volontà di rappresentazione immediata della natura e delle sue manifestazioni. Tale atteggiamento mentale, che è già dell’autore, appare fortemente enfatizzato nell’illustrazione che è condotta con acutezza di indagine naturalistica e con una vivacità di gusto schiettamente gotiche. Proprio su questa base nel 1974 Bettini fondava la sua convinzione di un’origine padovana del manoscritto28. Infatti individuando un superbo e innovativo
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Si veda nota 21. F. Zambon, Gli animali simbolici dell’«Acerba», «Medioevo Romanzo», 1 (1974), pp. 247-258; Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano 1975. 28 Bettini, Le miniature del «Libro agregà de Serapiom» cit., p. 59.
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realismo botanico nel Liber Agregà di Serapiom o Erbario carrarese della British Library (Egerton 2020), sicuramente eseguito a Padova per Francesco II da Carrara tra il 1390 e il 140429, egli ne deduceva che a Padova fosse fiorito un analogo naturalismo zoologico e che in questo la città potesse anzi essere stata di guida alla stessa Lombardia, dove Giovannino de Grassi e la sua bottega andarono sviluppando, come è ben noto, straordinarie imprese di bestiario, in particolare nel Taccuino di disegni alla Civica di Bergamo30. Ma in realtà non abbiamo la minima attestazione documentata di un immaginario zoologico in ambiente padovano, dove l’Erbario carrarese è ormai degli anni Novanta, mentre la miniatura animalistica di Giovannino de’ Grassi appare già ben configurata negli anni Ottanta nel Libro d’Ore Visconti. Inoltre le esperienze di bestiario in Lombardia sono così serrate da fare pensare ad una ben radicata tradizione locale, come attesta per esempio l’Historia plantarum della Casanatense (ms. 459) realizzata negli anni Novanta per Venceslao di Boemia31. È metodologicamente difficile quindi credere che sia capostipite di un fenomeno un ambiente che di esso non ha manifestazioni certe, piuttosto che uno nel quale tale fenomeno è fortemente sviluppato e ha una sua specifica tradizione. E di questa tradizione il bestiario laurenziano, ricco di più di cinquanta animali, costituisce una delle testimonianze più significative, trovando riscontro, come si è detto, soprattutto nel Taccuino di disegni di Giovannino de Grassi, con cui si possono paragonare soprattutto certe figure di uccelli e di cervi. E tuttavia mentre nel Taccuino si può indovinare una osservazione diretta della natura, qui piuttosto si ha l’impressione che il miniatore si rifacesse a dei modelli grafici, per l’appunto quelli di Giovannino e della sua cerchia attiva, magari rielaborandoli liberamente. Talora si può anzi parlare di immagini fatte a memoria o di pura fantasia, nelle quali il naturalismo è soltanto apparente, come per esempio nel caso di esseri mitici come la fenice
29 Parole dipinte. La miniatura a Padova dal Medioevo al Settecento. Catalogo della mostra (Padova, Palazzo della Ragione - Palazzo del Monte e Rovigo, Accademia dei Concordi, 21 marzo - 27 giugno 1999) a cura di G. Baldissin Molli - G. Canova Mariani - F. Toniolo, Modena 1999, pp. 154-157, n. 54 (G. Mariani Canova - R. Benedetti). 30 Taccuino di disegni di Giovannino de Grassi. Cassaf. 1.21 della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo. Facsimile, Modena 1998; Commentario al facsimile, a cura di M.G. Recanati, Modena 1998. 31 Per la componente naturalistica nella miniatura lombarda, si veda recentemente V. Segre Rutz, Historia plantarum. Erbe, oro e medicina nei codici medievali. Volume di commento al facsimile della Historia Plantarum, codice Ms. 459 della Biblioteca Casanatense di Roma, a cura di V. Segre Rutz, Modena 2002, pp. 43-171 (con ampia bibliografia cui si rimanda).
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(c. 33r), la lumeria (c. 43v), l’unicorno (c. 51v). E in qualche occasione il miniatore mostra di ignorare totalmente l’aspetto dell’animale da raffigurare, come avviene a c. 36v per la salamandra e il camaleonte, rappresentati rispettivamente come un uccello e una inverosimile creatura alata. Gli animali sono ritratti a figura intera, sul margine esterno della pagina, e solo quando sono molto piccoli o di forma allungata in orizzontale trovano posto negli intervalli tra capitolo e capitolo. Spesso, per dare spaziosità all’immagine, il miniatore pone le figure su brevi speroni rocciosi (c. 42r) o crea sfondi e basi d’appoggio con un tratteggio a penna o colorato (c. 50r). Talora gli animali sono altresì accompagnati dai cosiddetti «assistenti» che intervengono a creare delle piccole scene animate, come nel caso della Visita alla malata con il calandrello (c. 40r) o della Cattura dell’unicorno (c. 51v). Vengono innanzitutto gli uccelli, in tutto ventidue, che, come già è stato messo in evidenza32, potendo superare il peso della materia e innalzarsi a volo in cielo risultano nella maggior parte significanti di un comportamento virtuoso. Ed ecco per prima la fenice (c. 33r) simbolo, perché immortale, «de la virtute de l’amore» e certo una delle più belle prove del Maestro dell’Acerba, poi l’aquila (c. 34r), che tiene lo sguardo fisso al sole come l’uomo deve tenere l’intelletto sempre fisso alla Virtù e al Creatore, e di seguito la lumerpa (c. 34v), la cui luce perenne simboleggia la luce che illumina l’anima nel desiderio della virtù e quindi la fede. Seguono lo stellino (c. 35r) [Fig. 13]33, simbolo di desiderio del cielo e quindi della speranza, e il pellicano (c. 35v), segno del sacrificio salvifico di Cristo e quindi della carità. E ancora il piombino e lo struzzo (c. 37r) [Fig. 15] particolarmente confrontabili con gli uccelli di Giovannino de Grassi. Si tratta evidentemente sia di animali mitici, come la fenice e la lumerpa, rappresentati secondo la tradizionale iconografia e pertanto con un naturalismo solo apparente, sia di animali più noti, come l’aquila e il pellicano, e in generale si può dire che nella raffigurazione degli uccelli il miniatore mostra una particolare vivacità e competenza, probabilmente sul sostegno dei modelli forniti da Giovannino de Grassi, quali quelli oggi visibili nel suo Taccuino di disegni di Bergamo (c. 4v). Vengono poi animali che vivono nell’acqua e prima di tutto la mitica sirena (c. 43v), simbolo dell’inganno, poi il granchio e il rospo (c. 44r) seguiti dall’ostrica (c. 44v) e dal delfino (c. 45r). Si passa poi agli
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fronte.
Zambon, Gli animali simbolici cit., p. 79. Con questo nome si possono indicare tutti gli uccelli con una macchia bianca sulla
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animali velenosi, simboli di crudeltà, e tra essi spiccano l’aspide (c. 45v) e il drago (c. 46r), simbolo di ferocia inevitabilmente punita. La vipera (c. 46v), che ingravidata inghiotte il maschio e nel parto muore, si dice che prenda un veleno per cadere in letargo e che lo vomiti al momento dell’unione sessuale per poi riprenderlo: a somiglianza dell’uomo che in confessione si libera dei peccati ma poi vi ricade. Si passa poi alle rappresentazioni del botro (c. 47v), che fuggendo la luce fa come l’uomo che fugge il bene, e del ragno (c. 47v), simbolo di inganno. La serie finisce con dieci animali quadrupedi e primo il leone (c. 48v) re degli animali, che viene raffigurato all’inizio del capitolo nell’atto di risvegliare ruggendo i suoi cuccioli dalla morte di tre giorni che, secondo la tradizione medievale, segue la loro nascita. Sui suoi comportamenti il poeta indugia a lungo, facendoli segno delle regole che il sovrano deve tenere nella sua vita: diffidare di ogni possibile inganno tenendo gli occhi aperti, come il leone, anche nel sonno. All’elefante sono dedicate due figure. Nella prima (c. 49r) è posto su una zolla di terreno ed accompagnato dal suo guardiano in turbante orientale: del grande animale si elogia la saggezza e la sua abitudine di bagnarsi viene assunta a simbolo della necessità di accostarsi al bagno benefico della confessione. Più avanti (c. 49v) esso è nuovamente raffigurato in lotta con il drago (c. 49v), a ricordare la sua abitudine di difendere l’uomo dagli animali feroci. Del leopardo (c. 50r) [Fig. 14] si ricorda la ferocia e la capacità di condurre a morte persino il leone rendendolo prigioniero in una caverna, così come il peccato danna senza pietà il peccatore. Esso è senza ragione raffigurato accanto a un cervo in corsa, ed è da chiedersi se ciò avvenga perché nel Taccuino di Bergamo (c. 2r) sono appaiate due analoghe rappresentazioni. La iena, che divora i morti, è rappresentata, con analogo significato, alla stessa c. 50r. La pantera (c. 50v), di cui si elogia la bellezza, è invece simbolo delle anime belle cui conviene sempre accostarsi. Il cacciatore, che inganna la tigre con lo specchio (c. 51r), è simbolo del maligno, che con i suoi inganni distrae l’uomo dalla conoscenza. Assolutamente di fantasia la figura del castoro (c. 51r), rappresentato simile a un capriolo e in atto di estirparsi i genitali per non divenire preda del cacciatore, che solo quelli cerca di lui: così come l’uomo deve mortificare la sua carne per non cadere preda del nemico. Il capitolo relativo all’unicorno dà occasione al miniatore di inscenare un episodio di caccia e di cortesia (c. 51v), raffigurando l’animale che, pur fortissimo sino al punto di poter battere un elefante, si prostra mansueto in grembo ad una fanciulla, sedotto dalla sua verginità, venendo pertanto catturato dai cacciatori: a simbolo del fatale fascino femminile. Passando poi al Lapidario, che occupa la parte finale del terzo libro, il poeta vi descrive, seguendo ancora una volta il De proprietatibus rerum di
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Bartolomeo Anglico, una serie di pietre preziose e semipreziose, riconoscendo a ciascuna delle particolari proprietà ad essa conferite dagli astri34. L’illustrazione è costituita da una serie di anelli, posti in file di tre o di due e recanti ciascuno una pietra diversa e tagliata in modo differente [Fig. 16]. Anche qui ci troviamo di fronte ad un tipo di scelta che si inquadra meglio nelle auliche raffinatezze della cultura e miniatura in Lombardia - si vedano i gioielli sfoggiati nel Lancelot - piuttosto che nella sobria Padova. Concludendo, l’illustrazione dell’Acerba laurenziana da un lato riflette perfettamente la poesia di Cecco d’Ascoli, e dall’altro si inquadra nel naturalismo cortese del secondo Trecento italiano: a riprova della capacità dell’immagine di continuamente rivitalizzare e attualizzare il testo.
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Si veda in questo volume il contributo di M. Berisso, Il lapidario dell’Acerba, pp. 53-
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Prima di iniziare la mia veloce esposizione vorrei, innanzi tutto, ringraziare il professor Antonio Rigon e gli organizzatori del Convegno, oltre alla professoressa Giordana Mariani Canova, per l’invito che è stato esteso alla Biblioteca Medicea Laurenziana. La nostra presenza qui è determinata dalla prossima edizione facsimilare (dicembre 2006) del manoscritto laurenziano pluteo 40.52, forse tra i più noti agli addetti ai lavori, uno degli esemplari de l’Acerba, il componimento poetico di scienze naturali, fisica e filosofia religiosa, in cinque libri, del medico, astrologo e letterato Francesco Stabili, meglio conosciuto come Cecco d’Ascoli (1269 ca.-1327). Gli organizzatori del Convegno, essendone venuti a conoscenza, hanno ritenuto opportuno darne un’anteprima in questa sede, che in effetti offre una cornice davvero speciale, e certo la più consona. La mia partecipazione, invece, è data dall’assenza, causata da impegni precedentemente contratti, della direttrice della Biblioteca, dott.ssa Franca Arduini, che rappresento, ma anche dall’essere, insieme alla professoressa Mariani Canova che si è occupata dell’illustrazione, la redattrice della scheda codicologica di corredo. L’occasione e la sede, tuttavia, non mi permettono di riproporla per intero, per cui ne darò una selezione che si concentrerà principalmente su due aspetti, o meglio su due percorsi, come vedremo l’uno strettamente legato all’altro, che, mi auguro, forniranno anche alcune delle motivazioni sostanziali della sua riproduzione in facsimile1.
1 Sui facsimili e le problematiche ad essi legate, cfr. H. Zotter, Bibliographie Faksimilierter Handschriften, Graz 1976, in cui si analizzano 637 facsimili editi fino al 1974; E. van der Vekene, Copie ou fac-simile? Catalogue descriptif de 90 éditions fac-similées et de réim-
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Dunque, dopo aver fornito i dati descrittivi essenziali del codice, si comincerà dal cercare di inseguirlo, a partire dalla committenza originaria, nei suoi vari spostamenti, attraverso le diverse mani da cui è passato prima di entrare in Laurenziana, e si tenterà poi di tracciare in breve un altro cammino e una storia differente, quella della tradizione manoscritta del testo de l’Acerba, per individuare il tempo e le modalità con le quali il nostro manoscritto vi si è collocato fino ad oggi. Il pluteo 40.52 (membr., sec. XV2, mm 278 x 201, cc. 83), è esemplato da una sola mano, settentrionale, in littera textualis che, dalle scelte grafiche di trascrizione dell’aspetto fonetico, risulta di area nordica, sovrapposta al fondo centrale tosco-marchigiano. La qualità della scrittura è buona, curata e calligrafica, con una delicata decorazione di penna che accompagna lo scorrere dei versi, disponendosi, alternativamente, ora lungo il margine interno, ora lungo quello esterno. Non ci sono troppe abbreviazioni (lineetta soprascritta per la nasale; «9» per con; «7» per et; p tagliato) e c’è, in generale, un costante rispetto delle proporzioni delle lettere2. I titoli sono in rosso, scritti dopo l’avvenuta decorazione delle maiuscole iniziali di ogni capitolo; vengono segnalate sempre col rosso anche quelle del distico finale di ogni capitolo; il testo è in inchiostro nero. A c. IVv è presente, su sfondo rosso, uno stemma (inquartato al 1° e al 4° d’oro; al 2° e al 3° d’argento) sormontato da un elmo a becco di passero con un cimiero in figura di caprone, ad oggi non identificato, inquadrato in una cornice blu con decorazioni dorate. Ben 75 carte, al recto e/o al verso, presentano illustrazioni del testo, fino alla c. 57v, dopo la quale l’illustrazione si interrompe. La legatura è di restauro (secc. XIX ex. -XX in.), in quarto di pelle e assi in cartone pressato ricoperte di tela italiana bordeaux, con catena sul piatto posteriore, due borchie centrali e otto cantonali metallici, originali (sec. XVI2), con lo stemma dei Medici a sei palle, di recupero, ad imitazione di quella medicea della seconda metà del secolo XVI (assi ricoperte di marocchino rosso con incisioni a freddo, catena, due borchie centrali, otto cantonali metallici con stemma).
pressions remarquables conservées à la Bibliothèque nationale de Luxembourg, Luxembourg 1988; F. Arduini, Facsimile: favorevoli e contrari. Osservazioni a margine di due facsimili di manoscritti fiorentini, «Biblioteche oggi», 13/2 (1995), pp. 16-22. 2 Cfr. anche S. Zamponi, Elisione e sovrapposizione nella «littera textualis», «Scrittura e Civiltà», 12 (1988), pp. 135-176.
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Il suo complesso apparato decorativo è stato attribuito a due mani diverse «di scuola veneta, verosimilmente padovana»3, benchè con la presenza di influssi lombardi, passati in particolare tramite Verona. I due più recenti suggerimenti sull’illustrazione - ma precedenti al contributo di Giordana Mariani Canova presentato in questa sede4 - sono quelli di Luisa Cogliati Arano, di cui il primo sposta l’accento su un miniatore «attivo sulla laguna», se pure sul codice devono essere intervenuti più artefici almeno due - uno dei quali operante sia sull’Acerba che su una Commedia di Dante della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, il ms. It. IX 2765. In un successivo contributo la studiosa dà, inoltre, un puntuale riferimento anche per quanto riguarda la datazione del codice, fissandola intorno al 1390. Propone, infatti, che lo stemma di c. IVv sopra descritto, possa essere legato a Bonifacio Lupi (1319 ca.-1390 ca.), marchese di Soragna, che ebbe importanti incarichi diplomatici e militari alla corte padovana dei da Carrara in quel periodo, il quale potrebbe essere il committente del codice in quanto l’immagine ricorda quella dei bassorilievi scolpiti sulla tomba prevista per il Lupi - scomparso appunto in questo torno di tempo - all’interno della cappella dei S.S. Giacomo e Felice nella basilica di S. Antonio, a Padova, e visibili anche negli angoli della cappella stessa6. Da un confronto ulteriore delle immagini, non ritengo valida l’ipotesi della Cogliati Arano, che non sembra prendere in considerazione lo scudo del pluteo 40.52, del tutto diverso dai bassorilievi della cappella padovana, per cui il committente, primo anello della catena delle provenienze, purtroppo, per quanto mi concerne, resta sconosciuto7. Sfortunatamente non è identificabile nemmeno il probabile secondo possessore del codice, che si legge, alla c. IVr, con l’aiuto della lampada di Wood: «1470. Questo libro di Cecho dascholi sie di fran (ces)co di f…ge…se preso per fiorini sei larghi».
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Cfr. Mostra storica nazionale della miniatura italiana (Roma, Palazzo Venezia, 19531954). Catalogo, a cura di G. Muzzioli, Firenze 19542, p. 161, n. 237. 4 Cfr. in questo volume le pp. 69-85. 5 L. Cogliati Arano, Approccio metodologico al bestiario medioevale, in I Congresso Nazionale di Storia dell’arte (Roma, 11-14 settembre 1978), a cura di C. Maltese, Roma 1980, pp. 137-150: 139. 6 L. Cogliati Arano, L’Acerba di Cecco d’Ascoli alla Biblioteca Laurenziana: datazione, in La miniatura italiana tra gotico e Rinascimento. Atti del II Congresso di Storia della miniatura italiana (Cortona, 20-26 settembre 1982), I, Firenze 1985, pp. 243-253. 7 Non è presente nemmeno nello Stemmario di Marco Cremosano, a cura di A. Borella D’Alberti, Teglio 1997, riproduzione del ms. 1673: Galleria di imprese, arme, ed insegne de’ vari regni, ducati, provincie, città e terre dello stato di Milano ….
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Forse, però, possiamo avere almeno un’idea di quella che potrebbe essere stata la terza tappa del manoscritto, anche se non ci sono ex libris a proporcelo, ed è solo un’interessante ipotesi di lavoro. Si tratterebbe di Giovanni Mazzuoli da Strada (1480 ca.-1549), più noto come lo Stradino, fondatore a Firenze, nel 1540, della libera associazione dell’Accademia degli Umidi che, dopo soli tre mesi di vita, diventò un’istituzione ufficiale, l’Accademia Fiorentina, per volere del duca Cosimo I de’Medici (1519 -1574), cui lo Stradino era fedele per essere stato a lungo un mercenario legatissimo a suo padre, Giovanni delle Bande Nere (1498-1526). Proprio per questa sua profonda dedizione ai Medici distaccò dall’asse ereditario la ragguardevole collezione dei suoi libri - circa 200 - messi insieme in campagne d’armi, cambi, doni, più che tramite acquisti, e la destinò ad accrescere il tesoro mediceo. Si trovano infatti elencati nell’Inventario della Guardaroba Medicea, redatto nel 15338. Immessi nel patrimonio mediceo, da qui alcuni passeranno poi nella biblioteca Medicea Palatina Lotaringia9, che ne farà confluire una parte, nel 1771, nella Magliabechiana di Firenze, l’attuale Nazionale Centrale, ed un’altra, nel 1783, nella Laurenziana10. Il pluteo 40.52 potrebbe essere quello, ancora non identificato in quanto privo per ora di elementi probanti, corrispondente alla dizione della Guardaroba Medicea «Libro di Cecco d’Ascoli»11, entrato nella Medicea privata magari dopo la morte dello Stradino, intorno agli anni Cinquanta del secolo XVI, forse per la sua, pur problematica, notorietà. Senza dubbi di alcun genere, comunque, e da qualunque altra parte potesse essere giunto, entro il 21 agosto del 1589 il codice doveva però essere arrivato nella raccolta privata di cui sopra, già collocata da alcuni anni nella prestigiosa struttura michelangiolesca, l’attuale Medicea Laurenziana12.
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Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba Medicea, 28, cc. 104r-106r. Sulla Biblioteca granducale cfr. almeno M. Mannelli Goggioli, La Biblioteca Palatina Mediceo Lotaringia ed il suo catalogo, «Culture del testo», 1/3 (1995), pp. 133-159; F. Arduini, Documenti per una storia della Biblioteca Palatina Lorenese: cataloghi e segni di appartenenza, in Il linguaggio della biblioteca. Scritti in onore di Diego Maltese, a cura di M. Guerrini, Milano 1994, pp. 276-301. 10 Cfr. C. Masaro, Un episodio della cultura libraria volgare nella Firenze medicea: la biblioteca dello Stradino (1480 ca.-1549), «Alfabetismo e cultura scritta», n. ser., 4 (1992), pp. 5-49: 35-41. 11 Ibid., p. 37. Cfr. anche B. Maracchi Biagiarelli, L’Armadiaccio di Padre Stradino, «La Bibliofilia», 84/1 (1982), pp. 51-57. 12 La Biblioteca privata della famiglia Medici, il cui prestigioso iniziatore è riconosciuto nel mercante-mecenate Cosimo di Giovanni dei Medici (m. 1464), fu notevolmente incre-
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Aperta al pubblico già dall’11 giugno 1571 per volere del granduca Cosimo I, se ne era redatto l’ «Indice», ossia il primo inventario, proprio nell’estate del 1589, per opera dei due bibliotecari eletti, Baccio Valori (15351606) e Giovanni Rondinelli (1535-1592)13, e il nostro manoscritto de l’Acerba, se pure indicato col solo nome dell’autore, a significare la sua fama anche senza ulteriori specificazioni - e proprio come veniva segnalato nella Guardaroba Medicea - era allora collocato sempre nel pluteo o meglio «Desco n. 40» ma, diversamente da oggi, non al posto n. 52, bensì al n. 8, come si legge nell’«Indice» in corrispondenza appunto dell’ottavo posto, a c. 41r14: «Cecco d’Ascoli. Meso nel armario».
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mentata dal nipote, Lorenzo di Piero (m. 1492). Dopo la cacciata dei Medici (1494), avvenuta nella persona del figlio di Lorenzo, Piero (m. 1503), a causa della discesa di Carlo VIII e in conseguenza dei successivi passaggi politici (gonfalonierato a vita di Piero Soderini, deposto nel 1512), la raccolta si trovò a subire vari passaggi di mano. A causa del saccheggio del palazzo Medici di via Larga, appunto del 1494, venne trasferita prima nel convento di San Marco, accanto alla libreria pubblica dei Medici - in questa occasione venne steso l’inventario della medesima: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il Principato, Filza 87, pubblicato da E. Piccolomini, Intorno alle condizioni ed alle vicende della Libreria Medicea privata, Firenze 1875, pp. 9-108 - dove rimase fino alla morte sul rogo del priore di San Marco, Girolamo Savonarola (m. 1498), rischiando ulteriori perdite durante l’assalto al convento da parte dei facinorosi che miravano ad eliminare il frate riformatore. Acquistata quindi per i tre quarti dai domenicani di San Marco e per un quarto dalla famiglia fiorentina dei Salviati, fu nuovamente occasione di scambio tra i frati, che avendo problemi finanziari la vendettero al cardinale Galeotto Franciotto, che trattava per il più giovane dei figli di Lorenzo il Magnifico, il cardinale Giovanni dei Medici, futuro papa Leone X (1513-1521). La collezione fu dunque trasportata a Roma, a villa Medici, dove rimase fino a quando, dopo la morte del papa, intorno al 1522, il cugino, cardinale Giulio dei Medici, poi papa Clemente VII (1523-1534), non la fece riportare a Firenze dando incarico a Michelangelo Buonarroti (1475-1564) di costruire per essa una degna sede all’interno dei chiostri della basilica di S. Lorenzo, che era nella sfera di influenza della famiglia dei Medici. Nessun manoscritto de l’Acerba, d’altronde, è reperibile in alcuno degli inventari medicei precedenti. Cfr., in particolare, quello appena citato del 1494 e l’altro, inedito, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, Lat. 7134, cc. 209v-254v, redatto dal bibliotecario romano Fabio Vigili (secc. XV2-XVI1) tra il 1508 e il 1512, durante la sosta a Roma della collezione. Trattano della Biblioteca Medicea Laurenziana, Piccolomini, Intorno alle condizioni ed alle vicende della Libreria Medicea privata cit., pp. 5-32; B. Maracchi Biagiarelli, La Biblioteca Medicea Laurenziana nel secolo della sua apertura al pubblico (11 giugno 1571), Firenze 1971, pp. 5-14; A.M. Bandinius, Dei principi e progressi della Real Biblioteca Mediceo Laurenziana (Ms. Acquisti e Doni 142), a cura di R. Pintaudi - M. Tesi - A.R. Fantoni, Firenze 1990 (Documenti inediti di cultura toscana. Nuova serie, 3), pp. 3-142; Catalogo delle Biblioteche d’Italia, [11]/I, Roma 1997, pp. 203-206; www.bml.firenze.sbn.it 13 Cfr. Bandinius, Dei principi e progressi cit., pp. 123, 117-126. 14 Il testo dell’«Indice della Libreria in San Lorenzo de’ Medici» è autografo del Rondinelli ed è conservato nell’Archivio Storico della Biblioteca Laurenziana (d’ora in poi: ASBL), pluteo 92 sup. 94a, cc. 18r-70r. Una “bella copia” si trova nel pluteo 44.42.
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Il codice, dunque, aveva una sua collocazione ufficiale nello scaffale sottostante al piano inclinato del pluteo michelangiolesco, ma il bibliotecario aggiungeva che era però «Meso nel armario». Perché? Come mai questo riferimento a un «armario»? Probabilmente costruito subito dopo l’apertura della Libreria Medicea «nello spazio in cui il Buonarroti si era ideato di alzare la piccola libreria di pianta Triangolare»15, cioè in fondo al Salone che ospitava la biblioteca, questo «armario» conteneva tutte quelle opere che non erano gradite, soprattutto in quanto messe all’indice nel periodo della Controriforma, al suo primo prefetto, il medico e letterato Baccio Baldini (1517-1590), secondo quanto narra l’autorevole bibliotecario settecentesco della Laurenziana, Angelo Maria Bandini, autore di una credibile storia della biblioteca stessa16. Il Baldini, dunque, vi collocò circa una ventina di pezzi che, al momento della stesura del primo «Indice», vennero annotati dal Rondinelli con la dizione «Meso nel armario», in quanto li trovò presenti in biblioteca ma non al posto loro assegnato. E che l’Acerba venisse messo nell’armadio non stupisce, anzi, a meravigliarci sarebbe stato il contrario, visto il suo contenuto. Il manoscritto vi rimase relegato fino alla metà del secolo XVIII, mentre era cresciuto il numero dei codici “sospetti”, quando venne deciso di demolirlo per far posto ad altri fondi allora pervenuti. In tale occasione - era l’estate del 1756 - l’abate Andrea Pietro Giulianelli, che allora sostituiva in qualità di vice direttore il prefetto, gravemente malato, Anton Maria Biscioni (1674-1756), redasse un inventario di ciò che si trovava nel famigerato armadio, dal quale possiamo dedurre che, dal 1589 al 1756, i pezzi da venti erano aumentati, diventando circa una cinquantina, anche perché erano aumentate le ragioni della reclusione, passando dall’iniziale timore della censura a puri e semplici motivi di conservazione. È interessante ricordare come nell’«Indice» del Rondinelli compariva solo un codice attribuito a Cecco d’Ascoli, senza titolo, collocato nell’armadio. Nel successivo inventario del Giulianelli del 1756 lo scrittore compare, invece, in due esemplari, così citati17: Cecco d’Ascoli Liber Acerbe Aetatis, in rima, bolognese Cecco d’Ascoli
15 16 17
Cfr. Bandinius, Dei principi e progressi cit., p. 94. Ibid., p. 115. ASBL, pluteo 92 sup. 94a, cc. 198r-201v.
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A mio parere il primo coincide con l’attuale pluteo 40.52, mentre il secondo con un altro pluteo, il 40.51, sempre de l’Acerba, ma entrato in biblioteca in un secondo momento, contrariamente a quanto farebbe pensare, immediatamente, il solo dato numerico. La motivazione più importante è data dal titolo indicato nell’inventario del Giulianelli, che riprende chiaramente la rubrica iniziale del pluteo 40.52 (c. 1r): «Incipit liber acerbe etatis. Capitulum primum tractat de ordinatione celorum et de eorum proprietatibus in universali. Inquit Cicchus de eschulo», mentre sul 40. 51 (c. 1r) si legge: «Inchomincia il primo libro della cierbia di maestro ciecho dascholi». La seconda, altrettanto rilevante, è costituita dal riferimento del Giulianelli alla lingua, dichiarata «bolognese» in relazione al primo codice e che, certo, non può essere riferibile al pluteo 40.51, copiato nel 1445 dal fiorentino «Mauro d’Uberto Adimari»18, che si sottoscrive a c. 76v, mentre quella del pluteo 40.52, come abbiamo visto, è certo di area settentrionale, anche se non espressamente bolognese. Resta da motivare, infine, come mai, però, si sia collocato all’ultimo posto, il 52, il codice entrato invece per primo. La mia spiegazione è che il manoscritto segnato 51 sia entrato in biblioteca dopo il 1589, poichè nell’«Indice» il «desco» 40 contava solo 50 manoscritti. Lo si segna quindi 51, al suo arrivo, e poi lo si mette nell’armadio per le motivazioni per cui si era allontanato anche l’altro codice de l’Acerba. Quando, nel 1756, si demolisce l’armadio e si devono ricollocare i pezzi, il pluteo 40.8, perché di questo si trattava fino dal 1589, non trova più il posto che gli spettava, l’ottavo, occupato nel frattempo da un altro manoscritto, una innocua Commedia di Dante: di conseguenza lo si colloca, logicamente, dopo il codice segnato 51, anche per analogia di contenuto, e gli si dà appunto il numero 5219.
18
Sugli Adimari cfr. Delizie degli eruditi toscani …, di fr. Ildefonso di San Luigi, XI, Firenze 1778, pp. 219-268. 19 In un suo studio sull’armadio in questione, Fabrizio Lelli, Il «Vetus Armarium» della Medicea Laurenziana e alcuni manoscritti ebraici un tempo in esso racchiusi, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 61/4 (1993), pp. 5-19: 8-9, 12, ritiene, al contrario, che il codice corrispondente al n. 8 sia il pluteo 40.51, in quanto ne farebbe fede la sua legatura, uguale a quella di tutti i manoscritti collocati nei banchi michelangioleschi all’apertura al pubblico della Biblioteca, mentre il pluteo 40.52 ne presenta una «più recente». Sicuramente la legatura del pluteo 40.52 è più recente ma, come abbiamo visto - cfr. supra, p. 90 -, solo perché di restauro. Tuttavia i piatti e tutti gli elementi metallici sono originali, di recupero, e denunciano solo che il codice, ad un certo punto, deve aver avuto necessità di un intervento alla coperta, evidentemente in pessime condizioni. Legatura restaurata, dunque, che non
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Nel 1778 il manoscritto, dopo la sua definitiva collocazione, avrà anche una descrizione nel Catalogus del prefetto della Laurenziana Angelo Maria Bandini e, solo da allora, sarà noto al pubblico degli studiosi20. Ed è proprio con quest’ultima affermazione che si entra velocemente nel secondo percorso, e cioè nella storia della tradizione del testo de l’Acerba, per andare dunque a vedere quando e come il nostro codice vi fa la sua apparizione. Tramandata da più di un centinaio di manoscritti, alcuni dei quali esemplati già nel secolo XIV, solo poche decine di anni dopo la scomparsa di Cecco d’Ascoli, ma non per questo più corretti, l’Acerba si presenta, in generale, con un dettato estremamente alterato, alla cui degradazione molto ha contribuito anche la sua lingua, che oscilla tra il dialetto umbro e quello marchigiano, con sovrapposizione di forti patine bolognesi e fiorentine, da addebitare forse anche all’autore oltre che ai copisti21. E la qualità delle stampe non aiuta, anzi, di norma, è inferiore a quella dei numerosi codici che conservano il testo22. Dopo il primo incunabulo (Brescia 1473, Tommaso Ferrando)23, le riedizioni si sono moltiplicate e, di un’opera interdetta sia dalle autorità religiose che da quelle civili, se ne sono avute circa una trentina - una decina nel secolo XV e più di una quindicina nel secolo XVI, in gran parte ristampe di quella del 1501 (Venezia, Jo. Bapt. Sessa24): l’ultima edizione cinque-
fa certo fede di un ingresso posteriore del codice in Laurenziana, al contrario del titolo e della lingua del manoscritto che ne sono altamente connotativi. 20 Cfr. A.M. Bandinius, Catalogus codicum latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae, V, Florentiae 1778, coll. 73-74. 21 Cfr. Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002, p. III. Per le ricerche sui manoscritti, in gran parte già elencati nell’edizione Cecco d’Ascoli, L’Acerba. Secondo la lezione del codice Eugubino dell’anno 1376. Testo a cura di B. Censori - E. Vittori, Ascoli Piceno 1971, pp. XV-XXVII, cfr. anche C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, II: Il Trecento, Roma 1995, pp. 326-454: 435 e nota 244, cui si rinvia per ulteriore bibliografia. 22 Per una panoramica sulle stampe, cfr. lo studio di A. Torno, L’«Acerba» di Cecco d’Ascoli, «L’Esopo», 17 (marzo 1983), pp. 51-64 e 18 (giugno 1983), pp. 57-71; Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., p. XXX. 23 Cfr. Gesamtkatalog der Wiegendrucke, IV, Leipzig 1934, n. 6444, col. 356; F. Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba, «Rivista Europea», 10/15 (1879), pp. 606-640; 10/16 (1879), pp. 199-232 e pp. 415-452: 446. La prima edizione segnalata nell’Indice Generale degli Incunaboli delle Biblioteche d’Italia (d’ora in poi: IGI), II, Roma 1948, n. 2664, p. 53, è quella di Venezia 1476, Filippo di Pietro. 24 Cfr. Le Edizioni italiane del XVI secolo (d’ora in poi: Edit), III, Roma 1993, n. 2622, p. 205.
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centesca risale al 1550 (Venezia, C. de Benedetto Bendoni25) - almeno fino al Concilio di Trento (1545-1563), data dopo la quale, secondo la letteratura corrente, si avrebbe un silenzio interrotto solo da «alcune fatte posteriormente in diversi luoghi», come afferma molto genericamente Felice Bariola nel suo saggio del 187926. Si coglie qui l’occasione per segnalarne una, benchè se ne abbia solo una notizia indiretta, secondo la quale questo indistinto vuoto editoriale sarebbe stato colmato, certo prima del 1685, dalla pubblicazione di un esemplare de l’Acerba in due volumi. L’informazione proviene da una lettera, inedita, del 15 febbraio 1685, di un gesuita ascolano, quindi conterraneo di Cecco, Paolo Antonio Appiani (1639-1709)27, in quel periodo residente a Firenze nel convento di S. Salvatore a Pinti. Il breve scritto accompagnerebbe, appunto, l’invio di «due tometti» de l’Acerba al ben noto protomedico granducale e letterato aretino, Francesco Redi (1626-1697), «in esecuzione de’suoi riveriti comandamenti»28:
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Ecco a Vostra Signoria Illustrissima, in esecuzione de’ suoi riveriti comandamenti, i due tometti de l’Acerba di Cecco d’Ascoli, dove tratta delle principali città e provincie d’Italia, massimamente di Firenze e di Toscana, e spesso allude agli avvenimenti ed istorie de’ suoi tempi. Havrà ella occupazione di esercitare la sua inusitata pazienza per le moltissime scorrezzioni ed errori, che vi sono. Nel tomo più piccolo, sul del principio, è un sonetto in cui si contiene l’argomento di tutta l’opera29.
Certo il modo piuttosto imprevedibile e insospettabile con cui l’Appiani presenta l’Acerba, praticamente come se fosse una specie di guida turistica dell’Italia, con particolare riferimento alla Toscana e a Firenze, lascia un po’stupiti, conoscendo la struttura globale dell’opera30. Lo sconcer-
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Ibid., n. 2636, p. 206. Si rileva che delle edizioni del secolo XV - IGI, nn. 2664-2673, pp. 53-54 -, sette sono stampate a Venezia, una a Milano e due a Bologna, oltre alla prima di Brescia. Di quelle del secolo XVI ben dieci sono veneziane e cinque milanesi - Edit, nn. 2622-2636, pp. 205-206 -, indicando il nord Italia come la zona di maggiore concentrazione editoriale. 27 Sull’Appiani cfr. A. Merola, Appiani, Paolo Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, 3 (1961), pp. 634-635. 28 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana (d’ora in poi: BML), Redi 217, c. 335r. 29 Si tratta del sonetto Se bene a parte a parte leggerai del modenese Niccolò Massetti spesso premesso al testo, cfr. Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba cit., p. 446. 30 Benchè ci risultino solo due riferimenti a «Fiorenza» e uno alla Toscana (lib. II, vv. 1646-1648; lib. IV, vv. 3975; 3987), ci sono tuttavia varie strofe dedicate specificamente alle città di Pistoia, Lucca, Pisa, Montecatini, Siena (lib. II, vv. 1039-1040; 1648-1666); ad Asco-
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to, però, si può ridimensionare, almeno in parte, ricordando che chi scrive è un colto gesuita di Ascoli autore, tra l’altro, di una Vita Francisci Stabilis (vulgo) Cecco d’Ascoli, in cui mirava a riabilitare Cecco, e le sue opere, dall’accusa di astrologia ed eresia31. E la sua opinione fu comunque abbastanza autorevole da essere pienamente condivisa dal Mazzuchelli, nella voce dedicata allo Stabili nei suoi Scrittori d’Italia32, anche se, rilevandone con rigore l’estrema acriticità ed il prevalere di un ristretto spirito municipalistico, verrà invece del tutto contestata dal Tiraboschi33 e dalla maggioranza della critica moderna. Ma torniamo alla nuda informazione della lettera sull’esemplare de l’Acerba in due tomi: questa, purtroppo, non è stata supportata né dal suo reperimento34 né da una sua, pur improbabile, documentazione negli usuali repertori di edizioni rare35. Ciò nonostante non ho ritenuto opportuno di passare sotto silenzio una voce, solitaria, ma particolarmente motivata, almeno a livello emotivo, attestante una tra le oscure tappe editoriali de l’Acerba, e che potrebbe sempre essere trovata. Bisogna dunque arrivare al 1820 per rivedere chiaramente in libreria il testo de l’Acerba, edito a Venezia dal tipografo Francesco Andreola, testo
li, Rieti, Spoleto, Assisi, Perugia, l’Aquila, Todi (lib. II, vv. 1185-1202; 1513-1536); alle Marche e alla Romagna con Recanati e Iesi (lib. II, vv. 1735-1764); a Roma (lib. II, vv. 15691586) e Bologna (lib. II, vv. 1637-1648), oltre che alla terra dei «Lombardi», con Cremona, Padova, Milano, Piacenza e Mantova (lib. II, vv. 1791-1814). 31 L’Appiani, inoltre, è anche un convinto assertore che della morte di Cecco sul rogo sia da incolpare il famoso medico Dino del Garbo (1280 ca.-1327), geloso per essere stato scavalcato da Cecco nei favori di Carlo d’Anjou, duca di Calabria, sul quale così si esprime nella sua Apologia: «Cicchi necem non diu sibi gratulatus est praecipuus tanti criminis author Dinus de Garbo, qui eodem mense pauculis post diebus, morbo ex pudore, atque aegrimonia contracto expiravit», P.A. Appiani, Apologia di Cecco d’Ascoli, in D. Bernini, Historia di tutte l’eresie fin all’anno 1700, III, Venezia 1711, p. 453. 32 Cfr. G. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia cioè Notizie storiche, e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, I/2, Brescia 1753, p. 284. 33 Cfr. G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, V/1, Venezia 1795, pp. 187-195. 34 Come si legge nel testamento del sacerdote Francesco Saverio Redi, ultimo erede della famiglia, tutte le opere a stampa dei Redi, compresi i preziosi volumi del bisavolo Francesco, alla sua morte, avvenuta nel 1820, vennero lasciati all’Accademia aretina di Scienze ed Arti, ora Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze. Oggi sono in parte ancora conservati lì, in parte nella Biblioteca della Città di Arezzo: ASBL, Filza di affari riguardanti la Laurenziana e Marucelliana dal gennaio 1819 al dicembre 1822, n. 42, c. 99r. Sfortunatamente una ricerca fatta nei due istituti non ha dato esito positivo e non si è trovata traccia dell’edizione de l’Acerba in due volumetti. 35 Cfr. Trésor de livres rares et précieux …, par J.G.T. Graesse, II, Dresde 1861, p. 96; Manuel du libraire et de l’amateur de livres …, par J.C. Brunet, I, Paris 1860, coll. 1712-1714.
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ritenuto però del tutto inaffidabile dalla critica36. Da quel momento trascorrono poco meno di sessanta anni prima di avere due saggi di edizione e tre ristampe integrali dell’opera di Cecco d’Ascoli, tra la fine dell’Ottocento e durante tutto l’arco del secolo appena trascorso. Qui dunque, nel 1879, benchè a più di cento anni dal Catalogus del Bandini, entra in gioco il nostro manoscritto, il primo ad essere usato come codice di riferimento da Felice Bariola, che lo confronta con altri tre manoscritti medicei - plutei 40.51; 41.2; 89 sup. 11137 - e con il codice 2732 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, e ne registra le varianti, sebbene in relazione solo ad una parte del libro I (vv. 1-54), comprendendo inoltre l’importanza del commento, nella fattispecie volgare, a l’Acerba e delle opere latine di Cecco38 per la ricostruzione del testo. Lo segue nel 1916 Pasquale Rosario39, che produce la prima stampa integrale, sempre fondata sul pluteo 40.52 emendato con il supporto del manoscritto Casanatense 82 dell’omonima Biblioteca romana. Benché fornita d’introduzione, l’edizione della prima tavola dei codici che conservano l’opera, e di una bibliografia, risente purtroppo di alcune scelte non felici, come un uso, non sempre rigorosamente motivato, dei due testimoni, di cui certo il Casanatense poco attendibile, sia perché tardo sia perché di area meridionale. 36 Cfr. l’opinione di Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba cit., p. 446, il quale afferma che si trattava, in sostanza, di un’opera rifatta dagli editori. 37 Ibid. Più precisamente in Laurenziana sono presenti altri otto codici, oltre ai quattro citati, che conservano l’Acerba: Acquisti e doni 222 (sec. XV); Ashburnham 370 (sec. XV); Ashburnham 1223 (sec. XIV ex.); Ashburnham 1225 (sec. XIV); Ashburnham 1724 (sec. XV); pluteo 41.39 (sec. XV); pluteo 78.23 (secc. XIV-XV; composito). Di tutti ha dato notizia Marco Albertazzi - cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., pp. XXI-XXII -, salvo che del ms. Acquisti e doni 757, sfuggito al censimento ma visto da Claudio Ciociola: della seconda metà del secolo XV, piuttosto scorretto, probabilmente deriva, attraverso intermediari, dall’Ashburnham 1223, l’unico altro codice laurenziano miniato oltre al pluteo 40.52. 38 Uomo d’ampia cultura scientifica, se pure non eccessivamente complessa, ma dotato di grande entusiasmo e di una ricca vena polemica, l’Ascolano scrisse anche il De eccentricis et epicyclis, i commenti al De principiis astrologiae dell’Alcabizio (al-Qabisi) e il Tractatus in sphaeram del Sacrobosco, l’inglese John Holiwood. Per notizie intorno alla sua vita, oltre alla bibliografia già citata, cfr. almeno A. Beccaria, I biografi di maestro Cecco d’Ascoli. Le fonti per la sua storia e per la sua leggenda, Torino 1908; Poeti minori del Trecento, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1952, p. 745; G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze 20033 (ristampa dell’edizione Firenze 1970), p. 441; G. Bartocci, La famiglia Stabili, in Atti del I Convegno di studi su Cecco d’Ascoli (Ascoli Piceno, Palazzo dei Congressi, 2324 novembre 1969), a cura di B. Censori, Firenze 1976, pp. 123-159; Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino 1996, pp. 575-578. 39 Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba. Con prefazione, note e bibliografia di P. Rosario, Lanciano 1916.
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Nel 1927 uscirà la seconda stampa integrale a cura di Achille Crespi40, nuovamente prendendo come testo base il pluteo 40.52, ma confrontandolo, in quel caso, con il codice 163 (C 46) della Biblioteca Civica di Perugia. Anche in quest’edizione si riscontra un’analoga mancanza di rigore critico nell’utilizzo delle lezioni e il Commento che il Crespi vi aggiunge, pur tentando di dare una prima interpretazione organica del poema, è ritenuto troppo soggettivo, unitamente alla scelta di tradurre l’opera in italiano moderno. Da allora il nostro manoscritto non avrà più un ruolo primario, né nel secondo saggio di edizione del 1939 di Hiram Pflaum41 - H. Peri modificò in Pflaum il proprio cognome a causa delle leggi razziali - il quale ancora si limita al libro I (vv. 1-82) e in cui sono i manoscritti contenenti il Commento latino42 a fare la parte del leone, essendo visti come «un’utile scorciatoia per procurare un testo attendibile del poema»43, né nella terza stampa integrale, risalente al 1971, a cura di Basilio Censori ed Emidio Vittori44, che è un’edizione diplomatica del testo tramandato, con alcuni guasti meccanici (caduta di un foglio, e dunque di alcuni versi: I, vv. 1595-1660 e II, vv. 4087-4220), dal ms. 5, conservato ad Ascoli Piceno nella Biblioteca Comunale (copiato a Gubbio nel 1376). E non lo ha neppure nell’ultima proposta, del 2002, di ricostruzione testuale di Marco Albertazzi che, secondo le sue parole, «corrisponde ad una prima fase degli studi che intendono ovviare a questa grave lacuna»45.
40 Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba. Ridotta a miglior lezione e [...] interpretata col sussidio di tutte le opere dell’Autore e delle loro fonti dal Prof. Dott. A. Crespi, Ascoli Piceno 1927. 41 Cfr. H. Peri (Pflaum), L’«Acerba» di Cecco d’Ascoli. Saggio d’interpretazione, «Archivum Romanicum», 23 (marzo 1939), pp. 178-241. 42 I codici conosciuti che riportano il commento latino (che si arresta al lib. II, cap. I, v. 762) sono cinque: Paris, Bibliothèque nationale de France, It. 579 (sec. XIV); Oxford, Taylor Institution, Arch. 1 e 8 (sec. XIV2); Milano, Biblioteca Ambrosiana, V 13 sup. (sec. XV/1416); Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburnham 370 (sec. XV2); Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 1533 (sec. XV). La traduzione volgare del commento latino è tramandata solo dal Barb. Lat. 4050 (secc. XIV-XV; si arresta al lib. I, cap. IV, v. 276) della Biblioteca Apostolica Vaticana. Sia il commento latino che quello volgare, dopo gli studi - e edizioni, anche parziali - di Hiram Pflaum e Basilio Censori sul primo (cfr. Peri (Pflaum), L’«Acerba» di Cecco d’Ascoli cit., pp. 178-241; B. Censori, Il commento latino dell’Acerba, in Atti del I Convegno di studi su Cecco d’Ascoli cit., pp. 106-122) e di Claudio Ciociola sul secondo (cfr. C. Ciociola, Rassegna stabiliana. Postille agli Atti del Convegno del 1969, «Lettere Italiane», 30/1 (1978), pp. 97-123), sono ora riediti in Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., Addenda, n.n., dove per il commento latino Massimo Sannelli è coeditore con Marco Albertazzi. 43 Ibid., p. VI. 44 Cecco d’Ascoli, L’Acerba. Secondo la lezione del codice Eugubino dell’anno 1376. Testo a cura di B. Censori - E. Vittori, Ascoli Piceno 1971. 45 Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., p. IV.
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Il curatore, prescindendo dal metodo lachmaniano, che non ritiene di fatto attuabile nella complessa panoramica della tradizione de l’Acerba, ha scelto come testo di riferimento il codice Parigino It. 579, ritenuto il “migliore” tra i numerosissimi testimoni46 in quanto vi «sono presenti termini che rispecchiano verosimilmente l’usus scribendi dell’Ascolano»47. Ha quindi utilizzato, all’interno della trentina di codici riportati nella sua tabella delle sigle dei manoscritti, solo cinque48 di quelli che ha ritenuto più significativi per il confronto con il Parigino, selezionati in base alla loro antichità, alla presenza del Commento latino o volgare, alla loro completezza, tra i quali non è compreso il nostro pluteo 40.52, inserito invece solo in una lista dei quattordici codici più antichi, cioè risalenti al secolo XIV, i quali, insieme ad un altro ms. della Taylor Institution di Oxford (Arc. 1 e 8, sec. XIV2) che contiene il Commento latino, vengono presi in considerazione esclusivamente in relazione a delle varianti ritenute «principali» e riportate poi in Appendice (n.n.)49. A questi codici il curatore ha aggiunto una sola stampa, quella del 1501, che abbiamo in precedenza segnalato come l’esemplare da cui furono tratte praticamente tutte le cinquecentine50. Gli scopi che si propone Albertazzi sono quelli di «fornire un testo più attendibile rispetto a quello delle precedenti edizioni e, al contempo, proporre una forma dell’opera che potrà essere utilizzata dai futuri editori de L’Acerba»51, convinto che, benché non sia arrivato ad uno stemma codicum, sia tuttavia «preferibile possedere fin da ora un testo realmente esistito in un preciso periodo storico (pur con le inevitabili lacune) piuttosto che perseverare nella volontà di tentare un’edizione definitiva e “scientifica” che non si fornirà mai»52. Come ha scritto il suo recensore, in parte anche collaboratore, Massimo Sannelli, si tratterebbe quindi della prima, reale, edizione critica del più noto
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Così anche Peri (Pflaum), L’«Acerba» di Cecco d’Ascoli cit., p. 23. Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., p. IX. Si tratta dei due laurenziani: Ashburnham 370 (sec. XV2), che conserva il commento latino fino al v. 776, e pluteo 89 sup. 111 (sec. XIV), che presenta molte lezioni ritenute ottime anche dal punto di vista linguistico; dell’ambrosiano V 13 sup. (a. 1416) con il commento latino; del ms. 5 (a. 1376) della Biblioteca Comunale di Ascoli Piceno; del Barb. Lat. 4050 della Biblioteca Apostolica Vaticana (secc. XIV-XV) con il commento volgare. 49 Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., pp. X-XI, XIII. 50 Cfr. supra, p. 96. 51 Cfr. Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit., p. V. 52 Ibid. Il lavoro di Albertazzi, che procede per libri, capitoli e versi per l’Acerba, o anche strofe per il commento, sia latino che volgare, paginando solo l’introduzione - il che, a volte, può rendere un po’ difficili i confronti e i controlli -, si presenta tuttavia corredato anche di un CD contenente l’edizione de l’Acerba del 1501.
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testo volgare di Cecco d’Ascoli, che «aiuterà a ripristinare il dialogo filologico ed ermeneutico […] con l’Acerba e con i due commenti, latino e volgare» e che ha permesso all’opera di acquistare «una fluidità che sembra contraddire il luogo comune dell’illeggibilità del poema», e questo non solo per la scelta delle lezioni, ma anche per quella dell’interpunzione. Per Sannelli, la nuova possibilità di lettura dovrebbe, infatti, favorire anche un nuovo approccio e un’attenzione per l’Acerba «non solo storicistica e disciplinare», bensì volta anche a recuperare il trattato «in un approccio all’Amore-Sapienza e alla Sapienza dell’Amore»53, temi certo non estranei a Cecco. Ma, anche alla luce di queste ultime osservazioni, e pur aperti a quanto gli studi potranno aggiungere in futuro, il pluteo 40.52 resta pur sempre, ad oggi, il manoscritto su cui gli italianisti hanno maggiormente posto l’attenzione e da cui, comunque, non potranno mai prescindere, fosse solo, appunto, per l’antichità del suo dettato sommata al fatto di essere una delle rare testimonianze di illustrazione scientifica del Trecento italiano: il che, credo, spiega, e giustifica ampiamente, la scelta di riprodurlo in facsimile.
53 Per le citazioni cfr. su www.airesis.net la recensione di Massimo Sannelli a Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba etas) cit.
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Nel capitolo della History of Magic and Experimental Science consacrato a Cecco d’Ascoli Lynn Thorndike definisce astrological necromancy la magia che Cecco presenta nel Commento sulla Sfera1. Infatti, è in quest’opera che si constatano le derive “nigromantiche” più evidenti; e tali derive hanno una caratteristica precisa, cioè la stretta connessione tra scienza degli astri e demoni. Dal punto di vista etimologico la “necromanzia” è la divinazione praticata attraverso gli spiriti dei morti, laddove “nigromanzia” è - come ha dimostrato Jean-Patrice Boudet - il termine più usato per indicare quella magia in cui si fa ricorso all’ausilio dei demoni2. All’inizio del Commento sulla Sfera Cecco spiega che, secondo l’Ars magica di Apollonio, «il medico senza le stelle e il nigromante senza le ossa dei morti sono come un’immagine non vivificata dagli spiriti». Nell’edizione di Thorndike abbiamo il termine necromanticus, nel manoscritto di Parigi si legge invece nigromanticus3.
* Ringrazio Jean-Patrice Boudet per i sui preziosi suggerimenti; Irene Caiazzo e Giuseppe Sangirardi per la loro gentile rilettura e la loro attenta correzione del mio italiano. 1 L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, II, New York 1923, pp. 948-968: 963; L. Thorndike, The Sphere of Sacrobosco and Its Commentators, Chicago 1949, p. 54 (astronomical necromancy); Cicchi Esculani In Spheram mundi enarratio, ibid., pp. 343-411. 2 Su questa distinzione si veda J.-P. Boudet, La genèse médiévale de la chasse aux sorcières. Jalons en vue d’une relecture, in Le mal et le diable. Leurs figures à la fin du Moyen Age, a cura di N. Nabert, Paris 1996, pp. 35-52; J.-P. Boudet, Entre science et nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident mediéval (XIIe-XVe siècle), Paris 2006, pp. 92-94 e 351-393. 3 Cicchi Esculani In Spheram cit., p. 345: «Et Apollonius in sua arte magica inferebat, Medicus sine stellis et necromanticus sine ossibus mortuorum est quasi imago a spiritibus non vivificata». Cicchi Esculani Expositio supra Speram, Parigi, Bibliothèque Nationale de
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Cecco definisce la negromanzia (necromantia nell’edizione) come «una scienza divinatoria in cui si invocano i demoni per ottenere delle risposte, praticata in tutti gli incroci (in cunctis triviis) e soprattutto nelle regioni settentrionali, e che il suo nome viene da necros cioè “morto”». Purtroppo questo passo manca nel manoscritto parigino e dunque non si può dire se il termine utilizzato fosse nigromantia4. In queste due allusioni si percepisce sia il riferimento all’antica necromantia, la divinazione legata ai morti, sia alla nuova nigromantia medievale, in quanto la vivificazione delle immagini rinvia inequivocabilmente all’arte dei talismani, senza dimenticare che l’invocazione dei demoni è il principio essenziale di questo secondo tipo di magia. Riguardo poi alla precisazione che quest’arte si pratica negli incroci, ciò è fondamentale nell’argomentazione di Cecco, dato che sono proprio questi incroci o intersecazioni i legami con la sua geometria nigromantico-cosmologica. La condanna al rogo dell’Ascolano nel 1327, per ordine dell’inquisitore di Firenze, ha suscitato numerose speculazioni, da Giuseppe Boffito fino ad oggi5. La questione delle fonti è ben nota: le testimonianze sul secondo, e fatale, processo che ci sono pervenute presentano tutte diversi problemi critici. Per il Villani l’opera incriminata, a Bologna e poi a Firenze, fu proprio il Commento sulla Sfera, e sarebbero state tre le imputazioni: (1) l’affermazione che si possono realizzare cose meravigliose costringendo gli spiriti maligni che si trovano nelle sfere celesti; (2) il fatalismo astrologico; (3) l’affermazione che il destino del Cristo e la futura venuta dell’Anticristo sottostavano alle leggi degli astri. Il Villani aggiunge altre aggravanti: le inimicizie personali di Cecco d’Ascoli6. Nel presente contributo vorrei sintetizzare gli elementi rintracciabili, soprattutto nel Commento sulla Sfera, per tentare di ricostruire il sistema cosmologico-demonico su cui si fonda la magia teorizzata dall’Ascolano, perché sono convinto che esista un sistema semi-occultato nello scritto di
France (= BnF), ms. lat. 7337, ff. 32b-41b: 32b, col. 2: «Medicus sine stellis et nigromanticus [nigromantibus nel ms.] sine ossibus mortuorum est quasi ymago a spiritibus non vivificata» (non c’è il riferimento all’opera attribuita a Apollonio). L’edizione di Lynn Thorndike è basata principalmente sull’edizione di Venezia (1518), sull’incunabulo del 1499 e sul manoscritto di Parigi, che presenta soltanto sezioni incomplete del commento. 4 Cicchi Esculani In Spheram cit., p. 346: «Necromantia est quedam scientia divinativa qua advocantur demones ad dandum responsa que in cunctis triviis et maxime in septentrionalibus partibus exercetur, dicta a necros quod est mortuum». Questo passo non si trova nel manoscritto di Parigi. 5 Si veda infra, nota 76. 6 Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, II, Pavia 1991, XI 41, pp. 570-571.
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Cecco. Da tale ricostruzione (a tratti congetturale) vorrei trarre qualche conclusione e sulla magia e sul destino tragico di Cecco d’Ascoli, facendo riferimento al contesto intellettuale dell’epoca. II
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L’apparizione di commenti di natura “nigromantica” è tanto più sorprendente in quanto le opere commentate non sono affatto di carattere magico. Nel De principiis astrologie dell’Alchabitius, uno dei manuali di base dell’astrologia araba trasmessa ai Latini, sono presentate le regole dell’astrologia ordinaria, cioè completamente dedicata alle predizioni, senza riferimento alcuno alla magia7. La Sphera di Giovanni di Sacrobosco, poi, è uno dei manuali più utilizzati nel cursus delle Facoltà delle Arti, che offre una cosmologia senza alcuna relazione con qualsivoglia procedimento magico8. Il fatto che Cecco si sforzi d’introdurre intermezzi “nigromantici” nei commenti a queste due opere, che, ripeto, non parlano in alcun modo di magia, è già di per sé un indizio della sua inclinazione per le arti magiche. Inoltre, paradossalmente, le derive “nigromantiche” più eclatanti si trovano tutte nel Commento sulla Sfera e non nel Commento all’Alcabizio9. Anzi, mi sembra che il Commento sulla Sfera sia come un palinsesto, si presti cioè a una duplice lettura: dietro il commento cosmologico viene delineato, in modo più o
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Alcabitii Introductorius ad iudicia astrorum, in Al-Qabîsî (Alchabitius), The Introduction to Astrology. Editions of the Arabic and Latin texts and an English translation, a cura di C. Burnett - K. Yamamoto - M. Yano, London-Torino 2004, pp. 156-364; Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie, in G. Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, Città del Vaticano 1905. 8 Iohannis de Sacrobosco Sphera, in Thorndike, The Sphere of Sacrobosco cit., pp. 76117. Per la diffusione di quest’opera in ambito universitario, si veda G. Beaujouan, Le quadrivium et la Faculté des arts, in L’enseignement des disciplines à la Faculté des arts (Paris et Oxford, XIIIe-XVe siècles), a cura di J. Hamesse, Turnhout 1997, pp. 185-194. 9 Si può tuttavia notare che nel commento di Robertus Anglicus sulla Sfera ci sono anche allusioni magiche - Thorndike, The Sphere of Sacrobosco cit., pp. 54-55: «[the existence of demons and a world of spirits and of magic] had already been introduced to some extent before Ceccco d’Ascoli in the commentary of Robertus Anglicus, which constitutes a transition and halfway house, as it were, between astrology in the commentary attributed to Michael Scot and in that of Bernard of Trilia and the astronomical necromancy and diabolical magic which are given an airing in the commentary of Cecco d’Ascoli». Questi passi sul demone Brutus o quello spirito invocato che diceva di poter portare fichi maturi in qualsiasi stagione dell’anno, di cui parla Robertus Anglicus - cfr. Roberti Anglici In Speram, ibid., pp. 143-198, Lectio XIII, pp. 187 e 191 -, potrebbero aver ispirato, secondo Thorndike - ibid., p. 55 -, il demone Floron di Cecco d’Ascoli.
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meno coerente, un modello cosmologico-astrologico-demonico in buona parte originale. Cecco coglie ogni pretesto testuale offerto dal trattato del Sacrobosco per promuovere, come in un puzzle, elementi di questo modello, di cui cercherò di ricostruire la coerenza. Una delle tattiche utilizzate è, per l’appunto, la sovrapposizione dei significati. Alcuni termini come colurus, zenith, arcus, clima, oppositio ecc., ricevono così due spiegazioni: una astrologica, o astronomica o cosmologica, e un’altra “nigromantica” (in questo Cecco sembra inspirarsi al Sacrobosco, che distingue diversi significati di ortus signorum: cosmicus, cronicus et eliacus10). Talvolta il significato “nigromantico” è introdotto in modo artificiale, come se il commento non fosse altro che una copertura per dissimulare uno scritto di “nigromanzia” astrale. Prima di analizzare questo procedimento per la nomenclatura demonica, si devono osservare i diversi significati di ortus. Nel capitolo III Cecco spiega che, secondo il De motu diurno attribuito ad Alchindus, l’ortus signorum ha tre significati: l’ortus rationis (quando vi sono segni zodiacali “umani” nell’ascendente, come i Gemelli, la Vergine e il Sagittario), l’ortus ablationis (quando nell’ascendente si trova uno dei segni del domicilio di Giove, cioè il Sagittario o i Pesci), e infine l’ortus figurationis, che trascende il campo della mera astrologia e sfocia in quello dell’arte dei talismani, in quanto è «l’appropriazione (actatio vel aptatio) del cielo per fabbricare immagini». Il verbo aptare proviene sicuramente dall’opuscolo astro-talismanico De imaginibus di Thebit, che è menzionato esplicitamente subito dopo11. Cecco prosegue: «se qualcuno vuol fare delle operazioni con le immagini, deve operare sotto l’ascendente della sua natività», cioè secondo l’oroscopo della nascita, «o sotto la sua interrogazione», cioè in conformità con l’oroscopo del momento in cui si effettua la domanda12. L’esempio fornito da Cecco è significativo: per realizzare un’immagine con cui ottenere una risposta efficace da un spirito bisogna fabbricarla quando nell’ascendente c’è «il cuor del Settentrione o Cancro, che è l’ascendente dei nigromanti», e bisogna anche catturare l’influsso della luna, di Saturno ecc. secondo il Liber de mineralibus constellatis, un’opera che Cecco, in un altro luogo, attribuisce ad Astafon13. La definizione della nigromanzia s’inserisce in una localizzazione cosmologica precisa: nella parte settentrionale in relazione con il segno zodiacale del Cancro. In seguito il libro De mi10 Iohannis de Sacrobosco Sphera cit., p. 10. 11 Thebit (Thâbit ibn Qurra), De imaginibus, in F.J. Carmody, The Astronomical Works
of Thâbit ibn Qurra, Berkeley (Los Angeles) 1960, pp. 179-197. 12 Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 3, p. 402. 13 Ibid.; Parigi, BnF, ms. lat. 7337, f. 36, coll. 1-2: «ascendens nigromanticorum».
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neralibus constellatis di Astafon è menzionato riguardo al «potere delle intersecazioni», che rimane «nascosto ai sensi umani» («occulta a sensibus humanis») per ottenere risposte dagli spiriti; vuol dire, spiega Cecco, che quando la Testa del Dracone (il nodo ascendente della luna, cioè il punto ascendente in cui la sua orbita interseca il piano dell’eclittica) si trova nel Sagittario, se si mette una pietra diacodius nell’acqua allora «vengono naturalmente gli spiriti per dare le risposte»14.
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Il modello demonico-astrologico presentato da Cecco d’Ascoli si fonda su due autorità principali: Ipparco e Salomone, ai quali si aggiungono Zoroastro e Apollonio. In un contesto “nigromantico” Cecco cita quattro opere attribuite a Ipparco: De hierarchiis spirituum, De ordine intelligentiarum, De vinculo spiritus e De rebus. Tali opere non sono state identificate, né tanto meno le altre opere pure attribuite allo stesso Ipparco da Cecco nei suoi due Commenti15. Da questo non ben identificato Ipparco, dunque, proverrebbero le menzioni di tre o quattro tipi di demoni: i demoni dei coluri, i demoni dei segni angolari, i demoni elementari e lo zenith. I primi due tipi possono essere sovrapposti. I demoni dei coluri. In astronomia si chiamano coluri i due grandi circoli della sfera che si incrociano ai poli formando un angolo retto, e che passano rispettivamente per i solstizi - il coluro solstiziale - e per gli equinozi il coluro equinoziale. I demoni del coluro solstiziale sono spiriti superiori, gli incubi e i succubi, demoni ben noti della teologia medievale. Sotto le grandi congiunzioni, cioè le congiunzioni tra i tre pianeti superiori - Saturno, Giove e Marte - in uno dei due segni solstiziali - il Cancro o il Capricorno -, l’incubo trasporta lo sperma emesso dagli uomini durante il son-
14 Cicchi Esculani In Spheram cit., pp. 405-406. Le proprietà del diacodius vengono citate in Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., p. 16, e nell’Acerba, III, 18 vv. 3189-3190 - cfr. Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002 -, come aveva già notato Thorndike che si riferiva anche al De mineralibus II. II. 4 di Alberto Magno. 15 Cicchi Esculani In Spheram cit., pp. 387-388 (De hierarchiiis spirituum), 391 (De ordine intelligentiarum), 344, 346 e 404 (De vinculo spiritus), 403 (De rebus); Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., pp. 10-11, 15-16, 19, 36, 39 e 56 (De rebus). Anche Thorndike si interroga su questa insolita bibliografia che sembra immaginaria, senza però escludere la possibilità che certi titoli possano riferirsi a opere realmente esistenti, sia perdute sia conservate con un titolo diverso - cfr. Thorndike, The Sphere of Sacrobosco cit., p. 53: «It is difficult to escape the suspicion that some of Cecco’s citations of strange and othewise unheard-of works and titles are apocryphal and his own invention» (dopo Boffito, Thorndike - alla nota 24 - rinvia anche a ciò che scrive Gabriel Naudé). Ibid., p. 54: «[…] we cannot be certain that treatises which such designations did not exist then and have failed to survive».
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no e feconda le donne per far nascere uomini che sembrano divini ma che sono in realtà demoniaci, come Merlino o il futuro Anticristo. I succubi, invece, prendono la forma aerea di una donna per ingannare gli uomini. Da qui proviene l’etimologia “nigromantica” di “coluro” (che coesiste con l’etimologia astronomica): colon, il membro, e urere, bruciare, visto che gli incubi e i succubi bruciano gli organi genitali durante il sonno16. I demoni collocati sugli equinozi, che si trovano cioè sul coluro equinoziale, sono inferiori ai precedenti: si chiamano marmores (mormo in greco, secondo Thorndike) e asmitus17. Più avanti nel trattato Cecco cita ancora Asmitus (in questo caso inteso come nome proprio) per dire che Floron è un demone due volte più potente di Asmitus, e questo perché il rapporto tra le potenze demoniache è lo stesso che esiste tra la distanza tropico del Cancro-equatore e la distanza circolo artico-tropico del Cancro, cioè un rapporto doppio18. La fonte indicata da Cecco è, in questo caso, il De umbris idearum di Salomone. I demoni dei quattro segni angolari o cardinali. I due segni che si trovano ai nodi solstiziali sono il Cancro e il Capricorno; i segni che si trovano ai nodi equinoziali sono l’Ariete e la Bilancia. I “principi dei demoni” occupano le regioni elementari localizzate sotto questi quattro segni. Infatti, una volta espulsi dal cielo, essi occuparono i solstizi e gli equinozi, che ricordano loro i troni occupati nel cielo prima della caduta. I coluri passano per i solstizi, luoghi d’intersezione, per l’appunto, tra l’equatore, l’eclittica e i coluri; per questo motivo gli invocatori dei demoni fanno le loro operazioni agli incroci19.
16 Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 2, pp. 387-388, in particolare: «[…] Unde [Hipparcus] ad litteram sic dicit: Incubus et succubus coluros tenent et quandoque in maiori coniunctione eorum virtute velut divinitatis homines oriuntur. Iuxta quod debetis intelligere quod incubus secundum ipsum dicitur morari in coluro qui distinguit solstitium estivale […]». Sul ruolo dei succubi nella generazione straordinaria in Cecco d’Ascoli, si veda M. van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge. Les théories médiévales de la génération extraordinaire, Paris 2004, pp. 309-315, e nel presente volume R. Martorelli Vico, L’idea della generazione naturale e straordinaria secondo Cecco d’Ascoli: indagine sulle fonti medico-biologiche, pp. 167-180. 17 Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 2, p. 388: «Alii qui sunt minores supradictis qui vocantur marmores et asmitus tenent coluros qui distinguunt equinoctia, unde ad litteram dicit quod marmores (mÖrmoro@?) et asmitus tenent equinoctia nutu dei». 18 Ibid., cap. 2, pp. 398-399. 19 Ibid., p. 391: «Unde Hipparcus dicit in libro de ordine intelligentiarum quod principes quidam demonum tenent quatuor partes sub celo. Nam expulsi de celo aerem occupant et quatuor elementa, nam equinoctia et solsititia tenent in similitudinem primi throni. Nam cum signa quatuor supradicta dicantur cardinalia sive angularia, idcirco velut loca
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Sembra legittimo confrontare questi due passi: non potrebbero essere questi “principi dei demoni” quegli stessi demoni chiamati succubi, incubi, marmores e asmitus? In questo caso i demoni dei coluri sarebbero i demoni localizzati dove i coluri intersecano l’eclittica, cioè nei nodi solstiziali e equinoziali. Se così fosse, l’incubo si troverebbe sul segno del Cancro (solstizio d’estate), il succubo sul segno del Capricorno (solsitizio d’inverno), asmitus e marmores sotto ciascuno dei segni equinoziali [Fig. 1]. I demoni elementari. Cecco utilizza il procedimento del doppio significato astrologico e “nigromantico” per analizzare il termine “opposizione”. Il significato astrologico è chiaro: un aspetto astrologico di 180 gradi, cioè un aspetto malefico. Per spiegare il significato nigromantico Cecco cita il De rebus, dove Ipparco avrebbe scritto: «Remota sit ab elementis, idcirco dignior est oppositio crucialis». Questa frase oscura è spiegata così da Cecco: “l’opposizione cruciale” è la localizzazione di questi demoni dei quattro punti cardinali, di cui parla anche Zoroastro. Forse gli spiriti elementari di cui parla Ipparco sono gli stessi che costituiscono le venticinque legioni di spiriti che si trovano, secondo Zoroastro, sotto i quattro spiriti dei punti cardinali (di cui parlerò tra poco). In ogni modo gli spiriti elementari occupano gli elementi fuoco, aria e terra (non è menzionata l’acqua). Agli spiriti che occupano il fuoco si imputa questo fenomeno, secondo Cecco, a volte osservabile: una colonna di fuoco si muove verso il cielo. Ciò avviene di notte nelle truppe quando viene dato l’ordine di attaccare il nemico, perché gli spiriti spiano le anime dei combattenti; per questo motivo è molto pericoloso morire in guerra, salvo nella guerra per la fede cristiana. I demoni che occupano l’aria producono nembi subitanei nell’aria con forme animali (serpenti, dragoni ecc.), o fanno alzare vortici di polvere. I demoni che occupano la terra seminano le discordie tra i popoli, prendendo le sembianze di poveri, di pellegrini o di fate; di notte, poi, fanno risuonare orribili clamori20. Lo zenith. Cecco presenta i due significati del termine: astronomico e nigromantico. Per illustrare quest’ultimo Cecco cita Ipparco, che nel De
digniora sub ipsis tenent aliqui de hierarchia maiori, et cum ipsi coluri intersecent cruciatim solstitia, ideo illi qui invocant demones semper in triviis sive in cruciatis viis stant ad invocandum». 20 Ibid., cap. 3, p. 403: «‘Sequitur de ortu et occasu signorum prout sumunt astronomi’. Idcirco dic quod omnis oppositio per respectum dicitur esse mala. Alio modo dicitur seu sumitur necromantice, ut accipit ipsam Hipparcus in libro de rebus ubi ad litteram sic dicit: Remota sit ab elementis, idcirco dignior est oppositio crucialis. In ista parte debetis intelligere quod spiritus qui sunt extra ordinem gratie aliqui tenent elementa et aliqui sunt in elemento ignis, aliqui in elemento aeris, aliqui in elemento terre [...]».
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vinculo spiritus avrebbe parlato di una preghiera allo zenith, «gerarchia di sostanze separate di natura del tutto eccellente», una “natura” definita “deifica”, benché, come gli altri demoni, i demoni dello zenith siano stati espulsi dall’ordine della grazia. Il «dio dell’ordine naturale ha stabilito il principato» nello zenith. Non si capisce bene se questo theos dell’ordine naturale sia Dio o il diavolo. Comunque, Cecco non si mostra affatto critico riguardo a questo passaggio21: egli non localizza questa gerarchia demonica chiamata zenith ma forse, seguendo la sua logica, è quella situata appunto sotto lo zenith (a meno che zenith sia un nome generico per designare tutti i demoni superiori). Incubi, succubi, marmores e asmitus nei coluri, zenith: tali sono i demoni presentati, secondo Cecco, nelle tre opere dello pseudo-Ipparco.
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Dal De umbris idearum di Salomone proverrebbero invece i riferimenti ai demoni dei circoli o dei poli artici e antartici, agli Archi e a Floron. I Poli. Riguardo ai circoli artico e antartico, secondo il solito procedimento, Cecco spiega che sono due i modi di intendere i «poli del mondo», o nel loro significato astronomico, oppure in un altro significato - il termine “nigromantico” non è menzionato qui, ma si indovina facilmente - e allora sono questi “poli” «potenze degli <spiriti> separati [cioè gli spiriti artici] che sono stabiliti nel cuore del settentrione». Queste intelligenze sono «fuori dell’ordine della grazia» e dominano a partire dal circolo artico (le più nobili) o dal “polo” antartico. Salomone menziona una preghiera: «O arctici manes! O arctici divinitate propulsi! Cur tante nature nobilitas videtur constrigi specifico minerali?». Infatti, spiega Cecco, questi spiriti rispondono attraverso le immagini che sono come gli idoli: alcuni attraverso le immagini d’oro, altri attraverso quelle di argento, altri ancora attraverso quelle di stagno, e così via22.
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Ibid., pp. 403-404: «Alio modo sumitur zenith pro hierarchia separatorum excellentioris nature, ut accipit Hipparcus in libro de vinculo spiritus, ubi dicit ad litteram: O admiranda zenith et natura deifica occulta oculis humanorum, quamvis a vestra specie ordo gratie sit ablatus, tamen nature ordinis theos in vobis posuit principatum». 22 Ibid., cap. 2, p. 397: «Circa istam partem debetis intelligere quod poli mundi possunt accipi altero istorum modorum: uno modo astrologice […], alio modo pro potentiis separatorum qui sunt in corde septentrionis, ut accipit Salomon in libro de umbris idearum, ubi ad litteram sic dicit: O arctici manes! O antarctici divinitate propulsi! cur tante nature nobilitas videtur constringi specifico minerali? Iuxta quod debetis intelligere quod sunt quedam intelligentie extra ordinem gratie que tenent partem septentrionalem et dominantur a circulo arctico et sunt nobiliores nature. Et sunt alie intelligentie que sunt meridionales que dominantur a polo mundi antarctico. Unde isti dant responsa in imaginibus
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Gli Archi. Riguardo al termine “arco” (arcus), Cecco spiega che vi sono ben tre significati: astronomico, nigromantico e chiromantico. Citando l’ignoto De motu diurno di Alchindus (al-Kindî), Cecco scrive che dall’esaltazione del sole (cioè dall’Ariete) fino alla sua caduta (nella Bilancia) abbiamo l’arco settentrionale, e dalla caduta del Sole fino alla sua fine (nei Pesci) abbiamo l’arco australe. Ovviamente si parla qui degli archi del circolo dell’eclittica: il sole ha il suo inizio annuale nell’Ariete, dove ha luogo la sua esaltazione (cioè una delle sue dignità essenziali, segno in cui quel “pianeta” è fortunato); la sua caduta (cioè la posizione sfavorevole) è nel segno della Bilancia, e l’ultimo segno nel quale passa il sole è quello dei Pesci. Il significato nigromantico è attribuito al De umbris idearum di Salomone: gli «Archi settentrionali per la loro nobilità vengono immediatamente a dare delle risposte e producono cose meravigliose con la volontà di Dio». Cecco spiega che questi «demoni che si trovano nel settentrione» hanno, grazie alla loro «natura nobile», la conoscenza dei «segreti degli elementi del mondo»23. Infatti, è la loro nobiltà tanto grande che appena sono invocati da un uomo nobile subito arrivano per rispondere. Questi nobili demoni si trovano «volentieri nelle case delle persone nobili» e parlano con la famiglia, «cioè la servono senza danno». Invece «buttano nelle case degli usurai e delle persone vili pietre ed escrementi e capovolgono i piatti e disfanno le lenzuola del letto e di notte emettono sospirando spaventosi e terribili voci»24. Infine c’è il significato chiromantico, illustrato attraverso un’ignota Chiromantia di Abliton: l’arco, in questo caso, rappresenta la linea della mano. Cecco non spiega chiaramente dove sono situati nella sfera questi demoni molto nobili chiamati Archi settentrionali. Abbiamo però un indizio: il loro nome fa pensare a una localizzazione sotto un arco - l’arco settentrionale dell’eclittica. Come i Poli o manes artici, essi sono demoni molto nobili. Questa nobiltà data al settentrione è coerente con l’idea espressa all’inizio del commento nella definizione della nigromanzia, già sopra esaminata, che «si pratica sopratutto nelle regioni settentrionali».
mineralium, ut in idolis aliqui aureis, aliqui argenteis, aliqui stanneis, et sic de aliis. Idcirco dicebat Salomon, O arctici manes, id est diabolici; O antarctici divinitate propulsi, cur tante nature nobilitas videtur constringi specifico minerali?». 23 Ibid., cap. 4, p. 406: «Secundo necromantice [nigromantice MS Parigi], ut Salomon in libro de umbris idearum, ubi ita ad litteram dicit: Arcus septentrionales nobilitate cito veniunt ad responsa et operantur mirabilia nutu dei. Ut intelligatis, isti demones qui sunt in septentrione dicuntur septentrionales et habent nobilem naturam, sciunt enim secreta elementorum mundi. Et tanta est istorum nobilitas quod cum homo nobilis nature eos invocat parva invocatione statim veniunt ad responsa». 24 Ibid.
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Floron. Basandosi sullo stesso opuscolo salomonico, Cecco menziona inoltre il demone Floron. Questo apparteneva una volta all’ordine dei Cherubini e dunque è di una natura molto nobile (in effetti, i Cherubini sono nella gerarchia dionisiana l’ordine più alto dopo quello dei Serafini). Floron è invocato e “costretto” con l’aiuto di uno specchio d’acciaio. Egli conosce numerosi segreti della natura, ma inganna quasi sempre gli uomini. Cecco spiega, sulla base di vari racconti, che non ci si può fidare di questo demone perfido. È proprio lui che ha ingannato il re Manfredi, poiché gli aveva predetto la vittoria. Inoltre, ha ingannato un uomo che cercava un tesoro, predicendogli che avrebbe conservato questo tesoro fino alla sua morte: ora, l’uomo trovò certo questo tesoro in una caverna, però morì subito dopo nel crollo di questa stessa caverna25. Più avanti nel commento, Cecco parla di nuovo di Floron: questo “spirito” è «l’ombra della luna». In tempo di plenilunio l’ombra si vede interamente e così gli spiriti rispondono senza ingannare, come nelle esperienze di divinazione in cui vengono utilizzate superfici riflettenti (spada, specchio, cristallo o unghia) con l’aiuto di un bambino vergine26, una pratica chiamata in altri testi magici catoptromanzia27. Questo è coerente col fatto che Floron risponde attraverso specchi d’acciaio. La catoptromanzia è menzionata in un altro luogo in riferimento al libro De cautelis nature attribuito a Ipparco28. Più avanti, in un altro passo, Cecco menziona Floron, presentandolo come un «spirito di natura molto nobile» e attribuendogli una profezia sulla venuta di Cristo, mettendo così sullo stesso piano questo cherubino caduto e la Sibilla, citata immediatamente dopo29. Ma dove si trova Floron? È localizzato nella Sfera? Il passo che fa intervenire questo demone può forse procurarci un indizio. Cecco sta commentando il brano della Sphera dove Sacrobosco spiega che «quella parte del coluro che si trova compresa fra il primo punto del Cancro e il circolo artico è quasi doppia della declinazione massima del sole o dell’arco dello stesso coluro che si trova compreso fra circolo artico e polo artico del mondo, <arco>
25 Ibid., cap. 2, pp. 398-399: «[…] Unde Floron fuit de hierarchia Cherubin et est spiritus nobilissime nature qui constringitur in speculo calibis maiori invocatione. Hic vero novit multa secreta nature. Hic vero fuit ille qui decepit regem Manfredum [ecc.] Unde caveatis ab eis quia ultima intentio ipsorum est in opprobrium domini nostri Iesu Christi decipere christianos». 26 Ibid., cap. 4, p. 407. 27 Su questa pratica, si veda ora Boudet, Entre science et nigromance cit., pp. 101-106. 28 Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 2, pp. 391-392. 29 Ibid., cap. 4, pp. 408-409.
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che è uguale alla declinazione massima del sole»30. Giovanni di Sacrobosco fa una dimostrazione geometrica. Come tutti i circoli, egli spiega, il coluro ha un’ampiezza di 360°, e dunque un quarto di coluro corrisponde a 90°. Per questo motivo Sacrobosco vuole identificare la sezione del coluro compresa fra l’equatore celeste e il polo del mondo, un quarto della sfera per l’appunto. Giovanni considera poi la massima declinazione del sole, cioè l’arco compreso fra l’equatore e il tropico del Cancro. Secondo Tolomeo, prosegue Sacrobosco, la declinazione massima del sole è di 23° e 51’. Ora, visto che l’arco compreso fra il circolo artico e il polo artico è uguale a quest’ultimo arco, la somma di questi due archi è di quasi 48°. Se si sottraggono questi 48° ai 90° (che rappresentano tutto l’arco di coluro compreso tra l’equatore celeste e il polo artico del mondo) rimangono 42°. Dunque, l’arco del coluro compreso tra «il primo punto del Cancro» e il circolo artico è di 42° (poiché quest’arco è precisamente la porzione dell’arco del coluro di 90° che rimane dopo la sottrazione dell’arco tra il polo artico e il circolo artico e dell’arco tra il tropico del Cancro e l’equatore). «E così pare che lo stesso arco è quasi doppio della declinazione massima del sole», poiché 42° corrispondono pressappoco a 23° e 51’ moltiplicato per 231 [Fig. 2]. Salomone, secondo Cecco, spiega che, così come l’arco del coluro tra il tropico del Cancro e il circolo artico è il doppio della declinazione massima del sole, così pure la potenza di Floron è doppia di quella di Asmitus32. Se Ipparco e Salomone sono coerenti fra loro, dato che Asmitus si trova nel coluro equinoziale, probabilmente in uno dei due equinozi, cioè sull’equatore, e supponendo una perfetta corrispondenza fra le distanze cosmologiche e le potenze dei demoni, si potrebbe dedurre che Floron è nel circolo artico: Floron potrebbe essere dunque uno dei manes arctici già menzionati [Fig. 2].
