Comunicare nel medioevo. La conoscenza e l’uso delle lingue nei secoli XII-XV Atti del Convegno 2013

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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”

comunicare nel medioevo

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la conoscenza e l’uso delle lingue nei secoli xii-xv

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Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno

(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 28-30 novembre 2013)

a cura di

Isa Lori Sanfilippo e Giuliano Pinto

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2015


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III serie diretta da Antonio Rigon

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Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

Comune di Ascoli Piceno

Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno

Istituto storico italiano per il medio evo

© Copyright 2015 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno

Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO Redattore capo: SALVATORE SANSONE Redazione: SILVIA GIULIANO

ISBN 978-88-98079-36-0 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2015


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Come si comunicava nel medioevo? Come comunicavano tra di loro in epoca medioevale persone che parlavano lingue diverse? La comunicazione non è soltanto uno dei grandi temi della cultura contemporanea, ma lo è stato anche in un passato remoto. Un tema decisamente affascinante anche se poco approfondito ma certamente ricco di sorprese così come è emerso nel corso della XXV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno alle prese, appunto, con “Comunicare nel medioevo. La conoscenza e l’uso delle lingue nei secoli XII-XV”, di cui ora pubblichiamo gli Atti. Come disse il prof. Rigon, il Medioevo è epoca di incontro, scontro, scoperta, integrazione, contrasto tra popoli, etnie e individui di diversa provenienza. È questo mondo torna a confrontarsi. Pellegrini, artisti, mercanti, cavalieri cominciano a spostarsi da una parte all’altra d’Europa e quindi confrontarsi. Già, ma come? Durante il Medioevo la grande tradizione letteraria e filosofica dell’antica Grecia e di Roma si era praticamente estinta. L’Europa era divisa in una serie di stati feudali e l’alfabetizzazione era prerogativa quasi esclusiva della Chiesa. I documenti venivano scritti in latino su fogli di pergamena. Poi, nel XIII secolo, ecco i primi documenti scritti in volgare e infine l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Questo il problema, invero molto interessante, affrontato dal Premio internazionale Ascoli Piceno. La più importante manifestazione culturale della città, e forse delle Marche, ha acceso i riflettori su un aspetto del Medioevo finora poco trattato ma, così come nelle passate edizioni, di grande interesse e grande spessore culturale. Un nuovo tassello si aggiunge quindi alla conoscenza del nostro passato e la conoscenza del passato è importante per il presente e il futuro.


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I lettori, ne sono certo, troveranno interventi di grandissimo valore scientifico per un viaggio intrigante nella comunicazione medioevale. Agli insigni studiosi che hanno impreziosito con la loro presenza la XXV edizione del Premio va il mio sincero ringraziamento. È grazie a loro che il Premio anno dopo anno è cresciuto fino ad affermarsi come una bella realtà nel panorama culturale europeo. Un ringraziamento anche a quanti con impegno e passione lavorano alla realizzazione di questo appuntamento, sempre più patrimonio comune non soltanto della città di Ascoli Piceno, ma di tutto il suo territorio.

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Il Sindaco di Ascoli Piceno (Avv. Guido Castelli)


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PRIMA GIORNATA


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La diffusione e l’apprendimento delle lingue nel basso Medioevo: considerazioni introduttive


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Poche parole per spiegare l’ambito cronologico e geografico, e le ragioni e gli obiettivi del nostro convegno. Il Medioevo, che in genere tradusse le idee in immagini, scelse il simbolo della Torre di Babele per rappresentare le diversità linguistiche che si facevano man mano più nette e profonde all’interno della Cristianità. Simbolo negativo, la Torre di Babele, in quanto le differenziazioni linguistiche rappresentavano per la cultura ecclesiastica del tempo elementi di rottura dell’unità cristiana. La rappresentazione iconografica ebbe particolare fortuna a partire dal secolo XI, proprio in corrispondenza della diffusione delle lingue e delle parlate locali, e della comparsa delle prime testimonianze scritte che interrompevano il predominio assoluto della lingua latina. In una interrogatio risalente a poco dopo il Mille – citata da Jacques Le Goff – si trova questa domanda: quante lingue ci sono nel mondo? La risposta è 72; 72 perché Noè ebbe tre figli: Sem, Cam e Jafet, dai quali nacquero appunto 72 nipoti1. Dante – com’è ben noto – nel De vulgari eloquentia mette in risalto le tante varietà di volgare presenti in Italia, spesso all’interno di una stessa regione2. La lingua diventava così un segno distintivo, nel contempo, dell’identità e dell’alterità; ogni regione, talvolta le singole città disponevano di una propria lingua o di varianti linguistiche che ne costituivano elementi di identificazione3. 1 2 3

J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, trad. it., Firenze 1969, pp. 333-336. Il rimando in questo caso è ovviamente alla relazione di Furio Brugnolo. Sul tema del rapporto tra lingua e identità cfr. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale cit., pp. 334-335, e soprattutto il recente volume Sprache und Identität im Frühen Mittelalter, cur. W. Pohl - B. Zeller, Wien 2012. Più in generale, sulla percezione dei fenomeni linguistici lungo tutto il Medioevo, occorre far riferimento a un altro recentissimo volume, quello di B. Grévin, Le parchemin des cieux. Essai sur le Moyen Âge du langage, Paris 2012, pp. 121 ss.; a questo studioso si devono anche considerazioni importanti (pp. 189-258) sulle tecniche e le modalità dell’insegnamento delle lingue.


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Dunque, nei secoli finali del Medioevo, consapevolezza del moltiplicarsi delle lingue parlate, e in misura minore delle lingue scritte, che il latino non riusciva più a tenere confinate negli spazi inferiori della società. La lingua dei romani diventò strumento di comunicazione progressivamente più limitato: mantenne il proprio ruolo all’interno della Chiesa, ma non certo per i predicatori, che nelle piazze si rivolgevano a un pubblico in larga misura incolto4; rimase predominante nelle discipline tecniche e professionali (filosofia, medicina, architettura, ecc.), nelle quali le lingue volgari riuscirono a emergere solo al termine di un processo secolare5. Gli studenti universitari erano obbligati a usarlo nei rapporti con i professori, ma nel contempo i giovani si trovavano a fare i conti con la lingua parlata nelle città dove si recavano a studiare, con i cui abitanti dovevano in qualche modo comunicare. Maggiore, ovviamente, la persistenza del latino nei testi. Ma all’interno della legislazione, sia di carattere generale che ordinaria, l’uso delle lingue volgari crebbe progressivamente dal XIII secolo in poi – ma con differenze geografiche non di poco conto – per la necessità che le norme fossero comprese da un numero quanto più ampio possibile di amministrati6. Insomma un laico dei secoli finali del Medioevo doveva imparare il latino se intendeva dibattere di questioni generali; ma all’interno della sfera sociale e nei rapporti tra gli uomini erano ormai le lingue volgari, assai più duttili e sensibili, a farla da padrone: un volgare che progressivamente si insinuava sino a prevalere anche nelle scritture di carattere pratico. Così la conoscenza del latino come mezzo di comunicazione orale era ormai limitata a fasce ristrette, mentre il pluralismo linguistico era un dato di fatto; un pluralismo linguistico assai più accentuato rispetto a tempi a noi più vicini, in considerazione delle numerose varianti regionali

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Si veda a questo proposito la relazione di Carlo Delcorno. Si veda il recentissimo convegno Language Interactions in Early Modern Europe; svoltosi a Firenze a Villa i Tatti (The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies) nei giorni 22-23 novembre 2013. 6 Com’è noto, tra le grandi città italiane fu Siena la prima a far tradurre in volgare, tra il 1309 e il 1310, lo statuto in latino vigente, con una motivazione di grande interesse: «ut pauperes persone et alie persone gramaticam nescientes et alii qui voluerint possint ipsum videre et copiam exinde sumere et hinc pro sue libito voluntatis». Cfr. M. Ascheri, Il Costituto di Siena: sintesi di una cultura giuridico-politica e fondamento del ‘Buongoverno’, in Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. critica a cura di M. Salem Elsheikh, Siena 2002, III, pp. 23-57: 24. Fuori d’Italia, l’uso delle lingue volgari nei testi normativi è assai più precoce; basti pensare al caso di Parigi dove gli oltre cento statuti duecenteschi dei mestieri, raccolti nel Livre des métiers, furono redatti in francese: cfr. B. Geremek, Salariati e artigiani nella Parigi medievale, trad. it., Firenze 1975, pp. 1920 e passim.


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e dell’assenza, o della difficoltà di affermarsi, di lingue ‘ufficiali’. Non stupisce quindi che nell’Archivio del mercante pratese Francesco di Marco Datini si conservino oltre 125 mila lettere mercantili inviate tra fine Trecento e inizio Quattrocento, scritte in una dozzina di lingue diverse in uso nell’area del Mediterraneo occidentale, e alcune anche in latino7. Eppure i fattori del Datini erano in grado di comprenderne il contenuto. Comprenderne, perché non dimentichiamo che una cosa è capire la lingua degli altri una cosa parlarla. Tra le lingue volgari, alcune emersero prima di altre, e si diffusero anche in regioni dove non costituivano la lingua madre delle popolazioni locali. Fu il caso del francese d’oil – il più precoce, com’è noto, ad affermarsi tra le lingue romanze – che fu a lungo mezzo di comunicazione d’uso comune, nello scritto e nella lingua parlata, in Inghilterra, Irlanda, Paesi Bassi, Occitania, Italia settentrionale, prima che in queste parti d’Europa si affermassero i volgari locali8. Ad accentuare l’importanza della conoscenza delle lingue per facilitare le varie forme di comunicazione, concorrevano fenomeni di carattere generale. I secoli finali del Medioevo, caratterizzati dal moltiplicarsi delle lingue parlate, furono nel contempo quelli del grande sviluppo mercantile e manifatturiero, della nascita degli Stati nazionali, della straordinaria stagione artistica e letteraria; tutti fenomeni che accentuarono la circolazione degli uomini, soprattutto di quanti appartenevano agli strati medi e superiori della società. Mercanti e banchieri, ecclesiastici ed intellettuali, diplomatici, uomini d’arme, pellegrini, artisti, artigiani, studenti, marinai si spostavano per i più diversi motivi da un paese all’altro del Mediterraneo e dell’Occidente europeo, entrando in contatto con persone che parlavano lingue diverse e dovendo fare i conti così con i problemi della comunicazione. Veneziani e genovesi erano presenti in forza in tutto l’Oriente mediterraneo, dove si parlava soprattutto arabo e greco. I pellegrini che arrivavano in Terrasanta si servivano di interpreti locali9. Le compagnie mercan-

7 F. Melis, Aspetti della vita economica medievale. Studi nell’Archivio Datini di Prato, I, Siena 1962, pp. 14-26. 8 Cfr. i saggi raccolti nel volume Medieval Multilingualism. The Francophone World and its Neighbours, cur. Ch. Kleinhenz - K. Busby, Turnhout 2010. 9 Qualche cenno in A. Calamai, Il viaggio in Terrasanta di Alessandro Rinuccini del 1474 e in G. Pinto, I costi del pellegrinaggio in Terrasanta nei secoli XIV e XV (dai resoconti dei viaggiatori italiani), entrambi in Toscana e Terrasanta nel Medioevo, cur. F. Cardini, Firenze 1982, rispettivamente pp. 235-256 (il riferimento a interpreti a p. 245) e pp. 257284 (il riferimento a p. 270).


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tili-bancarie fiorentine (ma anche milanesi, piacentine, senesi, lucchesi, ecc.) erano attive in gran parte dell’Occidente europeo, dalla Penisola iberica, all’Inghilterra, alla Germania, dove entravano in contatto con gli strati superiori delle società locali. A loro volta molte città italiane ospitavano schiere di immigrati dalla Germania e dai paesi della costa orientale dell’Adriatico: in genere gente di modesta condizione che cercava fortuna nella nostra Penisola. Quanti cognomi italiani derivano da lontani antenati immigrati nella Penisola! Il Concilio di Firenze e successivamente l’esodo dall’Oriente mediterraneo in conseguenza della caduta di Costantinopoli accentuò – come ben sappiamo – i rapporti con il mondo e con la lingua greca. In alcune aree di confine convivevano comunità linguistiche diverse: era il caso del Friuli dove italiani, tedeschi e slavi vivevano fianco a fianco, a tal punto che la legislazione locale era scritta nelle tre lingue10. La complessità linguistica dell’Istria e della costa orientale dell’Adriatico è cosa ben nota, e rifletteva la convivenza a stretto contatto di popoli diversi11. Ancora, i grandi pellegrinaggi via terra, a cominciare da quelli diretti a Roma e a Santiago, portavano un folto numero di persone ad attraversare paesi stranieri, a confrontarsi con lingue poco note o del tutto sconosciute. Il quinto libro del Codex Calistinus (secolo XII), più noto come Guida del pellegrino diretto a Compostella, destinata a pellegrini francesi o provenienti dalla Francia, fornisce, per agevolarne il viaggio, la traduzione di una serie di termini baschi di uso comune (pane, vino, carne, acqua, pesce, casa, chiesa ecc.); e lo stesso accade in testi successivi. A loro volta albergatori, osti, venditori dovevano conoscere, per attirare i pellegrini, una serie di frasi fatte nelle principali lingue. Nei centri più importanti non mancavano persone che fungevano da interpreti12. Ai livelli inferiori della società, le difficoltà di comunicazione risultavano maggiori. Le fonti ospedaliere registrano di tanto in tanto l’arrivo di malati o di pellegrini stranieri con i quali non si riesce a comunicare. Così nell’ospedale della Misericordia di Prato arriva «uno tedescho di pelo rosso […] e non sapemo il nome, non si intendeva»; o ancora «uno 10 E. Besta, Storia del diritto italiano, I, Milano 1925, p. 767, citato in Ph. Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia intorno al 1420, in La trasmissione dei saperi nel Medioevo (secoli XII-XV), Pistoia 2005, pp. 321-336: 324 nota 7. 11 Si veda qui, più avanti, la relazione di Egidio Ivetic. Sul tema rimane un punto di riferimento classico lo splendido volume di E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Roma 1947 (rist. Udine 1997). 12 G. Cherubini, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Siena 1998, pp. 21, 209-210.


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d’Ungheria ci fu reghato infermo e non parlava»; e di nuovo «uno della Magna, che non si sa el nome suo perché non parlava»13. I problemi di comunicazione sembrano riguardare soprattutto i rapporti con il mondo tedesco. A loro volta i numerosi tedeschi che si stabilirono nelle città italiane nel corso del XIV e XV secolo – in genere immigrati di umile condizione: lavoranti della lana, dei metalli, fornai ecc. – dovettero incontrare non pochi problemi di comprensione linguistica che complicavano il loro inserimento nelle società locali. E sicuramente problemi simili dovettero affrontare i tanti albanesi e slavi in arrivo in Italia più o meno nello stesso periodo14. Si pone quindi il problema di come persone che parlavano lingue diverse riuscissero a comunicare tra loro: è questo l’oggetto principale del nostro convegno. Quanti nell’Occidente cristiano erano in grado di parlare arabo e greco? E come lo avevano appreso? E viceversa nell’Oriente mediterraneo quale era il livello di conoscenza delle lingue occidentali? Ci si domanda se in determinati ambienti o in determinate aree geografiche si affermasse un idioma comune o una lingua prevalente; se vi fossero scuole e strumenti didattici, e di quale natura e quanto diffusi, per apprendere una lingua diversa dalla propria; se emergessero figure di mediatori linguistici di professione. È un problema che nella società contemporanea è stato superato, almeno in parte, con l’affermazione dell’inglese come lingua comune a livello internazionale, e con la diffusione capillare di strutture e di strumenti che insegnano a parlare una lingua diversa dalla propria. Nel contempo ciò comporta un rapido e inevitabile declino delle varietà dialettali e delle lingue parlate dalle minoranze, con un conseguente impoverimento culturale. Per il Medioevo e il primo Rinascimento gli studi e le fonti a disposizione sono in grado di dare non poche risposte ai nostri quesiti. Per fare qualche esempio, sappiamo che in alcune città italiane fu attivato l’insegnamento pubblico di una lingua straniera. È il caso del Comune di Verona che nel 1407, considerando l’intensità dei traffici tra la Germania e la città

13 G. Pinto, Il lavoro, la povertà, l’assistenza. Ricerche sulla società medievale, Roma 2008, p. 181 nota 38. Altrettanto accadeva nell’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena: cfr. G. Piccinni - L. Travaini, Il Libro del Pellegrino (Siena 1382-1446). Affari, uomini, monete nell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, Napoli 2003, pp. 54-58. 14 Sull’immigrazione in Italia dalla sponda orientale dell’Adriatico esiste una vasta bibliografia, al cui interno ci limitiamo a ricordare i volumi miscellanei Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, cur. H.G. Beck - M. Manoussacas - A. Pertusi, Firenze 1977 e Italia felix. Migrazioni slave e albanesi in Occidente. Romagna, Marche, Abruzzi, secoli XIV-XVI, cur. S. Anselmi, Ancona 1988.


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dell’Adige, istituì un insegnamento di lingua tedesca, affidandolo a un maestro Niccolò ‘tedesco’: questi per un compenso di cento lire l’anno doveva insegnare la lingua ai giovani avviati alla mercatura15. Del resto le fonti hanno conservato memoria di numerosi giovani inviati dalla Germania a Venezia per imparare le pratiche mercantili e la lingua locale, e sempre alla città lagunare fanno riferimento alcuni dei più antichi codici per apprendere il tedesco – e viceversa per imparare il volgare italiano – arrivati sino a noi16. Ancora a Venezia sono attestate figure di interpreti, ad esempio per tradurre le testimonianze processuali di immigrati che conoscevano solo la lingua madre17. Nel Comasco, lungo la strada che da Milano portava in Germania, gli osti fungevano da interpreti tra i mercanti lombardi e quelli che arrivavano d’Oltralpe18. Non mancano neppure figure di poliglotti come il fiorentino Simone Peruzzi che nel 1379 dichiarava di saper parlare inglese e tedesco; lingue probabilmente apprese durante il suo noviziato da mercante19; o come il veneziano Maffeo Franco «qui optime scit idioma teutonicum» (1452), contraddicendo così il frate domenicano di Ulma Felix Faber secondo il quale nessun francese, italiano, slavo o greco era in grado di parlare perfettamente il tedesco: «semper sua locutio pueriliter sonat»20. Ma la cosa era reciproca nei giudizi che venivano dati sui tedeschi e sulla loro lingua21. Non pochi degli interrogativi or ora esposti sono rimasti al momento con risposte parziali o approssimative, che comunque necessitano di approfondimenti in rapporto alle singole realtà geografiche e ai diversi

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Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia cit., p. 326 e nota 14. Ibid., pp. 322-330; Vocabolari Veneto-Tedeschi del secolo XV, cur. A. RossebastianoBart, Savigliano 1983. Ma si rimanda naturalmente alle relazioni della stessa Alda Rossebastiano e di José Van der Helm pubblicate nel presente volume. 17 S. Piasentini, «Alla luce della luna». I furti a Venezia (1270-1403), Venezia 1992, p. 99. 18 S. Duvia, ‘Restati eran Thodeschi in su l’hospicio’. Il ruolo degli osti in una città di confine (Como, secoli XV-XVI), Milano 2010, passim. 19 R. A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, Baltimore 2009 (trad. it.: Bologna 2013), pp. 85-86. 20 Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia cit., p. 323 e note 5 e 6. 21 Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani, ed. crit. G. Porta, I, Parma 1995, Libro quarto, cap. LXXVIII, p. 588, scrive che « i costumi e’movimenti della lingua tedesca sono come barberi, e divisati e strani alli Italiani». Sui giudizi degli italiani sulla lingua e sui costumi dei tedeschi cfr. H. Zug Tucci, La Germania dei viaggiatori italiani, in Europa e Mediterraneo tra Medioevo e prima età moderna: l’osservatorio italiano, Pisa 1992, pp. 181-206: 182 e passim, e naturalmente in questo volume la relazione di Lorenz Böninger.


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periodi. Non si tratta di problemi di poco conto; con essi si sono misurate le società del passato, dal mondo antico all’età contemporanea. Per l’Europa del tardo Medioevo e del primo Rinascimento affrontare l’intreccio di tali problematiche – è questo il compito ambizioso che il convegno si è dato chiamando a raccolta alcuni tra i maggiori specialisti italiani e stranieri – significa mettere a fuoco le forme di comunicazione, scritta e orale, ai diversi livelli sociali, e insieme portare nuova luce sulla rete dei rapporti tra genti di culture diverse, in modo da comprendere meglio, in definitiva, i caratteri di una società complessa e dinamica. Un convegno quindi che unisce la storia della cultura alla storia sociale, intesa nella sua accezione più ampia; un convegno che affronta tematiche che in questi ultimi anni si sono poste all’attenzione della storiografia internazionale22, con la prospettiva di offrire approfondimenti e nuove acquisizioni.

22 Ai volumi miscellanei citati sopra alle note 3, 4 e 6 – tutti pubblicati a partire dal 2010 – occorre aggiungere l’opera collettiva Les langues étrangères en Europe. Apprentissage et pratiques (1450-1700), cur. M. Zuili - S. Baddeley, coll. J.-F. Chappuit, Paris 2012 (di particolare interesse per l’Italia il saggio di N. Bingen, L’usage et la connaissance de la langue italienne dans la diplomatie française, 1490-1540, pp. 123-156), nonché l’edizione italiana di P. Stotz, Il latino nel Medioevo. Guida allo studio di una identità linguistica europea, cur. L.G.G. Ricci, Firenze 2013 (ed. orig. München 2002): ma naturalmente sull’uso del latino si rimanda alla relazione di Massimo Oldoni.


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Il plurilinguismo medievale e la coscienza distintiva degli idiomi romanzi


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Se dovessi corredare di un’epigrafe questa breve esposizione, sceglierei sicuramente il testo più rappresentativo, e perciò giustamente celebre, del plurilinguismo letterario romanzo del Medioevo, che è anche il testo in cui la valorizzazione artistica delle varietà linguistiche romanze medievali raggiunge il massimo grado, realizzandone la più consapevole consacrazione: il discordo plurilingue di Raimbaut de Vaqueiras, Eras quan vey verdeyar, in cui si susseguono cinque strofe ognuna in un diverso idioma (occitanico, italiano, francese, guascone e galego-portoghese), per fondersi poi nel congedo. Più di tante categorizzazioni concettuali sulle varietà e le differenze linguistiche romanze, il discordo di Raimbaut, in cui la diversitas linguistica diventa per la prima volta strumento e insieme materia di poesia, ci dà, sia pure in una prospettiva particolare (legata probabilmente al contesto “internazionale” della IV crociata1), il quadro vivo e concreto del plurilinguismo romanzo dell’inizio del XIII secolo, mostrando anche come, ancora a quest’epoca, la differenziazione degli idiomi neolatini – di cui, con geniale precocità, si intuisce in factis l’affinità, se non la parentela – non costituisse affatto un ostacolo all’intercomprensione2.

1 Cfr., con sfumature diverse, G. Tavani, Il discordo plurilingue di Raimbaut de Vaqueiras (BdT 392,4), in Tavani, Restauri testuali, Roma 2001, pp. 39-102: 66-83; A. Castro, O descordo plurilíngüe de Raimbaut de Vaqueiras (um ensayo de filologia românica para compreensâo de su obra, sua vida e seu tempo), Rio de Janeiro 1995, spec. pp. 291-310; per gli aspetti linguistici e stilistici, F. Brugnolo, Plurilinguismo e lirica medievale. Da Raimbaut de Vaqueiras a Dante, Roma 1983, pp. 67-103. 2 Così come, a maggior ragione, non lo costituiva tre secoli prima: M. Van Uytfanghe, Quelques observations sur la communication linguistique dans la Romania du IXe siècle, in Zwischen Babel und Pfingsten. Sprachdifferenzen und Gesprächsverständigung in der Vormoderne (8.-16. Jahrhundert) / Entre Babel et Pentecôte. Différences linguistiques et communication orale avant la modernité (VIIIe-XVIe siècle), cur. P. Von Moos, Wien-ZürichBerlin 2008, pp. 317-337, riferisce di un episodio databile al secondo quarto del IX secolo in cui uno spagnolo non ha difficoltà a farsi comprendere da un italiano, «quoniam linguae


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Anche perché, come è noto, nel Medioevo la lingua, in sé, non è un fattore identitario3. L’altro “nume tutelare” di questa esposizione è ovviamente Dante e, specialmente, il De vulgari eloquentia, che costituisce il vertice della riflessione linguistica medievale sulle varietà e le differenze linguistiche (e viceversa le parentele), fornendone anche il quadro, per l’epoca, più organico e completo, con quella sorta di discesa “a cascata” che va dalla primigenia lingua edenica alla lingue babeliche, e da queste al pervasivo ydioma tripharium europeo, con l’ulteriore specifica tripartizione del suo ramo “meridionale” (cioè romanzo) in lingua d’oc, d’oïl e di sì e la finale analisi delle varietà “dialettali” di quest’ultimo. I punti di partenza della riflessione di Dante sono quelli centrali in generale nella riflessione medievale sul tema, e cioè la diversità e varietà delle lingue come effetto della torre di Babele – la biblica confusio linguarum – , e poi il rapporto tra il volgare (ovvero i volgari) e il latino. Come ha scritto Serge Lusignan (in un libro fondamentale per il nostro assunto, una vera miniera4), il mito della torre di Babele costituisce «la base del pensiero cristiano sulla diversità delle lingue», da cui parte ogni riflessione medievale in merito (compresa appunto quella di Dante5). A questa s’aggiungono altri tre riferimenti obbligati al Nuovo Testamento: la Pentecoste, l’iscrizione trilingue (in greco, ebraico e latino) sulla croce – che fonda il principio delle tre lingue “sacre” – e infine il terzo tradimento di san Pietro, che viene identificato appunto dal suo modo di parlare, dal suo accento regionale («loquela tua manifestum te facit», Mt XXVI, 73). È evidente anche da qui che l’interesse medievale per la diversità e la varietà delle lingue fa capo all’apertura e alla curiosità che fin dalle origini il cristianesimo occidentale ha mostrato per le lingue “altre”, sia in senso positivo che in senso negativo (sant’Agostino per esempio considerava la diversità delle lingue come la causa principale dell’allontanamento reciproco tra gli umani6). Quanto a Dante, il tema suo centrale di riflessione

eius, eo quod esset Italus, notitiam habebat» (ciò che per la verità, mutatis mutandis, può succedere ancor oggi). 3 Solo fra Tre e Quattrocento la lingua comincerà «a diventare un elemento centrale dell’identità sociale e politica» (A. Varvaro, “La tua loquela ti fa manifesto”: lingue e identità nella letteratura medievale [2002], in Varvaro, Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma 2004, pp. 227-242: 240). 4 Cfr. S. Lusignan, Parler vulgairement. Les intellectuels et la langue française aux XIIIe et XIVe siècles, Montréal 1987; la citazione che segue (traduzione mia) a p. 51. 5 Cfr. I. Rosier-Catach (avec la collaboration de R. Imbach), La tour de Babel dans la philosophie du langage de Dante, in Zwischen Babel und Pfingsten cit., pp. 183-204. 6 De civitate Dei, XIX 7.