30 Iohannis de Sacrobosco Sphera cit., p. 93: «[…] patet quod illa pars coluri que est inter primum punctum Cancri et circulum articum fere dupla est ad maximum solis declinationem sive ad arcum eiusdem coluri qui intercipitur inter circulum articum et polum mundi articum, qui est equalis maxime solis declinationi». 31 Ibid.: «Cum autem colurus iste sicut alii circuli in spera sit 360 graduum, quarta eius erit 90 graduum. Cum igitur maxima solis declinatio secundum Ptolomeum sit 23 graduum et 51 minutorum et totidem graduum sit arcus qui est inter circulum arcticum et polum arcticum, si ista duo simul iuncta, que fere faciunt 48 gradus, subtrahantur a 90, residuum erit 42 graduum, quantus est arcus coluri qui est inter primum punctum Cancri et circulum arcticum. Et si patet quod idem arcus fere duplus est ad maximam solis declinationem». 32 Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 2, p. 398: «Iuxta quod debetis intelligere quod Salomon in libro de umbris idearum concludit istam distantiam scilicet tropici Cancri et circuli arctici esse duplam ad maximam solis declinationem, ubi ad litteram sic dicit: Sicut
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Gli spiriti dei quattro punti cardinali. Zoroastro è detto essere l’autore di un De dominio quartarum octave spere, ma il suo nome appare da solo, senza indicazione dell’opera, nel passo in cui sono illustrati i quattro spiriti dei punti cardinali33. Commentando i climi Cecco distingue tra un significato cosmologico e un significato “nigromantico”. Riguardo al primo Sacrobosco ha stabilito che i climi corrispondono a sette zone, parallele all’equatore, in cui è divisa la parte abitata della terra34. Riguardo al significato “nigromantico” Cecco fa riferimento a Zoroastro, il primo inventore dell’arte magica (come viene ripetuto nel Medioevo, sulla scia di Plinio e Agostino35). A Zoroastro sono attribuiti i discorsi più sconcertanti del Commento sulla Sfera, come per esempio: «I climi devono essere ammirati, loro che danno fedelmente delle risposte con la carne dei morti e il sangue umano»36. Il nome di “clima” è stato loro dato poiché, così come un clima è un’inclinazione (elevatio, scrive Cecco), così pure questi spiriti sono «alzati sopra tutti gli spiriti»37. Questi climi sono spiriti «di grande potenza» che occupano i luoghi d’incrocio (locis cruciatis), cioè l’oriente, l’occidente, il sud e il nord. I loro nomi sono Oriens (per l’oriente), Amaymon (per l’occidente), Paymon (per il sud) ed Egim (per il nord). Questi spiriti «della gerarchia superiore» hanno «sotto ciascuno di loro venticinque legioni di spiriti», e, visto che la loro natura è nobile, richiedono sacrifici di uomini o di gatti. Quest’arte, che implica pure digiuni e preghiere, non può essere praticata «senza un grande pericolo» per la fede. L’invocatore versa il sangue in una conca d’oro, fa le invocazioni e poi arrivano gli spiriti38. È al De domi-
distantia tropici stelle lune et poli arctici ad maximam declinationem vite celi dicitur esse dupla, sic Floron ad Asmitus est distantia in virtute». 33 Il De dominio quartarum octave spere è menzionato due volte: Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., p. 4; Cicchi Esculani In Spheram cit., p. 408. Per il brano sugli spiriti dei punti cardinali (senza nessun riferimento a questo titolo), ibid., p. 404. 34 Iohannis de Sacrobosco Sphera cit., p. 110. 35 Plinii Naturalis Historia, XXX, II (1); Augustini De civitate Dei, a cura di B. Dombart - A. Kalb, Stuttgart-Leipzig 19935 (1981), XXI, 14, p. 517, ll. 15-16. 36 Cicchi Esculani In spheram cit., p. 404: «ubi ita dicit [i.e. Zoroastes] ad litteram ‘Clima sunt etiam admiranda que cum carne mortuorum et humano sanguine fideliter dant responsa’». 37 Ibid.: «[…] et hi spiritus vocantur climata, quia sicut clima est elevatio, sic hi spiritus sunt super omnes spiritus elevati». 38 Ibid.: «Iuxta quod debetis intelligere quod isti quatuor spiritus magne virtutis qui stant in cruciatis locis, scilicet in oriente occidente meridie et septentrione, quorum nomina sunt ista, Oriens, Amaymon, Paymon et Egim, qui spiritus sunt de maiori hierarchia et habent unusquisque sub se 25 legiones spirituum. Unde isti propter nobilem ipsorum natu-
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nio quartarum octave spere di Zoroastro che Cecco attribuisce l’idea che dalla dominazione dei «quarti della ottava sfera» e «dal potere degli incubi e dei succubi» sarebbe nato il Cristo. Probabilmente questi «quarti della ottava sfera» sono i due segni cardinali, il Cancro e il Capricorno, poiché, come abbiamo visto, proprio sotto questi due luoghi si trovano gli incubi e i succubi. Cecco chiama l’autore di questa teoria «ista bestia Zoroastes»39.
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I Tropici. Ad Apollonio Cecco attribuisce diverse opere: il De hyle40, il De arte magica41 e il De angelica factura42. Riguardo ai tropici del Cancro e del Capricorno Cecco spiega che accanto al significato dato da Sacrobosco, cioè «i circoli che descrive il sole», c’è un altro significato: «la gerarchia di certi <spiriti> separati che si chiamano tropici, cioè orientati secondo gli ordini di Tropos che è il loro principe, come dice Apollonio nel libro de angelica factura: come il lume del cielo si orienta verso i tropici del mondo attraverso il suo proprio moto, così secondo gli ordini di Tropos i tropici si orientano»43. III
Le fonti di Cecco. Se l’identificazione delle opere sconosciute menzionate da Cecco rimane un problema aperto (come vedremo), un’altra questione può essere sollevata e parzialmente risolta: quella della tradizione magica a cui è ricollegata la magia astrologico-demonica presentata da Cecco.
ram appetunt sacrificia ex sanguine humanorum et carne similiter hominis mortui vel gatti. Sed ars ista Zoroastris non potest fieri sine magno periculo, ieiuniis et orationibus, et omnibus que sunt contra fidem nostram. Unde cum ponitur sanguis humanus in concha enea tales facta invoicatione veniunt […]. 39 Ibid., p. 408: «Unde ista bestia Zoroastes et aliqui eum sequentes dicunt quod Christus fuit ortus in dominio istarum quartarum ex virtute incuborum et succuborum de quibus dixi vobis quod horribile mihi videtur scribere ista verba»; Parigi, BnF, ms. lat. 7337, f. 39 col. 2. 40 Cicchi Esculani In Spheram cit., pp. 394-395. 41 Ibid., pp. 345 e 393. 42 Numerose volte. Ad esempio ibid., p. 395; Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., pp. 29, 41, 54 (De angelica factione). 43 Cicchi Esculani In Spheram cit., p. 395: «Iuxta quod debetis intelligere quod tropici accipiuntur dupliciter: uno modo pro circulis descriptis a sole, ut auctor hic accipit, alio modo pro hierarchia quorundam separatorum qui vocantur tropici, id est, conversivi ad iussum Tropos qui est eorum princeps, ut dicit Apollonius in libro de angelica factura: Sicut lumen celi ad tropicos mundi convertitur motu suo, sic ad iussum Tropos tropici convertuntur».
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1. Qui troviamo il primo paradosso. Si possono infatti identificare nel Medioevo due grandi tradizioni di testi magici: la tradizione hermetica e la cosiddetta tradizione salomonica. Queste due (come ha dimostrato il compianto David Pingree44) sono identificate dall’anonimo autore dello Speculum astronomiae, un’opera scritta nella metà del Duecento45. In quest’opera normativa e bibliografica sulle parti costitutive della scienza degli astri, venne utilizzata per la prima volta (come ho tentato di dimostrare altrove46) la nozione di “immagini astrologiche”, i talismani, cioè, che ottengono i loro poteri solamente dalla potenza naturale degli astri e non dagli spiriti - essendo questi spiriti, nel contesto magico, sempre dei demoni rispetto alla teologia47. Inventando questa nozione di talismano “non destinativo”, cioè che non comporta né invocazione, né altro segno destinato a una intelligenza demonica48, l’autore dello Speculum astronomiae intende essere uno «zelator fidei et philosophiae utriusque scilicet in ordine suo», espressione fondamentale che realizza un equilibrio perfetto fra ortodossia religiosa e curiosità scientifica; un punto, questo, molto importante (che però è stato curiosamente occultato in una sorprendente recensione di Paola Zambelli49).
44 D. Pingree, Learned Magic in the Time of Frederick II, «Micrologus», 2 (1994), pp. 39-56 (Federico II e le scienze della natura / Frederick II and the Sciences). 45 P. Zambelli, The Speculum astronomiae and Its Enigma. Astrology, Theology, Science in Albertus Magnus and His Contemporaries, Dordrecht 1992. Sull’attribuzione di questa opera, cfr. B. Roy, Richard de Fournival, auteur du Speculum astronomie?, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 67 (2000), pp. 159-180; P. Lucentini, L’ermetismo magico nel secolo XIII, in Sic itur ad astra. Studien zur Geschichte der Mathematik und Naturwissenschaften. Festschrift für den Arabisten Paul Kunitzsch zum 70. Geburstag, a cura di M. Folkerts - R. Lorch, Wiesbaden 2000, pp. 409-450; A. Paravicini Bagliani, Le Speculum astronomiae une énigme? Enquête sur les manuscrits, Firenze-Turnhout 2001. 46 N. Weill-Parot, Les «images astrologiques» au Moyen Âge et à la Renaissance. Spéculations intellectuelles et pratiques magiques, XIIe-XVe siècle, Paris 2002. 47 Speculum astronomiae, a cura di P. Zambelli - S. Caroti - M. Pereira - S. Zamponi, traduzione inglese a cura di C.S.F. Burnett - K. Lippincott - D. Pingree - P. Zambelli, in Zambelli, The Speculum astronomiae cit., cap. 11, p. 240. 48 Ho inventato questo termine “destinativo” (in francese destinatif) per definire questo tipo di magia naturale, cfr. Weill-Parot, Les «images astrologiques» cit.; N. Weill-Parot, Astral Magic and Intellectual Changes (Twelfth-Fifteenth Centuries). ‘Astrological Images’ and the Concept of ‘Addressative’ Magic, in The Metamorphosis of Magic From Late Antiquity to Early Modern Period, a cura di J. Bremmer - J.R. Veenstra, Leuven 2002, pp. 167187. Brian P. Copenhaver ha pensato al termine noetic, cfr. B.P. Copenhaver, Scholastic Philosophy and Renaissance Magic in the De vita of Marsilio Ficino, «Renaissance Quarterly», 37 (1984), pp. 523-554. Si veda anche D.P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London 1958. 49 La professoressa Paola Zambelli nella recensione del mio libro Les «images astrologiques» cit., pubblicata in «Renaissance Quarterly», 56/4 (2003), pp. 1277-1279, scrive che
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Relativamente alle due tradizioni magiche identificate dall’autore dello Speculum astronomiae, questi distingue, accanto alle improbabili e lecite “immagini astrologiche”, le immagini “nigromantiche” condannabili, che possono essere di due tipi. Le immagini “abominevoli”, cioè la magia astrale ermetica, la cui origine è essenzialmente araba e, più a monte, forse riconducibile ai Sabei di Harrân. Si tratta di una magia principalmente talismanica, il cui scopo è catturare le forze delle stelle per ottenere l’aiuto degli spiriti astrali. Tali spiriti sono fuori dei limiti del monoteismo: David Pingree pensa che il modello originario sia quello dei rituali magico-religiosi dei Sabei di Harrân, setta rimasta pagana nell’area islamica fino all’XI secolo50. È forse questa la ragione per cui l’autore dello Speculum colloca i testi di questa tradizione nella peggiore categoria della “nigromanzia”, quella definita “abominevole”, benché i loro rituali (invocazione, iscrizione ecc.) siano molto meno numerosi di quelli della tradizione magica definita invece «un po’ meno scomoda, però detestabile»51. Questa seconda tradizione “detestabile”, di diffuse origini giudeo-cristiane, è chiamata salomonica, poiché il suo supposto autore è in regola generale Salomone. Questa magia è basata sulla tracciatura di circoli, l’utilizzazione di spade, iscrizioni di caratteri ecc. A mio parere, questo tipo di magia è una delle fonti più importanti della cosiddetta “nigromanzia occidentale”, così come se ne trova traccia, per esempio, nel quattrocentesco
io citerei la formula «zelator fidei» dimenticando il resto «et philosophiae [...]». Ho trovato molto sorprendente questa osservazione, dato che non solo l’espressione completa è citata nel libro in questione molte volte (tra le altre, si vedano per esempio le pp. 215, 218-219), ma per giunta l’analisi di tale espressione costituisce il fondamento stesso della mia tesi centrale: l’equilibrio, cioè, tra ortodossia religiosa e curiosità scientifica manifestato dall’autore dello Speculum astronomiae. La rivista «Renaissance Quarterly», a cui ho notificato la mia grande sorpresa, mi ha risposto per iscritto che riconosceva la fondatezza della mia protesta riguardo alla recensione della professoressa Paola Zambelli (membro del comitato scientifico di questa rivista), ma ha rifiutato di pubblicare una rettifica. 50 Pingree, Learned Magic cit. Sui Sabei di Harrân, cfr. D. Chwolsohn, Die Ssabier und der Ssabismus, Saint-Petersbourg 1856, ristampa Amsterdam 1965; J. Hjärpe, Les Sabéens harraniens, Uppsala 1972 (tesi); H. Corbin, Temple et contemplation. Essai sur l’islam iranien, Paris 1980; M. Tardieu, Sâbiens coraniqiques et “Sâbiens” de Harrân, «Journal asiatique», 274 (1986), pp. 1-44; M. Tardieu, Les paysages reliques. Routes et haltes syriennes d’Isidore à Simplicius, Louvain-Paris 1995; T.M. Green, The City of Moon God. Religious Traditions of Harran, Leiden-New York 1992; A. Caiozzo, Images du ciel d’Orient au Moyen Âge, Paris 2003. 51 N. Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? Les anges dans la magie astrale, XIIe-XIVe siècle, in Les anges et la magie au Moyen Âge. Actes de la table ronde (Nanterre, 8-9 décembre 2000), a cura di J.-P. Boudet - H. Bresc - B. Grévin, «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Âge», 114/2 (2002), pp. 753-771.
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manoscritto di Monaco edito da Richard Kieckhefer52. In questa tradizione salomonica l’astrologia ha un’importanza molto minore che nella tradizione ermetica53. Tuttavia, è proprio questa la tradizione salomonica lato sensu utilizzata da Cecco per costruire il suo modello cosmologico-astrologico-demonico. 2. Il legame più evidente con questa tradizione salomonica è costituito, paradossalmente, non dai passi esplicitamente attribuiti a Salomone, ma da quelli che Cecco imputa a Zoroastro riguardo agli spiriti dei punti cardinali: Oriens, Amaymon, Paymon e Egim. Questi spiriti sono menzionati in numerosi testi della tradizione salomonica. Lo Speculum astronomiae chiama il primo testo De quatuor annulis, con incipit «De arte eutonica et ydaica»; lo stesso che Thorndike aveva reperito in un codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (II.III.214)54. Ora, in tale testo, che indica come fabbricare anelli magici e una ydea, si trova una sezione in cui il rituale prevede l’utilizzazione di una pelle e in cui appaiono i nomi dei quattro spiriti. Con la pelle di quattro vitelli si fabbrica una pergamena con cui si devono realizzare cinque libri d’immagini; sembra che la pelle debba pure essere stesa sulla terra dove si fa l’invocazione. L’invocatore inizia il suo rito la domenica: non deve fare il segno della croce, né entrare in una chiesa, né salutare alcuno fino a giovedì, quando, prima dell’aurora, deve iniziare l’invocazione al re Amaymon; poi deve recarsi a un corso d’acqua e lavare la pelle invocando i re Amaymon, Paynon, Egym e Oriens. In seguito, l’invocatore si dirige a un quadrivio e pronuncia, al sorgere del sole, la formula di scongiuro, spellando la pelle con il coltello. Il rituale deve continuare con altre sette pelli, e in questo modo ci si può preservare da tutte le infamie possibili55.
52 R. Kieckhefer, Forbidden Rites. A Necromancer’s Manual of the Fifteenth Century, Stroud (Gloucestershire) 1997. 53 Su questa tradizione, si veda, in particolare, Boudet, Entre science et nigromance cit., pp. 145-153; J. Véronèse, L’ars notoria au Moyen Âge et à l’époque moderne. Etude d’une tradition d’une magie théurgique (XIIe-XVIIe siècle), Thèse de l’Université Paris X, Nanterre 2004. 54 L. Thorndike, Traditional Medevial Tracts concerning Engraved Astrological Images, in Mélanges Auguste Pelzer, Louvain 1947, pp. 217-274. 55 Firenze, Biblioteca nazionale centrale, II.III.214, ff. 26v-29v: 28v: «[…] Tunc vadat in aquam curentem et lavetur et excorietur pellis illa ante Solis ortum ita dicendo: Amaymon, Panon, Egyn, Oriens, quos ydoneos et promptissimos in hac arte cognovi, nunc in isto opere valeatis. Deinde vadat ad quadrivium antequam Sol oriatur, ipsa cartula extendatur in circulo de anello novo, cum cordibus que fuit filato a virgine vel a virginibus. Tunc cum Sol oritur, incipiat cartulam illam excoriari et cum novacula nova consecrationem istam novies dicendo: Coniuro te Oriens rex per venturum regem et per sacratissimum nomen illius Tetragramaton ut hoc frustrum carte virginis tuo nomine tuoque honore consecres, ut quod in
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Questi quattro spiriti superiori dei punti cardinali vengono anche menzionati in un testo che l’autore dello Speculum astronomiae chiama De tribus spirituum, e che ho scoperto (grazie all’incipit «De caelestibus candariis») in un manoscritto del Seicento conservato a Londra (ms. Sloane 3850). L’invocatore effettua delle invocazioni su tre figure di spiriti tracciate su una piastra metallica, dicendo questa preghiera [Fig. 3]:
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O Oriens, princeps egregie, qui in Oriente regnas et imperas; O tu Paymon, rex potentissime, qui in Occidente potenter dominaris; O tu Amaymon, rex maxime, qui in Australi plaga principaris; O tu Ogyn, rex potentissime, cuius regnum et imperium est in septentrione; ego viriliter vos invoco obnixe deprecor vel potius potenter coniuro etc.56.
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Jean-Patrice Boudet ha rilevato altre menzioni di questi quattro re in altri testi salomonici. Essi sembrano protagonisti famosi delle fonti salomoniche, dove sono presentati alla testa di legioni di spiriti57. 3. Riguardo a Floron, il suo nome appare (come ha notato Boudet) nel manuale “nigromantico” del codice di Monaco edito da Kieckhefer (e già citato) con la menzione dello specchio di acciaio, ma senza alcuna localizzazione cosmologica. Forse è sempre lui che appare, secondo Boudet, nel Livre des esperitz (conservato in un manoscritto francese del Cinquecento) sotto il nome di Flavos, e anche nell’opera del demonologo Johann Wier58. 4. Riguardo a Tropos e ai suoi Tropici, Cecco si riferisce a un libro, De angelica factura, attribuito a Apollonio, il noto mago Apollonio di Tiana. Infatti, come ho già indicato in altra sede, questo libro, alla fine del Trecento, è citato anche da Antonio da Montolmo con il titolo De angelica fictione e con l’attribuzione a Salomone59. Antonio non parla dei Tropici ma delle Altitudines, angeli menzionati nell’Almandal di Salomone, opera anch’essa citata da Antonio, per il quale le Altitudines sono ordini di angeli
ea scriptum fuerit ad consecrationem libri valeat, sed circulus et novacula et cordule quibus operantur in una non operantur in alia, tunc dimittatur illa pellis iuxta quadrivium in aliquo secreto loco ut a nemine videatur usque ad mane, et sic ordine recto de aliis cartulis faciat usque ad septem et qui fecerit hoc caveat ab inmunditiis et malis et turpibus sermonibus». 56 Londra, British Library, ms. Sloane, f. 70r. 57 J.-P. Boudet, Les Who’s who démonologiques de la Renaissance et leurs ancêtres médiévaux, «Médiévales», 44 (2003), pp. 117-140: 122-123 e 126 nota 40: Michele Scot (“Egym”); Clavicula Salomonis, Paris, BnF, ms. ital. 1524, ff. 169-170 e 211; Oxford, Bodleian Library, ms. Rawlinson D 252, f. 18r. 58 Boudet, Le Whos’s who cit., pp. 126, 132 con nota 43, 138. Per esempio, München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 849; Kieckhefer, Forbidden Rites cit., nn. 18-19, pp. 236-238. 59 Si veda infra, nota 64.
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che si trovano sotto i segni zodiacali, e i più potenti sono quelli situati sotto i quattri segni cardinali60. Ora, come è stato osservato sopra, Cecco ha definito questi spiriti sottostanti ai segni cardinali “principi dei demoni”, ovvero, secondo la mia ipotesi, si tratterebbe degli incubi, dei succubi, dei marmores e degli asmitus. Dunque, seguendo una certa logica, si potrebbe supporre che questi tropici siano collocati sotto i tropici, probabilmente gli incubi sotto il Cancro e i succubi sotto il Capricono61. Rimane però il problema dell’identificazione di Tropos, che sembra un nome singolare. Si può anche notare che le Altitudines di Antonio da Montolmo sembrano molto vicine alle climi-elevationes di Cecco. Insomma, Cecco avrebbe utilizzato fonti salomoniche (e, del resto, se credeva nei procedimenti descritti non poteva averli inventati), ma ha disposto i dati trovati sui demoni fornendo loro una coerenza astronomica, astrologica e cosmologica che prima non avevano. La corrispondenza, da una parte, tra ciò che ci dice Sacrobosco sui rapporti delle distanze che esistono fra i circoli della sfera e, dall’altra, i rapporti tra potenza di Floron e potenza di Asmitus, è troppo perfetta per non essere un’elaborazione dello stesso Cecco d’Ascoli. Cecco non è un mitografo, né un mero falsificatore, è però un abile utilizzatore delle fonti, perfino un manipolatore. Il carattere per lo più sconosciuto degli opuscoli citati rinvia a parecchie logiche (poiché è molto improbabile che tutte queste opere siano andate perdute). Questi opuscoli potrebbero essere sezioni di libri o rielaborazioni architettate da Cecco. Ma perché questa manipolazione di fonti? Prima possibilità: Cecco è un provocatore, ma mostra anche una sorta di preziosità e di pedanteria nel voler menzionare opuscoli del tutto ignoti, segreti, che lui solo conoscerebbe. Mi sembra, però, ed è questa la seconda possibilità, che si possa vedere in questa tattica di manipolazione delle fonti una volontà di eludere la censura. Quale censura? La censura dello Speculum astronomiae. Certo, a mio parere, non si possono identificare verbatim le citazioni di quei misteriosi opuscoli citati da Cecco con nessuna delle opere salomoniche condannate dall’autore dello Speculum astronomiae. Tuttavia, nonostante quest’argomento pertinente, è evidente che l’unica fonte utilizzata in un
60 Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? cit., pp. 762-765; Antonii de Monte Ulmi De occultis et manifestis, Paris, BnF, ms. lat. 7337, f. 4, col. 2 e f. 7, col. 2 (si veda infra, nota 64). Sulle Altitudines nell’Almandal, si veda J.R. Veenstra, The Holy Almandal. Angels and the Intellectual Aims of Magic, in The Metamorphosis of Magic cit., pp. 189-215: 194 ss. 61 Vedi Fig. 1.
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contesto magico e menzionata in modo identificabile è il De imaginibus di Thebit, cioè l’unica opera talismanica che era stata salvata dall’autore dello Speculum astronomiae: proprio quest’opera veniva utilizzata dall’autore per inventare la categoria di “immagine astrologica”, cioè un’immagine solamente astrologica62. La mia ipotesi è dunque la seguente: Cecco conosceva lo Speculum astronomiae e, benché le sue lezioni accademiche fossero di un’incredibile audacia, non voleva rischiare di riferirsi apertamente alle opere esplicitamente condannate; così, forse, si spiegherebbe questa doppia maschera: la modifica dei titoli di questi opuscoli e l’alterazione volontaria dei contenuti delle citazioni presentate63. A tutto questo si deve aggiungere la possibilità di voler architettare teorie ad hoc per costruire un modello astrologico-cosmologico-”nigromantico” alquanto coerente. Questi tre disegni possono spiegare la strana bibliografia presentata da Cecco.
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Infine, la magia presentata da Cecco conduce a quattro osservazioni. 1. A differenza di tutti gli autori del suo tempo, ad eccezione dei teologi che condannavano tutte le pratiche magiche, Cecco non insiste sul carattere naturale delle pratiche da lui presentate. Al contrario, egli insiste sulla straordinaria varietà dei demoni invocati in queste operazioni. Quando Antonio da Montolmo, alla fine del Trecento, presenta una magia demonica molto vicina a quella di Cecco, fa invece l’elogio (certamente ipocrita, ma lo fa) della magia naturale, come un po’ più tardi farà Marsilio Ficino64.
62 Cicchi Esculani In Spheram cit., pp. 347 e 402. L’autore dello Speculum astronomiae ha tra le mani due testi talismanici che sembrano presentare “immagini astrologiche”: il De imaginibus attribuito a Thebit (Thâbit ben Qurra) e l’Opus imaginum dello pseudo-Tolomeo - ma su quest’ultimo opuscolo l’anonimo autore ha più dubbi. Si può anche notare che Cecco d’Ascoli utilizza l’Opus imaginum quando, nel suo commento all’Alchabitius - cfr. Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., p. 43 -, parla dell’immagine di Virgilio, v. N. Weill-Parot, Contriving Classical References for Talismanic Magic in the Middle Ages and the Early Renaissance, in Magic and the Classical Tradition, a cura di Ch. Burnett - W.F. Ryan, London-Torino 2006, pp. 163-176: 170. 63 È vero però che Cecco menziona anche opuscoli sconosciuti per giustificare passi astrologici e non magici. 64 La vicinanza tra Cecco d’Ascoli e Antonio da Montolmo era già stata notata da Thorndike, The Sphere of Sacrobosco cit., pp. 55-56, che sottolineava il fatto che il Commento sulla Sfera di Cecco d’Ascoli e due opere di Antonio si trovassero nello stesso codice latino 7337 della Bibliothèque Nationale de France. Sul confronto fra i due autori, cfr.
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2. Inoltre, Cecco non critica la magia demonica che lui stesso definisce come esplicitamente “nigromantica”, eccezion fatta per i brani attribuiti a Zoroastro, che vengono condannati - come se il nome di Zoroastro fosse condannato apertamente per mascherare la colpevolezza del vero pseudo-autore delle fonti utilizzate: Salomone. La futura tattica ficiniana del «non tam probo quam narro» non appare spesso nel commento di Cecco alla Sfera65. 3. Cecco d’Ascoli tenta di sovrapporre in modo coerente i luoghi cosmologici, le regole astrologiche e i procedimenti “nigromantici”. L’importanza degli incroci in questa “nigromanzia” - importanza attestata nel testo salomonico già citato del manoscritto di Firenze, senza fornire però alcuna spiegazione - rinvia così all’intersezione dei circoli costitutivi della sfera. Le relazioni tra le distanze dei circoli della sfera sono comparate al rapporto della potenza di due demoni. Alcuni nomi cosmologici, astronomici o astrologici ricevono, accanto al loro significato primo, un significato “nigromantico”. Si nota che nel Commento all’Alchabitius Cecco spiega che i nodi della luna possono ricevere una doppia spiegazione: così spiega agli studenti più giovani (iuvenes) il significato astrologico e ai più vecchi (maiores) il significato nigromantico, come se i due livelli di significato fossero due livelli di iniziazione66. Gli opuscoli di magia non approfondiscono questa logica di sovrapposizione. Cecco elabora una propria “nigromanzia” astro-logica, basandosi però sui testi salomonici.
Weill-Parot, Les «images astrologiques» cit., pp. 398-406 e 611-622; Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? cit.; N. Weill-Parot, Antonio da Montolmo et la magie hermétique, in Hermetism from Late Antiquity to Humanism, a cura di P. Lucentini - I. Parri - V. Perrone Compagni, Turnhout 2003, pp. 545-568; J. Véronèse - N. Weill-Parot, Antonio da Montolmo’s ‘De Occultis et manifestis’, an Edition with Presentation and Notes, in Invoking Angels. Mystical Technologies in the Middle Ages, a cura di C. Fanger, in corso di stampa. 65 Sull’uso di questa espressione in Ficino, cfr. N. Weill-Parot, Pénombre ficinienne: le renouveau de la théorie de la magie talismanique et ses ambiguïtés, in Marsile Ficin ou les mystères platoniciens, a cura di S. Toussaint, Paris 2002, pp. 71-90. Sull’origine di questa espressione, v. B.P. Copenhaver, Iamblichus, Synesius and the Chaldean Oracles in Marsilio Ficino’s De vita libri tres: Hermetic Magic or Neoplatonic Magic?, in Supplementum festivum. Studies in Honor of Paul Oskar Kristeller, a cura di J. Hankins - J. Monfasani - F. Purnell Jr, Binghampton (N.Y.) 1987, pp. 441-455: 449 nota 22. Si veda anche V. Perrone Compagni, Le immagini del medico Gerolamo Torrella, «Annali dell’Istituto di filosofia», 1 (1979), pp. 17-45: 42. 66 Cicchi Esculani Scriptum super librum de principiis astrologie cit., p. 16: «Iuxta quam partem debetis intelligere, vos iuvenes, quod caput et cauda sunt intersecationes circulorum equatoris et deferentis […]Vos autem maiores, debetis intelligere quod in ista intersecatione circulorum multe sunt operationes occulte que ignote sunt particulari nature, ut dicit Astafon in libro De mineralibus constellatis, ubi ad licteram sic dicit: “O quanta est virtus quam habet intersectio circulorum, que ignota est particulari nature [...]».
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4. Se Cecco d’Ascoli non è molto prudente quando parla di magia astrologico-demonica, si sforza però di rimanere nel modello cosmologico ortodosso67. Infatti, gli spiriti invocati furono, egli insiste, «espulsi fuori dell’ordine della grazia»: questi sono gli spiriti caduti, i demoni, che dunque non possono stare in cielo. Cecco lo dice chiaramente quando parla di questi «primi demoni» dei segni angolari, i quali «occupano le quattro regioni sotto il cielo», cioè «i quattro elementi», perché furono «espulsi dal cielo». Secondo la mia ipotesi, si possono confrontare tali demoni con quelli dei coluri e degli equinozi: e questa configurazione sublunare sembra essere proprio quella dei succubi, degli incubi, dei marmores e degli asmitus. Questo risultato, altamente probabile, scaturisce dal confronto delle considerazioni che ho sviluppato in queste pagine. In quanto ai demoni elementari, la loro localizzazione sotto il cielo è evidente secondo la loro stessa definizione. Riguardo a Floron, dal suo confronto con Asmitus, se ne può dedurre una localizzazione sotto il circolo artico. Ora visto che Floron, angelo caduto, è, secondo la mia ipotesi, uno dei manes actici, sia questi sia anche i manes antarctici - essendo tutti e due extra ordinem gratie, come mette in evidenza Cecco - sono “sotto” il cielo. La stessa cosa si deve postulare per i quattro spiriti dei punti cardinali: Oriens, Aymon, Paymon, Egym, e le loro legioni. Del resto, in maniera coerente con questa localizzazione sublunare, Cecco delimita chiaramente i poteri dei demoni quando parla delle dimensioni grandi o piccole dei circoli celesti. Queste vengono spiegate in due modi: nel primo caso, conformemente a ciò che dice Sacrobosco, Cecco spiega che questi sono i circoli che costituiscono le sfere celesti; nel secondo caso, come intende Apollonio nel De hyle, Cecco spiega che sono le «nature occulte che si trovano negli elementi del mondo». Così Apollonio scrive che la sfera è costituita da circoli grandi e piccoli, e «così le nature delle cose che sono fatte dagli elementi del mondo con i quali l’operazione angelica è prodotta». Cecco spiega così questa sentenza: «gli spiriti che sono fuori dall’ordine della grazia non possono fare niente di meraviglioso senza utilizzare le cose naturali». Dunque per fare le cose meravigliose gli spiriti ricorrono alle «nature e poteri occulti che si trovano nelle cose del mondo», e questo non vuol dire che la «materia corporea sia sottomessa» alla volontà degli spiriti e che questi potrebbero «trasmutare la materia da una forma all’altra»68. Cecco rimane esplicitamente nei limiti della concezione teologica e filosofica ortodossa della natura. Alberto Magno aveva
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Su questo punto, si veda Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? cit. Cicchi Esculani In Spheram cit., cap. 2, pp. 394-395.
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spiegato, nel suo Commento sulle Sentenze, che se i libri sulle immagini dicono che l’azione dei demoni è più efficace quando la luna si trova in un segno in particolare, è perché questi demoni sanno utilizzare gli influssi astrali per rendere le loro operazioni più potenti69. Inoltre, Cecco fa riferimento alle Intelligenze sopralunari in modo ortodosso. Citando la Metafisica di Avicenna, egli spiega che esiste un duplice ordine di Intelligenze: il primo include «la prima Intelligenza che è il motore dell’universo e il primo principio di ogni causa»; il secondo include il primo mobile, l’Intelligenza motrice della sfera delle stelle fisse, le Intelligenze delle sette sfere planetarie e l’Intelletto agente, che è «l’intelligenza del mondo terreno» che «influisce sulle nature, le anime e le intelligenze»70. Nel suo Commento Cecco sembra dimenticare solo una volta questa distinzione fra le Intelligenze celesti buone e le Intelligenze sublunari invocate nella nigromanzia: in un ambiguo passo egli dice che attraverso le arti magiche si può conoscere il futuro, ma che è meglio farlo «attraverso la scienza delle stelle», cioè «attraverso la rivelazione delle Intelligenze attraverso gli astri, ai quali tutte le cose sono note». Per questo, secondo il primo libro del De circulo visuali - attribuito a Tolomeo, «alle sostanze separate nel cielo niente rimane occulto e meraviglioso in ultima istanza, poiché partecipano delle creature». E, secondo la Metafisica di Aristotele, Cecco aggiunge che queste Intelligenze sono infallibili71. Ma questo è l’unico brano che pare discordante. Infatti, la localizzazione di tutti questi demoni sublunari nella sfera si riferisce a punti o circoli astronomico-cosmologici intesi come direzione geometrica, ma non come una localizzazione sopraceleste; ciò vuol dire, per esempio, che i cosiddetti demoni dei segni angolari non sono “nei” segni, ma “sotto” quei segni e hanno nostalgia dei loro primi troni, perduti quando furono espulsi dal cielo al momento della caduta degli angeli. Così, abbiamo ipotizzato che la gerarchia demonica dello zenith possa essere sotto lo zenith (e certamente non nello zenith). Tutti i demoni hanno dunque la loro residenza “sotto” il cielo. Ora ritorniamo a ciò che scrive Giovanni Villani riguardo alle accuse contro Cecco:
69 Alberti Magni Scripta super quattuor libros Sententiarum, in Alberti Magni Opera, a cura di P. Jammy, t. XV, Lyon 1651, p. 87; Weill-Parot, Dans le cielou sous le ciel? cit., pp. 756-757. 70 Cicchi Esculani In Spheram cit., p. 351. 71 Ibid., pp. 346-347: «Sed quamvis per istas artes magicas possit haberi aliqualis cognitio futurorum, tamen sub excellentiori modo per scientiam stellarum habetur futurorum cognitio veritatis, scilicet per revelationem intelligentiarum mediante celo quibus omnia
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Le cagione perché fu arso sì fu perché, essendo in Bologna, fece un trattato sopra la spera, mettendo che nelle spere di sopra erano generazioni di spiriti maligni, i quali si poteano costrignere per incantamenti sotto certe costellazioni a potere fare molte maravigliose cose […]72.
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Se ci riferiamo al Commento sulla Sfera nello stato in cui è pervenuto, e se si crede a ciò che scrive il Villani, allora l’inquisitore di Firenze avrebbe commesso un grave errore di interpretazione: infatti, questi spiriti maligni non sono “nelle” sfere celesti, ma “sotto” le sfere73. Ora, da un punto di vista teologico, questo è un nodo fondamentale. Tommaso d’Aquino ricorda che, dopo la loro caduta, gli angeli malvagi furono espulsi fuori dalla grazia nell’inferno (a causa della loro colpa) o nell’aer caliginosum (per tentare gli uomini inclini al peccato)74. Invece, le sfere celesti sono mosse dalle Intelligenze motrici - probabilmente gli angeli dell’ordine delle Virtutes75.
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Perché fu arso Cecco d’Ascoli? Quali che siano le altre ragioni evocate76, cioè l’oroscopo fatalista di Cristo (su cui insistono i supposti atti del processo e che è menzionato dal Villani), una possibile posizione sulla povertà di Cristo77 ecc., mi pare che il carattere “nigromantico” evidente del Commento alla Sfera sia stato un elemento fondamentale nel processo. Infatti, la questione non è: perché tali brani hanno condotto Cecco al rogo? Ma piuttosto: com’è possibile che un docente universitario, all’inizio del Trecento,
sunt nota, ut dicit Ptolomeus primo de circuli visuali, Substantiis separatis in celo nihil est occultum et ultimum mirabilium quomodo participent creaturis. Nec eas, scilicet intelligentias, contingit fallere nec falli, secundo Metaphysice declarante philosopho». 72 Giovanni Villani, Nuova Cronaca cit., II, XI 41, pp. 570-571. 73 Su questo punto fondamentale, si veda Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? cit. 74 Thomae Aquinatis Summa theologiae, Ia, q. 64, art. 4. 75 T. Litt, Les corps célestes dans l’univers de saint Thomas d’Aquin, Louvain-Paris 1963; T. Suarez-Nani, Les anges et la philosophie, Paris 2002. 76 G. Boffito, Perché fu condannato al fuoco l’astrologo Cecco d’Ascoli?, «Studi e documenti di Storia e diritto», 20 (1899), pp. 357-382; L. Thorndike, Relations of the Inquisition to Peter of Abano and Cecco d’Ascoli, «Speculum», 1 (1926), pp. 338-343; L. Thorndike, More Light on Cecco d’Ascoli, «Romanic review», 37 (1946), pp. 296-306; G.A. Gentili, Un esemplare bolognese della sentenza capitale contro Cecco d’Ascoli «Maestro d’Errori», «Rivista di Storia delle Scienze Mediche e Naturali», 44 (1953), pp. 172-187. 77 M. Giansante, Cecco d’Ascoli. Il destino dell’astrologo, «Giornale di astronomia», 23/II (1997), pp. 9-16, e in questo volume M. Giansante, La condanna di Cecco d’Ascoli: fra astrologia e pauperismo, pp. 183-199.
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abbia avuto l’audacia di proporre, in una lezione pubblica, un sistema astrologico-”nigromantico” senza mostrare apertamente una distanza critica chiara? Senza dubbio tre quarti di secolo più tardi tali atteggiamenti sono attestati: Antonio da Montolmo, Giorgio Anselmi da Parma e poi Marsilio Ficino sono i testimoni di una «liberazione della parola magica» che, a mio parere, è una caratteristica dell’Italia del Quattrocento. In questo periodo, infatti, si assiste all’avvento dell’”autore mago” capace di giocare con le norme teologiche medievali78. Ma all’inizio del Trecento questo atteggiamento significava esporsi a un rischio considerevole. Quella era l’epoca in cui Giovanni XXII identificava la magia “nigromantica” con l’eresia, inducendo gli inquisitori a cacciare una nuova selvaggina. Il papa aveva convocato nel 1320 teologi e canonisti per deliberare sul carattere eretico del battesimo delle immagini e altre pratiche simili79; stava probabilmente già promulgando la bolla Super illius specula (1326-1327), che identificava la “nigromanzia” con l’eresia80. Il suo pontificato è segnato da numerosi casi di accuse di magia81. Perché fu arso Cecco d’Ascoli? Forse per aver parlato come sappiamo un secolo prima di quella «rivoluzione della parola magica» avvenuta tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento; anzi, per aver parlato così in un’epoca in cui veniva condannata con nuova radicalità inquisitoriale la magia “destinativa”.
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Ho tentato di definire questa «liberazione della parola magica» e questa «nascita dell’autore-mago» in Weill-Parot, Les «images astrologiques» cit. Nella direzione della mia ipotesi: Boudet, Entre science et nigromance cit., pp. 393-408; J. Véronèse, La notion d’“auteur magicien” à la fin du Moyen Âge: le cas de l’ermite Pelagius de Majorque († v. 1480), «Médiévales», 51 (2006), pp. 119-138. 79 J.-M. Vidal, Bullaire de l’inquisition française au XIVe siècle et jusqu’à la fin du Grand Schisme, Paris 1913. Su questo argomento si veda A. Boureau, Satan hérétique. Naissance de la démonologie dans l’Occident médiéval (1280-1330), Paris 2004; A. Boureau, Le pape et les sorciers. Une consultation de Jean XXII sur la magie en 1320 (Manuscrit B.A.V. Borghese 348), Roma 2004. Mi sia permesso far riferimento anche al mio L’Eglise, les intellectuels et la magie dans la première moitié du XIVe siècle, Mémoire de maîtrise (dir. A. Vauchez), Université Paris X, 1990. 80 Sui problemi di autenticità di questa bolla, v. Boudet, Entre science et nigromance cit., pp. 454-455. 81 Si veda, per esempio, Thorndike, A History of Magic cit., III, New York 1934, cap. 2, pp. 18-38. Si veda anche supra, nota 79.
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Non facile, forse impossibile, un profilo organico del pensiero e delle opere di Cecco d’Ascoli, destinato a scontrarsi con le difficoltà di testi non ancora disponibili in edizione critica e le cui fonti sono spesso in cerca di autore. Chi affronti la lettura sistematica delle sue opere latine e volgari ne rimane infatti turbato per l’affollarsi di temi e di idee: nel commento alla Sfera di Giovanni di Sacrobosco1 confonde, apparentemente, astrologia e magia, e nella Acerba2, sullo sfondo di un universo rigidamente determinato dagli influssi astrali, canta la lode alla libertà dell’uomo e rifiuta in modo categorico l’azione degli astri sulla volontà umana. Si dimostra convinto dell’esistenza di spiriti benigni e maligni situati nei punti cardinali del globo, ma in apertura del suo commento al De principiis astrologiae di Alcabizio3 polemizza con alcuni saggi arabi a proposito di teorie inconciliabili con la fede. Come una volta ha lamentato Claudio Ciociola4, la quasi totalità della critica ha fino ad ora evitato di leggere l’opera di Cecco nel suo complesso, pri-
1 Cicchi Esculani Viri clarissimi in Spheram mundi enarratio, in The Sphere of Sacrobosco and its Commentators, a cura di L. Thorndike, Chicago 1949, pp. 343-411. 2 Un’edizione critica filologicamente corretta dell’Acerba è purtroppo da tempo uno dei desiderata degli studiosi di Cecco. In mancanza di testi critici di riferimento - l’edizione L’Acerba. Secondo la lezione del Codice Eugubino dell’anno 1376, a cura di B. Censori - E. Vittori, Ascoli Piceno 1971, è ormai datata - ci affidiamo al recente L’Acerba, a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002, che pur tra i tanti difetti ha il pregio di fornire negli Addenda l’edizione (seppur discutibile) del commento latino a cura di Marco Albertazzi e Massimo Sannelli. 3 G. Boffito, Il commento di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, Firenze 1905. Poiché non ho potuto disporre tempestivamente di tale testo, citerò l’edizione del commento apparso a puntate, sempre a cura di G. Boffito, sotto il titolo Il commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, «La Bibliofilia», 5 (1903-1904), pp. 333-350; 6 (1904-1905), pp. 1-7, 53-67, 283-291. 4 C. Ciociola, L’autoesegesi di Cecco d’Ascoli, in L’Autocommento. Atti del XVIII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 1990), a cura di G. Peron, Padova 1994, pp. 31-42; C. Ciociola, Nuove accessioni acerbiane: cartoni per la storia della tradizione, «Atti della Ac-
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vilegiando piuttosto l’uno o l’altro dei suoi lavori, spesso soltanto la celebre Acerba, che invece agli scritti latini fa spesso riferimento. Con il risultato di contrapporre scienza e magia, filosofia e racconto popolare, elementi che per Cecco facevano parte di una precisa concezione del mondo, che è quanto intendo porre come tema di discussione5. I. Sono li cieli organi divini
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Nel luglio del 1378, pochi anni dopo la scomparsa del Petrarca, Coluccio Salutati scrive a Jacopo Allegretti6: «Lascia al genere umano il libero arbitrio. Se cercherai di toglierlo, sopprimerai insieme l’umano e il divino». Questi versi si leggono ancora nel primo capitolo del III libro del suo De fato, fortuna et casu7, in cui Coluccio discute appunto dell’astrologia divinatrice e degli astrologi, fra gli altri anche Cecco d’Ascoli, cui dedica un intero capitolo. Cecco, infatti, non era solo colpevole di aver accusato ingiustamente Dante, ma soprattutto si era dimostrato incapace di comprendere la dottrina dantesca riguardo la fortuna ed il fato. Coluccio Salutati cita8, traducendolo, un passo cruciale dell’Acerba, in cui Cecco definisce fortuna una disposizione dei cieli, intesi come organi della potenza divina:
cademia Nazionale dei Lincei - Rendiconti», Classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. VIII, 33 (1978), pp. 491-508; C. Ciociola, Rassegna stabiliana (Postille agli Atti del convegno del 1969), «Lettere italiane», 30 (1978), pp. 97-123. 5 Studi specifici dedicati alla filosofia di Cecco d’Ascoli oppure analisi, anche parziali, delle sue fonti sono piuttosto rari. Oltre all’insuperata monografia di Lynn Thorndyke, History of Magic and Experimental Science, III, Columbia University 1957, sono da menzionare F. Allevi, Cecco d’Ascoli e la magia, in Atti del I Convegno di studi su Cecco d’Ascoli (Ascoli Piceno, Palazzo dei Congressi, 23-24 novembre 1969), a cura di B. Censori, Firenze 1976, pp. 160-199; A. Cettoli, Alcune caratteristiche del linguaggio dell’Acerba di Cecco d’Ascoli, ibid., pp. 201-222; G. Frasca, Cecco d’Ascoli avversario di Dante, in Dante e la scienza. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Ravenna, 28-30 maggio 1993), a cura di P. Boyde - V. Russo, Ravenna 1995, pp. 242-350; G. Massimo, Cecco d’Ascoli: il destino dell’astrologo, «Giornale di astronomia», 23 (1997), pp. 9-16; G. Federici Vescovini, Introduction à Cecco d’Ascoli ‘De excentricis et epicyclis’, in Pietro d’Abano ‘Lucidator dubitabilium astronomiae’ e altre opere, Padova 1992, pp. 371-382. 6 Cfr. E. Garin, Lo Zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Bari 1976, p. 16. 7 Coluccio Salutati, De fato, fortuna et casu III 1, a cura di C. Bianca, Firenze 1985, p. 116, 327-331. 8 Ibid., pp. 195-206, in particolare p. 197, 62-67: «Sunt enim celi organa divina / et per potentiam eterne nature, / que in eis resplendet, gloria sunt pleni. / Et eis in forma desiderii amore sic affectis / moventibus, mundus per hec exclesa / et immaculata lumina gubernatur.
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Sono li cieli organi divini Per la potentia di natura eterna, ch’in lor splendendo son di gloria plini. In forma di disio innamorati, movendo, così il mondo si governa per questi eccelsi lumi immacullati. […] Fortuna non è altro ch’à disposto Cielo, che dispone cosa animata, qual disponendo, si trova l’opposto. Non viene necessitato il ben felice. Essendo in libertà l’anima creata Fortuna in lei non può se contradice. (Acerba I, I 12)
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La traduzione latina dei versi di Cecco è esatta e l’accusa di Coluccio fondata. Mentre per Dante la fortuna è soprattutto uno strumento nelle mani di Dio, e quindi segno della Provvidenza, idea che risale fino a Boezio9, per Cecco essa è una vis caeli, ovvero la regola di funzionamento del mondo. Il Salutati appare scandalizzato proprio dalla metafora usata da Cecco, ovvero i cieli come organi della potenza divina, perché segno di una visione animistica del mondo. In questo egli, forse inconsapevolmente, si mostrava d’accordo con il vescovo Tempier, che nel 1277 condannava una tesi analoga (nella edizione di Roland Hissette la n. 75)10 che recita:
Quod anima celi est intelligentia et orbes celestes non sunt instrumenta intelligentiarum, sed organa, sicut auris et oculus sunt organa virtutis sensitive.
L’accostamento della tesi esposta da Cecco nell’Acerba alla proposizione condannata da Tempier potrebbe apparire arbitrario. Cecco non fa riferimento alla virtù visiva dell’occhio, ma parla appunto in modo generico di organi della virtù divina. Per nostra fortuna soccorre nell’interpretazione lo stesso Cecco11, il quale nel commento latino che accompagna l’opera in volgare così chiosa le stanze citate:
[…] Nec ingerit necessitatem quodlibet celum movendo / sed bene disponit creaturam humanam / per qualitatem, quam anima sequens / arbitrium, derelinquit et facit se vilem, / servam et latronem ac, a virtutibus peregrina, exuit habitum nobilem et relinquit. […] In hoc peccasti, florentine poeta, / ponendo quod bona fortune / necessitata sint ipsorum meta». 9 Boethii de Dacia Philosophiae consolatio a cura di L. Bieler, Turnhout 1957. 10 R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Paris 1977 (Philosophes medievaux, 22), p. 114. 11 Francesco Stabili, L’Acerba. Commento latino II, 1 b., a cura di M. Albertazzi - M.
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Sono li cieli etc. Hic dicit quod isti celi sunt organa divine virtutis que resplendet in eis, qua influentia splendoris gubernat entia universi, unde subaudi quia, sicut oculi informantur visione virtute visiva et exerceant eorum actum visionis, ita celi ex influentia divine essentiae (virtutis Cas) exercent actum conservationis sperarum in mundo.
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L’affinità tra i due luoghi è notevole: Tempier intendeva colpire soprattutto la teoria dell’animazione dei cieli, secondo la quale ogni sfera celeste sarebbe animata da un principio vitale dipendente da un’intelligenza che ne garantisce la regolarità del movimento. La fonte della tesi condannata non è stata ancora individuata, ma è probabile che qui si volesse colpire la visione di un universo animato e per questo autosufficiente; posizione condivisa, come vedremo meglio in seguito, dallo stesso Cecco, il quale nel suo commento prosegue12:
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Et subdit in eadem mossa: accipiendo celos cum omnibus intelligentiis; et dicit quod isti celi contemplatione divine essentie exercent actum motus in forma dilectionis et desiderii. Unde ex motu etiam insequuntur finem ad quem sunt ordinati.
Ovvero: i cieli, con le loro intelligenze, contemplando l’essenza divina, si muovono spinti dall’amore e dal desiderio. Anche questa idea, ovvero che i cieli si muovano spinti da una «virtus appetitiva», fu condannata da Tempier13 (prop. 73). Certo la Parigi universitaria del 1277 non è certo la Bologna di Cecco o la Firenze di Coluccio Salutati. Se, infatti, l’associazione di intelligenze (di origine avicenniana) alle stelle e alle sfere celesti è mantenuta, la loro relazione viene però chiarita e precisata in modo da escludere una interpretazio-
Sannelli, Trento 2002. La paternità stabiliana del commento è stata dimostrata da Claudio Ciociola, secondo il quale «le rubriche ai singoli capitoli formavano in veste latina parte integrante del poema. Secondo l’uso anche nel caso dell’Acerba in volgare risulterebbe il testo poetico, in latino quanto al testo inerisce: titolo, rubriche, chiose»: Ciociola, L’autoesegesi cit., p. 36. Il commento latino si interrompe bruscamente alla fine del primo capitolo del libro II. Della questione si occupò già H. Pflaum, L’Acerba, di Cecco d’Ascoli. Saggio d’interpretazione, «Archivum Romanicum», 23 (1939), pp. 17-241: al Commento italiano è dedicato il § 7, pp. 196-200. Alla questione della paternità del commento ha dedicato uno studio anche B. Censori, Il commento latino dell’Acerba, in Atti del I convegno di studi su Cecco d’Ascoli cit., pp. 106-115. Del Commento esiste anche una versione italiana, che compare in tutte le edizioni cinquecentesche del poema; sempre ad Hiram Pflaum spetta il riconoscimento della dipendenza del testo italiano da quello latino. Ciociola, Rassegna stabiliana cit., pp. 116-122, ha identificato infine «un frammento di commento in volgare, imparentato con quello latino, ma indipendente dalla versione tradita dalle cinquecentine». 12 Francesco Stabili, L’Acerba. Commento latino II, 1 b. cit. 13 Hissette, Enquête sur les 219 articles cit., pp. 110-112.
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ne animista e soprattutto un carattere occulto del motore del mondo. Vincerà, come è noto, l’opzione tomista, secondo la quale l’universo si muove secondo un movimento circolare, la cui ragion d’essere è Dio stesso, che è sia causa efficiente che causa finale del cosmo e del suo movimento. L’universo è mosso secondo un duplice movimento: da una parte il movimento delle sfere superiori si trasmette gradualmente ai livelli inferiori ed esercita la sua influenza fino alla regione sublunare, dove provoca movimenti di generazione e corruzione; dall’altra l’universo obbedisce alla legge di attrazione esercitata su tutti gli esseri dal principio supremo in quanto fine di ogni aspirazione al bene e alla felicità. A questa legge si riferisce Cecco nel passo ora commentato e lo stesso Dante, che alla fine del Paradiso (33, vv. 143-145) canta: «Ma già volgeva il mio disio e’l velle / sì come rota ch’igualmente è mossa / l’amor che move il sole e l’altra stelle». Niente di scandaloso o di nuovo dunque. II. El principio che move queste rote
La concezione tomista (che sembra essere il riferimento culturale di Cecco) provocò, secondo Stefano Caroti14, una rottura con la tradizione animista di derivazione avicenniana. Infatti, la forza motrice dei cieli, ovvero l’angelo, ha un rapporto di esteriorità rispetto al suo mobile e quindi le sfere sono strumenti e non organi della potenza divina. Un mondo celeste così concepito, ha osservato ancora Tiziana Suarez Nani15, non si prestava ad una concezione dell’universo o a pratiche di tipo magico: ciascuna sfera non è altro che uno strumento diretto dall’angelo in conformità alla volontà e alla disposizione divina delle cose. Da qui si spiega sia il senso della proposizione condannata da Tempier16 («orbes caelestes non sunt instrumenta intelligentiarum, sed organa»), sia anche la critica di Coluccio Salutati a Cecco. Questi facendo delle sfere celesti organi della virtù divina tramuta la fortuna in un fatto naturale, quindi ineluttabile, e non in dea ministra di Dio.
14 15
S. Caroti, L’astrologia in Italia, Roma 1983, p. 178. T. Suarez Nani, Hiérarchies, miracles et fonction cosmologique des anges au XIIIe siècle, in Les anges et la magie au Moyen Âge. Actes de la table ronde (Nanterre, 8-9 décembre 2000), a cura di H. Bresc - J.-P. Boudet - B. Grévin, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 114/2 (2002), pp. 717-751: 720. 16 Cfr. supra, nota 13.
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Coluccio dunque irato conclude17: «Cumque celos organa velis esse divina, cur eis tantum tribuis quod inferiora dicas a rotarum suarum virtutibus dependere? Pendene causata ab instrumentis an potius a causa, que et instrumenta produxerit et effectus?».
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Cecco in realtà, nonostante l’accusa di protervia contro la fede lanciata da Coluccio, si era prudentemente allineato alla tradizione. Un confronto con il testo della Summa theologiae di Tommaso lascia emergere non pochi punti in comune tra Cecco e l’Aquinate, non ultimo l’impossibilità, soprattutto filosofica, che enti corporei, ovvero non animati (come invece la metafora dell’organo lascerebbe supporre), agiscano su enti spirituali, ovvero gli intelletti umani che per questo sono anche liberi. E difatti Cecco in più luoghi, a dispetto del giudizio del Salutati, sembra negare che i corpi celesti siano animati. Per esempio nell’Acerba libro II, I 36, per difendere la libertà dell’uomo, afferma che corpi inanimati non possono influenzare qualcosa di spirituale come l’intelletto umano. Oppure più chiaramente nel De principiis astrologie Cecco d’Ascoli scrive18: «Dico quod quamvis corpora celestia sint inanimata, tamen a suis substantiis et mediantibus intelligentibus moventibus habent proprietates in diversis partibus celi in quibus dicuntur gaudere et tristari effective in nobis, scilicet disponendo nos ad bonum et malum». Un lettore attento tuttavia non può non rimanere perplesso di fronte ad alcune affermazioni di Cecco. Mi riferisco in particolare all’Acerba libro I, II 6-12: El principio che muove queste rote Sono intelligentie separate.
Fin qui niente di nuovo. Queste intelligenze, tuttavia, Movendo stelle e lor diverse spere Diverse gienti con contrari acti Forma la lor potentia qual non père.
Ovvero, secondo il commento latino19, queste intelligenze muovendo i cieli, le diverse sfere e le stelle muovono, ovvero portano dalla potenza all’atto, genti diverse e le dispongono ad azioni e operazioni. E aggiunge: 17 18 19
Coluccio Salutati, De fato cit., p. 205, 323; p. 206, 337. Boffito, Il commento cit., p. 3. Francesco Stabili, L’Acerba. Commento latino I, a.-b. cit.
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Ma l’alma bella del Fattor simile Per suo vallor a queste po’ far ombra, se non se inclina el suo voler gentile. Quando l’influentia vien da quelle Se sua virtù per queste non si sgombra, allora è donna sopra tute stelle. (Acerba I, II 24)
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Il passo è chiaro e non ha bisogno di molto commento. Forse solo una precisazione. È vero che non c’è nulla di sconveniente nel fatto che gli angeli alias intelligenze, muovendo i cieli, influiscano indirettamente sui moti di generazione e corruzione propri del mondo sublunare: è dottrina aristotelica. Meno esente da rischi è invece ammettere che l’influenza delle intelligenze investa anche, sempre indirettamente, la sfera morale. Tommaso lo aveva ammesso, seppur con un certo pudore, nella Summa theologiae20, dove concede la possibilità che i cieli, influendo sulla complessione dei corpi, abbiano una certa influenza anche sulle anime umane e sulla volontà. Nel luogo appena citato Cecco si riferisce proprio a questo secondo tipo di influenza, come dimostra il riferimento ai popoli e ai caratteri degli individui, che egli si perita anche di esemplificare (il beato, il fannullone, lo sciocco etc.). Lascia però perplessi un secondo elemento, ovvero l’affermazione che l’uomo nel libero esercizio della sua volontà possa opporsi non solo all’influenza dei cieli (che è dottrina), ma anche all’influenza delle intelligenze ovvero, secondo l’interpretazione ortodossa, degli angeli (queste e quelle infatti nel passo citato possono riferirsi sia alle intelligenze motrici che alle sfere mosse). Non è precisazione di poco conto, come vedremo. Il termine influentia è poco consono a descrivere l’azione degli angeli, seppur moventi. E difatti deriva, come è noto, non dalla fenomenologia angelica cristiana, quanto dalla filosofia di origine araba, ed indica il fluire ordinato e gerarchico delle forme dal primo principio al mondo del divenire attraverso una serie di termini medi (le intelligenze appunto). Tale fluire delle forme, o con altra terminologia inducere, viene ad esempio utilizzato da Alberto il Grande nelle sue opere scientifiche per dimostrare l’affidabilità dell’operare degli astrologi, i quali appunto osservando i loca stellarum pronosticano alcuni effetti indotti dalle stelle nelle cose inferiori21. È
20 21
Thomae Aquinatis Summa theologiae I qu. 115 a 4, Alba-Roma 1962, p. 536. Cfr. Alberti Magni Metaphysica XI 2 26, a cura di B. Geyer, Münster 1964 (Opera omnia 16, 2), p. 516, 81-88: «intelligentia agens, quae movet orbem et stellam vel stellas, luminari invehit formam, et per lumen luminaris traducit eam in materiam, quam movet, et
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appena il caso di ricordare che per Alberto le intelligenze dei cieli, che di sfera in sfera trasmettono le forme, non sono assimilabili agli angeli della tradizione cristiana. E lo stesso Tommaso, che in materia aveva idee diverse, accortamente nella Summa contra gentiles, alla questione «Quod distinctio rerum non est per angelum inducentem in materiam diversas formas» (in parole povere l’angelo non può influire o inducere forme direttamente nella materia), afferma chiaramente22: «Neque igitur totalis acquisitio formarum in materia potest fieri per motum ab aliqua susbtantia separata, cuiusmodi est Angelus; sed oportet, quod hoc fiat vel mediante agente corporeo [ovvero i cieli], vel creante qui agit sine motu [ovvero Dio]». Il senso del testo di Tommaso è chiaro: le intelligenze (o angeli), anzi proprio in quanto angeli, non possono influire direttamente nulla, come invece sembra pensare Cecco. E non a caso Coluccio Salutati, nel III libro del suo De fato et fortuna, critica proprio il concetto, tanto usato (e abusato) dagli astrologi, di influentia23:
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Sed iam videre videor huius scientie studiosos paratos solvere, quod dicant celos non agere complexione, sed influentie proprietate. Vellem autem ab eis doceri quid velint intelligi per influentiam. Nam cum influere proprie sit in aliquid fluere, quod est alicuius rei motus in aliam transeuntis, necesse fit influendo eius quod influat vel substantiam permisceri vel qualitatem vel saltem eius quod influere dixerimus, quamvis improprie, voluntatem. Celi vero substantiam fluere ridiculum est putare vel eam qua penitus careat qualitatem; nec voluntas celis est ascribenda, ne fateri oporteat quod celi sint animati et intelligentiis - quod intelligi non potest - tanquam formis, non solummodo velut motoribus, sociati.
Il passo del Salutati è significativo almeno per due motivi: 1. Il concetto di influenza non elimina la possibilità che ad essere soggetto e oggetto di influenza non siano soltanto corpi o qualità, ma anche in un certo senso la volontà. 2. Non può influire la sostanza di corpi inanimati, né del resto si può attribuire ai cieli una qualche volontà, per non cadere nell’errore di supporre dei cieli animati e uniti alle intelligenze non come motori, ma come forma, ovvero la tesi che abbiamo visto essere stata condannata da Tempier. In altre parole il Salutati aveva ben compreso che il concetto di influenza implica quello di animazione dei cieli, inteso non, come voleva Tommaso, nel senso
hoc sic tangens materiam educit eam de potentia ad actum. Et huius signum est, quod sapientes astronomi per haec principia quae sunt loca stellarum, pronosticantur de effectibus, qui luminibus stellarum inducuntur rebus inferioribus». 22 Thomae Aquinatis Summa contra gentiles II 43. 23 Coluccio Salutati, De fato cit., p. 106, 36-47.
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debole di cielo mosso per motore estrinseco, quale appunto gli angeli, ma nel senso forte di un’anima o intelligenza forma del corpo. III. Nove sono queste che moven li cerchi
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Ora, pur nel suo formale rispetto dell’ortodossia, Cecco sembra mantenere una, credo consapevole, ambiguità nei confronti delle intelligenze celesti, che egli vede, certo come angeli, ma anche come principi capaci autonomamente di influire sul mondo sublunare. Offre conferma di tale ipotesi un’esplicita adesione dello stesso Cecco ad un sistema filosofico che non prevede le intelligenze angeliche di marca cristiana: l’emanazionismo avicenniano. Si tratta di un elemento dell’opera di Cecco d’Ascoli ancora poco considerato dalla critica, se si esclude un significativo accenno di Nicolas WeillParot nel suo recente contributo Les anges dans la magie astrale24. Veniamo al testo, anzi ai testi, ed cominciamo in particolare da un noto passo dell’Acerba I, II 30-36, in cui Cecco riprende il concetto di intelligenze motrici dei cieli, descritte poco prima: Nove sono queste che moven li cerchi, e un’altra sotto a queste pone altrui, qual spira l’alma de li atti soverchi. Intelligentia del terrestro mondo Con la benignità conforma nui, prendendo l’alma de l’esser secondo. E questa è l’alma, chè una in tuti, ch’è soto il cerchio della prima stella: e d’altra vita sèmo privi e struti. E questo pone il falso Averoise Con sua sophistica e pénta novella: ma or à più vertù che quando visse.
Non è un passo facile e questa volta il commento latino non aiuta, anzi in alcuni casi complica le cose (a causa anche di un testo ancora poco affidabile). La prima e ovvia interpretazione che se ne può trarre è che qui Cecco condanni il cosiddetto monopsichismo di Averroè, ovvero la teoria di un intelletto possibile unico per tutti gli uomini, teoria che condannava l’anima dell’uomo a perire con il proprio corpo.
N. Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? Les anges dans la magie astrale, XIIe-XIVe siècle, in Les anges et la magie au Moyen Âge cit., pp. 753-771: 754. 24
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Tale, ad esempio, l’interpretazione offerta da Gabriele Frasca nel suo Cecco d’Ascoli avversario di Dante25. Lo studioso vede nella condanna della decima intelligenza una polemica contro Dante, che in Inferno VII definiva Fortuna una entità che con le altre prime creature (ovvero le altre nove intelligenze) fa ruotare la sua sfera. Secondo Frasca, dunque, la polemica di Cecco mirava a colpire in Dante una tendenza latamente averroista. L’ipotesi è ingegnosa, perché presuppone che Cecco non conoscesse gli ulteriori sviluppi del concetto di Fortuna nel Purgatorio e nel Paradiso, dove, come a ragione ha visto ancora Frasca, scompare l’idea della Fortuna come decima intelligenza. Interpretare tuttavia la decima intelligenza come l’intelletto possibile unico per tutti non è così scontato come il testo lascerebbe credere. In questo caso basta dare uno sguardo al commento in latino per rendersene conto. Qui, commentando, Cecco afferma26: «Aliqui ponunt sub istis [ovvero i nove cieli] unam aliam intelligentiam, que dicitur intelligentia agens vel terrestris mundi et ista est intelligentia, per quam nos intelligimus». In queste righe Cecco si riferisce chiaramente ad una «intelligentia agens» e non ad un «intellectus possibilis». Ovvero, almeno qui Cecco non sta descrivendo la dottrina di Averroè. Il sospetto diviene certezza quando leggiamo che questa decima intelligenza è detta «intelligentia agens» oppure intelligenza del mondo terrestre, come nel testo in volgare. Ora, com’è noto, questa non è dottrina di Averroè, ma di Avicenna, che nel IX libro della sua Metaphysica27 scrive: Unde numerus intelligentiarum separatarum post primum principium erit secundum numerum motum […]. Et tunc earum numerus erit decum post primum. Primum autem earum est intelligentia quae non movetur, cuius est movere sphaeram corporis ultimi. Deinde id quod sequitur est quod movet spheram fixarum. Deinde sequitur quod movet spheram Saturni. Similiter est quousque pervenitur ad intelligentiam, a qua fluit super nostras animas, et haec est intelligentia mundi terreni.
25 Frasca, Cecco d’Ascoli avversario di Dante cit., pp. 246-247. Condivide tale interpretazione anche Cettoli, Alcune caratteristiche del linguaggio dell’Acerba cit., p. 204: «Al v. 111 (cap. II) ha inizio l’importante confutazione della dottrina averroistica dell’intelletto agente come potenza che imprime nelle anime la qualità superiore del pensiero in atto; con argomentazioni analoghe a quelle sostenute dalla dottrina albertino-tomistica, Cecco d’Ascoli nega l’accettabilità di tale “intelligenza del terrestre mondo”». 26 Francesco Stabili, L’Acerba. Commento latino I, 2 d cit. 27 Avicenna, Liber de philosophia prima sive scientia divina IX 3, a cura di R. Van Riet, Leiden 1977-1980 (Avicenna Latinus), p. 475, 10-20.
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Averroè conosce questa teoria, che critica nel commento n. 18 del XII libro della Metafisica28. La decima intelligenza, o dator formarum (secondo una denominazione in voga presso i latini), influiva nel mondo sublunare le forme che, secondo Averroè, erano già presenti in qualche modo nella materia. È legittimo allora ipotizzare un errore così madornale e anche ingenuo da parte di Cecco, ovvero confondere il monopsichismo di Averroè con la dottrina del dator formarum di Avicenna? Se il passo citato fosse l’unico luogo in cui compare tale fonte il sospetto sarebbe lecito. E tuttavia in due altre occorrenze, rintracciabili nelle opere latine, Cecco stesso non ci permette di dubitare, ovvero nel commento alla Sfera di Sacrobosco e nel trattato De eccentricis et epicyclis. Nel primo testo Cecco affronta il problema del numero dei principi moventi e pone due soluzioni da lui ritenute ugualmente probabili. Una è quella, notoria, di Aristotele, secondo cui ogni sfera ha più movimenti e dunque più motori. Poi aggiunge29: «Alia est opinio Avicenne quam teneo et credo veram. Ponit in 9 sue metaphysice, si bene recolo, duplicem ordinem intelligentiarum separatarum. Quedam enim est intelligentia prima que est motor universitatis et primum principium totius causae. Secundariae autem intelligentie sunt in decem ordinibus, ut ipse ponit […]. De decima sic dicit: Decima est intelligentia que influit (a qua fluit super P) naturas, animas, e intelligentias et est intelligentia mundi terreni, et vocamus ipsam intelligentiam intelligentiam agentem. Et ex hoc, conclude, multi accipiunt, quod intellectus agens sit intelligentia decimi ordinis intelligentiarum separatarum». La stessa citazione si legge, come ho detto, nel De eccentricis et epcyclis, dove contro Averroè e Alpetragio, che negano l’esistenza di eccentrici ed epicicli, invoca, accanto alla consueta autorità di Aristotele, anche quella di Ipparco, ovvero lo pseudo Ipparco, e di Avicenna30:
Et contra ipsum est Yparcus in libro de vinculis spiritus, qui ponit duplicem ordinem intelligentiarum; que verba sibi appropriat Avicenna. Dicit enim quod quedam est intelligentia prima, que est motio universitatis et primum principium totius cause; secundarie autem intelligentie sunt in decem ordinibus, ut ipse ponit. Decima est intelligentia a qua fluit super nostras animas intelligibilis et est intelligentia mundi terreni et ipsam vocamus intelligentiam agentem.
28 Averroes, In libros Metaphysicorum Aristotelis commentarium XII comm. 18, Venezia 1562 (Aristotelis Opera cum Averrois commentariis), f. 303vL. 29 Cicchi Esculani Viri clarissimi in Spheram mundi enarratio cit., p. 350. 30 Cicchi Esculani De eccentricis et epicyclis, a cura di G. Boffito, «La Bibliofilia», 7 (1905-1906), pp. 150-167: 163.
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Nel primo luogo citato la tesi avicenniania di un ordine del mondo strutturato secondo due livelli è accettata da Cecco senza riserve («quam teneo et credo veram»). Nel secondo è posta addirittura sotto l’egida di un altro personaggio, ovvero Ipparco, da cui Avicenna avrebbe copiato. Tale Ipparco, identificato da Weill-Parot31 nella rievocazione del celebre astronomo greco, sfugge ancora a qualsiasi tentativo di identificazione, ma è spesso chiamato da Cecco, soprattutto nel commento alla Sfera, come testimone di dottrine e pratiche di negromanzia, non sempre esposte, come voleva Thorndike32, a puro titolo informativo. L’accostamento è dunque ardito, ma allettante, e, come vedremo tra poco, può essere funzionale alla concezione che Cecco ha delle influenze astrali, a metà strada tra religione, più o meno ortodossa, e filosofia. Torniamo ora al luogo dell’Acerba sopra citato. È evidente che alla luce di quanto fino ad ora esposto, non è la dottrina della decima intelligenza ad essere criticata, dottrina che Cecco accetta come vera, quanto l’interpretazione che di essa si può dare. Tento dunque un possibile commento, reso tuttavia impervio dal testo in volgare e latino non del tutto stabile: Nove sono le intelligenze che muovono le sfere ed alcuni (ovvero Ipparco e Avicenna) ne aggiungono un’altra che influisce l’anima intellettiva. L’intelligenza del mondo terrestre (che è denominazione di Avicenna) conforma l’uomo agendo sull’anima dell’intelletto possibile, o essere secondo, che poi agisce sull’anima sensitiva. L’anima dell’essere secondo è unica per tutti gli uomini ed è sotto la sfera della luna. In questo modo l’uomo si vede privato dell’immortalità, legata all’esistenza di un’anima razionale individuale; dottrina, com’è noto, averroista. Mi rendo conto della difficoltà e dell’ambiguità del testo, che ho dovuto semplificare, ma mi sembra chiaro che nella seconda delle due mosse citate Cecco critichi l’interpretazione, data da Averroè, della decima intelligenza come anima comune a tutto il genere umano. Se la mia ipotesi coglie nel segno, e si potrà dimostrare però solo sulla base di un testo filologicamente corretto, cadrebbe l’idea che in queste righe Cecco voglia colpire Dante e la sua idea di fortuna. Non solo. Se, come credo, il paradigma filosofico cui fa riferimento Cecco è quello avicenniano, è possibile interpretare diversamente altri luoghi degli scritti latini dell’Ascolano.
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Weill-Parot, Dans le ciel ou sous le ciel? cit., p. 680. L. Thorndyke, History of Magic and Experimental Science cit., p. 630.
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IV. L’intelligentia de lo terrestre mondo
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Nel IX libro della Metafisica, già citato, Avicenna descrive il mondo sublunare come il risultato di una duplice causalità, ovvero quella delle intelligenze che moltiplicano la forma del primo principio, e quella dei pianeti, che con i loro movimenti influiscono sulla materia disponendola a ricevere una forma determinata e non un’altra. Il concorrere delle due cause garantisce all’universo regolarità e conoscibilità, tanto che Alberto il Grande nel XI libro della sua Metaphysica fondava l’attendibilità dell’operare degli astrologi proprio sul flusso delle forme che si imprimevano nella materia del mondo sublunare. A questa connessione di cause doveva, credo, fare riferimento Cecco33 quando, nel trattato Super Spheram, risponde ad un quesito di origine popolare, ripreso anche nella sezione IV dell’Acerba, ovvero: perché gli uomini temono gli influssi della luna, che nell’economia dell’universo occupa il luogo più basso e quindi il meno importante. La risposta di Cecco è34:
Luna est sicut subiectum, alii planete sunt tamquam forme. Unde sicut in subiecto est virtus forme et forma, sic in luna est virtus omnium planetarum et aliarum stellarum, quia primum mobile imprimit virtutem suam in octavam spheram, octava sphera in spheram Saturni (etc). Ulterius luna cum omnibus influentiis agit elementa, elementa alterant complexiones, complexionibus alteratis alterantur anime, que in nobis sunt, quia anime consequuntur corpora, et iste influentie, quas recipit luna dicuntur influentie communes. Recipit autem influentias speciales sicut per aspectum stellarum vel per coniunctiones.
In altre parole la luna è una specie di luogo di smistamento delle influenze celesti che dalla semplicità del primo motore, secondo il modello avicenniano già presentato, si frammentano e si irraggiano fino alla luna, la quale le ritrasmette poi tramite la decima intelligenza al mondo sublunare. La complicata rete di influenze comuni e speciali, che ricorda in parte l’analoga suddivisione stabilita da Pietro d’Abano nella Differenza X del suo Conciliator35, giustifica anche l’operare per immagini caro ai negromanti.
33 Una conoscenza così attenta è dimostrata dal fatto che sia nel trattato Super Spheram che nel De epicyclis Cecco cita la teoria avicenniana accanto a quella di Aristotele, come fa lo stesso Avicenna nel Libro IX della sua Metafisica. 34 Cicchi Esculani Viri clarissimi in Spheram mundi enarratio cit., p. 359. 35 Petri de Abano Conciliator diff. X, Venezia 1565, f. 16ra BC.
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Nel De principiis astrologie36 Cecco intende spiegare l’attività delle cosiddette triplicità o trigoni. Si tratta di denominazioni astrologiche che designano i quattro gruppi di tre segni dello zodiaco accomunati da una particolare complessione dalla quale la triplicità o trigono prende il nome, per cui si avrà una triplicitas ignea, una terrea e così via. Ognuna di queste triplicità è causa, secondo un certo Almenon, autore di un altrettanto fantomatico De unitate secreti, dei quattro elementi e anche causa delle virtù latenti nel mondo sublunare. Secondo l’interpretazione di Cecco però tali virtù o forme latenti nella natura («latentia forme seu forma specifica») risultano dall’influsso di ciò che Cecco chiama aspetto modale del cielo, ovvero dalla posizione che ogni pianeta ha rispetto allo zodiaco. Questo aspetto modale è un tipo di azione diverso dall’azione universale del corpo celeste, perché relativo alla posizione rispetto lo zodiaco37:
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Modalis aspectus celestis qui distinguitur contra universalem actionem celestis corporis limitat et modificat proportiones elementorum in creatione misti, ex qua proportione limitata ab isto modali aspectu resultat formam per quam mistum hoc operatur quod non illud […] Unde latentia forme vel nature vel forma specifica est debita proporcio elementorum in misto limitata a modali aspectu celestis corporis, quod est dator formarum.
La forma risultante sarà dunque dipendente sia dell’influenza del corpo celeste, sia della sua posizione rispetto al trigono. Ma c’è di più. L’espressione dator formarum è, come abbiamo visto, la formulazione latina per designare l’attività delle intelligenze analizzata da Avicenna nel IX libro della sua Metaphysica. Non solo: sulla base dell’attività del corpo celeste come datore di forme Cecco fonda anche la legittimità dell’operare per immagini. Scrive, infatti, quasi ad esemplificare la teoria dell’aspetto modale del corpo celeste38:
Et hoc modo ymagines que fiunt ad amorem ad honorem et ad similia operantur; quia si fiat ymago ad dilectionem hora veneris, venere existente in piscibus vel in tauro fortificando venerem tunc in illa effuxione stagni per istum aspectum modalem acquiritur debita proportio elementorum unde resultat talis proprietas in re ista. […] Unde iste triplicitates mediantibus planetis sunt causa omnis latentie nature.
Le proprietà che gli amuleti o i talismani possiedono sono dunque l’ef-
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Boffito, Il commento cit., p. 54. Ibid. Ibid.
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fetto di una forma particolare impressa nell’oggetto dal corpo celeste, ovvero il datore di forme della tradizione avicenniana, che dunque in questo contesto legittima la pratica magica. Certo nel testo di Cecco il dator formarum è curiosamente non l’intelligenza ma il corpo celeste, la cui attività consiste nell’informare ovvero determinare in un dato modo la proporzione di elementi del misto. Da qui emerge l’ambiguità, cui accennavo all’inizio, di status del corpo celeste, che ha le caratteristiche di un corpo animato pur essendo in realtà un corpo mosso. E tuttavia questo non consente, a mio parere, di mettere in discussione la tesi proposta. In un altro luogo del De principiis astrologiae, ad esempio, Cecco si riferisce chiaramente alle influenze delle intelligenze agenti quando affronta il problema del sogno premonitore, questione esposta anche nell’Acerba IV, IX 48-78. Egli divide il sogno fantastico e il sogno contemplativo o oracolo. Il primo è originato semplicemente da una particolare complessione corporale. Il secondo invece è un sogno, che, scrive Cecco39: «Provenit ex revelatione intelligentiarum agentium in ipsa vi anime intellective, quibus omnia sunt nota». E queste intelligenze imprimono gli eventi futuri nell’anima intellettiva. Ma perché questo possa avvenire è necessaria sia una disposizione naturale di chi sogna (gli uomini che sono soliti dire la verità sognano anche il vero), sia una particolare configurazione dei cieli, ovvero la luna si deve trovare nei cosiddetti segni fissi, cioè toro, scorpione, acquario e leone. L’emanazionismo di Avicenna è dunque la chiave per comprendere e spiegare razionalmente fenomeni altrimenti inspiegabili. Non a caso Cecco attribuisce la dottrina filosofica e quindi razionale di un cosmo mosso da dieci intelligenze non solo ad Avicenna, come è giusto, ma anche a Ipparco, autore, secondo Cecco, di testi negromantici in cui sono descritti incubi e succubi che abitano i coluri e demoni potentissimi situati nei quattro punti cardinali. Secondo Weill-Parot40 la propensione innegabile di Cecco per la magia nera e la sua perizia in demonologia devono molto alla cultura ebraico-cristiana, predominante nelle sue opere rispetto alla tradizione ermetico-araba, pur presente. Non posso che condividere l’opinione dello studioso francese. Ma aggiungerei che, come spero di aver dimostrato, il paradigma filosofico di riferimento, che ad esempio consente a Cecco di istituire accanto ad un ordo gratiae, anche un ordo naturae, è, seppur certo con molte ambiguità,
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Ibid., p. 58. Weill-Parot, Dans le ciel ou sous lel ciel? cit., pp. 776-777.
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quello avicenniano, che meglio si prestava, come osserva Caroti41, sia ad una spiegazione astrologica della realtà fisica, sia ad una giustificazione naturale della magia, anche di quella più sulfurea. Conclusione
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Sullo sfondo della struttura gerarchica dell’universo pervaso da influssi, che si rinforzano e si condizionano reciprocamente, il ruolo dell’uomo e della sua libertà acquista un’altra connotazione. L’uomo, infatti, non è soltanto il soggetto di libere scelte, come vuole tutta la tradizione cristiana, ma è soprattutto il mago e l’artefice che conoscendo le forze manifeste e occulte dell’universo «po fa ombra», per utilizzare una bella espressione dell’Acerba, alle intelligenze e ai cieli, che guarda caso vengono sempre nominati insieme, non come alternativa, ma come concause del divenire del mondo. È vero: le virtù umane derivano, in quanto disposizioni, dai corpi celesti e persino l’amore non sembra sfuggire alla regola ferrea delle influenze del cosmo. Ma dall’uomo dipende non solo la possibilità di attuare queste disposizioni e di realizzare la nobiltà dono dei cieli, ma anche di intervenire nei fenomeni naturali e di utilizzarli per lo scopo più opportuno. È vero, come afferma nel De principiis astrologie42 e nell’Acerba, che la calamita di necessità attira il ferro, ma, secondo Cecco, se si intinge questo nell’olio, la calamita non ha più alcun potere su di lui. La metafora della calamita, come segno del determinismo delle influenze astrali, viene, come acutamente annotava il Boffito43, da Tolomeo, e Pietro d’Abano44 la utilizzava proprio per provare il legame necessario tra nascite e costellazioni che decidevano del destino dell’uomo. Cecco invece aggiunge il riferimento ad una pratica empirica (rivestire di olio il ferro per fare ombra all’azione della calamita) per dimostrare che non vi è nulla di ineluttabile, ma tutto è in qualche modo sottoposto all’attività dell’uomo sapiente, che parla e discute persino con i demoni di alto lignaggio, come afferma nel trattato Super Spheram45. E si tratta di demoni e non degli angeli della tradizione cristiana: demoni che come gli uomini sono sottoposti
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Caroti, L’astrologia cit., p. 168. Boffito, Il commento cit., p. 336. Ibid., p. 336 nota 7; cfr. Tolomei Quadripartitus I 3; Venezia 1484, f. 5. Petri Abani Conciliator diff. X, cit., f. 16vbF. Cicchi Esculani Viri clarissimi in Spheram mundi enarratio cit., p. 360.
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all’influenza astrale, ma che diversamente da essi non vi si possono opporre. L’estensione della causalità astrologica agli angeli e ai demoni della tradizione cristiana avviene dunque a spese delle più elementari dottrine cristiane. Gli angeli e i demoni non sono più sottoposti all’onnipotenza divina, ma al ferreo determinismo astrale. E in questo senso, come ha acutamente osservato Weill-Parot46, Cecco non fu un caso isolato, se nell’opera di un famoso astrologo e medico bolognese, Antonio da Montolmo, si ritrovano gli stessi elementi appena descritti. Da qui il significato della fortuna come vis caeli e non come ministra della Provvidenza. Paradossalmente, e questo forse era sfuggito a Coluccio Salutati, ad una fortuna ancilla Dei, come voleva la lunga tradizione da Boezio fino a Dante, l’uomo non potrebbe mai far ombra, ovvero opporsi con la forza del suo sapere e delle sue pratiche. Se la fortuna invece non è altro che una disposizione dei cieli, ovvero fenomeno naturale e non espressione di una intelligenza superiore e dunque coercitiva, l’uomo vi si può opporre, purché conosca e sappia sfruttare le leggi dell’universo. Non a caso nell’Acerba il trattato sull’uomo segue la discussione sulla fortuna, che a sua volta si pone alla fine della descrizione dell’universo come sistema organizzato e dunque determinato. Tale universo mostra, inoltre, tutte le caratteristiche del cosmo avicenniano. La mossa d’apertura («Ultra non segue più la luce») canta il livello del primo principio, immobile e indicibile, segue quindi la descrizione dei vari cieli e dei loro motori, ovvero le dieci intelligenze. La descrizione del mondo sublunare si apre poi con l’uomo e la Fortuna, cui segue il libro III dedicato agli esseri inferiori. Il libro IV, o libro delle questioni, è organizzato secondo lo stesso principio gerarchico: prima le questioni inerenti ai cieli, poi quelle relative ai quattro elementi e infine le questioni attinenti all’uomo. È possibile dunque sintetizzare così l’opera di Cecco: riflessione morale, ma tesa fra precise indagini scientifiche, seppure a loro modo, e ansia metafisica, con al fondo una fiducia: non c’è nulla di così meraviglioso nel mondo che non possa essere indagato e conosciuto.
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Mi riferisco in particolare al problema discusso nell’Acerba IV, 10 42: «Perché le plaghe de l’occulto occiso / manda ciaschuna lo sangue di fòre, / guardando chi l’à morto nel suo viso? / Se son le plaghe nòve, ciò te dico, / ché spiriti rimagnono nel core, / qual move l’ira verso ‘l suo nimico». Tale questione vanta una lunga tradizione anche nella letteratura scolastica analizzata nel bell’articolo di A. Boureau, La preuve par le cadavre qui saigne au XIIIe siècle. Entre expérience commune et savoir scolastique, «Micrologus», 7 (1999), pp. 247-279.
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Cecco d’Ascoli (1269 ca.-1327) e Corrado di Megenberg (1309-1374) non si sono mai incontrati. Anzi, molto probabilmente Cecco non sapeva nemmeno dell’esistenza del più giovane collega che muoveva i primi passi della sua carriera nella lontana Germania. Dal canto suo, il magister artium e canonico Corrado di Megenberg, tradizionalista e fedele fautore del partito del papa, conobbe il famigerato astrologo soprattutto a causa della sua atroce fine sul rogo dell’Inquisizione, che gli aveva dato fama oltre i confini dell’Italia. Tanto più sorprendente è quindi il fatto che Corrado di Megenberg, sempre prudente e attento all’ortodossia ecclesiastica, si serva dell’opera astronomica di Cecco d’Ascoli e citi lo sfortunato autore esplicitamente, esprimendo cordoglio per la sua precoce morte. Vorrei presentare, nel lavoro seguente, il rapporto fra Corrado di Megenberg e il celebre maestro italiano – un rapporto che lega due figure del XIV secolo, al di qua e al di là delle Alpi, grazie ai loro interessi comuni che sono gli interessi di una comunità intellettuale e internazionale. Corrado nacque nel 1309 a Mäbenberg, un piccolo paese della diocesi di Eichstätt nell’attuale Franconia. È il figlio più grande di una famiglia di ministeriali, nobile ma impoverita. Ancora minorenne (a circa 13 anni) si reca ad Erfurt per studiare filosofia. Erfurt, dove un’università a pieno titolo sarà fondata soltanto nel 1392, dispone ai tempi di Corrado di uno studium generale equivalente ad una Facoltà delle Arti senza le facoltà superiori e senza il diritto di conferire i gradi accademici. Per guadagnarsi il titolo accademico di magister oppure di doctor si deve frequentare una delle grandi università di tradizione, cioè, come dice lo stesso Corrado, Parigi, Bologna, Padova e Oxford1. Corrado sceglie Parigi come tanti dei suoi colleghi di Erfurt. A Parigi prosegue con lo studio delle artes, che nel XIV
1 «Et autentica (sc. scola) est, cuius studia privilegiis apostolicis, imperialibus quoque libertatibus sunt laudabiliter fundata, sicut scole Parisiensis, Bononiensis, Padaviensis et
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secolo significa soprattutto approfondimento della filosofia naturale, e conclude col titolo di magister artium, probabilmente nel 1334. Come tanti altri Corrado continua a studiare in una Facoltà superiore, nel suo caso quella di teologia, e si guadagna da vivere a Parigi insegnando nella Facoltà delle arti. Nel liber procuratorum della Nazione inglese il nome di Corrado di Megenberg come magister actu regens appare per la prima volta nel 1337 e viene menzionato per l’ultima volta negli atti dell’università nel 1342, quando Corrado lascia definitivamente Parigi. Per otto anni aveva insegnato nella scuola degli artisti, nella rue du fouarre (il dantesco vico degli strami), presso la Senna. Durante il suo soggiorno a Parigi Corrado di Megenberg è attivamente coinvolto nella politica universitaria, viene eletto procurator della sua nazione ben sette volte e partecipa all’approvazione del cosiddetto statuto contro i Nominalisti, a Parigi nel dicembre del 1340.
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Per problemi economici – dalla curia di Avignone non ha ancora ricevuto la prebenda che assicurerebbe il suo mantenimento per tutta la vita – Corrado è costretto a lasciare la carriera universitaria e ad accettare il posto di rettore della scuola di Santo Stefano di Vienna, struttura municipale ma anche progetto ambizioso di Albrecht II di Habsburg, duca di Austria, che la trasformerà di là a poco in Università. Come rettore Corrado di Megenberg è l’autorità responsabile per l’istruzione pubblica dell’intera città, è in buoni rapporti con la corte di Vienna e in un certo senso prosegue il suo insegnamento delle Arti, sebbene ad un livello più semplice. La profonda provincialità di Vienna in questi anni non può essere negata2. Corrado si sente insoddisfatto e appena riceve dal papa un canonicato a Regensburg, nel 1348, si ritira dall’insegnamento e vi si trasferisce, vivendo come canonico, consigliere del podestà, diplomatico, autore di testi scientifici, politici e religiosi. Corrado di Megenberg muore a Regensburg nel 13743. Purtroppo, della produzione universitaria di Corrado nulla si è conservato. Ma del periodo di Vienna possediamo i suoi scritti sul celebre manuale di astronomia che è argomento obbligatorio per uno studio delle Arti: Il
Oxoniensis»: Die Werke des Konrad von Megenberg. Ökonomik (Buch III), a cura di S. Krüger, in M.G.H., Staatsschriften des späteren Mittelalters, 3/3, Stuttgart 1984, Tractatus I, cap. 3, pp. 23-24. 2 Sulla nascita dell’università di Vienna, cfr. il recente studio di K. Ubl, Anspruch und Wirklichkeit: Die Anfänge der Universität Wien im 14. Jahrhundert, «Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», 113 (2005), pp. 63-89. 3 Per il profilo intellettuale di Corrado di Megenberg, cfr. D. Gottschall, Konrad von
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Tractatus de sphera di Giovanni di Sacrobosco. Ovviamente Corrado di Megenberg l’ha trattato nel solito modo universitario, cioè in forma di Questiones super speram e, per i principianti, in forma di commento: Expositio super speram. Entrambi gli scritti sono conservati nello stesso unico manoscritto. Per il nostro argomento sono d’interesse soprattutto le più specialistiche 18 Questiones. Secondo l’explicit delle Questiones, Corrado le ha concluse il 13 novembre del 1347. Il manoscritto, invece, intitolato dal copista reportata, è datato 2 febbraio 1355, quando Corrado è già canonico a Regensburg. Il trattato di Sacrobosco, che spiega i fondamenti dell’astronomia, è il manuale più diffuso in tutta Europa e fa parte del programma di qualsiasi Facoltà delle Arti. Non contiene nulla di dubbio o addirittura eretico, altrimenti Corrado di Megenberg non lo avrebbe mai preso in considerazione. Il commento della Sfera è compito obbligatorio di qualsiasi magister artium – com’era anche compito del magister Cecco d’Ascoli, il quale commenta quel testo poco dopo il 1320 a Bologna, non per studenti delle Arti ma per studenti di medicina, ragione per cui Cecco sottolinea aspetti importanti in proposito, cioè aspetti di astronomia giudiziaria ovvero astrologia4. Corrado si serve del proemio del commento di Cecco, e anche del commento di Cecco all’Alcabizio, per comporre il proprio, nel quale mira a dimostrare il valore dell’astronomia / astrologia e la sua utilità per la società umana. Poiché Cecco si occupa dell’astrologia prognostica, in servizio dei medici, la sua argomentazione ruota intorno al rapporto fra il medico e i corpi celesti. E proprio questa prospettiva entra nel proemio delle Questiones super speram di Corrado di Megenberg, nonostante egli scriva un commento tradizionale per introdurre l’astronomia teorica agli studenti del quadrivium nella facoltà delle Arti. Questo è il primo fatto che stupisce. E tuttavia, ancora di più sorprende l’esplicita lode di Cecco alla fine dell’introduzione da parte di Corrado, una lode che è rivolta ad un eretico giustiziato e alla sua opera condannata. Riassumendo il suo proemio, Corrado dice:
«Ex quibus omnibus clare patet modus, quo astrologus est utilis in pronosticando futura circa statum humanum [...] Et sicut est de sanitate et egritudine, sic
Megenbergs Buch von den natürlichen Dingen. Ein Dokument deutschsprachiger Albertus Magnus-Rezeption im 14. Jahrhundert, Leiden-Boston 2004 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 83), pp. 25-94. 4 Cfr. L. Thorndike, More Light on Cecco d’Ascoli, «The Romanic Review», 37 (1946), pp. 293-306: 302.
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est de omnibus aliis circumstantibus statum hominis. Et scitote, quod multi fervencius studerent illam scienciam, si curia Romana non lederet illos; unde temporibus ‹nostris› quidam astrologus in iudiciis peritissimus fuit combustus per filium regis Roberti Apulie, scilicet Franciscus de Esculo, qui multum laboravit in ista sciencia, et ex hoc precipue, quod dedit iudicium, quod Romanum imperium deberet modo fortificari et augeri breviter5.
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Quando si compì l’atroce destino di Cecco d’Ascoli, il 16 settembre del 1327 a Firenze, Corrado aveva appena 18 anni e studiava a Erfurt. Evidentemente, la voce di quest’esecuzione si sparse in tutta Europa. Al più tardi Corrado avrà sentito dell’evento all’università di Parigi. Ma egli non ha notizia solo della sentenza di morte per eresia; è pure al corrente delle circostanze politiche6 e del motivo della condanna, cioè una profezia sulla futura sorte dell’Impero Romano – rappresentato dall’imperatore tedesco Ludovico IV, detto il Bavaro – e perciò di particolare interesse per Corrado. Ovviamente ci si riferisce alla spedizione militare in Italia realizzata dal Bavaro tra il 1327 e il 1330, per ottenere nel gennaio del 1328 a Roma l’incoronazione imperiale, nonostante la scomunica da parte del pontefice Giovanni XXII. Che Cecco sia stato bruciato “soprattutto” per questa profezia, è sicuramente esagerato. Più inquietante certamente fu l’oroscopo di Cristo, che dimostra con precisione astronomica che il Figlio di Dio, nato sotto la costellazione tale e tale, doveva per necessità essere povero e saggio e doveva morire esattamente così come morì, cioè sulla croce7.
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Konrad von Megenberg, Questiones super speram, München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14687, ff. 71ra-93vb. La citazione è tratta dall’edizione del proemio curata da K. Arnold, Konrad von Megenberg als Kommentator der “Sphaera” des Johannes von Sacrobosco, «Deutsches Archiv für die Erforschung des Mittelalters», 32 (1976), pp. 147186: Appendice I, p. 180, ll. 118-130. 6 Condanna dell’inquisizione ed estradizione alla giurisdizione secolare del podestà di Firenze. Dal 1325 signore di Firenze è Carlo, duca di Calabria e figlio di Roberto d’Anjou, re di Sicilia dal 1309 al 1343. 7 «Ancora disse aver insegnato, che per aver Christo nella sua natività il segno della libra et il decimo grado di quella per Ascendente, la sua morte doveva esser giusta e mediante la predicazione, e che doveva morire di quella morte, ch’ei morì, e perche Christo aveva nell’angolo della terra il segno del capricorno, doveva nascere in una stalla, e perche aveva lo scorpione nella seconda casa, doveva essere povero, e perche aveva Mercurio nel segno di Gemini nella propria casa e nella nona parte del cielo, doveva avere una scienza profonda data sotto metafora»: I. von Döllinger, Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters, Zweiter Teil: Dokumente, Darmstadt 1982 (München 1890), pp. 586-587, secondo Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Fondo Magliabechiano, cod. 459. Purtroppo, non mi è stato possibile identificare questo ms. né verificare la sua datazione. Si tratta di una
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Ma questo pronostico su Ludovico il Bavaro sta pure nella sentenza di Firenze, nella celebre Cronica di Giovanni Villani e si trova, in latino e in volgare, in due manoscritti della Vaticana, con la versione latina ancora del XIV sec. Faceva parte, quindi, del nascente “mito” Ascolano che girava già nell’Europa degli intellettuali.
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Processo, sentenza et morte di Maestro Cecco Stabili da Ascoli seguita in Firenze il di 15 Aprile (sic) 1327. [...] Ancora disse che del mese di Maggio prossimo passato un certo cittadino, del nome del quale non si ricorda, gli domandò dell’arrivo del Bavaro, che veniva per l’imperio, se egli arriverebbe o nò, e rispose che è vero, che verrà, ma non con tanto onore e gloria, quanto desiderava, e soggiunse, che detto Bavaro morrebbe presto e domandatogli quando, rispose: quando detto Bavaro s’incoronerà, dicendogli il dì e l’ora della morte e la qualità di essa, e che questo si può sapere perchè nel ricevere del pericolo e d’un onore sì grande i corpi celesti erano nella medesima disposizione, che al tempo della natività e concezione, e che il luogo ancora si poteva sapere secondo altri mezzi, ma in particolare per il luogo arenoso, acquoso, montano e piano8.
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Come in Firenze fu arso maestro Cecco d’Ascoli astrolago, per cagione di resia. Nel detto anno, a dì 16 di Settembre, fu arso in Firenze per lo ‘nquisitore de ‘paterini uno maestro Cecco d’Ascoli, il quale era stato astrolago del duca, e avea dette e rivelate per la scienza d’astronomia, ovvero di nigromanzia, molte cose future, le quali si trovarono poi vere, degli andamenti del Bavaro, e de’ fatti di Castruccio e di quegli del duca9.
Anno Domini M°. iij. xxiiij°. de mense decembris. Magister Cechus de Eschulo [...] Ego Cicus de Esculo quosdam effectus breviter intimabo quos celestia corpora indicant futurum. Grandis surget aquila volans ad austrum a partibus aquilonis, et hec longo tempore non volabit. Mundus totus erit in motu, et prelia undique invalescent. Et erit sectarum mutacio, et similiter statuum civitatum. Apparebit
specie di riassunto, in volgare, della sentenza di Firenze. Si citano per questa sentenza, riportata sempre in forma di “riassunto”, altri due manoscritti: Firenze, Bibl. Riccardiana, 673 - codice miscellaneo del XV sec. per il quale cfr. Thorndike, More Light on Cecco d’Ascoli cit., p. 293 - e Firenze, Bibl. Riccardiana, 1895 - codice del XVII sec., che segue una lezione lievemente variata rispetto a quella proposta da Döllinger, per il quale cfr. F. Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba, «Rivista Europea», 15 (1879), ora in Studi Stabiliani. Raccolta di interventi editi su Cecco d’Ascoli, a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002, pp. 69176: 85. Bariola fa cenno a un ulteriore ms., il cod. Magliabech. 556 (Firenze, Bibl. Naz. Centr.) anch’esso non identificabile. 8 Döllinger, Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters cit., pp. 587-588, secondo Firenze, Bibl. Naz. Centr., cod. Magliabech. 459. 9 Giovanni Villani, Cronica, a cura di F. Gherardi Dragomanni, III, Frankfurt a.M. 1969 (Firenze 1845), X, 40, p. 41.
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errancium multitudo et deieccio prelatorum. Vilipendentur sacra, et video ecclesie detrimentum. Rex contra regem insurget ad bellum»10. Qui achomença algune prophetie de maistro Cecho d’Ascolle. Io Cecho d’Asculle brievemente demostrerò le cosse che die avegnir i qual li corpi celestrial sì mostra quelo che die avegnir. Una grande aquila volando se leverà de le parte de aquilon e vignerà inn ostro, e questa per longo tempo non volerà. Tuto el mundo serà in movimento e bataia , et in ogni parte serà mutacion de fe’. E grandi tratamenti de stadi de lecitade e desbatimento de parlati, deprixiando le sante cosse. Veço la gliexia in gran tormento. Re contra re se leverà a bataia11.
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Che cosa avrà affascinato un personaggio come Corrado di Megenberg della figura di Cecco d’Ascoli? Sicuramente la capacità di prevedere il futuro - una scienza che rende l’uomo divino, allo stesso livello degli angeli: «Nam appetendo veritatem celestium induimus habitum angelicum previdendo futura; hec Messela [...]»12. Corrado cita qui l’astronomo arabo Messahallah (IX secolo), citazione che egli ha tratto dal commento di Cecco al De principiis astrologiae dell’Alcabizio e che viene, secondo Cecco, dal libro De virtute motoris dello stesso Messahallah13. È una citazione fra le tante che lodano la scienza degli astri che, praticata sapientemente, potrebbe essere la salvezza dell’umanità. Corrado, però, sa di muoversi in un campo minato. Prevedere e mettere il prossimo in grado di affrontare il proprio destino nel modo migliore, non è sicuramente nulla di detestabile. Servirsi però delle virtù astrali per manipolare attivamente il corso della natura, cosa che fa senz’altro parte dell’astrologia,
10 Cfr. A. Campana, Profezia attribuita a Cecco d’Ascoli, in Atti del I convegno di studi su Cecco d’Ascoli (Ascoli Piceno, Palazzo dei Congressi, 23-24 novembre 1969), a cura di B. Censori, Firenze 1976, pp. 31-41: 36-37, secondo Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Ottob. lat. 683, f. 313va-vb. Si tratta di un codice biblico contenente il Nuovo Testamento, risalente agli inizi del XIII sec. Il testo biblico finisce a f. 312va; il f. 313r è bianco, il verso è occupato dalla nostra profezia, scritta a due colonne in una minuscola gotica libraria del sec. XIV, cfr. Campana, Profezia attribuita a Cecco d’Ascoli cit., p. 35. 11 Ibid., pp. 36-37, secondo Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Palat. lat. 949 (cart., ff. I, 127, 29 x 20,5 cm, finito il 15 novembre 1452 da «mi Iachomo de Çuane barbier»). La profexia di Cecco occupa i ff. 119vb-120ra: 119vb. Il volume contiene solo testi profetici in volgare italiano, e anzitutto - nei ff. 1ra-119vb - i due libri del cosiddetto Libro di Merlino; seguono alcuni testi minori fra altro Cecco d’Ascoli, cfr. Campana, Profezia attribuita a Cecco d’Ascoli cit., pp. 32-33. Sarebbe ancora da notare che questo codice viene dalla Germania, cioè dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg, con provenienza, probabilmente, dalla biblioteca dei Fugger ad Augsburg, cfr. P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, London-Leiden 1967, p. 589. Vi accenna P. Lehmann, Eine Geschichte der alten Fuggerbibliotheken, II, Tübingen 1960, p. 497. 12 Konrad von Megenberg, Questiones super speram, in Arnold, Konrad von Megenberg als Kommentator cit., p. 179, ll. 90-91. 13 Un cenno a questa citazione si trova anche nella Enarratio in spheram mundi di
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cade sotto il sospetto di magia demoniaca ed è in netto contrasto con la fede cristiana cattolica. Così Corrado di Megenberg, nel suo proemio alle Questiones super speram, che si basa ampiamente su Cecco, sviluppa subito una strategia di difesa. Si barrica dietro l’autorità inattaccabile di Alberto Magno. Corrado di Megenberg apre le sue Questiones super speram con una citazione dal Centiloquium (Ps.-Tolomeo), verbum quintum: «Optimus astrologus multum malum prohibere potest, quod secundum stellas eventurum est; sic enim pronunciet ei, cui venturum est, ut illud pati possit»14, cioè «l’ottimo astrologo può impedire molto male che succederà secondo le stelle, poiché può preannunciarlo a colui al quale succederà in modo che lo possa sopportare». Si tratta, quindi, della capacità di pre-sapere e, conseguentemente, di pre-annunciare. Il compito dell’astrologo è prevalentemente didattico. Ci sono vari metodi, prosegue Corrado, per arrivare alla preveggenza: alcuni prevedono il futuro tramite sogni, come insegna Alberto Magno15; alcuni seguono la rivelazione dei demoni («spirituum sive bonorum sive malorum»); alcuni, invece, intraprendono la strada delle scienze, ricorrendo a certe tecniche. Fra queste scienze ce ne sono di dubbie e pericolose: le sciencie mantice con quattro species, cioè «pyromancia, ydromancia, nigromancia et geomancia; et aliqui addunt cyromanciam»; inoltre la scienza chiamata «mathesis, il sortilegium, il maleficium e prestigium»16. Corrado ha preso questa lista dalla Enarratio in spheram mundi di Cecco, così come anche le rispettive descrizioni delle varie tecniche. Cecco, però, parla della necessità che i medici conoscano le diverse malattie e i giorni “critici”, ricorda che non pochi di loro si fidano delle arti magiche – segue la già citata lista – mentre dovrebbero servirsi della scienza, cioè della astrologia: Sed quamvis per istas artes magicas possit haberi aliqualis cognitio futurorum, tamen sub excellentiori modo per scientiam stellarum habetur futurorum cognitio
Cecco: «Utilis est medico in quantum in habitu angelico se demonstrat aliarum naturarum et egritudinum terminos previdendo, ut dicit Mesalach in libro de virtute motoris»: The Sphere of Sacrobosco and Its Commentators, a cura di L. Thorndike, Chicago 1941, p. 345. 14 Konrad von Megenberg, Questiones super speram, in Arnold, Konrad von Megenberg als Kommentator cit., p. 176, ll. 1-3. 15 Ibid., p. 176, ll. 7-9: «Quidam enim illum modum habent ex sompniis, sicut docet dominus Albertus in tractatu suo De pronosticiis sompniorum». In realtà, non si tratta di un’opera di Alberto Magno, ma del trattato De pronosticatione sompniorum di Guglielmo di Aragona, della prima metà del XIV secolo, cfr. De pronosticatione sompniorum libellus Guillelmo de Aragonia ascriptus, a cura di R.A. Pack, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 41 (1967), pp. 237-293. 16 Cfr. Konrad von Megenberg, Questiones super speram, in Arnold, Konrad von Megenberg als Kommentator cit., p. 176, ll. 7-15.
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veritatis, scilicet per revelationem intelligentiarum mediante celo quibus omnia sunt nota, ut dicit Ptolomeus, primo de circulo visuali: Substantiis separatis in celo nihil est occultum et ultimum mirabilium quomodo participent creaturis17.
Le arti magiche di Cecco, nel testo di Corrado, diventano scienze più o meno affidabili. La parola “magia” Corrado non la dice, anche se è così interessato proprio a questo argomento. Nella descrizione delle diverse tecniche Corrado segue fedelmente Cecco, ma va più nel dettaglio aggiungendo del suo:
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Ydromancia est divinacio facta per corpora bene tersa et polita, sicut in speculis vel christallis et in aere et aqua; et huic subalternatur sciencia incantandi, includens spiritum in christallo vel in aqua, ut dicat veritatem de futuris vel de aliis huiusmodi.
E per la necromanzia, Corrado cita pure il suo garante Cecco, aggiungendo delle oscure allusioni:
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Nygromancia est sciencia divinativa qua advocantur demones ad dandum responsa, et fit plerumque per ossa mortuorum et viget in pluribus terris; maxime tamen, ut refert Franciscus de Esculo, in partibus septentrionalibus, et alique vetule multum sollicitantur in hac, habentes aliquas experiencias in talibus. Et dicitur nigromancia a nigros, quod est mortuum etc.18.
Come si vede, anche Corrado è esperto nel campo della magia e della superstizione; le sue aggiunte sono prezioso materiale per lo studio del folclore della Germania medievale. Si noterà inoltre che, come Cecco d’Ascoli, anche Corrado di Megenberg volgarizza il proprio sapere, diffondendolo nelle sue opere in volgare tedesco, soprattutto nel Buch von den natürlichen Dingen (Libro delle cose naturali) che contiene non poche storie su certe pratiche di certe vecchiette e tanto altro. Come Cecco19, anche Corrado sa che la Chiesa non guarda benevolmente a queste arti o scienze. Ma Corrado ha una ricetta infallibile per tirarsi
17 Cecco d’Ascoli, Enarratio in spheram mundi, in The Sphere of Sacrobosco cit., p. 346. 18 Konrad von Megenberg, Questiones super speram, in Arnold, Konrad von Megenberg
als Kommentator cit., p. 177, ll. 20-29. Cfr. invece la sobria descrizione di Cecco: «Hydromantia est divinatio facta in corporibus tersis et politis vel in aere, dicta ab aier, -ris et maco, scientia. Necromantia est quedam scientia divinativa qua advocantur demones ad dandum responsa que in cunctis triviis et maxime in septentrionalibus partibus exercetur, dicta a necros, quod est mortuum»: Cecco d’Ascoli, Enarratio in spheram mundi, in The Sphere of Sacrobosco cit., p. 346. 19 «Sed multi satagunt de morte et vita et rebus futuris per artes magicas iudicare que sunt a sancta matre ecclesia vituperabiliter improbata»: ibid., p. 346.
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fuori di qualsiasi dubbio. Si riferisce al giudizio del grande Alberto Magno, che ha già deciso e stabilito quale di queste “scienze” sarà da evitare e quale meno: «Que tamen illarum vitande sunt et que non, pulcherrime docet dominus Albertus in Speculo astronomie, ubi ponit inicia librorum et nomina auctorum et approbat libros approbandos et reprobans eciam reprobandos»20. Lo ps.-albertino Speculum astronomiae, con ampia diffusione in tutta Europa (62 mss.), ascritto agli anni Quaranta del XIV secolo e attribuito al grande domenicano Alberto, serve spesso nelle biblioteche come “indice delle superstizioni”. Ciò dimostra il sottotitolo acquisito dalla tradizione manoscritta: De libris licitis et illicitis21. Corrado, probabilmente, ha conosciuto il testo a Erfurt e l’ha studiato bene, perché anche questo autore è ammiratore dell’astrologia. Però, all’inizio del suo testo tira una linea di separazione fra la “scienza nobilis” dell’astrologia e la magia, e cioè quella demoniaca, oppure la necromanzia:
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Occasione quorundam librorum, apud quos non est radix scientiae, qui cum sint verae sapientiae inimici, [...] placuit aliquibus magnis viris, ut libros quosdam alios, et fortassis innoxios accusarent [...] Quare quidam vir zelator fidei et philosophiae, utriusque scilicet in ordine suo, applicuit animum ut faceret commemorationem utrorumque librorum, exponens numerum, titulos, initia et continentias singulorum in generali, et qui fuerunt eorundem auctores, ut scilicet liciti ab illicitis separentur22.
Lo Ps.-Alberto descrive prima l’astronomia, una scienza matematicoteorica, e dopo si dedica all’astrologia giudiziaria, che divide in due parti: «principia iudiciorum» e «exercitium iudicandi», cioè la prassi. Questa parte pratica, ancora, si divide in quattro parti: «de revolutionibus», «de nativitatibus», «de interrogationibus» e «de electionibus horarum laudabilium»23. Dell’ultimo segmento fa parte la scienza delle immagini, cioè dei talismani, e qui, secondo gli autori della Chiesa, finisce la scienza cristiana e cominciano l’idolatria e le pratiche detestabili. L’autore distingue tre mo-
20 Konrad von Megenberg, Questiones super speram, in Arnold, Konrad von Megenberg
als Kommentator cit., p. 178, ll. 60-62. 21 Cfr. Alberto Magno, Speculum astronomiae, a cura di S. Caroti - M. Pereira - S. Zamponi, Pisa 1977 (Quaderni di storia et critica della scienza, n. ser. 10); A. Paravicini Bagliani, Le Speculum Astronomiae. Enquête sur les manuscrits, in Albertus Magnus. Zum Gedenken nach 800 Jahren: Neue Zugänge, Aspekte und Perspektiven, a cura di W. Senner O.P. et alii, Berlin 2001 (Quellen und Forschungen zur Geschichte des Dominikanerordens, N. F. 10), pp. 401-411. 22 Alberto Magno, Speculum astronomiae cit., Proemium, p. 5, ll. 1-14. 23 Ibid., cap. 4, p. 15.
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di di fabbricare e far operare queste immagini, e ciascun modo è «contra fidei catholicae honestatem»24. In questo contesto lo Ps.-Alberto cita una lunga lista di libri “vietati” che sono praticamente una biblioteca completa degli scritti magici attribuiti ad Ermete. Solo alla fine, per la tecnica delle immagini astronomiche, entrano Thebit, De imaginibus e lo Ps.-Tolomeo, De imaginibus super facies signorum25. È fra altro l’unico luogo dello Speculum astronomiae dov’è citato Ermete. Anche Cecco d’Ascoli cita Ermete, però sempre con approvazione e con i testi seguenti: De speculis et de luce, opera preferita di Cecco, De aspectibus modorum, De proprietatibus locorum e De caelo. Il primo si trova nel catalogo di Thorndike e Kibre, che ne segnala l’estratto contenuto in un unico manoscritto Vaticano26; degli altri testi non trovo traccia, né nel catalogo di Thorndike né nella bibliografia degli scritti ermetici di Lucentini27. Cecco cita molti testi e quasi sempre testi oscuri, difficilmente identificabili28. Del canone classico di astronomia/astrologia compaiono Tolomeo, Messahallah, Albumasar, Alfragano, Alpetragio; noti sono Avicenna, Al-Kindi, Almansor, Ippocrate, Aristotele, Alberto Magno e pure gli scritti favolosi di Evax, rex arabum, sugli effetti meravigliosi delle pietre preziose. Per il resto, come afferma Thorndike, ci troviamo spesso di fronte a testi magici che trattano proprio le tecniche di incantesimo attraverso le immagini29; solo alcuni autori: Zoroastro, Ps.-Ipparco, Apollonio30, Salomone, Astaphon, Zahel, Almenon, etc.31.
24 25 26
Ibid., cap. 11, p. 28, ll. 32-33. Ibid., pp. 28-30 e 33. Cfr. A Catalogue of Incipits of Mediaeval Scientific Writings in Latin, a cura di L. Thorndike - P. Kibre, London 1963, col. 70: «Agens universalis et significatrix [...]; Hermes, Flores extracti de libro de speculis et luce: Bibl. Vaticana, Cod. Ottobon. 1552, ff. 83r87v; Isis 13 (1929), 75». 27 Cfr. Hermetism from Late Antiquity to Humanism. La tradizione Ermetica dal mondo tardo-antico all’umanesimo. Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 20-24 novembre 2001), a cura di P. Lucentini - I. Parri - V. Perrone Compagni, Turnhout 2003 (Instrumenta patristica et mediaevalia, 40), Appendices, pp. 714-745: P. Lucentini - V. Perrone Compagni, I Manoscritti dei testi ermetici latini. 28 Ancora Thorndike sospettava che questi scritti fossero mere invenzioni di Cecco, tuttavia si rivelano sempre di più come scritti esistenti, cfr. Arnold, Konrad von Megenberg als Kommentator cit., p. 165. 29 Cfr. L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science during the first thirteen centuries of our era, II, New York-London 1964, pp. 963-966. 30 Secondo G. Boffito, Il commento di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, Firenze 1905 (Pubblicazioni dell’Osservatorio del Collegio della Querce [Firenze], 1), p. 29 nota 2, potrebbe trattarsi di Apollonio di Tiana: «Si tratta probabilmente di Apollonio Tianeo a cui furono attribuite molte opere magiche e astrologiche». 31 Una lista completa degli autori e opere citati da Cecco si trova in G. Boffito, Il “De
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Sicuramente, quei testi non sono molto affidabili dal punto di vista cattolico, ma non stanno sull’indice di Alberto Magno32. Forse per questo motivo Corrado di Megenberg si sentiva al sicuro quando incominciò a occuparsi dell’opera di Cecco d’Ascoli. A proposito dell’opera di Cecco, ancor oggi non è chiaro cosa e quanto esattamente Corrado ne abbia conosciuto ed usato per i propri scritti. Fu Klaus Arnold nel 1976 a scoprire il rapporto fra Corrado e Cecco confrontando il proemio delle Questiones super speram di Corrado con la Enarratio e il De principiis astrologiae di Cecco d’Ascoli, poiché Corrado cita Cecco esplicitamente. Sembra però che esista un rapporto più intenso di quanto Arnold non abbia suggerito nel suo lavoro. Fino ad oggi le Questiones e la Expositio super speram di Corrado di Megenberg sono rimaste inedite e nascoste nell’unico manoscritto di Monaco, un manoscritto poco leggibile, il che forse è la causa del fatto che la ricerca le ha trascurate. Il tentativo di una rinnovata lettura “cursoria” fa sospettare che Corrado usi regolarmente l’intera opera astrologica di Cecco, perché cita gli stessi strani autori di Cecco e sembra che conosca anche il rarissimo De eccentricis et epicyclis di Cecco d’Ascoli33, riportandone la dottrina in un prezioso passo che trascrivo per intero: Questio utrum deferens ipsius solis sit eccentricus. [...] Vlterius est notandum, quod quidam assignant causam huius quare sol non habeat epyciclum et dicit Franciscus de esculo in quadam declaracione huius propositi quod causa in hoc sit quia sol sit causa vite et celi universaliter ipsius esse omnium illorum inferiorum et ergo necessarium sit quod eius motus sit uniformis propter uniformem permanentiam et proportionalitatem elementorum, quia si epyciclum haberet, tunc quandoque esset stationarius statione (93rb) prima vel secunda, et quandoque directionarius, quandoque retrogradus et per consequens quandoque elementa diminuerentur, quandoque augerentur secundum eum secundum talem mutacionem solis in epyciclo suo. Sed ista ratio nec valet quia certum est sicut ipse etiam concedit in alio loco ex auctoribus et rationibus multorum sapientum in astrologia, luna habet virtutes omnium planetarum tamquam materia et subiectum respectu virtutum influxarum sibi ab aliis stellis et per consequens luna est causa
eccentricis et epicyclis” di Cecco d’Ascoli. Novamente scoperto e illustrato, «La Bibliofilia», 7 (1905-1906), pp. 150-167: 154-159. 32 Dalla lista dello Speculum astronomiae trovo solo candarie Salomoni, menzionate ma non citate da Cecco - cfr. Alberto Magno, Speculum astronomiae cit., p. 30, l. 78: «liber De novem candariis» -, e il Liber novem iudicum, attribuito da Cecco ad Al-Kindi - ibid., p. 19, l. 16: «in principio libri Novem iudicum» e p. 25, l. 28: «praeterea Liber novem iudicum». 33 Unico ms. Parma, Bibl. Palatina, cod. 984 (cart., ff. 145, 205 x 310, XV sec.); cfr. Boffito, Il “De eccentricis et epicyclis” cit., p. 159.
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propinqua omnium istorum inferiorum et superiores stelle non nisi mediante luna et tamen hoc non obstante luna habet epyciclum sicut patet in littera et conceditur ab omnibus. Ergo ista ratio non valet ymmo de facto sic est, quod elementa augentur et etiam diminuuntur in partibus suis secundum alios et alios aspectus astrorum et secundum varios coniunctiones planetarum in partibus zodiaci34.
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Il rapporto fra questi due personaggi, ancora, va al di là dell’intertestualità specifica, ed è il rapporto interculturale fra due intellettuali e scienziati del XIV secolo. Come Cecco d’Ascoli anche Corrado di Megenberg spiega la sua scienza in volgare (Buch von den natürlichen Dingen, Deutsche Sphera)35. Però Corrado scrive in prosa, anzi parte da una semplice traduzione di un modello latino (Thomas Cantimpratensis, Liber de natura rerum)36 – non conoscendo l’opera di Dante non è costretto di misurarsi con lui – e non scrive un’opera simbolicamente cifrata, ma un manuale semplice e chiaro per quanti, dotati di una certa formazione, preferiscono leggere nella propria lingua, il tedesco. Anche Corrado illustra la relazione fra microcosmo e macrocosmo, una relazione che influenza fortemente la sua visione del mondo, indipendentemente dalle fonti che usa. La cosmologia di Corrado è molto più tradizionale di quella di Cecco. Prevalentemente aristotelica, rivela un aristotelismo già rifratto nell’opera di Alberto Magno, massima autorità per Corrado – Alberto e lo Pseudo-Alberto, che apre la porta verso l’ermetismo, la magia e, in fin dei conti, verso Cecco d’Ascoli. Rimane ancora molto da fare: l’edizione dell’opera astronomica latina di Corrado, un commento sistematico delle fonti filosofiche dell’opera di Cecco. Una ricerca interdisciplinare e internazionale su questo argomento varrebbe sicuramente la pena di avviarla e potrebbe ritrarre a tinte nuove l’immagine di Corrado di Megenberg scienziato e della scuola pre-universitaria di Vienna, ma anche contribuire in modo non secondario ad illuminare il profilo di Cecco d’Ascoli, suo collega.
34
Konrad von Megenberg, Questiones super speram, München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14687, f. 93ra-rb. 35 Cfr. Konrad von Megenberg, Das Buch der Natur. Die erste Naturgeschichte in deutscher Sprache, a cura di F. Pfeiffer, Hildesheim-Zürich-New York 19943 (Stuttgart 1861) e la nuova edizione critica: Konrad von Megenberg, Das ‘Buch der Natur’, II: Kritischer Text nach den Handschriften, a cura di R. Luff - G. Steer, Tübingen 2003 (Texte und Textgeschichte, 54); Konrad von Megenberg, Die Deutsche Sphaera, a cura di F.B. Brévart, Tübingen 1980 (Altdeutsche Textbibliothek, 90). 36 Cfr. Thomas Cantimpratensis, Liber de natura rerum. Editio princeps secundum codices manuscriptos, a cura di H. Boese, pars I: Text, Berlin-New York 1973.
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Nel tracciare il profilo filosofico di Cecco d’Ascoli, allo scopo di inquadrarne la complessa ed articolata figura d’insieme, non dovrebbe essere trascurato il suo interesse medico-biologico, che non si limita ad assumere la forma di allusioni più o meno chiare o di vaghi riferimenti al bagaglio di conoscenze naturalistiche proprie del suo secolo, bensì trova una consapevole e accurata esplicitazione, almeno relativamente ad un particolare gruppo di dottrine, proprio all’interno del suo componimento più noto, che pur appartiene ad un genere letterario certamente inconsueto per le trattazioni riguardanti argomenti di filosofia naturale. In questo contributo prenderò dunque in esame le idee sulla generazione enunciate da Cecco nel II libro de L’Acerba, nel II capitolo intitolato De formatione humane creature, e tenterò di mettere in luce la peculiarità di tali dottrine nell’idea dell’autore, la loro derivazione, il loro significato nella medicina scolastica del XIV secolo e il valore della loro presenza, quasi “inevitabile”, nella formazione culturale di un artista legato all’ambiente scolastico e dottrinale dell’Università di Bologna, come ebbe ad essere senza dubbio l’Ascolano. Merita altresì un breve cenno il fatto che, oltre che in questo capitolo “embriologico” de L’Acerba, Cecco si occupi di questioni relative alla generazione anche in un’altra opera, l’Enarratio in spheram mundi1, commento al trattato De Sphera di Giovanni Sacrobosco, libro di testo per l’insegnamento universitario dell’astronomia. È noto infatti che Cecco lesse la Sphera a Bologna tra il 1320 e 13242. In questo testo sono contenute, come
1
Cicchi Esculani … In spheram mundi enarratio, in The Sphere of Sacrobosco and its Commentaries, a cura di L. Thorndike, Chicago 1949, pp. 343-411. 2 Per la biografia e le opere di Cecco d’Ascoli, cfr. G. Boffito, Perché fu condannato al fuoco l’astrologo Cecco d’Ascoli?, «Studi e documenti di storia e diritto», 20 (1899), pp. 357-
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è noto, alcune tesi, astronomiche e astrologiche, ritenute poco ortodosse, che hanno a che fare con teorie magiche e negromantiche e che forse sono state alla base della sua condanna, almeno stando al resoconto che ne dà Giovanni Villani nella sua Cronica3. Nello stesso commento vi è anche una teoria sulla generazione straordinaria, cioè su quel tipo di generazione che non segue le normali leggi naturali, e il caso particolare di cui parla Cecco d’Ascoli in questo testo rientra nella forma della generazione demoniaca4. La presenza di una teoria riguardante questo particolare tipo di generazione nel commento di Cecco al Sacrobosco, cioè ad un’opera composita di astronomia e astrologia, non è fuori posto, ma si spiega con il fatto che la generazione demoniaca era ritenuta in stretta relazione, addirittura attivata, con l’accadere di eventi astrologicamente significativi, come le eclissi solari, cui accenna anche Pietro d’Abano nel Conciliator5, scritto nel 1303. Anche Cecco menziona in particolare la teoria delle “grandi congiunzioni”, in genere di Saturno e Giove, introdotta in Occidente attraverso gli scritti dell’astrologo persiano Albumasar e ripresa in varie forme anche da Alberto Magno, Ruggero Bacone, Pietro d’Abano ed altri6. Secondo Cecco, l’attività generatrice dei demoni coincide con la congiunzione di Saturno, Giove e Marte nei segni del Cancro o del Capricorno. Durante questa congiunzione i demoni, sotto forma di “incubo” o di “suc-
382; A. Beccaria, I biografi di Cecco d’Ascoli e le fonti per la sua storia e la sua leggenda, «Memorie della reale Accademia delle scienze di Torino», II ser., 58 (1908), pp. 1-94. 3 Cfr. G. Villani, Cronica, t. V, Firenze 1823, Roma 1980 (ristampa anastatica), pp. 55-56. 4 Per una più esauriente descrizione di questi temi, rimando all’ampio studio sulle dottrine medievali intorno alla generazione straordinaria di M. van der Lugt, Le ver, le démon et la Vièrge, Paris 2004. Qui l’autrice dedica un lungo paragrafo alla generazione demoniaca descritta nel commento di Cecco, corredato di fondamentali indicazioni bibliografiche che ho tenute presenti nella stesura di questa parte dell’articolo, ibid., pp. 309-316. 5 Petrus de Abano, Conciliator, Venetiis 1565, diff. 9, f. 15ra: «Secunda quidem causa astrologica sumitur ex planetis et maxime ex coniunctionibus Saturni et Iovis et solaribus eclipsibus et lunaribus utcunque: ex coniunctione nanque Saturni et Iovis in principio arietis, quod quidem circa finem 960 contingit annorum, tunc enim secundum ascendens coniunctionis et dominium eius, secundum etiam locum coniunctionis eorum ex domibus, aut secundum fortunas vel infortunas locum ascendentis, et coniunctionis aspicientes variatur non solum natura humana fortitudine aut debilitate, longaevitate aut econtrario: immo et totus mundus inferior commutatur ita quod non solum regna sed et leges et prophetae consurgunt in mundo significative saltem, seu causaliter in quibusdam volentes prioribus quae neglectis reliquas condere: sicut apparuit in aduentu Nabuchodonosor, Moysi, Alexandri Magni, Nazarei, Machometi». 6 Sulla teoria delle “grandi congiunzioni” e le sue fonti medievali, cfr. J. North, Astrology and the Fortunes of Churches, «Centaurus», 24 (1980), pp. 181-211; L. Smoller, History, Prophecy and the Stars. The Christian Astrology of Pierre d’Ailly (1350-1420), Princeton 1994, pp. 61-74.
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cube”, si accoppiano con un uomo addormentato per prelevare il suo sperma che travasano poi nella matrice di una donna, dando luogo in questo modo ad una sorta di inseminazione artificiale, per generare uomini straordinari, “quasi divini”7. L’originalità di Cecco, o delle sue fonti, risiede nel fatto di combinare la dottrina astrologica con la generazione demoniaca, ottenendo un modello esplicativo della nascita di uomini straordinari8. In generale, la ricostruzione della storia delle diverse teorie sulla generazione straordinaria che hanno circolato nei secoli centrali del Medioevo (1100-1350), proposta nel volume citato, fa emergere l’idea che esse, pur appartenendo ad un circuito certamente marginale rispetto al sapere ufficiale delle Università, hanno ugualmente interessato autori di rilievo e diversi ambiti disciplinari, medico/filosofico, etico/religioso, antropologico, perché permettevano di individuare e di interpretare la relazione tra l’evento straordinario, il miracolo, e l’ordine naturale dei fenomeni. Anche il caso particolare riferito da Cecco d’Ascoli può essere letto alla luce di questa considerazione generale, ma l’aspetto più interessante, da mettere in relazione con la successiva esposizione della generazione naturale, è che egli alimenta in questo contesto astrologico il suo autentico interesse naturalistico, fino a recepire correttamente e a riformulare in uno stile molto personale anche argomenti medici di contenuto specialistico, afferenti all’anatomia e alla fisiologia.
Dopo il suo commento alla Sphera, Cecco espone le sue tesi sulla generazione naturale in un diverso contesto letterario. Ne L’Acerba, opera enciclopedica, ma anche raccolta di quaestiones naturales (come ebbe a definirla Pflaum), composta probabilmente dopo la venuta a Firenze di Carlo di Calabria (1326-1327)9, nel capitolo sulla formazione della creatura umana del II Libro, Cecco tratta questa volta della generazione naturale, ordina-
7
Cicchi Esculani … In spheram mundi enarratio cit., p. 388: «[…] incubus […] dicitur morari in coluro qui distinguit solstitium estivale et isti spiritus dominantur in somniis coitus hominum et deportant sperma hominis in coniunctione maiori scilicet quando Saturnus Iuppiter et Mars coniunguntur in Cancro vel in Capricorno et emittit in matricem alicuius mulieris et exinde fit conceptio et oriuntur homines qui videntur divini et qui constituunt leges in mundo et faciunt mira, ut fuit Merlinus et erit antichristus […] Succubus dicitur quia accipit corpus ex aere in forma mulieris et decipit quandoque hominem agendo in eum». 8 Secondo Cecco, questa spiegazione vale sì per personaggi come il mago Merlino o l’Anticristo, ma non per Cristo: in questo modo egli mostra di seguire una posizione teologicamente ortodossa. 9 Per una più ampia e dettagliata raccolta di notizie e giudizi sulla maggiore opera let-
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ria, dell’uomo fisico, ed espone le teorie embriologiche della medicina scolastica insegnate nell’ambiente bolognese delle Arti. Nelle sestine di questo capitolo Cecco ripercorre esattamente il processo di formazione del feto, facendo riferimento alle principali teorie embriologiche sostenute e dibattute dai maestri di medicina suoi contemporanei. Nella prima sestina10, [777-782], Cecco inizia ad esporre la generazione parlando della creazione della specie umana ad opera di Dio: Dio crea i cieli e il mondo sublunare per la creatura umana che fece simile a sé e che pose su questa terra. [783-785] Dal movimento dei cieli si forma, attraverso il seme umano, l’embrione che riceve l’impronta della virtù di ciascuna sfera celeste; la narrazione di Cecco prosegue poi con parole che rimandano in modo chiaro al primo enunciato della dottrina scolastica sulla generazione: [786-788] Prima lo core nel concepto nasce: / l’altre duo prime puo’ nel ciecho aspecto, / ma pur nel cor lo spirito si pasce.
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Seguendo la teoria cardiocentrica aristotelica, Cecco afferma che il primo organo che si forma nell’embrione è il cuore e il suo spirito vitale. La questione della formazione degli organi principali del corpo umano segnava uno dei punti di divergenza tra le due principali dottrine embriologiche in circolazione negli ambienti accademici della medicina scolastica: l’embriologia medica di derivazione galenica, che sosteneva la teoria secondo cui sarebbero tre gli organi principali del corpo umano, il cuore, il fegato e il cervello, e l’embriologia filosofica di derivazione aristotelica che sosteneva il primato ontologico e fisiologico del cuore11. Cecco aderisce alla teoria aristotelica anche nei versi che seguono:
[789-794] Lo spirito che fu dal padre messo / […] / forma li membra, […]. / Da questo nasce lo spirto animale / e naturale […].
teraria di Cecco d’Ascoli si rimanda al recente volume che ristampa i saggi di alcuni fra i principali studiosi stabiliani del secolo scorso: Studi Stabiliani. Raccolta d’interventi, a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002. 10 Mi limiterò, in questa parte, a proporre un commento interpretativo del contenuto specialistico (medico-biologico) emergente in questo capitolo de L’Acerba, tralasciando del tutto ogni valutazione filologica o stilistica. Le sestine citate e le relative parafrasi si riferiscono tutte al cap. II del lib. II de L’Acerba e sono tratte da Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002. 11 Per una informazione più generale intorno a questi temi embriologici dibattuti nella medicina scolastica, mi permetto di rinviare al volume R. Martorelli Vico, Medicina e filosofia. Per una storia dell’embriologia medievale nel XIII e XIV secolo, Milano 2002, in particolare le pp. 13-19.
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Lo spirito emesso con lo sperma del padre forma le membra nell’embrione (di cui il primo a formarsi è il cuore e il suo spirito vitale). Da questo organo nascono gli altri due spiriti, animale e naturale, che passando in atto formano i rispettivi organi, cervello e fegato. È così delineata la formazione dell’embrione, secondo l’idea aristotelica, dopo l’istante del concepimento. Ma come avviene l’atto principale della generazione? Cecco lo descrive nella sesta sestina:
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[807-812] Di doppio seme si fa corpo humano / le vestite ossa della carne pura: / ciò fa el soperchio de lo tempo sano. / Lo spirto del padre, che ne lo sperma / sempre operando, le membra figura, / le molli parti per potentia ferma.
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Il concepimento avviene per l’unione di due semi, maschile e femminile. Ciascun seme ha una determinata funzione: al seme femminile compete la formazione delle ossa e della carne, la virtù formativa del padre presente nello sperma maschile attualizza e configura ciò che è in potenza nel seme femminile. In questi versi Cecco sintetizza un lungo e articolato dibattito sulla questione principale dell’embriologia scolastica, relativa al reale contributo femminile alla generazione, che oppone nuovamente le due teorie embriologiche, quella medica e quella filosofica. La teoria medica, derivata dalla tradizione ippocratico-galenica, sosteneva che il maschio e la femmina contribuiscono entrambi attivamente alla generazione, ciascuno con un proprio sperma; all’opposto, la teoria filosofica sosteneva, aristotelicamente, la separazione biologica e metafisica dei due principi della generazione: cioè solo il maschio possiede il seme, veicolo del principio formale e attivo, mentre la femmina fornisce solo il principio materiale, passivo, identificato con il sangue mestruale. La posizione della medicina scolastica a questo proposito, rappresentata nel caso di Bologna dai principali maestri dell’Università, registra un’adesione unanime alla teoria aristotelica, ma con una varietà di sfumature linguistiche caratteristiche e significative. Le parole usate da Cecco, che alludono ad un “doppio seme”, non rimandano alla teoria galenica, bensì sembrano adottare la soluzione introdotta da Avicenna nei suoi scritti biologici12, che manteneva la denominazione di “sperma” o “seme” anche per il contributo femminile e che tanta
12
Cfr. Avicenna, De animalibus, in Avicennae … Opera Philosophica, Venetiis 1508, Frankfurt a. M. 1961 (ristampa anastatica), lib. IX, c. 3, f. 42rb: «Tunc illa humiditas quae est in mulieribus non dicetur recte nomine spermatis […] et si dicatur sperma, illud erit aequivocum in nomine».
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fortuna ebbe in tutta l’embriologia medievale, perché permetteva di “conciliare” le due posizioni embriologiche in contrasto e quindi di evitare un problematico conflitto dottrinale tra le due massime auctoritates della medicina scolastica, in questo caso Aristotele e Galeno. La littera del testo avicenniano infatti manteneva il termine di “sperma femminile” per designare in realtà il sangue mestruale, cioè la materia della generazione, il contributo femminile a tale processo, secondo Aristotele. Si trattava quindi di una concessione puramente verbale alla teoria dei due semi. Che il principio femminile della generazione sia la materia mestruale, come voleva Aristotele, e non la secrezione emessa dall’organo genitale, come pensava Galeno, è chiaramente affermato da Cecco nei versi seguenti: [813-818] De lo soverchio che da donna muove / pascesi creatura, non per bocha; / e ciò si mostra per l’antiche pruove. / Per l’ombellicho va ciò che nutrìche, / stando ligato sì che le ven[e] tocha: / ma scolta come sta nel corpo im plicha.
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Il mestruo femminile, che nella donna è l’ultimo residuo della digestione, è la superfluitas, forma latina del “soverchio”, sangue concotto, che diventa anche nutrimento del feto, attraverso l’ombelico. Secondo la spiegazione fisiologica galenica del processo della digestione, confluita nella medicina medievale, il sangue, che è il prodotto della nutrizione, attraversa quattro stadi che corrispondono a quattro gradi successivi di purificazione. Nell’ultimo stadio il sangue risulta più digerito e più puro, per questo diventa nella donna la materia costitutiva del feto e il suo nutrimento, passando attraverso il condotto ombelicale. Cecco descrive poi la posizione che assume il feto nell’utero:
[819-824] Sta genuflexo cum l’archato dosso, / le man’ tien allegate in fra le cosse / sopr’a calcagni, si com[o] veder posso; / verso di noi sono le spalle vòlte. / Così natura inform’a le mosse, / per più salute, le membra racolte.
Il feto nell’utero sta raccolto, con le mani tra le cosce sopra i talloni. È questa la posizione più favorevole al parto. Questa descrizione si trova nel cap. VII della Historia animalium13 di Aristotele, ma la si può trovare in tutti i testi dell’embriologia scolastica, a cominciare dal De animalibus di Alberto Magno, opera medico-biologica in ventisei libri che è un’ampia parafrasi alle opere biologiche aristoteliche14.
13 14
Cfr. Aristoteles, Historia animalium, VII, 8, 586b. Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI, a cura di H. Stadler, «Beiträge zur Ge-
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Questo commento contiene nei libri IX e XV una dettagliata trattazione degli argomenti relativi alla generazione umana che potrebbe essere stata la fonte principale di Cecco per gran parte di questo capitolo, come si evince anche dall’ordine degli argomenti da lui introdotti, che segue quello di Alberto. Cecco descrive ora l’anatomia dell’utero femminile come suddiviso in sette cavità, che possono ospitare fino a sette feti: [831-836] Septe ricepti per ciaschum pianeta / son nella madre, però septe nati / nascer posson, como vidi a Leta. / Questo adivene per lo molto seme, / et ancho per li segni gemminati, / quando li lumi si giongono insieme.
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Nel celebre trattato anatomico di Mondino de’ Liuzzi del 1316 vi è una descrizione dell’utero femminile suddiviso in sette cavità15, basata sull’opera pseudo-galenica De spermate, che ebbe una certa diffusione tra gli autori di opere embriologiche, tra cui lo stesso Egidio Romano, che la cita nel suo trattato De formatione humani corporis in utero, scritto nell’ultimo decennio del Duecento16. Le due successive sestine sono dedicate al tema della nascita e al tempo del parto. In esse si trova enunciata la teoria astrologica che lega il dominio dei sette pianeti alle fasi di formazione del feto nell’utero:
[837-842] Nel nono mese vien nel mondo lustro, / per la vertù che segnoreçia Iove. / Perché di septe vive, ciò ti mostro: / la Luna in questo mese à signoria; / benignità in creatura piove, / natura confortando tuta via. [843-848] Ma ne l’octavo che’n chi nasce mòre, / che ‘l segnoregia quella stella trista / che per fredeza trahe l’alma del core. / Ciaschum pianeta spira nel suo mese, / fin che vien a luce la creata vista: / così natura in ciò l’ordene prese.
Come è noto, il tempo ottimale per il parto è il nono mese, quando domina Giove, pianeta caldo e umido, ma anche il feto che nasce al settimo
schichte der Philosophie», 15-16 (1916), p. 701: «Animal autem bipes stat in matrice incurvatum, sicut aves stant in ovo et homo in matrice: haec enim incurvata stant in matrice, ita quod nasus hominis est inter genua sua et oculi eorum supra genua et aures extra genus sua». 15 Cfr. Mondino de’ Liuzzi, Anothomia, a cura di P.P. Giorgi - G. Pasini, Bologna 1992, pp. 246-248: «Concavitas vero eius habet septem cellulas, tres in parte dextra et tres in sinistra et unam in summitate sive medio eius, et istae cellulae non sunt nisi quaedam concavitates in matrice existentes, in quibus potest sperma coagulari cum menstruo et contineri et alligari orificiis venarum». 16 Nel 1317 viene tradotto dal greco il De usu partium - cfr. Martorelli Vico, Medicina e filosofia cit., p. 94, nota 3 -, autentica opera galenica, in cui Galeno, a proposito dell’utero del-
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mese sopravvive, perché domina la Luna, che è sì fredda, ma umida. Ma i feti nati nell’ottavo mese non vivono perché nascono sotto il dominio di Saturno, che è freddo e secco, quindi in nessun modo è favorevole alla vita. Questa teoria astrologica, ben documentata in tutta la letteratura embriologica medievale e conosciuta attraverso il Libellus ysagogicum di Alcabitius, è stata riportata in modo dettagliato da Egidio Romano nel De formatione17 e da Mondino de’ Liuzzi nel suo commento al De generatione embrionis18. Parafrasando Alberto Magno19, Cecco descrive nelle seguenti sestine la teoria della super-fetazione, di cui parla già Aristotele20 e largamente recepita nella letteratura embriologica:
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la donna, parla invece di due cavità. Questa correzione viene registrata da Mondino nel suo commento al De generatione embrionis di Avicenna - cfr. R. Martorelli Vico, La medicina scolastica tra galenismo e aristotelismo, «Studi Medievali», 41 (2000), pp. 326-327 -, ma non viene recepita nella letteratura medica scolastica, tanto che ancora oltre un secolo dopo il medico ferrarese Michele Savonarola nel suo manuale di ginecologia parla di sette cavità, cfr. M. Savonarola, Ad mulieres ferrarienses de regimine pregnantium et noviter natorum usque ad septennium, a cura di L. Belloni, Milano 1952, p. 27. 17 Aegidius Romanus, De formatione humani corporis in utero, in Aegidii Romani Opera Omnia, III/3, a cura di R. Martorelli Vico, in corso di stampa, cap. XVI: «Posuerunt enim quidam astronomi quod in omni coniunctione primo mense dominatur Saturnus et sic deinceps descendendo secundum ordinem planetarum. Et quia Luna tenet locum septimum et ultimum inter planetas, ideo septimo mense […] dominabitur Luna et quia, completo numero planetarum revertitur dominium secundum circulum, in octavo mense dominabitur Saturnus, in nono Iuppiter […] Dicunt ergo isti quod nati in septimo mense nascuntur sub dominio Lune. Et quia Luna est frigida et humida, licet ratione frigiditatis sit causa mortis, ratione tamen humiditatis est causa vite, ut sic nati vivere possint. Sed nati in octavo nascuntur sub dominio Saturni qui est frigidus et siccus, ideo nullo modo est causa vite. Nati autem in nono nascuntur sub dominio Iovis qui est calidus et humidus et quia in calido et humido consistit vita ideo, ut dicunt, tales potissime vivunt». 18 Mondini de Leuciis Expositio super capitulum De generatione embrionis (…), a cura di R. Martorelli Vico, Roma 1993, pp. 89-90, ll. 413-461: «Et tunc si fetus nascitur sub dominio planete dantis vitam, ideo vivet, si autem non morietur. Sed in primo mense […] dominatur tunc Saturnus […] In secundo vero mense dominatur Iuppiter qui calidus est et humidus […] In 3° vero mense dominatur Mars qui est planeta valde furiosus […] Postea vero in septimo mense dominatur Luna que est domina humiditatum, et […] fetus […] si exit, poterit vivere […] Sed si vero egrediatur post, in octavo mense, regreditur dominium ad primum planetam, scilicet ad Saturnum qui […] prohibet partum. Et tunc si nascitur, fetus non vivet […] In nono vero mense dominatur Iuppiter [ed. Venus] qui calidus est et humidus, convenientiam habens cum principio vite que sunt caliditas et humiditas, quare si tunc fetus nascatur vivere potest». 19 Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI cit., p. 694: «Mulieribus autem aliquando accidit impraegnari una impraegnatione post aliam: et retinent aliquando utramque impraegnationem, nisi secunda impraegnatio fit spatio magno temporis post primam». 20 Cfr. Aristoteles, Historia animalium, VII, 4, 585a.
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[849-854] Quando conceve la madre si strenge, / ch’entrar no vi porìa la punta d’acho: / così Saturno sua virtù l’impenge. / Ben si può aprire per nuovo disio, / come divenne a Lixe dal Lacho, / che fe’ duo nati là dov’era io. [855-860] Uno nel nono e l’altro fie nel diece, / qual fu concèpto nel tempo serrato, / quando alla voglia süa satisfece; / per gram volere de l’acto carnale, / si gemina ‘l concepto già creato, / quando alla donna ben d’amor le cale.
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Dopo il concepimento l’utero si chiude serrandosi a tal punto che non vi potrebbe passare la punta di un ago21, ma si può riaprire per il desiderio di un nuovo rapporto. A causa di questo doppio, ma non simultaneo, concepimento, può accadere che nella stessa donna un feto nasca nel nono mese, l’altro nel decimo. Con questa teoria si cercava di spiegare la formazione dei gemelli e i parti inconsueti, come documentano gli aneddoti riportati da Alberto Magno22.
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[861-866] El nato porta del padre semeglia, / quando lo seme della donna è vénto: / in tanto nasce la viril famiglia. / Ciò se converte dal contrario senso / quando è .llo nato da parenti spénto: / el doppio sperma fu dal cielo offenso.
Il nato somiglia al padre quando il seme femminile è vinto da quello maschile, nasce così prole mascolina, e viceversa. Con questi versi Cecco accenna alla ben nota teoria della somiglianza del feto ai genitori, argomento decisivo dell’embriologia medica per provare l’esistenza di un seme femminile dotato di potere attivo. Qui Cecco accoglie l’interpretazione aristotelica di tale argomento, o più esattamente dell’aristotelismo medico, secondo cui la somiglianza del feto alla madre, teoricamente impossibile (sulla base del principio formulato da Aristotele nel I libro del De generatione animalium, secondo cui ciò che genera, genera sempre qualcosa di simile a sé), di fatto si verifica a causa della debolezza del seme maschile e/o a causa della resistenza che la materia oppone ad essere da esso informata. Seguendo la sua fonte23, Cecco completa la serie degli argomenti embriologici che descrivono in modo completo il processo della generazione introducendo un ultimo tema:
21 Esattamente così si esprime Avicenna, Canon medicinae, Venetiis 1507, Hildesheim 1964 (ristampa anastatica), lib. III, fen. XXI, I, 1, f. 360vb: «Post receptionem spermatis viri ita clauditur matrix ut nullum acumen corporis possit ibi intrare». 22 Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI cit., pp. 695-697. 23 Ibid., p. 699.
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[867-872] El forte imaginar fa simil vólto / quando è la donna nel disio d’amore / tenendo l’uomo nella mente occulto. / Simile cielo fa simille aspetto: / natura, se non perde il suo valore, / lo imaginar fa caso, e vede effecto.
Il nato somiglia ad un estraneo quando la donna durante il rapporto immagina il volto di un altro uomo. Argomento che spiega la somiglianza del feto a persone diverse dai genitori ma che allude anche al tema psicologico/fisiologico del potere dell’immaginazione e degli accidenti dell’anima che causano mutamenti nel corpo, temi già presenti negli scritti biologici di Aristotele e recepiti in tutta la letteratura embriologica.
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L’idea della generazione naturale presentata da Cecco in questo testo è dunque quella “istituzionale”, “ufficiale”, stabilita dalla medicina scolastica degli inizi del XIV secolo, in cui prevale il modello filosofico aristotelico, che separa in modo netto, dal punto di vista metafisico e biologico, i due principi della generazione, quello maschile e quello femminile, la forma e la materia, cioè lo sperma e il mestruo. Ma anche le idee sulla generazione straordinaria, sebbene penalizzate da una minore visibilità, erano quasi sempre conoscibili attraverso testi “accreditati”, come fonti bibliche, patristiche, commenti scolastici a testi astrologici ecc. Cecco mostra altresì di conoscere gli aspetti e gli argomenti più caratteristici di queste dottrine sulla generazione e li espone con un linguaggio didascalico che esprime bene la certezza di un ordine fisico e naturale che l’intero processo sottende. Alcuni di questi argomenti hanno dato origine ad un intenso ed articolato dibattito tra teologi, filosofi e maestri di medicina, ben documentato in tutta la letteratura embriologica di questo periodo. Ovviamente nei versi di Cecco non troviamo traccia della disputa embriologica tra medici e filosofi, ma possiamo constatare la registrazione di un accurato resoconto circa l’esito finale di tale disputa, che vede prevalere, almeno nelle sedi “istituzionali” (libri di testo e reportationes di lezioni magistrali), i filosofi sui medici. Nell’esposizione embriologica di Cecco mi sembra che predomini, com’è naturale, il suo interesse astrologico sul punto di vista medico, tuttavia si pone senz’altro come rilevante il problema dell’origine delle sue fonti mediche. Come è ben noto, già dalla fine del XIII secolo è attiva nello Studium bolognese, dal punto di vista sia istituzionale che dottrinale e professionale, la celebre Scuola medica legata al nome di Taddeo Alderotti e ai suoi allievi24.
24
Cfr. N. Siraisi, Taddeo Alderotti and his pupils, Princeton 1981.
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La storia di tale Scuola si intreccia in modo profondo con la storia istituzionale della facoltà delle Arti, in cui si trova ad operare anche Cecco. La medicina bolognese degli inizi del Trecento si configura come una disciplina ben strutturata dal punto di vista dell’insegnamento, con un considerevole corpus di testi autorevoli e di studi interpretativi in costante aumento, ad opera dei maestri dello Studio. In questa particolare situazione culturale anche i temi embriologici e le relative teorie diventano oggetto di lezioni accademiche e si rivelano un terreno fecondo per approfondire i legami intellettuali tra la medicina e le altre discipline delle Arti. Tra i maestri di medicina attivi all’università di Bologna in questo primo quarto del Trecento, due in particolare si sono occupati di embriologia, sia nell’insegnamento accademico sia per la produzione di testi su questo argomento. Si tratta del medico fiorentino Dino del Garbo, che nel 1310 scrisse un commento ad un trattato embriologico attribuito ad Ippocrate, il De natura fetus, e Mondino de’ Liuzzi, medico bolognese, autore del già ricordato commento al capitolo embriologico del Canon di Avicenna, il De generatione embrionis, del 131925. Tutte e due le opere sono commenti magistrali a testi inclusi nel curricolo di medicina e contengono e discutono tutti i temi dell’embriologia scolastica. Non so se Cecco possa aver conosciuto queste opere di prima mano; cronologicamente avrebbe avuto la possibilità di assistere alle lezioni di Mondino, che rimase a Bologna fino al 1326. Certamente l’esattezza dottrinale del suo resoconto embriologico ci fa riflettere e ci offre un’ulteriore conferma, innanzitutto dell’esistenza di un’autentica circolazione di uomini ed idee all’interno della facoltà delle Arti, come molti studi26, anche recenti, hanno mostrato; in secondo luogo, del riverbero e dell’afflato profondo che idee così suggestive e affascinanti, come sono quelle legate ai tentativi di spiegare i misteri della generazione, hanno suscitato; ma soprattutto dell’autentica curiosità intellettuale di un personaggio come Cecco d’Ascoli, senza dubbio ispirata e alimentata dalla consapevolezza dei nessi profondi che legavano i diversi saperi naturalistici, variegati e multiformi, così ben evidenziati da tutta la filosofia naturale di epoca scolastica. Per concludere, non mi sembra fuori luogo riprendere il convincimento espresso dall’umanista Pietro Pomponazzi il quale, dopo aver avvicina-
25 26
Cfr. Martorelli Vico, Medicina e filosofia cit., pp. 63-84 e 112-126. Si veda in particolare, J. Agrimi - C. Crisciani, Edocere medicos. Medicina scolastica nei secoli XIII-XV, Milano 1988; La filosofia nelle università (secoli XIII-XIV), a cura di L. Bianchi, Firenze 1997; Medical Latin from the late Middle Ages to the Eighteenth century.
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to i racconti e le leggende che correvano intorno a Cecco d’Ascoli e a Pietro d’Abano (il cui itinerario intellettuale ha molte analogie con quello dell’Ascolano), dimostra come certi uomini colti, che furono accusati dai loro contemporanei di essere maghi e negromanti, operassero in realtà secondo la scienza naturale e l’astronomia27.
Proceeding of the European Science Fondation Exploratory - Workshop in the Humanities, Bruxelles 2000; Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita. Atti dell’XI convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), a cura di C. Crisciani - R. Lambertini - R. Martorelli Vico, Pisa 2004. 27 Citato in A.M. Partini - V. Nestler, Cecco d’Ascoli un poeta occultista medievale, Roma 1979, p. 26.
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1. L’insegnamento dell’astrologia a Bologna prima di Cecco 2. Astrologia e politica. Cecco a Bologna 3. Le “eresie” di Giovanni XXII, Accursio Bonfantini e la fine di Cecco
1. L’insegnamento dell’astrologia a Bologna prima di Cecco Dai primi anni del Duecento, un secolo circa prima dell’arrivo di Cecco, l’università di Bologna rappresentava un centro di primo piano della cultura astronomica ed astrologica europea. In quell’epoca si colloca, se si vuole accogliere questa tradizione storiografica, in realtà piuttosto controversa, l’insegnamento bolognese di Guido Bonatti1. E comunque, per tutto il Duecento e nei primi decenni del Trecento lo Studium conserva ed incrementa il proprio prestigio in questo settore, potendo vantare una sequenza ininterrotta di figure scientifiche e didattiche di alto livello, una costante e numerosa presenza studentesca, un mercato librario fiorente, in grado di fornire agli studenti i principali libri di testo. Il primo personaggio di rilievo sulla cattedra bolognese di astrologia, secondo una linea interpretativa recentemente riaccreditata, è appunto Guido Bonatti, che dopo aver seguito qui il corso di studi vi avrebbe tenuto l’insegnamento negli anni Trenta del XIII secolo2. È quantomeno veri-
1
Su Guido Bonatti si può vedere la densa e documentata voce biografica curata da C. Vasoli, Bonatti, Guido, in Dizionario biografico degli italiani, 11 (1969), pp. 603-608. Sulla cattedra bolognese di astronomia dalle origini al Novecento, si veda la recente sintesi di F. Bònoli - D. Piliarvu, I lettori di astronomia presso lo Studio di Bologna dal XII al XX secolo, Bologna 2001. 2 Ibid., pp. 39-43.
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simile che a Bologna Guido abbia anche allacciato importanti relazioni culturali e politiche, con Pier delle Vigne ad esempio, che valsero ad introdurlo come astrologo di successo, prima alla corte di Federico II, poi presso i maggiori signori ghibellini dell’epoca: Ezzelino da Romano e Guido da Montefeltro. Oltre che per il contributo scientifico indiscusso, legato ai contenuti del suo Tractatus de Astronomia, il ruolo di Guido Bonatti fu decisivo soprattutto per gli spazi di prestigio che seppe aprire alla propria disciplina, affermandosi come consulente astrologico della maggiori autorità politiche dell’epoca, soprattutto in campo ghibellino. Questa tradizione scientifica e didattica trova continuità grazie alle figure di rilievo che si succedono nel corso del Duecento sulla cattedra bolognese: Gherardo da Sabbioneta, maestro negli anni Cinquanta, autore di una Theorica planetarum, opera di ampia diffusione e di notevole importanza negli sviluppi delle teorie astronomiche; Bartolomeo da Parma, la cui attività didattica è documentata per gli anni 1280-1297; Pietro di Dacia, anch’egli maestro nei primi anni Novanta3. La fama di Bartolomeo è legata sia ad opere di carattere astrologico e geomantico, come il Liber de occultis del 1280 e l’Ars geomantiae, testi di grande successo e adottati per l’insegnamento agli studenti di medicina, sia e soprattutto al Tractatus de Sphera, ponderosa opera di argomento astronomico, pubblicata nel 1297, che però affronta anche argomenti delicati, su cui avremo occasione di tornare, come l’oroscopo di Cristo. Si affianca per qualche anno a quello di Bartolomeo l’insegnamento di Pietro di Dacia, personaggio oscuro nei dati biografici, ma documentato a Bologna per gli anni 1291-1292, cui sono attribuiti calcoli astronomici importanti in ordine alle posizioni lunari e al calendario, tramandati da più di 200 manoscritti conservati in numerose biblioteche europee. Al secolo successivo Bologna si accosta sotto il segno dell’astrologia pratica. Gli ambienti universitari sono cioè dominati da personaggi che mettono costantemente al centro dei loro interessi le implicazioni politiche e mediche della disciplina: è il caso di Giovanni da Luni, Pietro d’Abano, Taddeo da Parma e Cecco d’Ascoli4. Giovanni da Luni, lettore di Astrologia e Medicina nel 1302, era anche consulente delle autorità comunali, così come i successori Pietro d’Abano, il cui insegnamento nel 1305 non è in realtà documentato con certezza, e Taddeo da Parma, lettore verso il 1318. Figure di primissimo piano, queste ultime: Pietro soprattutto nel campo della medicina aristotelica e delle sue implicazioni astrologiche, cui sono
3 4
Ibid., pp. 43-51. Ibid., pp. 57-64.
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dedicati il Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum ed il Lucidator astrologiae; Taddeo apprezzato divulgatore e commentatore della Theorica planetarum di Gherardo da Sabbioneta, di cui sviluppa in particolare le implicazioni mediche e astrologiche. Nella biblioteca dello studente di medicina e arti, impegnato nei corsi propedeutici di astrologia, si alternavano in quegli anni numerosi testi di diverso livello: dai più semplici Elementa Astronomiae di Alfragano, all’ostico Almagesto di Tolomeo. Riferimenti fondamentali per tutto il Duecento e nei primi decenni del Trecento rimarranno comunque la Theorica planetarum di Gherardo da Sabbioneta e il Tractatus de sphera mundi dell’inglese Giovanni da Sacrobosco, così come il De principiis astrologiae di Alcabizio. Elemento costante attraverso i decenni e nella grande varietà dei livelli scientifici è la stretta connessione didattica e pratica fra dottrine astronomiche da un lato, e quindi osservazione dei moti celesti e calcoli di grande complessità realizzati con strumenti spesso piuttosto evoluti, come quelli approntati da Pietro di Dacia verso il 1290, e attività geomantiche e divinatorie dall’altro. Queste implicazioni della disciplina e la pratica diffusissima, universale anzi, dell’astrologia giudiziaria, mettevano i cultori accademici di astrologia in una posizione complessa e delicata: offrivano loro eccellenti opportunità di successo mondano, grazie al ruolo di consulenza delle autorità, che nulla intraprendevano, in campo politico-amministrativo e militare, senza adeguato sostegno di perizie astrologiche, ma d’altro canto li poneva, almeno teoricamente, in aperta contraddizione con la dottrina cattolica in materia di astrologia e libero arbitrio. Dal punto di vista teologico, la materia era stata organizzata nel secolo XIII in modo sistematico dall’opera di Tommaso d’Aquino, che aveva affrontato il problema in numerosi passi della Somma teologica, nella Somma contro i pagani ed in uno specifico trattato: De sortibus. E il ruolo di Tommaso era stato decisivo nel tracciare un solco netto e invalicabile sul piano dottrinale fra l’astrologia lecita, in quanto naturale ed impegnata nello studio degli influssi astrali sugli organismi viventi, e l’astrologia giudiziaria e divinatoria, illecita in quanto basata sul determinismo zodiacale e sulla pretesa che l’influsso astrale risulti decisivo anche rispetto alle inclinazioni etiche, con una inaccettabile limitazione della libertà divina e umana5.
5
Sulla sistemazione dottrinale dell’astrologia nell’ambito della Scolastica, si veda P. Zambelli, Albert le Grand et l’astrologie, «Recherches de théologie ancienne et médievale», 49 (1982), pp. 141-158. Più in generale sul ruolo dell’astrologia nella cultura filosofica e scientifica del Medioevo, v. L. Thorndike, The true place of astrology in the history of science, «Ibis», 46 (1955), pp. 273-238; S.J. Tester, A history of western astrology, Woodbridge 1987; Astrology, science and society. Historical essays, a cura di P. Curry, London 1987.
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Ai tentativi di sistemazione dottrinale cattolica, i cultori delle discipline astrologiche opponevano a loro volta una resistenza sempre più attrezzata sul piano filosofico, grazie al contributo della scienza araba e dell’aristotelismo radicale. Tanto che numerose tesi astrologiche rientrarono a pieno titolo fra le opinioni condannate nel 1277 dal vescovo parigino Stefano Tempier. Ad esempio la tesi 207: «Quod in hora generationis hominis in corpore suo [...] ex ordine causarum superiorum et inferiorum inest homini dispositio inclinans ad tales actiones vel eventus. Error, nisi intelligatur de eventibus naturalibus et per viam dispositionis»6. Tutta la tradizione scientifica e accademica e tutta la pratica astrologica di consulenze e perizie del Duecento e del primo Trecento, a Bologna e altrove, si svolge in aperta e clamorosa violazione di queste censure ecclesiastiche. A partire dal Tractatus de Astronomia di Guido Bonatti, che secondo Thorndike fu pubblicato negli anni successivi al 1277, e quindi dopo che la condanna parigina era già stata pronunciata, e tuttavia si dimostra totalmente indifferente a quelle ufficiali prese di posizione7. Guido dedica infatti otto dei dodici libri del Tractatus all’astrologia giudiziaria, nelle sue quattro tradizionali ripartizioni, tre delle quali (predizioni, elezioni, natività) certamente intrise di dottrine eterodosse. Ma tutto il trattato è intessuto fittamente di clamorose limitazioni zodiacali del libero arbitrio umano e divino, e di ripetute polemiche e sarcasmi feroci contro la teologia cattolica ed il ruolo ecclesiale degli ordini mendicanti; dei Francescani in particolare Guido prevede l’imminente soppressione. Sotto questo segno di estrema libertà intellettuale rispetto all’ortodossia teologica nasce la tradizione culturale dell’astrologia universitaria bolognese; e tale si mantiene fino a Cecco, il quale peraltro non fu certo fra i più radicali ed arditi esponenti di quella scuola. 2. Astrologia e politica. Cecco a Bologna
Tradizioni accademiche, ma non solo: la cultura astrologica aveva, si è visto, rilevantissime implicazioni politiche. Non solo perché gli astrologi erano ricercati consulenti di autorità politiche, guelfe e ghibelline, comunali e signorili, ma perché la stessa cultura dei ceti di governo, la prassi amministrativa e legislativa erano intrise di sensibilità astrologica e di dottrine tal-
6 H. Denifle, Chartularium Universitatis Parisiensis, I, Paris 1891, p. 555. 7 L. Thorndike, A history of magic and experimental science, voll. 6, II, New York 1953,
pp. 825-835; Vasoli, Bonatti, Guido cit., p. 606.
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volta apertamente eterodosse. Leggiamo ad esempio una rubrica degli Statuti bolognesi del 1288 sull’elezione degli anziani e consoli, vertici delle società popolari e coordinatori dell’intero impianto istituzionale del comune. Trattando il tema del ruolo repressivo che questi ufficiali devono esercitare nel consorzio civile, il legislatore introduce la norma con un’interessante osservazione astrologica: «Quia quosdam datos ad comovendos actus abviosos sub iniqua superiorum corporum dispositione produxit [natura], merito concessit hominibus rationalis gubernationis eternitas unum pluribus libertate dominii presidere, ut, equa lance cuncta preponderans, congruentibus penis et premis cunctorum actus levet et opprimat»8. In una prospettiva piuttosto ardita, dunque, la necessità dell’apparato repressivo viene ricondotta all’influsso dei corpi celesti, che per una negativa congiunzione (iniqua dispositio) può determinare in alcuni individui una inclinazione a commettere atti trasgressivi (actus abviosos). Sembra evidente che la legislazione statutaria bolognese propone qui una versione del determinismo zodiacale ancor più radicale di quella condannata a Parigi nel 1277, che parlava di una dispositio inclinans ad tales actiones, mentre qui si dice con chiarezza inoppugnabile che una certa congiunzione astrale può produrre individui dati a commettere determinate azioni. Ne possiamo dedurre quantomeno che il clima culturale in cui si muove il legislatore bolognese di fine Duecento accoglie a pieno titolo fra le sue componenti dosi massicce di astrologia giudiziaria, o, in altri termini, che la classe di governo del comune bolognese non temeva di manifestare apertamente, in un testo normativo di intenso valore ideologico come sono gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi, le proprie opinioni astrologiche, pure in aperta contraddizione con l’ortodossia dottrinale e la normativa canonistica. È certamente azzardato sostenere che questa sia una realtà tipicamente bolognese, senza aver compiuto esaurienti sondaggi documentari; possiamo però osservare come nella legislazione fiorentina di quegli anni, per altri versi assai legata a quella bolognese, gli Ordinamenti di giustizia del 1293-1295, così come gli Statuti del Podestà e del Capitano del 1325, non si trovi alcuna traccia di riferimenti a dottrine astrologiche9.