IL PLURILINGUISMO MEDIEVALE E LA COSCIENZA DISTINTIVA

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diventa poi ovviamente quello del rapporto fra latino e volgare, e quello dell’uso specifico del volgare. Non mi soffermerò però su Dante, e risalirò invece molto più indietro. Come è noto, l’atto, per così dire, di battesimo delle lingue romanze, che certifica la prima presa di coscienza della loro diversità o alterità rispetto al latino è il celebre diciassettesimo canone del Concilio di Tours dell’813, riguardante la predicazione rivolta alla generalità dei fedeli sotto la giurisdizione carolingia. I prelati sono caldamente invitati a “tradurre apertamente” (aperte transferre) «in rusticam romanam linguam aut thiotiscam» le loro omelie (e probabilmente anche sermoni latini già esistenti), affinché tutti possano facilius intelligere7. Nonostante le attenuazioni e i distinguo che sono stati fatti riguardo al significato di questo importante documento (soprattutto riguardo a quella problematica romana lingua, peraltro sovradeterminata da rustica8), non si può non vedere in esso un discrimine epocale, cioè il passaggio da una situazione di diglossia (in cui il volgare, ossia la lingua parlata, è sentito solo come una variante “bassa” del latino) a una situazione di vero e proprio bilinguismo. Il termine transferre, malgrado i tentativi di interpretarlo come ‘trasporre’, ‘adattare’, ‘riscrivere’ ecc. significa proprio ‘tradurre’9, e la traduzione – che esclude altre forme, ibride o intermedie, di quella

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«Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet episcopus habeat omelias continentes necessarias ammonitiones, quibus subiecti erudiantur, id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum et aeterna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura et ultimo iudicio et quibus operibus possit promereri beata vita quibusve excludi. Et ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam romanam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur». Cfr. Au. Roncaglia, Le origini, in Storia della Letteratura Italiana, dir. E. Cecchi - N. Sapegno, I. Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 1-269: 155-156; O. Parlangèli, Una disposizione del concilio di Tours (813) per la predicazione in lingua volgare,«Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Pubblicazioni dell’Università di Bari», 11 (1966), pp. 213-219; M. Banniard, Viva voce. Communication écrite et communication orale du IVe au IXe siécle en Occident latin, Paris 1992, pp. 410-419. La più recente disàmina, con nuova traduzione del passo, in Banniard, Du latin des illettrés au roman des lettrés. La question des niveaux de langue en France (VIIIe-XIIe siècle), in Zwischen Babel und Pfingsten cit., pp. 269-286: 271-273. 8 Rustica non è qui un aggettivo di circostanza, ma «une épithète de nature que surdétermine le premier adjectif» (Banniard, Viva voce cit., p. 413). 9 Anche autori più tardi (p. es.il cronista Lamberto d’Ardres) usano espressioni analoghe (transferre in romanam linguam o in sibi notissimam Romanitatis linguam), e intendono proprio la traduzione; cfr. A. Grondeux, Le latin et les autre langues au Moyen Âge: contacts avec des locuteurs étrangers, bilinguisme, interpretation et traduction (800-1200), in ‘Tous vos gens a latin’. Le latin, langue savante, langue mondaine (XIVe-XVIIe siècles), cur. E. Bury, Genève 2005, pp. 47-67: 55-56.


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mediazione comunicativa cui aspira l’evangelizzazione – avviene solo fra lingue diverse (a maggior ragione, nel caso nostro, se i sermoni da tradurre sono preesistenti e riconosciuti). La riforma carolingia del latino – che si sente in definitiva anche nel latino corretto e univoco dei deliberati di Tours – ha fatto sì che la distanza fra la lingua scritta istituzionale e la realtà del parlato diventasse incolmabile. Il confronto diretto, inevitabile all’interno dell’impero carolingio, fra la lingua neolatina dei Franchi occidentali e la lingua germanica, thiotisca, dei Franchi orientali, ha fatto il resto (e a ben vedere, se non fosse per quel decisivo «aut thiotiscam», il versante romanzo potrebbe ancora riferirsi a uno di quei “registri intermedi” cui in epoche di diglossia mirano le scritture a destinazione orale10). La coscienza dell’autonomia tipologica del volgare romanzo, e quindi della distinzione concettuale fra latino e romanzo, nasce dunque in un contesto non di bilinguismo (e tanto meno di diglossia), ma di trilinguismo, e questo pare essere il contesto in cui trovano spazio e funzione le stesse prime attestazioni del francese11. Se prima dell’800, all’interno del dominio carolingio, la situazione linguistica poteva essere schematizzata attraverso l’opposizione binaria di due “insiemi” – da un lato 1) il latino, nelle sue due varianti, quella alta (lingua latina, in quanto norma di riferimento) e quella bassa (romana lingua, in quanto realizzazione fattuale, concreta, della lingua latina), dall’altro 2) il germanico – , ora lo schema diventa tripartito, col latino (riformato) come lingua scritta superiore e onnicomprensiva, e i due nuovi volgari dotati ormai di autonomia e individualità. La schematizzazione grafica data da Gianfranco Folena nel suo Textus testis, che dalla formula («che può valere all’ingrosso per l’età merovingica»)12: latina lingua ------------------thiotisca lingua romana lingua

10 Cfr. F. Sabatini, Italia linguistica delle origini, Lecce 1996, I, pp. 222-223; G. Folena, “Textus testis”: caso e necessità nelle origini romanze (1973), in Folena, Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino 2002, pp. 3-26: 22-23; entrambi con riferimento al classico H. Lüdtke, Die Entstehung der romanischen Schriftsprachen, «Vox Romanica», 23 (1964), pp. 3-21. 11 «The reciprocal influences that existed between the Eastern and the Western Franks inevitably encouraged the intellectuals in the western area to go further themselves in accepting the culture […] and promoting the literature of their own lingua vulgaris» (M. Banniard, Rhabanus Maurus and the vernacular languages, in Latin and the Romance Languages in the Early Middle Ages, cur. R. Wright, London 1991, pp. 164-174: 173). 12 Folena, Textus testis cit., p. 9.


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passa in età carolingia (e oltre) alla formula: latina lingua ___________________________ romana lingua | thiotisca lingua

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è più eloquente di ogni esplicazione in merito. Recentemente, come accennavo, non sono mancati tentativi di relativizzare l’importanza e il significato del deliberato del concilio di Tours, nel senso che l’espressione rustica romana lingua apparentemente così innovativa (a indicare una realtà nuova, appunto il volgare – e nella fattispecie il proto-francese – della cui opposizione al latino si prende ora coscienza) in realtà è caratterizzata, in sé e nelle sue componenti, da una certa diffusione: romana lingua in particolare poteva valere all’epoca come sinonimo di latina lingua (l’una essendo, per così dire, la realizzazione pratica – locutio – della prima)13, sicché l’aggiunta determinante dell’aggettivo rustica (anch’esso di tradizione antica: il sermo rusticus, a indicare una varietà bassa di latino, opposta al latino politus) potrebbe in realtà rinviare, più che a un autonomo idioma “volgare”, a quello che Michel Banniard chiama il «latino degli illetterati», cioè il latino parlato di epoca precarolingia, ovviamente ben diverso dal latino restaurato di età carolingia ma tutto sommato inserito ancora in un continuum latino ininterrotto, quindi sostanzialmente al di qua di un’effettiva presa di coscienza della differenza insormontabile fra i due livelli14. La distinzione sarebbe insomma ancora tutta i n t e r n a al latino. Mi pare tuttavia che sia difficile sottovalutare l’importanza del canone dell’813 (ribadito qualche anno dopo da un analogo deliberato a Magonza, in area germanofona dunque, ma sempre con riferimento, oltre che al tedesco, alla rustica romana lingua, che certo a Magonza non doveva essere particolarmente praticata, così come del resto la lingua thiotisca a Tours); e per quanto la situazione linguistica, per quel che riguarda la coscienza dell’autonomia del volgare, sia ancora piuttosto confusa e certamente non omogenea (nella stessa Gallia e a maggior ragione nel resto della Romània, dove lingua latina poteva riferirsi, indifferenziatamente, anche alle nuove realtà), non c’è dubbio che all’alba del IX secolo, in Gallia, la comunicazione “verticale” entri definitivamente in crisi 13 Cfr. M. Van Uytfanghe, The Consciousness of a linguistic dichotomy (Latin-Romance)

in Carolingian Gaul: the Contradictions of the Sources and of their Interpretation, in Latin and the Romance Languages cit., pp. 114-129. 14 Cfr. Banniard, Viva voce cit., p. 414; Banniard, Du latin des illettrés cit., pp. 271-274.


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e si pongano le basi, a livello di consapevolezza linguistica, per il passaggio, come già detto, dalla diglossia (per cui la differenziazione è solo di registri e livelli d e n t r o il latino) al bilinguismo latino-romanzo, sentito ora come un analogon del bilinguismo “orizzontale” latino-tedesco: dalla dualità latino - lingua thiotisca alla dualità latino - rustica romana lingua attraverso la dualità romana lingua - lingua thiotisca. Lingua romana o lingua romana rustica, in altre parole, non è una “novità” in sé, ma è una denominazione già in uso che passa a definire una realtà nuova, su cui ci orienta non solo il verbo transferre ma anche quell’emblematico avverbio aperte («chiaramente, in modo comprensibile») e lo stesso studeat, che implica uno sforzo, un impegno, la “fatica” di passare da una lingua ad un’altra15. (È interessante che la denominazione compaia verso l’860 in un passo, di tradizione peraltro più tarda, di un’ecloga di san Pascasio Radbert, abate di Corbie, dedicato alle conoscenze linguistiche del suo predecessore sant’Adelardo, ovviamente un germanofono: «rustica romana latinaque lingua», PL 120, col. 1553A). Appena trent’anni dopo il concilio di Tours lo storico Nitardo, nel registrare – nei rispettivi volgari, proto-francese e germanico – i Giuramenti di Strasburgo pronunciati nell’842 da Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, prima attestazione scritta ufficiale di una lingua romanza e dunque consacrazione definitiva della sua autonomia, ometterà senz’altro l’aggettivo rusticus, e parlerà semplicemente, per il testo francese dei giuramenti, di lingua romana, contrapposta, una volta di più, non tanto alla latina ma, beninteso, alla thiotisca. Le stesse espressioni (lingua romana, lingua thiotisca) tornano ripetutamente nel resoconto del successivo incontro dell’860 fra i due sovrani e il fratello Lotario a Coblenza e dei rispettivi discorsi16. Solo nell’XI secolo si arriverà a una sistemazione terminologica e concettuale atta a distinguere chiaramente fra il latino, da una parte, e il volgare dall’altra. Una testimonianza di questo passaggio fondamentale è riscontrabile, si vorrebbe dire con plastica evidenza, nelle due versioni, la prima del IX secolo, la seconda, rimaneggiata, dell’XI, della vita latina di 15 16

Sull’importanza di aperte si sofferma anche Banniard, Viva voce cit., pp. 418-419. «Haec eadem domnus Karolus romana lingua adnuntiavit, et ex maxima parte lingua theothisca recapitulavit […]. Post haec dominus Hludowicus ad domnum Karolum fratrem suum lingua romana dixit […]. Et domnus Karolus excelsiori voce lingua romana dixit etc.» (PL 138, col. 675), e così di seguito, dove i due sovrani usano indifferentemente entrambe le lingue: cfr. M. Banniard, Diasystèmes et diacronie langagières du latin parlé tardif au protofrançais (IIIe-VIIIe siècles), in La transizione dal latino alle lingue romanze, cur. J. Herman, coll. L. Mondin, Tübingen 1998, pp. 131-153: 137.


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san Mummoleno: nella versione più antica si dice che il santo conosceva perfettamente il latino e il tedesco («latina et theutonica praepollebat facundia»), in quella più tarda il latino è senz’altro sostituito dalla romana lingua («praevalebat non tantum in Theutonica, sed etiam in Romana lingua»)17. Si noti anche qui il costante accompagnamento col tedesco, determinante per l’identificazione, in termini differenziali, della lingua romana. Dall’aggettivo romanus (tramite l’avverbio romanice, coniato nel X secolo probabilmente a partire, una volta di più, da teuthonice, per opposizione) deriverà, prima in francese, poi in altre lingue – ma non in italiano – , il termine che designerà a lungo il volgare, la lingua parlata, viva, in contrapposizione al latino, ma in senso ancora indifferenziato, quello che c’è nel tedesco wahla, welsch (che nel Medioevo indica l’insieme dei volgari romanzi, senza distinzioni). Nelle Glosse di Kassel (VIII-IX sec.) la sapientia dei paioari, dei bavaresi, è contrapposta alla stultitia dei romani (che infatti vengono glossati con wahla): la distinzione è naturalmente di tipo, diciamo così, etnico-geografico, ma non dimentichiamo che il Glossario di Kassel è un piccolo prontuario di conversazione bilingue, romanzo-germanico. Nel galloromanzo l’aggettivo roman (romanz, romans) in senso propriamente linguistico è attestato nei primi decenni del Millecento: Gugliemo IX d’Aquitania, il più antico trovatore, esorta a pregare per lui «en romans et en […] lati», in volgare e in latino (Pos de chantar, v. 24), e siamo intorno al 1120; qualche tempo dopo un altro trovatore, Jaufre Rudel, sottolinea che una sua poesia, la canzone Quan lo rius de la fontana, è composta in plana lenga romana, lingua dell’espressione e della trasmissione orale in opposizione, evidentemente, al latino, lingua della scrittura. L’aggettivo plana indica la maggiore facilità di comprensione ed è in qualche modo il succedaneo non solo di rustica, ma anche di quell’avverbio, aperte, che i padri conciliari di Tours nell’813 volevano caratterizzasse la traduzione delle omelie. La definitiva presa di coscienza della lingua romana, documentata la prima volta in un contesto comunicativo, quello dei Giuramenti di

17 Il passo e il rapporto fra le due versioni (che in certe fonti risulta invertito) sono stati variamente discussi (almeno a partire da E. Cocchia, La Vita di San Mummoleno ovvero la tradizione più antica intorno all’uso del latino volgare delle Gallie, «Atti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», n. ser., 3 (1914), pp. 35-52), ma la loro rilevanza è indiscutibile. Cfr. d’A.S. Avalle, Protostoria delle lingue romanze, Torino 1965, p. 5; Van Uytfanghe, The Consciousness cit., p. 116; B. Frank-Job, Vulgaris lingua - volgare illustre - italiano. Kategorisierungen der Muttersprache in Italien, in Italianità. Ein literari-


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Strasburgo, che più ufficiale e istituzionale non si potrebbe, costituisce il necessario presupposto non solo del definitivo “divorzio” fra latino e volgare (nel senso che d’ora in poi il latino comincerà ad essere studiato non come una variante formale, elevata, “grammaticale”, della lingua quotidiana, ma come un’ a l t r a lingua, straniera per così dire: «a foreign language for all»18), ma anche della promozione del volgare a lingua scritta e anzi letteraria: ciò che viene confermato appena quarant’anni dopo i Giuramenti di Strasburgo dal primo testo letterario francese e, in assoluto, romanzo, ormai quasi completamente svincolato da influssi grafici e lessicali latineggianti (ancora presenti nei Giuramenti): la Sequenza di Sant’Eulalia. Anche qui la situazione di plurilinguismo – nella fattispecie di trilinguismo – sembra determinante per l’affermazione del volgare romanzo. Latino, francese e tedesco si susseguono infatti nel manoscritto che ci ha trasmesso l’Eulalia in una molteplice rivelatrice concatenazione che ha appunto al suo centro la nostra sequenza volgare: la quale da un lato “fa coppia” col testo latino che immediatamente la precede per il fatto che questo è pure dedicato a sant’Eulalia e si avvale dell’identica forma metrica, dall’altro è strettamente legata al poemetto in antico alto tedesco che la segue (il cosiddetto Ludwigslied) in quanto la mano che l’ha esemplata è la stessa che trascrive quest’ultimo. In questo copista perfettamente bilingue, ma la cui lingua d’appartenenza è certamente il germanico non il romanzo (né mancano altri casi del genere), possiamo vedere da un lato il riflesso del plurilinguismo fattuale da cui trae alimento la presa di coscienza delle nuove lingue romanze, dall’altro anche la riprova del fecondo contatto e della facilità di apprendimento e della relativa intercomunicabilità fra lingue e idiomi diversi che nel Medioevo dovette durare a lungo. Prova ne sia che nella cronachistica latina e nell’agiografia dell’epoca si sottolineano spesso, magari con qualche esagerazione, le ampie competenze linguistiche di santi o di illustri prelati: per esempio nella Vita di sant’Adelardo, abate di Corbie, scritta dal suo successore Pascasio Radbert nel IX secolo – ma rimaneggiata nell’XI, ciò che deve indurre alla prudenza – si dice che il santo parlava romane, latine e theutonice, fra l’altro secondo una gradazione che andava da una conoscenza buona della romana lingua (e si tratterà

sches, sprachliches und kulturelles Identitätsmuster, cur. R. Grimm - P. Koch - Th. Stehl W. Wehle, Tübingen 2003, pp. 15-37: 19. Quest’ultima cita anche un passo dalle Gesta abbatum Trudonensium (fine XI-inizio XII sec.) in cui la dizione romana lingua viene riprovata come non appropriata, abusiva («linguam non habuit Teutonicam, sed quam corrupte nominant Romanam»). 18 Cfr. R. Wright, A sociophilological study of late latin, Turnhout 2002, pp. 7-17.


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del francese), ottima della theutonica, assolutamente perfetta della latina 19. Più tardi, a metà Duecento, l’arcivescovo di Toledo Rodrigo Jiménez de Rada interverrà nel IV concilio Laterano parlando – se si dà credito alla fonte – in vari «linguagis maternis, videlicet Romanorum, Teutonicorum, Francorum, Anglorum, Navarrorum et Yspanorum»20. Ma già al 999 risale il noto epitaffio di papa Gregorio V, di cui si celebra la perfetta competenza in tre lingue (triplici eloquio): francisca, vulgari e latina21. A lungo si è ritenuto che francisca (voce) alludesse al galloromanzo22, ma si tratterà piuttosto, come aveva già intuito il Muratori, di un idioma germanico, la lingua dei Franchi dominatori (così come l’al-ifranéyya di cui parla un viaggiatore e geografo arabo del IX secolo, Ibn Khurdádhbih23); più sfuggente il vulgari che segue, di cui più oltre. In realtà il glottonimo “francese, lingua francese” (franceis, lengue françoise ecc.), che è quello che designerà la lingua romanza la cui presa di coscienza e la cui autonomia rispetto al latino è di gran lunga la prima ad essere testimoniata e valorizzata, si afferma – a scapito di roman, romanz – relativamente tardi, nel corso del Millecento (nella Chanson de Roland franceis è ancora solo un etnonimo). Verso il 1170 il prete Conrad traduce la Chanson de Roland prima dal francese (franzische zunge, v. 9080)24 al latino e poi, dice, dal latino al tedesco (ed è già un salto rispetto a Lamprecht, che verso il 1150 definisce il francoprovenzale della fonte del 19

Cfr. H.-G. Koll, ‘Lingua latina’, ‘lingua roman(ic)a’ und die Bezeichnungen für die romanischen Vulgärsprachen, «Estudis Románics», 6 (1957-1958), pp. 95-164: 108. Per contro anche A. Terracher, À propos de la distinction entre le latin et le roman dans la France du Nord avant le IXe siècle, «The modern language review», 12 (1917), pp. 33-36: 34; Van Uytfanghe, The Consciousness cit., p. 120. 20 Cfr. A. Arizaleta, El orden de Babel: algunas notas sobre la conciencia lingüística de la clerecía letrada castellana en la primera mitad del siglo XIII, «E-Spania. Revue interdisciplinaire d’études hispaniques médiévales et modernes» [online], 13 (2012): http://e-spania.revues.org/20985. Nel De rebus Hispaniae del medesimo Rodrigo Jiménez vi è uno schizzo delle lingue europee non romanze, distribuite per gruppi: greco, valacco e bulgaro; cumano; slavo, boemo, polacco; ungherese; irlandese e scozzese; tedesco, norreno, fiammingo e inglese (che unicam habent linguam) e così via, fino ai baschi (l’elenco è in parte ripreso dal Libro de Alexandre antico spagnolo); cfr. anche Grondeux, Le latin et les autres langues cit., p. 50. 21 Cfr. Koll, ‘Lingua latina’ cit., p. 109. 22 Torna ora a sostenerlo anche Wright, A sociophilological study cit., p. 206. 23 Cfr. Folena, Textus testis cit., pp. 12-14. 24 Dovrebbe essere la prima attestazione in una lingua viva del sintagma completo “lingua francese” (franzische zunge, appunto), documentato in lingua d’oïl solo un decennio dopo (Chrétien de Troyes, Lancelot, v. 40: «bien parlant en lengue françoise»). Anteriormente (1130 ca.) compare «franceise raisun» (Philippe de Thaün, nell’esordio del suo Bestiario).


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suo Alexanderlied semplicemente come walhisken, welsch, v. 15). Molto esplicite, all’incirca negli stessi anni, sono le attestazioni dell’anglonormanno Wace nel Roman de Rou: «man en engleis e en norreis / senefie hume en franceis» (vv. 106-107) e di Marie de France nel lai dell’usignolo, Laustic (o Aüstic): «ceo est russignol en franceis / et nihtegale en dreit engleis» (vv. 5-6): ulteriore conferma, oltretutto, che la coscienza di uno specifico volgare – in questo caso il francese – si costituisce inizialmente non solo o non tanto nel confronto col latino, ma soprattutto nel confronto – cioè la concreta esperienza comunicativa – con un’altra lingua viva, in questo caso l’inglese (in altri, come già visto, il tedesco25); basti dire, a riprova, che nel prologo dei Lais Marie afferma di avere tradotto non dal latino al “francese”, ma «de latin en romaunz»26! Nelle scritture latine franceis passa peraltro decisamente in secondo piano rispetto a gallicus, lingua gallica, gallice: termini che inizialmente, fino a tutto il Mille circa, indicano soltanto la distinzione rispetto al tedesco; solo successivamente la distinzione anche rispetto al latino. Altri termini sono più rari: lingua francigena per esempio; mentre franciloquo sermone compare in Raterio da Verona, morto nel 974: ma non so se riferisca anche lui al fràncone. Più problematica, ma in un altro senso (musicale?), è la “maniera” francesca di cui si parla in uno dei più antichi monumenti occitanici, la Sainta Fides (terzo quarto del Mille), in un contesto in cui vi si contrappongono comunque il greco (paraula grezesca) e l’arabo (lengua serrazinesca); mentre è assente (o solo sullo sfondo) il latino, a conferma di quanto dicevamo. Ma quello che qui interessa è come, nel concerto linguistico europeo del Medioevo, il francese sia l’idioma che maggiormente s’impone sia a livello di autocoscienza linguistica (ed embrionalmente “nazionale”: nel 1250 ca. Umberto di Romans collega implicitamente lingua e patria, osservando che un “francese” – Gallicus – , dovunque vada, non potrà mai rinunciare alla sua lingua per un’altra, «propter nobiltatem linguae suae et patriae suae»27) che per il prestigio indiscutibile di lingua di cultura e veicolare, e anche come lingua su cui fondare teorie, considerazioni e caratterizzazioni metalinguistiche: come se il francese fosse in grado da solo di rappresentare l’insieme delle lingue vive. 25 O addirittura il greco, come nel citato Bestiario di Philippe de Thaün: «ceo que en Griu est leun, en Franceis rei ad nun» (v. 12). 26 Mentre nell’epilogo dell’Isopet (raccolta di favole esopiane) la traduzione è fatta «de l’engleis […] en franceis». 27 Cfr. Lusignan, Parler vulgairement cit., p. 58.