8 Statuti di Bologna dell’anno 1288, a cura di G. Fasoli - P. Sella, Città del Vaticano 19371939, voll. 2, I, p. 472. 9 Ordinamenta iustitiae comunis et populi Florentiae anni 1293, a cura di F. Bonaini, «Archivio storico italiano», n. ser., 1 (1855), I, pp. 9-93; Gli ordinamenti di giustizia del 6 luglio 1295, in G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze 1899, Appendice, n. XII; Statuti della Repubblica fiorentina. Statuto del Podestà del 1325, a cura di R. Caggese, Firenze 1921; Statuti del Capitano del Popolo di Firenze, a cura di G. Pinto, Firenze 1999.
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Ambiente d’elezione di questa sensibilità così pervasiva era la facoltà di Medicina e arti dello Studium, che accoglie Cecco, studente e poi giovane maestro, fra il 1310 e il 1320. Dopo aver seguito, assai probabilmente, le lezioni di Liuzzo de’ Liuzzi, ed aver avuto compagni di studio che poi gli saranno colleghi, come Mondino, nipote di Liuzzo, ed Angelo d’Arezzo, Cecco ottiene la prima lettura straordinaria nel 1320, quando commenta Ippocrate e la Logica di Aristotele per gli studenti di medicina. Nel 1322 passa alla lettura di astrologia e commenta la Sfera del Sacrobosco per gli studenti del primo anno; nel 1323-1324 ottiene la prima promozione, passando al corso degli studenti seniores, ma ancora come lettore straordinario, con uno stipendio onorevole ma non eccezionale di 100 lire, e commenta il De principiis astrologiae di Alcabizio. Nel 1325-1326, infine, il passaggio decisivo, lo scatto di carriera grazie al quale ottiene la lettura ordinaria; e da ordinario di astrologia Cecco commenta quell’anno il testo fondamentale della cultura astronomica medievale, l’Almagesto di Tolomeo10. Mettiamo a fuoco l’obiettivo su questa carriera. La sua rapidità e la sua repentina interruzione si spiegano assai meglio sul piano politico che su quello culturale e accademico. Dal punto di vista dei contenuti dottrinali, sia il commento al Sacrobosco, che, a maggior ragione, quello all’Alcabizio, non contengono opinioni particolarmente ardite in ambito astrologico o geomantico, e comunque nulla di paragonabile alle esplicite negazioni del libero arbitrio e all’esaltazione delle attività divinatorie, proposte da opere di amplissima diffusione come quelle di Guido Bonatti o di Bartolomeo da Parma, lette e commentate da decenni nelle aule bolognesi11. Al contrario: affiora ripetutamente nelle opere di Cecco l’intento di armonizzare i risultati della ricerca scientifica con le superiori verità di fede, facendo salva ad esempio, sempre e comunque, la libertà della potenza divina, che può mutare in ogni momento l’ordine naturale e quindi il senso degli influssi astrali sul mondo sublunare. Rispetto alla tradizione universitaria bolognese, l’astrologia di Cecco potrebbe quindi, con qualche approssimazione, definirsi moderata quanto ai contenuti. Osservando invece le implicazioni politiche della disciplina, il coinvolgimento dell’astrologia nelle questioni di governo, sembra che quella stessa tradizione venga, dal maestro ascolano, portata alle estreme conseguenze.
10 Per una rapida sintesi sulla biografia e la carriera accademica di Cecco e per i necessari riferimenti ad una ricca bibliografia, mi permetto di rinviare a M. Giansante, Cecco d’Ascoli. Il destino dell’astrologo, «Giornale di Astronomia», 23 (1997), pp. 9-16. 11 Sul commento di Cecco al Sacrobosco, si veda The Sphera of Sacrobosco and its com-
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Non solo e non tanto per la pratica dei pronostici, che pure Cecco elaborava, con alterno successo, per le autorità comunali, quanto per un suo più profondo coinvolgimento nella logica degli schieramenti in atto in quei decenni a Bologna. In quella dinamica Cecco entra apertamente e ripetutamente, prendendo posizione senza ambiguità e scegliendo per due volte la parte perdente: sul piano della politica interna, quella popolare rispetto a quella aristocratica; in ambito internazionale la parte filoimperiale rispetto a quella pontificia. Scelte che oggi potremmo definire frutto di onestà intellettuale, ma che all’epoca risultarono fatali a Cecco, perché la prima lo indusse ad abbandonare Bologna, che gli era sempre stata ospitalissima, e che nonostante tutto forse lo sarebbe stata ancora, mentre la seconda, la scelta ghibellina o comunque antipontificia, fu causa non secondaria della sua rovina.
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Le simpatie di Cecco per la parte popolare di Bologna, che in quei decenni implicavano un’adesione alle istituzioni repubblicane del comune di popolo, si esprimono col tipico linguaggio della sua disciplina nel commento all’Alcabizio, trattando il tema dell’oroscopo delle città, già ripetutamente affrontato nelle opere di Guido Bonatti e dei maestri bolognesi del Duecento, e del resto elemento tradizionalissimo dell’astrologia giudiziaria. A proposito della congiunzione astrale che aveva presieduto alla fondazione di Bologna, dice Cecco nel commento all’Alcabizio:
Et quia Bononia fuit edificata sub tauro, qui est exaltatio lune et domus veneris, et sunt stelle fixe, idcirco hic populus regnat et regnabit in futurum, quia luna significat populum et quia ascendens nobilium scilicet medium celi est aquarius domus saturni et saturnus fuit impeditus in edificatione quod patet per effectus, idcirco nobiles sunt nullius valoris. Unde regnabit populus, deprimentur nobiles, vigebunt tripudia, luxuria, cantus, et numquam destruetur Bononia sed marcescet12.
Assumendo queste posizioni, Cecco offriva un aperto ed autorevole sostegno alle istituzioni popolari, nel conflitto politico e sociale che da decenni le opponeva al ceto magnatizio bolognese. La massima espressione di quel conflitto, e il punto più alto raggiunto dall’egemonia popolare in quelle dinamiche, era rappresentato dalla legislazione del 1282-1285, quegli Ordinamenti sacrati e sacratissimi poi accolti negli Statuti del 1288 che,
mentators, a cura di L. Thorndike, Chicago 1949, pp. 344-411. Il commento all’Alcabizio è edito in Il commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, a cura di G. Boffito, «La Bibliofilia», 5 (1904), pp. 333-350; 6 (1904), pp. 1-7, 53-67, 111-124, 283-291. 12 Ibid., 6 (1904), pp. 60-61.
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si è visto, trovavano anche nelle dottrine astrologiche un riferimento autoritativo, un repertorio cui attingere materiali retorici e ideologici utili ad inquadrare i provvedimenti antimagnatizi. La valorizzazione politica dell’astrologia era poi continuata e si era rafforzata nei primi decenni del Trecento, grazie all’opera di Giovanni da Luni e dello stesso Cecco. È dunque del tutto naturale che quest’ultimo abbia trovato nelle sue relazioni politiche, nel suo organico legame con le istituzioni comunali, la forza per superare senza gravi conseguenze il primo processo e la condanna inflittagli nel 1324 dall’inquisitore domenicano Lamberto da Cingoli. Oggetto di quell’intervento erano i contenuti del trattato De sphera, nel quale l’inquisitore bolognese, secondo la relazione che ne fa quello fiorentino nella sentenza del 1327, aveva riscontrato la presenza di numerose opinioni eterodosse, fra cui: 1. la congiunzione astrale al momento della nascita determina le condizioni di vita e di morte di ognuno; 2. sotto l’influsso dell’ottava sfera, cioè delle stelle fisse, e precisamente ogni quarto di rotazione della sfera, nascono uomini semidivini, destinati a mutare le leggi e le religioni, come Mosè, Ermete, Simon Mago, Merlino etc.; 3. l’oroscopo di Cristo determinò le sue condizioni di vita e di morte e la natura della sua predicazione; 4. è imminente la venuta dell’Anticristo, che sarà di nobili natali e di grande potenza e ricchezza; 5. le congiunzioni astrali alla nascita degli uomini di governo e alla fondazione delle città determinano le loro fortune politiche; 6. le inclinazioni morali degli uomini, come quelle naturali, sono determinate dallo zodiaco; 7. le arti magiche hanno grande potere sulle vicende umane, ma solo alcuni, fra cui lo stesso Cecco, sanno servirsene correttamente13. L’atteggiamento processuale di Cecco di fronte a queste accuse non ci è noto, dato che l’unico documento pervenutoci in proposito è la senten-
13 I numerosi esemplari della sentenza fiorentina del 1327, da cui derivano le informazioni sul precedente processo bolognese, sono quasi tutti assai tardi (secoli XVI-XVIII), ed inoltre le molte varianti fra un testimone e l’altro, anche su punti assai notevoli delle accuse, richiederebbero un approfondito studio filologico della questione. In via del tutto provvisoria, e con riferimento esclusivo ad alcuni punti chiave delle imputazioni, sono stati esaminati l’esemplare bolognese, pubblicato da G.A. Gentili, Un esemplare bolognese della sentenza capitale contro Cecco d’Ascoli “maestro d’errori”, «Rivista di storia delle scienze mediche e naturali», 45 (1954), pp. 172-187, e quelli fiorentini conservati presso la Biblioteca Nazionale, Mss., Fondo principale, II, 165; II, 168; II, IV, 321, 322, 331, 382.
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za del 1327, non quella del 1324, né tantomeno gli atti processuali. Comunque, avesse o no abiurato queste opinioni nel 1324, le conseguenze pratiche ed accademiche per lui furono minime, dato che nel 1325 la sua carriera bolognese registra, si diceva, il successo più rilevante con la promozione alla cattedra ordinaria. Ne dobbiamo dedurre che il comune bolognese, cui all’epoca spettava l’onere pecuniario e organizzativo del reclutamento dei lettori, non era in nulla condizionato dagli interventi dell’autorità ecclesiastica. Quelle condizioni politiche tuttavia, cui si può ricondurre tutta una serie di episodi di scarsa o tiepida collaborazione col tribunale inquisitoriale, se non di aperto boicottaggio delle sue sentenze, che si manifestano in quegli anni non solo a Bologna, ma anche a Bergamo, Mantova, Treviso, Orvieto e così via, quelle condizioni, si diceva, stavano rapidamente tramontando, purtroppo per Cecco e non solo per lui14.
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Gli anni Venti del XIV secolo sono per il comune di Bologna un periodo di grave crisi politica e istituzionale, che si apre con il tentativo criptosignorile del grande banchiere Romeo Pepoli, represso con la conseguente espulsione di tutta la fazione pepolesca nel luglio 1321. L’allearsi dei fuoriusciti con i nemici ghibellini della città favorì inevitabilmente le tendenze ultraguelfe già manifestatesi nelle istituzioni comunali. Ne derivava sul piano internazionale il coinvolgimento sempre più stretto di Bologna nell’alleanza guelfo-angioina, guidata da Firenze e dal legato pontificio Betrando del Poggetto, contrapposta all’alleanza ghibellina, costituita da Visconti, Scaligeri ed Estensi e guidata militarmente da Castruccio Castracani. Proprio contro Castruccio, ad Altopascio nel settembre 1325, Firenze e gli alleati guelfi avevano subito una grave sconfitta militare, e la stessa sorte toccò ai bolognesi nel novembre dello stesso anno a Zappolino, ad opera dell’esercito estense e visconteo. Fu, quella, una disfatta epocale per Bologna, con più di 3000 caduti sul campo ed oltre 1500 prigionieri; le conseguenze politiche furono gravissime e contribuirono ad accelerare la fine del regime comunale. Ottenuta una tregua, tutto il 1326 fu impiegato per far fronte all’emergenza militare e per rafforzare le relazioni diplomatiche con il legato pontificio, cui infine nel febbraio 1327 la città si offrì in piena signoria. L’otto febbraio 1327 il Con-
14 Sui rapporti fra inquisizione, società comunale e istituzioni a Bologna e in altre città dell’Italia centro-setterntrionale, si veda E. Duprè Theseider, L’eresia a Bologna nei tempi di Dante, in Studi in onore di G. Volpe, I, Firenze 1958, pp. 383-444, ora in E. Duprè Theseider, Mondo cittadino e movimenti ereticali nel Medioevo, Bologna 1978, pp. 261-315; M. Giansante, L’inquisizione domenicana a Bologna fra XIII e XIV secolo, «Il Carrobbio», 13 (1987), pp. 219-229.
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siglio del Popolo di Bologna, con 955 voti favorevoli e 3 contrari, sospendeva la propria attività decretando la fine del sistema repubblicano di governo e consegnando il pieno potere sulla città nelle mani del cardinale legato Bertrando del Poggetto15. Cecco era ancora a Bologna durante l’anno accademico 1325-1326, e nel commento a Tolomeo, sviluppato quell’anno a lezione, affronta anche temi di scottante attualità, attribuendo l’infelice andamento della situazione politica alla retrogradazione di Marte e Saturno verso il Toro, segno di Bologna, in atto già dal 1322. Anzi nel testo, trattando de excentricis, lascia intuire di aver formulato su quella base un pronostico inascoltato dalle autorità comunali, in merito ad una grave novitas, che potrebbe essere proprio la battaglia di Zappolino con tutte le sue conseguenze16. E comunque non c’era bisogno di un astrologo per prevedere gli sviluppi della politica bolognese in quelle contingenze, e cioè il ruolo sempre più ingombrante che stava assumendo in città il legato pontificio, fino alla progressiva acquisizione della signoria. Cecco decide allora di anticipare quegli sviluppi, lasciando la città verosimilmente nella seconda metà del 1326. Lo fa perché si sta delineando ai suoi occhi un ambiente non più favorevole alla sua permanenza: in quanto simpatizzante ghibellino in una città sempre più radicalmente guelfa, ma soprattutto immaginandosi costretto ad una difficile convivenza con il legato-signore Bertrando, nipote di Giovanni XXII e già nel 1320 istruttore del processo contro Matteo Visconti e i suoi complici, astrologi e negromanti, accusati di sortilegio nei confronti del pontefice17.
3. Le “eresie” di Giovanni XXII, Accursio Bonfantini e la fine di Cecco Nella nuova situazione Cecco decise dunque di accettare l’incarico di astrologo di corte del duca Carlo di Calabria, che dal luglio 1326 era signore di Firenze. In quegli anni e in quegli ambienti culturali ci si interrogava spesso fra intellettuali, generalmente in versi e per via epistolare, sull’opportunità di trasferirsi da una città all’altra, sull’ospitalità o sull’ostilità dei
15 Sulle vicende politiche del Trecento bolognese e sui necessari riferimenti bibliografici, si può ricorrere a R. Dondarini, Bologna medievale nella storia delle città, Bologna 2000, pp. 237-311. 16 F. Filippini, Cecco d’Ascoli a Bologna (con nuovi documenti), «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», 10 (1929), pp. 3-35: 9. 17 E. Colini-Baldeschi, Per la biografia di Cecco d’Ascoli, «Rivista delle biblioteche e degli archivi», 32 (1921), pp. 65-72: 66.
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diversi luoghi e dei diversi gruppi dominanti rispetto all’ideologia dell’itinerante. Ricordiamo almeno due casi celebri: quello del dialogo poetico fra Dante e Giovanni del Virgilio, sull’opportunità per l’esule fiorentino di recarsi a Bologna a ricevervi l’alloro, e lo scambio di sonetti, intercorso nel 1325 fra Cino da Pistoia e il nostro Cecco, in cui il primo chiede all’amico astrologo un parere sull’opportunità di partire o no da Firenze. Cecco gli consiglia di non partire, prefigurandogli anzi in quella città un ambiente estremamente favorevole. Cino non dà ascolto all’amico e parte di lì a poco per Roma o forse per Perugia18. Cino ebbe ragione: Cecco fallì completamente quel pronostico, per difetto, non sappiamo, di analisi astrologica o politica. Sotto il pieno controllo angioino, di re Roberto prima, del figlio Carlo poi, Firenze ancor meno di Bologna poteva garantire incolumità a figure pubbliche che non esibivano patenti di guelfismo autentico. Ghibellini di varia gradazione e intensità ideologica, nostalgici del potere imperiale, critici del temporalismo pontificio, simpatizzanti dei numerosissimi movimenti pauperisti più o meno radicali, del francescanesimo spirituale o del millenarismo gioachimita: per tutti costoro si andava rafforzando sotto il pontificato di Giovanni XXII un apparato repressivo sempre più efficiente, articolato intorno ai tribunali dell’inquisizione. Tramontato ormai da tempo il pericolo cataro ed estinto quasi del tutto anche il focolaio dolciniano, gli apparati inquisitoriali possono dedicarsi integralmente a perseguire altre devianze. Si tratta di “eresie” di natura politica o ecclesiologica, numerose e di varia ispirazione, ma riconducibili a due filoni principali: il ghibellinismo e lo spiritualismo francescano, con le imprevedibili connessioni che la solidarietà di persecuzione aveva creato fra queste due linee, fra loro ideologicamente lontane19. In effetti il pauperismo, il profetismo millenarista e il ghibellinismo erano le tre ossessioni di Giovanni XXII e per sua sfortuna Cecco era astrologicamente coinvolto in tutte queste tematiche20. La sentenza dell’inquisitore
18 Sull’egloga Velleribus Colchis di Dante e sulle sue interpretazioni allegoriche, si veda G. Reggio, Le Egloghe di Dante, Firenze 1969, pp. 35-47. Più in particolare sugli aspetti politici dell’egloga dantesca, v. G. Lidonnici, Polifemo, «Bullettino della Società dantesca italiana», n. ser., 18 (1911), pp. 189-205; G. Mazzoni, Dante e il Polifemo bolognese, in G. Mazzoni, Almae luces, malae cruces. Studi danteschi, Bologna 1941, pp. 349-398. Sullo scambio poetico fra Cecco e Cino da Pistoia, v. Filippini, Cecco d’Ascoli cit., pp. 11-14. 19 Per la questione della povertà evangelica nel Trecento e della repressione dei movimenti pauperisti durante il pontificato di Giovanni XXII, v. A. Tabarroni, Paupertas Christi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324), Roma 1990. 20 Affronta il tema dei fondamenti astrologici del profetismo e del millenarismo apocalittico, con particolare riferimento a Dante, il recente contributo di G. Stabile, Bartolomeo da
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fiorentino Accursio Bonfantini che lo manda al rogo nel settembre 1327 elenca una lunghissima serie di errori, in cui Cecco sarebbe ricaduto dopo la prima condanna del 1324. Ma, anche grazie alla testimonianza illuminante di Giovanni Villani, è possibile raggruppare queste accuse intorno a pochi nuclei tematici principali21. Osserviamo innanzitutto quali erano le preoccupazioni dominanti dell’inquisitore fiorentino in quegli anni e come queste si collegassero perfettamente alle inquietudini politiche del duca Carlo di Calabria. Il registro contabile del tribunale inquisitoriale fiorentino degli anni 1322-1329, studiato dal Davidsohn e più approfonditamente dal Biscaro, documenta la solerzia quasi frenetica di Accursio Bonfantini nel ricercare e punire con severità i fraticelli, cioè gli esponenti più radicali e intransigenti del pauperismo francescano e, dopo il maggio 1328, tutti i suoi confratelli – Bonfantini stesso infatti era un francescano – rimasti fedeli al ministro generale Michele da Cesena, deposto da Giovanni XXII ad Avignone nell’aprile di quell’anno22. La fuga di Michele è vicenda ben nota, che qui va ricordata solo perché, riparando Michele e Guglielmo di Ockam presso l’imperatore, arrivato nel frattempo a Roma per farsi incoronare, si saldava quasi istituzionalmente quel legame fra pauperismo e ghibellinismo, già alimentato dagli interventi repressivi degli inquisitori. Infatti, oltre ai fautori più o meno radicali del pauperismo, e del resto la dottrina stessa della povertà evangelica era stata ufficialmente annoverata fra le opinioni ereticali dalla decretale Cum inter nonnullos del novembre 132323, l’altra grande categoria di devianti sottoposta all’attenzione particolare dell’inquisitore fiorentino in quegli anni era quella dei sostenitori di Ludovico il Bavaro, scomunicato nel 1324, e dei suoi alleati toscani, romagnoli, marchigiani. Sono queste le tipologie di eretici di cui l’inquisitore per la Toscana si occupa con la massima solerzia, mobilitando tutte le armi di cui dispone: predicazione, spionaggio, attività giudiziaria, e accogliendo in questo, attraverso ripetuti contatti con il legato Giovanni Orsini,
Parma e l’astronomia di Dante, in Seventh Centenary of the teaching of Astronomy in Bologna, 1297-1997. Proceedings of the meeting held in Bologna at the Accademia delle scienze (June 21, 1997), Bologna 2001, pp. 99-122: 119-120. 21 G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, II, Parma 1991, pp. 570-571. 22 R. Davidsohn, Un libro di entrate e spese dell’inquisitore fiorentino (1322-1329), «Archivio storico italiano», 27 (1901), pp. 346-355; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze (1319-1334), «Studi medievali», n. ser., 2 (1929), pp. 347-375; 3 (1930), pp. 266-287. Su Accursio Bonfantini si può anche vedere la voce biografica curata da E. Ragni, Bonfantini, Accursio, in Dizionario biografico degli italiani, 12 (1970), pp. 10-11. 23 Sulla Cum inter nonnullos di Giovanni XXII (12 novembre 1323), v. Tabarroni, Paupertas Christi cit., pp. 83-87.
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le direttive del pontefice, che infatti alla fine del suo mandato, nel 1329, riserverà all’inquisitore un pubblico encomio per l’impegno profuso nella difesa dell’ortodossia e della chiesa. Il 1327 fu l’anno cruciale per queste vicende, perché in gennaio, con il sostegno ideologico di Marsilio da Padova, l’imperatore si accingeva a scendere in Italia, dopo aver dichiarato illegittimo il pontificato di Giovanni XXII. La discesa del Bavaro era il tema che occupava le discussioni politiche e che turbava i sonni dei gruppi dirigenti più legati alla diplomazia pontificia, fra tutti quello fiorentino della corte di Carlo: era inevitabile che l’astrologo di corte ne venisse coinvolto. La sentenza di condanna di Cecco dedica molta attenzione ai suoi pronostici su questo tema di grande attualità, anche se i diversi esemplari del documento, fiorentini e bolognese, manifestano in proposito sensibili differenze, in particolare sull’esito che Cecco avrebbe previsto per la spedizione imperiale, sull’accoglienza che l’imperatore avrebbe dovuto avere a Roma e sull’opportunità o meno di opporsi militarmente alle sue truppe24. Comunque sia, Cecco, fra il 1326 e i primi mesi del 1327, diffondeva a Firenze pronostici favorevoli alle sorti imperiali e questo certamente finiva per esporlo a ritorsioni da parte degli ambienti di corte. C’è anzi una linea interpretativa piuttosto autorevole, risalente a fonti narrative contemporanee e vicine a quegli ambienti, che attribuisce proprio al potere temporale l’iniziativa della persecuzione di Cecco. Mi riferisco alle cronache di Giovanni Villani e di Marchionne di Coppo Stefani: quest’ultima in particolare dichiara esplicitamente che «il duca fece ardere maestro Cecco»25. In tal caso saremmo di fronte ad uno dei non rari episodi di capovolgimento dei ruoli, nell’iniziativa antiereticale, fra braccio secolare e braccio spirituale. Ma anche senza giungere a conclusioni così decise, possiamo certamente osservare che ai danni dell’astrologo, in questo caso, scattò probabilmente un comune interesse repressivo fra signore e inquisitore, con un effetto terribilmente rapido ed efficace. Lo stesso Giovanni Villani individua con precisione anche il tramite personale fra i due poteri, nella figura del cancelliere del duca, vescovo di Aversa, secondo il cronista grande nemico di Cecco all’interno della corte.
24 Mentre nell’esemplare bolognese della sentenza le profezie di Cecco prevedono per il Bavaro la vittoria e l’entrata in Roma, ma senza grandi onori, e la sua morte quasi immediata, il che sconsigliava di impegnare le forze militari in una strenua resistenza contro le sue truppe, il ms. II, 168 della Biblioteca Nazionale di Firenze accenna all’entrata in Roma del Bavaro, ma non alla sua morte, così come il ms. II, IV, 322 e il II, IV, 382, mentre il II, IV, 321 non fa alcun riferimento all’entrata in Roma. 25 Villani, Nuova cronica cit., p. 570; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, in R.I.S.2, 30/1, fasc. III, Città di Castello 1907, p. 154.
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Questa osservazione del Villani trova piena conferma documentaria in una nota del citato registro contabile dell’inquisitore, da cui si apprende che pochi giorni prima dell’esecuzione il cancelliere fece visita all’inquisitore, presso il convento francescano; l’intento della visita era, assai probabilmente, quello di rassicurare il Bonfantini sulla pronta disponibilità del braccio secolare a dar corso alla sentenza, come di fatto avvenne il 16 settembre ad opera del vicario del duca26. Ma, tornando ad esaminare la vicenda dal punto di vista inquisitoriale, quali erano in ultima analisi le ragioni che rendevano opportuna la condanna di Cecco? Pur con tutte le necessarie cautele, e mantenendosi nell’ambito delle ipotesi interpretative, conviene su questo dare la parola a Giovanni Villani, come sempre testimone attento e documentato. Villani non ha particolari simpatie per Cecco, che giudica «uomo vano e di mondana vita», e dimostra di conoscere molto bene e in parte di condividere gli argomenti della sentenza di condanna. Nonostante ciò, lo definisce «grande astrologo» e gli riconosce il merito di aver «rivelate per la scienza di astronomia molte cose future, le quali si trovarono poi vere, degli andamenti del Bavaro e de’ fatti di Castruccio e di quegli del duca [...]»27. Lo studio degli astri a fini divinatori, praticato con riconosciuta e autorevole competenza, non era in sé attività riprovevole agli occhi del cronista fiorentino, che esprimeva in questo atteggiamenti ampiamente diffusi in quegli anni e in quegli ambienti sociali. Del resto Cecco è non solo l’unico astrologo di cui si siano occupati Accursio Bonfantini a Firenze e Lamberto da Cingoli a Bologna, ma anche il solo perseguito dall’inquisizione pontificia in Italia fino alla condanna postuma di Pietro d’Abano, suo contemporaneo ma giudicato e condannato dall’inquisitore padovano post mortem, verso la metà del Trecento; e si trattava, in quel caso, di un esponente della tradizione astrologica e filosofica coinvolto, ben più di Cecco, nella questione dell’aristotelismo radicale. Citando con una certa precisione la sentenza, Villani individua le ragioni dottrinali della condanna nei contenuti del trattato De sphera, a suo tempo abiurati a Bologna, ma in seguito nuovamente divulgati a Firenze, e precisamente: la negazione astrologica del libero arbitrio; l’oroscopo di Cristo; la prossima venuta dell’anticristo. Sul determinismo zodiacale ci siamo già soffermati: è questione delicatissima sul piano dottrinale e di difficile definizione; non sembra comunque che Cecco manifesti un particolare radicalismo in proposito, né nelle opere, nè, per quel pochissimo che ne sappiamo, nella condotta processuale. Ma le
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Davidsohn, Un libro cit., p. 353; Biscaro, Inquisitori ed eretici cit., p. 270. Villani, Nuova cronica cit., pp. 570-571.
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altre accuse erano effettivamente difficili da contestare e inserivano a pieno titolo il nostro astrologo, non come tale ma come divulgatore di dottrine eterodosse, nella categoria dei devianti considerati più pericolosi da Giovanni XXII e perseguiti perciò con maggiore accanimento: pauperisti e millenaristi, soprattutto se, per giunta, filoimperiali. Ricorda infatti Villani che Cecco divulgava l’opinione che «Cristo venne in terra accordandosi il volere di Dio co’ la necessità del corso di storlomia e dovea per la sua natività essere e vivere co’ suoi discepoli come poltrone», mentre «Anticristo dovea venire per corso di pianeti in abito ricco e potente». La sentenza naturalmente è più particolareggiata, ma il nucleo concettuale è il medesimo: «avere egli dommatizzato perché Cristo ebbe il capricorno nell’angolo della terra però nacque in una stalla, e perché ebbe lo scorpione in secondo grado però dovea essere povero [...] e ancora aveva detto che l’istesso Anticristo era per venire in forma di buon soldato e accompagnato nobilmente, né verrà in forma di poltrone, come venne Cristo accompagnato da poltroni [...]»28. Oltre ad annunciare in forma privata, ma ripetutamente, la prossima vittoria dell’impero e dei suoi sostenitori, e di questo l’inquisitore dichiara di aver raccolto numerose e affidabili testimonianze, Cecco, che pure non era personalmente coinvolto nelle diverse correnti del pauperismo francescano, tuttaltro: era anzi uomo «di mondana vita» secondo Villani, con il suo linguaggio tecnico aveva tuttavia argomentato sulla necessità astrologica della povertà di Cristo e degli apostoli, dottrina ereticale, si diceva, dal 1323; ed infine, come tanti altri in quei tempi ma con il conforto delle stelle, attendeva ed annunciava l’arrivo imminente dell’anticristo. Anche se dell’imminenza annunciata non si può avere certezza, perché in alcuni esemplari della sentenza il pronostico di Cecco colloca nell’anno 2000 l’avvento dell’anticristo29. Non mancano insomma gli argomenti per spiegarci, oltre a quello del duca, anche l’accanimento dell’inquisitore, che nello sventurato astrologo poteva ben individuare una sorta di pericoloso “fiancheggiatore tecnico” dei peggiori nemici della chiesa: imperiali, pauperisti, millenaristi, e della perversa alleanza che, in quei mesi del 1326-1327, si andava creando fra loro, e pertanto, colpendolo così duramente, riteneva a buon diritto di interpretare la volontà del pontefice.
28 29
Gentili, Un esemplare cit., p. 180. Così, ad esempio, nel ms. II, IV, 321 della Biblioteca Nazionale di Firenze.
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La leggenda, passando grado a grado per mille vie dalla tradizione orale alla tradizione scritta, era riuscita sempre più a confondersi e a sostituirsi alla storia, ma s’incamminava anche lentamente verso la sua decadenza [...]1.
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Così, nel 1908, il dottor Augusto Beccaria concludeva il suo accurato e documentatissimo saggio sui biografi di Cecco d’Ascoli. E certamente rilevanti passi in avanti sono stati fatti da allora verso la scoperta e l’accertamento di dati storici su Cecco e le sue opere. Ma allo stesso modo rappresenta anche una acquisizione ormai consolidata della storiografia quella della incertezza o addirittura della inconoscibilità delle origini del poetaastrologo-filosofo autore de L’Acerba. Documenti diretti su di lui sembrano inesistenti e le notizie documentate sulla sua vita sono rare e riconducibili essenzialmente a «quegli accenni fuggevoli, che intorno alle vicende della propria vita, alle persone ed ai luoghi egli ha sparso nelle sue opere»2. C’è chi lo vuole nato ad Ascoli Piceno3 e chi in paesi del contado (Ancarano ma anche Piane o Rocca di
1
A. Beccaria, I biografi di maestro Cecco d’Ascoli e le fonti per la sua storia e per la sua leggenda, Torino 1908 (Reale Accademia delle Scienze di Torino, aa. 1907-1908), p. 88. 2 Per la citazione, ibid., p. 24. Per l’approfondimento sulla vita, oltre che sull’opera, di Cecco si rimanda ai volumi citati da M. Albertazzi, Motivi e fonti degli studi riprodotti, in Studi Stabiliani. Raccolta di interventi editi su Cecco d’Ascoli, a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002, p. I nota 3. 3 È quanto si ricava dalle opere dello stesso Cecco dove si trovano le ormai notissime affermazioni: «ego Cicchus de Esculo» (nel Commento latino alla Sphaera mundi del Sacrobosco) e «Civitas esculana que me genuit [...]» (nel Commento al De principiis astrologie dell’Alcabizio). Convinto dell’origine ascolana di Cecco è V. Paoletti, Il più antico documento autentico su Cecco d’Ascoli, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei - Classe di scienze morali, storiche e filologiche», ser. V, 14 (1906), fasc. 11, pp. 316-334: 319, 321-322, dove raccoglie «più ampie prove in favore di questa opinione»; v. anche Beccaria, I biografi cit., pp. 24-29, 56 nota 1 per la citazione.
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Morro)4; l’anno sembra doversi fissare al 12695, ma potrebbe anche oscillare tra il 1254 ed il 12576; e inoltre mancano addirittura gli atti originali del processo da cui Cecco uscì definitivamente condannato alla pena capitale, cosicché ci si deve basare su transunti latini e redazioni in volgare della sentenza, che non garantiscono l’attendibilità assoluta dei fatti riportati e lasciano ancora spazio a dubbi ed incertezze, almeno per quanto riguarda le ragioni della condanna7. Vero punto fermo nelle varie ipotesi e ricostruzioni biografiche resta però quello del rapporto stretto, intenso, caloroso, e filiale appunto, con la città di Ascoli. E questo è anche quanto sottolineava, nel 1906, Vincenzo Paoletti8 in un piccolo ma denso articolo - dall’autore definito semplicemente “nota”
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4 Sul luogo di nascita di Cecco d’Ascoli, la fonte prima e primaria è l’umanista jesino monsignor Angelo Colocci (sui cui “rapporti” con Cecco si vedano Beccaria, I biografi cit., pp. 51-58; V. Fanelli, Angelo Colocci e Cecco d’Ascoli, in Atti del I Convegno di Studi su Cecco d’Ascoli (Ascoli Piceno, 23-24 novembre 1969), a cura di B. Censori, Ascoli Piceno 1976, pp. 42-64; da ultimo M. Scatasta, Cecco d’Ascoli, in Cecco d’Ascoli. Testi a cura di M. Scatasta - M. Mandrelli - M.G. Mazzocchi Scatasta - M. Alberti Vittori - C. Melloni, Ascoli Piceno 1990, pp. 16-108: 18-20, 53. Indicazioni bibliografiche relative alla figura e all’opera del Colocci sono in Fanelli, Angelo Colocci cit., p. 63 nota 1), che afferma di ricavare le sue notizie da Enoch d’Ascoli, senza specificare cosa questi abbia scritto e di quale suo lavoro egli si sia avvalso (su Enoch v. le indicazioni di Beccaria, I biografi cit., pp. 51-54; v. anche Paoletti, Il più antico documento cit., pp. 329-331). Il Colocci «è il primo ed il solo» ad affermare che Cecco sia nato ad Ancarano (per la citazione, v. Beccaria, I biografi cit., p. 56; ancora Paoletti, Il più antico documento cit., pp. 319, 330). Sebbene le notizie fornite dal Colocci siano da ritenere «prive di fondamento storico» - v. G. Bartocci, La famiglia Stabili secondo i documenti ascolani e fermani, in Atti del I Convegno di Studi cit., pp. 123-159: 153 - o quanto meno si presentino «con troppo esigua garanzia di veridicità» - v. Beccaria, I biografi cit., p. 56 -, la tesi da lui espressa riguardo il luogo di nascita del poeta ascolano risulta «non confutabile sul piano documentale» e può giustificarsi facendo riferimento alla pertinenza diocesana, in quanto «Ancarano era (ed è tuttora) parte integrante della diocesi di Ascoli»: A. Cettoli, Ma “Cecco” è nato in Ascoli?, «Flash. Il mensile di vita picena», a. XIV, 186 (settembre 1993), pp. 32-33: 33. Esula totalmente da questo problema il breve articolo di V. Paoletti, La patria di Cecco d’Ascoli, «Rivista marchigiana illustrata», 5 (1908 ma 1909), pp. 109-111, che confuta l’eventualità di un’identificazione di Ascoli con Ascoli Satriano, in Puglia, come luogo di nascita di Cecco. Per l’ipotesi di Piane o Rocca di Morro, v. ancora Scatasta, Cecco d’Ascoli cit., p. 18. 5 È ancora il Colocci la fonte principale che, molto probabilmente sulla scorta dei dati ripresi da Enoch d’Ascoli, lo fa nascere nell’ottobre del 1269. Si veda Paoletti, Il più antico documento cit., pp. 319, 330; Beccaria, I biografi cit., pp. 52-53. 6 Per la confutazione decisa del 1269 come anno di nascita di Cecco e l’individuazione - invero non convincente in quanto non storicamente motivata ma induttivamente forzata - di questo nel periodo 1254-1257, v. Bartocci, La famiglia Stabili cit., pp. 134-136, 154. 7 Si veda Beccaria, I biografi cit., pp. 63-73. 8 Sul Paoletti v. R. Gabrielli, All’ombra del Colle di S. Marco. Memorie storiche degli ascolani illustri e benemeriti dal 1830 ai giorni nostri, I, Ascoli Piceno 1948, pp. 313-317.
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- comparso nei «Rendiconti della Regia Accademia dei Lincei» e dedicato a Il più antico documento autentico su Cecco d’Ascoli9. Il Paoletti si riferiva ad un documento conservato nell’Archivio del Comune di Amandola, datato 1297 e contenente una querela sporta da un certo dopnus Beneventus, priore del monastero di S. Leonardo al Volubrio10 (de Gulubrio), contro un tale Francisscus Stabilis per dei non meglio specificati maleficia commessi in personam di un tale Brocardino o di chiunque altro11. È dunque questa, a dire del Paoletti e stando alle effettive conoscenze, la prima attestazione relativa a Cecco, ovvero il documento «più antico che abbiamo sullo Stabili recando la data del 1297»12. L’autore faceva poi ipotesi sulle origini di Cecco e della sua famiglia, sulla sua presunta presenza ad Amandola e soprattutto ricostruiva con dovizia di documentazione - proveniente in particolare dall’Archivio Comunale di Amandola - la turbolenta situazione ascolana negli ultimi anni del XIII secolo. Invero Ascoli, tra fine Duecento e inizio Trecento, vale a dire in quel torno di anni che segnavano la conclusione di quel secolo in cui la cittadina marchigiana aveva conosciuto il suo «apogeo medievale»13, viveva una fase indubbiamente caotica ma anche importante, e anzi fondamentale, per l’affermazione di sé e per la costruzione del proprio contado e dunque della sua area di diretta dipendenza e controllo. Era da poco finito il pontificato dell’ascolano Niccolò IV14, la cui «special tenderness for the March» aveva recato in modo particolare alla città
9 Paoletti, Il più antico documento cit. Per un giudizio sull’opera relativa a Cecco composta da questo autore e particolarmente sull’articolo in considerazione, v. Beccaria, I biografi cit., p. 22 nota 1. 10 Su questo monastero v. G. Crocetti, S. Leonardo. L’eremo dei Sibillini, Fermo 1978. 11 Paoletti, Il più antico documento cit., p. 317. 12 Ibid. Ma su questa identificazione, che presenta «delle incertezze» e che fu a suo tempo contestata e messa in discussione anche con «fondate ragioni», v. Beccaria, I biografi cit., pp. 39-40 nota 3, e ora anche Scatasta, Cecco d’Ascoli cit., p. 16 nota 2. 13 G. Pinto, Ascoli: una città manifatturiera ai confini col Regno, in G. Pinto, Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna 1996, pp. 187-201, in particolare p. 188; G. Pinto, Ascoli tra Due e Trecento: linee di una ricerca, in Istituzioni e società nelle Marche (secc. XIVXV). Atti del Convegno (Ancona - Camerino, 1-3 ottobre 1998), «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche», 103 [1998], Ancona 2000, in particolare pp. 264-268. 14 La speciale ed innegabile attenzione per Ascoli, cui il pontefice non manca mai di riferire le sue origini e manifestare il suo affetto - per alcuni esempi, v. quelli citati da A. Franchi, Nicolaus papa IV. 1288-1292 (Girolamo d’Ascoli), Ascoli Piceno 1990, pp. 163-164 note 3-4 - e alla quale indirizza tra l’altro un numero davvero cospicuo di lettere e provvedimenti, «avvantaggiò la città da tanti punti di vista: recupero […] di alcuni castelli sottratti dagli Angioini, sviluppo dell’edilizia monumentale, civile ed ecclesiastica, incremento delle
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e al comune di Ascoli indubbi benefici tanto di natura giurisdizionale che economica15. Ma soprattutto si andava chiudendo quella situazione di contesa tra Impero e Papato per il controllo della città che aveva radici molto lontane nel tempo16, e che aveva marcatamente e specificamente caratterizzato buona parte del sec. XIII. Aperta “ufficialmente” da Celestino III nel 119717 e poi dispiegata con
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attività mercantili e manifatturiere»: Pinto, Ascoli tra Due e Trecento cit., pp. 286-287. Ma oltre a questo, Niccolò IV rivolge all’istituzione comunale ascolana molti altri interventi aventi per oggetto la città, il suo governo, la sua autorità e il suo distretto, inteso quest’ultimo non solo e non tanto come entità geografica bensì come capacità di esercitare il suo dominio sui castelli e le comunità del contado. Su Niccolò IV e le ripercussioni profonde ed evidenti nella storia ascolana, tanto sul piano civile-politico che su quello ecclesiastico, v. ora anche M. Cameli, Tra papato ed impero. Le fonti e la storia dell’episcopato ascolano nel XIII secolo, tesi di Dottorato di ricerca in “Storia del Cristianesimo e delle Chiese”, Università degli Studi di Padova, XVI ciclo, A.A. 2004, supervisori Proff. Antonio Rigon e Attilio Bartoli Langeli, parte II: Poteri e caratteri dell’episcopato ascolano, cap. I: A Teutonicorum tirampnide ad Ecclesiam apostolicam, § 4: La restaurazione papale e un pontefice ascolano. 15 Sul generale interessamento del pontefice per il governo dello Stato della Chiesa e della Marchia Anconitana in particolare, e per una esemplificazione delle innovazioni di governo messe in atto da Niccolò IV, v. D. Waley, The Papal State in the Thirteenth Century, London 1961, pp. 212-224: 213 per la citazione; v. anche P. Partner, The Lands of St. Peter: The Papal State in the Middle Ages and the Early Renaissance, London 1972, pp. 283-285; J.-C. Maire Vigueur, I rettori forestieri nei comuni marchigiani, in Stranieri e forestieri nella Marca dei secc. XIV-XVI. Atti del XXX Convegno di Studi Maceratesi (Macerata, 19-20 novembre 1994), Macerata 1996 (Studi Maceratesi, 30), pp. 129-161: 159-160. 16 Le origini delle pretese papali e i tentativi della Sede romana di affermare la sua autorità temporale sulle terre dell’Italia centrale vanno cercate molto indietro nel tempo. I prodromi possono forse essere fatti risalire all’epoca della Riforma cosiddetta “gregoriana” - ma iniziata in realtà prima di Gregorio (sulla Riforma v. A. Fliche, La Réforme grégorienne, I-III, Paris 1924-1937 - «ancora indispensabile, nonostante un certo taglio apologetico»: U.-R. Blumenthal, La lotta per le investiture, Napoli 1990, p. 143 -, in particolare il primo volume). Su questo punto v. Cameli, Tra papato ed impero cit., parte II, cap. I, § 1: Celestino III, Innocenzo III e il Patrimonium. Alle origini delle rivendicazioni del papato. 17 Si consideri la lettera con la quale, il 23 dicembre 1197, Celestino III annuncia al vescovo, ai consoli e al popolo ascolano di aver destinato ad partes vestras Gregorio, cardinale diacono di S. Maria in Porticu, che ha già ricevuto il giuramento di fedeltà dagli abitanti di Perugia, Todi, Spoleto, Assisi, Spello, Gubbio, Amelia e da altri loro vicini. Essendo questi richiamato in curia «pro arduis ecclesie negotiis», il papa li ammonisce a giurare fedeltà a Presbitero, vescovo di Fermo, Pandolfo, abate di Farfa e magister R. suddiacono, agenti in vece del suddetto Gregorio, «ut nostro dominio restituti a Teutonicorum tirampnide in perpetuum nostra vos gaudeatis protectione»; infine ordina al vescovo di promulgare sentenza di scomunica contro i sostenitori di Marcovaldo, dei suoi nunzi e di tutti i Teutonici. Il documento è conservato nell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno (= ASAP), Archivio Storico del Comune di Ascoli (= ASCA), Archivio Segreto Anzianale (= ASA), E.I.1. Se ne veda l’edizione in P.F. Kehr, Papsturkunden in der Romagna und den Marken, «Nachrichten von der
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ampiezza da Innocenzo III, la cosiddetta Rekuperationspolitik18, ovvero come sarebbe meglio dire - l’opera di (ri)costruzione19 dei dominî pontifici, aveva portato ad una situazione di continuo e logorante fronteggiarsi di Papato ed Impero, in particolare per il controllo della Marca d’Ancona20; situazione che potrà dirsi risolta soltanto con il cardinale Albornoz alla metà del Trecento21. Tale stato di cose risulta addirittura amplificato quando si guardi alla realtà ascolana, che è resa unica nell’ambito regionale dal quid in più che le viene dalla sua posizione sul confine con il Regno di Sicilia, e dunque dal suo porsi quasi come baluardo della Chiesa romana verso Normanni prima, Svevi poi e Angioini poi ancora; il che, però, se le comporta di essere destinataria di privilegi e di trattamenti di favore da parte del governo centrale, d’altro canto le procura anche le responsabilità, i disagi e la tensione continua di chi è l’oggetto primo di pressioni ed attacchi, ma anche di lusinghe, da parte avversaria, il cui fine è quello di guadagnarsene l’adesione.
Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen. Philologisch-historische Klasse», 1 (1898), pp. 6-44: 43-44, n. 21, poi in P.F. Kehr, Papsturkunden in Italien, I: 1896-1899, Città del Vaticano, pp. 179-217: 216-217; per le menzioni v. P.F. Kehr, Italia Pontificia, IV, Berlin 1909, pp. 150, n. 11 e 154, n. 2; A. Franchi, Ascoli pontificia, I: Dal 342 al 1241, Ascoli Piceno 1996 (Istituto Superiore di Studi Medioevali “Cecco d’Ascoli”. Testi e Documenti, 3), n. 54, p. 70. 18 Su questo aspetto v. le pagine ancora valide di M. Maccarrone, Innocenzo III e gli avvenimenti di Romagna del 1198, in M. Maccarrone, Nuovi studi su Innocenzo III, a cura di R. Lambertini. Presentazione di O. Capitani, Roma 1995 (Nuovi Studi Storici, 25). 19 O ancora, per usare il lessico innocenziano, di revocatio e restitutio. Sul sostantivo recuperationes e su quelli ad esso correlati così come su quelli “innocenziani” di revocatio e restituito, v. le puntuali, e recenti, precisazioni di S. Carocci, «Patrimonium beati Petri» e «fidelitas»: continuità e innovazione nella concezione innocenziana dei domini pontifici, in Innocenzo III. Urbs et orbis. Atti del Congresso Internazionale (Roma, 9-15 settembre 1998), a cura di A. Sommerlechner, I, Roma 2003 (Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, XLIV; Nuovi Studi Storici, 55), pp. 668-690: 674 nota 8. Per una riconsiderazione dell’opera temporale di Innocenzo III giocata sulla dialettica continuità-innovazione e per precisazioni, anche terminologiche, indicative e allo stesso tempo funzionali ad una più ampia riflessione sulla tematica della rappresentazione innocenziana dei domini pontifici e su quella della sua concezione della sovranità papale sui loro abitanti, ibid. 20 Il fenomeno è noto nelle linee generali. Si rimanda, per una visione d’insieme che abbraccia e considera tutto il territorio dello Stato della Chiesa, e per una sintesi di molti lavori specifici, a Waley, The Papal State cit., in particolare al cap. V: The Papal State and the Hohenstaufen, pp. 125-175. 21 Sulla formazione e lo sviluppo istituzionale dello Stato della Chiesa da Innocenzo III alla legazione del cardinale Egidio Albornoz sono tuttora fondamentali i lavori di Giuseppe Ermini di recente raccolti nella seconda sezione (dedicata a L’ordinamento giuridico e politico dello Stato della Chiesa) del volume: G. Ermini, Scritti storico-giuridici, a cura di O. Capitani - E. Menestò, Spoleto 1997. Si veda inoltre Waley, The Papal State cit. Più specifica-
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Tra alterni avvenimenti e rapidi mutamenti di assetti politici, infine la sovranità papale sembrava essere riuscita ad imporsi nella Marchia Anconitana, sebbene occorra rilevare la mancanza, in questa provincia, di una tradizione di adesione duratura e prolungata alla parte papale22. Dopo la fine di Federico II23, e gli ultimi tentativi svevi di riacquistare terre ed autorità24, Niccolò III ottenne, nel 1279, il definitivo formale riconoscimento della sovranità pontificia da parte dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo e dei prìncipi dell’impero25. Negli anni che seguirono la morte di Niccolò IV e che conobbero una vacanza pontificia di circa due anni e mezzo conclusasi con l’elezione di Celestino V, «the state of the March again presented no considerable change. Local systems of alliance and local warfare were the dominant elements in the political life of the province […] There was, however, no abandonment of the attemp to govern». La situazione non cambiò granché nemmeno durante i quattro mesi del breve pontificato di Pietro del Morrone26. E ancora, non si segnalano eventi di rilievo per l’ambito ascolano negli anni del pontificato del successore di Martino IV, Onorio IV, finché nuova, grande energia fu rivolta agli affari dello Stato della Chiesa da Bonifacio VIII27. Allo scenario di lotta tra le due autorità universali, che aveva visto Ascoli all’inizio naturalmente filo-imperiale (secc. XI-XII) e poi man mano sempre più inclinata verso la pars Imperii, soprattutto per sottrarsi all’incombente ed occhiuto controllo papale soffocante ogni libertà28, se ne sostituiva ora uno del tutto nuovo, anche e soprattutto nelle dinamiche di potere locali.
mente sulle Marche all’epoca di Innocenzo III, v R. Manselli, Innocenzo III e le Marche, in Le Marche nei secoli XII e XIII. Problemi e ricerche. Atti del VI Convegno di Studi Maceratesi, Macerata 1972 (Studi Maceratesi, 6), pp. 9-20. 22 Waley, The Papal State cit., pp. 182, 186-187. 23 Su Federico come personaggio capace di raccogliere e coordinare tante micro e medie forze sparse e porsi come punto ideale di riferimento, impersonando e convogliando in una unica direzione lo spirito di ribellione e la voglia di libertà che erano di molte, se non di tutte le realtà comunali rivendicate o sottoposte al dominio pontificio, v. Cameli, Tra papato ed impero cit., parte II, cap. I, § 5: In dissolvenza: Ascoli prima di Avignone .... 24 Ibid., parte II, cap. I, §§ 3.4-3.6, 4. 25 Si vedano Waley, The Papal State cit., pp. 191-192; A. Theiner, Codex Diplomaticus, Roma 1861-1862, I, nn. CCCLVIII, CCCLXI-CCCLXIII (documenti preparatorî) e nn. CCCLXXXVII, CCCLXXXVIII, CCCXCIII (conferme dell’imperatore e dei principi). 26 Waley, The Papal State cit., pp. 227-229: 227 per la citazione. 27 Ibid., alle pagine dedicate al suo pontificato, di cui soprattutto le pp. 230, 236. 28 Tutta l’età sveva si riassume per Ascoli in un tentativo continuo, da parte del papato, di esercitarvi la sovranità conciliandola con l’autonomia comunale, e da parte dell’impero, di ottenerne il controllo a scopo amministrativo e soprattutto strategico-militare. E questo in li-
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Ad un livello intermedio tra realtà esterne, generali e situazioni interne, si collocavano almeno altri tre fattori che contribuivano a turbare la vita cittadina. Vanno ricordati in primo luogo la lotta combattuta da Ascoli29, alla stregua di molti altri comuni centro-italiani30, per un maggior grado di autonomia
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nea con quella che mi sembra sia nella sostanza la politica imperiale sveva nei confronti dello Stato della Chiesa: una serie lunghissima di rinunce formali e concessioni a favore dell’autorità pontificia e nello stesso tempo una spinta costante ad imporle il proprio controllo. La conclusione è che Ascoli, in questo gioco di rivendicazioni e di tentativi di accerchiamento e sottomissione politici e amministrativi, dopo un XII secolo ed un inizio di XIII massicciamente segnati dalla vicinanza nonché dalle apertamente riconosciute fidelitas e magna devotio per l’impero, sembri continuare a propendere maggiormente per la pars imperii. Starebbe ad indicarlo il fatto che, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, la città cerchi di sottrarsi al governo pontificio schierandosi al fianco dell’imperatore o dei suoi rappresentanti. Ma in realtà, con una differenza notevole rispetto al prius: più che di predilezione per il partito imperiale o di reale ed effettiva fede “ghibellina”, l’impressione è che si tratti ora di scelte opportunistiche dettate dalla volontà comunale di autonomia; oltre alla possibilità momentanea di sfuggire e svincolarsi dal dominio papale, l’amministrazione imperiale, con la sua politica di più ampio respiro e le sue finalità organizzative e di razionalizzazione da applicare ad un territorio che aveva per essa soprattutto importanza strategica, sembrava evidentemente garantire alla città maggiori spazi di libertà rispetto a quelli consentiti dal potere papale. Per queste conclusioni, si rimanda ancora a Cameli, Tra papato ed impero cit., parte II, cap. I, § 6: Tra papato, impero e marchesi - vicari - legati - rettori - podestà: l’emergere dei particolarismi. 29 Anche Ascoli, insieme ad Ancona e Fermo - e a molte altre città dello Stato della Chiesa - si scontrò con l’autorità pontificia sulla questione della giurisdizione sulle cause di appello e fu per questo richiamata da Martino IV che, il 31 dicembre 1284, riaffermò la superiore ed indiscussa competenza senza mediazione dell’autorità papale su tali cause, v. Waley, The Papal State cit., p. 205; Franchi, Ascoli pontificia cit., II: Dal 1244 al 1300, Ascoli Piceno 1999 (Istituto Superiore di Studi Medioevali “Cecco d’Ascoli”. Testi e Documenti, 4), n. 152, p. 170. Si veda anche Theiner, Codex Diplomaticus cit., I, n. CCCCXXXIX, p. 279. Ma non erano questi gli unici motivi di attrito tra il potere pontificio, che cercava faticosamente di imporre la sua autorità e le sue regole, e la città di Ascoli, che recalcitrava e tentava in vari modi di sottrarsi ad un controllo limitativo e lesivo della sue libertà. Qualche mese prima infatti la città era andata incontro ad una condanna comminatagli dal rettore della Marca ed è lecito ipotizzare che tra i motivi di questa vi fossero un eventuale aiuto fornito ai ribelli della Romagna - si vedano le relative proibizioni in Les registres de Martin IV (1281-1285), a cura di F.J.M. Olivier-Martin et alii, Paris 1901-1935, nn. 284, pp. 120-121 e 309, p. 129 - o le guerre che la città intratteneva con gli altri centri della Marca. In un tentativo di composizione pacifica della questione, tale condanna era stata poi “trasformata” nell’obbligo unico di pagare diecimila lire di ravennati entro il termine di un anno, v. Franchi, Ascoli pontificia cit., II, n. 151, p. 169. 30 Le lotte tra Stato e Chiesa nei comuni italiani durante il secolo XIII - per riprendere titolo e terminologia di un saggio di Gaetano Salvemini (G. Salvemini, Le lotte fra Stato e Chiesa nei Comuni italiani durante il secolo XIII, in G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze e altri scritti, in Opere, I/2: Scritti di storia medievale, a cura di E. Sestan, Milano 1972, pp. 298-330) - sono un fenomeno comune appunto alle varie realtà dell’Italia
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e libertà dal governo della Sede apostolica e dalla sua burocrazia; secondariamente, la presenza/influenza angioina, che aveva sostituito - e certamente non in modo meno ingombrante - nel Regno di Sicilia quella sveva, e aveva un certo peso sulla città e sul governo della stessa dal momento che si annoverano podestà cittadini provenienti dal Regno e scelti tra i più fidati servitori di Carlo d’Angiò31; infine le guerre, i contrasti e le scaramucce che Ascoli intratteneva tanto con i castelli del contado che con gli altri comuni marchigiani32. Sul versante interno, invece, due erano i principali fenomeni che investivano la realtà cittadina rendendola mossa a livello politico e sociale, e insieme interessante dal punto di vista storico-storiografico. Essi riguardavano le due principali istituzioni della città: da una parte, la lenta e graduale opera di erosione delle proprietà, dei diritti e delle prerogative vescovili culminata con la definitiva sostituzione dell’episcopato - con quello che era il suo rilievo politico e in parte anche patrimoniale ma soprattutto di autorità morale - da parte dell’organismo comunale33; dall’altra l’opera, svolta dal
comunale; ed è comune che, con l’andar degli anni e l’approssimarsi della fine della dinastia sveva, tali lotte abbiano finito per costituire la cornice entro la quale hanno preso «campo i problemi interni dei comuni, le loro pretese di autonomia e di affermazione, le loro lotte rivendicative nei confronti dei vicini e del potere centrale» - così G. Nicolaj Petronio, «Libertas Ecclesiae» e «homagium» in una controversia tra il comune di Foligno e il monastero di Sassovivo nei secoli XIII e XIV, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen per il 90º anniversario dell’Istituto Storico Italiano (1883-1973), II, Roma 1974 (Studi storici, 88-92), pp. 701-743: 705, relativamente al panorama umbro - nella quasi totalità dei casi; così come è piuttosto comune e condiviso il fatto che, restando le pretese papali e imperiali sullo sfondo e non influendo sostanzialmente sullo scorrere della vita normale, si siano riverberate su di essa con l’influenzare la formazione di fazioni cittadine, una delle quali aveva come guida un papato dal «volto fazioso» - l’espressione è di A. Rigon, Idea di pace e cristianità europea da Onorio III a Innocenzo IV, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa - G. Cracco, Soveria Mannelli 2001, pp. 177-190: 190, di cui si veda l’intero saggio per lo spunto a suggestive riflessioni; v. anche G. Tabacco, Ghibellinismo e lotte di partito nella vita comunale italiana, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 335-343. Ma dalla storiografia marchigiana le esigenze autonomistiche dei comuni della regione e «la volontà politica di barcamenarsi tra forze opposte e contrastanti, con l’unico scopo di salvaguardare alla propria vita cittadina la possibilità di una espansione che fosse la più libera possibile» - v. Manselli, Innocenzo III e le Marche cit., p. 18 - sono state sottolineate con enfasi speciale, quasi fossero un unicum nel panorama italiano. 31 Una ricostruzione piuttosto dettagliata delle relazioni intercorse tra la città di Ascoli e il Regno di Sicilia negli anni di Carlo d’Angiò è in M. Fuiano, Le relazioni di Carlo d’Angiò col Piceno meridionale, «Archivio Storico per le Province Napoletane», 5-6 (1966-1967), pp. 117-174, in seguito ripubblicato in M. Fuiano, Carlo d’Angiò in Italia (studi e ricerche), Napoli 1974, pp. 197-257, 212-220, 228-232: 231 per la citazione. Per alcuni episodi legati alle iniuriae angioine, v. Cameli, Tra papato ed impero cit., parte II, cap. I, §§ 3.5-3.6, 8. 32 Un quadro efficace di questa situazione è in Waley, The Papal State cit., passim. 33 Su questo fenomeno, che è generale, resta fondamentale G. Tabacco, La sintesi isti-
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comune, di costruzione ed accrescimento della sua sfera di dominio e d’influenza nel territorio circostante, mediante l’acquisizione, talora concordata talora forzosa e forzata, dei comuni tanto dell’area montana ad ovest della città che della fascia collinare fino al mare ad est34, secondo una direttrice
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tuzionale di vescovo e città in Italia e il suo superamento nella res publica comunale, in G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino 1979, pp. 397427, già edito con il titolo Vescovi e comuni in Italia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a cura di C.G. Mor - H. Schmidinger, Bologna 1979, pp. 253282. Lungi dall’affrontare specificamente in questa sede problemi e tematiche di mera storia comunale, e riprendendo piuttosto quanto rilevato da Antonio Rigon, in un’analisi molto più ampia sul ruolo delle Chiese locali nelle realtà comunali e nei loro rapporti interni, per il medesimo periodo di quello qui in esame, due linee di lungo periodo ci sembra però che possano essere identificate anche nella storia ascolana - ecclesiastica o meno - del XIII secolo. Da una parte, la difesa, da parte dell’episcopato, delle sue prerogative, del suo patrimonio, - in una parola della propria libertas; dall’altra, il tentativo incessante - e infine coronato da indubbio successo - da parte del comune, di espandersi e di inquadrare le forze presenti nel contado, ai danni soprattutto dell’episcopato - v. A. Rigon, Il ruolo delle chiese locali nelle lotte tra magnati e popolani, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del XV Convegno di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 117-135: 135. Sul graduale processo della perdita d’importanza e soprattutto della diminuzione del rilievo politico dell’episcopato ascolano, v. Cameli, Tra papato ed impero cit., parte II, cap. II: Le temporalità vescovili e i rapporti con il comune, § 4: Il vescovo soppiantato dal comune e il ruolo del papato. La complessità e allo stesso tempo l’importanza di tali rapporti per il caso ascolano sono sottolineate da Pinto, Ascoli tra Due e Trecento cit., pp. 282-283, che oltre ad abbozzare qualche indicazione su questo tema, attira l’attenzione anche su un’altra storia, importante, che è «ancora tutta, o quasi, da scrivere»: quella dei rapporti tra il comune e il monastero di S. Angelo Magno. 34 Si vedano, su questo aspetto, le notizie e i dati forniti da C. Ciaffardoni - L. Ciotti, I documenti archivistici dei secoli XIII-XV relativi alle feste patronali ascolane, in Origine delle feste patronali e dei giochi storici ascolani in onore di S. Emidio. Atti del Convegno biennale sui giochi storici (Ascoli Piceno, 11 luglio 1987), Ascoli Piceno 1987 (Ente Quintana. Quaderno n. 2), pp. 43-51; M.E. Grelli, «De festis celebrandis». Sacro e profano nel Trecento ascolano: calendario, riti e persone, in Segni, simboli, spazi e colori della festa mondana medievale. Atti del V Convegno biennale sui giochi storici (Ascoli Piceno, 4-5 maggio 1996), a cura di B. Nardi - S. Papetti, Ascoli Piceno 1996 (Ente Quintana. Quaderno n. 8), pp. 133-154; M.E. Grelli, Le dinamiche socio-politiche del comune ascolano nel secolo XIII, in Esculum e Federico II. L’imperatore e la città: per una rilettura dei percorsi della memoria. Atti del Convegno - IX edizione del “Premio internazionale Ascoli Piceno” (Ascoli Piceno, 14-16 dicembre 1995), Spoleto-Ascoli Piceno 1998, pp. 87-119. A proposito della cosiddetta “costruzione del contado”, iniziata essenzialmente dopo la metà del XIII secolo, portata avanti tra alterne vicende e singolarmente connotata - come ha rilevato Giuliano Pinto - da una distinzione fra «contado effettivamente controllato e territorio virtuale» (v. Pinto, Ascoli tra Due e Trecento cit., p. 281 per la citazione; a questo si rimanda per una efficace e dinamica ricostruzione dell’impegno ascolano di espansione territoriale ma anche per l’individuazione delle «molte singolarità» che il caso di Ascoli presenta nel panorama due-trecentesco della Marca anconetana), va notato che il favore del papa ascolano permise alla città di recuperare parte dei castelli che a questa, e alla Chiesa di Roma, erano stati sottratti dagli Angioini (v. Franchi, Ascoli pontificia
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d’espansione che era suggerita, come del resto altrove, «non solo dai limiti delle antiche distrettuazioni di origine carolingia, bensì pure dai confini delle circoscrizioni diocesane»35. Il quadro locale dell’ultimo ventennio del secolo vedeva dunque le due principali istituzioni cittadine sostanzialmente impegnate a perseguire i loro obiettivi senza lasciarsi troppo distrarre dagli eventi esterni: il comune preso com’era ad imporre ed estendere il proprio dominio sui castelli e le comunità del distretto, e l’episcopato teso, per quanto riguarda il côté temporale, a salvaguardare le sue proprietà tanto dalle insidie angioine che da quelle dello stesso comune. In più, tra di loro si era ormai compiuta quella divaricazione che era in atto da decenni e che le aveva portate ciascuna ad agire sempre più nel campo che gli era proprio, mentre sempre meno frequenti divenivano le occasioni di condivisione o sovrapposizione di interessi o quelle di scontro aperto.
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Tutte le situazioni fin qui appena accennate trovano uno specchio nei documenti d’archivio; in particolare, l’espansione territoriale del Comune ascolano e le sue acquisizioni/conquiste sono ampiamente testimoniate nei documenti dell’Archivio Segreto Anzianale, oggi conservato nel fondo dell’Archivio Storico del Comune di Ascoli presso l’Archivio di Stato di Ascoli Piceno. E nello stesso fondo, in una pergamena che contiene le copie semplici - realizzate per mano di Timideus Venture Marci, publicus notarius constitutus - di tre atti redatti tra il 1296 e il 1317 molto probabilmente dallo stesso Timideus, si trova quella che può ritenersi la prima attestazione relativa a Cecco d’Ascoli oggi nota.
cit., II, nn. 182-183, pp. 202-203; 186, p. 206; 200, p. 222; 210, p. 232, anche per i rimandi alle eventuali edizioni); di riottenere la giurisdizione su alcuni castelli del contado (ibid., II, n. 223, p. 245); e di riavere il controllo, tanto a beneficio del comune che dell’episcopato, sul castello di Appignano, sottraendolo quasi al rettore e ai suoi ufficiali (ASAP, ASCA, ASA, G.I.3: Orvieto, 6 settembre 1290. Niccolò IV, su supplica del vescovo e del comune di Ascoli, ordina al rettore della Marca anconetana di restituire loro il castello di Appignano, con uomini e vassalli, su cui da tempo immemorabile episcopato e comune esercitavano congiuntamente la giurisdizione spirituale e temporale e di rimuovere quindi i rettori e gli ufficiali che lo stesso rettore della Marca aveva posto a capo di una parte del castello in seguito ad una discordia sorta in passato nella città di Ascoli. Su questo documento - che è una copia autentica redatta da Geronimo Venture Petri il 20 settembre 1300 - v. L. Ciotti, I documenti - Le pergamene dei secoli XII-XIV, in Appignano nel Medioevo, Ascoli Piceno 1995, pp. 63-66; Franchi, Ascoli pontificia cit., II, n. 215, p. 237). 35 G.G. Merlo, Proprietà ecclesiastiche e potenza delle chiese vescovili nel secolo XII, in Storia dell’Italia religiosa. I: L’Antichità e il Medioevo, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 1993, pp. 293-309: 299. Ma si veda anche, a mo’ di esempio, A. Bartoli Langeli, Papato, vescovi, comune, in Una Città e la sua Cattedrale: il Duomo di Perugia, Perugia 1992, pp. 85-99: 89.
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Si tratta dell’istituzione, il 16 settembre 1296 da parte del vescovo ascolano Bongiovanni, come chierico e prebendato delle chiese di S. Massimo e di S. Maria de Lança Acuta, poste in territorio di Castorano, di un certo dompnus Franciscus Stabilis, e dell’investitura per anulum dello stesso di tutti i diritti connessi. Come non pensare che tale Franciscus Stabilis possa proprio essere quello che sarebbe poi diventato più noto come Cecco d’Ascoli? Per poterlo affermare con certezza occorrerebbe in primo luogo escludere i possibili casi di omonimia; ma è, questo, uno sforzo difficilmente coronabile da successo in un contesto cittadino per il quale la documentazione e gli studi nel campo dell’onomastica medievale sono tutt’altro che abbondanti e dove, per di più, il patronimico (o ormai cognome?) Stabilis ricorre piuttosto frequentemente36. Inoltre gli stessi documenti ascolani che attestano una certa diffusione del medesimo patronimico, non aiutano certo ad ancorare Francesco Stabili, alias Cecco d’Ascoli, ad un ceppo familiare37. In nessun modo è infatti possibile intravedere una relazione o stabilire un rapporto tra il nostro e i personaggi menzionati nei documenti. E, ancora, appa-
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Sulla diffusione del patronimico in questione si vedano innanzitutto i dati forniti da Paoletti, Il più antico documento cit., pp. 319-320, desunti dall’esame delle pergamene «nuove affatto ai biografi dello Stabili» - conservate nell’archivio del monastero di S. Angelo Magno, e ora anche, con qualche precauzione, la trattazione di Bartocci, La famiglia Stabili cit., pp. 129-138. Per quanto concerne il sistema onomastico centro-italiano dell’età di mezzo e gli studi al riguardo, si rimanda all’osservazione di J.-C. Maire Vigueur, Nello Stato della Chiesa: da una pluralità di circuiti al trionfo del guelfismo, in I podestà dell’Italia comunale, I/2: Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri fine XII sec. - metà XIV sec., a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma 2000 (Nuovi Studi Storici, 51), pp. 741-814: 783784, che, riferita all’intera area dello Stato della Chiesa, è più che mai vera per il caso ascolano: l’autore fa riferimento a «due circostanze specifiche dell’area studiata. La prima nasce dal fatto che il nome di famiglia, anche nei ceti più alti della società, si è fissato in queste province dello Stato della Chiesa con notevole ritardo rispetto a quello che si verifica nelle altre regioni dell’Italia comunale. La seconda è dovuta allo stato dei lavori in materia di prosopografia […] per altri centri i lavori tuttora disponibili sono così poveri di notizie da non fare neppure menzione delle famiglie più eminenti del luogo». Ovvero, se lo fanno - così si potrebbe meglio precisare il pensiero dello storico - lo fanno in modo anacronistico e soprattutto senza alcun fondamento storico, attribuendo nomi di famiglia di epoca moderna a personaggi che nel Medio Evo erano semplicemente indicati dal patronimico. E conclude Maire Vigueur: «È una carenza che caratterizza in particolar modo la storiografia dei centri marchigiani […]». Si vedano inoltre il lavoro di O. Guyotjeannin, Problèmes de la dévolution du nom et du surnom dans les élites d’Italie centro-septentrionale (fin XIIe-XIIIe siècle), «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 107 (1995), pp. 557-594, ma soprattutto lo studio di Ph. Jansen, L’anthroponymie dans les Marches du milieu du XIIIe siècle à la fin du XIVe siècle: archaïsme ou régression?, ibid., 110 (1998), pp. 201-225. 37 Assolutamente non convincenti perché non fondate su una interpretazione “critica”
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re difficile ricostruire legami famigliari tra gli stessi personaggi che figurano nella documentazione. L’unica eccezione può forse essere il caso di Giso Stabilis (a. 1150)38, Vincentius Gisonis Stabilis (a. 1235)39, Stabilis Gisonis (a. 1236)40, Iohannes Gisonis Stabilis (aa. 1235, 1240 e 1242)41, filii Gisonis Stabilis (a. 1250)42, Iacobus filius olim Vincentii Gisonis Stabilis e Berardus Gisonis Stabilis (a. 1273)43, ed eventualmente magister Iohannes Stabilis (1275)44, per i quali si puó ragionevolmente tracciare un breve tratto di albero genealogico a partire da un eponimo Stabilis45 da cui discenderebbe un certo Giso, padre presumibilmente di Vincenzo (da cui nasce Giacomo, attestato nel 1273), di Giovanni, di Berardo e forse anche di Stabile che riprende il nome del capostipite della famiglia e che potrebbe essere il padre di magister Iohannes Stabilis (attestato nel 1275), come si vede nello schema che segue:
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Stabilis | Giso Stabilis
Vincentius Gisonis Stabilis | Iacobus
filius olim Vincentii Gisonis Stabilis
Iohannes Gisonis Stabilis
Berardus Gisonis Stabilis
Stabilis Gisonis (?) | magister Iohannes Stabilis (?)
dei documenti appaiono le dimostrazioni del Bartocci, La famiglia Stabili cit., che - rifacendosi al Paoletti e allo stesso tempo correggendolo - forza i dati storici per dimostrare una tesi preconfezionata. Un esempio su tutti: perché accettare, come probante, il documento in cui figura un certo Franciscus Simeonis, per di più di Castrum Ceresie - dunque neanche ascolano -, senza che vi compaia minimamente il patronimico Stabilis, per affermare la discendenza di Cecco da Simone e collegarsi così con le sentenze del processo - per di più «apocrife», come si è detto - che vogliono «magistrum Cechum filium quondam magistri Simonis»? Per i riferimenti, ibid., pp. 134-135; Beccaria, I biografi cit., pp. 39-40 nota 3, che già qualifica come «vago e dubbio» l’accenno a Cecco rinvenuto dal Paoletti nelle «pergamene corrose» dell’archivio di S. Angelo Magno. 38 ASAP, Monastero di S. Angelo Magno (= SAM), cass. II, n. 9 - Tomo I, Scrittura XII. 39 ASAP, SAM, cass. IV, n. 22 - Tomo I, Scrittura LXXIV. 40 ASAP, SAM, cass. IV, n. 27 - Tomo I, Scrittura LXXVIII. 41 ASAP, SAM, cass. IV, n. 22 - Tomo I, Scrittura LXXIV; ASAP, SAM, cass. V, n. 1 Tomo I, Scrittura CVIII; ASAP, SAM, cass. V, n. 13 - Tomo I, Scrittura CIV. 42 ASAP, SAM, cass. VI, n. 1 - Tomo I, Scrittura CXXIII. 43 ASAP, SAM, cass. VIII, n. 16 - Tomo I, Scrittura CCXV. 44 ASAP, SAM, cass. VIII, n. 30 - Tomo I, Scrittura CCXXIX. 45 Si tratta dello stesso Stabilis padre di Odemondo e Azzo menzionati in altri due do-
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Ma in questa genealogia non figura il nome Francesco ... Notizie chiarificatrici sull’identità del personaggio non ci vengono neanche dalle chiese di Castorano menzionate nel documento, per le quali non siamo a conoscenza di documentazione che le riguardi46. Sic stantibus rebus, dato che le certezze incontrovertibili - si sa - sono sempre meno una prerogativa di questo mondo, non è dunque possibile sostenere con assoluta certezza che il dompnus Franciscus Stabilis del nostro documento sia realmente quello che sarebbe divenuto più tardi il famoso Cecco d’Ascoli. Ma alcuni dati spingerebbero a sostenere fondatamente questa ipotesi: l’omonimia in primo luogo, e non è fattore da sottovalutare in quanto, benché - come si è detto - il patronimico Stabilis fosse piuttosto presente nell’onomastica ascolana, non è così scontato che lo fosse anche l’associazione con il nome Francesco; e la cronologia soprattutto. Se si accetta infatti il 1269 come anno di nascita di Cecco47, si ha che nel 1296 il nostro avrebbe avuto 27 anni, età che: 1) rende certo possibile lo status chiericale - l’età minima canonica per la prima tonsura era fissata a 7 anni48; 2) rende credibile, in conseguenza a questo, l’assegnazione di una prebenda, che poteva essere conferita dunque già a 7 anni per il sostentamento materiale dell’incaricato dell’officiatura della istituzione ecclesiastica; 3) si concilia con la notizia della presenza di Cecco ad Ascoli in età giovanile sostenuta con veemenza dal Paoletti specialmente in relazione all’anno successivo (1297)49;
cumenti del monastero di S. Angelo Magno per gli anni 1101 e 1104? Si vedano ASAP, SAM, cass. II, n. 1 - Tomo I, Scrittura IV; ibid., cass. II, n. 2 - Tomo I, Scrittura V. 46 S. Maria di Lanciacuta è menzionata semplicemente come chiesa esistente nei secoli XIV-XV nel territorio di Castorano, in G. Bartocci, Castorano nei secoli, Fermo 1972, p. 44. L’unica altra attestazione finora nota proviene dalle Rationes Decimarum Italiae. Marchia, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1950 (Studi e testi, 148), n. 7789 (ecclesia S. Marie de Lazacuta). 47 Per la data di nascita di Cecco v. supra, note 5-6 e testo corrispondente. 48 Ma bisogna ricordare che nel documento preso in considerazione dal Paoletti, il priore del monastero del Volubrio che querela Cecco precisa: «Cum dictus Francisscus esset laycus et non oblatus nec conversus dicti monasterii» - cfr. Paoletti, Il più antico documento cit., pp. 317, 333. Probabilmente per laycus bisogna intendere chi non ha ricevuto gli ordini maggiori oppure era un espediente per dire che Cecco non apparteneva in nessun modo al suddetto monastero, che - a detta del Paoletti - era l’unico e reale scopo del priore, ibid., p. 333. 49 Il Paoletti sostiene che tale presenza «non fosse di pochi giorni, accidentale, ma abituale» e confuta le tesi dei «biografi» di Cecco - che lo farebbero «partire da Ascoli appena quin-
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4) anche non volendo dedurne l’effettiva e continuata presenza del poetaastrologo ad Ascoli, proverebbe ugualmente il vincolo, istituzionale, religioso ed economico - rappresentato dalla prebenda - con le istituzioni ascolane. All’inverso, partendo dal dato storico ovvero documentale e ragionando per induzione, si ha che i fatti attestati non risultano in alcun modo inconciliabili con un eventuale riferimento a Cecco. Accettata dunque questa premessa e cioè l’eventualità che il destinatario del conferimento della prebenda menzionata nell’atto del 1296 fosse proprio Cecco, ne risulta che il documento in questione, benché non direttamente legato al contesto politico-territoriale ascolano (come poteva esserlo invece quello studiato dal Paoletti) bensì a quello religioso o meglio più squisitamente amministrativo-spirituale della diocesi ascolana, possa essere l’ulteriore e nuova conferma - se mai ce ne fosse bisogno - dello stretto legame di Cecco con la natia Ascoli, legame filiale ed affettivo dichiarato dallo stesso in alcuni passi de L’Acerba50. Il suo valore risulta accresciuto se si considerano altri fattori: ovvero che si tratta di un documento di origine e provenienza ascolane, dunque della patria di Cecco; che è, di più, l’unico documento ascolano su Cecco a quanto oggi se ne sa51; che è inedito e sconosciuto a chiunque si sia fino ad oggi occupato dell’astrologo e poeta ascolano; che fornisce un elemento nuovo e finora completamente ignoto sulla vita di Cecco, vale a dire che fosse un chierico52. Ma soprattutto sarebbe uno dei pochi documenti disponibili in un contesto assai povero di attestazioni documentali e di dati storici, com’è il caso della biografia dell’ascolano, e ancor più si segnalerebbe, stavolta davvero - per ripetere le parole del Paoletti - come «il più antico documento autentico su Cecco d’Ascoli».
dicenne per iniziare quegli studi cui attese ininterrottamente per tutta la vita» - con la seguente motivazione: «come potrebbe rappresentarci in modo così vivo il quadro delle lotte intestine, che prorompevano continue sotto l’effusa serenità del cielo italiano? Come avrebbe potuto levare, nell’accoramento profondo dell’animo, sì sdegnosa la parola verso la matre sua, terra esculana, se non avesse vissuto quella vita di guerre che facevano sanguigni i campi e infocati i monti adorni del Piceno?». Il Paoletti conclude dunque che Cecco «passò la massima parte della sua età virile in patria» e procede poi a dimostrare l’erroneità dei dati desumibili da «tutte le biografie leggendarie dell’Ascolano» contrari a questa evidenza. 50 Si veda, ad esempio, la citazione riportata dal Paoletti, ibid., p. 321. 51 È comune l’attribuzione della causa della mancanza di documentazione ascolana su Cecco all’incendio del Palazzo del Popolo di Ascoli che sarebbe stato appiccato nel 1535 dal Commissario papale Quieti. Su questo episodio v. quanto riportato da Beccaria, I biografi cit., pp. 39-41. 52 Non ci sono - a quanto se ne sa finora - altre fonti che attestino lo status chiericale di Cecco: non le sue opere, non gli atti del suo processo né le biografie erudite.
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«Un maestro Cecco d’Ascoli, che fu sottilissimo uomo in astrologia, e dicesi che disse e dicea contro alla fede, ma mai non lo confessò. […]; ma dicesi che la cagione perché fu arso fu che disse’ che Madonna Giovanna, figliuola dello Duca, era nata in punto di dovere essere in lussuria disordinata. Di che parve questo essere sdegno al Duca, perché non avrebbe voluto che fosse morto un tanto uomo per un libro. E molti vogliono dire ch’era nemico di quel frate Minore inquisitore e arcivescovo di Cosenza, perché i frati Minori erano molto suoi nimici. Di che il fece ardere a dì 16 di settembre 1327».
Così Marchionne di Coppo Stefani nella sua Cronaca Fiorentina1 riporta la notizia della condanna di Cecco. Questa sintetica informazione del cronista fiorentino contiene, tra l’altro, anche un errore di non secondaria importanza: il vescovo minorita, che secondo l’autore sarebbe stato inquisitore e nemico di Cecco, non era affatto inquisitore, e, soprattutto, non era vescovo di Cosenza, ma di Aversa, come riporta giustamente l’altro cronista contemporaneo, Giovanni Villani2. Preciso e dettagliato il racconto del Villani, anche se non privo di riferimenti leggendari; al contrario una cronaca che oggi verrebbe definita da boulevard quella di Coppo Stefani, il cui autore sembrerebbe interessato - in questo caso particolare - ai soli pettegolezzi di palazzo. L’unica fonte che ci fornisce informazioni utili per il nostro lavoro resta, quindi, quella del Villani3, che, oltre ad essere la più dettagliata, è an-
1 Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, in R.I.S.2, 30/1, Città di Castello 1903, pp. 1-433: specialmente p. 154, Rubrica 435a - Come il Duca fece ardere maestro Cecco d’Ascoli per eretico. 2 «[…] il cancelliere del duca, ch’era frate minore vescovo d’Aversa, parendogli abominevole a tenerlo [Cecco d’Ascoli] il duca in sua corte, il fece prendere», Cronica di Giovanni Villani a miglior lezione ridotta coll’aiuto de’ testi a penna, Firenze, per il Mugheri, 1823, VVI, pp. 55-56, lib. X, cap. XL - Come in Firenze fu arso maestro Cecco d’Ascoli astrologo, per cagione di resia. 3 Ibid.: «Nel detto anno (1327), a dì 16 di Settembre, fu arso in Firenze per lo ‘nquisi-
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che quella che cita - pur non esplicitando i nomi - tutti i protagonisti della vicenda: Accursio Bonfantini l’inquisitore4, Carlo di Calabria, Ludovico il Bavaro, Castruccio Castracane5 e Raimondo de Mausaco, vescovo di Aversa e cancelliere del duca di Calabria di cui ci occuperemo specificamente in questa sede. Le trascrizioni tarde della condanna6 annotano anche la presenza del legato papale in Tuscia, Giovanni Orsini, del vescovo di Firenze Francesco de’ Silvestri da Cingolo (dal 1323 al 1341)7 e Boso degli Ubertini, eletto vescovo di Arezzo8. Le vicende relative all’imperatore e al
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tore de’ paterini uno maestro Cecco d’Ascoli, il quale era stato astrologo de duca, e aveva dette e rivelate per la scienza d’astronomia, ovvero di nigromanzia, molte cose future, le quali si trovarono poi vere, degli andamenti del Bavaro e de’ fatti di Castruccio e di quegli del duca. La cagione perché fu arso sì fu, perché essendo in Bologna, fece un trattato sopra la spera, mettendo che nelle spere di sopra erano generazioni di spiriti maligni, i quali si poteano costringere per incantamenti sottocerte costellazioni a poter fare molte meravigliose cose, mettendo ancora in quello trattato necessità alle influenze del corso del cielo, e dicendo, come Cristo venne in terra accordandosi il volere di Dio colla necessità del corso di storlomia, e dovea per la sua natività essere e vivere co’ suoi discepoi come poltrone, e morire della morte ch’egli morio; e come Antiscristo dovea venire per corso di pianete in abito ricco e potente; e più di altre cose vane e contra fede. Il quale suo libello in Bologna riprovato, e ammonito per lo’nquisitore che non lo usasse, gli fu opposto che l’usava in Firenze; la qual cosa si dice che mai non confessò, ma contraddisse alla sua sentenzia, che poi che ne fu ammonito in Bologna, mai non lo usò […]». 4 Su questo personaggio si veda E. Ragni, Bonfantini, Accursio, in Dizionario biografico degli italiani, 12 (1970), pp. 10-11. 5 Su Castruccio Castracane vedi M. Luzzati, Castracani degli Antelminelli, Castruccio, ibid., 22 (1979), pp. 200-210. 6 Giovanni Lami, autore dei due transunti delle condanne di Cecco conservate nel codice della biblioteca Riccardiana, non mostra particolare interesse al contenuto della trascrizione, anzi, secondo Augusto Beccaria - cfr. A. Beccaria, I biografi di maestro Cecco d’Ascoli. Le fonti per la sua storia e la sua leggenda, «Reale Accademia delle Scienze di Torino», ser. II, 58 (1907-1908), p. 58 - le sue trascrizioni presentano qualche errore; cfr. G. Lami, Catalogus codicum ms. qui in Bibliotheca Riccardiana Florentiae adservantur, Liburni 1756, pp. 235-256: il codice utilizzato dal Lami è il n. 673. Le stesse trascrizioni sono riportate nelle sue Lezioni di antichità toscana, II, Firenze, Bonducci, 1766, pp. 593 ss.; G. Bonfitto, Perché fu condannato al fuoco Cecco d’Ascoli?, «Studi e documenti di storia e diritto», 20 (1899), estr., Roma 1900, p. 368 nota 3, precisa che le trascrizioni del Lami si trovano alla c. 111r-v del codice citato, e a c. 124 della precedente collocazione. Rimando al lavoro del Beccaria sia per una disamina della produzione storiografica precedente, sia per una ricostruzione del processo stesso, di cui l’autore elenca le fonti allora conosciute. 7 C. Eubel, Hierarchia Catholica Medi Aevi (= Eubel), I, Monasterii 1913, p. 250; F. Ughelli, Italia Sacra, edidit N. Coleti (= Ughelli), III, Venezia 1718, pp. 144-148. 8 Eubel, I, p. 104; Ughelli, I, Venezia 1717, pp. 424-427. Boso degli Ubertini fu eletto vescovo di Arezzo nel 1325, quando il suo predecessore, Guido Tarlati di Pietramala (13121327), in carica al momento della condanna di Cecco, venne scomunicato da Giovanni XXII per aver dato sostegno a Uguccion della Faggiola a Montecatini e a Castruccio Castracane ad Altopascio (1325), per la conquista di Città di Castello, per aver fomentato le
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ruolo giocato da Castruccio Castracane entreranno a far parte solo marginalmente del presente lavoro, poiché sono già sufficientemente conosciute. Nostro compito in questa sede è studiare il ruolo assunto nella condanna di Cecco dal cancelliere ducale, un personaggio complesso, del quale ci limitiamo a presentare i passaggi più rilevanti della biografia, cui intendo dedicare uno studio specifico in altra sede. Il cancelliere del duca: Raimondo de Mausaco
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La diocesi di Aversa è l’ultima tappa della carriera episcopale del cancelliere del duca di Calabria: eletto vescovo di Alba nel 13119, resse la diocesi per dieci anni, fino a quando nel 1321 venne trasferito da Giovanni XXII alla sede episcopale teatina, e da qui nel 1326 a quella di Aversa10. Nell’archivio diocesano di Chieti si conserva un «Inventario dei beni della mensa arcivescovile di Chieti e di tutti i diritti e prerogative formato nell’anno 1323 d’ordine di Mons. fra’ Raimondo de’ Mausaco, vescovo di Chieti». Il rogatore appare direttamente nel titolo: si tratta dello stesso personaggio che nel proprio ruolo di vescovo di Aversa e di cancelliere di Carlo di Calabria, quattro anni dopo, sarà protagonista della condanna di Cecco11. Poco sappiamo di lui12, solo l’erudizione locale ci offre una prima serie di notizie, corredate da qualche riferimento bibliografico di una certa uti-
ribellioni di Assisi e Spoleto, e per essersi impossessato del tesoro pontificio della Basilica di Assisi. Il Tarlati moriva il 21 ottobre del 1327, un mese dopo la condanna di Cecco; questo spiegherebbe la presenza di Boso a Firenze. In assenza di una monografia metodologicamente aggiornata su Guido Tarlati, si rimanda alle utili informazioni di E. Droandi, Guido Tarlati di Pietramala ultimo principe di Arezzo, Cortona 1993. Per entrambi i vescovi si veda A. Tafi, I vescovi di Arezzo, Cortona 1986, pp. 82-92. 9 Dell’attività di Raimondo vescovo di Alba sappiamo poco. Allo stato attuale della ricerca si conosce un solo documento emesso in questo periodo, con il quale Raimondo concede ai marchesi di Ceva di alienare il castello di Mirabello. Per una ricostruzione dell’apparato ecclesiastico alla corte angioina in Piemonte si veda E. Canobbio, Per una prosopografia dell’ufficialità subalpina: personale ecclesiastico al servizio degli Angiò, in Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale. Atti del Convegno (Alba, 2-3 settembre 2005), in corso di stampa. La copia del documento di Raimondo mi è stata fatta pervenire dall’autrice, che ringrazio cordialmente anche per avermi consentito di consultare il dattiloscritto dell’articolo. 10 Ughelli, I, p. 491. In relazione a Raimondo, l’autore riporta la data di trasferimento dalla diocesi teatina a quella Aversana e la data di morte. 11 Il Ragni, autore della voce che il Dizionario biografico degli italiani dedica ad Accursio Bonfantini, l’inquisitore del processo a Cecco, chiama il de Mausaco Rinaldo invece di Raimondo. 12 Per una prima ricostruzione biografica si veda M.G. Del Fuoco, Raimondo de Mau-
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lità. La prima informazione su Raimondo è riportata da Girolamo Nicolino, uno studioso teatino del XVII secolo. L’erudito ci informa che Raimondo era originario di Marsiglia, e appartenente all’ordine dei frati Minori, inoltre fa riferimento al rapporto di Raimondo con Carlo di Calabria, ma non sembra essere sicuro di quest’ultima informazione, poiché la introduce con un «si dice»13. Due secoli dopo un altro studioso locale, Giovanni Ravizza, precisa ulteriormente questa notizia: «Dopo un anno e mezzo di vacanza, Frà Raimondo della famiglia Mausaco della città di Marsiglia, dell’Ordine de’ Minori, essendo Vescovo d’Alba in Savoja, fu nell’anno 1321 dal Pontefice Giovanni XXII traslato nella Chiesa di Chieti. Uomo di merito, e di somma dottrina fu nell’anno 1322 eletto Cancelliere, ed intimo Consigliere di Carlo Duca di Calabria, Vicario di Re Roberto, da cui ricevè a favore della sua Chiesa la conferma di tutti i diritti, e privilegj, che antecedentemente concessi gli avevano i Re, Imperatori e Pontefici sino a quell’epoca»14. Sia nel titulus inquisitionis che nella littera commissionis dell’inventario, a cui abbiamo precedentemente accennato, il de Mausaco è definito, appunto, cancelliere ducale. Pur con la consapevolezza di una ipotesi tutta da verificare, sembrerebbe che il trasferimento alla diocesi teatina abbia facilitato l’ingresso del de Mausaco nella cancelleria Angioina. La sua collaborazione con gli Angioini doveva essersi stabilita, però, in anni precedenti: ne è indice la sua elezione a vescovo d’Alba, una città del Piemonte, capoluogo del dominio regionale angioino e residenza regia15. Il nostro è nominato vescovo di Chieti nel 132116, l’anno successivo ottiene la nomina di cancelliere, nel 1323 si trova a Castronuovo (L’Aqui-
saco O. M. e l’inventario dei beni della diocesi teatina, in Episcopato e monasteri a Penne e in Abruzzo. Esperienze storiche e storiografiche a confronto, a cura di M. Del Monte, in corso di stampa. 13 Girolamo Nicolino, Historia della città di Chieti, Napoli, Per gli heredi d’Honofrio Savio, 1657, Bologna, Forni, 1967 (ristampa fotomeccanica), pp. 154, 155: «di cui (Carlo) si dice che [Raimondo] fusse stato cancelliere e famigliare». 14 Lo stesso viene sostenuto da G. Ravizza, Memorie istoriche intorno la serie de’ vescovi ed arcivescovi teatini, riunite, e compilate dall’istesso autore delle notizie biografiche degli uomini illustri della città di Chieti, Napoli 1830, p. 18. 15 Per un primo approccio al problema si vedano, oltre alla bibliografia specifica relativa alla dinastia angioina, gli atti del convegno Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale cit. Cfr. M. Tamagnone, Il Piemonte in età comunale e le relazioni di Asti con Alba nel medio evo, Torino 1931. 16 Nell’archivio diocesano di Chieti si conservano quattro documenti relativi alla sua gestione della diocesi. Oltre al suddetto inventario, si conservano due documenti attinenti il castello di Montesilvano, attualmente un centro turistico a nord di Pescara. Alla metà del XIII
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la), località dalla quale il vescovo ordina di redigere copia dello strumento con cui il suo predecessore Alessandro, nel 1259, col consenso del Capitolo, aveva ceduto in enfiteusi il castello di Montesilvano a Bernardo da Raiano17. All’inizio di questo stesso anno, quando decide di far redigere l’inventario, Raimondo si trova a Napoli, come testimonia la datazione della littera commissionis18. Per il 1324 non abbiamo documentazione diretta, ma solo l’incarico dato ai vescovi di Nola e Caserta di ricevere dal vescovo il giuramento di fedeltà alla chiesa romana19. Non sappiamo esattamente per quale motivo sia stato richiesto tale giuramento a tre anni dal trasferimento dalla sede di Alba a quella di Chieti; probabilmente Raimondo non aveva ancora trasferito la sua residenza a motivo dei molteplici impegni alla corte di Carlo di Calabria, impegni che costrinsero il vescovo-cancelliere ad una frequente presenza a Napoli, dove possedeva una casa, nella quale, a volte, si stilavano gli atti che riguardavano l’organizzazione politico-religiosa del Regno. È quanto avviene in un documento del 1325, col quale il giudice Riccardo, a nome della comunità di Benevento, consegnava lettere di re Roberto a Guglielmo de Sabrano conte di Ariano e Apice, intimandogli di darne esecuzione; la copia viene redatta il 23 novembre a Napoli «in hospitio habitationis suprascripti domini ducalis cancellarii»20. Il 21 febbraio del 1326 sopraggiunge il trasferimento alla sede aversana, dove il nostro non pare risiedere, dato che già il 2 gennaio del 1327 a Firenze, al seguito di Carlo di Calabria, stila un documento con il quale Carlo nomina
secolo il castello, di pertinenza della chiesa teatina, era stato concesso in enfiteusi a Bernardo da Raiano dal vescovo Alessandro, contratto confermato dai vescovi successivi fino alla fine del secolo, quando, in due lettere del 1291, il castello è dichiarato usurpato dai da Raiano con l’aiuto di Manfredi. Senza volerci inoltrare nei delicati equilibri che si sono venuti a creare in Italia meridionale dopo la sconfitta di Manfredi, mi preme sottolineare che Raimondo in questo caso, come in quello relativo al castello di Scorciosa, a sud di Chieti, nelle vicinanze di Fossacesia, occupato da un certo Roberto Morello, ha impegnato le sue energie nella ricostruzione del patrimonio diocesano; vedi in proposito Del Fuoco, Raimondo de Mausaco cit. Un Berardus da Rayano, presente nell’elenco dei conti e baroni che accompagnarono Carlo di Calabria a Firenze, potrebbe essere indice di una riappacificazione tra la famiglia e la casa angioina. L’elenco completo dei nobili al seguito di Carlo è edito in R. Bevere, La signoria di Firenze tenuta da Carlo figlio di re Roberto negli anni 1326-1327, «Archivio storico per le province napoletane», 33 (1908), pp. 395-465, specialmente p. 447. 17Archivio Arcivescovile di Chieti (= AAC), Teate 158; A. Balducci, Regesto delle pergamene della curia arcivescovile di Chieti, Casalbordino 1926, n. 132. 18 AAC, s.c., Inventario, f. 7: «Neapoli die decimo nono Martii sextæ indictionis». 19 Archivio Segreto Vaticano, Reg. Vatic. 76, f. 295, ep. 896. Cfr. F. Savini, Septem dioeceses aprutienses medii aevi in vaticano tabulario, Roma 1912, p. 293. 20 Il documento è edito in S. Borgia, Memorie istoriche della pontificia città di Benevento, Roma 1763-1769, voll. 3, specialmente t. III, p. 284.
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Filippo di Sangineto maresciallo in partibus Tuscie. Il documento è datato «Florentie per manus venerabilis patris domini fratris Raymundi, Dei gratia episcopi Aversani, cancellarii ac domini Rogerii Marchisii de Salerno, hospicii nostri iudicis, domesticorum, consiliariorum, familiarium et fidelium paternorum et nostrorum»21. Quattro mesi dopo, il 28 maggio, Carlo incarica di nuovo il suo cancelliere di raccogliere informazioni intorno alla richiesta di appello contro la sentenza del vicario di Firenze nella controversia fra Tommaso di Marzano, conte di Squillace, Tommaso Stendardo, ed i procuratori dei soci o dei beni della disciolta società degli Scali22. A Firenze i due soggiornano fino alla fine dell’anno, quando Roberto richiama il figlio a Napoli, preoccupato per la discesa del Bavaro. Ad Aversa Raimondo arriva forse solo dopo la morte di Carlo, avvenuta il 9 novembre 1328.
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I regnanti angioini e la dissidenza francescana
L’attività svolta alla corte di Roberto coinvolse Raimondo nei rapporti tra i regnanti angioini, Roberto e Sancia, e la dissidenza francescana che aveva trovato rifugio nel regno di Napoli23. Senza volerci inoltrare nel me-
21 Bevere, La signoria di Firenze cit., 34 (1909), p. 407. 22 Ibid., 35 (1910), p. 41. 23 Per un’attenta disamina delle posizioni storiografiche
sull’argomento si veda R. Paciocco, Angioini e Spirituali. I differenti piani cronologici e tematici di un problema, in L’État Angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle. Actes du colloque international organisé par l’American Academy in Rome, l’École française de Rome, l’Istituto storico italiano per il medioevo, L’U.M.R. Telemme et l’Université de Provenne, l’Università degli studi di Napoli “Federico II” (Roma-Napoli, 7-11 novembre 1995), Roma 1998, pp. 253-287, per quanto concerne Roberto e Sancia specificatamente le pp. 271-287. I rapporti tra Roberto e la dissidenza francescana risalgono al periodo trascorso da Roberto e i suoi fratelli a Barcellona come ostaggi. Qui infatti erano entrati in contatto con Pietro di Giovanni Olivi, che, invitato a far visita agli ostaggi, si era rifiutato, perché la sua presenza sarebbe stata sgradita al re, come egli stesso scrive in una lettera datata 18 marzo 1295. Carlo aveva paura, si legge nella lettera indirizzata ai tre fratelli, che nei principi l’Olivi potesse ingenerare una “infatuazione”. All’Olivi era stato riferito da persona degna di fede «quod eciam dominus pater vester timuerat vos imbeguinari seu ut proprius loquar in divinis infatuari per eloquia oris mei […]», cfr. Olivis Schreiben an die Söhne Karls II. vom Neapel, edidit F. Ehrle, «Archiv für Litteratur und Kirchen Geschichte», III (1887), pp. 534-540; si vedano anche le pp. 439 ss. Il testo prosegue: «Quod si de modo illo credidit, de quo Apostolus ait: “Nos stulti propter Christum” (1 ad Cor. 4.10), et: “Qui voluerit esse sapiens in hoc seculo (157vb), stultus fiat, ut sit sapiens” (1 ad Cor. 3-18) et: “Quod stultum est dei, sapiencius est hominibus”, id est quali humana sapiencia mundi - non sum tan-
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rito delle complesse vicende collegate al dibattito e allo scontro sulla questione della povertà, mi limito a segnalare tra i rappresentanti della dissidenza minoritica due personaggi particolarmente attivi a Napoli e in rapporto con Raimondo: Andrea da Gagliano24 e Pietro de Cadeneto25.
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Di particolare importanza per noi è la figura di Andrea da Gagliano. Andrea è nato probabilmente intorno al 1300 «in castro Galliani», nella diocesi di Valva-Sulmona; dopo aver fatto a Sulmona la professione religiosa nell’Ordine minoritico26 e aver frequentato lo studium della provincia pen-
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te sapiencie et virtutis, ut hac sapientissima stulticia replere vos possem. Si vero de huic contraria fuit dictum, absit a me, quod meas vel non meas stulticias in vos vel alios per stultiloquia vel stulta consilia refundere velim». 24 Per l’edizione degli atti del processo di Andrea, preceduti da una breve ricostruzione della vita del francescano, si veda E. Pásztor, Il processo di Andrea da Gagliano, «Archivum Franciscanum Historicum», 48 (1955), pp. 252-297. L’autrice sottolinea l’importanza che ha avuto questo processo nella storia della procedura inquisitoriale del Trecento. Si veda anche E. Pásztor, Andrea da Galliano, in Dizionario biografico degli italiani, 3 (1961), pp. 96-98. 25 Edith Pásztor, e dopo di lei tutti coloro che si sono interessati, anche marginalmente, della figura di Andrea da Gagliano, affermano che il compagno di Andrea, Pietro de Cadeneto, incorso nella stessa punizione, sia morto di lì a poco, per questa ragione Pietro non compare più nel successivo processo; cfr. Pásztor, Il processo cit., p. 258 nota 1. A voler dare un termine cronologico all’espressione “poco dopo” usata dall’autrice, si dovrebbe prendere come terminus ante quem il 1337, anno dell’inizio del processo, e come terminus post quem il mese di novembre del 1331, anno della convocazione di Andrea e Pietro ad Avignone. In una disposizione di Roberto d’Angiò del 18 febbraio 1337 si legge però che «morto Giovanni de Haya reggente la Curia della Vicaria, il Re con mandato di questo giorno nomina a tale ufficio Pietro de Cadeneto e Giovanni Spinello da Giovinazzo professore di diritto civile, ciascuno con lo stipendio di 50 once l’anno. Il primo riceve pure 3 once al mese perché deputato alla custodia del duca di Calabria. Al secondo, che aveva già ufficio di Iudex appellationum, il re permette di sostituire Adenolfo Cumino o altro». Inoltre l’8 ottobre del 1341 «Il Re ingiunge pagarsi a Pietro di Cadeneto milite reggente la Curia della Vicaria, e r. consigliere, 3 once e 15 t. per fitto delle costui case (le quali già appartennero a Nicola Severino) site «in pendivo castri navi de neapoli», dove si custodiscono i cavalli della r. Marescalcia e si ripongono e custodiscono le selle ed altri arnesi. E altre 20 once e t. 15 per fitto d’un’altra casa sita nel medesimo luogo, dove si ripongono e custodiscono le lettighe della regina Sancia». Chi era questo Pietro de Cadeneto citato nelle due disposizioni di Roberto? Potrebbe trattarsi di una omonimia, ma è quantomeno discutibile la presenza, nello stesso periodo e alla stessa corte, di due persone con lo stesso nome. Entrambe le disposizioni sono edite da N. Barone, La Ratio Thesaurarum della cancelleria angioina, «Archivio storico per le province napoletane», 11 (1886), pp. 577-596, specialmente pp. 586, 594. 26 G. Sbaralea, Bullarium Franciscanum (= BF), t. V, Roma 1798, p. 544, n. 1016; in nota i riferimenti biografici relativi ad Andrea. Prima di fare la professione religiosa a Sulmona, nelle mani di Gambio de Properio, all’epoca dell’inchiesta custode del convento de L’Aquila, era un chierico secolare.
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nese, passa poi a quello di Napoli e di Parigi. Al suo rientro assume la carica di lettore nel convento de L’Aquila e in altri non ben precisati studia dei frati Minori. Successivamente diviene responsabile gerarchico della custodia di Chieti e, infine, ministro provinciale della provincia di Penne, la provincia abruzzese dei frati Minori. Durante il suo provincialato si colloca il momento cruciale dello scontro fra Giovanni XXII e i Francescani27. I fatti sono ben noti: la relazione sempre più tesa tra la dirigenza dell’Ordine e la sede apostolica raggiunge il punto di rottura il 12 maggio 1328, quando Ludovico il Bavaro elegge papa il frate minore Pietro da Corbara. A questo punto Michele da Cesena, che aveva più volte cercato di convincere il pontefice a rivedere la sua condanna del manifesto di Perugia - nel quale, ricordo, si ribadiva con forza la tesi della povertà di Cristo e degli apostoli, secondo quanto stabilito dalla Exiit qui seminat28 - fugge da Avignone e raggiunge l’imperatore a Pisa. La reazione del pontefice è immediata, solo due giorni dopo, nella Cum Michael de Caesena, lo depone dalla guida dell’Ordine e invita le autorità, civili ed ecclesiastiche, a catturare lui e i suoi accompagnatori, i frati Bonagrazia da Bergamo e Guglielmo d’Ockham, accusati di eresia; un mese dopo li scomunica. L’Ordine, nel frattempo, sarebbe stato guidato da un vicario generale, il cardinale Bertrando della Torre, un personaggio che riguarda direttamente la vicenda di cui ci stiamo occupando. L’importanza delle scelte e del ruolo di Bertrando nell’arco cronologico in cui si collocano le vicende dei nostri personaggi non è ancora stata sufficientemente indagata dalla storiografia. La sua rapida carriera durante il pontificato di Giovanni XXII è ricostruibile dalle lettere papali. Nel 1317, quando era ancora ministro provinciale dei Frati Minori dell’Aquitania, viene incaricato, insieme a Bernard Gui, di ristabilire la pace prima in Lombardia29, poi tra i nobili italiani - esclusi quelli del Regno di Sicilia30 - e tra i guelfi e i ghibellini della Tuscia e della Lombardia31. L’ultimo incarico svol-
27
Sugli anni cruciali dello scontro tra la dirigenza dell’Ordine e il papato si veda A. Tabarroni, Paupertas Cristi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324), Roma 1990 (Nuovi studi storici, 5); M.D. Lambert, Povertà francescana. La dottrina dell’assoluta povertà di Cristo e degli apostoli nell’Ordine francescano (1210-1323), Padova, Ed. Biblioteca Francescana, 1995 (Fonti e ricerche, 8), con la bibliografia citata. 28 Per il manifesto di Perugia si veda A. Bartoli Langeli, Il manifesto francescano di Perugia del 1322. Alle origini dei fraticelli «de opinione», «Picenum Seraphicum», 11 (1974), pp. 204-261. 29 BF, V, p. 105, n. 243. Per la politica del papa in questo arco cronologico si veda G. Tabacco, La casa di Francia nell’azione politica di papa Giovanni XXII, Roma 1953 (Studi Storici, 1-4), p. 153. 30 BF, V, p. 108, n. 253. 31 Ibid., p. 109, n. 254. Nel Bullarium manca la lettera di incarico per la missione di
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to insieme all’inquisitore domenicano lo porta nella località, non precisata nella lettera papale, dove dovevano incontrarsi «Gallici et Flandrici» che erano in guerra - la lettera è datata 17 settembre 131832. Due anni dopo Bertrando è arcivescovo di Salerno e l’anno successivo, nel 1321, è eletto cardinale presbitero di S. Vitale. Il cardinalato comportava un tenore di vita e delle spese che andavano a pesare sui redditi della diocesi a lui assegnata, forse per questo motivo i canonici della chiesa salernitana si ribellarono al cardinale, ne confiscarono i beni e scacciarono i suoi vicari e i suoi familiari. A questo punto l’evoluzione della carriera di Bertrando, risultato anche della pressione dell’Ordine, come scrive il pontefice stesso in una lettera successiva, e non solo dei suoi meriti33, coinvolge anche Raimondo, vescovo di Chieti, incaricato da Giovanni XXII, insieme ad altri nella lettera non meglio specificati prelati, di far rispettare i diritti del cardinale34. La promozione alla carica episcopale e il titolo cardinalizio, sottraendo Bertrando alle rigorose norme della Regola minoritica in materia di povertà, gli consentono di stilare testamento35: egli poteva disporre liberamente dei propri beni, con l’unica eccezione dei libri che possedeva quando era ancora membro dell’Ordine a tutti gli effetti, eccezione precisata nella disposizione successiva, quando al cardinale era consentito di disporre anche dei libri, a patto che fossero ereditati da persone o conventi dell’Ordine minoritico da lui scelti36. Il testamento sarà la ragione del nuovo coinvolgimento di Raimondo, questa volta vescovo di Aversa, nelle vicende biografiche di Bertrando. A lui è indirizzata, infatti, la lettera con la quale Giovanni XXII, informando della morte di Bertrando, lo incarica, insieme a Nicola, vescovo di Nola, e al preposto della chiesa di Avignone, di sistemare i problemi relativi ai lasciti testamentari del cardinale, morto con non pochi debiti37. Quando nel 1328 Bertrando viene nominato vicario generale dell’Ordine, dopo la deposizione di Michele da Cesena, le vicende dei nostri personaggi si incrociano38. Andrea da Gagliano, che deve aver incontrato Rai-
pace a Genova, come si desume dalla missiva di Giovanni XXII al popolo e al comune della città del 25 agosto (1318); cfr. Tabacco, La casa di Francia cit., p. 172 note 3-4. 32 BF, V, p. 157, n. 338. L’incontro si tenne a Royallieu presso Campiègne; cfr. Tabacco, La casa di Francia cit., pp. 120 e 187. 33 BF, V, p. 205, n. 429. 34 Ibid., pp. 204-205, n. 428 (12 aprile). 35 Ibid., p. 295, n. 595. 36 Ibid., p. 476, n. 866. 37 Ibid., p. 540, n. 1010: la lettera è datata marzo 1333. 38 Oltre alla documentazione fin qui analizzata, nel Bullarium Franciscanum si conservano le sue disposizioni, circa 21, emanate nel periodo trascorso alla guida dell’Ordine.
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mondo durante il suo provincialato in Abruzzo, è accusato da Bertrando di aver rapporti con lo stesso Michele. Ne seguirono la sospensione dalla carica di Ministro provinciale e la richiesta di Andrea di trasferirsi a Napoli, trasferimento concesso dal vicario della provincia pennese, fra Luca di S. Giorgio. La nota che accompagna l’edizione di una parte del processo di Andrea nel Bullarium Franciscanum aggiunge una precisazione di un certo interesse per noi: il trasferimento a Napoli sarebbe avvenuto «ad requisitionem Raymundi episcopi aversani». Il rapporto che probabilmente si era venuto a creare tra i due confratelli in Abruzzo aveva spinto Raimondo ad accorrere in aiuto di Andrea, e gli procura una collocazione presso la famiglia reale angioina. Nel frattempo il capitolo generale riunito a Parigi dal cardinale vicario il 10 giugno del 1329 eleggerà nuovo ministro generale frate Geraldo Oddone39. Michele da Cesena, Buonagrazia da Bergamo, Guglielmo d’Ockham insieme a Marsilio da Padova e altri maestri parigini, dalla sede della corte imperiale di Monaco, dove si erano definitivamente rifugiati, continueranno per più di un decennio la loro lotta contro Giovanni XXII e Benedetto XII. Andrea a Napoli diventa cappellano del monastero del «Corpus Christi», fondato dalla regina Sancia per le Clarisse, e, insieme a Pietro de Cadeneto40, è accolto tra i più stretti collaboratori della coppia reale. La regina era particolarmente legata al monastero di S. Chiara, uno dei tre monasteri di Napoli da lei fondati (S. Chiara e S. Maria Maddalena) o sostenuti economicamente (S. Maria Egiziaca). L’ingresso di Andrea nel monastero più importante per la regina, ulteriore prova della protezione che Sancia offre alla dissidenza minoritica, potrebbe giustificare anche il ripetuto invio di lettere da parte del papa per dissuaderla sia dalla difesa dei fraticelli, sia dalla scelta di vita strettamente religiosa41. L’accusa di eresia rivolta ad Andrea non poteva essere ignorato dalla famiglia reale, che, nonostante il lungo rappor-
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BF, V, p. 387, n. 791; è riportata, in nota, la lettera di Michele da Cesena ai confratelli. Michele li prega di non dar seguito alla lettera con la quale Giovanni XXII li chiamava a riunirsi in capitolo generale a Parigi per eleggere il nuovo ministro generale - dietro preghiera della regina di Francia e come era già stato programmato nel capitolo che aveva eletto Michele stesso -, poiché i capitoli potevano essere riuniti solo dal ministro stesso e inoltre l’Ordine non aveva bisogno di una nuova elezione perché lui si considerava ancora in carica. 40 A proposito si veda supra, nota 25, dove sono riportate le due delibere di Roberto d’Angiò a favore di Pietro de Cadeneto. Nella prima si legge che Pietro, nominato reggente la Curia della Vicaria, è anche custode del duca di Calabria (sic); nella seconda Pietro è definito regio consigliere. 41 Secondo Samantha Kelly era Sancia a sostenere più apertamente i fraticelli; cfr. S. Kelly, The new Salomon. Robert of Naples (1309-1343) and Fourteenth-Century Kingship,
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to di amicizia che legava Roberto a Giovanni XXII42, interpreta l’accusa stessa e l’esortazione ad Andrea di presentarsi ad Avignone come una offesa personale alla regina43. Interessante è notare che Edith Pásztor, quando scrive che Andrea da Gagliano, arrivato in un ambiente sconvolto dai problemi francescani, «non poteva evidentemente rimanere estraneo a quelle agitazioni, trattandosi del suo Ordine, e l’intimità che ebbe già dall’inizio della sua permanenza a Napoli con i reali Angioini, e particolarmente con la regina Sancia, può essere indicativa per la posizione che egli prese»44, ipotizza un contatto di Andrea con gli Spirituali successivo al suo arrivo a Napoli45; Andrea quindi diviene quasi “vittima” dell’«indirizzo del francescanesimo dominante a Napoli»46, di cui fu partecipe dopo che Bertrando della Torre, sospettandolo di simpatizzare per l’area michelista, lo sospese dal suo provincialato e lo costrinse a rifugiarsi presso la corte Angioina. Il processo contro Andrea da Gagliano segue diverse fasi. La più degna di attenzione è quella conclusiva, caratterizzata da una procedura regolata dalle norme di diritto comune più che da quelle inquisitoriali47. L’aspetto
Leiden-Boston 2003 (The medieval Mediterranean. Peoples, Economies and Cultures, 4001500, 48), pp. 83 s. L’autrice descrive la regina come una donna straordinariamente pia e intellettualmente indipendente. Il Paciocco reputa, invece, entrambi i regnanti - più apertamente lei, più cauto lui - sostenitori di quel francescanesimo «sostanzialmente identificato nell’assetto fissato dalla decretale Exiit qui seminat di Niccolò III, […] e accolsero sotto la loro protezione una pluralità di indirizzi, di segno diverso, della dissidenza francescana». L’autore crea quindi la definizione di «francescanesimo di corte» come uno dei simboli di quell’«”eclettismo” che si configurò quale caratteristica culturale dominante nel re e negli indirizzi della stessa corte angioina», cfr. Paciocco, Angioini e Spirituali cit., pp. 284-285. Rimando ad entrambi i contributi per i riferimenti bibliografici. 42 Il rapporto di amicizia tra Roberto e Giovanni XXII risale ai tempi in cui Jacques Duèse era familiare di Carlo II e amministratore dei beni angioini in Provenza, diventando poi cancelliere del re di Napoli nel 1305 e consigliere personale di Roberto stesso, che, tra il 1314 e il 1316, sostenne intensamente la sua elezione a pontefice; cfr. Kelly, The new Salomon cit., p. 77. Su Samantha Kelly si veda anche R. Di Meglio, Scelte religiose e progettualità politica nella Napoli della prima età angioina. Riflessioni su un libro recente, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 60/1 (2006), pp. 127-134. 43 Come aveva già osservato Pásztor, Il processo cit. 44 Ibid., p. 155. 45 Ipotesi ripetuta in Pásztor, Andrea da Galliano cit., dove, a p. 97, è scritto: «Come si è visto, questa prima parte della vita di Andrea, che si svolse tra gli anni 1300-1330, abbraccia uno dei periodi più cruciali della storia dell’Ordine, ma poiché la personalità di Andrea cominciò a precisarsi solo dopo la deposizione di Michele da Cesena, è lecito supporre che durante la lunga lotta degli spirituali egli rimase estraneo spettatore, non partecipe degli avvenimenti». 46 Pásztor, Il processo cit., p. 257. 47 Ibid., p. 266.
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più interessante è rappresentato però dall’elenco dei personaggi chiamati ad esserne testimoni: la regina Sancia, la vedova di Carlo di Calabria, i vescovi di alcune diocesi dell’Italia meridionale, con l’unica eccezione di Guglielmo Isnardi, vescovo di Alba, e poi alcuni rappresentanti appartenenti a quasi tutti gli Ordini Mendicanti presenti a Napoli. L’elenco sarebbe troppo lungo per essere riportato interamente. In questa sede è interessante notare che l’unico vescovo di una diocesi posta fuori dai confini del Regno ad essere presente al processo è quello di Alba, diocesi retta ancora dal successore di Raimondo; mentre ben tre dei sei domenicani presenti e residenti presso i loro conventi di Napoli sono originari di Aversa, nuova sede diocesana di Raimondo48, che sarebbe stato sicuramente presente a difendere l’amico, se non fosse morto poco tempo prima49. Raimondo de Mausaco, Cecco d’Ascoli e Carlo di Calabria
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La signoria di Carlo di Calabria a Firenze, strettamente collegata, come ho avuto modo di dire, alla difesa della città contro Castruccio Castracane e la minaccia di Ludovico il Bavaro, fu caratterizzata da un atteggiamento non particolarmente attento ai bisogni della città50. Secondo quanto scrive Robert Davidsohn, con la continua richiesta di denaro per il sostentamento della corte e dei soldati al suo seguito, per il tentativo da parte dei magnati di trasformare in permanente una signoria limitata nel tempo con lo scopo di abolire gli ordinamenti di giustizia - atteggiamento che avrebbe portato ad una guerra civile tra magnati e popolo, e che solo l’intervento del legato Giovanni Orsini riuscì ad evitare51 -, la signoria fiorentina di Carlo rappresentò più un pericolo per
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Ibid., p. 267. Secondo Ravizza, Memorie Historiche cit., p. 18, Raimondo muore nel 1336. Sembrerebbe non trattarsi dello stesso Carlo che, durante il vicariato nel regno, si era distinto come un personaggio dal polso forte. Egli confiscò i beni dei Veneziani e perseguitò i Templari; alla fine degli anni Venti del XIV secolo difese la costa dai corsari e dai ghibellini genovesi, proibì ai cittadini di Napoli di portare le armi, visitò le province, ristabilì la pace tra L’Aquila e Amatrice - accompagnato o preceduto da Raimondo, che nel 1323 si trovava a Castronuovo in provincia de L’Aquila -; tra maggio e agosto del 1325 organizzò e guidò una flotta e un esercito per riprendere la guerra contro la Sicilia. Per un primo approccio bibliografico si veda C. Vultaggio, Karl v. Kalabrien, in Lexicon des Mittelalters, 5 (1991), col. 992. 51 L’intervento del legato Orsini portò alla sottoscrizione del documento, stilato il 31 agosto del 1326, con il quale Firenze, nei suoi rappresentanti - tutti precedentemente nominati da Carlo stesso e trascritti da Bevere, La signoria di Firenze cit., 33 (1908), pp. 456-457 - deci-
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la città che un aiuto52. La presenza di Castruccio, il viaggio a Roma del Bavaro obbligarono Firenze a capitolare davanti alla minaccia di Roberto d’Angiò di richiamare Carlo a Napoli, se questi non avesse avuto immediatamente un numero sufficiente di soldati a garantirne l’immunità; ai priori rimaneva solo il compito di procurare il denaro, quel denaro che serviva al duca per mantenere i numerosi accoliti che avevano seguito la coppia ducale a Firenze. Tra gli adepti acquisiti nella città stessa è da annoverare il nostro Cecco. In una disposizione dello stesso Carlo al suo tesoriere, del 31 maggio 1327, si legge che al magistero Cecco d’Ascoli, diventato da non molto tempo fisicus et familiare53 del duca, si dovevano pagare tre once d’oro, per il periodo di vicariato di Carlo a Firenze, e due once al loro rientro nel Regno. Tale disposizione aveva valore retroattivo con inizio in data 12 marzo 132754. Con questa disposizione, che prevedeva una continuità nei servigi di Cecco, Carlo dimostrava di non aver avuto affatto sentore di quanto sarebbe accaduto di lì a poco; del resto a Napoli la presenza di un astrologo alla corte angioina, nonostante la posizione
deva «quod dictus excellens dominus, dominus (sic) Carolus, dux Calabrie, sit dominus et habeat baliam, potestatem et dominium plenum et generale, cum mero et misto imperio, et iurisdictione plenaria civitatis, comitatus et districtus Florentie, libere, pro tempore et termino decem futurorum annorum, incipiendorum in Kalendis mensis septembris proximo venture (sic)», ibid., pp. 459-464. L’intervento si concluse, quindi, a favore di Carlo, che prolungò la sua signoria fino al 1336. È da notare che tra i testimoni presenti al momento della stesura dell’atto manca Raimondo, forse lontano per impegni relativi alla sua carica episcopale. 52 La data di inizio della signoria del duca era stata fissata al primo maggio 1326, ma Carlo si mise in viaggio solo il 31 maggio e arrivò a Firenze il 30 luglio; cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, III: Le ultime lotte contro l’impero, Firenze 1960, pp. 1050 nota 1, 1056. A questa opera si rimanda anche per ulteriori informazioni relative all’attività del duca a Firenze. 53 Questi appellativi sono utilizzati in un documento che il Rosario, un autore della fine del XIX secolo, dice di aver trovato a Napoli; cfr. P. Rosario, Cecco d’Ascoli e la sua città natale, Ascoli Satriano 1897. 54 Il documento, edito da Barone, La Ratio Thesaurarum cit., pp. 415-432, specialmente pp. 419-420, è datato 31 maggio 1327, ma la disposizione al tesoriere partiva dal 12 marzo; nel documento si legge: «volentes magistro Cicco de exculo, quem in fisicum et familiarem nostrum duximus diebus non longe preteritis retinendum gagia sicut aliis nostris fisicis exiberi, fidelitati tue presentium tenore expresse iubemus quatenus eidemi magistro Cicco, quousque fuerimus in partibus Tuscie vel alibi extra Regnum gagia ad rationem de unciis auri tribus et postquam in Regnum feliciter redierimus dante domino ad rationem de unciis auri duabus ponderis generalis per mensem a die duodecimo proxime preteriti mensis martii huius X Indictionis usque nunc simul et semel et deinde in antea de mense in mensem nostro durante beneplacito de pecunia Camere nostre sistente et futura per manus tuas solvere et exibere procures, apodixas ab eodem magistro Cicco de hiis que sibi propterea solveris suis vicibus recepturus ordinatione seu mandato quocumque contrario facto et in antea faciendo, eciam si de illo vel aliqua eius clausula esset in presentibus expressa mentionem facienda execucione presentium non obstante».
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non certo favorevole della Chiesa verso l’astrologia, non avrebbe trovato ostacoli poiché Roberto stesso, secondo quanto racconta Jean Froissart, un cronista francese del XIV secolo, «aveva più volte “jettés ses sors” sul destino del re di Francia e di quello d’Inghilterra e aveva trovato “en l’astrologie et par expériense” che il primo sarebbe stato sconfitto»55. Alla corte di Carlo Cecco si crea immediatamente un nemico nella persona del medico Dino del Garbo, che sarebbe stato, secondo il Villani, il maggior accusatore di Cecco56. Da questo momento gli avvenimenti precipitano. L’ordine di cattura, emesso dall’inquisitore francescano in Tuscia, Accursio Bonfantini, nel mese di luglio del 1327, porta Cecco nelle carceri inquisitoriali di S. Croce, dove è costretto a fermarsi per quasi tre mesi, considerato che la condanna cade nel mese di settembre. Di questi tre mesi non si conosce molto, le uniche notizie pervenute a riguardo sono alcune annotazioni che frate Manovellus, un famigliare e segretario degli inquisitori fiorentini dal 1322 al 132957, ha inserito nel suo libro dei conti. In questo documento è riportata infatti la notizia della spesa, a settembre, per la cena a base di vino e frutta offerti al vescovo cancelliere del duca, oltre a quelle precedenti per la cattura di Cecco, per la copia sia delle opere di Cecco stesso, sia della condanna bolognese. Le informazioni sono poche, ma la fugace annotazione relativa
55 Per questo autore si veda A. Varvaro, L’Italia meridionale nelle cronache di Jean Froissart, in Avignon & Naples. Italy in France - France in Italy in the fourteenth century, a cura di M. Pade - H. Ragn Jensen - L. Waage Petersen, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1997 (Analecta Romana Instituti Danici. Supplementa, 25), p. 132: «nella redazione vulgata […] menziona però due volte re Roberto. La prima volta si parla di lui a proposito della battaglia inutilmente offerta da Edoardo III a Filippo VI a Buironfosse (Aisne) nel 1339. Si dice a questo proposito che al campo francese sono giunte lettere e raccomandazioni del re Roberto di Sicilia, che si diceva fosse “uns grans astronomyens et plains de grant prudense ...”, egli aveva più volte “jettés ses sors” sul destino del re di Francia e di quello d’Inghilterra e aveva trovato “en l’astrologie et par expériense” che il primo sarebbe stato sconfitto; poi che dunque temeva per suo cugino, lo pregava di non combattere mai contro gli Inglesi ove fosse presente re Edoardo. Queste lettere napoletane rafforzano il partito di chi preferisce non combattere, malgrado il desiderio opposto di re Filippo». 56 Cronica di Giovanni Villani cit., V-VI, pp. 55-56. Cecco non era un medico, ma nelle sue opere sembra rivolgersi ai medici, per i quali mette a disposizione la sua scienza degli astri; a proposito si veda M. Alessandrini, Cecco d’Ascoli, Roma 1955. L’autore afferma che Cecco a Bologna seguiva volentieri le lezioni di anatomia, «allora severamente vietate dalla Chiesa, così per quel tanto che poteva fare nel campo medico - lui, che certamente non professava medicina - dava con il suo sapere astrologico tutto il suo appoggio ai sistemi della scuola araba», ibid., p. 214. 57 Si tratta degli inquisitori fra Michele da Arezzo e fra Accursio Bonfantini; cfr. R. Davidsohn, Un libro di entrata e spese dell’inquisitore fiorentino (1322-1329), «Archivio storico italiano», ser. V, 27 (1901), pp. 346-355.
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al cancelliere, che il solerte frate ha inserito nel suo libro contabile, consente di porci una domanda: se consideriamo il tempo trascorso da Cecco nella prigione - tre mesi - perché Raimondo fa visita all’inquisitore solo a settembre, esattamente la sera prima della condanna? La scelta della visita serale e del pasto sostanzialmente “povero”, che poteva essere consono ad un francescano, anche se vescovo, ma sicuramente non adatto ad un cancelliere ducale, potrebbe far presumere un’iniziativa privata del vescovo stesso, una visita non ufficiale, di cui nessuno doveva essere messo al corrente e che non doveva lasciar tracce, ma che non sfuggì al frate che si annotò la spesa. Raimondo visita, dunque, Accursio Bonfantini, l’inquisitore fiorentino, di cui si hanno informazioni di massima: inquisitore in Tuscia58 dal 1326 la sua prima condanna è pronunciata contro due preti. Il 1327 rappresenta l’anno più importante per la sua attività inquisitoriale: nel febbraio pubblica la condanna contro Castruccio Castracane59, reiterata il 25 e il 29 marzo, a settembre quella contro Cecco. L’anno successivo Accursio si schierava apertamente dalla parte di Giovanni XXII contro l’antipapa e i michelisti, con la conseguente persecuzione dei frati sostenitori dei dissidenti; per questo zelo il pontefice lo lodava ufficialmente in una lettera del 1 luglio 132860. Il libro dei conti non racconta però solo delle entrate, ma anche delle spese, non giustificate e di notevole entità, che l’inquisitore sembra aver sostenuto nel 132961: il revisore dei conti accertava un debito di cassa di oltre 673 fiorini. Alla fine dello stesso anno il pontefice ordinava al nunzio apostolico, il domenicano Guglielmo Dulcini, e al francescano Grimaldo di Prato
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All’inquisizione francescana nel XIII e inizio XIV secolo è stato dedicato il 33° convegno di Assisi: Frati Minori e inquisizione (Assisi, 6-8 ottobre 2005), Spoleto 2006 (Atti dei Convegni della Società internazionale di Studi Francescani e del Centro interuniversitario di Studi Francescani. Nuova serie, 16). Per la Toscana si rimanda specificamente all’articolo di C. Bruschi, Inquisizione francescana in Toscana fino al pontificato di Giovanni XXII, pp. 287-324. 59 Carlo sostiene apertamente questa condanna, a differenza di quella di Cecco, la cui cattura e condanna non ha lasciato traccia nella documentazione fiorentina del duca. Il 14 febbraio 1327 Carlo scrive: «Universis amicis, devotis et fidelibus paternis et nostris. Cum religiosus vir frate Accursus, ordinis minorum, inquisitor heretice pravitatis in provincia Tuscie per sedem apostolicam deputatus, Castrucium Gerii de Anterminellis, de Luca, super nonnullis articulis fidem ortodoxam tangentibus, super quibus per inquisitorem eundem iam ad inquisitionem processum extitit, et super illis etiam publice ac notorie diffamatus, et de hereticorum fautoria sententialiter per competentes iudices condempnatus, ad suam citet presentiam intra certum terminum competentem, ut apud castrum Berni, Pistoriensis dyocesis, debeat coram eo personaliter comparere […]». Per il documento cfr. Bevere, La signoria di Firenze cit., 34 (1909), pp. 599-639, specialmente pp. 602-603. 60 BF, V, p. 352, n. 719: Avignone, 1 luglio 1328. 61 Ingenti somme sarebbero state spese dagli inquisitori per i sarti, per i mercanti di
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di eseguire un’inchiesta, i cui risultati non ci sono pervenuti62. In questa lettera Accursio veniva definito «olim inquisitor haereticae pravitatis in partibus Tusciae»; questo potrebbe far supporre un allontanamento dalla carica dell’inquisitore, ma non è così. Forse i risultati dell’inchiesta non dovettero essere negativi, perché Accursio ritornava inquisitore a Siena negli anni tra il 1332 e il 1333. Non si conosce l’anno della sua morte, in una lettera di Giovanni XXII del 1338, indirizzata al vescovo di Firenze, Accursio veniva ricordato come già defunto.
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A questo punto viene spontanea una domanda: perchè fu condannato Cecco? Le sue posizioni erano sì discutibili, ma erano sufficienti per giustificare il rogo63? Da quanto si legge nella condanna bolognese, tramandata nel transunto del codice della Riccardiana di Firenze, Cecco «male et inordinate locutum fuisse de fide Cattolica»64. Un’accusa formulata in modo tale da con-
panno, per i calzari, per i soci e collaboratori, per cibo e bevande pregiate; cfr. Bruschi, Inquisizione francescana cit., pp. 302-303. 62 BF, V, p. 455, n. 831. 63 Anche se considerassimo l’accusa di eresia nell’ottica di una nuova disposizione di Giovanni XXII del 1320 con la quale si estendeva il campo d’azione degli inquisitori ad una serie di nuovi “casi” - per esempio l’accusa di divinatio e di sortilegium - che ricadevano precedentemente nelle competenze del vescovo. Tale disposizione fu comunicata dal cardinale domenicano Guglielmo Godin il 22 agosto del 1320 agli inquisitori di Carcasson e Tolosa. Essa non è isolata, ma si colloca nel solco delle delibere di Alessandro IV del dicembre del 1258 per i Francescani e del gennaio del 1260 per i Domenicani, con le quali affidava ai due ordini le cause per le accuse di magia quando queste erano palesemente eretiche - «manifeste saperent haeresim» -; decisione questa che fu poi recepita da Bonifacio VIII nel Liber Sextus. Anche all’interno di questa ottica, comunque, il processo non sembrerebbe totalmente giustificabile; cfr. A. Maier, Eine Verfügung Johanns XXII. über die Zuständigkeit der Inquisition für Zaubereiprozesse, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 22 (1952), pp. 227-246. 64 «Reverendus Pater frater Lambertus de Cingulo ordinis praedicatorum, inquisitor hereticae pravitatis Bononiae, anno 1324, die XVI decembris, Magistrum Cechum, filium quondam magistri Simonis Stabilis de Esculo, sententiavit male et inordinate locutum fuisse de fide catholica et propterea eidem penitenti imposuit ut inde ad XV dies proximos suorum veram et generalem faceret peccatorum confessionem. Item quod omni die diceret XXX Pater noster et totidem Avemaria. Item quod qualibet sexta feria ieiunare deberet in reverentiam crucis et crucifixi hinc ad annum. Item quod omni die dominica audiret sermonem in domo fratrum praedicatorum vel minorum. Item privavit ipsum omnibus libris astrologiae magnis et parvis, quos deponeret apud magistrum Albertum bononiensem. Et voluit quod nunquam posset legere astrologiam Bononiae vel alibi publice vel private. Item privavit eum affini magisteri o et honore cuiuslibet decoratus (corr. doctoratus) usque ad suae arbitrium voluntatis. Et condemnavit eum in LXX libris bononiensibus, quas inde ad pasca resurrexionis domini proxime solveret sub pena dupli» (Firenze, Bibl. Riccard., cod.
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sentire molte interpretazioni. Ma il divieto di insegnare astrologia a Bologna sia in pubblico che in privato, la privazione del titolo magistrale e, soprattutto, l’ordine di consegnare i libri di astrologia al maestro Alberto, potrebbero confermare le affermazioni del Villani, che riteneva essere stata l’opinione di Cecco - favorevole alla teoria della povertà di Cristo, anche se quest’ultima era indotta più dalle stelle che da una scelta personale65 - una delle cause della sua condanna. Cecco entrava così nel vivo della polemica tra Giovanni XXII e i Francescani. A Bologna però la condanna non fu definitiva; oltre alle suddette sanzioni, Cecco avrebbe dovuto abiurare pubblicamente, recitare 30 Pater noster e altrettante Ave Maria, digiunare ogni venerdì, per un anno intero e ascoltare ogni domenica la predica in una chiesa dei Minori o dei Predicatori. Come ammenda, egli doveva pagare la somma di 70 libbre bolognesi, che sarebbero diventate il doppio se non avesse versato la somma entro la pasqua successiva66. Il transunto della condanna fiorentina67, a differenza di quella bolognese, ci consegna - oltre al nome dei due inquisitori, alla data della visione degli atti del primo e a quella del secondo processo68 - il nome delle opere di Cecco, il libro di astrologia, in latino, e l’Acerba, in volgare, entrambe condannate a finire sul rogo insieme all’autore, che veniva consegnato, così, nelle mani
673, c. 124r). Poiché le trascrizioni del Lami presentano qualche errore, ho utilizzato quelle di Beccaria, I biografi cit., pp. 58-59. 65 Cfr. supra, nota 3. 66 Per pagare tale somma, Cecco deve aver impegnato tutte le sue finanze. Forse per questo motivo Accursio, l’inquisitore fiorentino, ha ricavato ben poco dalla vendita dei suoi beni. Nel mese di novembre del 1328, pagava infatti il soggiorno di 20 giorni ad Ascoli e Macerata del nunzio Spinello, mandato per indagare sui possedimenti di Cecco e della sua famiglia nella città natale, forse nella speranza di supplire, in questo modo, almeno alle spese per il processo stesso. Il guadagno dell’inquisitore è riportato nel libro dei conti di Manovellus; cfr. Davidsohn, Un libro di entrate cit., p. 355. 67 Frater Accursius florentinus ordinis fratrum minorum, inquisitor hereticae pravitatis, misso ad se processu Die xvij julii 1327 a fratre Lamberto de Cingulo contra magistrum Cechum de Esculo citatoque magistro Cecho et presente in choro ecclesiae fratrum minorum de Florentia, anno 1327, Inditione Xa, Die 15 mensis septembris, eum hereticum pronuntiavit eumque reliquit seculari iudicio requirendum Dno Iacobo de Briscia, Ducali vicario, presenti et recipienti, animadversione debita puniendum. Librum quoque eius in astrologia latine scriptum et quendam alium vulgarem libellum Acerba nomine reprobavit et igni mandari decrevit omnesque, qui tales aut similes eius libros tenerent, excomunicavit. Eodem die supradictus vicarius, indilate transmittens per militem et familiam suam, magistrum Cechum coram populi multitudine congregata cremari fecit ad penalem mortem ipsius et exemplum aliorum (Firenze, Bibl. Riccard., cod. 673, c. 124v). Cfr. Beccaria, I biografi cit., p. 64. 68 Il Lami trascrisse decembris invece di septembris, errore che fu ripreso dai biografi successivi; ibid.
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del vicario di Carlo, Jacopo da Brescia. L’esecuzione segue lo stesso giorno, quasi a voler chiudere il più velocemente possibile un capitolo che non doveva essere gradito al duca e, ancor meno, al suo cancelliere. Conclusione
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A questo punto si potrebbe azzardare la tesi che la condanna definitiva di Cecco, sigillata dall’intervento del nostro vescovo-cancelliere, è stata provocata sicuramente da diversi fattori: il suo atteggiamento, non certamente tenero nei giudizi, le sue previsioni, non sempre favorevoli alle aspettative di chi le richiedeva69, la presenza di eretici, soprattutto spirituali e fraticelli70, concentrati quest’ultimi principalmente nelle custodie di Firenze Siena e Arezzo71. Allo stato attuale della ricerca, e secondo la mia opinione, oserei dire che non è stato un motivo specifico o predominante a portare Cecco sul rogo. Egli è stato vittima di una serie di coincidenze che non potevano risolversi diversamente. A cominciare dal periodo in cui è vissuto, caratterizzato, come abbiamo visto, dallo scontro tra Giovanni XXII e i Francescani, scontro che ha coinvolto, però, altri personaggi importanti. Allo scontro non si è sottratto l’imperatore, che ha tentato di limitare il potere del papa, il quale con la Quia quorundam mentes del 1324 aveva annullato qualsiasi possibilità di compromesso, dichiarando eretico chiunque avesse impugnato le costituzioni Cum inter nonnullos e Ad conditorem; neanche la coppia reale angioina, che è stata più volte sollecitata dal pontefice a non proteggere i dissidenti; ancor meno gli inquisitori che operarono nelle località “calde” della dissidenza, quale appunto era considerata la Toscana in generale e Firenze in particolare. Alcune condanne del 1327, quella del Castracane, quella del Tarlati72 e quella di Cecco stesso,
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Davidsohn, Storia di Firenze cit., III, p. 1079, scrive: «Quando in momenti decisivi [Cecco] lo consigliava [al duca] all’inazione piuttosto che ad iniziative audaci, egli leggeva nel cielo solo ciò che il principe imbelle ed amante dei suoi comodi preferiva venisse detto». 70 Cfr. G.L. Potestà, Angelo Clareno. Dai poveri eremiti ai fraticelli, Roma 1990 (Nuovi studi storici, 8), con la bibliografia citata. 71 L. Pellegrini, Frati minori e realtà urbana in territorio aretino tra XIII e XIV secolo, in I cappuccini ad Arezzo. Storia di una presenza. Atti del convegno (Arezzo, casa del Petrarca, 17 aprile 2004), «Atti e memorie dell’accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo», n. ser., 66 (2004), pp. 289-470: 301-325, specialmente pp. 311-318. 72 Nel manoscritto di frate Manovellus troviamo questra annotazione: «[1324] Settembre - Pagamento a due notai di Firenze, qui fecerunt et publicaverunt citationem episcopi Aretini factam Senis apud Montem Guachi fl. aur. 4».
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per esempio, sembrano confermare ulteriormente, qualora fosse ancora necessario, la natura strumentale dell’ufficio inquisitoriale, pienamente utilizzato a fini di conservazione delle forze che, in certi momenti, avevano posizioni di dominio nel sistema73. Tra i personaggi coinvolti nella condanna di Cecco la figura del vescovo cancelliere merita uno studio più approfondito. Raimondo non è certamente intervenuto negli altri processi per eresia in corso a Firenze, ma con l’annotazione di frate Manovellus nel suo libro dei conti lo troviamo improvvisamente protagonista in quello contro Cecco. La veloce visita serale, quasi furtiva, del nostro frate, vescovo e cancelliere, potrebbe anche essere sintomo di un disagio. Raimondo fu costretto a gestire esperienze diverse e a volte tra loro contrastanti, da una parte la lealtà nei confronti del duca di Calabria, di cui era cancelliere e familiare, dall’altra la casa regnante angioina, e la sua protezione della dissidenza francescana; poi ancora l’Ordine al quale apparteneva, che non impedì, come era successo al suo confratello, il suo trasferimento alla cattedra episcopale teatina. Se si considera che gli anni trascorsi sulla cattedra teatina sono la metà rispetto a quelli trascorsi ad Alba e ad Aversa, questo trasferimento doveva rappresentare, secondo il mio parere, solo la fase di passaggio che si doveva concludere con l’assegnazione alla sede aversana. Le tre cattedre occupate dal cancelliere non solo rappresentavano un progressivo avvicinamento di Raimondo alla corte angioina, ma, almeno per quanto riguarda la sede di Alba e quella di Chieti, esse giocavano un ruolo non secondario nell’organizzazione politico-ecclesiastica degli Angioini: Alba, in Piemonte, era l’unica sede episcopale che era occupata da presuli legati alla famiglia reale74; Chieti, in Abruzzo, poteva essere considerata, fino alla seconda metà del XIV secolo, la diocesi più importante della dorsale adriatica meridionale fino a Bari75.
73 Bruschi, Inquisizione francescana cit., pp. 311-313, offre un panorama quasi comple-
to delle accuse rivolte agli eretici. L’autrice fa notare come già agli inizi del XIV secolo le motivazioni erano diventate molto generiche. 74 È quanto fa notare anche Canobbio, Per una prosopografia cit. L’autrice afferma che «entro questa cornice (lontananza dei vescovi piemontesi dalla cerchia dei più stretti collaboratori del re) presenta dunque significative peculiarità lo stabile rapporto che - unica eccezione al panorama ora abbozzato - si instaurò tra gli Angiò e i vescovi di Alba sin dalla dedizione della città, disposta dal consiglio della comunità nel novembre 1259 nell’intento di salvaguardare l’integrità del distretto comunale dall’espansionismo astigiano». 75 È in fase di preparazione la trascrizione dell’Inventario dei beni della diocesi teatina, rogato dal nostro vescovo. L’inventario potrà essere un ulteriore strumento di verifica dell’importanza di questa sede diocesana nella prima metà del XIV secolo.
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Il presente contributo è articolato in tre paragrafi: nel primo si analizzano le carte d’archivio bolognesi riguardanti Cecco d’Ascoli, incrociando i dati da quelle ricavati con le informazioni desunte dall’opera dell’ascolano; nel secondo si vaglia la sedimentazione nelle cronachistica cittadina della figura dell’astrologo marchigiano tra Medioevo ed Età Moderna; nel terzo si scandagliano tracce, frammenti, disegni, codici e incunaboli bolognesi d’interesse stabiliano. 1. La Bologna di Cecco
Pochi, com’è noto, sono gli elementi certi della biografia in gran parte leggendaria di Cecco d’Ascoli1. Tra quelli, i bolognesi sono deducibili da carte d’archivio risalenti al 1324; anno in cui lo Stabili subì una prima condanna per eresia promossa dall’inquisitore bolognese, il domenicano Lamberto da Cingoli. La sentenza di condanna riguardava i contenuti espressi nelle lezioni pubbliche tenute in un corso universitario dedicato al commento della Sphera Mundi di Giovanni di Holywood (noto come Giovanni Sacrobosco)2. Sembra che in seguito a tale intervento dell’inquisitore il commento venisse emendato delle parti ritenute eterodosse; sebbene una spia, arenatasi nella trama del ragionamento intessuto dall’ascolano, lasci
1
C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, II: Il Trecento, Roma 1995, pp. 327-454: 430-431. 2 Il manuale di astronomia di John Holywood, monaco inglese vissuto a metà Duecento, fu adottato in tutte le scuole europee per l’insegnamento agli iuniores.
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trasparire, in uno dei luoghi testuali più complessi e perigliosi del trattato, come il professore non rinunciasse a presentare le proprie tesi: «[...] et faciet miracula multa: de quo i(n) fine lectio(n)is dica(m) vobis»3.
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Nel complesso si tratta di tre documenti, dei quali due sono provvisioni approvate dal Consiglio del Popolo di Bologna nel gennaio e nel maggio 13244. La prima provvigione accoglieva le richieste pecuniarie avanzate da Angelo d’Arezzo e Cecco d’Ascoli. La seconda stabiliva di perfezionare il pagamento degli stipendi dovuti ad alcuni professori per i corsi tenuti da loro extraordinarie nelle scuole dello Studio. I professori della Facoltà delle Arti beneficiati dalla decisione primaverile erano oltre a Cecco d’Ascoli e Angelo d’Arezzo, remunerati rispettivamente per l’insegnamento dell’astrologia e della filosofia, Mondino de’ Liuzzi doctor medicine in praticha e Francesco doctor artium che aveva letto, commentandoli, i libri d’Aristotile. Il terzo documento consiste in un incartamento giudiziario istruito dal giudice del podestà in seguito ad una denuncia presentata nel marzo 1324 da Montesello di Fredo de Trivignanno, originario del contado di Parma, che accusava il magister Nicolaus di Ravenna di averlo colpito al volto presso la casa del fattore della chiesa di Santa Margherita. Nei pressi della chiesa (uno dei luoghi maggiormente frequentanti nell’opera dall’ascolano), precisamente nella cappella di Santa Margherita, viveva e seguiva da almeno due anni le lezioni universitarie in scientia medicine sive fixice, Nicola da Ravenna: «[...] est scolaris forensis studii bononiensis et studet et studuit in civitate Bononie in studio medicine iam sunt duo anni et ultra»5. Tra i testimoni interrogati dagli ufficiali del podestà, perché presenti al fatto, compare Cecco d’Ascoli, residente in una cappella, quella di San Barbaziano, prossima alla chiesa di Santa Margherita e alle aule dello Studio. Lo Stabili dichiarava di avere veduto Nicola da Ravenna nel corso dei due anni precedenti «cum intrare scolas doctorum dicte scientie et audire lectiones in dicta scientia». La testimonianza dell’ascolano trovava conferma in quelle rese da Mondino de’ Liuzzi, residente nella cappella di San Martino dei Caccianemici, da due studenti e da Rodolfo de Ghislabellis, vicino di casa dello Stabili.
3 Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (= BABo), esemplare siglato 16 E.IV.26, c. 15r. 4 Le due provvisioni sono pubblicate in E. Colini-Baldeschi, Per la biografia di Cecco d’Ascoli, «Rivista delle biblioteche e degli archivi», 32/I-II (1921), pp. 69-72. 5 Archivio di Stato di Bologna (= ASBo), Curia del podestà, Libri inquisitionum et testium, busta 112, registro 1, c. 14; cfr. inoltre F. Filippini, Cecco d’Ascoli a Bologna (con nuovi documenti), Imola 1929, pp. 8-9.
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L’analisi di queste scarne testimonianze d’archivio non deve essere considerata infruttuosa; da essa si ricavano molti dati, come si avrà modo di verificare nel presente paragrafo.
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Innanzi tutto risulta che Cecco insegnasse in città quanto meno da un biennio, come del resto conferma il De excentricis et epyciclis, in un luogo del commento in cui lo Stabili rivolgendosi ai propri studenti ricordava loro un suo pronostico del 13226. È probabile comunque che lo Stabili tenesse lezione in città almeno dal 1321, se è corretta l’interpretazione di un luogo del commento alla Sfera del Sacrobosco. Nel testo è fatto implicito riferimento ai fatti tumultuosi accaduti nelle città di Bologna e Siena nel 1321, quando, in seguito all’esecuzione capitale di uno studente spagnolo ordinata dal podestà di Bologna, gli studenti decisero di abbandonare lo Studio felsineo per quello senese7:
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Circa istam partem debetis duo brevia intelligere, quia plures et su(n)t decem gradus Tauri sub quo civitas Bononiae fuit aedificata et civitas Senarum, iudicio meo, in quibus evenit ta(n)ta novitas, ut dixi vobis, et veniet8.
Si tratta di un episodio drammatico della storia cittadina che trova menzione in maniera esplicita nell’istanza presentata in consiglio comunale da Angelo d’Arezzo e Cecco d’Ascoli nel gennaio 1324: Item quod placet dicto consilio provvidere et firmare super infrascripta peti-
6
G. Boffito, Il «De eccentricis et epyciclis» di Cecco d’Ascoli nuovamente scoperto ed illustrato, «La Bibliofilia», 7 (1905-1906), pp. 150-167: 163. A proposito dell’insegnamento bolognese dello Stabili, debbono essere registrate, qui di seguito e in modo rappresentativo, alcune di quelle note sparse nei testi che permettono di sostanziare i dati ricavati dalle testimonianze d’archivio del 1324, da cui è possibile intuire le intense relazioni del professore marchigiano, presso le scuole dello Studio, con colleghi - «Et si celum alicui bonum designat ut quod eficiatur etiam medicus vel iurista istud potest per suum arbitrium augmentare studendo continue et audiendo doctores clarissimos civitatis»: G. Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, «La Bibliofilia», 5 (1904), pp. 333-350: la cit. a p. 336; 6 (1904), pp. 1-7, 53-67, 111124 e 283-291 - e studenti; siano questi gli iuvenes del commento alla Sfera del Sacrobosco «Circa ista(m) p(ar)te(m) vos iuvenese duo debetis notare»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 7r - o i magistri del commento al De principiis astrologiae dell’astrologo arabo Abdel Aziz Al-Cabiti (vissuto nel X secolo), noto come Alcabizio - «Unde vos medici quando [...]»: Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 122. 7 F. Filippini, L’Esodo degli Studenti da Bologna nel 1321 e il “Polifemo” dantesco, Parma 1921, pp. 1-81, già in «Studi e memorie per la storia dell’università di Bologna», 6 (1921), pp. 107-185. 8 Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 19v.
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tione, cuius tenor talis est [...] dicunt et proponunt dominus magister Angelus de Aretio et magister Cicchus de Esculo, quod tempore, quo studium civitatis Bononie privatum fuit et scolaris recesserunt tractatores reconciliationis studii ipsius civitatis, ordinaverunt, quod usque ad duos annos darentur et solventur doctoribus et magistris in scientia medicine et artium trecentas libr. Bononie pro quolibet anno; et sic reformata, fuit in consilio populi [...] dicunt etiam quod ipse magister Angelus ellectus fuit ad legendum in artibus et specialiter in phylodophia, cum salario centum libr. Bononie pro uno anno; et dictus magister Cicchus ellectus fuit per dictam universitatem ad legendum in dictis artibus et maxime in arte astrologie cum salario sexaginta libr. bon. pro uno anno [...]9.
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A quegli anni deve probabilmente risalire l’amicizia con Cino da Pistoia, l’unico tra i legisti dello Studio a fare capolino negli scritti dello Stabili (fatta eccezione, nell’Acerba, per Accursio e il figlio Francesco)10:
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Et si in revolutionibus annorum mundi videbitis taurum impeditum dicatis eodem anno in arboribus detrimentum; et similiter in regionibus que subposite sunt tauro et itidem in civitatibus que sunt subposite sive edificate sub ipso, ut in Bononie et in Civitate Senarum. Nam ut dixi vobis scripto super Speram mundi, Bononia fuit edificata sub tauro et quia taurus habet dominium supra collum idcirco omnes bononienses vadunt cum grogeriis et domine impinguant colla eorum et quia Venus est significator ipsorum, idcirco omnes sunt cantatores tripudiatores et suppositores et domine sunt pulcre quia Venus signficat mulieres; et in civitate senarum accidunt isti actus et precipue pulcritudo mulierum, ex qua de causa illa civitas vocatur a domino Cino pistoriensi civitas ydearum11.
La conoscenza personale, piuttosto profonda, dei due docenti ha modo di esplicarsi nel verso finale del sonetto inviato da Cino a Cecco, in cui l’astrologo marchigiano incarna la figura del celebre astronomo Tolomeo, nei confronti del quale lo Stabili dimostra di nutrire una sincera ammirazione: Cecco, i’ ti prego, per virtù di quella ch’è de la mente tua pennello e guida, che tu corri per me di stella ’n stella del cielo, di cui sai ciascuna rida. E di’ chi m’assicura e chi mi sfida,
9 Colini-Baldeschi, Per la biografia di Cecco d’Ascoli cit., p. 70. 10 Filippini, Cecco d’Ascoli a Bologna cit., p. 12: «Seguendo la carriera di Cino nelle varie
Università, risulta da documenti ineccepibili che egli fu a Siena nel 1321-23, quando la città rivale, approfittando delle disgrazie di Bologna cercò di chiamare i migliori maestri». I documenti sono pubblicati da G. Zaccagnini, Cino da Pistoia, Pistoia 1919, pp. 162-165. 11 Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 113.
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e qual per me è laida e qual è bella, poi che rimedio la mia scampa grida, per qual da lor iudicïo s’appella; e se m’è buon di gire a quella petra ov’è fondato ’l gran tempio di Giove, o star lungo ’l bel fiore, o gire altrove; o se cessar dé la tempesta tetra che sovra ’l genital mio terren piove. Dimmelo, o Ptolomeo, che ’l vero trove.
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Del resto tale caratterizzazione di Cecco12 è corroborata dai giudizi espressi dal filosofo ascolano nei confronti dei colleghi, degni di riso, che gettano via il loro tempo nel tentativo di ricercare modelli inusitati di movimento, alternativi rispetto a quello tolemaico. Per ciò le loro parole sono malinconiche:
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Et super hoc fundant astrologiam eorum in quibus imaginationibus perdiderunt tempus eorum, sicut et multi qui Bononie sunt astrologi per inventionem. Sed quod isti dicunt, verba sunt melencolica, cum nihil probent, sed supponunt pro fundamento ut ex eo habeat imaginatio diversitatis motuum qui videretur in motibus planetarum esse ad sensum. Et quia dicunt et non probant et non sint theologi, eorum rationes sun digne risu13.
In una digressione teorica Cecco prende posizione a riguardo del dibattito che in quegli anni si andava sviluppando intorno al valore dell’astronomia tolemaica, in relazione alla spiegazione epiciclica ed eccentrica delle sfere celesti. Un tema evidentemente assai disputato tra i professori delle università di Bologna e Parigi:
Multe sunt opiniones alie Parisius, sed dimitto propter brevitates. Sed iste videntur magis apparentes contra veritatem Ptolomei et magis famosi14.
Cecco si schiera apertamente a favore del modello tolemaico contro i moderni: 12
Si ricordi che Cecco manifesta l’intenzione di pubblicare un trattato sul Centiloquio di Tolomeo nel commento alla Sfera del Sacrobosco: «Sed in Centiloquio assignabo ca(usa)s cu(m) glosas facia(m) sup(er) illu(m) si deo placuerit»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 9v. 13 Il ‘Lucidarium dubitabilium astronomiae’ di Pietro d’Abano e altre opere, a cura di G. Federici Vescovini, Padova 1988, pp. 380 e 389. 14 Ibid.
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Aliqui moderni astrologi sunt volente salvare scilicet dicta philosophorum ut concordent cum dictis Aristotelis [...] Sed quamvis ista fuisset bona imaginatio per concordiam, tamen ista nunquam fuit intentio Ptholomei15.
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In un momento in cui, come ricorda Graziella Federici Vescovini: «il mondo scientifico e filosofico della fine del secolo XIII e degli inizi del XIV era diviso tra due opposte schiere. Da un lato i seguaci dei filosofi arabi, i moderni interpreti di Aristotele, [...] sostenevano le sfere omocentriche di Aristotele (reinterpretate da Alpetragio) secondo le più aggiornate teorie astronomiche arabe [...]; dall’altro lato stavano i matematici e gli astrologi che seguivano le teorie degli epicicli e delle sfere deferenti di Tolomeo, tra i quali Pietro d’Abano, e che pure volevano non essere in disaccordo con Aristotele»16.
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Tra i colleghi convocati direttamente in causa dai documenti e dagli scritti dell’ascolano compaiono Angelo d’Arezzo, filosofo averroista e divulgatore della grammatica speculativa di Boezio di Dacia, e Mondino de’ Liuzzi, anatomista e embriologo di grande fama17.
Di Angelo d’Arezzo18 sappiamo che da tempo teneva corsi universitari nella Facoltà delle Arti e Medicina dello Studio felsineo, quando si alzò 15 16
Ibid., p. 166. Ibid., pp. 227-228. La conoscenza dell’ambiente universitario parigino degli ultimi anni del secondo decennio del Trecento emerge in un’altra digressione di natura didattica inserita nel commento alla Sfera: «Circa istam partem vos iuvenes duo debetis notare. Primum est q(uod) motus primi coeli est ab oriente in occidentem et semper iste motus est uniformis. Alius motus eorum est accidentalis: ut quia raptu primi mobilis moventur ab oriente in occidentem circa terram semel. Exempli gratia imaginamini unam rotam volvi et formicam contra motum rotae moveri motu naturali movebitur formica duplici motu scilicet naturali co(n)tra motum rotae: et accide(n)tali .s(cilicet). motu rotae: sic ergo accipite simile et i(n) coelo»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 6r. L’esempio della formica e della ruota si connette fortemente al commento del terzo libro delle Sententiae di Pietro Lombardo di Francesco della Marca, che nell’ottava questione, in cui sostiene l’Immacolata Concezione di Maria, introduce l’argomentazione del movimento per se e per accidens in obiezione alla soluzione prospettata dall’Aureolo, predecessore di Francesco Caracciolo nella cattedra di Parigi. L’Aureolo aveva avuto modo d’esemplificare il proprio pensiero con l’immagine del movimento in senso contrario di una formica rispetto al moto della ruota in cui si trovava. 17 M. Giansante, Cecco d’Ascoli. Il destino dell’astrologo, «Giornale di Astronomia», 23/II (1997), pp. 9-16: 12. 18 Angelo d’Arezzo era stato auditor et repetitor di Gentile da Cingoli nel primo decennio del Trecento, e nel 1311 era stato coinvolto in un processo per eresia a Bologna da parte dell’inquisitore Nicola di Ripatransone.
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insieme a Cecco d’Ascoli davanti al consiglio cittadino per chiedere il rispetto degli impegni presi dal comune nei confronti dei professori. Angelo viveva allora in zona universitaria, non lontano dall’abitazione di Cecco, nella cappella di San Salvatore, come appare da un fascicolo processuale del 132419. La conoscenza tra i due doveva essersi cementata negli anni bolognesi grazie ad assidue frequentazioni, favorite del resto dalla contiguità residenziale e dagli interessi scientifici comuni. Ciò consentì alle interpretazioni oniriche che il maestro aretino confidenzialmente offriva al collega marchigiano di trovare posto nel De principiis astrologiae:
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Unumquodque individuum habet suum somnium appropriatum quod contradicit interpretationi communi. Qui somniat videre argentum, lucrum significat, secundum Danielem, et tamen multi sunt qui quando somniat, semper damnum patiuntur; comedere fructus, ficus scilicet sive uvas, laetitiam, et aliqui habent totum contrarium, ut patet in magistro Angelo de Aretio qui quando somniat comedere ficus semper inerit sibi angustia, et hoc ipse habet pro principio vero20.
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Di Mondino de’ Liuzzi sappiamo che nel 1324 viveva nella parrocchia di Santo Antolino e teneva lezione in quella di San Martino dei Caccianemici. Mondino fu l’unico tra gli allievi di Taddeo Alderotti, insieme a Dino del Garbo (che commentò il De natura fetus di Ippocrate), a dedicare un’opera intera al concepimento21. Grazie ad una reportatio del 1319 stesa da Guccio di Mino da Siena è giunta la sua Expositio super capitulum de generatione embrionis Canonis Avicennae cum quibusdam quaestionibus, divisa in quindici lectiones22. L’esposizione dimostra quanto Mondino «continuasse a dibat-
19 ASBo, Curia del podestà, Ufficio acque, strade e fanghi, busta 17, registro 1 (1324), cc. 10r-v. Dall’incartamento giudiziario risulta che Angelo d’Arezzo comparve in veste di testimone in un processo intentato dalla curia del podestà nei confronti di Lazzarina, accusata di essere retentrix di meretrici presso la propria abitazione, posta nella parrocchia di San Salvatore. Insieme all’aretino furono sentiti dagli ufficiali del podestà il magister Petrus de Cesso, residente nella cappella di Santo Antolino, e Bertolucius quondam Bondi doctor gramatice della cappella di San Salvatore, fratello di Guizzardo autore insieme a Castellano di Bassano del commento all’Ecerinus del Mussato. 20 G. Boffito, Il «De principiis astrologiae» di Cecco d’Ascoli nuovamente scoperto e illustrato, Torino 1903 (Giornale storico della letteratura italiana. Supplemento 6), p. 36; cfr. inoltre A. Tabarroni, Gentile da Cingoli e Angelo d’Arezzo sul Peryermeneias e i maestri di logica a Bologna all’inizio del XIV secolo, «Studi e memorie per la storia dell’università di Bologna», n. ser., 8 (1992), pp. 395-440: 411. 21 S. Gentili, Destini incrociati. Taddeo Alderotti docente allo studio bolognese e la letteratura volgare delle origini, in Bologna nel Medioevo. Atti del Convegno (Bologna, 28-29 ottobre 2002), Bologna 2004, pp. 165-206. 22 Mondini de Leuciis Expositio super capitulum de generatione embrionis Canonis
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tere la sua materia e fosse capace di superare le sue precedenti concezioni: qui infatti, presa tempestiva conoscenza del De usu partium di Galeno nella traduzione fatta nel 1317 da Niccolò da Reggio, egli abbandonò la pseudogalenica descrizione dell’utero come composto da sette cellulae, da lui delineata nell’Anothomia del 1316, e corresse il suo precedente errore, pronunciandosi anche contro la genuinità del De spermate sino allora attribuito a Galeno»23. Nella dodicesima lezione24, Mondino indaga l’argomento, affrontato pure da Cecco nell’Acerba, dei parti gemellari25. Bisogna notare la forte somiglianza che caratterizza, nei due testi, l’organizzazione della materia: entrambi i professori applicano al procedimento narrativo un espediente retorico teso a vivacizzare l’esposizione didattica del discorso; fanno, infatti, ricorso ad un caso esemplare per chiarire il contenuto delle loro argomentazioni. A un certo punto della lezione Mondino prende spunto da un noto fatto locale, la cui matrice bolognese è innegabile poiché resa esplicita dal docente, mentre oscura resta l’identità del protagonista dell’excursus:
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Et ideo multi sunt qui consueti sunt in uno coytu bis sperma inicere in matricem, qui, propter bona, dispositionem mestrui adinvencti, concipiunt duos fetus. Et propter has causas vobis superius assignatas, quibus gemelli ad perfectionum prohibentur venire, debent se astinere a coytu cum muliere pregnante homines qui multum habent sperma prolificum, et precipue si mulier illa sperma dispositum habeat ad suscipiendum dispositiones et actiones ipsius, quoniam posset esse causa aborsus alterius gemellorum vel interitus utriusque. Et ego cognovi hominem in terra ista qui numquam tangebat uxorem postquam ipsa fuerat impregnata, qui forsan hoc faciebat propter causas superius vobis datas. Sed, nescio qualiter, ipse postea fecit cum fratribus predicatoribus vel qualiter fuerit quod ipse pervenit ad manus inquisitoris, qui sibi accepit multam pecuniam; postea devenit propter quoddam negotium ad manus potestatis, et fuit etiam in magnam quantitatem pecunie condampnatus; tandem infimatus est quadam magna et cronica egritudine, et pervenit ad manus medicorum qui sibi magnam quantitatem pecunie abstulerunt. Et sic pervenit iste ad manus fratrum iudicum et medicorum, et multas tribulationes substinuit et finaliter mortuus est. Et sic apparet vobis qualiter fieri potest generatio gemellorum, quod erat primum quod in lictera tetigit Avicenna26.
Avicennae cum quibusdam quaestionibus, a cura di R. Martorelli Vico, Roma 1993 (Fonti per la storia d’Italia, 118). 23 F. Bacchelli, Mondino de’ Liuzzi, in Dizionario biografico degli italiani, 65 (2005), pp. 309-314: 312. 24 Mondini de Leuciis Expositio super capitulum de generatione embrionis cit., pp. 139-151. 25 L’argomento è affrontato pure nel commento all’Alcabizio, cfr. Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli cit., pp. 285-286. 26 Mondini de Leuciis Expositio super capitulum de generatione embrionis cit., pp. 147-148.
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Lo stesso espediente retorico è reso operativo da Cecco nel De formatione humane creature, cioè nel secondo capitolo del libro secondo del suo poema didascalico in volgare, dove intende spiegare il processo di formazione del feto rifacendosi alla descrizione anatomica offerta da Mondino nell’Anatomia pubblicata nel 1316, insistendo in particolare modo sulla teoria della superimpregnazione nella formazione dei parti gemellari:
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Septe ricepti per ciaschum pianeta son nella madre, però septe nati nascere posson, como vidi a Leta. Questo adivene per lo molto seme, et ancho per li segni gemminati, quando li lumi si giongono insieme.
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Nel nono mese vien nel mondo lustro, per la vertù che segnoreçia Iove. Perché di septe vive, ciò ti mostro: la Luna in questo mese à signoria; benignità in creatura piove, natura confortando tuta via. Ma ne l’octavo che ’n chi nasce mòre, ché ’l segnoregia quella stella trista che per fredeza trahe l’alma del core. Ciaschum pianeta spira nel suo mese, fin che vien a luce la creata vista: così natura in ciò l’ordene prese.
Quando conceve la madre si strenge, ch’entrar non vi porìa la punta d’acho: così Saturno sua virtù l’impenge. Ben si può aprire per nuovo disio. come divenne a Lixe dal Lacho, che fe’ duo nati là dov’era io.
Uno nel nono e l’altro fie nel diece, qual fu concèpto nel tempo serrato, quando alla voglia süa satisfece; per gram volere de l’acto carnale, si gemina ’l concepto già creato, quando alla donna ben d’amore le cale. El nato porta del padre semeglia, quando lo seme della donna è vénto: in tanto nasce la viril famiglia.
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Ciò se converte dal contrario senso quando è .llo nato da parenti spénto: el doppio sperma fu dal cielo offenso.