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Qui con francese o gallicus, lingua gallica s’intende ovviamente precisamente la lingua d’oïl: che è la prima, e a lungo l’unica, a godere, sia pure per approssimazione, di una denominazione unitaria, mentre nel Sud della Francia, nel dominio occitanico, si oscilla a lungo tra lemosì e proensal, talora anche pittavino; e lenga d’oc comparirà, e parcamente, solo a fine Duecento, poco prima che Dante ne sancisca l’uso nel De vulgari eloquentia (e nel Convivio). Già verso il 1150 Pietro Elia (Pierre Helie) riconoscendo che anche le lingue volgari possono avere una grammatica come il latino, porta l’esempio del francese (lingua gallica). A fine 1100 Alexander Neckam, discorrendo del problema dell’articolo, inesistente in latino, porta anche lui come esempio (come farà poco più tardi anche Robert Kilwardby), accanto al greco, solo il francese28. All’incirca negli stessi anni Stephen Langton, quando vuole dimostrare che si può celebrare il battesimo anche in lingue diverse dal latino, citerà la traduzione francese, e non altre, della formula «In nomine patris, et filii etc.» (El nom del pere et del Fil ecc.). Anche san Tommaso, quando fa riferimento a lingue vive, parlate, menziona, lui italiano, soltanto il gallicum e il theutonicum (quasi recuperando il bilinguismo orizzontale fondante di età carolingia di cui parlavamo). Verso metà Duecento il canonico zurighese Corrado di Mure oppone alle lingue “sacre” – la triade ebraico-greco-latino – le lingue “barbare”, esemplificate solo nel francese (gallico) e nel tedesco. Nei romanzi cortesi tedeschi (Goffredo di Strasburgo, Wolfram von Eschenbach), quando si elencano le conoscenze linguistiche di taluni personaggi (Tristano, Isotta, Kundrie…), l’unica lingua romanza menzionata (a parte il latino) è per l’appunto il francese29. E forse in questa lingua, piuttosto che in provenzale, sarà stata scritta l’opera perduta di Tommasino da Circlaria, cui l’autore, un friulano che adotta poi il tedesco, fa riferimento nel suo Welscher Gast (1215/16). Questo prestigio della lingua d’oïl come lingua della comunicazione “europea” viene sanzionato nella seconda metà del Duecento dalle lodi e apprezzamenti del francese, di cui si sottolinea non solo la consolidata diffusione internazionale, ma anche la bellezza e la dolcezza: di douceur et 28 29

Per tutti e tre cfr. ibid., pp. 21-30. Del resto la conoscenza del francese era particolarmente ambita e apprezzata nell’alta società tedesca dell’epoca, come ci attesta Adenet Le Roi (1270 ca.): «Avoit une coustume ens el tiois paÿs / Que tout li grant seignor, li conte et li marchis, / Avoient entour aus gent françoise tout dis / Pour aprendre françois lor filles et lor fis» (Berte aus grans piés, vv. 149-52: ‘era costume in terra tedesca che i grandi signori, conti e marchesi, si circondassero sempre di francesi per far imparare il francese alle loro figlie e ai loro figli’).


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beauté parla un erudito anglonormanno del Trecento, quasi riecheggiando i noti precedenti del fiorentino Brunetto Latini («la lingua francese è la più bella, gradevole [delitable] e la più diffusa») e del veneziano Martino da Canal («la lingua francese [langue française] è diffusa in tutto il mondo ed è più piacevole [delitable] da leggere e da udire di ogni altra»)30. È notevole che siano tutte lodi e distinzioni che provengono per così dire dall’esterno, da “stranieri” e che presuppongono dunque un implicito raffronto comparativo tra volgari diversi (tra cui magari il proprio). L’anonimo autore di un Anticristo franco-italiano dice testualmente, a giustificazione della sua mancanza, per così dire, di lealtà linguistica: «la lingua di Francia è tale che chi l’impara non potrà mai più parlare altrimenti né imparare un’altra lingua. Perciò non mi rimproveri nessuno se mi sente parlare francese, lingua che ho imparato da tempo» (cioè, come afferma prima, fin dall’infanzia)31. Alla fine del Millecento Evrat, autore di un poema biblico scritto per Marie de Champagne, arriverà a vedere nel francese una natura quasi divina: «Ogni terra ha la sua lingua, ma tutte sono diverse e estrange (estranee l’una all’altra, non condivise), tranne la lingua francese: è quella che Dio intende meglio, poiché l’ha creata così bella e legiere (cioè ‘facile’, agile, flessibile, souple), che la si può croistre et abréger (incrementare e compendiare, cioè ‘adattare’, ‘maneggiare’) meglio di tutte le altre»32. (Fa quasi il paio, sull’altro versante, con un’affermazione riferita – forse a torto – a Ildegarda di Bingen, per la quale la lingua parlata da Adamo ed Eva era la teutonica lingua, la cui “unità”, secondo lei, si oppone alla diversitas, cioè alla frammentazione, delle parlate romanze)33. Non è dunque un caso che la presa di coscienza e la riflessione metalinguistica sulle varietà “dialettali”, cioè regionali, all’interno delle principali lingue romanze si manifesti primamente in riferimento alla lingua francese e alle sue articolazioni territoriali. Recentemente Alberto Varvaro ha individuato in un passo di Goscelin de Saint-Bertin del 1082/83 la più antica descrizione del dominio linguistico gallo-romanzo, suddiviso in dieci grandi aree “dialettali” (e si tratta già di dialetti regionali, non locali, pro-

30 Cfr., per entrambi i passi, e in genere sulla divulgazione e il prestigio del francese in Italia, Au. Roncaglia, La letteratura franco-veneta, in Storia della Letteratura Italiana, dir. E. Cecchi - N. Sapegno, II. Il Trecento, Milano 1965, pp. 725-759: 727-728. 31 Cfr. A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, 4 voll., Stuttgart 1957-1973, II, p. 788. 32 Il testo originale in Recueil d’anciens textes bas-latins, provençaux et français, accompagnés de deux glossaires et publiés par Paul Meyer, Paris 1874-1877, II, p. 339. 33 Cfr. H. Schipperges, Ein unveröffentliches Hildegard-Fragment, «Sudhoffs Archiv für Geschichte der Medizin und der Naturwissenschaften», 40 (1956), pp. 41-77.


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vinciali)34. In Goscelin il punto di vista è insieme geo-linguistico e, diciamo così, etnico-sociale: non a caso egli parla di gentes (dagli Allobrogi – cioè l’Île-de-France – agli Alverniati, dai Normanni ai Pittavini e così via, fino ai Catalani) e non di linguae o idiomata. Bisogna arrivare al grande Ruggero Bacone per trovare, per la prima volta, un’impostazione puramente e deliberatamente linguistica, che distingue chiaramente fra Piccardo, Normanno, Borgognone e Franciano (apud Gallicos et Picardos et Normannos et Burgundos)35. È interessante che Bacone – non a caso anche lui uno straniero, per così dire – veda già chiaramente questi dialetti (che definisce idiomata, che è l’analogo di quelle che san Tommaso chiamerà locutiones) come varietà regionali – ossia variazioni diatopiche – di una stessa lingua, la lingua gallicana, che ne è il concetto sovraordinato («una lingua est omnium, scilicet Gallicana»). Non è ovviamente ancora il concetto di lingua nazionale, ma in qualche modo vi si avvicina (e comunque in questi trattatisti il francese è la sola varietà romanza che può fregiarsi del titolo di lingua, come il latino, il greco e l’ebreo). Qualcosa di analogo, e anzi più esplicito e conseguente, scriveva del resto all’epoca anche un altro non francese, Tommaso d’Aquino, là dove, commentando il citato passo di Matteo XXVI,73 e notando che «in eadem lingua» convivono spesso «diversae locutiones» (cioè varietà regionali), porta come esempio le differenze tra le parlate di Francia (che è certo l’Île-de-France), di Picardia e di Burgundia: «et tamen – aggiunge – una loquela est»36. (Tra parentesi: è curioso – e ciò vale non solo per Bacone e per l’Aquinate – che mentre ci si sofferma tanto sulle varietà diatopiche della lingua d’oïl, nulla si dica invece della fondamentale bipartizione linguistica dell’ex-Gallia in lingua d’oc e lingua d’oïl: fra l’altro le due principali lingue letterarie del Medioevo). L’opposizione fra il franciano e il piccardo diventerà poi un luogo comune: il già citato Bacone osserva che i Piccardi e i Parigini si prendono in giro (mutuo se derident) per il loro modo di parlare; ancora a fine Trecento il grammatico inglese Thomas Coyfurelly distinguerà nettamente, con calzanti esemplificazioni fonetiche, il francese “di Parigi” (che chia34 Cfr. A. Varvaro, Goscelin de Saint Bertin e la più antica descrizione dell’area linguistica galloromanza, «Medioevo romanzo», 31 (2007), pp. 164-167. 35 Cfr. Lusignan, Parler vulgairement cit., p. 68. 36 Cfr. ibid., p. 61. Per Tommaso loquela equivale a lingua, mentre la loquela del passo evangelico («loquela tua manifestum te facit») è resa con locutio, lett. ‘modo di parlare’, ‘parlata (regionale)’. Altrove, commentando il salmo 28, Tommaso distingue fra le loquelae, che «significant linguas principales», e le «varietates idiomatum in eadem lingua», cioè i modi loquendi (o pronuntiandi).


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ma lingua gallicana) da quello di Piccardia, definito curiosamente lingua romanica (ciò che ne denota vieppiù la specificità)37. La consapevolezza delle varietà regionali (e anche, per così dire, extraterritoriali) del francese si afferma però ben presto anche a livello di comunicazione letteraria: è noto il passo in cui il troviero Conon de Béthune, artesiano cioè piccardo, si scusa (siamo alla corte di Parigi a inizio Duecento) di non usare bene la parole française, quello cioè che già allora si andava affermando come il “buon” francese, il franciano, la lingua di Parigi, giacché, dice, io non sono mica cresciuto a Pontoise, cioè appunto nell’Île-de-France; e qualcosa del genere («car nés ne sui pas de Paris») dirà decenni dopo anche un anonimo traduttore, originario di Meun, della Consolatio di Boezio38. Spicca in questo quadro, e non solo per precocità, la testimonianza di Aymon de Varennes alla fine del suo Florimont (1188 ca.): Aymon è lionese, ma scrive il suo poema «en la langue des Fransois». E prosegue: «Voglio servire ai Francesi, benché la mia lingua sembri loro un po’ dura, giacché mi sono espresso nel mio linguaggio al meglio che potevo; se la mia lingua contamina la loro, non mi critichino per questo»39. Sul piano sociolinguistico tutto ciò significa che il “francese” parlato nell’Île-de-France, cioè alla corte di Parigi e nella cancelleria, cominciava a godere negli ambienti aristocratici e intellettuali di un prestigio superiore a quello delle altre varietà regionali, considerate peraltro varietà legittime del sermo gallicus. Verso il 1175, Guernes de Pont Sainte Maxence, nel poema dedicato a san Tommaso Becket, si vanta di aver usato una buona lingua, perché, dice, «sono nato en France». Qui si è vista di nuovo un’esaltazione del franciano, ma la contrapposizione sarà ora piuttosto tra il francese del continente e il francese d’Inghilterra (dove Guernes operava)40, un francese 37

Cfr. S. Lusignan, Langue et societé dans le Nord de la France: le Picard comme langue des administrations publiques (XIIIe-XIVe s.), «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 151 (2007), pp. 1275-1295: 1280. Secondo Lusignan, Parler vulgairement, p. 58, anche Umberto di Romans quando usa romantius anziché gallicus (cfr. ibid., p. 38) intende probabilmente la sua parlata, cioè la lingua d’oc. 38 Cfr. ibid., p. 71. 39 «As Fransois wel de tant servir / Que ma langue lor est salvaige; /Car ju ai dit en mon langaige / As miels que ju ai seu dire; / Se ma langue la lor empire, / Por ce ne m’en dient anui» (vv. 13614-13619); cfr. R.A. Lodge, Le Français: histoire d’un dialecte devenu langue, Paris 1997, p.138, e soprattutto S. Dieckmann, ‘Langue des fransois’: die andere Sprache? Zur Selbst- und Fremdwahrnehmung im ‘Florimont’ von Aimon de Varennes, in Schreiben in einer anderen Sprache. Zur Internationalität romanischer Sprachen und Literaturen, cur. W. Dahmen et alii, Tübingen 2000, pp. 15-34. 40 Cfr. J. Chaurand, ‘Mis languages est bons, car en France fui nez’ ou: L’avantage d’être né sur le continent au XIIème s., «Carnets d’Atelier de Sociolinguistique», 2 (2007), pp. 3-27.


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importato dunque e ben presto degradato (anche nella pronuncia), e fatto spesso oggetto di derisione e parodia. Anche in questo caso, si noti, ritroviamo quella situazione di plurilinguismo che favorisce, anche attraverso la presa in giro (e la presa di distanza), la consapevolezza e diciamo pure lo studio delle varietà e delle differenze, in questo caso dialettali. L’Inghilterra francesizzata a partire dalla conquista del 1066, in cui convivono appunto tre lingue, il francese normanno delle classi elevate, l’inglese del popolo e, ovviamente, il latino della cultura, ne è un esempio quanto mai eloquente. E non è un caso che le prime grammatiche del francese nascano proprio in Inghilterra41. Così come, mutatis mutandis, le prime due grammatiche del provenzale o occitanico nascono fuori della Francia del Sud, rispettivamente in Catalogna e in Italia settentrionale (più esattamente nel Veneto)42. Mi soffermo un attimo sulla prima di esse, e cioè le Razos de trobar di Raimon Vidal de Besalù (inizio Duecento): qui lo sviluppo della consapevolezza delle varietà linguistiche romanze fa un ulteriore, anche se ancora embrionale, passo avanti, nel senso della caratterizzazione e funzionalizzazione della varietà linguistica in senso letterario. Parlando dei generi poetici e della lingua che ad essi meglio si adatta, Raimon Vidal scrive: «la lingua francese [parladura francesca] è più adatta e più bella a far romanz e pasturellas, ma quella limosina è più adatta per comporre vers, canzoni e sirventesi»: una poesia narrativa, da “romanze e pastorelle”, vs una poesia propriamente “lirica”. Qualcosa del genere dirà anche Dante nel De vulgari eloquentia, legando la valutazione linguistica alla storia letteraria e culturale, quando attribuirà al provenzale la preminenza, almeno genetica, nella poesia lirica e darà in appannaggio al francese i generi prosastici e narrativi. Questo ancoraggio dell’individualità linguistica alla caratterizzazione letteraria è un momento importante, perché ci mostra che la comunicazione letteraria in volgare, almeno fino a tutto il Duecento e anche oltre, non conosceva ostacoli e condizionamenti che non fossero quelli dei generi e delle convenzioni stilistico-retoriche. La scelta della lingua è dipesa cioè a lungo solo dalla scelta del genere letterario. Concluderò con un accenno all’italiano. Praticamente fino a Dante non ci sono attestazioni sicure di una consapevolezza distintiva, anche a livello 41

Sono elencate in P. Swiggers, Französisch: Grammatikographie, in Lexikon der romanistischen Linguistik, V. Französisch, Okzitanisch, Katalanisch, cur. G. Holtus - M. Metzeltin - Ch. Schmitt, Tübingen 1990, pp. 843-869: 844. 42 Cfr. P. Swiggers, Les premières grammaires occitanes: les ‘Razos de trobar’ de Raimon Vidal et le ‘Donatz proensals’ d’Uc (Faidit), «Zeitschrift für romanische Philologie», 105 (1989), pp. 134-147.


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terminologico, di quella che Dante chiama la lingua del sì, ma anche “lingua italica”, “volgare italico”, vulgare latinum e talora anche semplicemente “latino”43. (La testimonianza, indubbiamente precoce, di Gonzone da Novara, che nel 960, per giustificare un suo solecismo, parla di un «usus nostrae vulgaris linguae quae Latinitati vicina est»44, potrebbe riferirsi in realtà ancora a una situazione di diglossia e non di consapevole bilinguismo45; quanto alla nativa voce – oggi si direbbe “materna” – con cui il popolo di Roma acclamò nel 915 l’incoronazione di Berengario I, l’espressione – che pure viene contrapposta agli inni in latino cantati dal senato e al panegirico pronunciato in greco – è ancora troppo generica, così come il vulgari contrapposto a latina voce del già citato epitaffio di papa Gregorio V46). Una distinzione concettuale e nomenclatoria tra latino e volgare resterà insomma a lungo incerta e ambigua. Lo stesso “italiano” come glottonimo si affermerà non prima del XV secolo (ma un primo accenno in senso anche linguistico si trova, secondo me, già nel passo del proemio del Tresor che ho citato sopra a proposito della scelta della lingua francese: malgrado, sottolinea Brunetto Latini, «nos somes ytaliens»)47; e “toscano”, a indicare la nostra lingua letteraria, ancora più tardi (in parte analoga, in parte diversa la situazione dello spagnolo: español si afferma pure nel ’400, ma castellano è già nelle opere di Alfonso X, a fine Duecento). Il fatto è che fin dalle origini, anche da questo punto di vista, la nostra penisola pare condizionata dalla sua estrema frammentazione dialettale. Cosicché l’emergere della consapevolezza e della distinzione linguistica si lega inizialmente a realtà circoscritte, regionali, e i glottonimi più usati tra 1100 e 1200 sono “lombardo” e “apulo”, cioè italiano settentrionale e italiano meridionale, specialmente se visti dall’esterno, da stranieri (il cronista tedesco Albert von Stade, a inizio Duecento, individua solo due varietà italo-romanze: quella apulica e quel43 44

Cfr. L. Tomasin, Italiano. Storia di una parola, Roma 2011, pp. 40-45. Cfr. M. Mancini, Oralità e scrittura nei testi delle Origini, in Storia della lingua italiana, cur. L. Serianni - P. Trifone, dir. A. Asor Rosa, II. Scritto e parlato, Torino 1994, pp. 5-40: 29. 45 L’opposizione sarebbe semmai quella tra il “latino degli illetterati” e il “buon” latino riformato (cfr. Banniard, Viva voce cit., p. 547-549; Van Uytfanghe, Quelques observations cit., p. 324. 46 «Usus francisca, vulgari et voce latina / instituit populos eloquio triplici». Banniard, Viva voce cit., p. 549, mi pare troppo sicuro nel vedere in questi due versi «le premier document où la distinction entre italien et latin soit certaine». 47 Pare che Brunetto sia anzi il primo a usare, sia pure in francese, la parola “italiano”; cfr. Tomasin, Italiano cit., pp. 36-38 (che sembra però optare per il solo significato etnicogeografico).


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la lombardica48). Il commento all’Apocalisse attribuito a Ugo di San Caro (de Saint Cher, circa metà Duecento), operando la solita distinzione fra linguae e idiomata, porta come esempi di questi ultimi il Gallicum e il Lombardicum. L’anonimo De vitiis et virtutibus (che cito dal Corpus Thomisticum del padre Busa49) parla, in un passo interessante del cap. VI che ora sarebbe troppo lungo analizzare nelle sue implicazioni, delle quattro loquelae prae aliis placabiles, e cioè «Francigena in Gallia, in Lombardia Pedemontis prolatio metrica, et prosaica in Alemannia», e infine «compositio dictaminis in Apulia»: dove pare di rilevare anche la combinazione di criteri linguistici e criteri retorico-letterari. Solo Salimbene de Adam introduce accanto al lombardo il toscano, percepito peraltro come diverso e lontano dal lombardo non meno che dal francese («optime loquebatur Gallice, Tuscice et Lombardice et aliis multis modis»)50, ma ancora a fine ’300 il grammatico Henry de Crissey, menzionando, accanto al latino, al francese (apud Gallos) e al tedesco (apud Germanos), l’italiano, lo individua solo nel lombardo o italiano settentrionale: apud lombardos seu Ytalicos51. Ciò fa supporre che la lingua italica che Carlo IV di Lussemburgo nella Bolla d’oro del 1356 chiede ai principi elettori di parlare – oltre al tedesco, al latino e alla lingua slavica52 – sia precisamente il “lombardo” o italiano settentrionale. E basterà infine ricordare le quasi contemporanee Leys d’Amors, trattato occitanico di poetica e retorica, le quali, per esemplificare cosa intendono per «lengatge estranh», menzionano «frances, engles, espanhol, gasco, lombard, navares, aragones e granre d’autres»53. Del resto a lungo gli italiani residenti, diciamo così, o operanti all’estero erano identificati semplicemente come “lombardi”. Non sarà un caso dunque che la prima denominazione “viva”, in senso categoriale, di una

48 Cfr. J. Bumke, Höfische Kultur. Literatur und Gesellschaft im hohen Mittelater, 2 voll., München 1987, II, pp. 436-437, in riferimento alle conoscenze linguistiche del vescovo Christian di Magonza (morto nel 1183): «utens lingua Latina, Romana, Gallica, Graeca, Apulica, Lombardica, Brabantina» (dove romana non allude certo al coevo dialetto di Roma). 49 Online: www.corpusthomisticum.org. 50 Cfr. F. Bruni, Fra toscani e lombardi (con una seconda scheda su “florentinitas”), in Idee in cerca di parole, parole in cerca di idee, Milano 2014 (= «Istituto lombardo Accademia di scienze e lettere. Incontri di studio», 68), pp. 123-174: 132. 51 Cfr. Lusignan, Parler vulgairement cit., p. 41. 52 Cfr. Borst, Der Turmbau cit., II, p. 847. 53 Cfr. J. Anglade, Las Leys d’Amors, manuscrit de l’Académie des Jeux Floraux, Toulouse 1919-1920, III, p. 164; E. Coseriu, Geschichte der romanischen Sprachwissenschaft, 1. Von den Anfängen bis 1492, Tübingen 2003, p. 49.


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varietà linguistica d’Italia sia il lombardo o lombardesco con cui l’autore – per alcuni Sordello – del cosiddetto, appunto, Sirventese lombardesco (1220 ca.) qualifica la sua lingua, contrapponendola al proenzalesco che dichiara di non conoscere sufficientemente bene per comporre un testo poetico. Da questo esempio, per quanto piccolo, si vede bene come in Italia, più che in altri paesi, la coscienza linguistica vada di pari passo col formarsi della coscienza letteraria. Questa sarà anche la posizione di Dante, e sarà poi una costante della storia linguistica italiana54.

54 La bibliografia sui temi che ho trattato in questa esposizione è vastissima ed ha avuto notevoli incrementi in questi ultimi anni. Alcuni contributi fondamentali – tra cui quello del mio maestro Gianfranco Folena, Textus testis, al quale idealmente (ma non solo) mi riallaccio – sono menzionati nelle note. Segnalo qui di seguito alcuni altri che mi sono stati particolarmente utili e a cui si potrà ricorrere per ulteriori approfondimenti: J.N. Adams, The regional diversification of Latin, 200 BC-AD 600, Cambridge University Press 2007; H. Bader, Von der „Francia” zur „Ile-de-France”. Ein Beitrag zur Geschichte von altfrz. „France”, „Franceis”, „franceis”, Winterthur 1969; B. Frank-Job, Mehrsprachigkeit im Übergang vom Latein zum Romanischen, pre-print online da Mehrsprachigkeit in der Antike: von den Anfängen der Schriftlichkeit bis ins frühe Mittelalter, cur. G. Lüdi - H.-P. Mathys - R. Wachter (www.barbara-job.de/publik/Castelen/pdf); A. Grondeux, La question des langues avant 1200, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 117 (2005), pp. 665-695; J. Kramer, Die Sprachbezeichnungen Latinus und Romanus im Lateinischen und Romanischen, Berlin 1998; B. Müller, Bezeichnungen für die Sprachen, Sprecher und Länder der Romania, in Lexikon der romanistischen Linguistik, II/1. Latein und Romanisch. Historisch-vergleichende Grammatik der romanischen Sprachen, cur. G. Holtus - M. Metzeltin - Ch. Schmitt, Tübingen 1996, pp. 134-151; K.L. Müller, ‘Latinus’ und ‘Romanus’ als Sprachbezeichnungen im frühen Mittelalter. Zu den Anfängen eines Sprachbewußtseins, in Pragmantax. Akten des 20. linguistischen Kolloquiums Braunschweig 1985, cur. A. Burkhardt - K.-H. Körner, Tübingen 1986, pp. 393-406.