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Per meglio dimostrare il ragionamento espresso nella sua trattazione Cecco ricorre all’esempio di quanto accaduto a certa Lixe dal Lacho. La ricerca d’archivio ha permesso di accertare che i dal Lacho erano vicini di casa di Cecco d’Ascoli; assai più arduo è individuare con certezza in Lucia di Jacobo del Lago o in Bolnixia di Giovanni del Lago27 la Lixe del Lacho nominata nell’Acerba. Né più agevole risulta l’impresa di datare il capitolo e ciò per due ragioni. In primo luogo l’argomentazione astrologica, se dipendente da Mondino, è ancorata ad una teoria attardata rispetto a quella proposta già nel 1319 dall’embriologo bolognese (medico che Cecco aveva modo di frequentare, secondo quanto emerge dalla documentazione del 1324); in secondo luogo l’esplicita ammissione dell’autore di non trovarsi in quel
27 L’eponimo della famiglia, Jacobus quondam Martini de Lago, tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento risiede nella cappella di Santa Isaia «in loco ubi dicitur estra seralium Barbarie», e possiede alcune case ai confini delle parrocchie di Santa Isaia e di San Barbaziano, nel Borgo della Nosadella, nei pressi dell’abitazione di Cecco d’Ascoli, cfr. ASBo, Ufficio dei Riformatori degli Estimi, serie II, busta 16, Santa Isaia, cedole nn. 34, 106 e 128 del 1296-1297 / busta 66, cedole nn. 248, 267-268 del 1304-1305 / busta 117, cedole nn. 173, 212 e 270 del 1307-1308; ASBo, Ufficio dei Riformatori degli Estimi, serie I, Registro di Porta Procola del 1308, Santa Isaia, cc. 74r e 76r. Sposato con Francesca di Guiscardo ebbe tre figli: Giovanni, Bartolomeo e Bonaventura. Bonaventura ebbe un figlio di nome Vinciguerra, con il quale risiedette nella parrocchia di Santa Caterina di Saragozza, cfr. ASBo, Capitano del Popolo, Venticinquine, busta 16, documento del 1312 / busta 7, Cappella di Santa Caterina di Saragozza, registri degli anni 1328, 1330 e 1333. Bartolomeo ebbe due mogli, Margherita, già morta nel 1303, e Benvenuta di Inghilgheri di Zola - cfr. ASBo, Demaniale, San Francesco, busta 47/4179, documento n. 4 del 1308 -, da cui nacquero due figli maschi e tre femmine: Madale, Antonia (maritate rispettivamente a Giovanni Fantini e Gerardo Adigheri) e Lucia, nominata erede universale dalla madre nel 1300, cfr. ASBo, Demaniale, San Francesco, busta 36/4168, documento n. 58 del 22 settembre 1300. A Giovanni, morto nel 1303, erano invece sopravissuti la moglie Holia e i figli Pietro, Tommaso, Domenico, Caracosa, Bolnixia e Giovanna, cfr. ASBo, Demaniale, San Francesco, busta 42/4174, documento n. 5, testamento del 13 agosto 1303 / busta 46/4178, documento n. 11, codicillo testamentario del 4 settembre 1307 e documento n. 55, codicillo testamentario del 26 giugno 1308. Stefano e Francesco, figli di Bartolomeo (che risulta deceduto nel 1328), risiedettero negli anni Venti del Trecento nella cappella di San Barbaziano, a pochi passi dall’Ascolano, dove esercitarono la professione di notaio, cfr. ASBo, Capitano del Popolo, Venticinquine, busta 16, Santa Isaia, documento del 1312; Ufficio dei Riformatori degli Estimi, serie II, busta 168, Santa Isaia, cedola 10 del 1315-1316; Comune-Governo, Censimento, Porta Procola, cappella di Santa Isaia del 1320; Capitano del Popolo, Venticinquine, busta 7, cappella di San Barbaziano, registri compresi tra il 1328 e il 1334; Ufficio dei Memoriali, volume 137 del 1319 e volumi 147 e 149 del 1323.
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momento a Bologna porterebbe a credere che la redazione del testo sia avvenuta, rispetto all’esperienza accademica bolognese dell’ascolano, o a valle (antecedentemente al 1321-2) o a monte di essa (in prossimità pertanto dell’estrema esperienza del 1327, quando lo Stabili era a Firenze come phisicus et familiaris di Carlo d’Angiò).
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I sondaggi archivistici hanno consentito di individuare l’abitudine di Cecco di utilizzare per i suoi esempi luoghi e persone a lui (come al suo uditorio) familiari: situati cioè nei pressi delle aule dello Studio. Non a caso l’astrologo, per fornire ai propri studenti, durante una lezione, una delucidazione delle argomentazioni presentate, menziona la distanza che intercorre tra il convento di San Francesco e la chiesa delle monache di Santa Margherita:
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Juxta quod debetis intelligere quod virtus planete sive fortitudo est in signis effective agendo in complexiones et secundum dispositiones materie tribuunt dignitatem sicut superius dixi vobis, et non ex diversitate cenit, ut ponunt aliqui astrologi ex punctifactione, qui facti sunt astrologi ex se ipsis. Silogizzant enim inter laicos in plateis quod si sub uno gradu escendentis oriatur filius regis et filius rustici quia habent diversos cenit idcirco non sunt equales in dignitate. Sed quod isti dicunt est falsum et contra opinionem omnium astrologum [...] sed loqui volo secundum grositiem ipsorum redarguendo ipsos. Pono quod ego sum in ecllesia beate Margherite et vos in ecclesia sancti Francisci: habebimus diversos cenit secundum istos. Quero ab eis si isti cenit qui ponunt diversitatem inter nos sit stella vel spera sine stella et non possunt dicere quod non stella quia minima stellarum maior est tota terra28.
Anche in questo caso i dati forniti dalla documentazione e le informazioni ricavabili dagli scritti concordano nel restituire la topografia della Bologna frequentata dall’ascolano. In questa direzione devono essere interpretati i reiterati accenni alle monache della chiesa di Santa Margherita, nei pressi della quale, lo si ricorderà, era avvenuto l’atto di violenza da cui si era originato il processo contro Nicola da Ravenna del marzo 132429. Un primo generico accenno alle monache lo si trova nel De principiis astrologie, in relazione all’inclinazione astrale connaturata alla fondazione di due città come Firenze e Bologna. In esso si afferma che se qualcuno nasce sotto il segno di Venere ha la voce bassa come le monache:
28 Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 117. 29 La connessione tra dati documentari e informazioni testuali è già del Filippini, Cecco
d’Ascoli a Bologna cit., p. 22.
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Hic ostendit que sunt multum luxuriosa; et dicit quod quedam sunt multum luxuriosa, scilicet aries, taurus, leo, capricornus. Juxta quod si aliquis ortus fuerit sub aliquo istorum erit luxuriosus, similiter civitas edificata sub ipsis, ut patet in Bononia que habuit taurum, in Florentia que habuit arietem et sic de aliis. [...] juxta quod si aliquis natus fuerit sub aliquo istorum erit natus non emictens magnam vocem sed parvam sicut quemadmodum faciunt monache loquentes sub silencio cum devotis30.
Meno evasiva è l’allusione alla passione, favorita da particolari congiunzioni astrali, che l’uomo sente per le monache:
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Si esset aspectus sextilis vel trinus Martis ad Venerem tunc esset dilectio vitiosa et amor carnis, qui amor est mortis, animae obscuritas et virtutum, defloratio honestatis, principium mali, dubium vitae, desperatio mentis, implens cor suspiriis, hominum deviatio, amicus voluptatis, auctor et finis omnium malorum et qui diligit monachas accipit iste amor31.
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Esplicito, e probabilmente autobiografico, il ricordo degli incontri amorosi con le monache di Santa Margherita, favoriti dal pianeta Venere in triplicitate: «ut noster ascolanus inter monachas margheritas32». Questa illecita passione ha modo di manifestarsi in una letterina inviata a suor Lucia e attribuita a Cecco; ma confezionata probabilmente da un suo detrattore, assai ben informato sullo Stabili33.
30 Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 120. 31 Ibid., p. 64. 32 Filippini, Cecco d’Ascoli a Bologna cit., p. 22. 33 F. Novati, Tre lettere giocose di Cecco d’Ascoli, «Giornale storico della letteratura ita-
liana», 1 (1883), pp. 62-74: 65 e 74. Secondo il Novati all’accusa di magia va strettamente unita l’altra di irreligione. Il Novati sottolinea infatti lo sprezzante giudizio espresso dal Quirini nel v. 8 del sonetto inviato al Mezzovillani, che stigmatizza l’Ascolano come «malvagio ciecho e sofista: heresiarca et falso cristiano». Nel primo emistichio del verso si potrebbe riconoscere la parodia del proemio apposto al commento della Sfera del Sacrobosco dallo Stabili, in cui il docente insiste sulla capacità del medico di vedere la verità: «Oportet medicum de necessitate scire ac consyderare naturas stellatum et earum coniunctiones [...] Sed tanq(uam) cecus ut plurimum ducitur et oberrat. Idcirco dicebat Ipocras excellentia medicorum in libro de Stellarum aspectibus superiorum. Medicus inquit si non est in Stellarum scientia perspectivus quis in eius manibus non confidat quia cecus non in merito poterit diffiniri. [...] Et Yparcus in libro de vinculo spiritus secu(n)do capitulo describebat. Medicus sine Astrologia est quasi oculus qui non est in pote(n)tia ad operatione(m)»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 1v. Altre due pseudo-lettere stabiliane pubblicate dal Novati conducono in ambiente bolognese. Si tratta di due epistole dedicate ai fiorini: anche in questo caso pare piuttosto evidentemente l’intervento di una mano informata. Infatti i documenti del 1324 testimoniano la necessità di denaro da parte dello Stabili, che del resto afferma «con onesta baldanza nell’Acerba di non aver tro-
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Una spia ulteriore della conoscenza minuta di Cecco della cittadella universitaria la offre un luogo del commento all’Alcabizio, in cui si nomina Guida Belvisi quale esempio di fortezza d’animo: Juxta quod intelligatis quod sicut leo et sagittarius sunt animalia magis stabilia quam alia, sic natus sub aliquo ipsorum erit stabilis et firmus in suo proposito nec poterit de facile admoveri; et bene patet in domina Guida de Belvisis que cor ferreum habet et semper vincere voluit et non vinci34.
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La ricerca d’archivio documenta come nella cappella di residenza del professore ascolano, quella di San Barbaziano, vivessero molti membri della famiglia Belvisi; una famiglia del resto legata allo Studio felsineo35.
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I documenti con cui abbiamo aperto il paragrafo hanno il merito di certificare il rapporto di fiducia esistente, intorno agli anni Venti del Trecento, tra l’amministrazione cittadina e l’ascolano, obbligandoci a sondare i giudizi espressi dal medico marchigiano a tal riguardo. Bisogna allora prendere atto della sequenza di passi sorprendentemente favorevoli al governo cittadino bolognese di matrice guelfa e popolare, che credo debbano necessariamente contribuire a sfumare l’immagine di Cecco quale fiero assertore del ghibellinismo. Un giudizio ormai connaturato alla sua figura, ma che non si at-
vato luogo fra gli uomini degni d’onore in grazia delle ricchezze, ma del sapere, non di meno lascia altrove trasparire quasi un rammarico di essere povero, di dovere per vivere sottoporsi a gravosi sacrifici»: Novati, Tre lettere giocose cit., p. 66. 34 Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., p. 119. 35 A questo proposito sono assai interessanti i dati ricavabili da un atto del 1301, che consentono ulteriori considerazioni, a partire dalle relazioni intrecciate in esso dagli attori e dai testimoni presenti alla compravendita di un immobile nella cappella di San Barbaziano: i dal Lago, i da Moglio e Guido Belvisi, cfr. ASBo, Demaniale, San Francesco, busta 38/4170, documento n. 38 (1301). Guido Belvisi, professore di diritto nello Studio bolognese, sposato con Bartolomea Piciolpassi ebbe tre figli: Iacobo, Rolandino e Benvenuto; i primi due furono professori di diritto e l’ultimo, Benvenuto, fu maestro di logica e di fisica, come il nipote Bertoluccio Belvisi, presente nella lista dei residenti in San Barbaziano del 1328 (cfr. Appendice II). Qui, secondo un atto del 1324 - cfr. ASBo, Ufficio dei Memoriali, volume 150, c. 81r -, risiedeva anche il magister Jacobus del fu Guido Belvisi doctor legum. Questi fu richiamato dall’esilio nel 1321 in seguito alla grave crisi in cui versavano lo Studio e il comune dopo l’abbandono della città da parte degli studenti. Con il Belvisi si tende ad identificare uno dei maestri di scuola di Francesco Petrarca durante gli anni giovanili trascorsi da studente a Bologna. Giovanni di Francesco da Moglio fu medico e filosofo, mentre Pietro da Moglio, che viveva e insegnava tra le parrocchie di San Salvatore e Santa Isaia negli anni Quaranta del Trecento, fu amico di Giovanni Boccaccio e di Francesco Petrarca; maestro di Giovanni Conversini, Francesco da Fiano di Roma e Giovanni di Matteo Fei d’Arezzo. A lui si debbono le lezioni di retorica tenute in quelle aule tra 1368 e 1371, dedicate alle egloghe di Petrarca, del Virgilio e Alighieri.
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taglia ai rapporti d’amicizia accertabili con Cino da Pistoia o Graziolo Bambaglioli, né tanto meno con i giudizi palesati nel commento all’Alcabizio: Et quia fuit edificata sub Tauro, qui est exaltatio Lune et domus Veneris, et sunt stelle fixe, idcirco hic populus regnat et regnabit in futurum, quia luna significat populum et quia ascendens nobilium scilicet medium celi eat aquarius domus saturni et saturnus fuit impeditus in edificatione quod patet per effectus, idcirco nobiles sunt nullius valoris. Unde regnabit populus deprimetur nobiles, vigebant tripudia, luxuria, cantus et nunquam destruetur Bononia sed marcescet36.
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In questa nota Cecco chiarisce il proprio pensiero, altrimenti solo abbozzato nel commento alla Sfera del Sacrobosco e nel trattato De quodam modo physonomiae37. Due testi scritti con cautela forse perché redatti a ridosso dell’espulsione dalla città di Romeo Pepoli, con cui si tende a identificare il Polifemo dell’egloga dantesca inviata, a cavaliere del terzo decennio del Trecento, dall’Alighieri a Giovanni del Virgilio, anch’egli, secondo l’accessus del codice XIII. G. 33 della Biblioteca nazionale di Napoli, «natione Bononiensis, habitans in Porta Nova ante ecclesiam Sancti Salvatoris»38. La cittadella delle Arti si connota per la divulgazione di teorie politiche sfavorevoli al regime signorile (si ricordi che il Boccaccio annotava accanto al termine Polifemo quello di tirannus per chiarirne il significato). Non meravigliano per ciò le espressioni, troppo spesso trascurate ma reiterate nei trattati latini, in cui Cecco manifesta il proprio gradimento nei confronti del governo popolare cittadino; semmai colpiscono i giudizi rela-
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Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli cit., pp. 60-61. La peculiarità astrologica di «Venus a Venere qui pulchritudinis est venator et ludus est et laetitia mundi nostri» determina le inclinazioni astrali e caratteriali dei bolognesi: «Nam omnis civitas et quod habitatur habet triplicem significatore. Significatorem scilicet climatis provinciae et aedificationis. Nam septem sunt climata sicut scitis: et septem sunt planeta qui dominatur in eis[...] Habet civitas significatore(m) aedificationis: Nam ut alias dixi vobis simile est de aedificatione civitatis: quemadmodum est de conceptione individui. Nam sicut in proiectione vel in casu spermatis in matricem sumitur potentia infortunii et dignitatis illius sicut in primo lapide et in civitate. Nam cum primus lapi proiicitur in fundamento sub tali ascendente ille dominus asce(n)des indicat q(ui)d de civitate: et iste significator se habet ad civitatem sicut anima ad corpus: et homines illius civitatis consequuntur naturam illius planetae potiusq(uam) significatorum: scilicet climatis et provinciae: ut patet bononiensibus eius ascendens fuit taurus: q(uod) omnes vadunt cum gorgeriis et dominae impinguant colla earum et quia Venus dominatur: iccirco omnes sunt cantatores: tripudiatores: suppositores: et libenter solaciantur cum attinentibus mulieribus»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., cc. 4v e 10v-11r. 38 E. Pasquini, Giovanni del Virgilio, in Dizionario biografico degli italiani, 38 (1990), pp. 404-409.
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tivi ai magnati, questi sì di segno negativo39. Anche il ritratto che dei Bolognesi si offre nell’Acerba non si discosta da tale linea interpretativa, se non per il diminuito credito di fiducia aperto da parte dell’ascolano nei confronti della città; quasi fosse presago, lo Stabili, di quei cambiamenti che si andavano prefigurando all’orizzonte dopo la sconfitta subita nel 1325 dall’esercito bolognese presso Zappolino: avvenimenti che avrebbero determinato l’ingresso in città nel 1327 del legato pontificio:
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O Bolognesi, anime di fuoco, a picciol tempo venirete al punto che caderà Bologna a poco a poco. Or vi ricordi come il divin arco ogni peccato con la pena ha giunto ed, aspettando, assai più si fa carco.
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A questi mutamenti mi pare faccia esplicito riferimento una glossa autobiografica incastonata dallo Stabili nel suo De eccentricis et epyciclis: [...] et ut vidistis de Saturno qui erat in 13 gradu Tauri in die secundo augusti in annis Christi 1322, incepit retrogradari et venit usque ad Pliadem, scilicet Gallinam, que est decimus gradus Tauri sub quo fuit ista Bononia hedificata. Idcirco tanta novitas quam predixi, sicut dixi, accidit huic civitati et accidet quam taceo, cum non sit locus hic de hoc, ergo etc.40.
Del resto, da signore della città, il cardinale Bertrando del Poggetto decretò, secondo una tradizione che risale al Boccaccio, la condanna al rogo della Monarchia di Dante Alighieri, favorendo quella immagine infernale della città adombrata nell’egloga dantesca: Bologna era divenuta fucina infernale da cui si generò il De reprobatione Monarchie di Guido Vernani da Rimini, che l’autore volle dedicato a Graziolo Bambaglioli41. E allora si ri-
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«Cum igitur effectus attestetur esse: et saturnus sit planeta gravior et frigidior et siccior: iccirco sua(m) natura(m) imprimit in terra(m). Hoc ide(m) op(er)at(ur) in co(n)cept(i)o(n)e: vel in casu sp(er)matis in matrice(m) p(re)fuerit sui virtule agit in sp(er)ma(m) et sanguine(m) me(n)struu(m) resolve(n)do: subtile et grossu(m) inspissa(n)do: iccirco tribuit nato co(m)plexione(m) corporis: iccirco act(us) ani(m)ae: vel eru(n)t rigidi ut videbitis istos saturninos q(ui) nigerrimi su(n)t: et in eor(um) motibus moventur ut asini»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 10r; cfr. inoltre il De quodam modo physonomiae: «Qui autem asininum aspectum, iners est, tumidus et stultus sicut et asinus, et propter hoc magnitudo aurium dementiam attestatur»: Boffito, Il «De principiis astrologiae» cit., p. 66. 40 Il ‘Lucidarium dubitabilium astronomiae’ di Pietro d’Abano cit., p. 388. 41 Una dedica, quella di Guido Vernani da Rimini, lettore presso il convento domenicano di Bologna, la cui Reprobatio Monarchie fu stesa tra il 1327 e il 1334 (probabilmente prima
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cordi che nel commento alla Sfera del Sacrobosco lo Stabili aveva informato i suoi studenti di avere scritto un trattato sull’influenza degli astri inviato in forma di lettera a Graziolo Bambaglioli, cancelliere del comune bolognese tra il 1321 e il 1324 (a partire dalla cacciata di Romeo Pepoli e sino a quella di Bertrando del Poggetto)42: «Si quis istam voluerit complete legat Epistolam quam misi cancellario Bononien(sis) civitatis»43. Si aggiunga ancora che la famiglia Bambaglioli era fortemente legata alla Società dei Notai di Bologna e partecipava attivamente al governo popolare e geremeo della città. Si sappia infine che i Bambaglioli avevano la loro residenza cittadina nel Borgo che da essi prendeva il nome, situato tra la chiesa di Santa Isaia e il convento di San Francesco, ai confini della parrocchia di San Barbaziano.
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In conclusione mi pare si possa dimostrare, a partire da quei minimi lacerti documentari del 1324, la fitta rete di conoscenze e l’estrema familiarità di Cecco con la Bologna universitaria; ma l’incartamento giudiziario ci offre un’ultima utile indicazione, nel momento in cui registra uno di quei frequenti conflitti di cui furono protagonisti studenti e maestri della Facoltà delle Arti. Mostra, infatti, un aspetto particolare della vita universitaria, quello della violenza, che merita di non essere trascurato occupandosi di Cecco d’Ascoli. Si pensi ad esempio che il medico Fabiano, figlio del celebre professore dello Studio bolognese Alberto de’ Zancari, residente nella cappella di Santo Antolino, subì l’arresto per avere organizzato nel 1319 un agguato ai danni del collega, il magister Guglielmo di Reggio doctor artium e phylosophie. In quella aggressione erano stati coinvolti Cristoforo de Honestis doctor artium e phylosophie, Nicola da Cento scolaro in logica e filosofia, Andrea da Forlì e Vincenzo da Pistoia scolari in medicina44. Bisogna poi ricordare che al giovane Angelo d’Arezzo toccò di subire un’inquisizione, analoga a quelle subite da Cecco tra 1324 e 1327, da cui riuscì a scagio-
del 1329), insinuata «con intento polemico nei confronti del commentatore e ammiratore di Dante»: S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della Commedia da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004 (Biblioteca di “Lettere Italiane”. Studi e Testi, LXII), p. 114. 42 Cfr. L.C. Rossi, Tre «Dictamina» inediti di Graziolo Bambaglioli con una nota biografica, «Italia medioevale e umanistica», 31 (1988), pp. 81-125. 43 Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 4v. Un riscontro indiretto di quella corrispondenza potrebbe trovarsi in una chiosa apologetica di Inf., VII, vv. 85-90 del commento latino all’Inferno dantesco allestito proprio nel 1324 dal destinatario del trattato epistolare dello Stabili. In essa Graziolo Bambaglioli palesa una posizione antitetica rispetto a quella antidantesca assunta da Cecco nell’Acerba, in particolar modo sul tema riguardante il ruolo che nella vita dell’uomo hanno fortuna e libero arbitrio. 44 BABo, Carte di Mazzoni Toselli, busta III, cc. 35r-37v.
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narsi dimostrando che le accuse a lui rivolte era fondate sulle calunnie del collega Giuliano de’ Preunti45, professore di medicina e reportator di Dino del Garbo sul De natura fetus di Ippocrate, che subirà a sua volta un’aggressione nella cappella di San Martino dei Caccianemici da parte di un famulus del famoso professore Antonio da Parma. Queste testimonianze, “certificate” da un nutritissimo numero di processi46, consentono di non trascurare le informazioni riportate nella cronachistica coeva fiorentina a riguardo delle ragioni che contribuirono a determinare la condanna al rogo dell’ascolano. Non deve pertanto sorprendere il sospetto che trapela dalla Cronica di Giovanni Villani, secondo cui la disgrazia fiorentina dello Stabili fu alimentata «dall’inimicizia invidiosa del celeberrimo Dino del Garbo»47, presente a Bologna nel 1321 (il Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicianlis scientiae noncupatur, pubblicato a Venezia nel 1521, è dedicato agli studenti bolognesi che lo avevano seguito a Siena nel 1321):
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La cagione perché fu arso sì fu perché, essendo in Bologna, fece uno trattato sopra la spera, mettendo che nelle spere si sopra erano generazioni di spiriti maligni, i quali potevano costringere per incantamenti sotto certe costellazioni a potere fare molte maravigliose cose, mettendo ancora in quello trattato necessità alle infruenze del corso del cielo, e dicendo come Cristo venne in terra accordandosi il volere di Dio co la necessità del corso di storlomia [...] Il quale suo libello in Bologna riprovato, e ammonito per lo ’nquisitore che no·llo usasse, gli fu opposto che l’usava in Firenze [...] E questo maestro Dino fu grande cagione de la morte del sopradetto maestro Cecco, riprovando per falso il detto suo libello, il quale aveva letto in Bologna, e molti dissono che ’l fece per invidia48.
I due erano senza dubbio divisi da ragioni dottrinarie, tangibili per esempio nella loro divergente interpretazione della canzone di Guido Cavalcanti,
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Tabarroni, Gentile da cingoli e Angelo d’Arezzo sul Peryermeneias cit., pp. 411-413. Si vedano le carte processuali pubblicate in Racconti storici estratti dall’archivio comunale di Bologna ad illustrazione della storia patria, a cura di O. Mazzoni Toselli, Bologna 18681870; L. Colini-Baldeschi, Lo studio di Bologna e la Marca d’Ancona, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», 5 (1920), pp. 69-135; G. Zaccagnini, Lettori e scolari della Marca d’Ancona allo Studio di Bologna dal sec. XIII al XV, Fabriano 1931 (estratto dalla rivista «Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Marche»); G. Zaccagnini, La vita dei maestri e degli scolari nello Studio di Bologna nei secoli 13 e 14, Geneve 1926. 47 Ciociola, Poesia gnomica cit., p. 431; cfr. inoltre A. De Ferrari, Dino del Garbo, in Dizionario biografico degli italiani, 36 (1988), pp. 578-581. 48 Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, II, Parma 1991, libro XI, rubriche XLI-XLII, pp. 572-573.
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Donna me prega49. Non sarà allora solo aneddotica la versione che dei fatti restituisce Filippo Villani, secondo cui Dino del Garbo († 1327) favorì la condanna di Cecco d’Ascoli per ragioni personali, risalenti agli anni bolognesi:
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Questi si dette allo studio a Bologna, dove nell’arti liberali della filosofia e nella dottrina di medicina tanto valse, che di volontà di tutto l’universale studio fu promosso alla catedra. Ed avendo già lungo tempo con famoso nome insegnato medicina, ingiuriato dalla invidia de’ dottori di Bologna, se n’andò a Siena e quivi lesse. Ma richiamato da’ Bolognesi, non volle tornare50. [...] Finalmente mosso dalla cupidità della gloria cominciò le celeberime oppenioni di Torrigiano per sua invenzioni publicamente a recitare; donde in brieve tempo avenne che per la degnità di quella hoppenione votò le scuole degli altri dottori. E maravigliandosi que’ dottori donde così presto a Dino fusse cresciuto tanto sottile e perspicace scienza, mossi dalla novità del fatto, (scoprirono il plagio ai danni di maestro Torrigiano) così che Dino fu costretto a lasciare Bologna per Firenze51.
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La successione degli avvenimenti accaduti a Bologna tra 1321 e 1322 è scandita con efficacia ancora maggiore in una fase redazionale latina del testo del Villani:
Nam studens Bononie ita mirabiliter in artibus et medicine profecit, quod, cum magna gloria pluribus annis medicinam legisset ibidem, sepius bononiensium doctorum invidia lacessitus, adeo egre tulit, quod, cum Senenses generalem studium in sua patria ordinarent, Senis legit pubblice medicinam nec ullo salario nec ullis prerogativis potuit a Bononiensibus vinci, ut Bononiam reverteretur. Causa autem tante indignationis ponitur eodem libro Virorum capitulo Turrisianus52.
Dell’invidia di cui fu vittima, Cecco informa Cino nel quartetto d’esordio di un sonetto destinato al pistoiese:
49 G. Frasca, «I’ voglio qui che ’l quare covi il quia». Cecco d’Ascoli “avversario” di Dante, in Dante e la scienza, a cura di P. Boyde - V. Russo, Ravenna 1995, pp. 243-263: 250: «C’è da dire, per incagliare tale inimicizia in un fondale scientifico, o più modestamente nel limaccio delle beghe accademiche, che Cecco insegnò Astronomia a Bologna sostenendo una posizione eterodossa rispetto a quella perseguita dagli altri professori della Facoltà di Medicina, tutti allievi diretti di Taddeo Alderotti [...]», che sembrerebbe «rimandare al pensiero di Pietro d’Abano, che può essere considerato il massimo rappresentante della scuola medica padovana», fondata su elucubrazioni decisamente astrologiche e alchemiche. 50 Cfr. Philippi Villani De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, a cura di G. Tanturli, Padova 1997 (Thesaurus Mundi. Bibliotheca Scriptorum Latinorum Mediae et Recentioris Aetatis, diretta da G. Billanovich e G. Pozzi, 26), C XIII 3-5, p. 448; ma anche ibid., B XIII 3-5, p. 391 e A XXXV, 2-5, p. 130. 51 Ibid., C XIV 15-25, p. 451; ma anche ibid., B XIV 15-25, p. 394; D XIV 10-16, pp. 210-211; A XXXVI 16-26, pp. 134-135. 52 Ibid., D XIII 2-5, p. 209.
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La invidia a me à dato si de morso che m’à privato de tutto mio bene, et àmmi trattao fuor d’ogni mia spene pur ch’alla vita fosse brieve il corso.
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Mancano, nonostante questi elementi, dati sufficienti per prendere posizione sulla dibattuta identificazione con Dino del Garbo (come proposto con estrema cautela da Giuseppe Boffito53) del medico Gualfredino, oggetto di dileggio da parte di Cecco almeno in due luoghi del commento all’Alcabizio54; ma ciò che più conta è il sostanziale rifiuto, del resto affidato a posizioni talora diametralmente opposte, che il commento approntato da Dino del Garbo alla canzone di Guido Cavalcanti, Donna me prega, incontrò nell’ambiente bolognese contemporaneo55. Tale diniego è scandito da una serie di testi polemici inerenti di volta in volta questioni di poetica, come nel caso di Onesto da Bologna56, di filosofia e teologia, come nel caso di maestro Torrigiano57, e di determinismo astrologico, come nel caso di Cecco,
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Boffito, Il “De principiis Astrologiae” cit., p. 37. Il Filippini aveva invece avanzato la candidatura di Nicoluccio di Andrea Gualfredi di Ravenna, cfr. Filippini, Cecco d’Ascoli a Bologna cit., pp. 20-21. 54 Boffito, Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo cit., pp. 119-120: «Juxta quod intelligatis quod cum aliquod individuum ortum fuerit sub aliquo istorum habebit animam tortuosam et vitiosam in ordinando mala et aliis detrahendo, ut patet in medico Gualfradino qui inter solem et lucem poneret zizzaniam»; ibid., p. 123: «Et simile de civitatibus sicut de conceptione individui, nam in primo lapide cum proicitur in fundamento, si fuerit aliquod signum impeditum, sic impedientur membra habitantium, et si percutiantur illa membra vel appositementur, cum difficultate sanantur, vi patet in Bononia que habuit arietem impeditum scilicet in duodecima parte celi quia taurus fuit ascendens Bononie, ut sepius dixi vobis, et quia aries significat supra caput, idcirco pauci evadunt et maximum periculum est Bononie in capite velnerari. Sed dicet medicus Gualfridinus ad auriculum matris sue: Hoc accidit propter humiditatem multum est Bononie. Sed hoc non est verum; nam civitas exculana que me genuit humidior est quam sit Bononia et ibi nullum est periculum; et in multis aliis civitatibus que habundant humiditate. Patet sumiliter in Florentia que habuit aquarium impeditum quod si aliquis percutiatur in curibus cum tarditate sanatur. Et sic omnis civitas habet suam egritudinem appropriatam». Cfr. inoltre Giansante, Cecco d’Ascoli. Il destino dell’astrologo cit., p. 13. 55 Gentili, Destini incrociati cit., p. 167: «D’altronde, al di là degli steccati di lingua e di genere, la monografia latina di Giacomo da Pistoia, il testo poetico in volgare di Cavalcanti, i commenti, uno latino, l’altro volgare, al testo di Guido sono “voci” d’un unico dibattito relativo ad una precisa questione di etica aristotelica (se l’amore in quanto passione impedisca la realizzazione dell’anima razionale, cioè la felicità umana)». 56 L.C. Rossi, Una ricomposta tenzone (autentica) fra Cino da Pistoia e Bosone da Gubbio, «Italia medioevale e umanistica», 31 (1988), pp. 45-79; F. Brugnolo, Cino (e Onesto) dentro e fuori la «Commedia», in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1993, pp. 369-386. 57 F. Catenazzi, Per maestro Torregiano da Firenze, «Rivista di letteratura italiana», 6/II (1988), pp. 265-273 e soprattutto Gentili, Destini incrociati cit., pp. 167 e 182-195.
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che non tralascia d’insinuarsi, all’interno della sua Acerba, nella discussione tra Cino e Dante «a proposito della possibilità che l’alma si “trasformi” de passione in passionem»58. Del resto Cecco, che si mostra ben attento a quanto si scrive59 e su cosa di dibatte nel “suo territorio”, non risparmierà di muovere critiche esplicite a Guido Cavalcanti nella sua Acerba60, contribuendo con la propria proposta ad alimentare una discussione sulla fisiologia d’amore serpeggiante nei circoli di medici e poeti “bolognesi” durante quei primi decenni del XIV secolo. Il successo di quei testi e di quegli autori trova conferma in alcune manifestazioni grafiche dantesche e cavalcantiane, vergate in forma di traccia sui registri pubblici bolognesi61. Tra quelle è però un’immagine raffigurata sulla pagina di un Memoriale bolognese del
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Frasca, «I’ voglio qui che ’l quare covi il quia» cit., p. 250. A.M. Costantini - M.L. Camuffo, Il Fiore di virtù: una nuova fonte per l’Acerba, «Rivista di letteratura italiana», 6/II (1988), pp. 247-258: 248: «Ci riferiamo al debito contratto dall’Acerba con una compilazione didattica in volgare di rilevante diffusione nel Trecento, il Fiore di virtù, composto in area bolognese negli anni immediatamente precedenti al 1323». 60 Frasca, «I’ voglio qui che ’l quare covi il quia» cit., pp. 249-250. 61 Questo, per tema e cronologia, circoscritto corpus è rappresentato da testi latini, quali ad esempio la celebre definizione della logica offerta da Pietro Ispano nelle sue Summule logicales: «Dialectica est ars artium et scientia scientiarum ad omnium methodorum principia viam habens» - cfr. ASBo, Curia del podestà, Giudici ad maleficia, Libri inquisitionum et testium, busta 115, registro n. 1 del 1325, coperta anteriore esterna -, o in volgare, come un coagulo di liriche raddensato sulle coperte di un registro del 1301 e costituito, tra l’altro, dallo scambio poetico tra Giacomo da Lentini, Feruto sono isvarïatamente, e l’Abate di Tivoli, Qual hom riprende altr’ ispessamente; dai sonetti Sta nel piacer della mia donna Amore di Cino e Negli occhi porta la mia donna Amore di Dante, oltre che dal commiato della canzone Donna me prega (cfr. Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, edizione critica a cura di S. Orlando, con la consulenza archivistica di G. Marcon, Bologna 2005), il cui incipit è trascritto laconicamente su una coperta del 1310 - cfr. ASBo, Curia del podestà, Giudici ad maleficia, Accusationes, registro XIX del 1310, podestà Symon domini Bonifatij de Giacanis di Perugia, notaio Corradus Johannis di Tolentino, coperta anteriore esterna. Del resto l’incipit - «Qui non se canta al modo de le rane / qui non se canta al modo del poeta» -, che dà inizio al lungo elenco di episodi noti della Commedia da parte dello Stabili (IV, XIII), riprende l’affermazione già proposta nel commento alla Sfera - «Dicit de ista parte ortus et occasus signorum duobus modis .s(cilicet). q(uan)tu(m) ad poetas et q(uan)tu(n) ad astrologos»: Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., c. 19r - e, particolarmente a Dante, la nota del commento a D’amor la stella (I, I 43): «[...] existentibus illis causis, quas in libro tercio, capitulo primo ponit Hesculanus contra Dante. Et ubi ista virtus Veneris non relucet, non videtur vivere illud corpus». Per quanto riguarda la circolazione di testi di Dante a Bologna, si pensi alle attestazione di Tre donne intorno al cor mi son venute (duplice, la prima del 1310 e la seconda del 1334), di Donne ch’aviti intellecto d’amore (del 1292), di Donne, i’ non so de chi vi preghi amore (del 1310), di Così nel mio parlar (del 1315). Della Commedia domina l’Inferno, tra i cui canti campeggia il quinto. Si tratta di attestazioni estravaganti per cui cfr. Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna cit., a cui debbono essere aggiunti il
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1328, in cui è rappresentata la ferita d’Amore e la costellazione del Centauro, a dare il segno, in maniera più incisiva di ogni altro testo, delle vivaci discussioni dibattute nell’ambiente laico bolognese su cosa fosse Amore, su cosa fosse la passione amorosa e che relazione avesse con il raggiungimento della felicità mentale o con il determinismo astrologico [Fig. 1]62. Del resto le aule della Facoltà degli artisti connotavano in maniera decisa l’aspetto urbano e l’ambiente umano di quella zona della città, rendendola un centro nevralgico e pulsante del comune; luogo di “continuo” scambio e scontro tra i più vivaci d’Europa nei primi decenni del Trecento: idee e uomini raddensati in un fazzoletto di strade, coagulate intorno a pochi luoghi di riunione63, nei pressi di quelle parrocchie limitrofe sviluppatesi intorno alla chie-
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distico di endecasillabi del congedo della canzone Tre donne intorno al cor mi son venute di Dante Alighieri, vv. 106-107: «Chamerra di perdono savio omo non serra, | e soferire è bel vinciere di guerra» - cfr. A. Antonelli, Tracce poetiche dal XIII al XV secolo provenienti dall’Archivio di Stato di Bologna. Tesi di dottorato, Università degli Studi di Siena, Scuola di Dottorato europea in Filologia romanza, XVIII ciclo, relatori M.L. Meneghetti - L. Rossi - M. Brea López, Anno Accademico 2005-2006, testo n. 160, p. 244; Inf., V, vv. 16-17 (nel 1317), ibid., testo n. 109, p. 177; Inf., V, v. 103 e Inf., V, v. 100 (nel 1325), ibid., testi nn. 130-131, pp. 204-206; Inf., V, v. 103 (nel 1345), ibid., testo n. 181, p. 270. Al successo del poema paterno deve forse ricollegarsi l’attestazione in forma di traccia, risalente al 1331, dell’esordio del Dottrinale di Iacopo Alighieri, con cui presumibilmente presentava nel 1322 la Commedia a Guido da Polenta, capitano del popolo di Bologna, per cui cfr. «O voi che seti nel verace lume | Alq(u)[a](n)to aluminati nela me(n)te | ........sumo fructo delalto volume | p(er)che nostra natura sia pose(n)te | Piu .el ess(er)e el sire deloniv(er)so ||»: Antonelli, Tracce poetiche dal XIII al XV secolo cit., testo n. 141, pp. 218-220. Su Dante e Cecco cfr., oltre a Frasca, «I’ voglio qui che ’l quare covi il quia» cit. (anche per la bibliografia pregressa), G. Di Pino, L’antidantismo nell’età di Dante: l’uno e l’altro Cecco, «Italianistica», 2/II (1973), pp. 235-248. 62 Frasca, «I’ voglio qui che ’l quare covi il quia» cit., p. 249: «Per l’Ascolano dubbi non vi sono l’amore può essere vizioso, nel qual caso “poco dura” (III I 127), ovvero può essere ingenerato da una “conformità di stelle” fra gli amanti, vale a dire da un’inclinazione comune a due corpi, che finisca col rendersi “una cosa animata”, sentendo questi “pena di dolci ferute” (III I 1-4). L’amore, dunque, al meglio è un’inclinatio, un influsso astrale, sicché Cecco può liberarsi senza alcuna remora delle ciance dei poeti e affermate perentoriamente (III I 19-21)». 63 Una fonte, poco sfruttata sino ad oggi, che invece fornisce numerosi dati per definire il fondale relazionale all’interno dell’ambiente universitario bolognese, con implicazioni anche per la cultura poetica religiosa in volgare del tempo, è il fondo documentario della confraternita di Santa Maria delle Laudi, la cui sede originaria fu situata tra le parrocchie di San Barbaziano, di Santa Isaia e il convento di San Francesco, cfr. M. Fanti, Confraternite e città a Bologna nel Medioevo e nell’Età Moderna, Roma 2001. La matricola della confraternita fu redatta nel 1317. Tra i priori, massari e conservatori della «Societas Laudum Beate Virginis, que prima dominica cuiuslibet mensis congregat ad domum fratrum minorum de Bononie in domo scole dictorum fratrum» compaiono Gandulfus canonicus sancti Barbaciani, magister Bertolucius doctor gramatice (l’amico e vicino di casa di Angelo d’Arezzo) e Uguço de Banbaglolis. Tra gli iscritti alla confraternita (a partire dal 9 ottobre 1317) risultano giurisperiti e dottori di leggi, religiosi, scolari forestieri, professori della Facoltà delle Arti e diversi residen-
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sa di San Salvatore64. Di quelle vie e di quei volti ci parlano costantemente i testi stabiliani, in un fitto intreccio di riferimenti alla cultura universitaria internazionale del professore ascolano (essenzialmente quella bolognese e parigina dell’epoca) e ad un perimetro esistenziale piuttosto circoscritto. Un luogo così connotato divenne spazio scenografico nella finzione letteraria di Giovanni Boccaccio, che ambienta proprio in quelle strade l’ultima novella della prima giornata del Decameron65, narrando le vicende amorose del vec-
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ti della cappella di San Barbaziano - cfr. BABo, Archivio degli Ospedali, Arciconfraternita e Ospedale di Santa Maria delle Laudi, ms. 71, cc. 10r-18r. Tra i giurisperiti compaiono Vianesio Passipoveri doctor legum, il giudice Guido da Zappolino, Guglielmo Artuxii de Bixano iuris canonici peritus, Jacobinus de Bagni iuris peritus, Giovanni Gaspare da Sala iuris utriusque doctor, Azzo di Domenico doctor notarie e Bartolomeo di Francesco Artusini notaio - inoltre ibid., ms. 73, cc. 7r e 10r. Tra i religiosi compaiono il prete Giovanni di Capodistria di San Salvatore, don Graziolo Allerari, don Ubaldo e don Pietro, rettori della chiesa di San Lorenzo, e don Noclerius, rettore della chiesa di Santa Tecla. Tra i maestri delle arti compaiono Giacomo di Michele medico, Michele de Chofanis, Çumignanus di Modena, Veltro di maestro Francesco di Lucca medico, Restoro di Pistoia, Tommaso di maestro Bertoluccio doctor gramatice, magister Silvanus dal Friuli, Nicola di Guglielmo de Oppiçis da Lucca, Giacomo di Filippo Cristiani e suo figlio Lorenzo medici, il magister Britius Çunte de Cerveleris, il magister Gilfredus di Piacenza, il magister Guglielmo doctor physice del fu magister Bartolomeo da Varignana, magister Nicholaus del fu Rolandino, Guido quondam magistri Benvenuti de Belvisis, magister Lippo di Enrico de Laude e soprattutto Gratiolus Bambaiolis e Angelo d’Arezzo. Tra gli scolari Andrea Dei di Siena, Nicola di Giovanni da Fermo, Egidio Delli di Modena, Guido da Reggio, Pininus de Mediolano, Antonio e Giacomo de Madiis, Ludovico da Tortona e Pietro da Vercelli. Tra i residenti delle cappella di San Barbaziano e Santa Isaia compaiono Antonio di maestro Giordano, Giovanni di Pietro da Zola, Galvano Torexani, magister Nardo de’ Liuzzi, Francesco di Bartolomeo del Lago, Francesco Rolandi notaio e numerosi appartenenti alle famiglie Ghisolabelli e Bambaglioli. Il ms. 72 conserva l’inventario dei beni donati nel 1329 da alcuni benefattori iscritti all’ospedale della Società, «situm in burgo Noxadelle civitatis Bononie», di cui era prior Giovanni de Ghixilabellis; tra quelli emergono i nomi del magister Restorus doctor gramatice, della moglie di Paolo Ghisilieri (c. 5v), della madre di Gherarduccio Ghisilieri (c. 6v) e di Lixia, vedova del medico Giacomo Mantighelli. 64 A riguardo dell’ubicazione delle scuole delle Arti a Bologna si veda F. Cavazza, Le scuole dell’antico Studio bolognese, Milano 1896, pp. 119-139 (cfr. Appendice I). 65 M. Veglia, Il corvo e la sirena. Cultura e poesia del «Corbaccio», Pisa-Roma 1998 (Biblioteche di studi, ricerche e testi, 30), pp. 43-44: «Di fatto, se il Boccaccio, per difendere la cultura ‘amorosa’ del libro, evoca la figura di Alberto da Bologna, compie così facendo un’operazione ben precisa, che, ad in primo sguardo, rivela due verità: da un lato, la cultura ‘bolognese’ incarnata nel celebre medico è la stessa sopra la quale si fonda l’opera del Boccaccio (poiché, altrimenti, a nulla gli varrebbe invocarla a difesa del suo lavoro), ed è consustanziale ed affine a quella di Guido, Dante e Cino (tutti, come poi il Petrarca che li ricorderà in Lasso me, con formazione culturale o apprendistato poetico bolognese); dall’altro quella stessa cultura, per il fatto che se ne fa portavoce un medico, introduce più propriamente al versante laico e scientifico del sapere medievale. Dal primo e dal secondo concetto ne discende allora un terzo che, sebbene per via di metafora, non può dubitarsi: seguire il percorso del pensiero del Boccaccio in tema d’amore, nei fondamenti ora indicati così
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chio professore dello Studio, Alberto de’ Zancari, e della giovane Margherita Ghisilieri. Il primo proveniente da quell’ambiente che aveva tenacemente discusso che cosa fosse Amore, e la seconda giovane rampolla di una famiglia nota per avere dato alla luce un poeta, Guido Ghisilieri, e per essere stata legata da vincoli parentali con la famiglia di Guido Guinizzelli. 2. La memoria di Cecco nella cronachistica bolognese
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Bisogna, in apertura di paragrafo, tenere fermi due dati di segno opposto: il disinteresse, come si avrà modo di verificare, mostrato dalla cronachistica bolognese medievale nei confronti dell’Acerba e del suo autore, di contro alla vivace curiosità manifestata per Cecco, non da molto arso vivo a Firenze, in un fitto scambio di rime intercorso tra Matteo Mezzovillani († 1347) e il mercante veneziano Giovanni Quirini († 1333), cui fece seguito la spedizione da parte del notaio bolognese di un codice dell’Acerba66. Fatte queste premesse, non meraviglia il fatto che le fonti cronachistiche bolognesi più antiche, quelle scritte durante il Trecento, tacciano dell’ascolano; così la Cronaca scritta dai cartolai Pietro e Floriano Villola e le Antichità di Bologna redatte dal francescano Bartolomeo della Pugliola, educato a Firenze nel culto di Dante sul finire del Trecento; né aggiungono alcuna informazione le rielaborazioni che di quei testi fecero nel corso del Quattrocento il magister Pietro Ramponi e suo nipote Ludovico. Non appaiono maggiormente ispirate la cronaca bolognese di Pietro di Mattiolo, parroco della chiesa di San Tommaso del Mercato di Mezzo, e il Memoriale Historicum del notaio Matteo Griffoni, entrambe redatte a cavaliere del XIV secolo o nei primi decenni del secolo XV. Un primo cursorio appunto su Cecco è rintracciabile nella Summa hover cronica (600-1440) di Francesco Pizolpassi († 1443) all’anno 1359: «Hoc tempore Cicchus de Esculo, magnus philosophus, combustus fuit hereticus sub iudicio Raymundi de Raymundis, militis parmensis, tunc potestas Florentie»67.
medici come letterari, equivale a seguirne la cultura ‘bolognese’; o del pari e forse meglio, la cultura che aveva in Bologna, al tempo del Decameron e nell’Italia del Trecento, la sua sede e il suo simbolo». Su questi temi cfr. M. Santagata, Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna 1990, pp. 223-246: 228-229, anche per la bibliografia pregressa. 66 Giovanni Quirini, Rime. Edizione critica con commento, a cura di E.M. Duso, RomaPadova 2002, testi nn. 105-109, pp. 202-210. 67 Francesco Pizolpassi, Summa hover cronica (600 - 1440), a cura di A. Antonelli - R. Pedrini, Bologna 2001, p. 165.
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Un’annotazione che non spiega il rapporto tra l’ascolano e Bologna, né fa riferimento alla sua produzione poetica. Si tratta di un atteggiamento che colpisce il lettore della Summa, il cui autore, per primo nel panorama storiografico felsineo, utilizza il Serventese dei Lambertazzi e Geremi, «[...] et de quibus factus fuit ritimus in vulgari »68, riservando inoltre due fugaci, ma precise, annotazioni a Dante nel 1312, «His temporibus claruit Dantes Algerii, poeta florentinus»69, e a Petrarca nel 1374, «Et de mense iulii obiit dominus Franciscus Petralcha, poeta florentinus, apud Arquatum comitatus Padue»70. Sul finire del Quattrocento Girolamo Albertucci de’ Borselli (1432-97), inquisitore presso il convento di San Domenico di Bologna - dai cui archivi non tralasciò talvolta di trarre fonti inedite per la sua narrazione storiografica proprio su questioni ereticali -, annota laconicamente che Cecco fu anche poeta: «Zichus asculanus poeta et philosophus Florentie combustus est»71. Negli stessi anni nessun dato nuovo viene fornito dalla Istoria di Fileno dalla Tuata († 1521), «M. Ghuglielmo di Raimondi podestà de Bologna, e questo fe’ ardere Çecho d’Ascholi essendo podestà a Fiorenza 1327»72, mentre poco più diffusa appare l’annotazione del contemporaneo Friano Ubaldini: «Cecho d’Aschulo fu brussato del messo de setembro in Fiorenza, el qualo era ghrando astrologho et neghromanto; e questo fu ocisso per le soe bone opere e disevase che in questo tempo non se trovava el paro a lui per Strologia et Neghromanzia»73. Fugaci risultano gli inserti di alcune cronache manoscritte cinquecentesche, come quella del medico e filosofo Gaspare Tagliacozzi (1545-1599), «Nel medemo anno Ceco Escolano fu abrugiato per eretico del mese di settembre»74, e quella dell’antiquario Valerio Rinieri (1547-1613), «Cecco da Ascolo gran negromante è bruggiato in Fiorenza a dì 16 di settembre»75.
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Ibid., p. 153. Ibid., p. 158. Ibid., p. 169. Girolamo Albertucci dei Borselli, Cronica gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononie (origini - 1497), a cura di A. Sorbelli, R.I.S.2, 23/2, Città di Castello 1911-1929, p. 47. Un cenno su Cecco filosofo si trova in soglia ad un incunabolo bolognese del 1485: «Incomencia il primo libro del clarissimo filosopho Cicho Asculano dicto lacerba»: Biblioteca Universitaria di Bologna (= BUBo), esemplare siglato Aula V, B. X. 53., «impresso in la alma citade de Bologna per Henrico de Haerlem del Mcccclxxxv a dì xx de novembre». 72 Fileno dalla Tuata, Istoria di Bologna (origini - 1521), a cura di B. Fortunato, I, Bologna 2005, p. 89. 73 Friano Ubaldini, Cronica, BUBo, ms. 430I, c. 219v. 74 Gaspare Tagliacozzi, Cronaca di Bologna (404-1585), BUBo, ms. 1413, rubrica: «Morte di Ceco Asculano», c. 27v. 75 Valerio Rinieri, Diario (305-1586), BUBo, ms. 2136c, cc. 11v-12r.
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Nel corso del Seicento, dedica maggiore spazio al magistero dell’ascolano il letterato Giovanni Francesco Negri (1593-1659) nei suoi Annali bolognesi. Una prima notizia è inserita al 1324, «Maestro Ceccho d’Ascoli sotilissimo dottore di filosofia ed eccellentissimo in Medicina, lettore d’Astrologia con tanto applauso de le genti dal vedere la verità di puoi detti lo reputarono Negromante con salario di cento lire»76, una seconda, resa assai più corposa dallo sfruttamento delle fonti storiche fiorentine, al 1327: «Maestro Cecco d’Ascoli sottilissimo filosofo, espertissimo medico e tanto accreditato nell’Astrologia, che fu reputato negromante. Essendo lettore d’Astronomia nello Studio di Bologna fece e pubblicò un Libro di Commentarij sopra la Sfera del Sacrobosco, ne’ quali poneva che erano generationi di spiriti maligni che si potevano costringere per i nati sotto certe costellationi a fare cose meravigliose; ponendo ancora altre cose contro il libero arbitrio e repugnanti alli articoli della nostra fede, che dal Villani sono più distintamente spiegate; onde dal Padre Inquisitore gli fu prohibito il promulgare la sua troppo ardita Dottrina, che sugettava alle secunde cause anco le attioni di Dio e perciò tralasciando l’essercitare la sua lettura in questo Studio, dove c’era incredibile concorso di scolari veniva da tutti ammirato come huomo dotato di scienza siovra humana -, passò a Fiorenza e colà promulgando le sue false opinioni, sentendosi in luogo di franchigia per essersi appoggiato al Duca di Calabria; ne fu avvertito da Tomaso del Garbo, medico fiorentino suo emulatore nella Medicina, il vescovo d’Aversa dell’Ordine de’ Minori, canceliero del Duca, il quale, dato per consiglio al Duca che dalla sua corte escludesse un huomo che per la sua temerità riusciva di scandalo universale, lo fece pigliare e formato il suo processo fu per sentenza abbrugiato alli sedici di settembre nella sua grave età d’anni settanta; et alli trenta del medesimo mese il famosissimo filosofo e medico Dino dell’eccellentissimo Bruno Dal Garbo fiorentino, pubblico lettore nello Studio di Bologna, che fece molte belle opere di filosofia e medicina dedicate al Re Roberto, uno delli accusatori di Cecco d’Ascoli, termino i suoi giorni ***»77. Il ricorso a fonti non solo locali caratterizza gli scritti prodotti nel corso del Seicento, a partire dalla stampa dedicata ai maestri dello Studio bolognese dallo storico ed erudito Giovanni Niccolò Pasquali Alidosi: il primo a offrire un giudizio sull’Acerba: «Cecho da Ascolo 1322 lesse con gran fama, et universale applauso Astrologia fin’al 1325. fù contemporaneo di Francesco Petrarca, e sottilissimo Dottore di Filosofia, e di Medicina, et Eccellentissimo, e gravissimo Astrologo, et singolarissimo tanto, che fù tenuto dall’volgo
76 Giovanni Francesco Negri, Annali di Bologna, BABo, ms. Gozzadini 121, vol. X, c. 178v. 77 Ibid., ms. Gozzadini 122, vol. XI, foglio privo di cartulazione.
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per negromante, et heretico dalla qual macchia procura cancelarla Sebastiano Antonelli Ascolano in una particolar Apologia, che presto uscirà in luce, dove egli si sforza provare che fu Catolico, ciò cavando dalle opere d’esso Cecho, e particolarmente dalli Commentari sopra la Sfera del Sacro Bosco, dove in fine pone la protesta rimettendosi alle determinazioni di S. Chiesa. Dall’Acerba Opera divina di detto Cecho, dove si dimostrò grandissimo Astrologo, et perfetto Filosofo Chrsitiano, et inimico dell’opinione erronea di Dante circa il fato, et la fortuna, nella qual’Opera impugnò la Canzone di Mastro Guido Cavalcanti, che incomincia Domna mi prega perch’io voglia dire, et c. Si che per gl’odii del’Aldigheri, e Cavalca(n)ti, et invidia di M. Tomaso del Garbo Medico Fiorentino suo concorrente nel Studio di Bologna, che molta autorità havevano nella Republica Fiorentina fù fatto morire in Firenze, come attestano Antonio Buonfine nell’Historie d’Ongheria, et Paolo Giovio nell’Elogio di Roberto Rè di Napoli, quali dicono che fu fatto morire ingiustamente, scrisse con libertà consueta de’ Scrittori de’ suoi tempi l’Accerba, li Commentari sopra il Sacro Bosco, et un’Opera rara intitolata il modo di conoscere quali infirmità siano mortali, ò nò per via delle Stelle, scrisse un sottilissimo Commentario sopra la Logica, che si vede nella Libraria del Sereniss. Sig. Duca d’Urbino citato dal Mirandola, contra Astrologorum, etc. et l’Ereiba. Morì d’età di settant’anni»78. Sullo scorcio del XVI secolo, a cominciare dalla Historia dell’agostiniano bolognese Cherubino Ghirardacci (1518/19-1598), si comincia a fare ricorso alle fonti d’archivio per ricomporre la biografia dell’ascolano, «Dottori che pubblicamente leggevano in Bologna, Lib. Provis. V. fol. 113», grazie all’impiego di una delle poche testimonianze ancora oggi affidabili, in grado di documentare la presenza in città dello Stabili: «Leggevano quest’anno pubblicamente nello studio di Bologna, Guido da Foligno, Dottore Decretale alla lettura straordinaria de’ Decreti col salario di cinquanta lire, Rainiero da Forlì Dottore di Legge alla lettura del Digesto nuovo, col salario di cento lire, Pietro de’ Cerniti Dottore di Legge alla lettura del Volume, col salario di cento lire. Frate Uberto da Cesena Dottore Decretale alla lettura ordinaria dei Decreti col salario di trecento lire. Maestro Cecco da Ascoli leggeva Astrologia col salario di cento lire. Mastro Angelo d’Arezzo leggeva Filosofia col salario di cento lire. Mastro Mondino Dottore di Medicina leggeva in pratica
78 Giovanni Nicolò Pasquali Alidosi, Li Dottori forestieri che in Bologna hanno letto Teologia, Filosofia, Medicina e Arti Liberali, Bologna, Tebaldini, 1623, p. 16. La notizia fu ripresa nel secolo successivo dall’ecclesiastico ed erudito bolognese Antonio Francesco Ghiselli (1634-1730) nelle sue Memorie antiche manoscritte di Bologna, BUBo, ms. 770, vol. II (1284-1340), all’anno 1322, ff. 410-411.
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col salario di cento lire. Mastro Francesco Dottore delle Arti leggeva i libri piccoli della Filosofia naturale, de Caelo, e la Meteora col salario di cento lire. E Maestro Vitale Dottore in Grammatica leggeva Tullio, e le Metamorfosi»79.
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A conclusione del presente paragrafo si ritiene opportuno riportare un resoconto adespoto, steso da una mano del XVIII-XIX secolo, forse di un bibliotecario o di un bibliofilo, sulla carta di guardia che apre un manoscritto bolognese del XV secolo contenete l’Acerba: «L’Accerbactus di Cecco, nativo d’Ascoli nella Marca Anconitana. Fu Cecco più astrologo, che Poeta, e nacque nel secolo XIII; compose un Trattato della Sfera nel quale sparse molte cose contrarie alla religione; per esempio vi s’insegnava che si generavano nel Cielo alcuni maligni spiriti che potevano fare sotto certe costellazioni cose sorprendenti, che Cristo venuto in terra era nato sotto una di queste costellazioni che l’avea reso povero necessariamente e che l’Anticristo verrebbe al mondo sotto una costellazione che lo rendesse richissimo e potente. Per queste stravaganze il povero Cecco fu fatto religiosamente abbrucciare in Bologna dal Tribunale dell’Inquisizione l’anno 1327»80. 3. Tracce e disegni da manoscritti e incunaboli bolognesi
Quest’ultimo breve paragrafo è dedicato a quegli scartafacci estratti dai fondi archivistici e librai bolognesi da cui sono emersi nel corso degli anni tracce, frammenti e testimoni in grado di certificare la diffusione dell’Acerba e del cosiddetto sonetto della Pietra filosofale a Bologna. La nuova attestazione del sonetto della Pietra filosofale è reperibile in un manoscritto miscellaneo di argomento alchemico, scientifico, magico e astrologico contenente un manipolo quanto mai eterogeneo di testi latini e volgari, esemplati tanto in prosa quanto in rima sul finire del XV secolo81. Il sonetto, che è preceduto e anticipa testi in rima, risulta esemplato sulla seconda colonna del recto di carta 14, di seguito al sonetto Solvete i corpi, che una rubrica attribuisce a frate Elia, e alla canzone El me delecta de dire brevemente del maestro di grammatica Daniele di Capodistria. Le tre rime sono associata anche in un incunabolo contente la Summa perfectionis Geberi, da cui 79 80 81
Cherubino Ghirardacci, Historia di Bologna, Bologna, Giacomo Monti, 1657. Acerba, BUBo, ms. 448 (sec. XV). ASBo, Demaniale, Santi Leonardo e Orsola, busta 82/3324, fasc. E, «Memorie attinenti a secreti per fare l’alchimia et altre cose trovate fra le scritture dell’eredità Mengozzi», tra l’altro il codice contiene la Summa perfectionis Geberi.
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trasse il testo Oddone Zenatti82. Allo Zenatti spetta anche il merito di avere pubblicato un secondo testimone del sonetto, traendolo dal codice Riccardiano 946, confezionato, secondo lo studioso, a Quattrocento «piuttosto avanzato»83. Un terzo testimone del sonetto, tratto dal codice Magliabechiano II-III 308, fu mandato alle stampe da Mario Mazzoni84, mentre di recente Marco Albertazzi ha stampato il sonetto trascrivendolo dal ms. Magliabechiano 3, XVI85. Il testimone bolognese esibisce rime incrociate nell’ottetto e rime alternate nel sestetto, con un verso latino in coda [Fig. 2]:
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Chi solver no(n) sa né soctigliare, corpo no(n) toche né mercurio vivo, perché no(n) può el fixo e ’l volativo tenendo a chi no(n) sa de’ dui l’un fare.
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Ma fallo insieme poi strecto abraciare con l’aqua viva e sal dissolutivo, sin tal guixa ch(e) tu lo faci privo della sua mama che lo fa celare. Alhor vedrai fugir la nocte oscura e retornar el sol lucento e bello con molti fiori ornati in sua figura.
Questa è la pietra, questo, dico, è quello dove i philosofi e l’antiqua scritura in su l’incudine batte col martello. Hoc qui ignorat o(mn)ia mescit.
Nel manoscritto bolognese l’esemplare è preceduto dalla rubrica «Cecho d(e) Ascoli». Sempre in materia di rubriche, una seconda, in maniera certo meno precisa rispetto a quella apposta nel manoscritto alchemico, attribuisce a Dante invece che a Cecco d’Ascoli un luogo celebre della sua
82 O. Zenatti, Una canzone capodistriana del secolo XIV sulla pietra filosofale, «Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino», 4 (1890), pp. 81-117: 95. 83 O. Zenatti, Nuove rime d’alchimisti, «Il Propugnatore», 4/I (1891), pp. 387-414: 394. 84 M. Mazzoni, Sonetti alchemici-ermetici di Frate Elia e Cecco d’Ascoli, San Gimignano (Siena) s.d., pp. 13-14. 85 Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), L’Acerba (Acerba etas), a cura di M. Albertazzi, Lavis (TN) 2002.
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Acerba. Si tratta di una traccia poetica esemplata in un foglio pergamenaceo al termine degli Statuti di Dozza86 (castello posto tra Bologna e Imola), quale parte integrante di un coagulo testuale denso e compatto incentrato su argomenti moralistici e didattici rappresentati nel verso di carta 46 tanto da testi latini, che le rubriche attribuiscono a Salomone, Valerio Massimo e Seneca, quanto da versi in volgare; adespoti, quelli attribuibili a Fazio degli Uberti, o assegnati erroneamente a Dante Alighieri, quelli scritti da Cecco. La serie segue una tassonomia consueta in codici trecenteschi, dal momento che asseconda un gusto letterario alimentato spesso da affastellamenti testuali coinvolgenti Cecco, Dante e Fazio87. I versi adespoti fanno parte di una fortunata corona di sonetti dedicata ai sette vizi capitali da Fazio degli Uberti88, mentre i versi “danteschi” risultati stabiliani sono estratti dall’Acerba (II, VII 1174-6)89 [Fig. 3]: Ira son io sanza rasgion o regola, subita, furibonda e con discordia; pace, amore né misericordia trovar non pò chi con meco se ’mpegola. Tutta me squarcio com’i’ fossi stregola; minacce e grida son le mi’ esordia; dov’io albergo non trova concordia padre con figlio, quando son in fregola.
Ira so sença rasone oregola | subita foribonda cu(m) disco(r)dia | Pace amor ne miserico(r)dia | Nom po trovare qual mego senpegola | Tutta me squarco (et) vivo chomo sregola | Menaçe (et) cridi so(n)no le mie esordij | Nel mio albergo no(n) trovo (con)cordie | Padre am(en) ||
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Non vidi homo virtuoso may p(er)ir. | Non vidi virtuoso mai perire, Ma bene repulso da contraria branca. | ma, ben ripulso da contraria branca, Epur om(n)e virtude conviene salir. || Ov’è virtute pur convien salire. Danti deglaldigheri da Fiorencj
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86 ASBo, Archivi Privati, Archivio della famiglia Malvezzi-Campeggi, busta 97/757, Statuti di Dozza, c. 46v, quadrante superiore di destra della pergamena. 87 C. Ciociola, Nuove accessioni acerbiane: cartoni per la storia della tradizione, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei - Rendiconti», Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», ser. VIII, 33 (1978), pp. 491-508: 492-499. 88 Fazio degli Uberti, Il Dittamondo e le rime, a cura di G. Corsi, voll. 2, II, Bari 1952, p. 50. Si tratta dell’ottetto del sonetto sull’Ira, vv. 1-8. Fazio degli Uberti dovette nascere, forse a Pisa, intorno al primo decennio del Trecento da un’aristocratica famiglia fiorentina bandita nel 1267. Fu a Verona presso la corte di Mastino II della Scala nel 1336, a Genova per conto di Luchino Visconti nel 1346. Tra il 1358 e il 1359 si trovava a Bologna al seguito di Giovanni Visconti d’Oleggio. Morì a Verona dopo il 1367. 89 Francesco Stabili, L’Acerba, a cura di A. Crespi, Ascoli Piceno 1927, libro II, capitolo VII: Della Prudenza, vv. 1174-1176, p. 198.
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Probabilmente è da ricondurre a questo gusto gnomico trecentesco una ben più sostanziosa porzione di testo restituita da un pergamena originariamente parte integrante di un registro confezionato nel 1408 da Bartolomeo quondam magistri Ugolini de Tamaraciis. La coperta fu vergata dal notaio bolognese in qualità di ufficiale del vicariato di San Lorenzo in Collina, località situata nel comitato del comune di Bologna. La pergamena in origine era conservata nell’archivio storico del comune di Bazzano, secondo quanto si può ricavare dalle indicazioni, su cui non vi è motivo di dubitare, fornite da Tommaso Casini. Attualmente invece il manufatto è reperibile tra le carte di Tommaso Casini, come indicato correttamente da Claudio Ciociola90, oggi conservate presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna91. Del testo, pubblicato da Giosue Carducci nel 187692, fornisco qui di seguito una nuova trascrizione diplomatica riservando all’apparato le letture divergenti rispetto all’edizione Carducci. Le letture inesatte furono determinate probabilmente da una trascrizione fornita all’editore da Tommaso Casini. Carducci giunge in numerosi luoghi a ristabilire la lezione corretta del manoscritto o per via indiziaria o attraverso un lavoro di col-
90 C. Ciociola, Rassegna stabiliana (postille agli atti del convegno del 1969), «Lettere italiane», 30 (1978), pp. 97-123: 98. 91 BABo, Carte di Tommaso Casini, Cartone XVIII, fasc. 2, «Su di una canzone inedita del sec. XV», estratta dall’archivio comunale di Bazzano, pergamena rifilata, in origine a protezione di un registro amministrativo, delle dimensioni di mm. 305 x 195. Il testo è vergato con scriptio continua (fatta eccezione per l’ultimo verso, disposto al centro del foglio in posizione isolata), è disposto su undici righe. L’estensore impiega un punto (eccezionalmente impiega altro segno diacritico) per distinguere i versi sul rigo, ciascuno dei quali introdotto da lettera il cui modulo risulta maggiore (compreso tra i cinque e i dieci millimetri) rispetto a quello normalmente impiegato (compreso tra i due e i cinque millimetri), eccezionale il modulo della lettera incipitaria di mm. 20 x 12. Il testo è costituito di 32 versi corrispondenti alle ultime sei sestine, compreso il distico finale a rime baciate, del capitolo dedicato da Cecco alla Superbia (II, XIV 1605-1636). Il testo è vergato nella parte inferiore del foglio di cui occupa l’interno spazio a disposizione, così che lo specchio di scrittura risulta di mm. 195 x 75. All’interno della camicia sono conservati disegni e una nota che riferisce i tempi e i modi della scoperta da parte del Casini: «Nel settembre dello scorso anno 1873 facendo io ricerche per miei studi e per | compilazione delle mie - Memorie Storiche Bazzanesi - nell’Archivio Comu|nale di Bazzano, tanto dovizioso d’antichi documenti quanto purtroppo | sconosciuto agli amatori ed agli studiosi di cose patrie, scovai in uno dei | Libri - Memoriali degli Atti del Vicario di San Lorenzo in Collina | trascritta la <seguente> canzone che qui riporto [...]». 92 G. Carducci, Intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV ritrovate nei Memoriali dell’Archivio Notarile di Bologna, «Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna», ser. II, 2 (1876), ora ristampato in Edizione Nazionale delle Opere di Giosue Carducci, VIII: Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Bologna 1943, testo n. 49, pp. 171-343: 337-340.
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lazione con altri manoscritti. Tali lezioni corrispondono di frequente a quelle tradite dall’esemplare bolognese [Fig. 4]:
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1 Superbia none altro chauolere. Sopra di tucti essertenuto. E quel che luom none uolsi tenere. | 2 Intrando i(n)nançi aciascum omo bono. E pare a lui chomgno sia deschaduto. Tie(m) p(er) nigota chi di gracia dono. | i 3 E diferenc a dagloria uana. Che questo dentro ten lacerba lorma. Sopra de tucti tinsi lafontana. Ma quisti che tien | 4 luna son gloriusi. Voglion di laude manifesta torma. Mostrando forte son i(n)uidiusi. Ese(r)re i(n)grado da sup(er)bia | 5 uene:·Per questo se struge pietate:·Che nonamente loppassato bene. Luo(m) cavirtuto fe nelcuor tiponj. | a 6 Chome sespoglia de su libertade. Tenendo amente li pasatj donj. O quanto maluaxce dalomo ingrato. | 7 Che guasta p(er)altruj lom che liberale. Che fa per desdegno cadere i(n) peccato.’ Queste lapena conlo sa(n)guigno dolo | 8 Quando nel bene riçeue lom male. Edolce padre parte dal figliolo. Malaltrui male iltuo ben no(n) guasta | 9 El vicio delatoa virtu disp(er)gha. Quando tu senti le superbe taste. Che combate(n)do luomo aquista honore. | 10 O quante degno chelsup(er)bo mergha. O se(n)nza pena di nouo dolore. Che luom sup(er)bo siguasta lete(r)re. | 11 Per luj viem p..h. conaccese gue(r)re. |
2] i(n)nançi : inanci; ciascum : alcuni, nota 4 p. 228; chomgno : domigno, nota 5 p. 338; deschaduto : descaduto; Tie(m) : Tien; nigota : nigocii, nota 6 p. 338. 3] questo : questa, Carducci non accoglie la giusta trascrizione del Casini; ten : con, nota 8 p. 338; lorma : forma; tinsi : tiensi. 4] Ese(r)re : Essere; i(n)grado : ingrato. 5] loppassato : lo passato; Luo(m) : lettura incerta, Carducci propone : Un, Casini : Uno; cavirtuto : ch’à virtute; fe : lettura incerta : se. a 6] Chome : come; de su : della; pasatj donj : li parlar boni, nota 18 p. 339; maluaxce : mal nasce. 7] p(er)altruj : per l’altrui, nota 20 p. 339; lom che liberale : che omesso da Carducci; fa : far, nota 21 p. 339; desdegno : disegno, nota 21 p. 339. 8] riçeve : riceve; Edolce padre parte : lettura complicata da un guasto meccanico, macchia d’inchiostro, e resa possibile dall’impiego della lampada di Wood : Casini legge : Male ne.......parte, Carducci : Male ne... per parte. 9] disp(er)gha : disperga; combate(n)do : combattendo. 10] quante : quanto, nota 29 p. 339; se(n)nza : sanza, nota 30 p. 339; dolore : colore, nota 30 p. 339. 11] viem : vien; p..h. : piaghe, guasto meccanico del ms., lacerazione della pergamena che impedisce la trascrizione dell’unità di scrittura, ancora leggibile ai tempi di Casini-Carducci.
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Il testo, che costituisce la parte finale del capitolo X del libro II dell’Acerba, affronta in maniera compiuta il tema del peccato di superbia. I versi forse circolarono autonomamente93, in maniera analoga a quanto accadde per alcuni canti ed episodi della Commedia dantesca94; certo proprio il distico iniziale fu rifunzionalizzato in un testo adespoto francescano in rima del 1492. Il capitolo ternario, reperibile nel Tesauro spirituale del 1494, introdotto da una rubrica rubra, «Questi sono li septi peccati capitali», principia con i primi due versi della traccia bolognese: «Superbia non he altro cha volere | sopra tutti li altri esser tenuto»95. Ben più cospicua è la porzione di testo tramandata da un frammento di codice, ancor trecentesco a dire del suo editore, “staccato” da uno dei protocolli cartacei cui forniva protezione. Il registro fu confezionato dal notaio Tommaso Guglielmi di Bargi (frazione del comune di Camugnano). La coperta, attualmente non rintracciabile a differenza del protocollo che rivestiva96, fu pubblicata nel 1920 da Attilio Antonielli97. Ora a conclusione di questo intervento bisogna rilevare alcune particolari “lezioni comuni” presenti in stampe e manoscritti bolognesi contenenti l’Acerba. Cecco nel commento alla Sfera del Sacrobosco fa riferimento esplicito a immagini che hanno il compito di illustrare le asserzioni argomentative espresse durante le lezioni: «prout patet in sequenti figura [...]», e ancora: «Hiis vero dictis respice figuram [...]»98. Nel medesimo trattato si nota a c. 2v la figura della Sfera, che è la medesima, eccezion fatta per alcune varianti di poco valore, impiegata nell’edizione dell’Acerba stampata per Iohanne Baptista Sessa a Venezia nel 1501, di cui si conserva un esemplare presso la Biblioteca Universitaria di Bologna [Fig. 5]. Tale edizione correda il poe-
93 L’esordio compare tra gli incipit di L. Frati, Giunte agli inizi di antiche poesie italiane religiose e morali, a cura di A. Tenneroni, «Archivum Romanicum», 1 (1917), pp. 441480; 2 (1928), pp. 185-207 e 325-343; 3 (1919), pp. 62-94: 79. 94 E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano 2001. 95 Tesauro spirituale, Milano, Ulderico Scinzenzeler, 1494, riedizione dell’edizione milanese del 16 marzo 1492. Tesoro spirituale cavato nel Giardino delli Frati minori, con l’explicit: «Questa opera devotissima si he appellata thesuaro spirituale nel quale se contengono piu de cento devotione, per che da poi che he impressa la tabula molto cosse sono adiuncte, el quale thesuaro he cavato nel zardino de li frati minori. impressa in Milano in casa de Magistro Ulderico scinzenzeler nel anno del signore Mcccclxxxxiiij a dì iij del mese de decembre», esemplare siglato BUBo, A.V. B. IX. 61., c. 272v. 96 ASBo, Archivio Notarile, 6/9, Tommaso Guglielmi, protocollo 1 (1597-1601). 97 A. Antonielli, Frammento di un codice dell’«Acerba» nell’Archivio Notarile di Bologna, «L’Archiginnasio», 15 (1920), pp. 89-103. 98 Cichi Esculani viri clarissimi in sphaeram mundi ennaratio cit., cc. 4r e 6v.
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ma didascalico di un commento e di numerose immagini99, alcune delle quali presentano caratteristiche comuni a quelle impiegate nel codice 3658 (la cui filigrana a forma di basilisco è attestata in carte ferraresi tra il 1392 e il 1413) e nel codice 2346, entrambi contenenti l’Acerba di Cecco d’Ascoli e conservati nel fondo manoscritti della Biblioteca Universitaria di Bologna, come si può verificare dall’osservazione, avrebbe scritto Cecco, delle figure allegate [Figg. 6-11].
99 Su cui cfr. C. Ciociola, L’autogenesi di Cecco d’Ascoli, in L’autocommento. Atti del XVIII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 1990), a cura di G. Peron, Padova 1994, pp. 31-41.
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Appendice I I luoghi bolognesi di Cecco d’Ascoli
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Disposizione delle chiese che danno il nome alle cappelle o parrocchie della città nella zona delle scuole della Facoltà delle Arti dello Studio di Bologna: 1. Santa Margherita 2. San Barbaziano 3. San Martino dei Caccianemici 4. San Salvatore 5. San Antolino (Antonino) di Porta Nuova 6. San Francesco (in direzione) 7. Santa Isaia (in direzione)
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Appendice II Gli uomini iscritti nelle matricole dell’esercito bolognese del 1328 residenti nella cappella di San Barbaziano1
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1 d. Franciscus quondam Guilielmi piscator. 2 d. Johannie quondam Johannis aurifes. 3 d. Segnore quondam Ugolini de Tubertinis. 4 d. Ugulinus eius filius. 5 d. Laurencius quondam Erici mondator. 6 d. Graciolus quondam Buvalelli calçolarius. 7 d. Magister Ugo quondam Federici murator. 8 d. Petrus fornarius. 9 d. Bitinus quondam Benvenuti calçolarius. 10 d. Bertolinus quondam Martini de Pulis. 11 d. Franciscus quondam Alberti de Romancis. 12 d. Laurencius eius filius. 13 d. Jacobus quondam Yvani. 14 d. Nasinbene Bertholini de Orelis. 15 d. Johannis quondam Nasinbenis. 16 d. Laurencius quondam Bitini barberius. 17 d. Martinus quondam Bologniti calçolarius. 18 d. Matheus quondam Petroboni de Balistis. 19 d. Bençevenne quondam Micaelis piliçarius. 20 d. Jacobus quondam Ducii brentator. 21 d. Coradus de Allamania de Stupa. 22 d. Franciscus quondam Bonacursii. 23 d. Jacobus quondam Petri de Varis. 24 d. Ricius becarius. 25 d. Nardus de Leucis. 26 d. Franciscus quondam Bertholomei Pedriti. 27 d. Bertolomeus eius filius. 28 d. Johannes eius frater e filius dicti Francisci. 29 d. Bertholomeus de Guisilieriis. 30 Petrus quondam Buvalelli calçolarius.
1 ASBo, Capitano del Popolo, Venticinquine, busta 7, Quartiere di Porta Procola, Cappella di San Barbaziano, 1328.
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31 d. Jacobus quondam Benvenuti sartor. 32 Stefanus quondam Bertholomei de Lago. 33 d. Bencevene quondam Rolandi. 34 d. Bertholucius quondam fratris Alberti de Belvixiis. 35 d. Johannes quondam Pasavamtis. 36 d. Fredus quondam Ubaldi de Luca. 37 d. Thomaxinus qd. Vincencii de Gonberutiis. 38 d. Galiotus quondam Torexani. 39 d. Stefanus quondam Alberti lardarolus. 40 d. Guasparinus eius fillius. 41 d. Miratus quondam Baronis. 42 d. Landus quondam Selorsii. 43 d. Matheus Jacobi portator. 44 d. Jacobus de Cremona. 45 d. Johannis quondam Benvenuti sartor. 46 d. Gerardus quondam Pasqualis. 47 d. Bitucius quondam Aรงolini Mathaรงolini. 48 d. Petrus d. Simi faber. 49 d. Montanarius quondam Bertolomei Gentille. 50 d. Cleregninus quondam Gerardi Olie. 51 d. Petrus quondam Jacobini Butrigarius. 52 d. Jacobus quondam Petriรงoli Belendini. 53 Yillarius quondam Guibertini Tasimani. 54 d. Tura quondam magistri Jordani. 55 d. Franciscus quondam Bertholomei de Lago. 56 d. Petrus quondam Dini peliparius. 57 d. Dondus quondam Johannis fornarius. 58 d. Matiolus quondam Dignitatis. 59 d. Domdideus quondam Johannis fornarius. 60 d. Franciscus quondam Gandulfi de Argele. 61 d. Jacobus eius fillius. 62 d. Franciscus d. Jacobi de Baldoinis. 63 d. Tomaxinus cui dicitur Calcagnus sartor. 64 d. Baldoinus d. Baldoini de Baldoinis. 65 d. Paulus quondam Ravignani de Baldoinis. 66 d. Johannis quondam Pauli de Gusbertis. 67 Baldoinus quondam d. Philipi de Baldoinis. 68 d. Soldanus eius fillius. 69 d. Johannes quondam Franchi. 70 d. Guilielmus quondam Francisi de Canutis. 71 d. Matiolus quondam domini Bonacapti. 72 d. Jacobus eius fillius. 73 d. Franciscus qd Bertolomej de Bonacaptis.
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Se devo a qualcosa, oltre che alla squisita gentilezza degli organizzatori, l’invito ad intervenire ad una tavola rotonda su Intellettuali e potere nel Trecento, penso che sia perché mi occupo ormai da anni di una delle valenze del rapporto cui fa riferimento la congiunzione contenuta nel titolo: la produzione di tentativi di interpretazione del potere, o, per usare una terminologia più immediatamente comprensibile, il pensiero politico medievale. L’ho continuato a fare, nonostante la difficoltà di seguire certi filoni di ricerca, che spesso sono considerati marginali rispetto alla medievistica “autentica”, perché si tratta del campo in cui sono stato iniziato agli studi da Carlo Dolcini e nel quale mi pare, ancora oggi, di riuscire meno peggio. Il rimprovero, più o meno velato, di occuparsi di dimensioni “astratte”, “accademiche”, in una parola lontane dalla concretezza della storia, è stato per me un fedele compagno di viaggio, al quale alla fine mi sono abituato, un po’ perché ho tentato di comprenderne le ragioni, un po’ perché, come spostandosi in treno, alcuni rumori di fondo diventano familiari, e non disturbano più. Al di là, tuttavia, della dimensione soggettiva, è doveroso riconoscere che, pur rimanendo in pochi coloro che si occupano con costanza (e non solo in occasione di qualche Festschrift, dove pare non guastare la dimensione del divertissement intellettuale) di questi temi1, qualcosa è lentamente mutato. Un ruolo importante, in questo mutamento, è stato svolto da quello che è stato chiamato, in ambito anglosassone, il linguistic turn. Se il riprendere quell’espressione non può che richiamare alla memoria nomi quali Pocock e Pagden2, non va dimenticato che in particolare in Italia questa 1 2
Cfr. C. Dolcini, Presentazione, «Pensiero Politico Medievale», 1 (2003), p. 13. Si vedano, per esempio, i lavori raccolti in The Languages of Political Theory in Earlymodern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge-New York-Melbourne 1987. A dimostrare il carattere ancora in fieri di questa ridefinizione metodologica, si pensi che la collana in cui il testo è pubblicato si chiama significativamente Ideas in context. Intensa applicazione alla
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svolta è stata proposta con aperto richiamo ai grandi autori dello strutturalismo e, sulla loro scia, a Michel Foucault. Modi diversi di essere attenti alla dimensione “linguistica” (non a caso là si parla di “linguaggi”, qui di “discorsi”) ma che denunciano anche matrici comuni, se si pone mente al fatto che, in epigrafe a Iurisdictio, Pietro Costa poneva, nel 1969, una citazione del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche3. Con questo non si vuole dire che nella medievistica italiana la eco di certe proposte metodologiche sia stata immediata o particolarmente forte; le riflessioni sul silenzio “pressoché totale” che seguì l’uscita di Iurisdictio, suscitate in occasione della riedizione anastatica della monografia, a più di trent’anni, testimoniano piuttosto il contrario4. L’influenza è stata per così dire carsica, portando frutti più significativi in autori che - pur lucidissimi quanto al metodo d’indagine adottato - non amano i proclami e le enunciazioni di principio, preferendo di gran lunga “mostrare facendo”. Tra le poche eccezioni, credo, l’opera di Giacomo Todeschini, la cui indagine sull’etica-economica medievale, fortemente intessuta di attenzione alla filosofia continentale, in particolare francese, vuole programmaticamente essere studio di lessici e vocabolari5. Ora, tuttavia, che la voga, nelle sue varianti strutturaliste o analitiche, si è attenuata, diventa meno disagevole cogliere
storia del pensiero politico medievale da parte di A. Black, Political Languages in Later Medieval Europe, in The Church and Sovereignty c. 590-1918. Essays in Honour of Michael Wilks, a cura di D. Wood, London-New York 1991, pp. 313-328, ed anche nella sua opera di alta divulgazione: A. Black, Political Thought in Europe 1250-1450, Cambridge et alibi 1992, in particolare pp. 7-10. Per una attenta ricezione in Italia, cfr. D. Quaglioni, Il tardo medioevo: confusione o pluralità di linguaggi politici?, «Il pensiero politico», 26 (1993), pp. 79-84. Il concetto di “linguaggio politico” non svolge tuttavia un ruolo da protagonista un decennio dopo in una densa sintesi di D. Quaglioni, Sovranità, Roma 2004. 3 P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nelle pubblicistica medievale (11001433), Milano 1969, Milano 2002 (ristampa anastatica). Ma si veda anche A. Pagden, Introduction, in The Languages of Political Theory cit., p. 1, dove la caratteristica dell’approccio è individuata nell’«Interdependence of the propositional content of an argument and the language, the discourse, in which it is made». 4 Si veda il puntuale intervento di C. Dolcini, “Un silenzio pressoché totale”. Per la ristampa di Iurisdictio di Pietro Costa, «Pensiero Politico Medievale», 1 (2003), pp. 151-157. 5 A mio modesto giudizio uno dei più notevoli prodotti di questa linea resta G. Todeschini, Il prezzo della salvezza, Lessici medievali del pensiero economico, Roma 1994, ma come non ricordare G. Todeschini, I mercanti nel tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età moderna, Bologna 2002; G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004. Importante poi, per la ricezione di Todeschini, il volume Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), a cura di D. Quaglioni - G. Todeschini - G.M. Varanini, Roma 2005. Per il pensiero politico, cfr. P. Evangelisti, I francescani e la costruzione di uno stato, Padova 2006.