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Il Mediolatino: una lingua rigenerata dall’oralità


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The words of the prophets are written in the subway walls and tenement halls. [Le parole dei profeti sono scritte sui muri del métro e nelle stanze di casa.] Paul Simon, The sound of silence

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È novembre, mese dei Campi Elisi… A tutti sarà accaduto di visitarne qualcuno, di vagare per antiche gallerie di tombe dove le lastre sono da decenni aggredite dalla ruggine e la scritta è distinguibile a mala pena…«indimenticabile»: c’è da chiedersi se anche quell’aggettivo non sia caduto nella dimenticanza degli affetti. Forse no: la scritta non si legge quasi più, ma forse nessuno avrà dimenticato quella scomparsa. La memoria supera la scrittura. Nel febbraio del 2013, all’indomani della rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, commentando la reazione pubblica del cardinale Sodano, Alberto Arbasino si chiedeva come il prelato avesse detto in latino «È stato un fulmine a ciel sereno!». Fulgura li chiama il carolingio Agobardo di Lione (769-840), grande teorico di tuoni e fulmini, fulgura passati nel volgare! Ma nel De grandine et tonitruis Agobardo mette anche altro: inventa l’aria levatitia che, dicono in giro, è provocata dai tempestarii con i loro incantesimi «interrogati vero quid sit aura levatitia confirmant incantationem hominum, qui dicuntur Tempestarii, esse levatam, et ideo dici levatitiam auram», e poi racconta d’aver «visto e sentito molti che, presi da demenza e alienati da stoltezza, credono e affermano che esiste una regione, detta Magonia, dove le navi, arrivate sulle nuvole, portano a risanare i prodotti della terra rovinati dalla grandine e dalle bufere, quasi siano doni dell’aria offerti come ricompensa»1. Agobardo crea Magonia nel IX seco1 Agobardo di Lione, Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis, in J.P. Migne, Patrologiae Cursus Completus. Series Latina (d’ora in poi P.L.), 104, Paris 1864,


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lo, così nel XII secolo Walter Map (1135-1208)2 inventa la Monachia per irridere la potente e corrotta società monastica, Cistercensi in particolare. Esiste l’aria levatizia? Esiste la Monachia? Esistono Magonia o l’Orplida del Viaggio a Praga di Mörike3? I luoghi leggendari di Eco4 non le citano. Come molte altre presenze della letteratura mediolatina forse non esistono, ma è certo che si tratta di presenze probabili e tutte vere. Quarantacinque anni fa viene pubblicato il classico libro di Dag Norberg, Manuel pratique du latin médiéval; cinque anni dopo esce l’edizione italiana5. Quell’esperienza portò il curatore a lavorare per alcuni mesi a Stoccolma accanto al grande maestro della filologia classica e della versificazione mediolatina. Eppure quel Norberg italiano, che tuttavia tanto piacque all’autore, creava un senso di disagio, una inspiegabile sensazione d’incompletezza dissimulata nell’Introduzione all’edizione tradotta. Col tempo si è precisata la ragione di quel disagio: nel Manuale di latino medievale manca qualcosa ed una frase soprattutto resta inquietante: «Un manuale di latino medievale – scrive Norberg – pone problemi particolari, non essendo questo latino una lingua nuova e autonoma, ma la continuazione aristocratica e scolastica del latino dell’epoca romana». Quindi, se si tratta d’una lingua aristocratica e scolastica occorre andare a cercare nelle classi del potere o nelle scuole dei chierici e dei monaci, il cui progetto rimane tuttavia limitato perché il mediolatino è una lingua che, intersecata con i coevi volgari parlati ovunque nell’età di mezzo, deve necessariamente misurarsi almeno su due livelli: in basso, con i circuiti orali che la contaminano arricchendola, però, di un’espressività irrisolta dove si perde la costruzione della frase ma si trasmette la ricerca di un messaggio da fare comunque arrivare; in alto, il mediolatino deve misurarsi con la necessitàdi fissare nella scrittura concetti, contenuti, impegni politici tra vincoli e gerarchie di potere. E anche là pulsa un’oralità: basterebbe pensare ai Giuramenti di Strasburgo (14 febbraio 842, fra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico contro l’imperatore Lotario I, fratello di entrambi) che richiesero l’uso degli interpreti per certificare l’attendibilità dei reciproci

coll. 147-158; cfr. anche Opera omnia, ed. L. van Acker, Turnholti 1981 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, 52). 2 W. Map, De Nugis Curialium, edd. C.N.L. Brooke-R.A.B. Mynors, Oxford 1983; cfr. anche Map, Svaghi di corte, ed. F. Latella, 2 voll., Parma 1990. 3 E. Mörike, Mozart in viaggio per Praga, cur. T. Gnoli, Milano 1930. 4 U. Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Orio sul Serio 2013. 5 D. Norberg, Manuel pratique de latin médiévale, Paris 1968; cfr. anche Norberg, Manuale di latino medievale, cur. M. Oldoni, Firenze 1974; nuova edizione con aggiornamenti cur. P. Garbini, Cava de’ Tirreni-Roma 1999.


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impegni. I Giuramenti, redatti in latino, sono tradotti nelle rispettive lingue: Carlo, di lingua volgare franca, giura in sassone per essere compreso dall’entourage di Ludovico; Ludovico il Germanico, di lingua sassone, giura in volgare franco, la lingua del fratello. Entrambi giurano, poi, nella loro lingua. Accade qualcosa di simile nel 915: in occasione dell’incoronazione del re Berengario I il senato espresse gli omaggi patrio ore, cioè in latino, ma il popolo li replicò nativa voce, cioè in un volgare italico. Nitardo (†844)6 è il cronista che in romana lingua consegna alla memoria lo straordinario documento di oralità ufficiale dei Giuramenti di Strasburgo (Historiae III 5). La stessa romana lingua è definita rustica da Gregorio Magno7 che riprende il famoso assioma di Gregorio di Tours (539-594)8 quando nella prefazione generale agli Historiarum libri decem scrive: «Pochi intendono il retore che fa filosofia, molti capiscono l’uomo che parla rustico», «Philosophantem rethorem intellegunt pauci, loquentem rusticum multi», che potrebbe anche interpretarsi come «il contadino che parla». Identicamente la lingua latina, il sermo, è affermata con autorità nell’ultimo ventennio del IX secolo dall’Encyclica de litteris colendis di Alcuino (730-804)9 che denuncia i sermones incultos del tempo suo. Così, dalla degenerazione del latino classico si genera una lingua di transito che, a propria volta, si rigenera sul piano dei significati e suggerisce nuovi sbocchi espressivi dove le concordanze, i casi grammaticali, le desinenze, la consecutio temporum non rispettano alcun obbligo, a meno che non sia voluto,…non sia voluto da chi? Pochi parlano in mediolatino, e tutti si esprimono in idiomi, dialetti, volgari e linguaggi di clan la cui sinteticità è in armonia con la velocità degli spostamenti etnici. Sono le lingue parlate che Norberg non definisce ma ricorda attive dovunque nell’influenzare quel latino tanto mutevole. Così, il mediolatino diventa necessariamente una lingua di trasmissione quando si presenta un’occorrenza di ufficialità o di notizie, ma cambia e si contamina nelle diverse aree culturali quando

6 Nitardo, Historiarum libri quattuor, ed. E. Müller, in M.G.H., Scriptores Rerum Germanicarum, [44], Hannoverae 19073; cfr. anche Nitardo, Histoire des fils de Louis le Pieux, ed. Ph. Lauer, Paris 1964; ed. S. Glansdorff, Paris 2012. 7 Gregorio Magno, Expositiones in librum primum regum, ed. P. Verbracken, Turnholti 1963 (Corpus christianorum. Series Latina, 144). 8 Gregorio di Tours, La storia dei Franchi. I dieci libri delle Storie, ed. M. Oldoni, 2 voll., Milano 1981; n. ed. Napoli 2005. 9 Alcuino, Encyclica de litteris colendis, ed. G.H. Pertz, in M.G.H., Leges I, Hannoverae 1835; Alcuino, Opusculum Quintum. Pippini regalis et nobilissimi juvenis disputatio cum Albino scholastico, in P.L., 101, Paris 1863, coll. 975-980, ma cfr. anche ed. W. Wilmanns, «Zeitschrift für deutsches Altertum», 14 (1869), pp. 530-562; ed. L.W. Daly, in Alcuino, Altercatio Hadriani Augusti et Epicteti philosophi, Urbana (Ilinois) 1939.


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è necessario descrivere eventi, trasmettere emozioni. Ecco: trasmettere emozioni… «Secoli XII-XV» sta scritto nel programma di questo Congresso: eppure i percorsi dell’oralità nel Medioevo sono diacronici, vengono da lontanissimo e nel dopo arrivano ovunque. Ormai nel XII secolo si parlano molte lingue differenti, si legge e si traduce tutto, viaggi e spostamenti sono frequentissimi. La cultura delle città e delle trasmissioni orali affianca la cultura monastica e curiale. Insomma, il XII secolo raccoglie ed esalta tutto quanto il Medioevo aveva prodotto nel prima, problemi compresi. Perché il mondo è vasto, il mondo ha sei lati10, come in età carolingia Alcuino nell’Opusculum quintum spiega al suo nobile allievo regale Pipino:

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Pippinus: Ubi est positus [homo]? Dov’è posto l’uomo? Alcuinus: Intra sex parietes. Fra sei pareti. P.: Quos? Quali? A.: Supra, subtus; ante, retro; dextra laevaque. Sopra, sotto; avanti, dietro; a destra e a sinistra

e fondamentali sono i cinque sensi:

P.: Quid sunt oculi? Cosa sono gli occhi? A.: Duces corporis, vasa luminis, animi indices Guide del corpo, vasi di luce, rivelatori dell’animo P.: Quid sunt nares? Cosa sono le narici? A.: Adductio odorum. Raccolta degli odori. P.: Quid sunt aures? Cosa sono le orecchie? A.: Collatores sonorum. Collettori dei suoni. P.: Quid est os? Cos’è la bocca? A.: Nutritor corporis. Nutritrice del corpo. P.: Quid manus? Cosa le mani? A.: Operarii corporis. Gli operai del corpo.

I sei lati del mondo e i cinque sensi sono decisivi nell’avvicinarsi al problema della lingua: essi rappresentano, infatti, il perimetro di ogni oralità, di ogni racconto nato nell’oralità e destinato a modificarsi nello svolgersi della tradizione orale. La descrizione dello spazio e il mondo sensibile sono i vettori fondamentali nella trasmissione delle culture.

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G.R. Cardona, I sei lati del mondo, Roma-Bari 1985.


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Non a caso Rosvita (935-974)11, la monaca scrittrice di Gandersheim, fa dire a un personaggio del suo dramma Sapientia che la straordinaria saggezza del Creatore, creando in principio il mondo dal nulla, non solo ha collocato ogni cosa «secondo numero, misura e peso», ma ha consentito anche che, grazie a questo, si potesse scoprire la meravigliosa scienza delle arti: In questo si deve lodare la splendente sapienza del creatore/ e la mirabile scienza dell’artefice del mondo,/ che non solo nel principio creando il mondo dal nulla,/ collocò ogni cosa secondo numero, misura e peso…

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In hoc laudanda est supereminens factoris sapientia/ et mira mundi artificis scientia,/ qui non solum, in principio/ mundum creans ex nihilo,/ omnia in numero/et mensura et pondere posuit…

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Dunque, i sei lati del mondo, i cinque sensi, i tre riscontri sperimentali… e, oltre a tutto questo, c’è qualcosa di più, c’è un’altra componente non meno essenziale perché comprende tutte le altre. Nella Macchina del tempo di H.G. Wells12 il viaggiatore nel tempo, giunto nell’anno 80.000, vuol sapere cos’è accaduto nei millenni attraversati. Cerca libri, infine li trova: entra in una biblioteca abbandonata da sempre. Lunghi corridoi sono rivestiti sui due lati da pesanti tende; ne apre una, ed ecco scopre scaffali carichi di volumi: allunga un braccio, ne prende uno e le pagine gli si sfarinano tra le mani. La millenaria immobilità aveva salvato le sembianze di quei libri. Il viaggiatore riuscirà poi a sapere qualcosa del passato soltanto quando avrà ascoltato alcuni magici cerchi parlanti. Chi avrebbe voluto leggere, adesso deve solo ascoltare. Leggere o ascoltare? E ascoltare è più importante che leggere? Giovanni di Hildesheim, nel terzo quarto del XIV secolo scrive l’Historia Trium Regum13 e al cap. XLI racconta di popoli e terre sconosciute: «In quella terra c’è un’altra regione, chiamata Enissea. Attraverso vi scorre un fiume, ed è una regione posta in tanto grande oscurità e nebbia

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Roswitha di Gandersheim, Opera omnia, ed. W. Berschin, München-Leipzig 2001; cfr. anche Roswitha, Dialoghi drammatici, ed. F. Bertini, Milano 1986; Roswitha, Poemetti agiografici e storici, edd. L. Robertini-M. Giovini, Alessandria 2004. 12 H.G. Wells, La macchina del tempo, Milano 1990 (ed. orig. London 1895). 13 Giovanni di Hildesheim, Historia Trium Regum, ed. C. Horstmann, London 1886; cfr. anche Giovanni di Hildesheim, Storia dei Re Magi. Libro delle gesta e delle traslazioni dei Tre Re, cur. M. Oldoni, Cassino 2009.


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tenebrosa che, in agosto, a mezzogiorno, mai può essere vista prima che il sole passi su quella terra. Gli abitanti raccontano che in quella regione di tenebre mai s’è sentito o visto qualcuno entrare o uscire; eppure a un tiro di balestra quella zona è abitata tutt’intorno. Nell’Enissea vi sono aree rigogliosissime e ricche di pascoli, e non c’è alcun ostacolo per entrare in quella terra tenebrosa se non l’oscurità e una densa nebbia. Eppure là, dov’è sempre così buio, si avverte una presenza d’uomini: infatti, si sentono spesso nitriti di cavalli e canti di galli, e sul fiume che attraversa la regione arrivano legni e strami tagliati e separati da mani d’uomo.» Le tenebre e i suoni. La vista e l’udito descrivono una lontananza di presenze e scenari misteriosi. Tutta fondata sull’oralità, la descrizione dell’Enissea è fatta soltanto di suoni e viste offuscate. Io ascolto, vedo, poi scrivo, qualcuno legge, ma molti altri ascoltano quello che io racconto: oralità-scrittura-lettura-oralità. Il messaggio affidato alla bottiglia esige due regole: 1. che la bottiglia sia ben chiusa, altrimenti la carta si macera al contatto con l’acqua, con il rischio di perdere il documento scritto; 2. che qualcuno, aperta la bottiglia, sappia leggere il messaggio. Come non ripensare a Kafka? «L’imperatore ha inviato a te,…proprio a te ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero presso al letto e gli ha mormorato il messaggio all’orecchio; tanto era importante per lui, che se l’è fatto ripetere piano ancora una volta. Con cenni del capo ha confermato l’esattezza delle parole. E…ha congedato il messaggero». Il messaggio non è scritto, è sussurrato all’orecchio del messaggero e il messaggero lo ripete. Ma lui non arriverà mai a destinazione, eppure «tu stai seduto presso la tua finestra, e sogni quel messaggio, quando viene la sera»14. La parola detta è più veloce della parola scritta, soprattutto nel Medioevo dove i bassissimi indici di alfabetizzazione privilegiano l’oralità sulla scrittura. C’è tuttavia da chiedersi se la parola detta sia davvero più effimera della parola scritta. Questo sembrerebbe indiscutibile; invece nel Medioevo non lo è: perché quando una parola detta s’inserisce in una tradizione appare non solo più duratura, ma provoca anche direzioni espressive differenti. Qui sta la differenza tra oralità e tradizione orale, e il testo orale arriva nel Medioevo molto prima del testo scritto. Nelle cinque fasi fondamentali dell’oralità, produzione-trasmissione-ricezione-conservazione-ripetizione, l’uso della memoria è determinante. La scrittura interviene

14 F. Kafka, La costruzione della muraglia cinese, in Kafka, Il messaggio dell’imperatore, Torino 1952 (ed. orig. Praha 1917).


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nella fase di ricezione e in quella di ripetizione. Un racconto entrato nella fase di ricezione crea, nella successiva fase di ripetizione, più racconti e più storie. Da qui la tradizione orale diventa chiara e calcolabile nelle sue varianti e deformazioni perché in queste c’è tutta la memoria dell’orale. Eppure non tutte le fonti orali corrispondono a tradizioni orali: le prime si compongono sulla base di un’informazione proveniente da un testimone diretto, le seconde rimandano ad una trasmissione lunga passata di bocca in bocca. Il testo orale non si modifica in partenza, ma si evolve nel tempo perché la tradizione orale lo cambia inevitabilmente, lo arricchisce nel tempo della sua ‘durata’ e trasforma quel testo orale secondo le aree entro le quali si sviluppa grazie ad una comunicazione progressiva. È utile fermarsi un momento su questo concetto di ‘durata’. Scrive Claudio Magris: «Non c’è un unico treno del tempo, che porta in un’unica direzione a velocità costante; ogni tanto s’incrocia un altro treno, che viene incontro dalla parte opposta, dal passato, per un certo tratto quel passato ci è accanto, è al nostro fianco, nel nostro presente»15. Le unità del tempo sono misteriose, difficilmente commensurabili. I grandi storici, come Braudel e Bloch, si sono cimentati soprattutto con questo aspetto della ‘durata’. Questa parola assume significati diversi, come nei racconti di fantascienza, a seconda dei movimenti dello spazio. La non-contemporaneità che separa sentimenti e abitudini di persone e classi sociali è una delle chiavi della storia. La storia acquista la sua realtà appena più tardi, quando essa è già passata, e le connessioni generali, istituite e scritte anni dopo negli annali, conferiscono a un evento la sua portata e il suo ruolo. Nel puro presente, la sola dimensione in cui peraltro si vive, non c’è storia. «La vita – scrive Kierkegaard nel Diario – può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti, ossia verso qualcosa che non esiste». L’oralità nasce dalla biblioteca della memoria, ma la memoria è anche la biblioteca dell’oralità. Qui adesso sta accadendo una cosa molto medievale: un lettore espone quello che ha scritto ad un pubblico che ascolta. Ma pochi del pubblico andranno a leggere negli Atti di questo Congresso quello che è stato scritto e detto; alcuni, semmai, ricorderanno quello che adesso viene detto. Accade lo stesso con la musica: la si ascolta, ma leggerla è altra cosa; eppure non saperla leggere non impedisce di ascoltare, di imparare e di riflettere. Non sapere leggere, non sapere scrivere non significa essere senza cultura. La scrittura, fin dalle sue origini è stata una prerogativa di pochi; l’oralità, invece, è stata sempre una risorsa per tutti. 15

C. Magris, Danubio, Milano 1986.


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Nella società italiana del XX secolo, per esempio, la maggior parte della gente non sapeva né leggere né scrivere, e le scuole rurali, le scuole popolari sorsero per far fronte all’immenso numero di analfabeti che ancora c’erano in Italia nel secondo dopoguerra. La pretesa di affidare alla scrittura il ruolo cardine sul quale l’Occidente ha fondato il proprio sapere ha creato confusione e sottostima del ruolo dell’oralità nella trasmissione mediolatina. Questo perché si è giustamente pensato che ogni scrittura abbia un supporto che è esterno rispetto a chi parla. La scrittura, diversamente dall’oralità, propone un sapere oggettivo che va interpretato. Quando invece è la voce a trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che si dice e i destinatarî che l’accolgono. Il racconto orale esprime lo spazio di una memoria che diventa condivisa, e perdere questa grammatica dell’oralità coincide con la perdita di una memoria comune. Nella scrittura, di contro, va ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza. Nel prima, tuttavia, i saperi si costituivano oralmente attraverso l’uso della lingua con un alternarsi di verità ed errori che rappresentano le due facce di una stessa medaglia. Soggetto e oggetto, realtà e coscienza si collocano secondo gli innumerevoli archivi dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi e mappe per il futuro. La cultura mediolatina nasce dall’oralità e la letteratura, nata dall’oralità, è «un sistema di manutenzione», secondo la felice immagine di Magris, che descrive il mutare delle società e costringe il fruitore medievale a misurarsi col suo mondo e le sue certezze in un continuo fenomeno di letterature e culture in transito. Perché il mondo cambia, e cambiano i metodi e la scuola. Quali sono i generi che percentualmente restano fuori dalla tradizione orale? Esegesi biblica, filosofia, teologia e mistica. I generi che, invece, si reggono sull’oralità e sulla tradizione orale sono: agiografia, cronistica, epica, panegiristica, storiografia, autobiografia, letteratura odeporica, epistolografia, omiletica, favolistica, letteratura delle visioni, letteratura fantastica e perfino la trattatistica medica, perché basata sulle informazioni date dai pazienti. Le scuole monastiche ed ecclesiastiche, intanto, forniscono alla società di XI e XII secolo nozioni linguistiche e grammaticali. Ma dalla fine del XII secolo le universitates civium diventano universitates studiorum e affiancano, talvolta sostituendole, quelle scuole. La scuola... Mario Lodi, il famoso pedagogista e insegnante, autore del fondamentale libro Il paese sbagliato, ha raccontato in un’intervista: «Fu il mio primo giorno di scuola a San Giovanni in Croce, al principio degli anni Cinquanta. Mentre parlavo, uno dei bambini si alzò dal suo banco e andò a guardare cosa succedeva sui tetti di fronte. A poco a poco, anche


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gli altri fecero lo stesso. E allora mi domandai: lasciar fare o reprimere? Così mi alzai, e insieme a loro mi misi a guardare il mondo dalla finestra»16. Proprio come dice il figlio di Michele Serra: «Quando non ho voglia di stare in classe e il tempo è bello, spesso vado sul tetto a fumarmi una paglia e a guardare le nuvole»17. Snoopy non fuma la paglia, semmai scrive a macchina, ma guarda anche lui le nuvole18. Anche il Medioevo si affaccia alla finestra o va sul tetto. Intanto, con l’organizzarsi delle Università il Trivio si spacca: la dialettica e la retorica prevalgono sulla grammatica perché gli studenti non badano alla forma ma ai contenuti. La Top-ten, adesso, è costituita da diritto, filosofia, teologia, logica, medicina (che è philosophia secunda, come scrive nelle Etymologiae Isidoro di Siviglia, 560-636)19 e dalle scienze del Quadrivio, e la grammatica degli auctores serve ad arricchire queste nuove culture20. Anche Giovanni di Garlandia (1180-1258)21, nel Compendium grammaticae, dovrà accettarlo, a malincuore. Ecco, si potrebbe dire che il Trivio, dal XIII secolo, diventa logica, retorica e dialettica. Il mediolatino sta in una tenace ricerca d’una lingua abbastanza complessa anche per quelli che nel De vulgari eloquentia22 Dante definisce gramaticae positores (I,IX 11), sistematori del giusto lessico grammaticale: esigenza vitale perché offre il modo d’intendere le cose. Tuttavia Ugo Primate (1093-1160) agita un mantello che sbraita contro il mondo: “Pontificum spuma, fex cleri, sordida struma, qui dedit in bruma michi mantellum sine pluma!...” “Pauper mantelle, macer, absque pilo, sine pelle, si potes, expelle boream rabiemque procelle…” Tunc ita mantellus: “Michi nec pilus est neque vellus, sum levis absque pilo, tenui sine tegmine filo…” “Dei vescovi schiuma, feccia del clero, vescica di spuma, chi m’ha dato nella bruma un mantello senza piuma?...” “Logoro, povero mantello, senza pelo, senza vello, se puoi Borea tieni lontana e dalla tempesta la tramontana…”

16 M. Lodi, Il paese sbagliato, Torino 1971; intervista a “La Repubblica” del 16.2.2012. 17 M. Serra, Gli sdraiati, Milano 2013. 18 C.M. Schultz, Era una notte buia e tempestosa, Milano 1976. 19 Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive Originum libri XX, ed. W.M. Lindsay, 2 voll.,

Oxford 1911; cfr. ed. A. Valastro-Canale, 2 voll., Torino 1988. 20 A.L. Gabriel, Garlandia: Studies in the History of the Medieval University, IndianaFrankfurt a.M. 1969. 21 Giovanni di Garlandia, Compendium grammaticae, ed. Th. Haye, Köln 1995. 22 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, ed. A. Marigo, Firenze 1948.


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Allora il mantello: “Io non ho pelo né vello, son leggero e senza pelo, senza trama a sottil velo…”.

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Commenta Norberg23: «La cesura è sempre la pentemimera e la parola che precede la cesura rima sempre con la parola finale del verso». Si tratta di un’osservazione che aiuta l’analisi della costruzione del verso, e forse la prova filologica arricchisce il malessere di Ugo Primate, coltissimo poeta che gioca all’on-the-road. Se l’esempio vale per la lingua, non significa, però, che valga per la letteratura: i Carmina Burana24, pur dando prova dell’alto livello di uso della lingua messa al servizio della protesta, non potrebbero raggiungere questo risultato senza utilizzare l’eccezionale repertorio di oralità che raccolgono fino a diventare il blues e il rap del Medioevo. Allo stesso modo i Carmina Cantabrigensia25 sulla soglia del XII secolo offrono nel Modus Liebinc spunti amari nell’intreccio degli inganni. C’era una volta un mercante di Costanza: viaggiava sempre e lasciava a casa la moglie. La donna, molto lasciva (lasciva nimis), accetta la corte dei giovani e rimane incinta. Nasce un bambino. Dopo due anni, al passaggio d’autunno, il marito torna a casa; la donna gli va incontro tenendo per mano il frugoletto (puerulus). Il mercante sbalordisce: «Da chi hai avuto questo bambino? Dimmelo, o guai a te!». La donna, spaventata, cerca d’ingannare il marito (dolos versat in omnia): «Un giorno ero in montagna, avevo tanta sete, e bevvi, bevvi la neve. E così sono rimasta incinta e ho generato questo bimbo». L’uomo tace. Cinque anni dopo, al passaggio di primavera, il mercante si mette di nuovo per mare e porta con sé il ‘figlio della neve’ (nivis natus). Arrivato in un mercato lontano, vende il bambino e, ormai ricco, ritorna. Dice alla moglie: «Consólati, ho perduto tuo figlio. È scoppiata una tempesta che ci ha spinto su spiagge infuocate dal sole, e così il figlio della neve si è sciolto!». Vittima di questa rappresaglia fra moglie e marito è un bambino che finisce venduto come schiavo. Ma la cadenza dei brevi versi del testo esalta la favola da mandare a memoria. Aree linguistiche specializzate dalla loro territorialità o dalla loro sociologia: viaggiatori, mercanti, ambasciatori... Come Liutprando (920-972) che

23 D. Norberg, La poésie latine rythmique du haut Moyen Âge, Stockholm 1954; cfr. anche Norberg, Introduction à l'étude de la versification latine médiévale, Stockholm 1958. 24 Carmina Burana, edd. A. Hilka-O. Schumann, I, Heidelberg 1930; II, ivi 1971; III, ed. B. Bischoff, ivi 1970; cfr. anche ed. B.K. Vollmann, Frankfurt a.M. 1987. 25 Carmina Cantabrigensia, ed. K. Strecker, in M.G.H., Script. Rer. German. in usum scholarum, Berolini 1926.


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nell’Antapodosis26 fa sghignazzare in “Ah, ah, hè, hè” i cortigiani davanti ad una nobildonna denudata e oltraggiata; oppure, come narra il Chronicon Salernitanum27 nell’ultimo quarto del X secolo, i sudditi che dileggiano l’imperatore Ludovico il Pio con un “Cece, Cece!”, donde il dialettale ‘Cecè’. Nel Dialogus Miraculorum di Cesario di Heisterbach (1180-1240)28 l’adolescente conversa di Treviri, ignara del mondo, crede davvero a quanto le dice una consorella: le donne laiche mettono su barba e corna quando invecchiano: «Quando saeculares mulieres senescunt, cornua et barbam emittunt». L’oralità esalta l’ingiuria, il grottesco e il ridicolo. Sono pagine scritte, poesie scritte, dette e cantate in un mediolatino all’intersezione di un bilinguismo con il volgare, un linguaggio nato dall’oralità ormai in grado, nel XII secolo, di trovare motivi d’irriverenza, di satira, come accade negli Spielmessen che scimmiottano la Messa: «Introibo ad altare Bachi... Et cum gemitu tuo... Potemus», e già nel 1922 Paul Lehmann29 aveva capito che la chiave di lettura dev’essere prima attenta a privilegiare il dato orale e poi quello letterario. Anche Dante si misura con questo dilemma quando lascia interrotto il De Vulgari Eloquentia perché ha deciso di scrivere la Commedia in volgare. Nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala30 Dante affronta la questione commedia/tragedia (XIII 10), e la scelta del titolo Comedia salva una più ampia leggibilità e la sua possibilità di canto e recitazione: Sciendum est quod comedia dicitur a ‘comos’ villa et ‘oda’ quod est cantus, unde comedia quasi ‘villanus cantus’… Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia in principio est admirabilis et quieta et in fine seu exitu fetida et horribilis; et dicitur propter hoc a ‘tragos’ quod est hircus et ‘oda’ quasi ‘cantus hircinus’, idest fetidus ad modum hirci... Si deve sapere che la ‘commedia’ è detta così da comos, villa, e oda che è canto, dunque ‘commedia’ è quasi’canto villereccio’… Differisce dunque dalla tragedia in ciò, che la tragedia all’inizio è assai gradevole e quieta e alla fine o nell’esito fetida e orribile; e per questo trae il suo nome da tragos che è il capro, e oda, quasi ‘canto di capro’, cioè fetido come il capro…

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Liutprando di Cremona, Antapodosis, ed. J. Becker, in M.G.H., Rer. German. in us. schol., Hannoverae-Lipsiae 19153; cfr. anche ed. P. Chiesa, Turnholti 1998 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, 156). 27 Chronicon Salernitanum, ed. U. Westerbergh, Stockholm 1956. 28 Cesario di Heisterbach, Dialogus Miraculorum, ed. J. Strange, Köln-Bonn-Bruxelles 1831 (Bruxelles 1851, rist. New Jersey 1966). 29 P. Lehmann, Die Parodie im Mittelalter, Stuttgart 1963 (ma München 1922). 30 Dante Alighieri, Epistola XIII a Cangrande, ed. E. Cecchini, Firenze 1995.


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Dal capro di Dante al gallo di Cesario di Heisterbach31. Cesario racconta che Enrico di Falkenstein incontra il diavolo e gli chiede «Che cosa vuoi da me?», e il diavolo: «Voglio e pretendo che tu mi dia il tuo mantello col cappuccio!» («Volo et rogo ut des mihi palliolum tuum»). Enrico risponde: «Non te lo darò!» («Non tibi dabo»). Allora il diavolo gli chiede la cintura, cingulum, e anche una pecora del suo gregge, ovem unam de grege. Ma Enrico gli nega tutto; a quel punto il diavolo chiede almeno di dargli un gallo preso dal pollaio. Enrico domanda: «Che devi farci col mio gallo?» («Quid opus habes gallo meo?»), e il diavolo «Voglio che canti per me!» («Ut cantet mihi»). Enrico ribatte: «No, non te lo do!». Il diavolo, rattristato, sparisce. La solitudine d’un povero diavolo in un dialogo teatrale, quasi un teatro in piazza recitato in mediolatino. Dialoghi, voci, suoni di un mediolatino che sembrerebbe parlato prima di essere scritto, ma più probabilmente nell’uso del discorso diretto è ricostruito nei testi per essere recitato oppure letto o raccontato in forma di aneddoto. Come nel Frate Cornetta di Salimbene nella Cronica32 al 1233: «Giunse a Parma fra’ Benedetto, detto frate Cornetta, un uomo semplice e illetterato, di buona innocenza e onesta vita. Io l’ho visto e conosciuto bene... Portava in testa un berretto armeno, aveva la barba lunga e nera, e usava una piccola tromba di bronzo, o di ottone, e con quella chiamava la gente a raccolta; questa sua tromba mandava un suono terribile ma anche dolce… Frate Cornetta andava in giro con la sua tromba e nelle chiese e nelle piazze predicava e lodava Dio, seguito da un’immensa folla di fanciulli…»: interessante, per questo allegro frater de Cornetta, la distinzione tra cornetta e tuba con l’uso di due verbi differenti: bucinare per la cornetta (tipico della tibia o del flauto di corno) e reboare per la tuba (tipica per la profondità, di registro, boatus). L’oralità analizza gli oggetti e i suoni, perché c’è vera differenza tra una cornetta e una tromba, anche nel suono. E il suono diventa quello di piatti e posate quando dal volgare franco arrivano morsellum, platellum, cancellum e cultellum, un bocconcino da mangiare su un piattino con forchetta e coltello. Perfino il gioco dell’etimologia diventa comprensibile e spiegabile a voce. Un esempio? Andrea d’Ungheria, Descriptio victoriae Karoli, scritta dopo il 127233: «Manfredi da diverse parti del mondo si procurò con pre-

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Cesario di Heisterbach, Sui demòni, ed. S.M. Barillari, Alessandria 1999. Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. Scalia, 2 voll., Bari 1966. Andrea d’Ungheria, Descriptio victoriae a Karolo Provinciae comite reportata, ed. G. Waitz, in M.G.H. Scriptores, XXVI, Hannoverae 1882; cfr. anche edd. M. Oldoni-A. Tamburrini, Cassino 2010.


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ghiere e denaro un gran numero di alleati e li chiamò Ghibellini, quasi a voler significare che si sarebbe dovuto alleviare la curva della loro gobba con la guerra alla Chiesa. I Guelfi, invece, offrivano le loro orecchie disposte ad ascoltare la parola evangelica che procede dalla bocca dell’Altissimo, e sono pronti a reprimere e sterminare la perfidia dei Ghibellini, e traggono un più bel significato del loro nome. Infatti, la parola ‘guelf’ è comunemente intesa di una sola sillaba, e il suo significato non può essere tratto se non dalle lettere. Prendi quindi le prime tre lettere g-u-e- ‘guerra’, per la -lintendi ‘leoni’, per la -f- ‘forte’, e troverai così che la guerra dei Guelfi contro i Ghibellini sarà come una guerra forte di leoni contro i Ghibellini portatori di gobba.»; qui si gioca con «Gibellini quasi gibellum sue curvitatis» e la dictio «’Guelf’ vulgariter probata unius sillabae per primas tres litteras g-u-e- ‘guerra’, per -l- ‘leonum’, per -f-’fortis’, et sic invenies, quod guerra Guelforum…» (cap. 7). Si tratta, però, di una falsa etimologia, che ignora i Conti di Weiblingen, donde Ghibellini, e i Conti di Welfen, donde Guelfi, ma è un’etimologia facile, da mandare a memoria, da trasmettere… perché, come ha scritto Hannah Arendt, «la voce è più potente della scrittura»34. Questo spiega molti perché: non solo i ferunt, i satis constat, i dicunt, i traditur che punteggiano tante testimonianze letterarie… A parte il palese riferimento a fonti d’informazione, con la voce viene esaltato l’uso dei cinque sensi insieme con la rappresentazione dello spazio, in più resta essenziale la sensibilità verso chi ascolta, adattando ad esso il livello espressivo. Ne tiene ben conto Donizone (1070-1136) che nella Vita Mathildis (I, XV)35 racconta: «Bonifacio ogni anno, a Pomposa, confessa peccati e delitti. Bonifacio è un uomo dabbene, al punto che perfino a Pomposa si diletta di scherzi. La gente ancora ricorda quando, vedendo i novizi (chorum puerorum) prostrati in preghiera con la faccia rivolta a terra, disse ad uno dei suoi di salire sul tetto e di lanciare giù dieci libbre di monete per vedere l’effetto. Le monete, cadendo, risuonarono nel mezzo del coro dei novizi («in medioque choro strepitus sonat et puerorum»), ma nessuno di loro si scompose né aprì gli occhi. «Talis laudetur iocus, ac recitatur, ametur», «Ricordate questo scherzo, raccontatelo, amatelo». C’è una completa applicazione di tutti i gradi dell’oralità: la memoria della gente, lo sguardo rivolto ai novizi, le parole d’invito a salire in alto, le monete che cadono da sopra, il risuonare sul pavimento mentre i monaci cantano, le parole di Bonifacio, le risate per lo scherzo e l’avvio della trasmissione orale. 34 35

H. Arendt, La banalità del male, Milano 2003. Donizone, Vita Mathildis, ed. L. Simeoni, in Rerum Italicarum Scriptores2, V/2, Bologna 1931-1940; cfr. anche ed. P. Golinelli, Milano 2008.


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I sei lati del mondo di Alcuino sono intanto compresi in un settimo ambiente, una settima stanza: la stanza del silenzio, che sovrasta e racchiude i sei lati del mondo. Nella settima stanza c’è una nicchia appartata, dove pulsa il massimo grado dell’oralità, il grado negativo dell’oralità: il silenzio. Perché chi tace, parla; chi tace, dice. Il silenzio è parola, è espressione, è un’oralità negata ma egualmente e totalmente espressiva, come il mercante di Costanza che tace di fronte al ‘figlio di neve’. Anche il silenzio, massimo grado dell’oralità, genera la scrittura. Una silenziosa esperienza personale diventa un’oralità trasmessa sulla pagina. Non è facile scrivere il silenzio, ma il Medioevo ci riesce. Scrive Paolo Diacono (720-799) nell’Historia Langobardorum36:

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Erant autem ubique luctus, ubique lacrimae. Nam, ut vulgi rumor habebat, fugientes cladem vitare, reliquebantur domus desertae habitatoribus, solis catulis domum servantibus. Peculia sola remanebant in pascuis, nullo adstante pastore. Cerneres pridem villas seu castra repleta agminibus hominum, postero vero die universis fugientibus cuncta esse in summo silentio...Videres saeculum in antiquum redactum silentium: nulla vox in rure, nullus pastorum sibilus, nullae insidiae bestiarum in pecudibus, nulla damna in domesticis volucribus…Hieme propinquante... nulla erant vestigia commeantium, nullus cernebatur percussor…et habitacula humana facta fuerant confugia bestiarum. (II 4) Ovunque erano lutti, ovunque lacrime. Infatti, poiché c’era la voce tra il volgo che chi fuggiva scampava alla morte, le case erano lasciate abbandonate, e soltanto i cani le custodivano. Le greggi rimanevano sole sui pascoli, senz’alcun pastore a sorvegliarle. Prima avresti visto villaggi e accampamenti pieni d’uomini, il giorno dopo ogni cosa era immersa in un silenzio profondo perché tutti erano fuggiti. ...Avresti potuto vedere il mondo riportato al suo antico silenzio: nessuna voce sui campi, nessun fischio di pastore, nessun assalto di fiere sul bestiame, nessuna minaccia per gli uccelli domestici... Mentre si avvicinava l’inverno, non c’era alcun segno di gente e non si vedevano briganti... e le case degli uomini erano diventate tane per gli animali.

In quel silenzio nasce l’assoluta necessità che qualcosa resti. Gregorio di Tours ne offre una urgente conferma nei suoi Historiarum libri X37: «Ho scritto Dieci libri delle Storie, sette libri di Miracoli, un libro sulla Vita dei Padri; un libro sul Trattato del Salterio e un libro Sugli Uffici ecclesiastici…», e continuando aggiunge:

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Paolo Diacono, Historia Langobardorum, ed. L. Capo, Milano 1992 V. nota 8.


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Quos libros licet stilo rusticiori conscripserim, tamen coniuro omnes sacerdotes Domini, qui post me umile ecclesiam Turonicam sunt recturi, ut numquam libros hos aboleri faciatis aut rescribi, sed ita omnia vobiscum integra inlibataque permaneant, sicut a nobis relicta sunt. (X 31) Anche se ho scritto questi libri con uno stile molto rustico, prego i sacerdoti del Signore, che dopo di me governeranno la chiesa di Tours, di non far mai cancellare o riscrivere questi libri, e che essi rimangano intatti ed integri presso di voi, così come da me sono stati lasciati.

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Allo stesso modo Paolo Diacono racconta il silenzio dell’avo Lopichis accompagnato nel suo ritorno a casa soltanto da un lupo, (come nel film Balla coi lupi dove il soldato ha l’unico amico nell’indimenticabile Due-calzini). Poi, arrivato nella terra natale, il silenzioso Lopichis appende la faretra al ramo di un orno cresciuto tra le rovine e i rovi della casa d’un tempo: a quel gesto si accendono di nuovo le luci del mito, perché una vita è ritornata alla giovinezza del futuro. E tutto è accaduto nel silenzio. E tace anche lo stesso Paolo, come sul finire del X secolo testimonia il Chronicon Salernitanum:

Paulus…praesentis vite relinquens gloriam, ad beati Benedicti pergens nimirum cenobium…dum illuc moraret tante in innocentie tanteque humilitati, simulque silencium deferebat ultra humanum usus. Sed dum ab abate simulque et a fratribus de tali re coerceretur, ut non esset bonum immoderato silencio,…ipse vero, ut erat sagax prorsus atque strenuissimus,…respondebat et iterum aiebat: “Inanis verba multa quippe iam olim nimirum locutus sum; iustum est ut nunc a licita nimirum me subtraham”. (cap. 36) Paolo...abbandonando la gloria della vita presente, ritirandosi nel cenobio del beato Benedetto…mentre rimaneva colà in tanto grande innocenza e profonda umiltà, praticava il silenzio al di là di ogni umana consuetudine. Ma dall’abate e dai fratelli era rimproverato che non era bene rimanere in quell’immoderato silenzio,… lui, però, che era saggio e risoluto,...rispondeva e aggiungeva: “In passato ho fatto tanti discorsi inutili; è giusto, adesso, che io mi astenga anche da quelli leciti...”.

Gli ultimi quattordici anni della vita di Paolo trascorrono in questa scelta di pochissimo parlare e moltissimo scrivere. Nel silenzio, che è la dimensione estrema e più alta dell’oralità, si compendia il contributo simbolico di quella storiografia. E, rispettando il silenzio di Paolo, il Chronicon Salernitanum decide che tutti tacciano: tacciono principi e assassini. Tace Nannigone dopo aver incoraggiato la moglie stuprata dal principe: «“Va’, vèstiti, làvati, sorridi…”, ma lui, come dicono molti, da quel giorno non rise più», «ab illa denique die, ut ferunt plurimi, minime


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risit» (cap.65); tace il giocatore che, assorto al tavolo di gioco, reprime la sua rabbia e finge di non vedere la moglie condotta a gambe nude per l’accampamento, «erat ardens in animo suo, atque ad tabulam ludebat et eam minime vidit» (cap.66); tace Agelmondo, sorpreso da solo nel bosco e inseguito dal fantasma del principe che lui ha assassinato: tace e muore vomitando sangue (cap.56). Una letteratura del silenzio nata dalla letteratura dell’oralità. E tace la nobile Duoda di Guascogna (804-843; sposa nell’824), che incontra solo due volte il marito, il grande Bernardo di Settimania (794844), nipote di Carlo Magno, e due volte rimane incinta. Nasce Guglielmo (826-844), poi un secondo bambino, ma di lui Duoda ignora il nome: perché i figli le vengono tolti subito, presi dal padre e addestrati al mestiere delle armi. Ha taciuto per tutta la sua vita solitaria Duoda. Infine scrive per suo figlio un Manuale di pedagogia, simbologia, numerologia ed esegesi scritturale38; ma il Manuale, opera nata da una perenne e disperata solitudine, si conclude con il più bel testamento del Medioevo: «La maggior parte delle madri di questo mondo può godere la vicinanza dei propri figli, mentre io, Duoda, sono così lontana da te, figlio mio Guglielmo, e per questo sono in uno stato di ansia acuito dal desiderio di esserti utile. Se ti verrò meno morendo, il che accadrà, avrai in mia memoria questo libretto di morale… Quando tuo fratello, ancora così piccolo e del quale non so il nome, avrà ricevuto la grazia del battesimo, non ti rincresca mai di allevarlo, amarlo ed incitarlo ad operare il bene, e quando sarà giunto all’età di parlare e leggere mostragli questo piccolo Manuale che tu userai per l’educazione del tuo fratellino. Io, Duoda, vostra madre, vi esorto, insieme con vostro padre, il mio signore e padrone Bernardo, ad essere felici e contenti nel tempo presente. Sono molto incerta ch’io possa sopravvivere fino a vederti ancora; incerta a causa dei miei scarsi meriti, a causa delle mie forze, della mia fragilità e delle mie pene. Tu devi sapere che io, per le mie costanti infermità, ho sopportato molte cose con il mio fragile corpo. Con l’aiuto di Dio sono sfuggita a tutti i pericoli, ma ho peccato nei pensieri e nelle parole, perché anche i discorsi, se inutili, equivalgono ad opere malvagie. Per difendere gli interessi del mio padrone e signore Bernardo, e affinché il mio aiuto nelle terre della marca non perdesse di valore, io confesso di essermi gravata di debiti. Ho ricevuto spesso grandi somme di

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Duoda, Liber Manualis ad Wilhelmum filium, ed. P. Riché, Paris 1975 (Sources Chrétiennes, 225); cfr. anche Educare nel Medioevo. Per la formazione di mio figlio. Manuale, edd. G. Zanoletti - S. Gavinelli, Milano 1984.


IL MEDIOLATINO: UNA LINGUA RIGENERATA DALL’ORALITÀ

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denaro non soltanto dai Cristiani, ma anche dai Giudei. Poi, per quanto è stato nelle mie possibilità, le ho restituite e, per quanto potrò, continuerò a restituirle. Se dopo la mia morte resterà ancora qualcosa o qualcuno da soddisfare, ti chiedo e ti supplico, mio nobile ragazzo, di voler ricercare con scrupolo quelli che sono miei creditori. E quando li avrai trovati, fai in modo, figlio mio, di saldarli in tutto: non solo con i miei beni, se ne saranno rimasti, ma anche con i tuoi e con quello che, con l’aiuto di Dio, avrai guadagnato. Che dire di più?». Adesso, a porte chiuse, Duoda desidera rimanere sola con se stessa. Guglielmo non leggerà mai il Manuale. Viene decapitato come suo padre. L’altro figlio sopravvive, si chiama Bernardo (841-885), diventa padre di Guglielmo il Pio, il fondatore di Cluny nel 910. Da questo Medioevo carolingio arrivano direzioni emotive che permetteranno alla più matura età di mezzo di esprimersi con assoluta maturità. Nel XX secolo si è parlato di ‘arte degenerata’ alludendo ad una degenerazione dell’arte, e la degenerazione implica una fine dell’arte. C’è da chiedersi se esista una creatività che degenera? Utilizzando schemi ideologici forse sì, oppure sono gli schemi a degenerare, come se tutto ciò che travalica la norma possa considerarsi degenere. Poi si è capito che non è così: anzi, ogni tipo di creatività fa migliore il mondo, proprio come ha detto il celebre architetto Oscar Niemeyer «La fantasia è la ricerca di un mondo migliore». E si è anche capito che la lingua corre veloce più della scrittura, e quasi sempre è l’oralità a modificare, a rigenerare il mondo: perché la scrittura può non arrivare, mentre l’oralità si trasforma e arriva dovunque e diventa tradizione; e, se nasce un’opera scritta, questa può essere detta e letta. Un esempio di questo circuito sta nel film I tre giorni del Condor: il controspionaggio si chiede: «Perché non riusciamo a prendere il Condor?». «Perché è uno che legge, legge tutto: giornali, fumetti, avvisi, libri, manifesti…». Infatti non lo prendono. E il Condor scrive, scrive tutto e lo manda ai giornali. Il Condor crede alla scrittura… Lo dice telefonando a un amico: «Ho scritto tutto e domani è sui giornali…» e l’altro: «E se non lo pubblicano?». Se non lo pubblicano, occorrerà ricominciare tutto daccapo partendo da questa domanda: il mediolatino è il latino del Medioevo o è un latino a metà?


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Lo studio e la conoscenza dell’arabo nell’Italia del Basso Medioevo


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La storia sociale del linguaggio interessa gli storici ormai da svariati decenni1, ma non poco rimane da fare, specie per quanto riguarda il medioevo. Ad esempio lo studio e la conoscenza dell’arabo nel mondo latino del basso medioevo sono un soggetto ancora poco studiato. Partendo soprattutto da un’analisi delle competenze linguistiche sulle vie di pellegrinaggio, il presente contributo intende avviare una ricerca preliminare che tenga conto di differenti prospettive e differenti spazi. Chi erano coloro che parlavano arabo? In quali contesti si muovevano? Quali erano i metodi di apprendimento? Per tentare di porre almeno le basi per una risposta, le seguenti pagine indagheranno differenti tipologie sociali e differenti soggetti coinvolti: i mercanti, i missionari e gli eruditi. Si tratta di una distinzione inevitabilmente artificiosa e determinata in parte dalle necessità di analisi e di esposizione. È evidente infatti che tali identità scivolarono spesso le une nelle altre. Si aggiunga, inoltre che la prospettiva “italiana” del fenomeno rischia di essere del tutto fuorviante: i commercianti che imparavano l’arabo nel levante, ad esempio, erano inseriti in una rete di traffici, di conoscenze e legami sociali, dove la lingua di provenienza non era sempre molto rilevante. Un discorso analogo vale anche per le università e per gli ordini mendicanti. Forse la prospettiva più corretta sarebbe quella di parlare di una storia della lingua araba nel mondo latino su scala europea e mediterranea. Per quanto queste poche note non possano farlo approfonditamente, intendo almeno tener conto di tale prospettiva.

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Uno dei punti di riferimento iniziale rimane The Social History of Language, cur. P. Burke - R. Porter, Cambridge 1987.


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Mercanti

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Ancora agli inizi del XIV secolo, i mercanti europei, e quelli italiani in primo luogo, che viaggiavano a Oriente comunicavano in pidgin sufficienti per condurre affari, come ad esempio la lingua franca tardo medievale2. Sebbene molti di essi si muovessero in comunità bilingui greche, arabe o ebraiche, non ci sono prove che in questo periodo i commercianti europei imparassero lingue straniere o avessero bisogno di farlo. Prima degli stati crociati, ai mercanti italiani era richiesto di commerciare in ambiti dove le lingue europee sarebbero bastate, facendo affari, ad esempio, nei punti di scambio esterni alle città musulmane del Levante, eliminando così la necessità di comunicare con altri che non fossero mercanti3. Questa prassi finì per determinare al più linguaggi mercantili, come appunto la lingua franca, ma non vere competenze linguistiche in un’altra lingua, se non in contesti specifici di aree multilingue come la Sicilia dove la totale competenza di un’altra lingua poteva essere necessaria per il lavoro4. Ibn Battuta, ad esempio o Marco Polo non mostrano particolare interesse per le lingue straniere e così gli altri viaggiatori del tempo. Le tracce di mercanti abituati a parlare altre lingue per necessità commerciali, sono di fatto leggermente più tarde. Il primo è relativamente famoso. Si chiamava Bertrando de Mignanelli ed era nato a Siena nel 1370 (dove sarebbe morto nel 1455). Emigrò «juvenculus et pauper», esercitando la mercatura verso Tunisi, Egitto, Levante, India. Suo fratello maggiore Mignanello era intanto amministratore giudiziario a Caffa, colonia genovese sul Mar Nero. Bertrando trovò fortuna e prestigio a Damasco, dove si stabilì e studiò la lingua araba – o ne perfezionò la conoscenza – che gli agevolò l’accesso personale ad autorità, quale il mamelucco Barquq, sultano circasso d’Egitto (1382-99)5. Dopo anni di viaggi e di varie attività, agli inizi del XV secolo cominciò una carriera di esperto in diplomazia. In quella veste funse talvolta da interprete per l’arabo, ad esempio al Concilio di Costanza (1415), oppure con le legazioni di Giovanni (XI) patriarca copto e di Nicodemo abate etiopico 2 Su questo J. Dakhlia, Lingua franca. Histoire d’une langue métisse en Méditerranée, Arles 2008. 3 R.A. Lodge, Language Attitudes and Linguistic Norms in France and England in the Thirteenth Century, «Thirteenth Century England», 4 (1991), p. 108. 4 D.M. Metcalf, East Meets West, and Money Changes Hands, in East and West in the Crusader States: Context, Contacts, Confrontations, cur. K.N. Ciggaar - G.B. Teule, Leuven 2003, p. 224. 5 Su di lui e la sua opera si vedano l’importante e recente contributo di N. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere, Roma 2013 (Nuovi Studi storici, 91) e in questi Atti la relazione della stessa studiosa.


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di Gerusalemme al concilio di Firenze (1441/42) indetto da papa Eugenio IV. Per committenza del pontefice nel 1443 Mignanelli scrisse l’Informacio contra infedeles6, relazione politica, militare e commerciale che considerava essenziale la coesione del Regno di Ungheria «pro muro contra Turcos» e rispondeva al progetto pontificio di promuovere un’offensiva antiturca e recuperare la Terrasanta, la cui predicazione era affidata al francescano senese Bernardino degli Albizzesi. Per Eugenio IV, che soggiornò con la Curia in Siena dall’8 marzo al 14 settembre 1443, Mignanelli compose il Libellus, un saggio filologico sul salterio che segnala varianti testuali nelle versioni affrontate latina e araba, quest’ultima desunta da un codice cristiano-orientale da lui posseduto. La prefazione reca un’importante descrizione scientifica della lingua araba, comparata con l’ebraica, la latina, la greca, e inoltre la persiana e la turca. Mignanelli infatti aveva anche nozioni di ebraico, aveva studiato la Victoria adversus Iudaeos del certosino genovese Vittore Porchetto de’ Salvatici (m. 1315) e come Pietro de’ Rossi, biblista e docente di filosofia nello studium senese, partecipava alla disputa concernente la dottrina ebraica7. Rispetto alla disputa dottrinale antimusulmana, il Mignanelli apportava alcuni chiarimenti sulla figura storica di Maometto. I suoi opuscoli Liber Machometi e Opinio perfidie Iudeorum sono abbinati, dopo il Libellus e le Gesta di Thomorlengh, nel codice senese esemplato dal sacerdote Antonio Dominici (1446)8.