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con maggiore distinzione qualche elemento. Nonostante alcune resistenze (si pensi alla non proprio felice scelta della Utet di sottotitolare l’opera in più volumi dedicata al pensiero politico: idee, teorie, dottrine6), parlare di linguaggi politici non si colora ormai più di esotismo, e l’espressione è divenuta talmente accettata da poter figurare come titolo di un numero di «Quaderni storici» curato qualche anno fa da Enrico Artifoni e Maria Luisa Pesante7. Ci si può chiedere se vi sia stato un guadagno: certo, quando l’adozione di questo concetto è poco più che un segno di adattamento a quello che pare essere l’ultimo grido storiografico, emerge abbastanza facilmente che “linguaggio” non è che una formula - apparentemente più aggiornata - per designare ciò di cui si è sempre parlato, allora “aristotelismo”, “concezione aristotelica”, “linguaggio aristotelico” rimangono equivalenti. Prendiamo ad esempio il libro di Maurizio Viroli, Dalla politica alla ragion di stato, dove il passaggio cui allude il titolo è descritto come un passaggio tra due linguaggi, ma ci si chiede cosa sarebbe cambiato se, invece di linguaggi, si fosse parlato di “idee” o di “paradigmi”8. Quello che conta si colloca, probabilmente, ad un livello più profondo. Non si tratta più solo di riconoscere, credo, che linguaggio è una potente metafora, che ci consente, per fare un esempio pertinente al Trecento, di descrivere adeguatamente la circostanza per la quale l’influsso delle opere della filosofia pratica di Aristotele (Etica e Politica, affiancate in parte dalla Retorica e dagli Oeconomica pseudo-aristotelici) non è tanto riconoscibile in una teoria specifica, quanto piuttosto in un apparato terminologico ed argomentativo all’interno del quale è stato possibile formulare più teorie, anche contrapposte tra di loro quanto agli esiti teorici ed all’orientamento verso la prassi9. Come si è espresso Ulrich Meier, gli scritti aristotelici sono equiparabili ad una cava, dalla quale sono estraibili materiali utilizzabili a diversi fini, senza togliere che questi materiali escano già in parte elaborati, leviga-
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Il pensiero politico. Idee, teorie dottrine, a cura di A. Andreatta - A.E. Baldini - C. Dolcini - G. Pasquino, Torino 1999, voll. 4. Alla fin fine, meglio l’editio minor del primo volume: Il pensiero politico dell’età antica e medioevale, a cura di C. Dolcini, Torino 2000. 7 «Quaderni storici», 102 (1999). Non mette conto qui elencare i numerosi e fondamentali contributi di Enrico Artifoni dedicati alla cultura delle élites comunali ed alle valenze pragmatiche dei linguaggi da loro utilizzati. 8 M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma 1994. Mi è parso più conseguente in questo senso un altro autore italiano che non ha ancora toccato tematiche medievali: Marco Geuna. 9 A questo proposito mi permetto di rimandare al mio lavoro La diffusione della “Politica” e la definizione di un linguaggio politico aristotelico, «Quaderni storici», 34 (1999), pp. 677-704.
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ti in un certo modo, cosicché restringono l’ambito della possibilità del loro utilizzo10. In altre parole, nel linguaggio si ravvisano già criteri selettivi di rappresentazione, ma ad un livello ancora meno definito di quanto accada in una specifica teoria politica. Oltre a questa presa di coscienza, utilizzare il concetto di linguaggio ha contribuito, proprio per la caratteristica oggettiva, o se si vuole intersoggettiva, dei fenomeni linguistici, a mettere in discussione la concezione della teoria come produzione individuale e soggettiva di grandi spiriti che colloquiano tra di loro nel mondo delle idee che spiegano la realtà. Senza necessariamente adeguarsi alle derive anti-soggettiviste di certo pensiero continentale, che proclama la morte del soggetto e la dimostra contestualmente in forza di un metodo che lo esclude a priori (e di conseguenza non può ritrovarlo11), gli studiosi del pensiero politico medievale hanno imparato progressivamente a guardare alle opere oggetto del loro studio come prodotti, non come concretizzazioni di grandi idee, l’“agostinismo”, l’“aristotelismo”, ma come interventi specifici, necessariamente definiti in un contesto ed in un linguaggio già dato, che si è formato storicamente e che gli autori non possono che usare, pena l’incomprensibilità della loro opera. Il muoversi liberamente in un cielo di idee, fin troppo facilmente tacciabile di astrattezza, è stato sostituito progressivamente, nella ricostruzione della attività di composizione di opere di teoria politica, dall’immagine di un complesso e talvolta faticoso muoversi all’interno di vocabolari, di nessi semantici, di tradizioni argomentative. Per quanto ciò risulti meno giustificabile, tuttavia, anche un linguaggio, così come le idee che esprime, può essere tacciato di astrattezza, di “lontananza dalla realtà”. È meglio lasciare da parte – in questa occasione – una discussione sulla teoria (più o meno implicita) della storiografia di coloro che sanno così facilmente individuare la maggiore o minore distanza dalla “realtà” in cui sarebbero situati i frammenti del passato ancora a noi accessibili. È senza dubbio più costruttivo indicare percorsi che paiono consentire di superare l’impressione di separatezza. Un filone è senza dubbio costituito dagli studi che si interrogano sull’utilizzo della teoria politica, tentando di mostrare non solo il “contesto delle idee”, ma le precise condizioni di produzione e di riproduzione dei testi dai quali l’analisi specialistica distilla le “idee politiche”. Un esempio per tutti può essere
10 U. Meier, Mensch und Bürger. Die Stadt im Denken spätmittelalterlicher Theologen, Philosophen und Juristen, München 1994, pp. 106-107. 11 Cfr. Pagden, Introduction cit., p. 3 ss.
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costituito dagli studi di Jürgen Miethke relativi alla “prassi della teoria politica” (sui quali penso tornerà tra poco Mario Conetti): chi legga con attenzione Ai confini del potere. Il dibattito sulla potestas papale da Tommaso d’Aquino a Guglielmo d’Ockham12, si accorgerà di non trovarsi di fronte solo ad una ripresa dei contenuti di una delle più significative controversie del pensiero politico medievale, ma in particolare ad uno studio delle condizioni in cui sono stati concepiti, redatti, diffusi e recepiti i testi che risultano essere i vettori del dibattito di teoria politica.
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Un percorso, non alternativo ma ulteriore, può essere tracciato traendo in modo compiuto le conseguenze di quanto si sta facendo tra gli studiosi più avvertiti di pensiero politico medievale, considerando i propri oggetti come fonti alla stregua di altre fonti, testimonianze frammentarie come tutti i resti in qualche modo sopravvissuti alle macerie del tempo13. Nel loro essere storico, gli uomini esprimono talvolta anche interpretazioni della loro convivenza politica. Non si vede perché le fonti relative non debbano essere trattate alla stregua delle altre fonti. Certo, quando la storia del pensiero politico pretende di essere un angolo privilegiato per cogliere “l’essenza” di un periodo storico, le si può obiettare con il quasi abusato detto shakespeariano «Ci sono più cose in cielo ed in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Quando invece lo storico del pensiero politico medievale é consapevole dei limiti del suo oggetto, non pretende che lo sforzo di autocomprensione abbia valore assolutizzante, ma lo concepisce come una espressione della società dell’epoca che studia, si occupa di un aspetto della realtà storica, come ce ne sono altri14. È questa probabilmente la prospettiva di storia “speciale” di cui ha parlato Pietro Costa nella sua lucida risposta ai prefato-
12
J. Miethke, Ai confini del potere. Il dibattito sulla potestas papale da Tommaso d’Aquino a Guglielmo d’Ockham, Padova 2005, traduzione italiana di Cinzia Storti di J. Miethke, De potestate papae. Die päpstliche Amtskompetenz im Widerstreit der politischen Theorie von Thomas von Aquin bis Wilhelm von Ockham, Tübingen 2000. Recenti interventi su questo lavoro sono disponibili on line all’indirizzo www.unimc.it/web_9900/prov_dip/territor/Dipa_ter.htm alla voce “Iniziative”. 13 L’ispirazione, fin troppo banale, ovviamente è tratta da W. Benjamin, Ueber den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften, I/2, a cura di R. Tiedemann - H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M. 1974, IX, p. 697: «Der Engel der Geschichte muß so aussehen […] Wo eine Kette von Begebenheiten vor uns erscheint, da sieht er eine einzige Katastrophe, die unablässig Trümmer auf Trümmer häuft […]». 14 È pertinente ricordare quanto ha scritto qualche anno fa Jean Dunbabin, mettendo a questione alcuni modi di esprimerci che suggeriscono essi stessi una separatezza tutta - invece - da dimostrare di volta in volta: «The conference title “Political thought and the realities
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Tra le molte declinazioni del rapporto tra intellettuali e potere nel Trecento non può essere quindi considerata una dimensione minore quella che vede gli uomini di cultura impegnati, all’interno di linguaggi preformati in particolare dalla produzione di saperi universitari, nell’interpretare i rapporti politici dei loro tempi sostenendo o respingendo le linee d’azione di alcuni degli attori che si muovevano in quel campo di forze. Per quanto ciò possa sembrare banale, questi sforzi possono e devono essere oggetto di un’indagine che, per non essere approssimativa, deve essere specializzata, capace di orientarsi nelle peculiarità delle fonti e dei loro linguaggi. Pur senza rivendicare ”primati” a questo tipo di indagini, è ovvio che un’immagine del Trecento che le lasciasse da parte come dedite a meri orpelli sovrastrutturali risulterebbe manchevole. Senza dubbio, resta aperta la questione del rapporto tra questa storia specifica e le altre storie: ma resta aperta anche perché, probabilmente, non esiste e non può esistere - per lo storico - una risposta data una volta per tutte, e quindi in modo metastorico. Come scrive ancora Pietro Costa: «Ciò che sono però portato a mettere in dubbio non è in effetti l’esistenza del ponte (l’esistenza di un passaggio fra la parte ed il tutto, fra i saperi e la dinamica sociale complessiva), bensì la sua immediata accessibilità: il ponte esiste, ma non è una via di comunicazione agevole e debitamente segnalata; il ponte esiste, ma non è già pronto, non è dato immediatamente dalla logica stessa dell’universo di discorso giuridico e politico; il ponte deve essere, caso per caso, volta per volta, costruito dallo storico […]»16.
of power” suggests that power in any society has an objective existence separate from people’s perceptions of its operations and, consequently, that subjective political thought can somehow be firmly contextualized in a real world. Yet in the early medieval period when institutions and administrative structures still played a miniscule role in government, it was the function of those who held offices of one kind or another to create around themselves an aura of authority that commanded obedience. In this sense, political idea or political rituals themselves constituted an important element of the reality of power. […] He (that is Philip IV) realized that his power was only as real as other people thought it to be»: J. Dunbabin, Hervé de Nédellec, Pierre de la Palud and France’s place in Christendom, in Political Thought and the Realities of Power in the Middle Ages - Politisches Denken und die Wirklichkeit der Macht im Mittelalter, a cura di J. Canning - O.G. Oexle, Göttingen 1998, pp. 159-172: 159. 15 P. Costa, Post-fazione a Costa, Iurisdictio cit., p. LXXXVIII. 16 Ibid., pp. XCI-XCII.
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Notai trecenteschi tra tradizione comunale e cancellerie signorili. Appunti
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1. Bartolomeo Lando è un notaio veronese vissuto fra Trecento e Quattrocento, che si formò professionalmente alla fine dell’età scaligera (la signoria cadde nel 1387) e fece una buona carriera negli uffici pubblici cittadini durante la dominazione viscontea sulla città (1387-1404). Anche negli anni successivi, sino alla morte (occorsa in età non avanzata, nel 1413), il Lando riuscì a mantenere una posizione di notevole prestigio locale nell’organigramma del comune cittadino soggetto alla dominazione veneziana: dominazione che – osservo qui per inciso – iniziò a Verona con una “transizione dolce”, nel segno di una forte continuità (sí che non ha fondamento quell’idea di epocale discrimine che in passato si attribuiva agli eventi del giugno 1405). Nel liber dierum iuridicorum, cioè nel calendario giudiziario che egli compilava stando appollaiato sul suo scranno nel palazzo comunale, fra una riunione dell’arengo comunale e una seduta giudiziaria podestarile, Bartolomeo Lando annotava notizie e vicende politiche, in primo luogo cittadine ma anche italiane. Orbene, nel maggio 1406 egli si soffermò con accorate parole a ricordare la morte di un personaggio che in astratto si potrebbe pensare non dovesse godere di troppa buona stampa in una città che da quasi centocinquant’anni era soggetta a regimi signorili, sostanzialmente senza soluzione di continuità dall’età ezzeliniana in poi: «ille famosus dictator et lux fulgens nostro seculo dominus Colucius Pierius de Stignano canzelarius Florentinus benemeritus, ultima senectute confectus, diem suum extremum claudit in Domino. In cuius exequiis pro parte studii Bononiensis tanquam poeta fuit ceu dignus et benemeritus laurea corona eius capiti imposita decoratus in civitate Florencie». Tenendo conto del contesto, si tratta di un’annotazione importante, che esprime – come subito vedremo – un atteggiamento culturale degno di qualche riflessione. E si può anzi anticipare sin d’ora che Bartolomeo Lando è il padre di un altro noto notaio veronese, Silvestro Lando, che fu nei primi decenni del Quattrocento allievo di Guarino Veronese, umanista non spregevole, cancelliere del comune di Verona e prefatore degli statuti cittadini nella
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redazione del 1450. In questa prefazione, Silvestro Lando espresse con franchezza gli ideali politici ai quali era stato educato nella Verona del primo Quattrocento, facendosene interprete per conto del patriziato che egemonizzava il comune. Egli teorizzò infatti la condizione politica del comune di Verona, rispetto al regime veneziano, come una moderata libertas: una via intermedia fra la rischiosa libertà della città stato di tradizione comunale – per la quale, si riconosce implicitamente, il ceto dirigente veronese non ha né le risorse né il coraggio –, e la soggezione ad un principe, che appare come inaccettabile. In questa continuità familiare, tra l’apprezzamento sincero per Coluccio Salutati e la franca accettazione del patto non scritto tra Venezia e la Terraferma (consenso sostanziale alla Dominante versus rispetto, da parte della città lagunare, dell’egemonia patrizia sulle città) si incarna dunque la sopravvivenza e la trasformazione dell’ideologia civica a Verona. La prospettiva alla quale si ispira Bartolomeo Lando, notaio / “funzionario” ligio al potere signorile scaligero e visconteo e nello stesso tempo legato ai valori tradizionali del comune cittadino, e l’esperienza complessiva della famiglia Lando, non è isolata nel panorama culturale e politico italiano di quei decenni. È la medesima nella quale si mosse ad esempio Antonio Ivani da Sarzana, «un teorizzatore del declino delle autonomie comunali», studiato dal Fubini in un saggio importante e anticipatore (1978). Ma spunti analoghi sono presenti anche nelle ricerche di Isabella Lazzarini su Mantova, e anche nelle indagini di Rodolfo Savelli sui cancellieri genovesi, in particolare Le mani della repubblica: la cancellerie genovese dalla fine del Trecento agli inizi del Seicento, che è del 1990. Per quanto naturalmente nel caso di Genova non si tratti di città soggetta, e anzi ancora agli inizi del Quattrocento si constati il caso di un notaio figlio e nipote di cancellieri che prima di prendere il posto di cancelliere assicuratogli dalla tradizione famigliare fa per un po’ di tempo il comandante di galere, nei casi dei vari Antonio Bracelli, Bartolomeo Guasco, Nicola e Prospero da Camogli, i meccanismi socio-istituzionali della professionalizzazione e quelli culturali della moderata de-ideologizzazione sono gli stessi che possiamo trovare altrove. Allo stesso modo, Bartolomeo Lando in quanto cronista testimonia appieno quanto affermato da Marino Zabbia nelle conclusioni della sua importante monografia sui notai cronisti del Trecento (della quale questo intervento è fortemente debitore, costituendone in certo modo una “chiosa al margine”): essi «provengono sempre da gruppi che continuavano a ricoprire un ruolo pubblico delle città sia come membri di famiglie eminenti spesso impegnati in magistrature e consigli, sia come funzionari di primo piano», ed esprimono nei testi da loro scritti un forte attaccamento alla tradizione, ai valori, allo scenario della propria città (“dominata” o “dominante” che sia).
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Ma come si arriva a questi esiti? Quali sono gli antecedenti di quell’atteggiamento, che poteva sfociare nell’ammirazione espressa a Verona da Bartolomeo Lando per un modello civilmente ed ideologicamente impegnato, oltre che letterariamente alto, come quello costituito dal Salutati? Come e perché tale orientamento caratterizza anche notai legati alle cancellerie e alle corti signorili, che avevano espresso talvolta gli antagonisti più accaniti del Salutati, come il vicentino Antonio Loschi? A queste domande cercheremo di dare qualche limitata risposta. E come cercheremo di mostrare, nel corso del Trecento in effetti l’intreccio che si realizza – nel concreto della prassi d’ufficio e del lavoro intellettuale – fra notai e notai-cancellieri, tra cancellerie signorili e offici di governo signorile da un lato e comune cittadino dall’altro, è più variegato e complesso di quanto non si pensi.
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2. In una veloce sintesi sulla documentazione degli stati italiani dal Duecento al Quattrocento (ancora insuperata nel genere e ripresa poi in un ulteriore più recente contributo), Bartoli Langeli collocò un momento di "svolta", per le strutture documentarie delle città italiane di tradizione comunale, la seconda metà del Duecento. Quando, tramontata la generazione e la stagione dei Brunetti, dei Rolandini, dei Bovicelli che avevano incarnato la figura del notaio dictator della più classica tradizione comunale, in varie città ci si avvia sempre più frequentemente verso l’esperienza signorile, si determinano degli iati e degli scompensi dal punto di vista delle forme documentarie. La natura ibrida della documentazione redatta per conto dei signori dai notai della fine del Duecento o degli inizi del Trecento è in effetti molto evidente. Al riguardo, Bartoli Langeli sottolineò giustamente l’importanza di un saggio di Luciana Mosiici dedicato (nel 1966) ai notai di Castruccio Castracani, che egli assume come filo conduttore della sua ricostruzione, perché in tale documentazione emerge progressivamente una dimensione autoritativa, “cancelleresca” e non più “notarile”. Atteggiamenti complessivamente più cauti avevano assunto, nei decenni precedenti, i notai che operavano per conto di alcuni signori padani (signori radicati peraltro in una ed una sola città, a differenza di Castruccio). A Treviso, i notai che rogano per Gherardo e Rizzardo da Camino, signori della città fra Duecento e Trecento, si sottoscrivono di quando in quando come «scriba domini» e lavorano in una «camera tabellionum domini capitanei» ubicata «sub domo domini capitanei Tarvisii», cioè nella dimora del signore; ma una serie di atti di grazia (tipologia documentaria formalmente compromettente) è rogata nel proprio cartulario da un notaio che - altrove detto «scriba capitanei» - si sottoscrive in tale documentazione come semplice notaio pubblico. A Man-
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tova, nel 1303, redigendo un “diploma” per conto del «nobilis et magnificus dominus Guido de Bonacolsis comunis et populi Mantue capitaneus generalis et perennis, ex sui capitaneatus arbitrio et plenaria protestate», il notaio si sottoscrive «et ego Rolandinus de Bertholono civis mantuanus, imperiali auctoritate notarius publicus dictique domini capitanei scriba eius iussu his omnibus presens scripsi signumque meum apposui consuetum»: ove la superflua annotazione «civis mantuanus» e l’esplicitato doppio riferimento alla «fides publica» e all’autorità imperiale da un lato, alla qualifica di «domini capitanei scriba» dall’altro, non sono certo casuali. Ancora a Treviso, durante il governo di Enrico II conte di Gorizia, «vicarius civitatis Tervisinae et districtus pro regia maiestate» tra il 1319 e il 1324, gli esponenti della piccola “corte” goriziana e i notai trevigiani operanti nell’apparato documentario del comune locale adottarono varie cautele nel dare veste formale agli atti, che rendevano concreta la volontà politica del conte. Così il 4 settembre 1320 fu il medico Savio da Vicenza a presentare al vicario del podestà del comune di Treviso una lettera del conte Enrico sigillata col suo sigillo, ma prudentemente definita «scriptum», e tràdita forse non casualmente nel registro di imbreviature “privato” del notaio Vendrame di Zanino. Nell’intitolazione di queste lettere Enrico II – oltre ad esibire ovviamente gli altri suoi titoli (conte di Gorizia e di Tirolo, avvocato delle chiese di Aquileia, Trento e Bressanone, capitano generale del Friuli) – quanto alla legittimità del suo potere su Treviso menzionava tanto il vicariato regio («ex vigore nostri vicariatus et nobis tradite potestatis a regia maiestate») quanto l’«arbitrium generale» concessogli dal comune di Treviso; il che non esclude che all’occorrenza non ricorresse ai suoi scribi di fiducia («notarii domini comitis»). Fatalmente, si ripresentano sperimentazioni già adottate durante la “tirannide” caminese; e lo stesso si può dire delle modalità di conservazione di questi provvedimenti, che non di rado riemergono – oggi – dai cartulari privati (o “semi-pubblici”) di questo o quel notaio. Queste scelte, o queste volute ambiguità, comprovano di per sé un forte grado di consapevolezza. E si può aggiungere che i notai che operano nell’entourage dei signori, in queste cancellerie signorili in gestazione o in incubazione, non si limitano – almeno in alcuni casi – a queste scelte per così dire strettamente formali. Essi si rendono conto di lavorare in un territorio di confine, che sollecita la loro professionalità e da un lato li orienta a tenere vivo il legame con la tradizione comunale, dall’altro li conduce inevitabilmente a rispondere alle domande nuove che l’affermazione del governo signorile e il modificarsi del quadro politico generano. Su questo piano, può essere utile considerare un prodotto “ibrido”, un documento che fotografa una situazione di transizione e che è frutto della capacità di
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rielaborazione di un notaio del primo Trecento. Si tratta dell’Eloquium super arengis raccolto dal notaio Ivano di Bonafine «de Berinzo», un notaio veronese che sin dalla seconda metà del Duecento è attivo nell’ambiente documentario (preferisco questa dizione volutamente ambigua e generica a quella lievemente anacronistica di “cancelleria”) scaligero. Prima di analizzare brevemente questo testo (tràdito da un manoscritto trecentesco, conservato a Yale, negli Stati Uniti), è opportuno ricordare – ancora con Bartoli Langeli – che negli uffici documentari signorili la forma epistolare e l’uso di un sigillo sono elementi importanti per identificare un’area documentaria tendenzialmente alternativa all’area notarile-comunale. Infatti la lettera costituisce una forma documentaria «soggettiva e dispositiva»: ha dunque caratteristiche «che contrassegnano la generalità degli atti emanati da cancellerie». Non a caso l’ufficio epistolare che si formalizzò nell’assetto documentario di molti comuni cittadini nel secondo Duecento costituiva una realtà in qualche modo isolata, la sola «enclave cancelleresca all’interno della pratica della produzione documentaria dei comuni». È un ufficio che elabora e produce documenti tipologicamente diversi da quelli di altri uffici documentari comunali (le lettere infatti sono sigillate e non sottoscritte), ed è un ufficio che non sottostà alla rotazione periodica come gli altri uffici ricoperti da notai, perché la cultura retorica del notaio dictator era insostituibile. Si potrebbe dire dunque che l’ufficio epistolare era il più “potenzialmente signorile”, rispetto agli altri uffici comunali. A questi requisiti si devono affiancare, per parlare di una vera e propria documentazione signorile, anche modalità cancelleresche di convalidazione e contenuto autoritativo dei decreti. Orbene, il testo elaborato dal notaio veronese sopra citato rispetta perfettamente questi parametri. L’autore stesso aveva alle spalle una lunga carriera di dictator comunale nell’epoca di Alberto I della Scala, signore di Verona tra il 1277 e il 1301 e padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande I, i tre fratelli che si succedono al potere in Verona a partire appunto dalla morte del padre. Egli si qualifica significativamente «scriba domini vicarii», e dunque compila la sua raccolta dopo il 1311, quando Cangrande I ottenne il vicariato imperiale; e la dedica a Bailardino Nogarole, un autorevolissimo miles già collaboratore di Alberto I della Scala e poi dei suoi figli. L’eloquium super arengis è suddiviso in tre libri, e come d’uso in questi casi, raccoglie materiali eterogenei: lettere effettivamente inviate, modelli di lettera, ma anche riflessioni di moralità politica e modelli di orazione politica. Già quest’ultimo aspetto lo distingue: non si tratta soltanto di un formulario di lettere, ma di un più complesso insieme di materiali inerenti la politica e la vita civile. Esso infatti fotografa nella varietà dei suoi approcci la situazione di non spenta vitalità delle istituzioni
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cittadine, pur soggette al signore, e nel contempo la franca affermazione di superiorità del principe. Cito a titolo di mero esempio alcuni titoli, relativi ad interventi in consiglio del podestà o di singoli consiglieri: «arenga potestatis persuadendo ad bellum», «arenga potestatis nove concionantis in populo», «arenga potestatis super quadam proposita», una serie lunghissima di arenge di consiglieri del consiglio cittadino: «cuiusdam consiliarii super relaxatione carceratorum», «super aleviatione rusticorum», «super munitione et hedificatione cuiusdam castri», «arenga cuiusdam consulentis pacem», eccetera. Ovviamente, poi, «arenga ad imperatorem», «arenga ad dominum papam», ma anche in tutt’altra direzione «arenga super informatione principis ad iustitiam, «ad sapientiam», «ad bonitatem», «ad dilectionem», «ad pietatem», «ad veritatem», «ad rem publicam conservandam», e così via. Seguono poi i modelli di un centinaio di epistule sui temi più disparati. Quanto accennato è sufficiente per svolgere una considerazione importante nell’economia del discorso che sto cercando di fare. L’Eloquium super arengis ci consente innanzitutto di rivalutare, in qualche misura, la consistenza culturale di quell’ambiente documentario e cancelleresco, popolato ovviamente di notai, che ruota attorno a Cangrande I della Scala. Anche a causa della scarsità della documentazione disponibile, la presenza a Verona (per non molti anni invero, attorno al 1320) di un Benzo d’Alessandria in qualità di scriba domini vicarii non era stata sufficiente a riscattare un ambiente che la storiografia specialistica aveva giudicato scarsamente significativo e stimolante dal punto di vista culturale; e facendo riferimento alla presenza e all’attività di Guglielmo da Pastrengo e di Giovanni Mansionario, l’ambiente culturale veronese dei primi decenni del Trecento è stato etichettato a lungo con la mera definizione dell’erudizione antiquaria, sottolineandone implicitamente o esplicitamente l’inferiorità rispetto all’ambiente padovano animato di civismo e ricco di un maggior respiro. Se si tien conto invece della preziosa raccolta del notaio Ivano, possono essere valutati in una luce nuova certi indizi, come quell’epitaffio di alto profilo di un altro notaio veronese, Bonaventura da Santa Sofia, rhetoricus illorum de la Scala, segnalato da Billanovich, e altre cose ancora. Va riservata dunque un’attenzione diversa alla consapevolezza e allo spessore culturale di questi ambienti, largamente penalizzati dalla scomparsa (quasi sempre pressoché integrale) della documentazione da essa prodotta, visto che la storiografia si è fermata spesso sulle cancellerie signorili che hanno goduto di una lunga fortuna quattrocentesca. 3. Nel primo Trecento dunque – lo si è visto or ora con l’esempio dell’Eloquium super arengis – era possibile raggiungere una sintesi, o forse co-
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struire una giustapposizione, tra la tradizione e la pratica “comunalistica” e la prassi della cancellerie. Naturalmente, l’itinerario verso il cancelliere umanista incarnato da Coluccio Salutati è ancora assai lungo. Ma se richiamiamo alla memoria una delle definizioni di queste figure fissate con limpidezza e precisione dal Garin – si tratta di «notai esperti di scienze giuridiche e di retorica, ossia delle tecniche del discorso persuasivo e delle relazioni umane, depositari di una sapienza nutrita di dottrina specifica, di esperienze e contatti personali, di amicizie autorevoli e di un gran nome» – constatiamo che la differenza, mutatis mutandis, non è abissale.
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Lo prova uno sguardo veloce ad alcune figure dei decenni successivi. Alcuni dei requisiti menzionati nella definizione di Garin (l’abilità retorica e le conoscenze giuridiche, l’attitudine a sviluppare l’attività letteraria attraverso i contatti personali; oltre che, sul piano dei meccanismi istituzionali, lo svincolamento della posizione del “cancelliere” – nominato a tempo indeterminato – dalla rotazione periodica tipica degli officiali pubblici, e l’elezione a tempo indeterminato) sono largamente attestati anche in notai attivi nei decenni centrali del secolo. Certo, il ruolo di questi notai attivi nelle cancellerie è legato al signore e al suo insindacabile favore e giudizio. Ma il legame con la società locale non è spento. È significativo infatti che nelle signorie “monocittadine” (diverso è il caso dei Visconti, che ben presto – si pensi per limitarsi ad un caso veneto ad Antonio Loschi – attraggono anche da lontano; e una sua specificità ha anche il caso della cancelleria veneziana) si continui anche in pieno Trecento a reclutare localmente, dal notariato locale, le migliori pur se modeste intelligenze, e le si addestrino all’amministrazione pubblica. Alla corte gonzaghesca operano perciò, con qualche rilievo, notai originari di Canedole o Suzzara; e inoltre un importante notaio della cancelleria carrarese del secondo Trecento viene da Montagnana, nel contado padovano, e si chiama Zilio Calvi. Anche a Verona, i notai / cancellieri del secondo Trecento provengono in più di un caso dal contado, come per Alberico da Marcellise e per Antonio da Legnago. Come è ovvio, il notaio cancelliere vive con la corte signorile un rapporto complesso e difficile. La dimora del principe o del potente non è mai un luogo di riposante e riposata esistenza al riparo del mecenatismo, e meno che mai lo è in una signoria italiana del Trecento; al contrario è un campo di battaglia pieno di insidie. Certo, il litteratus che ha spessore culturale e tempra morale può coniugare – non senza difficoltà – l’ossequio al signore e una sua funzione di mentore, talvolta di educatore dei giovani principi: ma questo accade in pochi casi eccezionali. La tendenza generale è diversa; in linea di massima il profilo del notaio/funzionario tende fatalmente ad appiattirsi su quello del mero esecu-
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tore della volontà signorile. Tuttavia, anche in questo caso non mancano situazioni articolate e diversificate; e si può dire che anche sotto questo particolare profilo le tematiche prospettate da queste corti signorili trecentesche forse non sono state approfondite in modo adeguato dalla storiografia italiana, a lungo attratta in prevalenza dai “modelli” di corte pienamente realizzati (nel Quattrocento mantovano, ferrarese, milanese). Anche in questo caso è Padova che offre gli stimoli e spunti di riflessione più interessanti. Infatti il progetto di politica culturale e di immagine elaborato nell’entourage di Francesco il Vecchio è particolarmente maturo e particolarmente consapevole, impastato com’è di forte autocoscienza signorile ma anche di tradizione cittadina rivisitata e rielaborata (basta al riguardo un velocissimo confronto con Mantova, ove la cultura di corte gonzaghesca non sviluppa nel Trecento la celebrazione aristocratica e la cultura cittadina produce soltanto una rozza celebrazione in volgare degli aspetti più appariscenti del potere signorile). Che al cuore del progetto carrarese vi siano (oltre e dopo il Petrarca) personalità autorevoli provenienti da lontano, come l’inquieto Giovanni Conversini da Ravenna e Pier Paolo Vergerio e il giudice (istriano come il Vergerio) Nicoletto d’Alessio, è ben noto. Ma il rapporto vitale tra la cultura “civica” padovana, di stampo anche notarile, e la corte, non è spezzato. Un terreno significativo nel quale il legame tra personale di cancelleria (di prevalente formazione notarile) e identità civica si mantiene in una certa misura vitale è ovviamente quello della scrittura cronistica e storiografica. Come si accennava all’inizio, il tema è stato sviluppato con mano sicura da Marino Zabbia nel suo importante volume di una decina d’anni orsono, e sostanzialmente a quel quadro mi rifaccio. La produzione storiografica dei cancellieri trecenteschi non è, in effetti, scarsa. Tuttavia non si può ricondurre senz’altro questa operosità a specifiche progettualità dei governi, come dimostra l’esame analitico di circostanze e motivazioni della redazione. Questo non accade nelle cancellerie repubblicane: a Venezia per esempio le numerose opere prodotte dai cancellieri trecenteschi, in genere notai provenienti da città diverse (Bonincontro Bovi mantovano, Iacopo Piacentino appunto piacentino) attivi con mansioni più o meno elevate nella cancelleria, sono dovute all’iniziativa dei singoli, stimolati intellettualmente dalla confidenza con la documentazione e anche con le testimonianze cronistiche precedenti, ivi conservate. Sono opere monografiche, su singoli episodi (la pace di Venezia del 1177, la recente guerra con gli Scaligeri), oppure riprese e rielaborazioni della cronaca ufficiale prodotta dal doge, come nel caso di Raffaino Caresini e di Benintendi Ravagnani. Ma la committenza di opere cronistiche ai notai cancellieri la si può invece riscontrare nelle can-
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cellerie signorili, ove la volontà del dominus può promuovere una rilettura storiografica che lascia ampi margini alla tematica cittadina e civica, e anzi trova nella rivisitazione della storia cittadina dalla visuale signorile una delle sue ragioni d’essere. È questo il caso ben noto della Padova di Francesco il Vecchio, ove coi Gesta magnifica domus Carrariensis si rilegge la storia intera della città in funzione e in dipendenza della storia della famiglia dominante. E a questo riguardo, tra gli spunti più interessanti della ricerca di Zabbia c’è proprio la menzione di opere perdute, come la cronaca scritta da Pellegrino Calvi, cancelliere di un signore di medio livello come Scarpetta Ordelaffi in una città di piccole dimensioni come Forlì. A Ferrara, poi, ai primi del Quattrocento è per iussio signorile (e iussio è in questo contesto ovviamente un termine tecnico: l’ordine di documentare), che Giacomo Delaito dichiara di avere scritto la sua cronaca. Si tratta di una cronaca municipale, cittadina in uno stato territoriale pluricittadino come quello estense, e ancora una volta una cronaca che si basa su un testo precedente, il Chronicon estense, probabilmente prodotto e sicuramente conservato fra cancelleria e corte. Nel caso di Verona, invece, la relazione non è così chiara, ma senza dubbio i continuatori d’età scaligera del Chronicon veronense di Parisio da Cerea si inscrivono in una tradizione che è ad un tempo di accettazione della signoria dominante e di adesione ad una dimensione civica; né in fondo il De modernis gestis di Marzagaia, il precettore di Antonio della Scala che nei primi anni del Quattrocento rilegge le vicende della città ispirandosi ad un corrucciato moralismo, assume una posizione molto diversa. Quanto infine alla cancelleria viscontea, la cancelleria di un dominio pluricittadino assai complesso e articolato, è ovvio che essa non potesse divenire – in quanto tale – un luogo di rielaborazione della memoria storiografica (anche se l’opera di Pietro Azario si colloca proprio sul crinale tra la coscienza dell’identità “regionale” della «felix olim Lombardia» e la rilettura delle singole tradizioni cittadine). 4. Queste poche annotazioni – limitate a due specifiche (eppure importanti) tipologie di testi, come la produzione epistolare e la cronaca – suggeriscono dunque l’importanza di un riesame attento dell’attività di notai, dictatores, giudici nelle cancellerie signorili trecentesche. Il variegato itinerario che ho rapidissimamente schizzato si conclude agli inizi del Quattrocento con esiti molteplici; ma di questi diversi esiti, il rapporto con la città e la tradizione urbana è comunque, per i cancellieri trecenteschi, un sottile ma resistente filo conduttore, che talvolta scompare, ma può riacquistare vitalità e venire nuovamente alla luce. Nel caso veronese che ho cita-
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to all’inizio il punto d’arrivo è il riflusso nel municipalismo patrizio del primo Quattrocento, al quale corrisponde una “nuova” cancelleria comunale quattrocentesca, a scartamento ridotto, popolata da notai: una cancelleria modestissima ovviamente, eppure in qualche modo adeguata al modesto spettro d’azione del comune di Verona ormai soggetto a Venezia e del suo ceto di governo. Anche per Padova, alcuni anni fa, Silvana Collodo scrisse di una rinascita del sentimento civico nel primo Quattrocento; e l’indagine andrebbe allargata ad altri casi di città soggette in Lombardia e in Emilia. Altrove – nelle signorie destinate a durare, come quella gonzaghesca di Mantova, o quella estense di Ferrara – l’evoluzione quattrocentesca delle cancellerie prese naturalmente strade diverse, anche se piace ricordare che neppure in questi casi il legame con la tradizione comunale e civica si spezzò del tutto: a Mantova, per esempio, un barlume di coscienza civica rimase comunque acceso ad esempio nel ceto dirigente mantovano, anche dopo centosessant’anni di dominio signorile, come dimostra il celebre referendum del 1430, e non è un caso, osserva Isabella Lazzarini, che Ludovico Gonzaga nei decenni centrali del secolo rimedi agli eccessi del padre, «incline» a proposito di cancellieri «a favoritismi talora sconsiderati», e punti scientemente su cancellieri e segretari di famiglie mantovane di non illustre tradizione. Del resto, negli ultimi decenni anche questa fase tarda del rapporto fra gli “intellettuali” delle città italiane e le istituzioni comunali dell’Italia centrosettentrionale – una fase a lungo trascurata – è stata meglio approfondita e indagata rispetto a una lunga e straordinaria tradizione di studi che aveva privilegiato e che continua a privilegiare il Duecento e il Trecento – e dunque dal punto di vista ideologico-politico il cruciale momento delle libertà comunali e dell’umanesimo civico (e di conseguenza la figura del cancelliere comunale), come ricordava Silvana Collodo nel saggio che ho qua sopra evocato. Il discorso si farebbe troppo lungo e troppo complesso; mi limiterò qui a ricordare, come prova della perdurante vitalità di questo nodo problematico, la relativamente recente (anno 2000) pubblicazione della monografia di Ronald Witt Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo, che quarant’anni dopo attutisce l’impostazione nobilmente ideologica e nobilmente aprioristica di Hans Baron. Ma al di fuori di Padova e Firenze patrie del “repubblicanesimo”, anche il più modesto senso civico dei notai delle cancellerie signorili, che nonostante tutto non recidono il cordone ombelicale coi valori della tradizione comunale cittadina, merita di essere indagato.
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Mi limito ai rinvii bibliografici essenziali, seguendo l’ordine di esplicita citazione o di utilizzazione e rinviando in generale per uno sguardo d’insieme sul notariato tardomedievale italiano alla messa a punto più recente, quella di A. Bartoli Langeli, Il notaio, in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII - metà XIV). Diciassettesimo convegno internazionale di studi (Pistoia, 14-17 maggio 1999), Pistoia 2001, pp. 23-42, e per quanto riguarda i testi cronistici, ma anche - più in generale - per l’architettura complessiva di questo breve intervento, a M. Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Nuovi studi storici, 49), in particolare la Conclusione (pp. 327-334). Il mio saggio su Bartolomeo Lando (in precedenza noto come Bartolomeo da S. Cecilia, la sua contrada di residenza nella città di Verona) e sul suo «liber dierum iuridicorum», dal titolo Una cronaca marginale. Le annotazioni del notaio Bartolomeo Lando sul liber dierum iuridicorum del comune di Verona (1405-1412), è in corso di pubblicazione nel volume miscellaneo Medioevo. Studi e documenti, Verona 2007, e sul sito www.medioevovr.it. Per un inquadramento su Coluccio Salutati, cfr. R. Witt, Coluccio Salutati and his Public Letters, Génève 1971. Per le ricerche su Mantova, cfr. I. Lazzarini, Fra un principe e altri stati. Relazioni di potere e forme di servizio a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga, Roma 1996 (Nuovi studi storici, 32); I. Lazzarini, «Peculiaris magistratus»: la cancelleria gonzaghesca nel Quattrocento (1407-1478), «Ricerche storiche», 24 (1994), fasc. 2: Cancelleria e amministrazione negli stati italiani del Rinascimento, a cura di F. Leverotti, pp. 351 ss. Il saggio di Riccardo Fubini su Antonio Ivani da Sarzana si può leggere in Egemonia fiorentina e autonomie locali nella Toscana nord-occidentale del primo Rinascimento: vita, arte, cultura. Atti del VII Convegno internazionale del Centro italiano di studi di storia ed arte (Pistoia, 18-25 settembre 1975), Pistoia 1978, poi in R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1994, pp. 136-182. Per i cancellieri genovesi, cfr. R. Savelli, Le mani della repubblica: la cancelleria genovese dalla fine del 300 agli inizi del 600, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, pp. 541-609. Per il quadro generale della documentazione degli stati italiani dal Duecento al Quattrocento, cfr. A. Bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Culture et idéologie dans la génèse de l’état moderne. Actes de la table ronde organisée par le Centre National de la Recherche Scientifique et l’École française de Rome (Roma, 15-17 ottobre 1984), Roma 1985 (Collection de l’École française de Rome, 82), pp. 35-55, poi anche in Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, a cura di G. Albini, Torino 1998 (I florilegi, XII), pp. 155-171. Cfr. inoltre L. Mosiici, Ricerche sulla cancelleria di Castruccio Castracani, «Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma», 7 (1967), pp. 1-86. Per qualche veloce cenno sui notai caminesi, cfr. G.M. Varanini, Istituzioni e società a Treviso tra comune, signoria e stato regionale, in Storia di Treviso, II: Il medioevo, a cura di D. Rando - G.M. Varanini, Venezia 1991, pp. 135-213. Per il successivo momento della storia del comune trevigiano, cfr. G.M. Varanini, Enrico II e i comuni di Treviso e Padova (1319-1323 c.), parte II di D. Canzian - G.M. Varanini, I conti di Gorizia e la Marca trevigiana: tra aristocrazia rurale e comuni cittadini (sec. XII-XIV), in Da Ottone III a Massimiliano I. Gorizia e i conti di Gorizia nel medioevo, a cura di S. Cavazza, Gorizia 2004, pp. 260 ss., 268-270. Il documento mantovano del 1303 è inedito: Archivio di Stato di Verona, Archivietti privati, Maffei, b. II, dipl. 1.
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Per le definizioni concernenti le lettere, cfr. A. Bartoli Langeli, Cancellierato e produzione epistolare, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 251-261. Pubblicherò prossimamente l’Eloquium super arengis di Ivano di Bonafine «de Berinzo», conservato manoscritto nella biblioteca dell’Università di Yale (Beinecke Collection). Rinvio per ora a G.M. Varanini, Nella cancelleria di Cangrande della Scala: l’Eloquium super arengis di Ivano di Bonafine de Berinzo, in Chancelleries et chancelliers des princes à la fin du Moyen Age. Table ronde: «De part et d’autre des Alpes», II (jeudi 5 et vendredi 6 octobre 2006 - Université de Savoie, Chambéry), a cura di G. Castelnuovo - O. Mattéoni, in corso di stampa. Sulla cultura veronese nel primo Trecento, basti qui rinviare a G. Bottari, Introduzione, in Guglielmo da Pastrengo, De viris illustribus et De originibus, a cura di G. Bottari, Padova 1991 (Studi sul Petrarca, 21), pp. IX-XCIV. Per le definizioni date dal Garin, cfr. E. Garin, I cancellieri umanisti della repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo della Scala, «Rivista storica italiana», 71 (1959), pp. 185-208, poi in E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965. Per i notai cronisti del Trecento, cfr. il già citato Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento. Per il clima culturale e i personaggi attivi nelle cancellerie venete del Trecento, cfr. D. Gallo, Appunti per uno studio delle cancellerie signorili venete del Trecento, in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di A. Castagnetti - G.M. Varanini, Verona 1995, pp. 125-161, con rinvio alla precedente bibliografia; R. Avesani, Il preumanesimo veronese, in Storia della cultura veneta, II: Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 111-141. Per le considerazioni sul sentimento civico a Padova ai primi del Quattrocento, cfr. S. Collodo, Introduzione. Identità e coscienza politica di una società urbana, in S. Collodo, Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990 (Miscellanea erudita, XLIX), pp. LXXI ss. Il riferimento al Baron è ovviamente a H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, Firenze 19702.
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Chi cerchi di individuare, entro gli orientamenti della storiografia più recente, un approccio metodologico fecondo nel tentativo di dare concretezza al nesso “intellettuali - potere” nel basso medio evo, non potrà non rivolgersi alle indicazioni fornite da Jürgen Miethke. Tanta parte dell’opera dello studioso tedesco affronta difatti questo interrogativo e lo assume come cruciale. Egli peraltro è stato avaro di indicazioni o premesse generali, di carattere appunto metodologico, che andranno in linea di massima desunte da una considerazione diretta e complessiva dei suoi studi rilevanti per questa prospettiva. Proprio la summenzionata avarizia rende tanto più preziosi quei, pochi, testi, ove Miethke prova a rendere effettivamente ragione del suo impegno: «Se al centro della nostra attenzione non si collocano solo le circostanze esteriori, morti involucri di realtà scomparse, ma neppure solamente le idee ed i pensieri che gli uomini si sono formati a proposito del loro mondo e della loro realtà; se ad interessarci è invece proprio la connessione tra questi due piani […] allora esiste per lo meno la possibilità di avvicinarsi al modo che il passato ebbe di vedere il mondo, e ciò non grazie ad una empatia arazionale, ma sulla base di una ricostruzione razionale»1. La connessione di teoria e prassi nasce quindi da una esigenza ermeneutica, in quanto fornisce la prospettiva che meglio permette di cogliere il significato delle fonti. Appare davvero utile, sempre nella prospettiva di
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J. Miethke, Studieren an mittelalterlichen universitäten. Chancen und Risiken, LeidenBoston 2004, Vorwort, p. XII; traduzione di R. Lambertini, Introduzione a J. Miethke, Ai confini del potere. Il dibattito sulla potestas papale da Tommaso d’Aquino a Guglielmo d’Ockham, Milano 2005, p. V.
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chiarire le piste metodologiche verso una definizione del nesso tra intellettuali e potere, la chiave di lettura fornita da Roberto Lambertini nell’introdurre le versioni italiane di due testi di Miethke. «Indagare la storia delle ‘teorie politiche’ significa porre ad oggetto delle indagini una precisa categoria di testi, sui quali ci si interroga a partire dalle concretissime condizioni di produzione e di utilizzo»2, e quindi si tratterà di «studiare chi, nel senso di quali gruppi sociali, sono concretamente autori dei testi di teoria politica, in quale contesto istituzionale si realizza questa produzione, con quali strumenti e per quale pubblico»3. Qualche anno dopo, Lambertini ha parlato di interesse per gli «intellettuali che hanno tentato, in concorrenza con consiglieri politici di altra formazione, ma talvolta anche tra loro stessi, di fornire una cornice concettuale a scelte ed azioni politiche»4. Non credo sia arbitrario intravedere una continuità fra questa prospettiva e la visuale espressa a suo tempo da Carlo Dolcini nel presentare al pubblico quell’opera di Giuseppe de Vergottini, la cui ristampa egli stesso aveva promosso e curato, quando affermava come lo storico istriano «non identificava le idee con le istituzioni, non cercava di elencare le idee come serie di tesi e presupposti teorici al servizio delle istituzioni e delle parti in lotta ma intendeva mostrare il rapporto fra idee e istituzioni nel dinamismo politico»5. Sono, queste, fin troppo rapide e cursorie chiamate in causa che valgono soprattutto come premessa alle indicazioni dell’ultimo Miethke, nella lezione di commiato ampiamente rimaneggiata e recentissimamente pubblicata col titolo Wissenschaftliche Politikberatung im Spätmittelalter - Die Praxis der scholastischen Theorie. «Heute soll nicht in erster Linie von den Theorien selbst und ihren Zielen oder argumentativen Begründungen die Rede sein […] Es soll um die Wirkung dieser Ideen in einer Zeit gehen»6. Stimolano quindi a provare almeno a trovare una risposta per la domanda, più oltre enunciata, «Was aber hat die scholastische Wissenschaft mit Beratung und Entscheidungsfindung zu tun?»7.
2 R. Lambertini, Prefazione a J. Miethke, Le teorie politiche nel medio evo, Genova 2001, p. 15. 3 Ibid. 4 Lambertini, Introduzione a Miethke, Ai confini del potere cit., p. XI. 5 Premessa a G. de Vergottini, Il diritto pubblico italiano nei secoli XII-XV, ristampa della III edizione con aggiornamento bibliografico, a cura di C. Dolcini, Milano 1993, p. XIII. 6 J. Miethke, Wissenschaftliche Politikberatung im Spätmittelalter - Die Praxis der scholastischen Theorie, in Politische Reflexion in der Welt des späten Mittelalters - Political Thought in the Age of Scholasticism. Essays in Honour of J. Miethke, a cura di M. Kaufhold, LeidenBoston 2004, pp. 337-357: 337. 7 Ibid., p. 344.
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La prassi della teoria giuridica
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Da queste citazioni si può trarre, non arbitrariamente, un’indicazione che dovrebbe permettere di precisare il nesso tra intellettuali e potere. Miethke ha segnalato con chiarezza come questo nesso possa essere efficamente colto andando in cerca dei luoghi, quindi nella nostra prospettiva dei testi, ove ci risulta possibile individuare e situare la prassi della teoria; i testi cioè in cui effettivamente si verifica un incrocio tra l’elaborazione teorica dovuta a intellettuali di professione e l’urgenza di risolvere problemi che si collocano nell’ambito della gestione del potere. Facendo ancora riferimento a quelle indicazioni di Miethke appena ricordate, appare chiaro come egli intenda quindi specificare la prassi della teoria nei termini di un rapporto tra “Praxis” e “Beratung”. Tutte queste indicazioni, nel loro complesso, delineano un percorso molto netto e certo efficace per precisare il nesso tra intellettuali e potere nel Due e nel Trecento. Per cui se andiamo in cerca del luogo, ove le teorie politiche formulate nei contesti dotttrinali e istituzionali della “scholastische Wissenschaft”, in specie quelle elaborate dai giuristi di professione, hanno assunto in modo non mediato una valenza per la pratica dei rapporti di potere, ci potremo indirizzare in via privilegiata verso le attività di “Beratung und Entscheidungsfindung” realizzate dai giuristi stessi, ossia ovviamente ai testi che ce le conservano: i consilia e i pareri sollecitati dai centri di potere rispetto a questioni che emergono dall’effettività. L’ambito delle fonti su cui concentrare l’attenzione andrà delimitato con cura per evitare di ricomprendervi testi, o piuttosto tipologie di testi, non motivati da quel nesso tra teoria e prassi che meglio manifesta il rapporto dell’intellettuale di professione con i centri di potere. Prima di tutto, andrà escluso completamente l’ambito, invero molto esteso, dato dai pareri legali che il giurista inviava all’organo giudiziario o alle parti in giudizio, dietro loro esplicita sollecitazione. Si tratta di fonti a lungo conosciute e studiate solo in piccola parte, la cui vera valorizzazione è un frutto della storiografia più recente8. Va tenuto presente come, pur
8 Le sillogi di studi Consilia im späten Mittelalter. Zum historischen Aussagewert einer Quellengattung, a cura di I. Baumgärtner, Sigmaringen 1995 e Legal Consulting in the Civil Law Tradition, a cura di M. Ascheri - I. Baumgärtner - J. Kirshner, Berkeley 1999, rappresentano con efficacia le linee recenti ma ormai consolidate di ricerca in materia. Per la prospettiva ricordata nel testo, v. M. Chiantini, Dal mondo della prassi: una raccolta di consilia della seconda metà del Duecento per la curia podestarile di San Gimignano, in Consilia im späten Mittelalter cit. pp. 33-52; M. Ascheri, Le fonti e la flessibilità del diritto comune: il paradosso
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rappresentando esempi molto ricchi (già su un piano quantitativo) di “Beratung und Entscheidungsfindung”, non si tratta certo di fonti utili per una ricostruzione della prassi della teoria politica; ci parlano semmai della prassi del processo e di come all’interno di questo si collocavano rapporti di potere, non però specificamente né prevalentemente politico, piuttosto di natura economica e sociale9. Si tratta di escludere poi altri ambiti con i corrispondenti testi, che a prima vista potrebbero sembrare davvero rilevanti. In primo luogo, non potranno essere assunte come testimonianze del nesso che stringeva l’intellettuale giurista e i centri di potere quelle elaborazioni teoriche che sono state motivate senza dubbio da un apprezzamento, spesso notevole, del peso dell’effettività, della situazione politica cui si rivolgevano, che però si collocavano intenzionalmente su un piano teorico. Come genere letterario, si tratterà di reportationes e lecturae, forme espressive tipiche dell’ambito universitario proprio in quel torno di tempo. Sono e rimangono forme letterarie particolari che alludono all’attività speculativa dell’intellettuale di professione: dal rimaneggiamento di lezioni alla composizione di summae ai tractatus. Non si vuole né si potrebbe negare che si tratti in diversi casi di una riflessione teorica, e di una letteratura, sollecitate dal potere e rivolte a questioni politiche attuali, molto urgenti e avvertite come tali sia dai politici che dagli universitari. Però rimane teoria, consapevolmente e coerentemente: non si schiaccia sull’attualità, al contrario è mossa dall’intenzione di sollevarla al piano della scientificità10.
del consilium sapientis, in Legal Consulting cit., pp. 11-53; il più risalente G. Rossi, Consilium sapientis iudiciale. Studi e ricerche per la storia del processo romano - canonico, I, Milano 1958. 9 Non è certo questa la sede ove fare cenni, che sarebbero forzatamente troppo rapidi, ai filoni di ricerca attorno alla storia della giustizia che si stanno affermando di recente in tutta la loro pregnanza; basterà ricordarne alcuni esempi: C. Wickham, Leggi, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000; A. Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale nella repubblica fiorentina. Aspetti e problemi, Firenze 1988; A. Zorzi, Contrôle social, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problèmes, «Annales E.S.C.», 5 (1990), pp. 1169-1188; A. Zorzi, Ius erat in armis. Faide e conflitti tra pratiche sociali e pratiche di governo, in Origini dello stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini - A. Molho - P. Schiera, Bologna 1994, pp. 609-629; A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, a cura di V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 105-147; di M. Vallerani basti citare il recentissimo La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, che contiene rimandi a precedenti suoi studi. 10 Una lettura dei consilia stessi dei giuristi, che li inserisce nel contesto della storia dottrinale, si ha in D. Quaglioni, Letteratura consiliare e dottrine giuridico politiche, in Culture
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Volendo formulare un esempio, mi pare forniscano un riferimento notevole i commenti di Bartolo da Sassoferrato alle costituzioni di Arrigo VII11, Ad reprimendum e Qui sint rebelles. Su richiesta dell’imperatore Carlo IV il grande giurista perugino elabora un commento non privo di organicità, nonostante la struttura a glossa, attorno a due testi nati dalle esigenze che emergevano da una contingenza politica drammatica. In tali glosse affronta i problemi che gli poneva l’attualità politica, ma inserendosi programmaticamente nel contesto della riflessione dottrinale. In secondo luogo, un altro ambito rilevante per l’estensione testuale, per il significato politico che ha assunto, ma che non sembra poter essere assunto nella nostra prospettiva, è dato dal sostegno fornito dall’intellettuale giurista all’attività legislativa. Dalle costituzioni imperiali agli statuti comunali, gli atti normativi in questo periodo vedono quasi sempre per lo meno la partecipazione o la revisione da parte di giuristi che avevano ricevuto formazione universitaria o in certi casi facevano dello studio e dell’insegnamento la principale attività. In entrambi questi casi si potrebbe fare un gioco linguistico caro ai medievali e dire che non si tratta di prassi della teoria ma di teoria della prassi. Possono cioè essere letti come situazioni particolari e specifiche, in certi casi anche molto dettagliate o addirittura spicciole, di quel processo così descritto da Paolo Grossi: «l’esperienza affida alla scienza la propria edificazione»12. Scrive ulteriormente Grossi che negli ultimi secoli dell’età di mezzo la scienza giuridica era «l’unica che potesse elaborare quella architettura generale di schemi ordinanti, quel sistema richiesto dalla nuova società complessa»13. Anche nei contesti politici e istituzionali si può quindi vedere testimoniato dalle tipologie di testi appena ricordate quel processo per cui le tensioni o comunque le esigenze che emergono dal piano dei rapporti sociali vengono apprezzate dalla teoria che le assume nelle proprie elaborazioni.
et idéologie dans la genèse de l’Etat moderne. Actes de la table ronde organisée par le Centre national de la recherche scientifique et l’Ecole française de Rome (Roma, 15-17 octobre 1984), Roma 1985, pp. 419-432. 11 Per le valenze politiche e dottrinali di tali testi, cfr. D. Quaglioni, ‘Fidelitas habet duas habenas’. Il fondamento dell’obbligazione politica nelle glosse di Bartolo alle costituzioni pisane di Enrico VII, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia cit., pp. 381-396. 12 Così si intitola un paragrafo di P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, pp. 151-153: “Esperienza giuridica e scienza giuridica. L’esperienza affida alla scienza la propria edificazione”. 13 Ibid., p. 153.
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Si può però affermare come quei processi teorici che Miethke ha ricompreso nei termini di prassi della teoria sono una cosa ben diversa e semmai speculare. Non si tratta allora dell’edificazione di schemi in cui possano venire ricomprese le esperienze dei rapporti sociali, non si tratta dell’apprezzamento dell’effettività entro costruzioni teoriche e con gli strumenti della dottrina. Si tratta invece di una attività di “Beratung und Entscheidungsfindung” che pertanto si muove tutta sul piano dell’esperienza, entro gli spazi dell’effettività politica; si prefigge peraltro di utilizzare gli strumenti della teoria per muoversi in questi ambiti, per formulare una indicazione, per orientare l’azione del potere. Le considerazioni appena avanzate inducono a delimitare ulteriormente gli ambiti delle ricerche anche escludendo un tema che appare sempre molto frequentato negli ultimi tre decenni: si allude alle ricerche sulla funzione sociale e politica del giurista o meglio dei giuristi considerati come ceto. Non si sbaglia affermando che fu Mario Sbriccoli, se non a segnalare, certo a porre la centralità di questo interrogativo14. Da allora, e con le puntualizzazioni contenute nella risposta di Antonio Padoa Schioppa15, il tema si è consolidato16. È certo prossimo alla riflessione che investe la prassi della teoria, ma rimane diverso, proprio perché si concentra sulle funzionalità di un gruppo sociale, eventualmente della cultura di cui è portatore, rispetto al sistema di potere di cui viene senza troppe distinzioni considerato come parte integrante o per lo meno al quale è ritenuto senz’altro organico. Entro questo discorso storiografico può certo rientrare una attenzione agli effetti, alle ricadute sociali, delle teorie; rimane però necessariamente in posizione subordinata rispetto da un lato alla ricostruzione delle dottrine, degli istituti, come sovrastruttura del potere; dall’altro a una indagine sociologica (che tende alla prosopografia). A questo filone storiografico mi pare ricollegabile la ricognizione di Tilmann Schmidt sui consilia di Oldrado da Ponte17.
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M. Sbriccoli, Interpretazione dello statuto, Milano 1972, ebbe un’eco immediata e robusta. Cfr. da ultimo le notazioni di C. Dolcini, ‘Un silenzio pressochè totale’. Per la ristampa di Iurisdictio di Pietro Costa, «Pensiero politico medievale», 1 (2003), pp. 151-157: 152. 15 A. Padoa Schioppa, Sul ruolo dei giuristi nell’età del diritto comune: un problema aperto, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea. Atti del convegno di studi in onore di Giuseppe Ermini (Perugia, 30-31 ottobre 1976), a cura di D. Segoloni, Perugia 1980, pp. 155-166. 16 Tra i molti studi che si potrebbero citare a conferma della presenza forte di questo tema, si veda uno dei più recenti e rilevanti per la prospettiva, gli ambiti geografici e cronologici toccati in queste pagine: P. Gilli, La Noblesse du droit. Débats et controverses sur la culture juridique et le rôle des juristes dans l’Italie médiévale (XIIe-XVe siècles), Paris 2003. 17 T. Schmidt, Die Konsilien des Oldrado da Ponte als Geschichtsquelle, in Consilia im späten Mittelalter cit., pp. 53-64.
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Un dato di fatto, che è necessario rilevare, è costituito dalla presenza episodica del nesso fra teoria giuridico-politica e prassi politica nell’età della glossa. Dallo studio di Francesco Calasso in avanti18, ricordando per lo meno la sintesi di Bruno Paradisi19, tra i molti riferimenti possibili, è ampiamente acquisito che i glossatori non mancarono di formulare teorie politiche fondate anche su un apprezzamento dell’effettività. Risulta però assente o quasi l’applicazione pratica della teoria, nel senso definito sopra. Analoghe considerazioni possono estendersi fino alla fine del Duecento. Riprendendo quanto si è detto, nel delimitare in positivo e soprattutto in negativo lo spazio della ricerca, sarà facile definire l’ambito quindi davvero rilevante per ricostruire la prassi della teoria in modo da cogliere il nesso tra intellettuali giuristi e potere: tale ambito è costituito, in termini di fonti, dai testi dei consilia e dei pareri formulati sia dal giurista come esperto per così dire indipendente, su sollecitazione (e presumibilmente dietro lauto compenso) del potere (si ha così la figura del consulente), sia dal giurista come intellettuale legato in modo più o meno organico a un centro di potere (si ha allora la figura del giurista di corte). Appare necessario avanzare preliminarmente una cautela. I testi in questione ci sono stati trasmessi in raccolte, dai manoscritti o dalle stampe che da questi pur sempre derivano. Tali raccolte avevano come scopo quello di conservare la memoria non di un evento, che chiaramente perdeva significato al di fuori delle circostanze e dei momenti contingenti, ma di un parere autorevole che potesse essere significativo in sé. Questa considerazione appare alquanto ovvia, ma, tra le altre conseguenze, comporta una scarsa quando non del tutto assente attenzione ai contesti. Questi talvolta appaiono ancora ricostruibili in base al testo; talaltra sono presenti ma sarebbe necessario integrarli con riferimenti extratestuali, recuperabili attraverso ricerche d’archivio che però, come in diversi casi ha verificato l’esperienza diretta di chi scrive queste note, difficilmente vanno a buon fine. In molti casi i riferimenti al contesto sono stati obliterati del tutto, al punto di sostituire quelli che dovevano essere i nomi dei personaggi effettivamente coinvolti in causa con nomi di comodo (Gaio, Seio, Mevio, tratti dagli exempla dei testi ro-
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F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità. Studio di diritto comune pubblico, Milano 19573. 19 B. Paradisi, Il pensiero politico dei giuristi medievali, in Storia delle idee politiche economiche sociali, diretta da L. Firpo, II/2, Torino 1983, pp. 211-366.
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mano giustinianei)20. Un’altra conseguenza, certo meno pesante ma non trascurabile, della storia della tradizione di questi testi particolari è data dalla confusione di generi: nei manoscritti e poi ancora di più nelle edizioni a stampa, per ovvia traslazione che si amplifica del desiderio di rendere appetibile un testo per il mercato editoriale, i consilia tendono a venire indicati come questiones (talvolta, ma meno sovente, accade il contrario). L’unica via per determinare con sicurezza il genere letterario specifico consiste nell’assumere le caratteristiche intrinseche come criterio per distinguere testi che agivano nella pratica da altri magari motivati da esigenze o problemi pratici (questiones de facto) ma legati alla riflessione e all’insegnamento.
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I primi esempi di consilia motivati da problemi specifici che stimolano il coinvolgimento dell’intellettuale giurista da parte dei centri del potere politico si hanno a cavaliere tra Due e Trecento, per quanto si tratti ancora di esempi isolati. Si può citare un consilium di Dino del Mugello in tema di eresia, qualche consilium di Cino21, la questio di Jacopo Bottrigari sui poteri del comune di Modena e dei Marchesi d’Este22. I primi veri esempi, cospicui per numero oltre che per le situazioni cui si rivolgono, si hanno a Trecento già avanzato e in ambito canonistico: si pensi all’attività di Oldrado da Ponte, di Federico Petrucci, di Giovanni Calderini (in ordine di statura intellettuale riconosciuta dalla storiografia, ammesso che abbia senso stilare simili classifiche, e, criterio invece decisamente oggettivo, di volume della produzione consiliare). Uno studio dei consilia nella prospettiva qui delineata deve senza dubbio assumere quale punto di partenza l’analisi della committenza e dei contesti, per passare poi a esaminare le soluzioni e le strategie argomentative dispiegate per giungervi. Si tratterebbe cioè di un approccio diverso da quello prevalente in ambito storico-giuridico, dove, pur nelle ovvie differenze tra impostazioni e orientamenti diversi, senza dubbio sono stati e sono tuttora privilegiati quegli aspetti che non è una forzatura eccessiva de-
20 Per considerazioni sistematiche e complessive riguardo la formazione di queste raccolte, cfr. V. Colli, I libri consiliorum. Note sulla formazione e diffusione delle raccolte di consilia di giuristi dei secoli XIV-XV, in Consilia im späten Mittelalter cit., pp. 225-236. 21 Per cui cfr. G.M. Monti, Cino da Pistoia. Le Quaestiones e i Consilia, Milano 1942. 22 Per cui cfr. infra, nota 35.
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finire come tecnici e formali23, tendendo a privilegiare la soluzione rispetto al problema, depurando quanto più possibile i meccanismi concettuali dalle componenti fattuali, che peraltro li sostanziano. È chiaro che non si può minimamente, né qui né forse in senso assoluto, ammesso che simili operazioni abbiano comunque senso, discutere le premesse epistemologiche, più che metodologiche, di un intero settore della ricerca. Non è però fuori luogo evidenziarne alcuni limiti rispetto alla comprensione di testi che sono del tutto calati nella situazione contingente che li ha motivati. Allo stesso tempo però va sempre tenuto presente il ruolo imprescindibile assunto dal dato tecnico e formale, dai meccanismi concettuali: una componente che non potrà mai essere risolta nel contesto della storia sociale, come se ne costituisse un semplice accessorio, in fondo una sovrastruttura, secondo operazioni cui spesso ricorre lo storico non giurista che si volge a testi giuridici preoccupato di chiarire problemi sociali, economici, politici. Entrambe queste impostazioni tendono a precludersi, per un verso o per l’altro, la comprensione della fonte. Una considerazione anche molto rapida della committenza per questa tipologia di consilia evidenzia subito il ruolo del tutto prevalente rivestito dai centri di potere ecclesiastici. Certo in primo luogo la curia romana, in particolare per quei giuristi che, come Oldrado da Ponte, fecero a lungo di Avignone il luogo di residenza e il centro delle attività; del resto, il vertice monarchico della chiesa era ormai in grado di rendere capillarmente efficace il proprio potere tramite l’azione diffusa dei legati papali. In secondo luogo, appare molto vitale il ruolo delle diocesi ossia dei vescovi, come luogo di sintesi degli interessi, prima di tutto materiali, delle chiese locali. Da non trascurare, in un significato non dissimile, le grandi fondazioni ecclesiastiche (conventi, monasteri) che mantenevano o avevano acquisito di recente posizioni di preminenza ecclesiale e economica. L’oggetto di queste consultazioni sembra essere costituito per lo più da questioni economiche e in specie da problemi sollevati dai benefici ecclesiastici (a titolo di esempio, sui 260 consilia di Oldrado da Ponte che dovrebbero essere autentici, 85 sono relativi a materia beneficiale). Si possono vedere alcuni esempi, che paiono particolarmente significativi, tratti dalla raccolta di consilia di Federico Petrucci, meno frequentati dalla storiografia di quelli di Oldrado da Ponte, e rispetto a questi senza
23 M. Ascheri, Formalismo giuridico e formalismo storiografico: problemi medievali e problemi di oggi, «L’Unicorno», 2 (2000), pp. 9-20, disponibile anche in rete: www.idr.unipi.it/iura-communia/ascheri_unic.htm
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dubbio più legati a interessi di natura locale, toscana e umbra. La committenza e i problemi affrontati dovrebbero dare una idea non infedele di come l’attività dell’intellettuale giurista si inserisse in una rete di rapporti e di centri di potere. Il consilium 7924 è reso su richiesta del vescovo di Chiusi per la controversia con l’abate del monastero di San Salvatore della Berardenga, riguardo alcune testimonianze forse viziate da inimicizia. Il consilium 11425, datato al 1329, è in realtà una serie di pareri di Federico Petrucci e di Lapo da Castiglionchio relativi all’estensione del mandato di alcuni visitatori apostolici per i monasteri delle province toscana e genovese. Nel consilium 11626 viene affrontata la questione se il comune di Terni sia tenuto a rispondere al mandato del rettore del Patrimonio di inviare propri sindaci o ambasciatori al parlamento che si sarebbe tenuto a Montefiascone. Con il consilium 18527 risponde a un quesito che poneva frate Tebaldo (identificabile, con buona certezza, nel vescovo di Assisi, per quanto il testo non lo presenti in tale veste), rettore del ducato di Spoleto, inquisitore in virtù di un rescritto papale, che si chiedeva se ridare vigore a una costituzione episcopale di Gubbio, successivamente abolita. Al consilium 25728 frate Rimbaldo29, rettore del ducato di Spoleto, si rivolge amichevolmente a Federico Petrucci esponendogli il caso: prima che assumesse la carica, il vescovo di Ancona, tesoriere del ducato, aveva affidato la cura della tesoreria a Martino Raducci; ora il vescovo è morto e Rimbaldo chiede se il mandato si estingua con la scomparsa di chi l’aveva conferito. Federico Petrucci dice di avere risposto rapidamente, la sera stessa, che l’incarico può durare oltre la morte di colui che doveva essere sostituito, purché abbia una qualche forma di conferma. Un consilium di Giovanni Calderini30 ci porta nel vivo del confronto tra i poteri cittadini e quelli ecclesiastici; l’interrogativo è «an ciuitas de temporali iurisdictione ecclesie possit inter laycos suos facere statuta con-
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Federico Petrucci, Consilia & questiones ..., Venetiis, per Paganinum de Paganinis, 1508, ff. 36rb-vb. 25 Ibid., ff. 60ra-63ra. 26 Ibid., f. 63rab. 27 Ibid., f. 74vab. 28 Ibid., ff. 94vb-95rb. 29 Si può presumere che si tratti sempre della stessa persona del consilium precedentemente citato, di frate Tebaldo cioè, nascosto per così dire dietro un errore materiale. 30 Giovanni Calderini, Consilia, Venetiis, per Bernardinum Benalium, 1497; l’edizione contiene i consilia di Giovanni e Gaspare Calderini e di Domenico da San Gimignano. Il pezzo in questione è il cons. 18 della rubrica De constitutionibus, ibid., f. IIIvab; non è sottoscritto ma dovrebbe essere suo perché inserito tra due pezzi sicuramente suoi.
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tra ius canonicum». Una volta stabilito il principio di autonomia, sulla base sicura della «lex cesarea», questo può venire esteso anche alle terre ecclesie nei confronti di quello che in tali contesti territoriali è il diritto comune (ossia quello canonico); per cui la soluzione sarà facilmente favorevole all’autonomia comunale: «statutum seruandum est in terris de temporali iurisdictione ecclesie: licet sit contra ius canonicum». Un altro consilium rilevante di Giovanni Calderini31 concerne ancora i rapporti tra la chiesa e altri centri di potere, convergenti ma non identici, questi ultimi ora rappresentati dall’università bolognese; la questione è infatti chi possa esercitare i poteri dell’arcidiacono di Bologna nei riguardi dello Studium qualora questi sia assente a causa di impegni ecclesiastici ufficiali. Un ultimo pezzo dello stesso autore32, che pare suggestivo, si muove del tutto all’interno di contesti ecclesiastici, e in particolare di problemi istituzionali legati all’affermazione degli ordini mendicanti: la questione è «an legatus de latere possit erigere unam ecclesiam siue prouintiam in conuentualem», e la soluzione è quod sic, perché si tratta di un ambito esente dal potere dei vescovi, tende con immediata chiarezza a privilegiare i ruoli del papato e degli ordini mendicanti in quanto godono di un legame particolare con quello. Il giurista di corte
Un rapporto tra l’intellettuale giurista e i centri di potere decisamente più stretto e sistematico di quello disegnato dalla richiesta di pareri comunque occasionali su problemi specifici si verifica nei casi in cui si possono rilevare legami di dipendenza tra il giurista e un centro di potere signorile. Per la prima metà del Trecento la storiografia ha da tempo restituito le figure di alcuni intellettuali che, se non altro per alcuni periodi della loro vita e carriera, sono stati dei veri giuristi di corte, notevoli sia per la portata della loro azione politica sia per le riflessioni che questa ha motivato. Documenti d’archivio e testi ormai da tempo noti, ma che forse non hanno esaurito le cose da dire, conservano traccia delle attività di quelli che dovevano essere i consulenti giuridici dei potenti, come ad esempio, Ugolino da Celle, legato a Castruccio Castracani, e Alberico da Rosciate, legato a Giovanni e Azzone Visconti33. Si tratta di figure che restarono ai margini del mondo universitario:
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De officio delegati, cons. I, ibid., ff. Xvb-Xira. De officio legati, cons. I, ibid., f. XIIra. Sia concesso rinviare a M. Conetti, La dottrina dell’Impero e la donazione di Co-
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infatti nessuno di loro sembrerebbe mai avere salito la cattedra; certo non ebbero lo studio e l’insegnamento come attività principale. Il servizio reso ai signori fu una tra le loro diverse attività professionali, mai la prevalente. In questa sede pare opportuno soffermarsi su un autore ancora non noto in quanto giurista di corte (a differenza di Giovanni Brancazzoli e Ugolino da Celle): Jacopo Bottrigari34. Jacopo Bottrigari dovrebbe essere nato nel 1274, ma conseguì il dottorato (prima data certa della sua biografia) nel 1309, morì nel 1348. Sulla base di questa cronologia, appare decisamente poco probabile che le tensioni tra il comune di Modena e gli Este cui il consilium che segue si riferisce risalgano a prima del 1306; più sicuro pensare a una data successiva al 1336, probabilmente di poco successiva, quando cioè i contenuti specifici della dedizione potevano facilmente essere ancora oggetto di confronto. In quell’anno infatti il marchese Obizzo III riconquista Modena e ottiene la dedizione da parte del comune, così rappresentata da Jacopo Bottrigari: «commune Mutinae per syndicum legitime ordinatum, concessit et transtulit ciuitatem Mutinae cuidam Marchioni». Uno tra i dubbi relativi ai contenuti specifici di questo trasferimento appare carico di un significato economico cospicuo: «Quaeritur an per hoc transeant molendina ciuitatis praefatae in dominium Marchionis»35. Un principio logico gioca per la soluzione favorevole agli interessi estensi: «ille qui profert totum, profert singulas partes»36; che risulta corroborato da considerazioni relative all’opportunità sociale e politica: «quando aliquid transit in alicuius dominium, oportet transire id omne, quod est sub potestate uel dominio transeuntis»37. Altre quattro ragioni fanno riferimento a questa strategia, come poi le ragioni nona, decima e undicesima. Le ragioni settima e ottava riposano sui caratteri ontologici della “civitas” come un complesso organico che non può essere frantumato nelle singole componenti che assicurano l’esistenza di una comunità: «ciuitas designat locum siue territorium, sed non simpliciter sed dispositum et instructum ad ciuium unitatem et simul bene uiuendi […] unde ligandum uel conferendum locum instructum, cedunt quae ad loci et ad hominum instructionem sunt; at ad huius loci
stantino in Alberico da Rosciate, in Studi di storia del diritto, II, Milano, Giuffré, 1999, pp. 303-405. 34 Sul quale cfr. A. Tognoni Campitelli, Bottrigari, Iacopo, in Dizionario biografico degli italiani, 13 (1971), pp. 498-501. 35 Jacobi Butrigarii Quaestiones, Bononiae, apud Anselmum Giaccarellum, 1557, non paginato, segn. F Iv. 36 Ibid. 37 Ibid., segn. F IIr.
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instructionem pertinent molendina, ergo»38; «uidetur casus in populo romano qui suum imperium suae ciuitatis transtulit in principem, et per hoc patrimonialia seu fiscalia»39. La dodicesima ragione traspone nel contesto politico un principio valido per le relazioni economiche e giuridiche tra i singoli: «ad quem transeunt onera, et commoda debeant transire»40. Tutte queste ragioni sono corroborate da allegazioni di fonti normative romano giustinianee. Le ragioni contrarie sono legate al principio, enunciato al loro esordio, per cui «aliud est ciuitas aliud molendina»41 e «siue ciuitas ad sua aedificia se habeat ad totum uniuersale, siue ut totum integrale, eius appellatio non debet ad singula aedificia protrahi»42; strategie diverse fanno riferimento al peculio e altri istituti privatistici per cui anche un soggetto che è “in potestatem” di un altro può esercitare personalmente diritti reali. La solutio è contraria agli interessi del marchese d’Este: «molendina non cedere in concessione»43; fondata sulla distinzione tra il tutto e le sue parti - se si consideri “ciuitas” come “uniuersitas hominum” o come “territorium” - vengono trasferiti i poteri di governo sull’insieme, non i diritti sulle singole parti («modo que competunt territorio transeunt non iure dominii sed quo ad quaedam iura quae competunt praedio»44). Per quanto una simile soluzione risulti senza dubbio sfavorevole, si potrebbe dire pesantemente sfavorevole considerato il gettito che poteva essere tratto dal controllo dei mulini, agli interessi economici immediati, non lo è agli interessi politici estensi. Permette infatti di affermare un parallelo tra il potere imperiale e quello del signore di Modena, che viene esplicitato a conclusione: «Ecce dicit imperator Ego mundi dominus et tamen non refert se ad res in particulari, sed ad uniuersale imperium»45. Di Oldrado da Ponte sono noti e frequentati i consilia relativi al processo imperiale contro Roberto d’Angiò e alle questioni che queste vicende hanno suscitato, in particolare alla curia papale46, come pure quelli in cui affronta il tema dei rapporti tra cristiani, ebrei e islamici47.
38 39 40 41 42 43 44 45 46
Ibid., segn. F IIIr. Ibid. Ibid., segn. F IIIIr. Ibid., segn. F IIIIr. Ibid., segn. F IIIIv. Ibid., segn. F [6]r. Ibid., segn. F [7]r. Ibid., segn. F [8]r. E. Will, Die Gutachten des Oldradus de Ponte zum Prozess Heinrichs VII gegen Robert von Neapel Berlin-Leipzig 1917; K. Pennington, Henry VII and Robert of Naples, in Das Publikum politischer Theorie im 14. Jahrhundert, a cura di J. Miethke, München 1992, pp. 81-92. 47 N. Zacour, Jews and Saracens in the Consilia of Oldradus de Ponte, Toronto 1990.
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Meno noto48 un testo (il consilium 62) in cui il giurista lodigiano si rivolge a papa Giovanni XXII per fornirgli un parere sui provvedimenti sanzionatori che questi voleva adottare contro la chiesa romana, privandola di alcuni privilegi e benefici tradizionali al fine di punirla per il sostegno concesso da questa a Niccolò V (Pietro da Corbara). Oldrado da Ponte ricorda che «inter alias civitates et civitatem romanam magna est differentia», dato che la chiesa romana è stata la prima chiesa apostolica dell’occidente, posta in essere dalla stessa volontà del Signore. Un’altra strategia richiama motivazioni dell’opportunità politica, per cui risulta più efficace punire, anche duramente, «istos maledictos» che davvero favorirono l’antipapa, per i quali non resta altro che «repellere de illa sancta sede», piuttosto che colpire una comunità nel suo insieme. Nella stessa direzione va la sottolineatura del carattere controproducente rivestito senza dubbio da provvedimenti che «omnes italici qui magis sunt devoti ecclesie et guelphi omnes nimis dolent et scandalizantur», al punto che «guelphi et gibellini fient amici». Già sulla base della considerazione di autori e testi accennata nelle pagine che precedono, può essere possibile avanzare alcune considerazioni complessive che valgano, almeno in parte, da conclusioni, soprattutto da indicazioni o impegni per proseguire una ricerca, e quindi che risultano ancora da verificare. Tra gli ultimissimi anni del Duecento e i primi decenni del Trecento è la Chiesa, nei suoi centri e nelle sue molteplici ramificazioni, il potere che meglio intuisce l’opportunità di inserire l’attività degli intellettuali giuristi entro le proprie articolazioni, servendosene al fine di difendere i propri interessi (prevalentemente quelli di natura economica e finanziaria ma anche quelli relativi alla vita istituzionale) con gli strumenti delle teorie giuridiche. Si tratta di un impiego ancora non sistematico, che non giunge cioè a inserire stabilmente l’intellettuale giurista in quanto tale entro l’istituzione ecclesiastica49, ma che si fa via via più intenso. Altri centri di potere, laico (le signorie padane e toscane), non mancano di servirsi di questi stessi mezzi per corroborare il loro potere e definir-
48 Segnalato però da C. Valsecchi, Oldrado da Ponte e i suoi Consilia. Un’auctoritas del primo Trecento, Milano 2000, pp. 682-684; chi scrive è debitore a questa analisi. 49 Può non essere inutile segnalare come in quello stesso torno di tempo siano sempre di più gli ecclesiastici dotati di una formazione giuridica (canonistica ma non solo), e come questa sia sempre di più una chance per “fare carriera” - cfr. lo studio di Jürgen Miethke cit. supra, nota 1 - nella gerarchia ecclesiastica. Si tratta di aspetti diversi di un medesimo processo complessivo, culturale e istituzionale.