6 A.M. Piemontese, La lingua araba comparata da B. M. (Siena 1443), «Acta Orientalia Academiae scientiarum Hungaricae», 48 (1995), pp. 155-170. 7 Siena nel corso del XV secolo fu un centro rilevante di studi orientali, compresi quelli ebraici. La biblioteca del convento senese dei Francescani comprendeva, oltre numerosi testi classici della scienza e della filosofia araba in versione latina (opere di Albumasar, Alchabitius, Alfraganus, Arzachel, Avicenna, Averroe, Ibn Butlan, Rhases, Ya’qub alKindi), scritti che documentano l’interesse per studi di argomento islamistico, quali la Disputatio Saraceni et Christiani, Lex Machometi, e R. Lullus, Christiani et Hamar Saraceni Disputatio. Cfr. K.W. Humphreys, The Library of the Franciscans of Siena in the Late Fifteenth Century, Amsterdam 1978 (Safaho Foundation, Studies in the History of Libraries and Librarianship, 4), pp. 23-24, 87, 161. 8 Su di lui si vedano, oltre a quanto già citato, A.M. Piemontese, B. M. senese biografo di Tamerlano, «Oriente moderno», n. ser., 15 (1996), pp. 213-226; Piemontese, Un testo latino-persiano connesso al Codex Cumanicus, «Acta Orientalia Academiae scientiarum Hungaricae», 53 (2000), p. 126; Piemontese, Codici greco-latino-arabi in Italia fra XI e XV secolo, in Libri, documenti, epigrafi medievali: possibilità di studi comparativi, cur. F. Magistrale et al., Spoleto 2002, pp. 463s.; N. Mahmoud Helmy, Memorie levantine e ambienti curiali. L’Oriente nella vita e nella produzione di un senese del Quattrocento: B. di Leonardo M., «Quaderni di storia religiosa», 13 (2006), pp. 237-268; Mahmoud Helmy, Una Betlemme a Siena. Note sulla chiesa di Santa Maria in Bellem, «Bullettino senese di storia patria», 65 (2008), p. 305.


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Un breve squarcio sulla sua percezione della lingua ci viene dall’introduzione di un suo scritto. Terminate le sessioni toscane del Concilio di Firenze, che dovevano proseguire in quelle romane (1443-1445), Eugenio IV e la curia cardinalizia dimorarono a Siena. Per tale occasione Mignanelli, impegnato nel dibattito sui libri biblici con gli eruditi ebrei senesi, aveva composto il Libellus, saggio sul salterio in versione araba e latina9. L’introduzione del Libellus reca una breve descrizione scientifica della lingua araba, considerata dall’autore la maggiore allora esistente sui tre continenti. L’argomentazione assume anche un efficace carattere contrastivo: «graecum et persicum sunt dulcia, mitia et muliebra, turcum uero rude, tonans et acerbum, arabicum autem magis diffusum uocabulis abundans et compendiose bene distinctum»10. Questo saggio linguistico è il piu antico del genere documentato in Europa11. Purtroppo, però, esso non racconta quasi nulla su come e quando Mignanelli avesse appreso l’arabo e le altre lingue. È ragionevole, infatti, ipotizzare che il suo caso fosse certo peculiare, ma non del tutto insolito nel Levante di quel tempo. Il seguente esempio è molto meno noto e appare nel resoconto del viaggio in Terra Santa compiuto nel 1440 da Meliaduse d’Este, secondogenito del marchese di Ferrara Niccolò III12. Della compagnia del nobile estense fece anche parte un certo Folco Contarini, “cavaliere” veneziano i cui rapporti con gli Este sono attestati da alcuni documenti (aveva partecipato al contratto di matrimonio tra Leonello d’Este e Margherita Gonzaga e compare, inoltre, nel carteggio tra Borso d’Este e il suo referendario Ludovico Casella)13. Di lui sappiamo ben poco, ma sappiamo almeno che il Levante lo conosceva bene. Fu grazie a lui che Meliaduse riuscì a muoversi quasi mescolandosi nel contesto locale: ad esempio una volta i due partirono da Damasco travestiti da Mamelucchi e armati di archi e scimitarre si diressero verso Gerusalemme; e più d’una volta evitarono il pagamento di un pedaggio in quanto ritenuti “mori”. Contarini non solo si

9 Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, Ms. X.VI.2, ff. l-30v. Codice pergamenaceo, datato Siena 1446, cm 22x16, ff. (II) 38 (II). Explicit, ripreso dall’antigrafo originale, f. 30v «Anno Domini MCCCCXLIII. Editus per me beltramum quondam leonardj mignanellis Senensem Alumpnum. Senis tempore quo Eugenius .IIII. in ipsa ciuitate cum sua curia residebat deo laudes. Amen». 10 Ibid. 11 Piemontese, La lingua araba comparata cit., pp. 155-170. 12 La cronaca del viaggio, redatta da Domenico Messore (di cui non si sa quasi nulla) si può leggere nell’edizione curata da B. Saletti, Don Domenico Messore. Viagio del Sancto Sepolcro facto por lo illustro misere Milliaduxe Estense, Roma 2009 (Antiquitates, 32). 13 Ibid., p. LII.


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muoveva a suo agio nel Levante, ma parlava anche la lingua del posto, presumibilmente l’arabo parlato tra Damasco e Libano, se dobbiamo prestar fede a quanto raccontato dal narratore: «Et comme nui fossimo lì, lui ne fieci sedere anche noi. Et con lo deto armiralgio parlò alquanto misere Folcho Contarini in morescho…»14. Tutto questo non offre molte possibilità di indagine, ovviamente. Gli esempi tardo medievali relativi a mercanti conoscitori dell’arabo sono quasi tutti qui e ben poco è quello che si può evincere riguardo alle forme di apprendimento se non per mera logica deduttiva, cioè l’apprendevano, come tutti, praticandola. Al di là però dell’esiguità dei casi ai noi noti, gli esempi di una crescente attenzione nei confronti della lingua possono essere colti anche dall’uso crescente di arabismi posti nelle narrazioni di viaggio. Intendendoli come segnale di un mutato atteggiamento nei confronti delle lingue altre (mutazione che si rispecchia anche nel mutato atteggiamento nei confronti dei costumi locali). Alcuni linguisti15 hanno discusso sulla natura e funzione degli esotismi. Gli storici invece mi sembra si siano disinteressati di tale fenomeno e della sua dimensione diacronica. Ora, al di là degli esotismi lessicali già attestati nella letteratura dei secoli XIII e XIV, mi sembra invece abbastanza evidente la differenza anche solo quantitativa che si registra tra XIV e XV secolo. Le cronache di viaggio e non solo propongono, cioè, con una frequenza crescente nuovi lemmi desunti dall’arabo, ma anche da altre lingue orientali. E li propongono, peraltro, nello stesso contesto in cui presentano osservazioni sul costume e sulla cultura locale16. Così ad esempio si sprecano i riferimenti all’amïr, che in arabo sta per comandante o per governatore provinciale: admirati, amiraglio, armiraglio. Allo stesso modo comincia a circolare anche il termine paša, che per quanto turco era utilizzato anche in Egitto nella sua forma arabizzata báša: bbascià, bassà, bassaa. Ma si ritrovano anche il cadì, il ‘giudice religioso’ (arabo 14 15

Ibid., p. 37. Si vedano a titolo di esempio M. Cortelazzo, Venezia, il Levante e il mare, Pisa 1989; G. Cardona, I linguaggi del sapere, cur. C. Bologna, Roma-Bari 1990; M. Mancini, Turchismi a Roma e a Venezia, in Epistème. In ricordo di Giorgio Raimondo Cardona, cur. D. Poli, Roma 1990, pp. 75-112; Mancini, La cultura araba, in Lo spazio letterario del Medioevo, dir. G. Cavallo - C. Leonardi - E. Menestò, Roma 1992 (I, Medioevo latino, 1°, La produzione del testo), pp. 199-217; Mancini, L’esotismo nel lessico italiano, Viterbo 1992; L. Pizzoli, Italiano e arabo, in La lingua nella storia d’Italia, cur. L. Serianni, Roma 2001, pp. 635-642. 16 Devo molti degli esempi successivi a un inedito studio di Paolo Trovato, che ringrazio per avermelo messo a disposizione.


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qádï, turco kadi), il bazar, la moschea (moscheta, meschitai, mosceta), i beduini (ar. badawï) e persino gli insulti come [be]nachal, ‘figlio d’un cane’ (arabo Ibn al-kalb), registrato da don Messore in quel resoconto del viaggio di Meliaduse d’Este che abbiamo già incontrato17. Esempi che, inevitabilmente, richiederebbero analisi più complete, ma forse quanto mostrato permette almeno di ipotizzare, come si è detto, un crescente interesse nei confronti dell’apprendimento delle lingue (non solo della lingua araba a dire il vero) e un crescente interesse nei confronti della lingua intesa come elemento connotante della diversità culturale altrui. Nulla di tutto questo, però ci permette di aggiungere qualcosa riguardo alle tecniche e alla prassi di apprendimento, qualcosa che non sia, almeno, estremamente banale. Perché è vero sicuramente che chi viveva nelle terre del Levante apprendeva spesso la lingua attraverso la pratica. Ma è vero anche che molti di coloro che decidevano di compiere questo sforzo avevano alle spalle un’idea ben precisa di cosa una lingua fosse e di come bisognasse impararla. Di questi aspetti è forse possibile cogliere qualcosa di più cambiando punto di vista e rivolgendosi all’attività dei religiosi, in particolare e soprattutto a quella degli ordini mendicanti. Non si capirebbe infatti quanto sia accaduto in quegli anni e in quei secoli senza tenere conto della trasformazione profonda legata alla spinta missionaria. Missionari

I missionari cristiani latini, sin dall’alto medioevo, avevano imparato ed usato lingue straniere per convertire i pagani, sebbene spesso con riluttanza. Quando possibile venivano utilizzati missionari la cui lingua nativa fosse vicina abbastanza alla lingua della popolazione oggetto di missione18. La grande trasformazione avvenne invece con gli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani, i cui successi missionari furono ottenuti proprio attraverso l’uso e la conoscenza delle lingue19. 17

Si veda a titolo d’esempio Saletti, Don Domenico Messore cit., p. 140 (§ 1205): «dicendo cangir, zoè ‘porco’, gerbul, zoè ‘scarpaza’, marab, zoè ‘ruffianno’, [be]nachal (ms. nachal), zoè ‘channo’». 18 Questo si vede già in Beda, ma gli esempi si sprecano anche nella Spagna medievale. Sulla prassi linguistica dei missionari si vedano H. Penzl, ‘Gimer mein Ros’: How German was Taught in the Ninth and Eleventh Centuries, «The German Quarterly», 57/3 (1984), p. 393; F. Bäuml, Scribe et Impera: Literacy in Medieval Germany, «Francia», 24/1 (1997), pp. 123-132; R. Sullivan, The Carolingian Missionary and the Pagan, «Speculum», 28/4 (1953), pp. 705-740. 19 Sullo studio dell’arabo da parte dei Domenicani spagnoli si vedano A. Cortabarria,


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Già Francesco ne aveva fornito il modello in quel suo incontro col sultano che sarebbe avvenuto nel 121920. Da quel momento, l’attività francescana nelle terre dell’islam sarebbe stata costante: con progetti di crociata, con tentativi di missione e di evangelizzazione, con lo studio delle lingue orientali, ma anche, appunto, con una presenza costante in Siria, Palestina, Egitto e Cipro. In generale, però, l’interesse nei confronti dell’arabo animò presto quei Francescani e quei Domenicani che vivevano la quotidianità del confronto con l’islam (in Spagna soprattutto), ma anche quelli che guardavano al levante come terra di missione. Non a caso fu in territorio iberico che si organizzarono alcune delle prime scuole di arabo. In una carta redatta con probabilità nel 1256, il Maestro Generale dell’ordine domenicano, Humberto de Romans, racconta orgoglioso di come in terra spagnola i frati che studiano arabo già da anni, tra i saraceni non solo realizzano ammirevoli progressi nella lingua, ma anche numerose conversioni, proprio grazie alla quotidiana frequentazione, «ut patet in pluribus qui jam baptismi gratiam susceperunt». Stava probabilmente esagerando non poco, ma che una pratica di apprendimento linguistico fosse già avviata, questo è sicuro21. Come fossero poi queste scuole è difficile dirlo. Nella anonima Vida Antigua, inserita all’interno della Crónica di Pedro Marsilio, commissionata dal sovrano catalano Jaime II nel 1314, leggiamo che Raimondo di Peñaford aveva stabilito scuole di lingua per i religiosi del suo ordine a Tunisi e a Murcia, alle quali furono destinati «fratres Cathalanos electos»22. Ora, se la datazione (1256) di questa carta è corretta, essa coinciderebbe con la bolla di Alessandro IV Cum hora undecima, datata 27 giugno 1256, in cui il pontefice ordinava al provinciale dei Domenicani in Spagna di inviare alcuni frati «ad terras Sarracenorum Hispaniae, per totum regnum Tunisii, et ad quascumque infidelium nationes»23. Bolla che sarebbe stata confermata due anni dopo

L’études de langues au Moyen Âge chez les Dominicains: Espagne, Orient, Raymond Marti, «Mélanges de l’Institut Dominicain d’Études Orientales du Caire», 10 (1970), pp. 189-248; Cortabarria, Fuentes árabes del Pugio Fidei de Ramón Marti, «La Ciencia Tomista», 112 (1985), pp. 581-596; inoltre, più in generale R. Chazan, From Friar Paul to Friar Raymon: the Development of Innovative Missionizing Argumentation, «The Harvard Theological Review», 76 (1983), pp. 286-306; A. Robles Sierra, Fray Ramón Martí de Subirats, O.P. y el diálogo misional en el siglo XIII, Caleruega (Burgos) 1986. 20 Cfr. J. Tolan, Le Saint chez le Sultan, Paris 2007. 21 Cfr. A. Gimenez Reillo, El arabe como lengua extranjera, in El Saber en al-Andalus. Textos y Estudios, 4, Sevilla 2005, pp. 147-187: 152. 22 Diplomatario (Documentos, Vida antigua, Crónicas, Procesos antiguos), cur. J. Rius Serra, Barcelona 1954, p. 341. 23 J.M. Coll, Escuelas de lenguas orientales en los siglos XIII y XIV (Periodo


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e seguita da una terza del 15 luglio 1260 in cui si autorizzava Raimondo di Peñaford a inviare più frati nelle terre dei saraceni. È considerevole che nello stesso periodo un capitolo provinciale dell’ordine, riunito a Saragoza nel 1257, esortasse tutti a tener presente il «negotium arabicum» e i priori in particolare affinchè nei capitoli ricordassero a loro volta con frequenza di pregare per i fratelli assegnati a tale missione24. La scuola domenicana forse meglio documentata è quella di Játiva: il capitolo generale che si celebrò a Palencia nel 1291 stabilì la creazione di una casa dell’ordine per i frati della nazione catalana dove si sarebbe potuto studiare arabo ed ebraico25. E se conosciamo il nome almeno di un frate, Pedro Scarramat, che lì insegnò ebraico («qui legat de Hebrayco fratribus qui sunt ibi»)26, è interessante vedere come potesse essere molto più difficile trovare un insegnante di arabo. Sappiamo infatti che fu chiesto al priore di Játiva di cercare un ebreo che fosse istruito in arabo, o anche un saraceno, che potesse impartire le lezioni27. Lo intuiamo anche da altri indizi: non era affatto facile trovare un insegnante di arabo, madrelingua o no; anche perché ben pochi erano anche i domenicani disposti a trasferirsi nella terra degli infedeli: a rischio di considerevoli pericoli e con scarse prospettive di conversione28. Ma al termine di queste considerazioni occorre rigorosamente intendersi. Come spesso accade alla tradizione delle “scuole” medievali (“scuola di Toledo”, “Scuola medica salernitana”, etc.), anche in questo caso cosa vi sia stato di reale in questa tradizione di studia linguarum è tutto da chia-

Raymundiano), «Analecta Sacra Tarraconensia», 17 (1944), pp. 115-138: 136; A. López, Obispos en el África septentrional desde el siglo XIII, Tánger 1941 (Serie 3ª, Archivos españoles, 6), p. 61. 24 R. Hernández Martín, Las primeras actas de los capítulos provinciales de la provincia de España, «Archivo Dominicano», 5 (1984), pp. 5-41: 41. 25 B.M. Reichert - Frühwirth, Acta capitulorum generalium Ordinis Praedicatorum, Roma 1898, I, p. 263: «In eadem provincia [Hyspanie] fratribus de nacione Cathalonie unam ponendam in Zativa, ubi volumus et ordinamus quod semper sit studium in hebraico et in arabico». 26 R. Hernández Martín, Pergaminos de actas de los capítulos provinciales del siglo XIII de la provincia dominicana de España, «Archivo Dominicano»», 4 (1983), pp. 5-73: 57; A. Robles Sierra, Actas de los Capítulos Provinciales de la provincia dominicana de Aragón, correspondientes a los años 1302, 1303, 1304 y 1307, «Escritos del Vedat», 20 (1990), pp. 237-286: 244, 247-248. 27 Robles Sierra, Actas de los Capítulos, p. 255: «Ordinamus insuper et mandamus Priori Xativensi, quod conducat, et habeat unum Iudeum, qui etiam in Arabicum sit instructus, vel aliquem Sarracenum, ut simul cum dicto fratre Petro legat ibi». 28 Kedar, Crusade and mission cit., pp. 155, 185. Cfr. Gimenez Reillo, El arabe como lengua extranjera cit., pp. 157-158.


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rire. Alcuni autori29 hanno sostenuto, con buone ragioni peraltro, che al di là della retorica interna all’ordine sulla necessità di mostrarne la gloria, le prove relative a quelle scuole sono assai scarse, così scarse da far ritenere che forse si trattò di qualcosa di molto più limitato: di qualche frate che da adulto riuscì davvero a impadronirsi della lingua araba, ma nulla di più30. Di qualunque cosa si trattasse, in terra iberica, comunque, questa fu un’attività fortemente gestita dai Domenicani. L’unica scuola francescana appare nel 1276 quando Jaime II di Mallorca ricevette dal Papa Giovanni XXI una bolla (Laudanda tuorum) dove si approvava l’iniziativa del monarca di appoggiare la creazione di un monastero dove tredici frati minori studiassero continuamente arabo, allo scopo di poter poi dirigersi «ad Terram paganorum»31. La scuola fu forse ispirata da Ramón Lull, ma, se questo rimane comunque probabile, la bolla non fa menzione di lui. Come è stato giustamente notato32, è proprio attraverso la documentazione che esce dai capitoli degli ordini che si può forse cogliere un’immagine più calibrata (e meno retorica o promozionale) di questa effervescenza di studi arabi. Effervescenza che si calava all’interno di un sogno di conversione che in quella metà del secolo XIII ebbe larga e veloce diffusione33. Anche se in realtà, lo studio dell’arabo in Terra Santa nasceva dalla necessità della Chiesa cattolica di intendersi, in tutti i sensi, con una parte del cristianesimo orientale e solo in misura minore per disputare con i musulmani34. Ciò che però rimane poco chiaro è cosa davvero si studiasse in quelle scuole, soprattutto se la prospettiva era tanto quella della lettura e dello scritto quanto quella della predicazione ai fini di conversione. Per l’ebraico, ovviamente, il problema non si poneva: il testo era rappresentato dall’ebraico biblico, mishnaico e talmudico, che non si usava come lingua parlata, visto che le prediche e le dispute venivano condotte nella lingua locale parlata dagli ebrei che era anche la lingua dei cristiani. Per l’arabo le cose stavano diversamente. Se l’arabo scritto era fondamentalmente quello coranico, lo stesso non valeva per quello parlato che corrispondeva per lo più ai vari dialetti locali (il regime di diglossia del mondo arabo è ben 29 R. J.E. Vose, Converting the Faithful: Dominican Mission in the Medieval Crown of Aragon (ca. 1220-1320), Ann Arbor 2005. 30 Gimenez Reillo, El arabe como lengua extranjera cit., in particolare pp. 186-187. 31 S. Garcías Palou, Ramon Llull y el Islam, Palma de Mallorca 1981, p. 123. 32 Gimenez Reillo, El arabe como lengua extranjera cit., in particolare p. 153. 33 R.I. Burns, Christian-Islamic Confrontation in the West: The Thirteenth-Century Dream of Conversion, «The American Historical Review», 76 (1971), pp. 1386-1434. 34 U. Monneret de Villard, Lo studio dell’Islam in Europa nel XII e nel XIII secolo, Città del Vaticano 1944, p. 25.


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noto). Che non si trattasse di un problema secondario lo attestano molte fonti. Lo registra ad esempio l’autore del Vocabulista in arabico nella esplicita volontà di descrivere i registri colloquiali più alti dell’idioma arabo di al-Andalus (dove si rivela un intreccio complesso di differenti registri, che vanno da quello dell’arabo classico coranico, a quello di un dialetto utilizzabile per discorsi “alti”, sino ai registri più popolari che, per quanto diffusi, non sarebbero stati accettati in un discorso religioso)35. Lo attesta molto chiaramente Riccoldo da Montecroce (m. 1320), autore, tra l’altro, del Contra legem Saracenorum, che avrebbe costituito una delle opere di riferimento nelle successive polemiche contro l’islam36. Nel suo Libellus ad nationes orientales, un vero manuale ad uso dei missionari, in cui il Domenicano espone una serie di regole che debbono essere d’aiuto agli inviati «ad exteras nationes». La prima di queste è di non predicare né discutere mai di assunti relativi alla fede attraverso interpreti, perché, per quanto ovviamente edotti della lingua parlata, sono incapaci di trattare concetti come quelli in modo conveniente. Conviene dunque i frati imparino bene la lingua: apprendendo cioè tanto l’arabo come lingua quanto la dialettica37. E che Riccoldo fosse un notevole conoscitore della lingua araba vi sono pochi dubbi. A tale proposito è stato dimostrato con buone argomentazioni38 che un manoscritto arabo del Corano, conservato alla Bibliothèque nationale de France (ms Arabe 384) fu utilizzato proprio da Riccoldo: tra le sue numerose note latine al testo ci è possibile cogliere qualcosa della sua considerevole competenza linguistica. Così ad esempio a margine del versetto 21 della sura 59 troviamo una sua nota con un abbozzo di traduzione: «Et si misissemus hunc alcoranum super montem, uideres eum pre timore Dei scissum». Quando egli cita lo stesso passo nel suo trattato troviamo una traduzione evidentemente più vagliata, con alcu35

F. Corriente, El léxico árabe andalusí según el “Vocabulista in arabico”, Madrid 1989, p. 6. Su questa opera si veda inoltre C. Schiaparelli, Vocabulista in arabico, Firenze 1871 e D. Griffin, Los mozarabismos del ‘Vocabulista’ atribuido a R. Martí, «Al-Andalus», 23/2 (1958), pp. 251-337; 24 (1959), pp. 85-124, 333-380. 36 Si veda su questo J.-M. Merigoux’s, L’ouvrage d’un frere precheur florentin en Orient à la fin du XIIIe siècle: Le ‘Contra legem Sarracenorum’ de Riccoldo da Monte di Croce, in Fede e controversia nel ’300 e ’500, «Memorie domenicane», n. ser., 17 (1986), pp. 35-58. 37 A. Dondaine, Ricoldiana. Notes sur les oeuvres de Ricoldo de Montecroce, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 37 (1967), pp. 119-179: 168-169. 38 T.E. Burman, How an Italian Friar Read His Arabic Qur’an, «Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society», 125 (2007), pp. 93-109. Più in generale, sull’argomento si vedano T.E. Burman, Polemic, Philology, and Ambivalence: Reading the Qur’an in Latin Christendom, «Journal of Islamic Studies», 15/2 (2004), pp. 181-209; e Burman, Reading the Qur’an in Latin Christendom, 1140-1560, Philadelphia 2007.


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ne significative migliorie. Ad esempio egli segue più da vicino l’ordine delle parole arabe e aggiunge parole per meglio chiarire; ad esempio unum per indicare che la parola montem è, nel suo originale arabo, indefinita un ¢ ): «Si misissemus hunc Alchoranum super unum montem, uideres (gabal eum conscissum pre deuotione et timore Dei»39. Non stupirà – ma lo dico solo en passant – scoprire che le traduzioni poste a margine del manoscritto da Ricoldo riguardano per lo più passi che impegnavano la controversistica cristiana contro i musulmani, mostrando quanto ormai stratificata fosse la tradizione latina sull’argomento40. Quando si cominciava a studiare l’arabo? Spesso in età relativamente avanzata. Lo stesso Ricoldo era attorno ai quarant’anni quando sbarcò ad Acri nel 1288. E Lull si avvicinò all’arabo quando si trovò, per suo stesso dire, al suo cambio di vita, cioè in età matura. Il problema dell’età era così presente, che per qualche tempo si pensò di seguire l’ordine inverso: cioè dare un’adeguata formazione religiosa e apologetica a bambini che già conoscevano la lingua41. Apprendere l’arabo, insomma, era difficile, non solo per l’ovvia lontananza linguistica, ma anche e soprattutto per il livello di competenza che era richiesto a un potenziale predicatore: oltre al latino, infatti, lo studente doveva impadronirsi tanto dell’arabo scritto e della letteratura classica da esso veicolata, quanto dei vari tipi di arabo parlato e di dialetti a lui necessari per comunicare con eruditi ma anche con gente comune. Qualcosa possiamo intuire almeno del procedimento di apprendimento della lingua scritta attraverso quanto sappiamo circa gli analoghi sforzi relativi all’ebraico. Arabo ed ebraico, come è noto, sono lingue affini sul piano grammaticale e sintattico. Come è stato dimostrato42, i frati si accostavano all’ebraico come a una lingua morta (e a onor del vero, l’ebraico 39

Paris, Bibliothèque nationale de France, Arabe 384, f. 226r; Riccoldo, CLS 9.107. Cfr. Marco di Toledo, Liber Alchorani: «Et si alchoranum hunc super montem mitteremus desursum [...]» (75va). 40 Burman, How an Italian Friar Read His Arabic Qur’an cit., p. 100. 41 Si veda su questo Gimenez Reillo, El arabe como lengua extranjera cit., in particolare p. 162, il quale poggia tale affermazione su una considerevole serie di documenti. Inoltre cfr. Ch. Jourdain, Un collège oriental à Paris au XIIIe siècle, «Revue des Sociétés Savants», 6 (1861), pp. 3-16; Monneret de Villard, Lo studio dell’Islam cit., pp. 46-47; M.-M. Dufeil, Traces d’Orient à Paris au XIII siècle, «Revue d’Histoire et de Civilisation du Maghreb», 2 (1967), pp. 48-49. 42 G. Dahan, L’enseignement de l’hébreu en Occident médiéval (XIIe-XIVe siècles), «Histoire de l’éducation», 57 (1993), pp. 3-22: 3-4. Inoltre S. Morag, Hebrew in Medieval Spain: Aspects of Evolution and Transmission, «Miscelánea de Estudios Árabes y Hebraicos, sección Hebreo», 44 (1995), pp. 3-21.


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biblico, al di fuori del culto, non era certo una lingua dell’oralità). Non si tratta di una pura ipotesi deduttiva: nel secolo XIII, infatti, il francescano Ruggero Bacone affermava che tre possono essere i gradi di conoscimento di una lingua: il primo e più semplice è saperla leggere; poi saperla tradurre (e questo, dice Bacone, è certo più difficile, ma non tanto come si possa credere); e infine giungere a parlarla come se fosse la propria «quod homo loquatur linguam alienam sicut suam» e poterla usare per insegnare, predicare e dissertare; e quest’ultimo grado richiede una trentina d’anni «post triginta annos»43. Per Bacone, però imprescindibile per una lingua come l’ebraico è impadronirsi di una certa conoscenza della grammatica, come quella che del latino si può acquisire dai libri di Donato o Prisciano44. Ma questo, continuava Bacone, era a dir poco difficile perché c’erano si e no quattro latini che conoscevano davvero la grammatica degli ebrei, dei greci e degli arabi: certo, molti erano coloro che tra i latini – continuava – che sapevano parlare greco, arabo ed ebraico (e qui non è chiaro a che lingua si riferisse davvero)45, ma molto pochi erano quelli che ne comprendevano la grammatica e tanto meno quelli che sapevano come insegnarla46. Che il problema fosse reale e non solo parte di un esercizio retorico sull’apprendimento della lingua, lo intuiamo da una serie di indizi, per giunta provenienti dalla parte “avversa”. Così ad esempio Muìammad al-Qaysï (m. 1309) in un suo scritto polemico ricorda che, quando era prigioniero dei cristiani, fu condotto una volta da un monaco che conosceva il Corano e la sunna, ma non l’arabo47. Oppure il caso di una disputa che, secondo

43 P. Bourgain, Le sens de la langue et des langues chez Roger Bacon, in Traduction et traducteurs au Moyen Âge. Actes du colloque international du CNRS (26-28 mai 1986), cur. G. Contamine, Paris 1989, pp. 317-331: 327. Cfr. I. Rosier-Catach, Roger Bacon and Grammar, in Roger Bacon and the Sciences: Commemorative Essays, cur. J. Hackett, LeidenNew York-Köln 1997 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 57), pp. 67-102: 88. 44 Donato (fl. 350 d.C.) e Prisciano (fl. sec. VI d.C.) sono gli autori più usati nel Medio Evo per insegnare la grammatica latina. Cfr. V. Law, The history of linguistics in Europe from Plato to 1600, Cambridge 2003. 45 Cfr. H. Weinstock, Roger Bacon’s Polyglot Alphabets, «Florilegium», 11 (1992), pp. 160-178; Dahan, L’enseignement de l’hébreu cit., pp. 16-17; P. Dozio, Alcune note sulla lingua ebraica in Ruggero Bacone, «Liber Annuus», 46 (1996), pp. 223-244. 46 Bourgain, Le sens de la langue cit., pp. 327-328. 47 P. Sjoerd van Koningsveld - G. Wiegers, The polemical works of Muhammad al-Qaysî (d. 1309) and their circulation in Arabic and Aljamiado among the Mudejars in the fourteenth century, «Al-Qanùara», 15 (1994), pp. 163-199: 179-180: «The author stressed that it would be wiser not to speak any more of these matters, especially because they would require a detailed discussion in the Arabic language which his opponent did not know» (p. 180).


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l’emiro di Homs (in Siria), non era stato possibile realizzare dato che «i frati conoscevano troppo poco l’arabo»48. Certo non era sempre così: il caso di Ricoldo è forse l’esempio più noto, ma tra XIII e XIV sono attestati altri frati che si muovevano con grande competenza linguistica, come ad esempio quel Yves Le Breton, frate predicatore segnalato da Joinville nella sua Storia di San Luigi49. Eruditi

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In Europa occidentale prima di 1300, gli studiosi e teologi lavorarono quasi esclusivamente sotto il segno del latino. Non è sbagliato dire che il ruolo delle lingue straniere in questo periodo è illustrato soprattutto dalla mancanza di interesse accademico nei confronti del greco o dell’arabo. Imparare greco o arabo sarebbe stato certo difficile, ma quasi nessuno studioso ci provò davvero50. Alla fine del medioevo, i nuovi saperi linguistici non giunsero necessariamente dalle università. Come abbiamo visto sopra, infatti, vi erano numerosi mercanti più o meno esperti nelle lingue del mondo islamico, come appunto Beltramo Mignanelli, in grado di produrre un’opera erudita come il saggio di versione arabo-latina-ebraica del Salterio. Di lì a qualche anno un’opera analoga, uno Psalterium Hebraeum, Graecum, Arabicum, Chaldeum…(1516), ben più monumentale, sarebbe stata composta dall’umanista ligure Agostino Giustiniani51. La vera innovazione avvenuta in quel periodo consistette nel deciso trapasso dall’interpretazione latina di tipo scolastico, che comportava un approccio ai testi arabi per lo più indiretto, a una interpretazione fatta da uno studio di prima mano52. Tracce di un tale atteggiamento scientifico si trovano, ad esempio, in Marsilio Ficino, che fece riferimento ad alcune fonti arabe (a cominciare da Corano), anche se in traduzione e con risultati non partico-

J. Richard, La papauté et les missions d’Orient au Moyen Âge (XIIIe-XVe siècle), Roma 1997, pp. 45, 57. 49 Histoire de saint Louis, Credo et Lettre à Louis X, cur. N. de Wailly, París 1874, p. 242. Cfr. E. Schulze-Busacker, French conceptions of foreigners and foreign languages in the twelfth and thirteenth centuries, «Romance Philology», 41 (1987), pp. 24-47: 37. 50 H. Bobzin, Geschichte der arabischen Philologie in Europa bis zum Ausgang des achtzenten Jahrhunderts, in Grundriß der Arabischen Philologie, cur. W. Fischer, III, Wiesbaden 1992, pp. 155-187. 51 A. Giustiniani O.P., Psalterium Hebraeum, Graecum, Arabicum, Chaldeum, cum tribus latinis interpretationibus & glossis, Genuae 1516. 52 Si veda il fondamentale studio di A.M. Piemontese, Il Corano latino di Ficino e i Corani arabi di Pico e Monchates, «Rinascimento», 36 (1996), pp. 227-273: 235. 48


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larmente originali53. Ma è soprattutto nell’opera di Pico della Mirandola (1463-1494), che scorgiamo i primi importanti esiti del nuovo interesse: attorno a lui si radunò un circolo di eruditi – Elia del Medigo, Flavio Mitridate, Guglielmo Raimondo di Moncada – che tradussero opere dall’arabo e dall’ebraico e lo iniziarono all’apprendimento di quelle lingue54. In realtà “l’islam” di Pico consiste più che altro nei grandi filosofi arabi, Averroè (Ibn Rušd) e Avicenna (Ibn Öïná) in testa: sul solco di quell’idea di ininterrotta tradizione sapienziale già cara a Ficino (la Prisca theologia), Pico collocherà i sapienti arabi in quell’unica, ininterrotta catena sapienziale che dall’Egitto di Ermete Trismegisto e dalla Persia di Zoroastro, passando per la Grecia di Platone e Plotino, era giunta sino ai circoli eruditi italiani del Rinascimento55. Occorre aggiungere, però che le idee di Pico non ebbero grande fortuna: la maggior parte degli ambienti umanistici dimostrò scarso interesse per la letteratura araba. Gli sforzi di Pico di estendere la filologia all’ambito del pensiero di provenienza islamica cozzarono, alla fine con l’antiarabismo che, almeno da Petrarca in poi, si era diffuso negli ambienti intellettuali. Solo l’ebraico, in quanto lingua dell’Antico Testamento, sarebbe sfuggito, in qualche misura, all’ostilità e al filoclassicismo umanista56. In altri luoghi, anzi, proprio le armi della filologia consentirono di intraprendere un’efficace rimozione di quanto era (o si credeva) giunto dall’islam nei secoli precedenti; anche a questo servì in Spagna, ad esempio, l’opera grammaticale di Antonio de Nebrija (m. 1522), che, a gloria dei Re Cattolici, si adoperava anche per depurare il castigliano dal maggior numero possibile di contaminazioni arabe57.

53

Si veda a titolo di esempio C. Vasoli, Per le fonti del “De Christiana religione” di Marsilio Ficino, «Rinascimento», 28 (1988), pp. 135-233. 54 Si veda a titolo di esempio F. Bacchelli, Giovanni Pico e Pier Leone da Spoleto, Città di Castello (PG) 2001. 55 Si veda a tale proposito il famoso preambolo dell’Oratio de hominis dignitate: «1. Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli Arabi che Abdalla Saraceno interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell’uomo. 2. Con questo detto concorda quello di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo»: ed. crit. cur. P.C. Bori in http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/pico/text/bori/frame2.html. 56 Cfr. E. Garin, La prima redazione dell’Oratio de hominis dignitate, in Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, p. 239; F. Bausi, Nec rhetor neque philosophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola (1484-87), Firenze 1996, pp. 109 ss. 57 A. Vanoli, La Spagna delle tre culture. Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Roma 2006, pp. 179-180.


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Ma da questo rinnovato interesse e proprio a partire dalle possibilità scientifiche offerte da tali nuovi approcci, si sarebbero sviluppati in tutta Europa gli studi del secolo successivo e, con essi, nuove conoscenze e nuove idee sull’islam. In realtà, oltre a quei pochi medici e filosofi umanisti interessati alle fonti originali, un’importante spinta al cambiamento nella comprensione dell’islam giunse da quei mercanti e viaggiatori che si spostavano sempre più frequentemente nei territori dell’Africa e del Levante e per i quali, come abbiamo visto precedentemente, la conoscenza dell’arabo stava diventando sempre più utile58. Fu così, ad esempio, per Andrea Alpago, medico bellunese al servizio della Serenissima che lavorò a lungo a Damasco: a lui si deve, tra l’altro, una nuova traduzione latina del Canone di Medicina di Avicenna, pubblicata nel 1523, cui allegò un glossario di termini scientifici arabi (Interpretatio Arabicorum nominum), da cui traspare un esplicito interesse scientifico lontano da qualsiasi accenno di superiorità culturale59. Ma uno dei migliori rappresentanti dei nuovi tempi che stavano giungendo fu sicuramente il francese Guillaume Postel (15101581): linguista, astronomo, cabbalista e diplomatico: dai suoi viaggi orientali riportò molti e preziosi manoscritti arabi, siriaci e armeni. Dei musulmani e dei Turchi si occupò a più riprese, nel famoso De orbis Terrae concordia (1544) come nel De la République des Turcs (1560). Al di là dei toni mistici ed esaltati, l’opera di Postel fu determinante per fondare un interesse erudito nei confronti dell’islam finalizzato allo studio della lingua e alla raccolta di materiali e testi. La prima cattedra di arabo fu creata a Parigi nel 1539 presso il Collège de France e affidata proprio a Postel, cui sarebbe succeduto l’allievo Giovanni Scaligero (1540-1609). Si apriva in quel tempo una stagione del tutto nuova. La stampa facilitava sempre di più lo scambio dei reciproci lavori e permetteva per la prima volta la circolazione su vasta scala di testi in arabo. Proprio in questo periodo, più precisamente sotto il pontificato di Gregorio XIII (15721585), si incoraggiò il cardinale Ferdinando de Medici ad istituire la cosiddetta Stamperia Orientale Medicea, allo scopo di riprodurre i testi che stavano affluendo nel Collegio Romano, e facilitare in questo modo la diffusione dello studio delle lingue orientali. Fu un’esperienza breve ma culturalmente importantissima. Il primo prodotto della stamperia fu la tradu58

K. Dannenfeld, The Renaissance Humanists and the knowledge of Arabic, «Studies in the Renaissance», 2 (1955), pp. 96-117: 101. 59 G. Vercellin, Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento, Torino 1991, in particolare pp. 34-47.


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zione araba dei Vangeli (1590), cui seguirono altre ottime edizioni, tra le quali il Canone di Avicenna (1593) e la traduzione araba di Euclide (1594). Poi giunsero però difficoltà finanziarie e alla morte dell’orientalista Giovan Battista Raimondi (1614), che in quegli anni l’aveva guidata, la stamperia cessò ogni attività. Quell’attività editoriale fu comunque lo specchio di un fermento culturale davvero considerevole. In quello stesso periodo si formarono le raccolte di manoscritti arabi, persiani e turchi, del cardinale Flavio Chigi e a seguire quelle di papa Stefano Borgia; le prime del genere che sarebbero andate ad arricchire la collezione della Biblioteca Vaticana. Fu nelle sale di quella e di altre biblioteche che, di volume in volume, si forgiò un modo nuovo di conoscere, un’intimità linguistica e culturale cui per secoli tutta l’Italia e tutta Europa avrebbero attinto.


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Strumenti e metodi per l’apprendimento delle lingue (sec. XV)


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Cessata nella comunicazione quotidiana la funzione di ‘lingua franca’ che il latino ha ricoperto per secoli, l’apprendimento delle lingue diventa sempre più importante per chiunque abbia contatti al di fuori dei confini della propria terra. La necessità di conoscere lingue diverse per la vita pratica è testimoniata già ben prima del Mille da appunti per viaggiatori, quali le Glosse di Kassel (IX secolo, neolatino-bavaresi), presumibilmente compilate per accompagnare chi si spostava nell’Europa centrale, o il Glossario di Monza (X secolo, italiano-greco), dedicato a chi si dirigeva verso l’Oriente, probabilmente verso Gerusalemme. A questi due esempi ben noti e molto antichi si affiancano in seguito altre opere che coinvolgono direttamente i pellegrini e le vie di pellegrinaggio: per il XV secolo ricordiamo le note di William Wey del Royal College di Eton, che oppongono l’inglese al greco moderno, quelle di Harnold von Harff, che coinvolgono molte parlate (croato, albanese, greco, arabo, ebraico, turco, ungherese, basco, bretone). Gli esempi sono numerosi, ma su di essi occorre sorvolare per evidenti ragioni di tempo1. Le due grandi direttrici segnalate fin da questi lontani secoli (Europa Centrale e Vicino Oriente) restano i due fondamentali poli di attrazione, sia per i viaggiatori-pellegrini che per un’altra importante categoria responsabile della circolazione linguistica, quella dei mercanti: per ambedue assume un ruolo fondamentale la città di Venezia, crocevia da Oriente e Occidente, da dove partono le navi dirette verso la Terrasanta, ma anche verso le altre porte dell’Est, e dove arrivano gli approvvigionamenti accumulati sulle vie della seta e delle spezie, pronti ad essere inviati nel Nord dell’Europa. La funzione di punto di raccolta e di distribuzione delle merci 1 Intorno all’argomento, cfr. A. Rossebastiano, La tradition des manuels polyglottes dans l’enseignement des langues, in History of the Language Sciences, Berlin 2000, pp. 688698.


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rende Venezia una città cosmopolita, bene attrezzata per fare fruttare economicamente la sua posizione. Non a caso si svilupparono nella città i fondachi, dove i mercanti depositavano le loro merci, svolgevano i loro traffici e spesso abitavano durante il soggiorno in città; non a caso i due più importanti fondachi veneziani, situati sul Canal Grande, erano il fondaco dei Tedeschi, destinato ai mercanti dell’Europa centrale, e quello dei Turchi e dei Persiani, organizzato per gli scambi con l’Oriente. Proprio intorno al fondaco dei Tedeschi, esistente fin dalla fine del secolo XIII, nasce e viene elaborato uno degli strumenti più fortunati utilizzati nel XV secolo per l’insegnamento del tedesco: il manuale di Giorgio da Norimberga, uno dei sensali che fungevano da intermediari negli scambi tra i mercanti veneziani e i colleghi di lingua tedesca. Si tratta di un’opera composta espressamente ad uso dei giovani veneziani, per ragioni diverse legati ai traffici con l’Europa centrale, dove il tedesco era lingua veicolare, e pensata secondo una prospettiva didattica ben precisa: allievi adolescenti, interessati al commercio, lezioni frontali che prevedono la presenza del maestro, basate sulla memorizzazione dei termini (raccolti per temi) e sull’applicazione pratica di essi attraverso esempi, utilizzazione della ripetizione come strumento di apprendimento, azzeramento delle regole, sostituite dall’esplicitazione delle soluzioni in un quadro contrastivo accuratamente organizzato, documentazione puntuale delle forme nella coniugazione verbale. In conclusione si collocano, con funzione di esempio e di controllo dell’apprendimento, alcuni esercizi di conversazione, in forma di dialogo, incentrati sulla compra-vendita di tessuti e sulla vita quotidiana degli allievi e del maestro. L’autore e il fondaco

I due codici che conservano il testo dell’opera, datati2 1424, attraverso i

2 Il codice più antico (WN) è conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (cod. 12514), l’altro (MN) presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (cod. it. 261). Traggo le citazioni da quest’ultimo, seguendo la mia edizione (I “Dialoghi” di Giorgio da Norimberga, ed. A. Rossebastiano Bart, Savigliano 1984). Intorno ai due codici, cfr. in particolare O. Pausch, Das älteste italienisch-deutsche Sprachbuch, Wien 1972, A. Rossebastiano Bart, Vocabolari veneto-tedeschi del secolo XV, Savigliano 1983, 3 voll., dove si descrivono tutti i codici qui citati. Per ulteriori dettagli si vedano anche Rossebastiano, Bilinguismo italiano-tedesco nei manuali didattici del Cinquecento per lo studio delle lingue straniere, in Fremdsprachenunterricht 1500-1800, Wiesbaden 1992, pp. 155-167; Rossebastiano, Deutsch-italienische Vokabulare des 15. Jahrhunderts: Inhalte, Strukturen,


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dialoghi conclusivi ci trasmettono notizie sull’autore, sul luogo in cui si trova la scuola, sulle attività svolte nel fondaco. Fondamentale per questi dati è la conversazione tra un mercante proveniente dalla Germania, incaricato di controllare la conoscenza del tedesco di un allievo, e quest’ultimo Bortolamio:

IS IM

E

«Ove has-tu imparado todescho? In questa terra. Quanto tempo es-tu andado a scuola? El no è anchora un ano El serà un ano a bonaman. Per me fe’, tu ne sa asay in questo tempo. El basterave se tu fosse stado vinti mese in Allemagna. Ove sta to maistro? Sul campo de san Bortolamio. Ov’è ‘l campo de san Bortolamio? Apresso el fontego dî thodeschi. Chom’à-lo nome to maistro? Ello ha nome maistro Zorzi. Dond’è-llo, se Dio d’aida? El è de Nurmbergo. Che homo è-llo? Ell’è un piasevel homo. E’ no digo chossì. E’ digo de chi tempo è-llo. El è d’un bon aidar. El à un piasevel modo d’insignar, senza ogni recressimento»3. [Fig. 1]

Sappiamo dunque con certezza che l’opera è frutto di un tedesco originario di Norimberga – una delle città in primo piano per gli scambi commerciali con Venezia – che insegna la sua lingua sulla laguna, in una scuola non lontana dal fondaco dei Tedeschi, dove svolge anche attività di mediatore tra i mercanti di lingua tedesca e quelli di lingua italiana; è un uomo ancora abbastanza giovane, che ha un buon metodo d’insegnamento.

Zielgruppen, in Die Volkssprachen als Lerngegestand im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, Berlin-New York 2002, pp. 1-19: Ein Franke in Venedig. Das Sprachlehrbuch des Georg von Nürnberg (1424) und seine Folge, cur. H. Glück - B. Morcinek, Wiesbaden 2006. 3 MN, c. 108r-v. La disposizione del testo, qui come negli altri codici abitualmente realizzata su due colonne, la prima riservata all’italiano, la seconda al tedesco, in modo da presentare contrastivamente le soluzioni, nel caso dei dialoghi viene sviluppata, per ragione di comodità, anche a pagina intera, con la redazione italiana che precede quella tedesca. Per motivi di spazio trascrivo solo il testo italiano, salvo quando la traduzione tedesca sia indispensabile per la comprensione o la documentazione di dettagli rilevanti.


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A documentare il collegamento tra la conoscenza delle lingue e le attività commerciali del fondaco, s’inserisce nel dialogo anche il garzone del mercante, che accompagna il padrone a Venezia con lo scopo di imparare l’italiano4. Si chiama Chorado, è viennese ed è figlio di un commerciante di tessuti:

E

«Es-tu vegnudo qua per imparar latin? / Pis-tu her chomen welisch lernen? Sy io / Jo ich. Ne sas-tu miga anchora? / Chans-tu sein noch igs? E’ ne so un pocho / Ich chan sein ein wenigt. Sas-tu anchora dir “te nascha el vermochan”? / Chans-tu noch sprechen daz dir der hunczburm wachs? Sy ben quello / Jo wol daz selb. El è usanza che s’impara sempre la chativeria più tosto cha ‘l ben / Ez ist gebonhait daz man albeg daz pöz pelder lernt wenn daz guet»5.

IS IM

L’importanza del bilinguismo italiano-tedesco a Venezia, proprio in ragione dell’esistenza del fondaco, è richiamata anche in altre parti del dialogo: «Che imparas-tu? E’ imparo thodescho / Ich lern deucz. Tu fa saviamente. El è una bella chosa asaver todescho in questa terra. Per amor del fontego, tu dé imparar forte / Durch dez deuczen hauss willen, du schollt fast lernen»6.

E ancora:

«Imparas-tu anche schriver per todescho? E’ imparo lezer e schriver per todescho»7.

Il fondaco è pure il luogo in cui si contratta: «Volemo-nu’ far portar el fustagno via? El se chonvien mandar per hi portadori.

4 Nel testo non si trovano indicazioni, ma sappiamo che fin dal 1308 sulla laguna esistevano numerose scuole private, frequentate da allievi tedeschi. Cfr. H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venetianischen Handelsbeziehungen, I, Stuttgard 1887, p. 24, e anche Pausch, Das älteste italienisch-deutsche Sprachbuch cit., p. 49. 5 MN, c. 109r. 6 MN, c. 105r. La traduzione esplicita che non si tratta di un generico fondaco, ma di quello dei tedeschi: deuczen hauss. 7 MN, c. 107r.


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Zovane, ov’es-tu? Hanz, wo pis-tu? E’ son qua. Va’, chiama quatro bastasi in fontego. 8 Se no ge n’è asay de quatro, tòne sey» .

Un mercante, probabilmente proveniente dalla Svevia, trova modo di lodare i tessuti tedeschi:

E

« No volì-vuy del bochasin? No io, el se fa tele in Svavia, el ne perderave i bochasini. Chomo hano <nome> quelle tele? E’ ne ho ben vezudo. Elle hano nome golchcz»9.

Il fondaco [Fig. 2] è però anche il luogo in cui si svolge la vita sociale dei mercanti, che spesso concludono i loro affari di fronte ad una tavola imbandita o ad un bicchiere di vino:

IS IM

«Volì-vui far una chortesia? Disnè cho· mi! No, e’ voio disnar in fontego»10.

«Aspetè, nuj devemo bevere del marchado. Questo he rason. Che vino volì-vuj? Dàne dela ribuola…»11.

«Fa’ vegnir una grossa de malvasia, dela nuova. Tolé un sanzane12. Mo via, romagnì con Dio. Andè in lo nome de Dio»13.

La città

Le citazioni del fondaco dei Tedeschi e del Campo San Bartolomeo non sono le uniche parti della città di Venezia richiamate nell’opera. Sullo sfondo appare anche il sestiere di San Marco, luogo di svago per gli allievi: 8 MN. c. 100r. 9 MN, c. 102r. 10 MN, c. 96v. 11 MN, cc. 100v-101r. 12 Intorno al termine cfr. 13 MN, c.104r.

I “Dialoghi” cit., glossario.


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«Maistro, ve piase che vada a San Marcho? A chi fare? A far mio destro. 14 Vas-tu a mittu o a chasa o a zogare?» .

Viene citato anche uno degli alberghi utilizzati dai mercanti [Figg. 3-4], il Cavalletto, situato nelle vicinanze del Fondaco e conservato fino ai giorni nostri:

IS IM

L’opera

E

«L’ostaria Albergare El segno Che insegno ha vostro albergo? Hove si-vui desmontado? All Chavalleto»15.