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ne i contenuti, ma ne fanno un impiego sporadico, ricorrendovi in casi di emergenza: qualora si verifichi una conflittualità aspra o venga messa in discussione la loro legittimità. Non è allora fuori luogo concludere affermando che i centri di potere emergenti (le signorie) nel primo Trecento trovano nella Chiesa, forse in particolare nelle strutture della monarchia papale, il modello efficace di gestione del potere, cui pare più opportuno rifarsi nella costruzione di un sistema coerente.
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La notizia dell’assegnazione di questo premio mi è giunta graditissima, e anche inattesa. Per me i premi non fioccano, dato che rifiuto di essere membro di giurie che assegnano premi letterari, e non concorro, e vieto al mio editore di farmi concorrere, ad alcun premio. Chiaro che, se una commissione, motu proprio, decide di darmi un riconoscimento, apprezzo ancora di più. E l’apprezzamento giunge al massimo se si tratta di un premio illustre come questo, lontano dalla mondanità e vicino alle persone e agli impegni scientifici della nostra ricerca quotidiana. Un premio è un invito a fare un esame di coscienza: meritavo o no di essere premiato? Certo, non c’è dubbio che io sia un medievista. Quanto valido in questo lavoro, lo dovrebbero giudicare gli altri. La bellissima motivazione scritta da Furio Brugnolo lo dice, oltre che con rara intelligenza, nei termini più lusinghieri, che però sono obbligati dal genere letterario: non poteva dichiarare di aver premiato un cattivo medievista. Quello che io so è che per il medio evo ho un amore molto precoce, in origine indirizzato piuttosto sull’arte, e in particolare sull’architettura, che non sulla letteratura. È una passione nata negli anni della guerra, quando cercavo di arricchire il mio sapere di tredicenne-quattordicenne sulle pagine dell’Enciclopedia Treccani. Copiavo piante di edifici, disegnavo facciate e prospettive, e quando andavo in bicicletta in siti artistici vicini a quello del mio sfollamento (Giaveno, Torino), come alla Sacra di san Michele o a Sant’Antonio di Ranverso (dove ci sono anche affreschi del Jaquerio, il grande pittore piemontese del Quattrocento), ammiravo con emozione. Santorre Debenedetti, mio prozio e mio primo maestro, che incominciai a frequentare a diciassette anni (morì quando ne avevo venti) non mi parlava di medio evo, mi ci immergeva però mettendomi a contatto con fotografie di manoscritti e di atti notarili, facendomi dattilografare i suoi articoli su Stefano Protonotaro e sui Memoriali bolognesi, guidando i miei spogli sull’uso dell’accusativo alla greca nelle lingue romanze o sulla lingua
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dei poeti del Duecento. Certo non era un medio evo con paraocchi: lo zio mi esortava anche a leggere Cervantes e Proust; e accolsi subito il consiglio. E del resto il suo medio evo era molto accogliente, se al suo termine si poteva in qualche modo mettere l’Ariosto, altro oggetto degli studi di Debenedetti, poi dei miei. Anche nei primi viaggi, in corriera, attraverso l’Italia liberata, cercavo soprattutto edifici e pitture medievali. Ricordo, molti più tardi, inizio degli anni Sessanta, un giro d’un mese per la Spagna, in macchina: avevo imposto ai miei compagni molto pazienti di trascurare tutto quanto si datava dopo il 1492. Un innocuo schiaffo alla Spagna controriformista e barocca! Anche quando incominciai a lavorare per me seriamente, rimasi a lungo fedele al medio evo, sempre col prolungamento ariostesco che ho detto: sintassi, volgarizzamenti, prosa del Duecento, Bono Giamboni, Ritmo cassinese (ebbi la ventura di scoprirne la fonte nella Collatio Alexandri regis cum Dindimo rege), e poi epica francese e Chanson de Roland, Richart de Fornival, Marie de France. Quanto a quest’ultima, mi piace ricordare che me l’aveva fatta amare Ferdinando Neri, con le sue lezioni di Letteratura francese all’Università di Torino. Ma insomma, superai poche volte il confine tra il mondo medievale e quello moderno e contemporaneo, con la felice, per me, eccezione di uno studio su Virgilio Giotti, richiestomi, quando insegnavo a Trieste, per non so quale anniversario del poeta. La passione per il moderno scoppiò poco dopo il 1960, quando, ormai titolare di Filologia Romanza a Pavia, accettai l’incarico di Letteratura spagnola. Fu per me una scoperta il piacere d’illustrare testi di autori dal Cinque al Novecento, come Garcilaso e Cervantes e Quevedo e Góngora, o come i novecenteschi Juan Ramón Jiménez, Antonio Machado, Pedro Salinas, García Lorca. Fu la scoperta di uno spazio che non seppi più abbandonare. Ne vennero tra l’altro lavori su Garcilaso e su Machado e sul Romancero di cui non sono scontento. Si aggiunga che nel 1963 incominciavo a preparare quell’inchiesta su Strutturalismo e critica, uscita nel 1965, che fu uno dei primi squilli dei metodi strutturalistici nella critica italiana. Da allora la mia attività principale fu quella del teorico della letteratura, impegnato a elaborare un pensiero che, sia pure sulla base delle tesi di Praga del ’27 e delle recenti proposte di Jakobson e di Lévi-Strauss (più che dei Barthes, delle Kristeva, dei Todorov, ecc.), traducesse in termini di storia e di filologia le nuove teorie. La decina di volumi di teoria letteraria che pubblicai nei “Paperbacks” di Einaudi sono un po’ la storia di questa attività. Quel mio impegno si svolgeva in parte sul piano teorico; ma amavo, anche coerentemente col mio pensiero, sperimentare e sviluppare le nuove proposte critiche sui testi. E, per motivi che mi sarebbe difficile spiegare,
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scelsi di rado testi medievali, come il Novellino, il Decameron o la Fiammetta, recentemente il Canzoniere di Petrarca, ma più spesso autori moderni e contemporanei, come Lope de Vega, Corneille e Shakespeare, Machado e Beckett, Pirandello, García Márquez e Saba, Montale e Calvino. Uscivo persino dall’ampia area romanza per studiare la logica dell’assurdo di Kafka e Freud narratore. Spero che questi frequenti abbandoni del medioevo non inducano la Commissione giudicatrice di questo premio a sconfessare la sua decisione a mio favore. Posso dire a mia discolpa che anche dopo la mia polarizzazione in senso semiotico ho scritto vari lavori di puro medievismo, come la trattazione sistematica sulla letteratura didattica medievale, gli studi sulla Chanson de Roland, di cui preparai l’edizione (pubblicata due volte con criteri diversi), e su testi provenzali e spagnoli connessi; e poi ancora sulle Folies e sul Roman de Tristan, e altre cose. Insomma, il volume del mio settantennio, Ecdotica e comparatistica romanze, e quello che sto preparando (Esercitazioni filologiche) sono forse tali da lasciarmi ancora definire un medievista. Voglio solo aggiungere che, come il mio amico d’Arco Silvio Avalle, ho sempre considerato vicine e interconnesse le attività svolte in campo filologico e in campo strutturalistico. È strutturalistico il concetto di diasistema, che ho trasportato in campo ecdotico con l’approvazione di grecisti e latinisti non solo italiani, e che ormai è entrato nell’uso; è strutturalistico il concetto di sistema, che sorregge la mia edizione “stereoscopica” della Chanson de Roland. È viceversa frutto di una lunga esperienza ermeneutica la proposta di definire interdiscorsivi fenomeni di rapporti fra testi prodotti non da intertestualità esplicita, ma dalla circolazione di temi e sintagmi entro precisi ambienti linguistico-culturali. Insomma, ho davvero meritato questo premio? Vorrei esserne certo, ma ho qualche dubbio. Il primo dipende da questo: ho avuto tra i maestri Santorre Debenedetti, Benvenuto Terracini, Gianfranco Contini, Roman O. Jakobson. Una grande fortuna, ma anche un obbligo difficilmente sostenibile. Da tali e tanti maestri, avrebbe dovuto venir fuori qualche cosa di straordinario, e non penso di esserlo. Sono loro che avrebbero meritato questo premio, e molti altri. Un altro dubbio è anche una confessione. Il mio lavoro, di medievista e di teorico, mi diverte; io fatico tutti i giorni, se possibile anche quelli festivi, anche durante le vacanze; ma non c’è nessun merito, perché ne traggo continui piaceri. Al visitatore che, trovandolo nel suo studio alla scrivania, gli disse una volta: “Maestro, sta sempre lavorando?”, Spitzer, secondo un aneddoto narrato da Salinas, rispose: “No, al contrario: sempre godendo”. Da questo dipende anche la mia volubilità di studioso: mi fermo sempre quando la mia attività su un tema o su un autore incomin-
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cia a diventare routine. Non per nulla amo certe sentenze di Pessoa, che diceva: “Uno specialista è un uomo che sa qualche cosa di una cosa e nulla di tutte le cose”; ma proseguiva: “Di una cosa si può soltanto sapere qualche cosa, poiché la conoscenza umana è limitata. E per intendere qualche cosa sarebbe necessario intendere tutte le cose, del resto una cosa è parte di tutte le cose”. Ebbene, lo confesso: non intendo tutte le cose, ma cerco di intenderne il più possibile. E infatti, da un po’ di tempo ho scelto un altro, diverso campo di ricerca: mi occupo, sempre da un punto di vista teorico, del linguaggio della pittura, tornando ai miei interessi di ragazzo. Forse ho esagerato con la mia impudenza. Queste mie confessioni non sembrano confacenti a chi da anni predica l’eticità della letteratura. L’etica che ispira la mia filologia è dunque un’etica edonistica? State tranquilli, non arrivo a tanto. Al contrario, io tengo presente, sempre, la funzione cognitiva della letteratura, e quella cognitiva del lavoro filologico, che per allargare le nostre conoscenze usa soprattutto uno strumento, la critica. La critica sconfessa gli errori, conferma le verità. E se le cose stanno così, quale piacere maggiore che quello di scoprire il vero? Grazie ancora alla Commissione e a tutti. Cesare Segre
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ASCOLI PICENO Archivio di Stato Archivio Storico del Comune di Ascoli Archivio Segreto Anzianale, E.I.1, 206 Archivio Segreto Anzianale, G.I.3, 212
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Monastero di S. Angelo Magno, 213 Cass. II, n. 1, Tomo I, Scrittura IV, 215 Cass. II, n. 2, Tomo I, Scrittura V, 215 Cass. II, n. 9, Tomo I, Scrittura XII, 214 Cass. IV, n. 22, Tomo I, Scrittura LXXIV, 214 Cass. IV, n. 27, Tomo I, Scrittura LXXVIII, 214 Cass. V, n. 1, Tomo I, Scrittura CVIII, 214 Cass. V, n. 13. Tomo I, Scrittura CIV, 214 Cass. VI, n. 1, Tomo I, Scrittura CXXIII, 214 Cass. VIII, n. 16, Tomo I, Scrittura, CCXV, 214 Cass. VIII, n. 30, Tomo I, Scrittura, CCXXIX, 214 Biblioteca Comunale ms. 5, 100, 101
BERGAMO
Biblioteca civica “Angelo Mai” Taccuino di disegni di Giovannino de Grassi, 82, 83, 84
BERLIN
Kupferstichkabinett Hamilton 138, 73
BOLOGNA
Archivio di Stato Archivi Privati Archivio della famiglia Malvezzi-Campeggi busta 97/757, Statuti di Dozza, 269
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Archivio Notarile 6/9, Tommaso Guglielmi, protocollo, 1, 272
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Capitano del Popolo Venticinque busta 7 Cappella di Santa Caterina di Saragozza registro dell’anno 1328, 250 registro dell’anno 1330, 250 registro dell’anno 1333, 250 Cappella di San Barbaziano registro 1328, 250, 275 registro 1329, 250 registro 1330, 250 registro 1331, 250 registro 1332, 250 registro 1333, 250 registro 1334, 250 busta 16, 250
Comune – Governo Censimento Porta Procola, cappella di Santa Isaia del 1320, 250 Curia del podestà Giudici ad maleficia Accusationes Registro XIX del 1310, 260 Libri inquisitionum et testium busta 112, registro 1, 242 busta 115, registro 1 del 1325, 260 Demaniale San Francesco busta 36/4168, 250 busta 38/4170, 253 busta 42/4174, 250 busta 46/4178, 250 busta 47/4179, 250 Santi Leonardo e Orsola busta 82/3324, 267
Ufficio acque, strade e fanghi busta 17, registro 1, 247 Ufficio dei Memoriali volume 137, 250
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volume 147, 250 volume 149, 250 volume 150, 250 Ufficio dei Riformatori degli Estimi serie I, Registro di Porta Procola del 1308, Santa Isaia, 250 serie II, busta 16, Santa Isaia, 250 busta 66, 250 busta 117, 250
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Biblioteca Universitaria ms. 4307/I, 264 ms. 448, 267 ms. 770, vol. II, 266 ms. 1413, 264 ms. 2136/C, 264 ms. 3568, 73 ms. Gozzadini 121, vol. X, 265 ms. Gozzadini 122, vol. XI, 265
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Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio Archivio degli Ospedali Arciconfraternita e Ospedale di Santa Maria delle Laudi ms. 71-72-73, 262 carte Mazzoni Toselli, busta III, 256 carte Tommaso Casini, cartone XVIII, 270 ms. 16 E.IV.26, 242, 243, 246
CHIETI
Archivio Arcivescovile Teate 158, 223 Inventario, s.c., 223
CITTÀ DEL VATICANO
Archivio Segreto Vaticano Reg. Vat. 76, 223
Biblioteca Apostolica Vaticana Barb. Lat. 4050, 100, 101 Ottobon. Lat. 683, 160 Ottobon. Lat. 1552, 164
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Palat. Lat. 949, 160 Urb. 697, 34, 74 Vat. Lat. 7134, 93 FIRENZE Archivio di Stato Guardaroba Medicea, 28, 92, 93 Mediceo avanti il Principato, filza 87, 93
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Biblioteca Medicea Laurenziana Acquisti e doni 222, 99 Acquisti e doni 757, 99 Ashb. 370, 73, 99, 100, 101 Ashb. 1223, 99 Ashb. 1225, 99 Ashb. 1374, 73 Ashb. 1724, 99 Plut. 40.51, 99 Plut. 40.52, 69, 70, 71, 73, 87, 89, 90, 91, 92, 95, 99, 100, 101, 102 Plut. 41.2, 99 Plut. 41.39, 99 Plut. 78.23, 99 Plut. 89 sup. 111, 99, 101 Redi 217, 97 Archivio storico, Filza di affari riguardanti la Laurenziana e Marucelliana 1819-1822, n. 42, 98 Archivio storico, Plut. 92 sup. 94a, 93, 94 Biblioteca Nazionale Centrale cod. II-III.214, 120 Magl. II-III 308, 268 Magl. 3, XVI, 268 Magl. 459, 158 Magl. 556, 159 Pal. 548, 64, 66 Fondo Principale, II 165, 192 168, 192, 197 Fondo Principale II, IV 321, 192, 197, 199 322, 192, 197 331, 192 382, 192, 197 Libro d’ore Visconti BR 397, 77, 78, 79
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Biblioteca Riccardiana cod. 673, 159, 220, 235 cod. 946, 268 cod. 1103, 16 cod. 1895, 159
British Library Egerton 2020, 82 Harley 3577, 74 Sloane 3850, 121, 131
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MILANO
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LONDON
Biblioteca Ambrosiana B 156 sup., 73 V 13 sup., 73, 100, 101 Biblioteca Trivulziana ms. 1020, 74 ms. 1021, 73, 74
MÜNCHEN
Bayerische Staatsbibliothek Clm 849, 120, 121 Clm 14687, 158
OXFORD
Bodleian Library Rawlinson D 252, 121 Taylor Institution Arch. 1 e 8, 100, 101
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PARIS Bibliothèque Nationale de France Fr. 343, 79 It. 579, 55, 67, 73, 100, 101 It. 1524, 121 Lat. 757, 79 Lat. 7337, 106, 108, 122, 123
Biblioteca Palatina cod. 984, 165
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PERUGIA
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PARMA
Biblioteca Comunale Augusta 163 (C46), 100
ROMA
Biblioteca Casanatense ms. 82, 99 ms. 459, 82 ms. 1533, 100
TRIER
Stadtbibliothek ms. 2285/2226 (già Roma, Bibl. Boncompagni, 289), 16
VENEZIA Biblioteca Nazionale Marciana It. IX 276, 91 Lat. XIV 223, 37
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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VERONA Archivio di Stato Archivietti privati, Maffei, busta 1, dipl., 1, 299 WIEN
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Österreichische Nationalbibliothek ms. 2608, 74
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Avvertenza
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Il lemma Cecco d’Ascoli (Stabili Francesco e analoghi) non è stato indicizzato per la sua frequenza. Autori e personaggi sino al sec. XVI sono indicizzati in forma italiana a partire dal nome, tranne nel caso in cui i nomi di famiglia siano già consolidati o entrati nell’uso. Alcuni nomi di persona sono stati lasciati nella forma latina che si trova in documenti citati in nota o editi in appendice. Nel caso di nomi di frati sono state indicate le sigle degli ordini religiosi di appartenenza. Autori moderni e contemporanei sono indicizzati per cognome. Sono state segnalate in corsivo le pagine iniziale e finale dei nomi degli autori dei saggi compresi in questi Atti. Nell’indice sono utilizzate le seguenti abbreviazioni:
Abate=ab. Bibliotecario=bib. Cancelliere= canc. Capitano=cap. Cappella=capp. Cardinale=card. Cartolaio=cart. Commissario=com. Convento=conv. Cronista=cron. Famiglia=fam. Figlio/a= f. Filosofo=fil. Generale=gen. Giudice=giud. Grammatico=gram. Imperatore=imp. Inquisitore=inquis. Legato=leg.
Lettore=let. Maestro/magister=m. Marchese=march. Medico=med. Ministro=min. Monastero=mon. Notaio= not. Padre=p. Parrocchia=par. Podestà=pod. Pontificio=pont. Professore=prof. Rettore=ret. Tipografo=tip. Vedi=v. Vicario=vic.
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Alfragano, 164, 187 Alighieri Dante 10, 16, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 25, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 91, 136, 137, 138, 144, 146, 151, 164, 195, 253, 254, 255, 256, 258, 262, 263, 264, 266, 268, 269 Alighieri Iacopo, 47, 261 Alighieri Pietro, 32, 48 Allamania, v. Coradus Allegretti Jacopo, 136 Allerari Graziolo, ret. della chiesa di S. Lorenzo di Bologna, 262 Alessio, v. Nicoletto Allevi F., 136 Almansor, 164 Almenon, 148, 164 Alpetragio, 145, 164, 246 Alpi, 155 Altichiero da Zevio, pittore, 72 Altopascio (LU), 193, 220 Amandola (AP), 205 Amatrice (RI), 230 Amelia (TR), 206 Ancarano (TE), 203, 204 Ancona, 209, 312 Marca, 205, 206, 207, 208, 209, 211, 212, 267 Andrea Cappellano, 22 Andrea da Forlì, stud., 256 Andrea da Gagliano, OFM, 225, 226, 227, 228, 229 Andreatta A., 283 Andreola Francesco, tip., 98 Angelin R., 73 Angelo d’Arezzo, prof. a Bologna, 190, 242, 243, 244, 246, 247, 256, 261, 262, 266 Angelo da Montolmo, 151 Angiò, v. Carlo, Giovanna, Roberto Angioini, fam., 205, 207, 211, 222, 229, 237 Angiolieri Cecco, 24, 43 Anglico Bartolomeo, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 81. 85 Anglico Roberto, 107
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Abano, v. Pietro Abate di Tivoli, 260 Abel E., 57 Abliton, 113 Abruzzo, 228, 237 Adamo, 77 Adigheri Gerardo, 250 Adimari, fam., 95 Adimari Mauro, f. di Umberto, 95 Adimari Umberto, 95 Agostino da Ascoli, OSA, 10 Agostino d’Ippona, 16 Agrimi J., 179 Aisne, 232 Alba (CN), 221, 223, 230, 237 e v. Raimondo Alberico da Marcellise, not. e canc., 295 Alberico da Rosciate, 313 Albertazzi M., 20, 30, 55, 60, 63, 64, 67, 68, 71, 96, 99, 100, 101, 109, 135, 137, 159, 172, 203, 268 Alberti Vittori M., 74, 204 Alberto da Bologna, m., 234, 235, 262 Alberto Magno, Alberto il Grande, 64, 109, 125, 126, 141, 142, 147, 161, 163, 164, 165, 166, 170, 174, 175, 176, 177 Albertus, 276 Albertus de Belvixiis, frater, 276 Albertus de Romancis, 275 Albini G., 299 Albornoz Egidio (Gil), card., 207 Albumasar, 164, 170 al-Cabiti Abdel Aziz , 60, 61, 62, 123, 124, 157, 160, 176, 187, 190, 191, 203, 243, 248, 253, 254, 259 al-Kindi, 108, 164, 165 Alderotti Taddeo, prof. a Bologna, 178, 247, 258 Alessandria, v. Benzo Alessandrini M., 232 Alessandro, vesc. di Chieti, 223 Alessandro IV (Rinaldo di Jenne), papa, 234 Alexander Magnus, 170 Alfonso X el Sabio, re di Castiglia, 74
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Ascoli Piceno, 9, 10, 11, 12, 97, 98, 100, 201, 203, 204, 205, 206, 208, 209, 210, 211, 212, 215, 216, 235, 267 e v. anche Enoch diocesi, 204, 216 Palazzo del Popolo, 216 S. Angelo Magno, mon., 211, 215 Ascoli Satriano (FG), 204 Assisi (PG), 98, 206, 221, 312 Basilica di S. Francesco, 221 Astafon, 108, 109, 164 Augsburg, 160 Aurigemma M., 36 Austria, v. Asburgo Avalle Silvio d’A., 325 Avanzi Iacopo, 72 Averroè, 143, 144, 145, 146 Aversa (CE), 224, 227, 230, 237, 265 e v. anche Raimondo diocesi, 221 Avesani R., 300 Avicenna, 64, 126, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 164, 173, 176, 177, 179, 247, 248 Avignone, 156, 196, 225, 226, 227, 229, 233, 311 Avril F., 79 Azario Pietro, not., canc. e cron., 297 Azzo, f. di Domenico, doctor notarie, 262 Azzo, f. di Stabilis, 214
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Anselmi Giorgio da Parma, 128 Antonelli A., 33, 239-276, 260, 263, 272 Antonelli R., 13-25, 15, 17, 20 Antonelli Sebastiano, 266 Antonia de Lago, f. di Bartolomeo e moglie di Adigheri Gerardo, 250 Antonio, f. di m. Giordano, 262 Antonio da Legnago, not. e canc., 295 Antonio da Montolmo, 121, 122, 123, 128 Antonio da Parma, prof. a Bologna, 257 Antonio de Madiis, stud., 262 Apice (BN), 223 Apollonio di Tiana, 105, 106, 109, 117, 121, 125, 164 Appiani Paolo Antonio, 97, 98 Appignano (AP), castello, 212 Aquila, 98, 225, 226, 230 Aquileia (UD), 292 Aquino, v. Tommaso Aquitania, 226 Arabia, 62 Aragona, 161 Arduini F., 89, 90, 92 Arezzo, 220, 236, 253 e v. Angelo, Fei Giovanni, Guittone e Restoro Argelis, v. Franciscus e Gandulfus Ariano (AV), 223 Ariosto Ludovico, 324 Aristotele, 10, 64, 126, 144, 145, 147, 164, 174, 176, 177, 178, 190, 242, 246, 283 Arnold K., 158, 160, 161, 162, 163, 164, 165 Arquà (PD), 264 Arrighi, V., 306 Arrigo VII, v. Enrico VII Artifoni E., 283 Artusini Bartolomeo, f. di Francesco, not., 262 Artusini Francesco, 262 Artusius de Bixano, 262 Asburgo (d’) Alberto II, duca d’Austria, 56 Asburgo (d’) Rodolfo, re dei romani, 208 Ascheri M., 305, 311
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Bacchelli F., 248 Bacone Ruggero, 170 Baldini A.E., 283 Baldini Baccio, med., 94 Baldissin Molli G., 34, 82 Baldoinus de Baldoinis, 276 Baldoinus de Baldoinis, f. di Philipus, 276 Baldoinus de Baldoinis, f. di Baldoinus, 276 Balduino A., 29 Balducci A., 223 Bambaglioli, fam., 256, 262 Bambaglioli Graziolo, canc. del comune di Bologna, 32, 33, 254, 255, 256, 262 Bandini Angelo Maria, 93, 94, 96, 98
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Belvisi Iacobo, f. di Guido, prof. a Bologna, 253 Belvisi Rolandino, f. di Guido, prof. a Bologna, 253 Bencevene, f. di Rolandus, 276 Bendoni Benedetto, tip., 97 Benedetti R., 82 Benedetto XII (Jacques Fournier), papa, 228 Benedetto da Cesena, 47 Benevento, 223 Benjamin W., 285 Benvenutus, p. di Johannes, 276 Beneventus, priore del mon. di S. Leonardo al Volubrio, 205 Bentivogli B., 30 Benvenuta di Zola, f. di Inghilgheri, moglie di Bartolomeo de Lago, 250 Benvenutus, p. di Bitinus, 275 Benvenutus, p. di Jacobus, 276 Bençevenne, f. di Micael, piliçarius, 275 Benzo d’Alessandria, canc. scaligero, 294 Berardenga (SI), San Salvatore, mon., 312 Bergamo, 83, 84, 193 e v. anche Bonagrazia Berinzum, v. Bonafine e Ivano Berisso M., 21, 53-68, 58, 85 Berna, 66 Bernard of Trilia, 107 Bernardo da Raiano, 223 Bernardo de Canozzo, 34 Bernini D., 98 Bertholameus de Guisilieriis, 275 Bertholinus de Orelis, 275 Bertolinus de Pulis, f. di Martinus, 275 Bertolomeus de Bonacaptis, 276 Bertoluccio, m., 262 Bertolucius, f. di Bondus, m., 247, 261 Bertrand de Tour, OFM, card., 226, 227, 228, 229 Bettarini R., 18 Bettini S., 72, 81 Bevere R., 223, 224, 230, 233 Bianca C., 46 Bianchi L., 179 Biard J., 75
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Barberino (FI), v. Francesco Barcellona, 224 Bari, 237 Bariola F., 96, 97, 98, 159 Baron, 276 Baron H., 298, 300 Barone N., 225, 231 Barthes R., 324 Bartocci G., 99, 204, 213, 214, 215 Bartoli Langeli A., 206, 212, 226, 291, 293, 299, 300 Bartolo da Sassoferrato, 307 Bartolomeo da Parma, prof. a Bologna, 186, 190 Bartolomeo da S. Cecilia, v. Lando Bartolomeo Bartolomeo da Varignana, m., 262 Bartolomeo de Lago, f. di Jacobus, 250, 262, 276 Bartolomeo de Tamaraciis, f. di Ugolinus, not., 270 Bassano, v. Castellano Battaglia S., 44 Battaglia Ricci L., 43 Battelli G., 55 Baumgärtner I., 305 Bazzano (BO), 270 Beaujouan G., 107 Beccari Antonio, 42 Beccaria A., 99, 170, 203, 204, 205, 214, 216, 220, 235, Beccarisi A., 133-151 Beckett S., 325 Belcalzer Vivaldo, 57 Belendinus Jacobus, f. di Petrusçolus, 276 Belendinus Petrusçolus, 276 Bellomo S., 33, 34, 49, 256 Belloni L., 176 Bellucci Laura, 42 Belvisi, fam., 253 Belvisi Benvenuto, f. di Guido, m., 253, 262 Belvisi Bertoluccio, f. di Albertus, 253, 276 Belvisi Guida, 253 Belvisi Guido, prof. a Bologna, 253
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
S. Martino dei Caccianemici, capp. e par., 242, 247, 257, 274 S. Salvatore, capp., chiesa e par., 247, 253, 262, 274 S. Tommaso del Mercato di Mezzo, chiesa, 263 Seralium Barbarie, 250 Studio, Università, 33, 71, 75, 155, 169, 173, 179, 185, 189, 242, 243, 244, 246, 251, 253, 256, 258, 261, 263, 265, 266, 274, 313 Bolognitus, 275 Bonacaptus, 276 Bonacursius, 275 Bonagrazia da Bergamo, 226, 228 Bonaini F., 189 Bonatti Guido, prof. a Bologna, 185, 186, 188, 190, 191 Bonaventura de Lago, f. di Jacobus, 250 Bondus, 247 Bonfantini Accursio, OFM, inquis. in Tuscia, 46, 49, 185, 194, 196, 198, 220, 221, 232, 233, 234, 235, 244 Bonfitto G., 220 Bongiovanni, vesc. di Ascoli, 213 Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 208 Bonifatius de Giacanis, 260 Bònoli F., 185 Borella D’Alberti, A., 91 Borgia S., 223 Borselli Girolamo, OP, inquis., 264 Bottari G., 300 Bottrigari Jacopo, 310, 314 Bovi Bonincontro, not., 296 Boudet J.-P., 105, 114, 119, 120, 121, 128, 139 Boureau A., 128, 151 Boyde P., 37, 136, 258 Brancazzoli Giovanni, 314 Bracelli Antonio, 290 Brea López M., 261 Bremmer J., 118 Bresc H., 119, 139 Brescia, 96, 97 e v. anche Iacobo Bressanone (BZ), 292
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Bieler L., 137 Billanovich Gius., 258, 294 Biscaro G., 46, 196, 198 Biscioni A. M., 94 Bitinus, 275 Bitinus, f. di Benvenutus, calçolarius, 275 Bixanum, v. Artusius e Gulielmus Black A., 282 Bloch M., 11 Blumenthal U.-R., 206 Boccaccio Giovanni, 44, 253, 254, 255, 262 Boemia, v. Venceslao Boese H., 166 Boezio di Dacia, 137, 151, 246 Boffito G., 60, 76, 106, 107, 109, 127, 135, 140, 145, 148, 149, 164, 165, 169, 191, 243, 244, 247, 248, 251, 252, 253, 254, 255, 259 Bollati M., 79 Bologna, 29, 32, 33, 49, 71, 76, 97, 98, 106, 127, 138, 157, 169, 173, 179, 185, 186, 188, 191, 193, 194, 195, 198, 220, 232, 234, 235, 239, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 251, 252, 253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 266, 267, 269, 270, 313 e v. anche Onesto Borgo della Nosadella, borgo, 250, 262 Ospedale della Società, ospedale, 262 Porta Nuova, porta, 254, 274 S. Antolino, Antonino, di Porta Nuova, capp. e par., 247, 256, 274 S. Barbaziano, capp. e par., 242, 250, 253, 256, 261, 262, 274, 275 S. Caterina di Saragozza, par., 250 S. Domenico, conv., 264 S. Francesco, conv. e chiesa, 251, 256, 261, 274 S. Isaia, capp. e par., 250, 253, 256, 261, 262, 274 S. Lorenzo, chiesa, 262 S. Margherita, capp. E chiesa, 242, 251, 252, 274 S. Maria delle Laudi, confraternita, 261
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Canning J., 286 Canobbio E., 221, 237 Canozzo, v. Bernardo Canzian D., 299 Capitani O., 207 Capodistria, v. Daniele e Giovanni Cappi D., 65 Caracciolo Francesco, OFM, prof. a Parigi, 246 Caracosa de Lago, f. di Giovanni, 250 Carcasson, 234 Carducci G., 34, 46, 270, 271 Caresini Raffaino, cron., 296 Carlo II d’Angiò, re di Napoli, 229 Carlo IV, imp., 307 Carlo VIII, re di Francia, 93 Carlo d’Angiò, duca di Calabria e sig. di Firenze, 98, 158, 171, 194, 195, 196, 197, 217, 220, 221, 222, 223, 224, 230, 231, 232, 233, 236, 251 Carmody F. J., 108 Carocci S., 207 Caroldo Gian Giacomo, 37 Caroti S., 118, 139, 150, 163 Carrara (da), fam., 80, 91 Carrara (da) Francesco I il Vecchio, sig. di Padova, 296, 297 Carrara (da) Francesco II Novello, sig. di Padova, 82 Carraresi, v. Carrara (da) Carruthers M., 77 Casapullo R., 57 Caserta, 223 Casini T., 270, 271 Castagnetti A., 300 Castellano da Bassano, 247 Castelli G., 34 Castelnuovo G., 300 Castiglia, 75 Castiglionchio, v. Lapo Castracane, v. Castruccio Castorano (AP), 215 S. Maria di Lanciacuta, chiesa, 213, 215 S. Massimo, chiesa, 213 Castronuovo (AQ), 222, 230 Castruccio Castracani de Luca, f. di Ge-
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Brévart F.B., 166 Britius de Cerveleris, f. di Çunta, m., 262 Brocardino, 205 Brugnolo F., 12, 36, 38, 43, 259, 323 Brunet J.C., 98 Bruschi C., 233, 234, 237 Buironfosse, 232 Buonagrazia da Bergamo, v. Bonagrazia Buonarroti Michelangelo, 93, 94 Buonfine Anonio, 266 Burnett C., 107 Burnett Ch., 123 Burnett C. S. F., 118 Buvalellus, p. di Graciolus, 275 Buvalellus, p. di Petrus, 275
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Cadeneto, v. Pietro Caggese R., 189 Caiazzo I., 105 Caiozzo A., 119 Calabria, 11, 31, 98, 158, 171, 194, 196, 217, 220, 221, 222, 223, 225, 230, 228, 237, 265 Calasso F., 309 Calcagnus, v. Tomaxinus Calderini Gaspare, 312 Calderini Giovanni, 310, 312, 313 Calenda C., 43 Calilli E., 12 Calvi Pellegrino, canc., 297 Calvi Zilio, not., 295 Calvino I., 325 Cameli M., 201-216, 206, 208, 209, 210, 211 Camino (da) Gherardo, sig. di Treviso, 291 Camino (da) Rizardo, sig. di Treviso, 291 Cammarosano P., 300 Camogli, v. Nicola e Prospero Campana A., 160 Campiégne, 227 Campomorto (MI), 79 Camuffo M.L., 260 Camugnano (BO), Bargi, frazione, 272 Canedole (MN), 295
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Cogliati Arano L., 72, 73, 91 Coglievina L., 43 Colini-Baldeschi E., 194, 242, 244, 257 Colli V., 310 Collodo S., 298, 300 Colocci A., 204 Colonna, fam., 29 Conetti M., 285, 301-317, 313 Contini G., 99, 325 Conversini Giovanni da Ravenna, 253, 296 Copenhaver B. P., 118, 124 Coradus de Allamania de Stupa, 275 Corbara, v. Pietro Corbin H., 119 Corneille Pierre, 325 Corrado di Megenberg, 153, 155, 156, 157, 158, 160, 161, 162, 165, 166 Corradus, f. di Iohannes, not. di Bologna, 260 Corti M., 55 Cosenza, 219 Costa P., 282, 285, 286 Costantini A.M., 260 Cracco G., 210 Cremona, 98 e v. anche Gerardo e Jacobus Crespi A., 55, 100, 269 Crisciani C., 179, 180 Cristiani Filippo, 262 Cristiani Giacomo, f. di Filippo, med., 262 Cristiani Lorenzo, f. di Giacomo, med., 262 Cristoforo de Honestis, doctor artium e phylosophie, 256 Crocetti G., 205 Crocioni Giovanni, 32 Cumino Adenolfo, 225 Curry P., 187
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rius de Anterminellis, 159, 193, 198, 220, 221, 230, 231, 233, 236, 291, 313 Castrum Berni, 233 Castrum Ceresie, 214 Castrum Galliani, 225 Castrum Navi, 225 Catenazzi F., 259 Cavalcanti Guido, 19, 22, 24, 257, 259, 260, 262, 266 Cavazza S., 299 Cavazza F., 262 Celestino III (Giacinto Bobone), papa, 206 Celestino V (Pietro del Morrone), papa, 208 Celle, v. Dalle Celle e Ugolino Censori B., 36, 55, 67, 96, 99, 100, 135, 136, 138, 160, 204 Cento, v. Nicola Centauro, 261 Cerea, v. Parisio Cerniti Pietro, prof. a Bologna, 266 Cervantes Saavedra Miguel, 324 Cesena, v. Benedetto, Michele e Uberto Cessum, v. Petrus Cettoli A., 136, 144, 204 Ceva (CN), 221 Chiantini M., 305 Chieti, 221, 222, 223, 226, 227, 237 Chiusi (SI), 312 Chittolini G., 306 Ciaffardoni C., 211 Cian V., 31 Cicerone Marco Tullio, 267 Cingoli (MC), 220 e v. anche Gentile, Lamberto Cino da Pistoia, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 29, 43, 45, 195, 244, 254, 258, 260, 262 Ciociola C., 15, 31, 32, 49, 71, 96, 99, 100, 135, 136, 137, 241, 257, 269, 270, 273 Ciotti L., 211, 212 Cipro, 62 CittĂ di Castello (PG), 220 Clemente VII (Giulio deâ&#x20AC;&#x2122; Medici), papa, 93
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Da Moglio, fam., 253 Da Moglio Francesco, 253 Da Moglio Giovanni, f. di Francesco, med. e fil., 253 Da Moglio Pietro, m., 253
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Del Poggetto Bertrando, card., leg. pont. e sig. di Bologna, 193, 194, 255, 256 Del Virgilio, v. Giovanni Denifle H., 188 De Robertis Domenico, 16, 32, 43, 48 De Rosa G., 210 Di Meglio, R., 229 Di Pino G., 261 Dignitas, 276 Dinus, 276 Dino del Mugello, 310 Dolcini C., 281, 282, 283, 304, 308 Dombart B., 116 Domdideus, f. di Johannes, fornarius, 276 Domenico, 262 Domenico da San Gimignano, 312 Domenico de Lago, f. di Giovanni, 250 Domínguez Rodríguez A., 75 Dondarini R., 194 Dondus, f. di Johannes, fornarius, 276 Dozza (BO), castello, 269 Droandi E., 221 Ducius, 275 Duèse Jacques, v. Giovanni XXII Dulcini Guglielmo, nunzio apostolico, 233 Dunbabin J., 285, 286 Dupré Theseider E., 193 Duso E. M., 27-51, 34, 36, 263
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Da Polenta Guido, cap. del popolo di Bologna, 261 Da Tempo Antonio, 67 Dacia, v. Boezio, Pietro Dal Garbo, v. Del Garbo Dal Lacho Lixe,177, 249, 250 Dal Lago, fam., 250, 253 Dal Lago Bolnixia, f. di Giovanni, 250 Dal Lago Giovanni, f. di Jacobus, 250 Dal Lago Jacobo, 250 Dal Lago Lucia, f. di Jacobo, 250 Dalla Tuata Fileno, 264 Dalle Celle Giovanni, 44 Damone, 49 Daniele da Capodistria, m., 267 Danielis, 247 Davidsohn R., 196, 198, 230, 231, 232, 235, 236 Debenedetti S., 323, 324, 325 De Ferrari, A., 257 Dei Andrea, stud., 262 Delaito Giacomo, not. e cron., 297 De la Vega Garcilaso, 324 Del Balzo C., 34 Del Fuoco M.G., 217-237, 221, 223 Del Garbo Bruno, 265 Del Garbo Dino, f. di Bruno, med. e fil., 33, 98, 179, 232, 247, 257, 258, 259, 265 Del Garbo Tomaso, med., 265, 266 Della Faggiola Uguccione, 220 Della Lana Jacopo, 33, 34 Della Pugliola Bartolomeo, OFM, 263 Della Scala, fam., 193, 294, 296 Della Scala Alberto I, sig. di Verona, 293 Della Scala Alboino, f. di Alberto I, sig. di Verona, 293 Della Scala Antonio, 297 Della Scala Bartolomeo, f. di Alberto I, sig. di Verona, 293 Della Scala Cangrande I, sig. di Verona, vic. imperiale, 37, 293, 294 Della Scala Mastino II, sig. di Verona, 269 Delli Egidio, stud., 262 Del Monte M., 222
Eco U., 23 Edoardo III, re Inghilterra, 232 Egidi F., 19 Egidio Romano, OSA 175, 176 Eichstätt, 155 Elia, OFM, 267 Emilia, 298 Enoch d’Ascoli, 204 Enrico II, conte di Gorizia e di Tirolo, 292 Enrico VII di Lussemburgo, imp., 307 Enrico de Laude, 262 Erfurt, 155, 156, 163 Ericus, 275 Ermete, 164, 192
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106, 124, 127, 138, 158, 159, 170, 193, 195, 197, 198, 219, 220, 221, 223, 224, 230, 231, 234, 235, 236, 237, 251, 252, 257, 258, 259, 263, 264, 265, 266, 289, 298 Accademia degli Umidi, 92 Accademia Fiorentina, 92 Biblioteca Magliabechiana, 92 Biblioteca Medicea Laurenziana, 89, 90, 92, 94, 95 Biblioteca Medicea Palatina Lotaringia, 92 Biblioteca Nazionale Centrale, 92 Conv. di S.Marco, 93 Conv. di S. Salvatore a Pinti, 97 Palazzo Medici, 93 S. Croce, chiesa, 232 S. Lorenzo, basilica, 93 Via Larga, 93 Firpo L., 309 Fliche A., 206 Folena G., 36, 37, 72 Foligno, v. Guido Folkerts M., 118 Forlì, 297 e v. anche Andrea e Rainiero Fournival, v. Richart Fortunato B., 264 Foscarini M., 37 Fossacesia (CH), 223 Foucault M., 282 Francesca, f. di Guiscardo e moglie di Jacobus de Lago, 250 Francesco, prof. a Bologna, 242, 267 Francesco, f. di Cecco d’Ascoli, 244 Francesco da Barberino, 76 Francesco da Fiano, 253 Francesco da Lucca, m., 262 Francesco de Lago, f. di Bartolomeo, 250, 262, 276 Francesco della Marca, 246 Franchi A., 205, 207, 208, 209, 211, 212 Franchus, 276 Francia, 228, 232 e v. anche Marie Franciotto Galeotto, card., 93 Franciscus, f. di Bonacursius, 275 Franciscus, f. di Gulielmus, piscator, 275
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Ermini G., 207, 308 Este (d’), fam., 193, 310, 314, 315 Este (d’) Obizzo III, march. e sig. di Modena, 314 Estensi, v. Este (d’) Etiopia, 59 Evayrex, 62 Evangelisti P., 282 Evans M., 77 Evax, 60, 164 Eubel C., 220 Europa, 10, 12, 74, 157, 158, 163, 261 Ezzelino III da Romano, 186
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Faggiola, v. Della Faggiola Fanelli V., 204 Fanger C., 124 Fanti M., 261 Fantini Giovanni, 250 Fantoni A.R., 93 Fantuzzi G., 34 Farfa, 206 Fasoli G., 189 Federici Vescovini G., 75, 136, 245, 246 Federico II, imp., 186, 208 Federicus, 275 Fei Giovanni, f. di Matteo, 253 Fei Matteo, 253 Feo G., 33 Fera V., 30 Feraboli S., 75 Fermo (AP), 206, 209 e v. anche Giovanni e Nicola Ferrando Tommaso, 96 Ferrara, 297, 298 Fiano, v. Francesco Ficino Marsilio, 123, 124, 128 Filippini F., 194, 195, 242, 243, 244, 251, 252, 259 Filippo, f. di Pietro, 96 Filippo IV, re di Francia, 286 Filippo VI, re di Francia, 232 Filippo di Sangineto, maresciallo di Carlo d’Angiò in Tuscia, 224 Firenze, 11, 41, 44, 46, 92, 93, 97, 100,
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Franciscus de Argele, f. di Gandolfus, 276 Franciscus de Baldoinis, f. di Jacobus, 276 Franciscus de Bonacaptis, f. di Bertolomeus, 276 Franciscus de Canutis, 276 Franciscus de Romancis, f. di Albertus, 275 Franciscus Simeonis, 214 Franconia, 155 Frasca G., 37, 136, 144, 258, 260, 261 Frati L., 272 Fredo de Trevignanno, 242 Fredus de Luca, f. di Ubaldus, 276 Frescobaldi Giovanni, f. di Lambertuccio, 16 Frescobaldi Lambertuccio, 16 Freud S., 325 Friuli, 292 e v. anche Silvanus Frizzi E., 34 Froissart Jean, cron., 232 Fubini R., 290, 299 Fugger, fam., 160 Fuiano M., 210
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Gentille Bertolomeus, 276 Gentille Montanarius, f. di Bertolomeus, 276 Gerardo da Cremona, 74 Geraldo Oddone, OFM, min. gen., 228 Gerius de Anterminellis, 233 Germa, 60 Germania, 155, 160, 162 Geronimo Venture Petri, 212 Geuna M., 283 Gherardi Dragomanni F., 159 Gherardo da Sabbioneta, prof. a Bologna, 186, 187 Ghirardacci C., 266, 267 Ghiselli A. F., 266 Ghisilieri Gherarduccio, 262 Ghisilieri Guido, 263 Ghisilieri Margherita, 263 Ghisilieri Paolo, 262 Ghisolabelli, fam., 262 Giacomo, f. di Michele, med., 262 Giacomo da Lentini, 19, 20, 21, 260 Giacomo da Pistoia, 259 Giacomo de Madiis, stud., 262 Giamboni Bono, 324 Gabrielli R., 204 Giambonini F., 44 Gagliano, v. Andrea Giansante M., 127, 183-199, 190, 193, Galeno, 174, 175, 247 246, 259 Galiotus, f. di Torexanus, 276 Giaveno (TO), 323 Gallo D., 300 Gilfredus da Piacenza, m., 262 Galvano, f. di Torexanus, 262 Gilli P., 308 Gambio de Properio, custode del conv. Ginori Conti P., 32 de L’Aquila, 225 Giordano, m., 262 Gandulfus, canonicus di S. Barbaziano di Giordano da Pisa, OP, 45 Bologna, 261 Giorgi P.P., 175 Gandulfus de Argele, 276 Giotti V., 324 Garatari Jacopo, v. Garatori Jacopo Giotto, 75 Garatori Jacopo, 32 Giovanna d’Angiò, f. di Carlo, 219 Garbo, v. Del Garbo Giovanna de Lago, f. di Giovanni, 250 García Lorca F., 324 Giovanni XXII (Jacques Duèse), papa, García Márquez G., 325 11, 128, 158, 185, 194, 195, 196, 197, Garin E., 136, 295, 300 198, 220, 221, 222, 226, 227, 228, Genova, 227, 269, 290 229, 233, 234, 235, 236, 316 Gentile da Cingoli, prof. a Bologna, 246 Giovanni da Capodistria, prete di S. Gentili G. A., 127, 192, 199 Salvatore di Bologna, 262 Gentili S., 247, 259 Giovanni da Fermo, 262
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Guglielmi Tommaso, not., 272 Guglielmo d’Aragona, 161 Guglielmo da Ockam OFM, 196, 226, 228 Guglielmo da Pastrengo, 294, 300 Guglielmo da Reggio, m., 256 Guglielmo da Varignana, f. di Bartolomeo, doctor physice, 262 Guglielmo de Oppiçis, 262 Guglielmo de Sabrano, conte di Ariano e Apice, 223 Guglielmo di Raimondi, pod. di Bologna, 264 Guerrini M., 92 Gui Bernard, OP, 226 Guido da Foligno, prof. a Bologna, 266 Guido da Montefeltro, 186 Guido da Reggio, stud., 262 Guido da Zappolino, giud., 262 Guido de Belvisis, f. di Belvisi Benvenuto, m., 262 Guido de Bonacolsis, sig. di Mantova, 292 Guilielmus de Canutis, f. di Franciscus, 276 Guinizzelli Guido, 22, 263 Guiscardo, 250 Guittone d’Arezzo, 19, 22 Guizzardo, f. di Bondus, 247 Gulielmo de Bixano, f. di Artusius, iuris canonici peritus, 262 Gulielmus, 275 Guyotjeannin O., 213
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Giovanni da Luni, let. a Bologna, 186, 192 Giovanni da Nono, 75 Giovanni da Zola, f. di Pietro, 262 Giovanni de Ghixilabellis, priore dell’ospedale della Società di Bologna, 262 Giovanni de Haya, 225 Giovanni del Virgilio, prof. a Bologna, 33, 195, 254 Giovanni di Holywood, v. Holywood John Halifax Giovanni Mansionario, 294 Giovinazzo (BA), 225 Giovio Paolo, 266 Giulianelli Andrea Pietro, ab., 94, 95 Giusto de’ Menabuoi, 76 Godin Guglielmo, card., 234 Gohdes Goggin C., 77 Góngora (de) Luis, 324 Gonzaga Ludovico, 298 Gorizia, 292 Gottschall D., 153-166, 156 Gousset M. Th., 79 Graciolus, f. di Buvalellus, calçolarius, 275 Graesse J.G.T., 98 Grassi Giovannino, 78, 79, 82, 83 Grassi Salomone, 78 Grattarolo S., 45 Grecia, 62 Gregorio, card. di S. Maria in Porticu, 206 Green T. M., 119 Grelli M.E., 211 Grévin B., 119, 139 Griffoni Matteo, not., 263 Grimaldo di Prato, 233 Grossato L., 72 Grossi P., 307 Gualfredi Andrea, 259 Gualfredi Nicoluccio, f. di Andrea, 259 Gualfredino, med., 259 Guarino Veronese, 289 Guasco Bartolomeo, 290 Guasparinus, f. di Stefanus, 276 Gubbio (PG), 100, 206, 312 Guccio da Siena, f. di Mino, 247
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Habsburg, v. Asburgo Haerles, v. Henricus Halleux R., 56 Hankis J., 124 Harrân, 119 Haya, v. Giovanni Henricus de Haerlem, 264 Hissette R., 137, 138 Hjärpe J., 119 Holia, moglie di Giovanni Dal Lago, 250 Holywood John Halifax, 11, 99, 107, 108, 114, 115, 116, 117, 122, 125,
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135, 145, 157, 169, 170, 187, 190, Janse Ph., 213 203, 241, 243, 245, 252, 254, 256, Jiménez J.R., 324 266, 272 Johannes, f. di Benvenutus, sartor, 276 Johannes, f. di Franchus, 276 Iachomus de Çuane, barbier, 160 Johannes, f. di Johannes, aurifes, 275 Iacopo Piacentino, cron., 296 Johannes, f. di Pasavamtes, 276 Iesi (AN), 98 Johannes, p. di Domdideus, 276 Ildefonso di San Luigi, 95 Johannes, p. di Dondus, 276 Imola (BO), 269 Johannes, p. di Johannes, 275 India, 59, 60, 62 Johannes Baptista Sessa, 96, 272 Inghilgheri di Zola, 250 Johannes de Gusbertis, f. di Paulus, 276 Inghilterra, 232 Jordanus, 276 Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 207, 208 Kafka F., 325 Iohannes, 260 Kalb A., 116 Ipparco, 60, 109, 111, 114, 115, 145, 146, Katzenellenbogen A., 78 149, 252 Kaufhold M., 304 Ippocrate, 164, 179, 190, 247, 252 Kehr P.F., 206, 207 Isidoro di Siviglia, 56, 57, 62, 65 Kelly S., 228, 229 Isnardi Guglielmo, vesc. di Alba, 230 Kibre P., 164 Ispano Pietro, v. Pietro Ispano Kieckhefer R., 120, 121 Italia, 10, 75, 97, 155, 158, 196, 198, Kirshner J., 305 206, 209, 263, 281 Kristeva J., 324 Ivani Antonio da Sarzana, 290, 298 Krüger S., 156 Ivano de Berinzo, f. di Bonafine, 293, 294, 300 Lago, v. Dal Lago Lambert M.D., 226 Jacobinus, 276 Lambertini R., 180, 207, 279-286, 303, Jacobinus de Bagnis, iuris peritus, 262 304 Jacobus, 276 Lamberto da Cingoli, OP, inquis., 192, Jacobus, f. di Benvenutus, sartor, 276 198, 234, 235, 241 Jacobus, f. di Matiolus, f. di Bonacaptus, Lami Giovanni, 220, 235 276 Lana, v. Della Lana Jacobus, f. di Ducius, brentator, 275 Lando, fam., 290 Jacobus, f. di Yvanus, 275 Lando Bartolomeo, not., 289, 290, 291, Jacobus de Argele, f. di Franciscus, 276 299 Jacobus de Baldoinis, 276 Lando Silvestro, not. e canc., 289, 290 Jacobus de Cremona, 276 Landus, f. di Selorsius, 276 Jacobus de Lago, f. di Martinus, 250 Lapo da Castiglionchio, 312 Jacobus de Varis, f. di Petrus, 275 Latini Brunetto, 56 Jacopo da Brescia, vic. di Carlo d’An- Laurencius, f. di Bitinus, barberius, 275 giò, 235, 236 Laurencius, f. di Ericus, mondator, 275 Jacopone da Todi, 19, 22 Laurencius de Romancis, f. di Franciscus, Jakobson R.O., 324 275 Jaquerio, pittore, 323 Lazzarina, 247 Jammy P., 126 Lazzarini I., 290, 298, 299
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Mäbenberg, 155 Maccarrone M., 207 Macerata, 235 Machado A., 324, 325 Machometus, 170 Madale de Lago, f. di Bartolomeo e moglie di Giovanni Fantini, 250 Maier A. 234 Maire Vigueur J.-C., 206, 211 Malato E., 29, 71, 96, 241 Maltese C., 72, 91 Mandrelli M., 74, 204 Manfredi, re, 114, 223 Mannelli Goggioli M., 92 Manovellus, segretario degli inquisitori a Firenze, 232, 235, 236, 237 Manselli R., 208, 210 Mantignelli Giacomo, med., 262 Mantova, 98, 193, 290, 291, 292, 296, 298, 299 Maracchi Biagiarelli, 92, 93 Marbodo di Rennes, 55, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 68 Marcellise (VR), 295, e v. anche Alberico Marche, 98, 208 Marcon G., 260 Marcovaldo, vic. imperiale, 206 Margherita, moglie di Bartolomeo de Lago, 250 Mariani Canova G., 34, 69-85, 71, 75, 82, 89, 91 Marie de France, 324 Marrani G., 33 Marsiglia, 222 Marsili L., 44 Marsilio da Padova, 197, 228 Marti M., 17, 20, 41 Martino IV (Simone de Brion), papa, 208, 209 Martinus, f. di Bolognitus, calçlarius, 275 Martinus de Lago, 250 Martinus de Pulis, 275 Martorelli Vico R., 110, 167-180, 172, 175, 176, 179, 180, 248 Marzagaia, gram. e cron., 297 Marzano, v. Tommaso
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Legnago (VR), 295 Lehmann P., 160 Lelli F., 95 Lentini, v. Giacomo Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 92, 93 Leta, 175 Leverotti F., 299 Lévi-Strauss C., 324 Lidonnici G., 195 Lindsay W. M., 56 Lippi E., 33, 35 Lippincott K., 118 Lippo de Laude, f. di Enrico, m., 262 Litt T., 127 Liuzzi Liuzzo, prof. a Bologna, 190 Liuzzi Mondino, prof. a Bologna, 175, 176, 179, 190, 246, 247, 248, 249, 250, 266 Liuzzi Nardo, m., 262 Livi G., 33, 34 Lixia, vedova di Mantignelli Giacomo, 262 Lombardia, 72, 81, 82, 85, 226, 297, 298 Lope de Vega Félix, 325 Lorch R., 118 Lorenzo il Magnifico, 93 Loschi Antonio, 291, 295 Luca di San Giorgio, OFM, vic. della provincia di Penne, 228 Lucca, 97, 262 e v. anche Castruccio Castracani, Francesco, Fredus, Nicola de Oppiçis e Ubaldus Lucentini P., 118, 124, 164, Lucia, suora di S. Margherita di Bologna, 252 Lucia de Lago, f. di Bartolomeo, 250 Ludovico IV il Bavaro, imp., 158, 159, 196, 197, 198, 220, 224, 226, 230, 231 Ludovico da Tortona, stud., 262 Luff R., 166 Luni, v. Giovanni Lupi Bonifacio, march. di Soragna, 72, 73, 91 Luzzati M., 220
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Michael Scot, 107, 121 Michele, 262 Michele da Arezzo, OFM, inquis., 232 Michele da Cesena, OFM, min. gen., 196, 226, 227, 228, 229 Michele de Chofanis, m., 262 Miethke J., 285, 303, 304, 305, 308, 315, 316 Migne J. P., 57 Milano, 79, 97, 98, 100 e v. anche Pininus Mino da Siena, 247 Mirabello (AL), castello, 221 Mirandola, v. Pico Miratus, f. di Baron, 276 Modena, 310, 314, 315 e v. anche Çumignanus Moglio, v. Da Moglio Molho A., 306 Monacelli G., 33 Monachi, v. Ventura Monaco, 120, 228 Monfasani J., 124 Mons Guachus, 236 Montagnana (PD), 295 Montale E., 325 Montecatini (PT), 97, 220 Montefeltro, v. Guido Montefiascone (VT), 312 Montesello de Trevignanno, f. di Fredo, 242 Montesilvano (PE), castello, 222, 223 Monti G.M., 310 Montolmo, ora Corridonia (MC), v. Angelo e Antonio Mor G.C., 211 Morando di Custoza E., 73 Morello Roberto, 223 Morpurgo S., 34 Mostacci Jacopo, 22 Mosè, 170, 192 Mosiici L., 291, 299 Mugello, v. Dino Muratori L. A., 37 Mussato Albertino, 247 Muzzioli G., 72, 91
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Masaro C., 92 Masci Girolamo, v. Nicolò IV Massetti Niccolò, 97 Massimo G., 136 Mathaçolinus Açolinus, 276 Mathaçolinus Bitucius, f. di Açolinus, 276 Matheus, f. di Jacobus, portator, 276 Matheus de Balistis, f. di Petrusbonus, 275 Matiolus, f. di Bonacaptus, 276 Matiolus, f. di Dignitas, 276 Mattéoni O., 300 Mausaco, fam., 222 e v. anche Raimondo Mazzaferro A. D., 31 Mazzocchi Scatasta M. G., 74, 204 Mazzoni G., 195 Mazzoni M., 268 Mazzoni Toselli O., 257 Mazzuchelli G., 98 Mazzuoli Giovanni, 92 Medici, fam., 90, 92, 93 Medici Cosimo, f. di Giovanni, 92 Medici Cosimo I, duca, 92, 93 Medici Giovanni, v. Leone X Medici Giovanni delle Bande Nere, 92 Medici Giulio, v. Clemente VII Medici Lorenzo, f. di Pietro, v. Lorenzo il Magnifico Medici Piero, 93 Medici Piero, f. di Lorenzo, 93 Megenberg, v. Corrado Meier C., 57 Meier U., 283, 284 Melloni C., 74, 204 Meneghetti M.L., 261 Menestò E., 29, 207 Mengozzi, fam., 267 Merlino, 171, 192 Merlo G.G., 212 Merola A., 97 Messahallah, 160, 161, 164 Meyer H., 57 Meyer P., 55, 64, 65 Mezzovillani Matteo, 34, 35, 42, 43, 44, 49, 252, 263 Micael, 275
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Ockam, v. Guglielmo Oddone, v. Geraldo Odemondo, f. di Stabilis, 214 Oexle O.G., 286 Oldrado da Ponte, giurista, 308, 310, 311, 315, 316 Olie Cleregninus, f. di Gerardus, 276 Olie Gerardus, 276 Olivi, v. Pietro Olivier-Martin F.J.M., 209 Onesto da Bologna, 17, 43, 259 Onorio IV (Giacomo Savelli), papa, 208 Orazio, 285 Ordelaffi Scarpetta, sig. di Forlì, 297 Orlando S., 33, 260 Orsini Giovanni, leg. pont. in Tuscia, 196, 220, 230 Orsola, santa, 79 Orvieto, 193 Oxford, 100, 101 Università, 155
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Nadal Giovanni Girolamo, 33, 34, 35, 37 Napoli, 223, 224, 225, 226, 228, 229, 230, 231 Corpus Christi, mon., 228 S. Chiara, mon., 228 S. Maria Egizia, mon., 228 S. Maria Maddalena, mon., 228 Nardi B., 211 Narducci E., 16, 58 Nardus de Leucis, 275 Nasinbene de Orelis, f. di Bertholinus, 275 Naudé G., 109 Nazareus, 170 Negri Giovanni Francesco, 265 Neri F., 324 Nestler V., 180 Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini), papa, 208, 229 Niccolò IV (Girolamo Masci OFM), papa, 10, 205, 206, 208, 212 Niccolò V (Pietro da Corbara OFM), antipapa, 226, 316 Niccolò da Reggio, 248 Nicola, vesc. di Nola, 227 Nicola da Camogli, 290 Nicola da Cento, stud., 256 Nicola da Fermo, f. di Giovanni, stud., 262 Nicola da Ravenna, 242, 251 Nicola da Ripatransone, OP, inquis., 246 Nicola de Oppiçis da Lucca, f. di Guglielmo, m., 262 Nicolaj Petronio G., 210 Nicolaus, f. di Rolandini, m., 262 Nicoletto d’Alessio, not. e cron. 296 Nicolino Girolamo, 222 Noclerius, ret. della chiesa di S. Tecla di Bologna , 262 Nogarole Bailardino, miles, 293 Nola (NA), 223, 227 Nono v. Giovanni, 75 Norimberga, 56 North J., 170 Novati F., 252, 253
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Pacca V., 18 Paciocco R., 224, 229 Pack R.A., 161 Pade M., 232 Padoa Schioppa A., 308 Padoan G., 36 Padova, 10, 11, 73, 75, 76, 77, 80, 82, 85, 91, 98, 264, 296, 297, 298, 300 e v. anche Marsilio Battistero, 76 Cappella degli Scrovegni, 76 Palazzo della Ragione, 75 S. Giacomo, capp. del Santo, 72, 91 Santo (Basilica di S. Antonio), 72, 91 Studio, Università, 10, 11, 12, 75, 155 Pagden A., 281, 282, 284 Pallucchini R., 72 Pandolfo, ab. di Farfa, 206 Pannier L., 55, 65, 67 Paoletti V., 203, 204, 205, 213, 214, 215, 216 Paulus de Baldoinis, f. di Ravignanus, 276 Papetti S., 211 Paradisi B., 309
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Petrucci Federico, 310, 311, 312 Petrus, f. di Buvalellus, calçolarius, 275 Petrus, f. di Dinus, peliparius, 276 Petrus, f. di Jacobinus, butrigarius, 276 Petrus, f. di Simus, faber, 276 Petrus, fornarius, 275 Petrus de Cesso, m., 247 Petrus de Varis, 275 Petrusbonus de Balistis, 275 Peypus Fridericus, 56 Pfeiffer F., 166 Pflaum H., v. Peri H. Philipus de Baldoinis, 276 Phitia, 49 Piacentino, v. Iacopo Piacenza, 98 e v. Gilfredus Piane (AP), 203, 204 Picciolpassi Bartolomea, moglie di Guido Belvisi, 253 Piccolomini E., 93 Pico della Mirandola, 266 Piemonte, 221, 237 Pier delle Vigne, 186 Pietramala, v. Tarlati Guido Pietro, 96 Pietro di Mattiolo, cron., 263 Pietro, ret. della chiesa di S. Lorenzo di Bologna, 262 Pietro Aureolo, OFM, 246 Pietro d’Abano, prof. a Padova, 11, 75, 147, 150, 170, 180, 186, 198, 246, 258 Pietro da Corbara, v. Nicolò V Pietro da Vercelli, stud., 262 Pietro da Zola, 262 Pietro de Lago, f. di Giovanni, 250 Pietro del Morrone, v. Celestino V Pietro di Cadeneto, reggente la Curia della Vicaria, 225, 228 Pietro di Dacia, 186, 187 Pietro di Giovanni Olivi, OFM, 224 Pietro Ispano, 260 Pietro Lombardo, teologo, 10, 246 Pignone (SP), 31 Piliarvu D., 185 Pingree D., 118, 119 Pininus de Mediolano, stud., 262
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Paravicini Bagliani A., 118, 163, 210 Parigi, 100, 105, 106, 138, 189, 226, 228, 245, 246 Università, 155, 156, 158 Parisio da Cerea, cron., 297 Parlatino da Firenze, 41 Parma, 79, 242 e v. anche Anselmi Giorgio, Bartolomeo e Taddeo Parri I., 124, 164 Partini A.M., 180 Partner P., 206 Pasavamtes, 276 Paschetto E., 75 Pasini G., 175 Pasquali Alidosi G. N., 265 Pasquini E., 29, 31, 33, 254, 272 Pasquino G., 283 Passipoveri Vianesio, legum doctor, 262 Pastrengo, v. Guglielmo Pásztor E., 225, 229 Paulus de Gusbertis, 276 Pavia, 324 Pedrini M., 263 Pedritus Bartholomeus, 275 Pedritus Bertholameus, f. di Franciscus, 275 Pedritus Franciscus, f. di Bartholomeus, 275 Pedritus Johannes, f. di Francesco, 275 Pellegrini L., 236 Penne (PE), 226 Pennington K., 315 Pepoli Romeo, sig. di Bologna, 193, 254, 256 Pereira M., 118, 163 Peri H., 100, 101, 138, 171 Peron G., 135, 273 Perrone Compagni V., 124, 164 Perugia, 98, 100, 195, 206, 226, 260 e v. anche Stramazzo Muzio Pesante M. L., 283 Pescara, 222 Pessoa F., 326 Petrarca Francesco, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 24, 29, 30, 31, 40, 136, 253, 262, 264, 265, 296, 325
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222, 223, 224, 225, 227, 230, 231, 232, 237 Raymundus de Raymundis, pod. di Firenze, 263 Rainiero da Forlì, prof. a Bologna, 266 Ramponi Ludovico, 263 Ramponi Pietro, m., 263 Rando D., 299 Ranverso (TO), Sant’Antonio, chiesa, 323 Rao I. G., 71, 87-102 Rashed R., 75 Ravagnani Benintendi, not., 296 Ravenna, 259, 296 e v. anche Conversini e Nicola Ravignanus de Baldoinis, 276 Ravizza G., 222, 230 Recanati (MC), 98 Recanati M. G., 82 Redi, fam., 98 Redi F., 97, 98 Redi F. S. , 98 Regensburg, 156, 157 Reggio Emilia, v. Guglielmo, Guido e Niccolò Reggio G., 195 Restoro d’Arezzo, 67 Restoro da Pistoia, m., 262 Riccardo, giud., 223 Richart de Fournival, 324 Ricius, becarius, 275 Riddle J. M., 57 Rieti, 98 Rigon A., 7-12, 89, 206, 210, 211 Rimbaldo, ret. del ducato di Spoleto, 312 Rimini, 255 Rinaldo de Mausaco, v. Raimondo de Mausaco Rinieri Valerio, 264 Ripatransone, v. Nicola Roberto d’Angiò, re di Napoli, 158, 195, 222, 223, 224, 225, 228, 229, 231, 232, 265, 266, 315 Rocca L., 32 Rocca di Morro (AP), 203, 204 Rodolfo de Ghislabelis, 242 Rodolico N., 197, 219
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Pintaudi R., 93 Pinto G., 189, 205, 206, 211 Pirandello L., 325 Pisa, 97, 226, 269 e v. anche Giordano Pistoia, 97 e v. anche Cino, Giacomo e Restoro Pizolpassi Francesco, 263 Plinio il Vecchio, 116 Pocok J.G.A., 281 Polenta, v. Da Polenta Pomponazzi Pietro, 179 Ponte, v. Oldrado Porta G., 33, 257 Potestà G.L., 236 Pournell F. Jr., 124 Pozzi G., 258 Praga, 324 Prato, v. Grimaldo Presbitero, vesc. di Fermo, 206 Preunti Giuliano, prof. a Bologna, 257 Properium, 225 Prospero da Camogli, 290 Protonotaro, v. Stefano Proust M., 324 Provenza, 229 Pseudo-Alberto, 163, 164, 165 Pseudo-Ipparco, 112, 164 Pseudo-Tolomeo, 123, 161, 164 Pucci Antonio, 31, 32, 35 Puglia, 204 Pugliola, v. Della Pugliola
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Quaglioni D., 282, 306, 307 Quevedo (de) Francisco, 324 Quirini Carlo, 36 Quirini Giovanni, f. di Carlo, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 252, 263
Raducci Martino, 312 Ragn Jensen H., 232 Ragni E., 196, 220, 221 Raianum, v. Bernardo Raimondo de Mausaco, vesc. di Alba, poi di Chieti e di Aversa, canc. di Carlo d’Angiò, 31, 197, 219, 220, 221,
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Salviati, fam., 93 San Gimignano, v. Domenico San Giorgio, v. Luca San Lorenzo in Collina (BO), 270 Sancia, regina, moglie di Roberto d’Angiò, 224, 228, 229, 230 Sangineto, v. Filippo Sangirardi G., 105 Sannelli M., 100, 101, 102, 135, 137 Sant’Ambrogio di Torino (TO), Sacra di San Michele, 323 Santagata M., 15, 17, 18, 29, 30, 40, 263 Sapegno N., 99 Saragozza, 250 Sarzana (SP), 290, 299 Sassoferrato (AN), 307 e v. anche Bartolo Savelli R., 290, 299 Savini F., 223 Savio da Vicenza, med., 292 Savoia, 222 Savonarola Girolamo, OP, 93 Savonarola Michele, med., 176 Sbriccoli M., 308 Scala, v. Della Scala Scaligeri, v. Della Scala Scatasta M., 74, 204 Sbaralea G., 225 Schiera P., 306 Schmidt T., 308 Schmidinger H., 211 Schweppenhäuser H., 285 Scinzenzeler Ulderico, tip., 272 Scorciosa (CH), castello, 223 Scot, v. Michael Scrovegni, fam., 76 Segnore de Tubertinis, f. di Ugolinus, 275 Segoloni D., 308 Segre C., 321-326, 326 Segre Rutz V., 82 Sella P., 189, 215 Selorsius, 276 Seneca Lucio Anneo, 269 Senna, 156 Senner W., 163 Serapione, 82 Sessa, v. Johannes
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Rogerius, march. di Salerno, 224 Rolandi Francesco, not., 262 Rolandini, 262 Rolandinus de Bertholono, not., 292 Rolandus, 276 Roma, 93, 98, 100, 158, 195, 196, 197, 211, 231, 253 Accademia dei Lincei, 205 S. Maria in Porticu, chiesa, 206 S. Vitale, chiesa, 227 Villa Medici, 93 Romagna, 98, 209 Romano (da), v. Ezzelino III Romano, v. Egidio Rondinelli Giovanni, bib., 93, 94 Rosario Pasquale, 15, 16, 55, 60, 63, 64, 67, 68, 98, 99, 231 Rosciate, v. Alberico Rossi Bertrando, 79 Rossi C., 32 Rossi G., 306 Rossi Nicolò, 19, 22, 38, 39, 42, 43 Rosi L., 261 Rossi L.C., 256, 259 Rossi M., 79 Roy B., 118 Royallieu, 227 Russo V., 37, 136, 258 Ryan W. F., 123
Saba U., 325 Sabbioneta, v. Gherardo Sabranum, 223 Sacrobosco Giovanni, v. Holywood John Halifax Sala Giovanni Gaspare, iuris utriusque doctor, 262 Salernum, 224 Salinas P., 324, 325 Salmi M., 72 Salomone, re, 109, 110, 111, 112, 115, 119, 120, 121, 124, 164, 269 Salutati Coluccio, 46, 47, 136, 137, 138, 139, 140, 142, 151, 289 290, 291, 294, 299 Salvemini G., 189, 209
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Stadler H., 174 Stati Uniti dâ&#x20AC;&#x2122;America, 293 Steer G., 166 Stefani Coppo, 197, 219 Stefani Marchionne, f. d Coppo, 197, 219 Stefanin A., 32 Stefano de Lago, f. di Bartolomeo, 250, 276 Stefano Protonotaro, not., 323 Stefanus, f. di Albertus, lardarolus, 276 Stendardo Tommaso, 224 Stignano, v. Salutati Coluccio Storti C., 285 Strada, v. Mazzuoli Giovanni Stradino, v. Mazzuoli Giovanni Stramazzo Muzio da Perugia, 30, 31 Stupa v. Coradus de Allamania Suarez-Nani T., 127, 139 Sulmona (AQ), 225 Sutton K., 76 Suzzara (MN), 295 Symon de Giacanis, f. di Bonifatius, pod. di Bologna, 260
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Sestan E., 209 Sesti E., 72 Severino Nicola, 225 Shakespeare William, 325 Sicilia, 158, 207, 210, 226, 230 Siena, 97, 234, 236, 243, 244, 257, 258, 262 e v. anche Guccio e Mino Silvanus dal Friuli, m., 262 Silvestri Francesco da Cingoli, vesc. di Firenze, 220 Simon Mago, 192 Simone, Simeon, Simon, 214 Simus, 276 Siraisi N., 178 Siviglia, v. Isidoro Smoller L., 170 Soderini Piero, 93 Soldanus de Baldoinis, f. di Baldoinus, f. di Philipus, 276 Solerti A., 30 Sommerlechner A., 207 Soragna (PR), 91 Sorbelli A., 264 Spagna, 324 Spello (PG), 206 Spiazzi A.M., 75 Spinello Giovanni da Giovinazzo, reggente la Curia della Vicaria, 225 Spinellus, nunzio dellâ&#x20AC;&#x2122;inquis. Accursio, 235 Spitzer L., 325 Spoleto, 98, 206, 221, 312 Squillace (CZ), 224 Stabile G., 195 Stabilis, 214 Stabilis Bernardo, Bernardus, f. di Giso, 214 Stabilis Giacomo, Iacobus, f. di Vincenzo, 214 Stabilis Giovanni, Iohannes, f. di Giso, 214 Stabilis Giso, f. di Stabilis, 214 Stabilis Iohannes, f. di Stabile, 214 Stabilis Simon, 234 Stabilis Stabile, Stabilis, f. di Giso, 214 Stabilis Vincenzo,Vincentius, f. di Giso, 214
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Tabacco G., 210, 211, 226, 227 Tabarroni A., 195, 196, 226, 247, 257 Taddeo da Parma, let. a Bologna, 186, 187 Tafi A., 221 Tagliacozzi Gaspare, med. e fil., 264 Tamagnone M., 222 Tanturli G., 258 Tardieu M., 119 Tarlati Guido di Pietramala, vesc. di Arezzo, 220, 221, 236 Tartaro A., 36 Tasimanus Gubertinus, 276 Tasimanus Yillarius, f. di Gubertinus, 276 Taviani Guelfo, 43 Tebaldo, frate e vesc. di Assisi, 312 Tempier Stefano, vesc. di Parigi, 137, 138, 139, 142, 188 Tempo, v. Da Tempo Tenneroni A., 272 Terni, 312 Terracini B., 325 Tesi M., 93
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Tura, f. di m. Jordanus, 276 Tuscia, 220, 226 Ubaldini Friano, 264 Ubaldo, ret. della chiesa di S. Lorenzo, 262 Ubaldus de Luca, 276 Uberti (degli) Fazio, 269 Ubertini (degli) Boso, vesc. di Arezzo, 220, 221 Uberto da Cesena, prof. a Bologna, 266 Ubl S., 156 Ughelli F., 220, 221 Ugo, f. di Federicus, m. murator, 275 Ugolino da Celle, 313, 314 Ugolinus de Tamaraciis, m., 270 Ugolinus de Tubertinis, 275 Ugulinus de Tubertinis, f. di Segnore, 275 Uguçus de Banbaglolis, 261 Ungheria, 266 Urbino, 266
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Tester S.J., 187 Thebit, 108, 123, 164 Theiner A., 208, 209 Thomas Cantimpratensis, 166 Thomaxinus de Gonberutiis, f. di Vincencius, 276 Thorndike L., 75, 76, 105, 106, 109, 110, 120, 123, 127, 128, 135, 136, 146, 157, 159, 161, 164, 169, 187, 188, 191 Tiedemann R., 285 Timideus Venture Marci, not., 212 Tiraboschi G., 98 Tivoli, v. Abate Todeschini G., 282 Todi (PG), 98, 206 e v. anche Jacopone Todorov T., 324 Tognoni Campitelli A., 314 Toledo, 74 Tolentino (MC), 260 Tolomeo, 74, 75, 115, 126, 150, 162, 164, 187, 190, 194, 244, 245, 246 Tolosa, 234 Tomaxinus, detto Calcagnus, sartor, 276 Tommaso dâ&#x20AC;&#x2122;Aquino, 127, 140, 141, 142, 187 Tommaso de Lago, f. di Giovanni, 250 Tommaso di m. Bertoluccio, doctor gramatice, 262 Tommaso di Marzano, conte di Squillace, 224 Toniolo F., 82 Torexanus, p. di Galiotus, 276 Torexanus, p. di Galvano, 262 Torino, 323, 324 Torno A., 96 Torrigiano, med., 258 Tortona, v. Ludovico Toscana, 97, 196, 233, 236 Toubert P., 210 Toussaint S., 124 Trento, 97, 292 Trevignannum, v. Fredo e Montesello Treviso, 193, 291, 292 Trieste, 324 Troncarelli F., 29 Tuata, v. Dalla Tuata
Valerio Massimo, 269 Vallerani M., 306 Valori Baccio, bib., 93 Valsecchi C., 316 Valva-Sulmona, diocesi, 225 Van de Abeelke B., 57 Van der Lugt M., 110, 170 Van der Vekene E., 89 Van Riet R., 144 Varanini G.M., 282, 287-300, 299, 300 Varignana, v. Bartolomeo e Guglielmo Varvaro A., 32, 232 Vasoli C., 185, 188 Vauchez A., 128, 212 Vecchi Galli P., 30, 31 Veenstra J. R., 118, 122 Veglia M., 262 Veltro, f. di Francesco da Lucca, m., 262 Venceslao di Boemia, re, 82 Vendrame, f. di Zanino, not., 292 Veneto, 33, 34, 36, 37 Venezia, 36, 37, 45, 96, 97, 98, 106, 257, 272, 290, 296, 298 San Polo, sestiere, 36
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Waley D., 206, 207, 208, 209, 210 Walker D. P., 118 Weill-Parot N., 103-131, 118, 119, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 143, 146, 149, 151 Wickham C., 306 Wier J., 121 Will E., 315 Witt R., 298, 299 Wittgenstein L., 282 Wood D., 282
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Ventura Monachi, 16 Vercelli, v. Pietro Vergerio Pier Paolo, 296 Vergottini (de) Giuseppe, 304 Vernani Guido, OP, 255 Verona, 72, 73, 91, 269, 289, 290, 291, 293, 294, 295, 297, 298, 299 S. Cecilia, contrada, v. Bartolomeo Véronèse J., 120, 124, 128 Vicenza, v. Savio Vidal J.-M., 128 Vienna, 156, 166 S. Stefano, scuola e studio, 156 Vigili F, 93 Vigne, v. Pier Villani Filippo, 258, 265 Villani Giovanni, 31, 33, 106, 126, 127, 159, 170, 196, 197, 198, 219, 232, 235, 257 Villola Floriano, cart., 263 Villola Pietro, cart., 263 Vincencius de Gonberutiis, 276 Vincenzo da Pistoia, stud. in medicina, 256 Vinciguerra de Lago, f. di Bonaventura, 250 Virgilio, 45, 123, 253 e v. anche Giovanni del Virgilio Viroli M., 283 Visconti, fam., 193, 295 Visconti Azzone, sig. di Milano, 313 Visconti Giangaleazzo, sig. di Milano, 77, 78, 79 Visconti Giovanni, sig. di Milano, 313 Visconti Luchino, sig. di Milano, 269 Visconti Matteo, 194 Visconti d’Oleggio Giovanni, 269 Vitale, prof. a Bologna, 267 Vittori E., 55, 71, 96, 100, 135 Volubrio (AP), S. Leonardo, mon., 205, 215 Von Begebenheiten K., 285 Von Döllinger I., 158, 159 Vultaggio C., 230
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Yale, 293 Yamamoto K., 107 Yano M., 107 Yvanus, 275
Waage Petersen L., 232
Zabbia M., 290, 296, 297, 299, 300 Zaccagnini G., 244, 257 Zacour N., 315 Zahel, 164 Zambelli P., 118, 119, 187 Zambon F., 55, 56, 81, 83 Zamponi S., 90, 118, 163 Zancari Alberto, prof. a Bologna, 256, 263 Zancari Fabiano, f. di Alberto, med., 256 Zaniboni, fam., 73 Zanino, 292 Zappolino (BO), 193, 194, 255 e v. anche Guido Zenari M., 17 Zenatti Oddone, 268 Zevio, v. Altichiero Zola, v. Giovanni e Pietro Zoroastro, 109, 111, 116, 117, 120, 124, 164 Zorzi A., 306 Zot, 60 Zotter H., 89 Çuane barbier, 160 Çumignanus da Modena, m., 262 Çunta de Cerveleris, 262
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Indice generale
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1
Pietro Celani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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2
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Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno . . . . . . . . .
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3
Giannino Gagliardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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5
Antonio Rigon, Apertura dei lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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7
Roberto Antonelli, Cecco, il suo contesto poetico e le sue modalità di scrittura: i sonetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
13
Elena Maria Duso, Un episodio della fortuna dell’Acerba nel Trecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
27
Marco Berisso, Il lapidario dell’Acerba . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
53
Giordana Mariani Canova, Testo e immagine. L’Acerba di Cecco d’Ascoli nell’esemplare laurenziano (ms. Plut. 40.52) . . . . .
»
69
Ida Giovanna Rao, L’Acerba: note codicologiche sul pluteo 40.52 della Laurenziana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
87
Nicolas Weill-Parot, I demoni della Sfera: La “nigromanzia” cosmologico-astrologica di Cecco d’Ascoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
103
Alessandra Beccarisi, Cecco d’Ascoli filosofo . . . . . . . . . . . . .
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133
Dagmar Gottschall, Cecco d’Ascoli e Corrado di Megenberg .
»
153
Romana Martorelli Vico, L’idea della generazione naturale e straordinaria secondo Cecco d’Ascoli: indagine sulle fonti medico-biologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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167
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Prima giornata
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Seconda giornata
»
181
Massimo Giansante, La condanna di Cecco d’Ascoli: fra astrologia e pauperismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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183
Martina Cameli, Cecco nella Ascoli di fine Duecento: una inedita prima testimonianza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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201
Maria Grazia Del Fuoco, Il processo a Cecco d’Ascoli: appunti intorno al cancelliere di Carlo di Calabria . . . . . . . . . . . . . .
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217
Armando Antonelli, Nuovi sondaggi d’archivio su Cecco d’Ascoli a Bologna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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239
Tavola rotonda
»
277
Roberto Lambertini, Pensiero politico, intellettuali, potere: alcune riflessioni sul campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
279
Gian Maria Varanini, Notai trecenteschi tra tradizione comunale e cancellerie signorili. Appunti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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287
Mario Conetti, Una sintesi di teoria e prassi: giuristi e potere nel primo Trecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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301
Proclamazione del vincitore
»
319
Cesare Segre, Ringraziamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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321
Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .
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327
Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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337
IS IM
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