L’opera molto probabilmente rappresenta, come abbiano accennato, la raccolta delle lezioni che l’interprete-sensale del Fondaco svolgeva per i suoi allievi nella scuola del Campo San Bortolamio. La dimensione didattica di questi appunti è di tutta evidenza, così come sono chiare le informazioni interne al testo. L’opera, piuttosto corposa (un centinaio di carte a due colonne, una per l’italiano, l’altra per il tedesco) è strutturata in tre parti fondamentali: un elenco di vocaboli disposti in ordine metodico secondo campi semantici attinenti prevalentemente al lessico della quotidianità e a quello specialistico dei tessuti, una sezione d’interesse grammaticale, una sezione dedicata ai dialoghi. Per quanto riguarda l’elenco di voci veneziane seguite dal traducente tedesco, possiamo individuare una sessantina di suddivisioni che siamo soliti definire capitoli, talora evidenziati dalle iniziali miniate o da stacchi nel codice stesso, a volta desumibili soltanto dal confronto con le rielaborazioni successive. I temi trattati sono quelli della vita pratica e della quotidianità (il corpo umano, gli abiti, la casa, il vino…), a formare un repertorio ricco e variegato, in grado di fornire le basi per una vivace conversazione su argomenti d’interesse generale. In qualche caso emergono approfondimenti che 14 15

MN, c. 107r. MN, c. 27r. Oggi fa parte della catena Best Western, San Marco 1107.


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mostrano la destinazione mercantile del manuale. Non si tratta però solo di un arido elenco di voci, quanto piuttosto di vere e proprie unità didattiche, nelle quali si forniscono anche gli elementi necessari per l’uso dei termini stessi: genere (non indicato esplicitamente, ma ricavabile dall’articolo che accompagna il sostantivo), classe di appartenenza (evidenziata attraverso l’opposizione singolare / plurale), accordo tra sostantivo e aggettivo. Molto spesso si forniscono anche applicazioni esemplificative, mediante citazioni di proverbi o battute scherzose:

IS IM

E

«La veste / daz gebant le veste / die cleider El pano / daz tuch ly panny / di thucher la lana / die woll le lane / die wollen El bambaso / die pawmboll la seda / die seid le sede / die seiden de seda / seidein la seda biancha / die weiß seiden la seda negra / die swarcz seid la seda chruda / die roch seid…»16.

«El dente / der zand ly denti / die zend El dente messelaro / der stokzand la lengua no ha osso ma la fa romper el dosso / die zung hat nicht pain, aber si macht den ruck ze prechen…»17.

«Un pezo de pan / ein stuck pratz El formaio /der chez El formaio dolze è bon chola fogaza chalda / der suezz chess ist guet mit dem haissen chuchen»18.

Dopo il capitolo dedicato al fuoco, compaiono esempi di numerazione (per 1, per 10; la serie degli ordinali) e poco dopo si inseriscono nei capitoli anche esempi utili per la formazione dell’avverbio di modo e dei diversi gradi dell’aggettivo qualificativo. 16 17

MN, c. 7v. MN, c. 6r. Intorno a questi proverbi cfr. A. Rossebastiano, Serie di proverbi in lessici italiano-tedeschi del secolo XV, «Giornale storico della Letteratura italiana», 153 (1976), pp. 549-565. 18 MN, c. 20v.


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«Rasonevele / weschaiden No rasonevele / unbeschaiden Rasonevelmente / pillaich la discrezion / die vernufft discretamente / vernunfftigtleich la vilania / die unczucht Vilanamente / pewerischen Tu fa vilanamente quando tu è cho· ly homenj da ben / Du tuest unczuchtigtleich benn dw pey den erbern leuten pist»19.

E

Il testo prosegue con l’inserimento dei paradigmi verbali (imperativo, infinito, participio passato), ponendo attenzione anche agli eventuali casi di polisemia, con opportune esemplificazioni alla fine della lezione:

IS IM

«Charga el balestro / spann Chargare /spannen Chargado / gespannt Charga zoè nave / lad Chargare / laden Chargado / geladen…»20.

«Pores-tu chargar questo balestro a chavallo? / Möchs-tu daz armbrost zw ross spannen? Puos-tu chargar questa balla in un’hora? / Mags-tu den paln laden in einer stundt?» 21.

Successivamente si infittisce la serie che esemplifica i gradi degli aggettivi:

«Spesso / dick oder offt più spesso / dicker Molto spesso / gar dick Massa spesso / ze dyck E· più spesso / allerdickist la spesseza / die dick Tu vien più spesso da mi che tu no è usado / du chumst offter zu mïr benn du gebont pist»22,

19 20

MN, c. 22r. WN, c. 23r-v. L’opposizione si perde in MN e negli adattamenti successivi (ME,

HU).

21 22

MN, c. 25r. MN, c. 29v.


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IS IM

E

talora esemplificando, come in questo caso, attraverso voci polisemiche in una delle due lingue, opportunamente glossate nell’altra con due traducenti. Segue una sezione di grammatica esplicita, dedicata ai pronomi personali, ai possessivi, ai dimostrativi («Io, Tu, Quello o questo, Nuy… Mio, Tuo, so o d’ello, Nostro…»23), per arrivare alla serie compatta dei paradigmi verbali, completata da esempi di coniugazione secondo tutte le persone (generalmente: presente, imperfetto, passato prossimo, condizionale, futuro). Conclusa questa parte di grammatica esplicita, hanno inizio i dialoghi (tre), che si presentano come esempi pratici di conversazioni prevedibili all’interno del fondaco, tra mercanti e giovani praticanti, tra il maestro e gli allievi, tra gli allievi stessi. I primi due simulano un ‘mercato’ e un ‘baratto’ relativi ad una partita di stoffe. Tra gli interlocutori troviamo Bortolamio, garzone di bottega, figlio di un mercante di stoffe, un grossista tedesco ed un sensale. Compare fugacemente anche un aiutante, Zovane, cui viene affidato il compito di cercare bastasi. Il terzo è più disordinato, presenta una maggiore varietà di personaggi, che compaiono e scompaiono velocemente, efficacemente simulando l’andirivieni della piazza; alla conversazione prende parte anche il maestro. Tra i giovani, hanno posto rilevante Piero e Bortolamio, ma c’è anche Chorado, il già citato fante proveniente da Vienna, trasferitosi a Venezia per imparar latin, cioè welisch, ormai così bene inserito nell’ambiente veneziano da conoscere le espressioni idiomatiche più diffuse. In questa parte lo sfondo è prevalentemente quello della scuola, dominata dalla figura del maestro, che attraverso il dialogo firma la sua opera e la colloca nello spazio veneziano, come già si è detto. I destinatari

Il tema dei dialoghi indica chiaramente che i destinatari sono giovani veneziani appartenenti alla classe mercantile, richiamata anche da uno dei pochissimi inserti in latino: «Explicit mercatum quod est scolaribus valde gratum, in quo utilissimum scripsimus vere thothonicum, ad satisfaciendum precibus quorundam intimorum…»24.

23 24

MN, c. 48v. MN, c. 101v.


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Anche se la struttura dell’opera ne consente l’uso bidirezionale, il testo conferma la partenza dall’italiano, lingua posseduta, per raggiungere il tedesco, lingua da apprendere. Si consideri a tal proposito il passo della carta 105r già citato, che fa riferimento allo studio della lingua, dove non si prevede alcun cambio direzionale nella seconda colonna. Altrettanto vale per l’esempio seguente:

E

«E’ vegno da schuola / Ich chum von schull. A qual schuola vas-tu? / In beliche schull ges-tu? E’ von imparar thodescho / Ich gee deucz lernen. Sas-tu anchora miga de todescho? Cons-tu noch igs deucz?»25.

La destinazione a giovani ragazzi (non bambini) si rileva in altri punti del dialogo, in cui si dipinge l’allegra vita notturna della brigata di studenti:

IS IM

«Andemo dar una volta. In questo mezo vegnerà note. E sy anderemo puoy a chasa mia a ffar cholazion… E’ so de certo che Piero usa in questa chontrada per una bella mamola. E’ crezo che nuj tutti quanti usemo qua per done. Ben che nessun voia mostrar la soa al’altro…»26.

La fortuna dell’opera

L’opera di Giorgio da Norimberga, duplicata dall’amanuense nel giro di due mesi circa (ms. di Monaco), deve avere ottenuto un discreto successo, se pochi anni dopo viene riproposta con il titolo Libro de imparare todescho in un codice (ME) che dati interni consentono di attribuire al 14331437, utilizzato molto probabilmente nell’ambito del Patriarcato d’Aquileia27. Il testo dell’opera resta sostanzialmente il medesimo, ma il repertorio lessicale presenta vistosi fenomeni di variazione linguistica e una forte sostituzione sinonimica, che tende a cancellare, senza troppo successo, direi, le tracce dell’origine veneziana. Si evidenziano pure processi di revisione dei contenuti, sia in direzione di accrescimento che di cancellazione (l’esito finale è però positivo: il vocabolario si accresce). 25 26 27

MN, c. 106r-v. MN, c. 107r-v. Il codice è conservato presso la biblioteca Estense di Modena (ms. it. 405 = a H.5.20). Per la descrizione cfr. Rossebastiano Bart, Vocabolari veneto-tedeschi cit., pp. XXI.


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E

Ancora maggiore rimaneggiamento si osserva nella parte dialogata, che riunisce, adattandoli in uno solo, i tre dialoghi di Giorgio da Norimberga, con introduzione di elementi nuovi, tra cui la contrattazione per l’acquisto di un cavallo. Lo sfondo è sempre mercantile e si cita pure un fondaco («Chi è vostro mestiero? E’ son sansalle in fontego28»), ma la collocazione in una precisa città non è più possibile, essendo la cornice ormai sfumata nella vaghezza dei richiami, banali quanto il dialogo stesso. Tra i tratti conservativi notiamo la persistenza della conversazione che celebra la vendita con una buona bevuta («Mo via, volimo-nu’ bever del merchà? Mefé sì, tra’ del vin dela quaia29») e l’onomastica dei personaggi (scompare Bortolamio, ritornano Piero e Zuane, mentre è nuovo il nome Antonio, attribuito ad uno dei personaggi). La conversazione («Capitollo dî latini30») mette in luce il collegamento con l’Europa centrale, attraverso la citazione di Costanza, città da cui proviene uno dei mercanti:

IS IM

«E’ vezo uno che cognoso. El vien pur mo d’Alemagna. Chi è-llo? È-llo de questa tera? Meser sì. Qual è-llo de cholloro do? Quel dal beretin. È-llo merchadante? No, ma ll’ha inparado todescho là fora. Ben vegna quel zovene. Me chognosì-vui? A mi par che ssì. Chomo è vostro nome? E’ ò nome Antonio. E ti, chomo à-tu nome? E’ ò nome Zuane. Donde è-tu? Donde si-vuj? E’ son de Chostanza. Adoncha tu è del mio paexe…»31.

Altrove emerge il collegamento con Praga:

28 29 30 31

ME, c. 121r. ME, c. 125v. ME, c. 116r. ME, c. 119r-v.


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«Che ve par de questo vino? El vin è bon, non so dove el sia nasudo. A dir lo vero ell’è nasudo un perbon pezo lonzi de qua. Ell’è maroa de Zipro. O, n’avess’io mille anffore in Praga! El serave dano, Tu deventerissi tropo richo, E sì faresti tuti li bohemi inbriagi»32.

IS IM

E

Una nota di possesso sul verso dell’ultima carta del codice indica il rovesciamento dell’uso, al di là della volontà dell’autore, in quanto realizzato da un fruitore: tal Gregorius von Lisnick dichiara di avere con quel libro imparato l’italiano presso «meister Wilhelm Vençon», ossia Guglielmo da Venzone, che attraverso il nome denuncia la sua origine friulana. Il metodo è dunque passato nelle mani di un altro maestro, sulle strade dei valichi che conducono verso l’Europa centrale. Un altro codice (HU), molto corrotto, oltre che ridotto e rimaneggiato in senso deteriore è conservato ad Heidelberg33. La derivazione dall’opera di Giorgio da Norimberga è garantita dalla sequenza dei capitoli e dalla coincidenza di gran parte del contenuto. Anche in questo caso la fraseologia finale è rappresentata da un unico dialogo, imperniato su di una vendita di stoffe. Discutono tra loro il mercante Piero, il messeta e il galoppino Zane, che conducono un dialogo stanco, privo di mordente, dove la schermaglia, solo in apparenza litigiosa, presto si placa perdendosi nel banale. Anche i nomi, come si può osservare, richiamano il testo originale. I codici che abbiamo indicato sono i testimoni di una unica famiglia, che rappresenta il ramo A della tradizione. Altri testimoni, di qualche decennio più recenti, costituiscono la famiglia B, che di A acquisiscono la materia, ma non la struttura, assoggettata a profonda revisione. I codici di questo secondo gruppo sono tre. Il più antico (SC) è conservato presso la Biblioteca Colombina di Siviglia34, sviluppatasi intorno al fondo raccolto da Don Fernando Colón, il bibliofilo figlio di Cristoforo Colombo. Una nota sul verso della copertina in cartapecora dichiara espressamente la provenienza dell’opera: «Don Fernando Colon, hijo de Don Cristóbal Colon, primer Almirante que

32 33 34

ME, cc. 122v-123r. Pal. Germ. 657 della Universitätsbibliothek. Privo di data, è attribuibile al sec. XV. Si tratta del codice 7.3.18, incompiuto, attribuibile al sec. XV.


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descubrió las Indias, dejò este libre para uso é provecho de todos sus próximos: rogad a Dios por el»35.

IS IM

E

Un secondo codice (OB) è conservato presso la Bodleian Library di Oxford, tra i codici canoniciani36. L’esemplare è probabilmente copia di un codice già acefalo (mancano presumibilmente 10 carte). Incompiuto, privo anche di alcune carte all’interno (ad esempio quella che conteneva l’inizio del terzo libro, dedicato all’aria ), reca diverse note di possesso non sempre prive d’interesse. Oltre alla citazione di uno degli utilizzatori, Henricus Hindershrisin, alla c. 40v, altre annotazioni (Spiello Luerbery il possessore, Erman Ahimuer l’ordinante, Esilhyber il copista) nelle carte bianche finali, risalenti a mani diverse dei secoli successivi, documentano l’uso del codice per lo studio dell’italiano ed offrono il termine ante quem attraverso una data precisa: «perché escrierem ynn tagliano et cetera… per adj 2 dj sthember 1551». Un terzo codice (FN) si trova nella Biblioteca Nazionale di Firenze, all’interno del fondo raccolto dall’umanista Antonio Magliabechi37. Una nota di mano diversa da quella che ha vergato il testo menziona un’importante famiglia fiorentina: «Questo libro è di Nicholo Rucelaj e chompagnj in Firenze», rimandando ancora una volta all’ambiente mercantile38. Sul recto dell’ultima carta compare la data di conclusione del codice: «Finito adj 13 giugno 1467». Per quanto riguarda la nomenclatura, i codici non presentano grandi variazioni, mentre si osserva una maggiore attenzione riservata alla morfologia verbale. Interessante sul piano della storia del testo è l’adesione stretta ai dialoghi di Giorgio da Norimberga nella sezione dedicata alla fraseologia. Da osservare tuttavia che nel codice SC, improvvisamente interrotto, trova posto un solo spezzone di dialogo, coincidente con quello presente in HU: protagonisti sono i soliti mercanti e il giovane garzone Piero. Ritornano ad essere tre i dialoghi in OB e FN, perfettamente concordanti tra loro. Riprendono il terzo e il primo di WN e MN, oltre che il nuovo di ME. La concordanza con l’originale è evidentissima, sottolineata dalla con35 Cito dall’originale, da me esaminato nel 1993 e parzialmente edito (cfr. I “Dialoghi” cit.). Il completamento dell’edizione è ora in corso. 36 Cod. canon. Ital. 291, risalente al sec. XV. Per l’edizione dei dialoghi cfr. I “Dialoghi” cit. 37 Magl. IV 66. 38 Niccolò Rucellai di Pietro fu nominato canonico di S. Lorenzo nel 1537 (D. Moreni, Memorie Istoriche dell’Ambrosiana R. Basilica di S. Lorenzo di Firenze, Firenze 1816-1817, p. 252).


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servazione di intere sezioni di dialogo, ma è chiara anche la revisione, che, tra l’altro, cancella l’antico indirizzo del maestro-sensale operante a Venezia. La città non scompare però del tutto dallo sfondo dell’opera: ne sono esempi due frasi citate in SC: «Questui è schampà da Venexia per debito…»39. Questo merchadante ha fato el so pagamento chortexementre e po’ mo’ vegnire a Ven<e>sia chome ge piaxe»40.

IS IM

E

Meno direttamente, un richiamo è visibile anche attraverso la citazione di un santo molto noto sulla laguna, la chiesa del quale si affaccia sul Canal Grande: «È festa anchò, se varda san Stadi»41 [Fig. 5], forma alternativa all’attuale (San Stae)42. Permane traccia della circolazione verso l’Europa del nord: «El è viaczo de gran inpensiere qualla (sic) de Flandria»43. Si mantiene anche il collegamento con la scuola e con l’ambiente mercantile, citati esplicitamente in FN e in OB:

«Maestro, insengnate bene mio figliuolo… El merchatante à fatto il suo paghamento»44. «Maestro insengna bene a mio figliuolo… El merchatante à fatto il suo paghamento»45.

Il breve spezzone qui sopra riportato è sufficiente a documentare che il colore linguistico è ormai cambiato e sta avvicinandosi a quello del volgare di tipo toscano. La struttura dell’opera è molto rimaneggiata e risulta meglio inquadrata sul piano logico: dai capitoli dedicati alla nomenclatura si cancella la maggior parte delle più evidenti intrusioni d’ordine grammaticale, tra cui la serie dei numerali, le forme di comparativo e superlativo degli aggettivi, i pronomi. Tutta questa parte viene collocata dopo le liste lessicali, crean39 40 41 42

SC, c. 46v. SC, c. 47r. SC, c. 85r. Cfr. A. Stussi, La lingua, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, II, Roma 1992, p. 784. 43 SC, c. 96v. 44 FN, c. 34r. 45 OB, cc. 27v-28r.


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do uno stacco sensibile tra ‘vocabolario’ e ‘grammatica’. Quest’ultima sezione è completata da una ricca esemplificazione di coniugazioni e di paradigmi, in sequenza invertita rispetto ai testi precedenti. Tra i dati caratterizzanti si colloca l’apertura dell’opera, che in questa famiglia è data dal capitolo dedicato a «L’omo»46, a sottolineare un’impostazione oppositiva a quella di Giorgio da Norimberga, che iniziava con «Dio». L’impostazione non è nuova, essendo ampiamente documentata nelle enciclopedie medievali47. L’opera di razionalizzazione pare nutrirsi di presupposti teorici d’ispirazione filosofica, esplicitati da FN, che divide il testo in quattro parti:

IS IM

E

«Questo libro lo quale si chiama jntroito e porta di choloro che voglono imparare tedescho è partito in quattro parti sechondo lo quattro alimenti. Ella prima parte si è della terra e di quille chose che sono partinente alla terra. El secondo si è delle aque e piove e di quille cose che se partiene all’aqua. El terzo si è delle aire e delle chose che vi si apartenghono. El quarto si è del fuogho e delle cose celestiale e del dì e tempi e del numero scenpio e chonposito»48.

In realtà il tentativo di esplicitare la suddivisione si individua parzialmente anche in OB, dove tuttavia, a causa dei guasti meccanici che caratterizzano il codice, non riesce ad emergere compiutamente (si trova però già citazione di due dei quattro libri). In SC la suddivisione coincide, pur non essendo dichiarata la partizione in quattro libri. Un terzo gruppo di codici del medesimo genere costituisce la famiglia C, rappresentata da due soli manoscritti. Il più antico (MNa49), datato «1460, adj 8 del febrer in Venesya», ci riporta sulla laguna, dove operava Giorgio da Norimberga, anche se l’antecedente da cui discende fu probabilmente composto a Verona50. Una versione quadrilingue (latino-italiano-ceco-tedesco) della medesima stesura (RV) è conservata in un codice vaticano51, la cui datazione è

46 SC, c. 1r. 47 Cfr. L. De Man, Middeleeuwse systematische glossaria, Brussel 1964. 48 FN, c. 1r. 49 Si tratta del cod. it. 362 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. 50 Per la localizzazione e la datazione del codice rimando ad A. Bart Rossebastiano, Per

la storia dei vocabolari italiano-tedeschi. Localizzazione e datazione di un ramo della tradizione manoscritta, «La ricerca dialettale», 3 (1981), pp. 289-302. Come testimonianza cito un solo punto: «E’ voio andar a Roma per Piero, ch’el vegna a Verona» (MNa, c. 52v). 51 Si tratta del cod. Palat. Lat. 1789, proveniente dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg. Intorno all’opera cfr. J. Kresálková, Il “Vocabolarium quadrilingue” nella storia della lessicografia ceca, «Aevum», 44 (1975), pp. 176-204; G. Presa, Il “Vocabolarium qua-


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suggerita parzialmente da un termine ante quem, individuato nel 1486, data della morte di Giovanni, ultimo figlio di Ottone di Mosbach, canonico di Augsburg, che risulta essere stato proprietario del codice, come riportato da note presenti nelle prime carte, nelle quali si legge anche una genealogia della famiglia. Una nota sulla prima carta («Haec est translacio nostri Joannis de Bavariae ducibus») fa addirittura supporre che a lui si debbano le estensioni latina e ceca dell’opera52, ipotesi plausibile, data la figura e le funzioni del personaggio, che, in quanto figlio di un principe elettore del Palatinato, era tenuto alla conoscenza di una lingua slava. La morte durante un pellegrinaggio in Terrasanta del probabile estensore dell’opera richiama anche il citato collegamento di questo genere di manuali con il mondo dei viaggiatori-pellegrini, che spesso raccolgono, prima, durante e dopo i loro spostamenti, liste di parole delle zone che hanno attraversato. In questo caso, molto probabilmente, il solerte canonico della città in cui risiedevano i Fugger, mercanti di stoffe tra i più importanti d’Europa, certamente legati anche a Venezia53 [Fig. 6], aveva trovato già realizzata a metà l’opera che contribuì a diffondere. Per quanto riguarda i contenuti, questo gruppo di codici si differenzia decisamente da quelli sopra citati: siamo di fronte ad un’opera nuova, che con la precedente ha in comune soltanto l’idea generale di manuale didattico per l’apprendimento di una lingua straniera e, almeno nel manoscritto-guida, l’accostamento linguistico italiano-tedesco. Scompaiono le esemplificazioni legate ai gradi degli aggettivi, i paradigmi verbali, gli esempi di coniugazione. La sezione fraseologica perde in gran parte il suo aggancio col mondo mercantile (ma «E’ voio andar in Almagna con marchadantia»54), trasformando la simulazione dei dialoghi tra mercanti, venditori e compratori in una raccolta di brevi frasi, sentenze, proverbi, che lasciano trasparire la loro artificiosa natura di esercizi di traduzione. Questo dato, se da una parte evidenzia l’allontanamento dalla brillante composizione di Giorgio da Norimberga, conferma però anche il collegamento con il

drilingue” nella storia delle origini della lessicografia italiana, ivi, pp. 166-175; Il Vocabolario quadrilingue Latino-Veneto-Ceco-Tedesco, ed. J. Kresálková, Bergamo 1984. 52 Ibid., p. VII. 53 Un ritratto datato 1474 di Jörg Fugger fu realizzato da Giovanni Bellini, operativo a Venezia. Più tardi, nel 1506 Albrecht Dürer, nato a Norimberga, terminò la grandiosa pala raffigurante “La Festa del Rosario” (oggi conservata a Praga) su ordinazione della famiglia Fugger (al momento dedita al commercio dei tessuti oltre che al prestito di denaro), offerta poi in dono alla chiesa di San Bartolomeo, quella cui faceva riferimento per le pratiche religiose la comunità tedesca di Venezia. 54 MNa, c. 7v.


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mondo della scuola, sottolineato peraltro da qualche introduzione di titoli latini («hec sunt nomina verborum»55), oltre che da precise esplicite citazioni («Se attendese meio a imperar ch’el non fo, e’ saverave più cosse che non sa, e ‘l mio mastro rez<e>verave mazor honor de mi cha de Piero»56; «El mio meistro si è sta’ correcza’ con mi anchò, perché io non sun sta’ ubediente e servitiente in chasa»57). Gli allievi in questo caso sono ancora ragazzi giovani, probabilmente più giovani dei precedenti, probabilmente non più così liberi di esprimere il loro spirito goliardico e forse non più destinati ad entrare nel mondo commerciale. Questo tuttavia resta sullo sfondo, come abbiamo detto, insieme all’osteria: «È-tu paga’ l’osto? Avivu’ paga’ l’osto?»58. Altri dati interni suggeriscono una prevista estensione bidirezionale per quanto riguarda la lingua seconda: alla c. 6v di MNa troviamo la domanda «Chomo à nome questo in todescho»59, seguita immediatamente dalla versione adatta ad un apprendente di madrelingua tedesca, vale a dire «Chomo à nomo questo in lumbardo»60. Un’altra frase denuncia però la matrice prevalentemente unidirezionale: «Chi vole deventar bon todescho sia asperto e favela forte»61 resta senza alternative di adattamento alla reciprocità. I due codici citati sono tra loro molto simili, ma non identici nel contenuto. Limitata a MNa è la serie dei verbi indicati secondo la prima persona dell’indicativo presente, l’applicazione, costante fino alla lettera C e saltuaria poi, di una frase esemplificativa nell’elenco degli imperativi, disposti per la prima volta in ordine alfabetico. Il dato è decisamente rilevante in quanto negli elenchi lessicali l’organizzazione del contenuto testuale anche in questo caso si basa su di una suddivisione per temi, adatta ad offrire le competenze terminologiche necessarie per una determinata conversazione, che possiamo immaginare avviata dal maestro e continuata dagli allievi. La repentina parziale adozione dell’ordinamento alfabetico può segnalare un cambiamento nell’uso del manuale: la proposta di memorizzazione non più tematica della componente fondamentale del discorso (il verbo) rende l’opera adatta ad essere strumento per l’autoapprendimento della lingua seconda.

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MNa, c. 36v. MNa, c. 51v. MNa, c. 54v. MNa, c. 7r. RV, c. 6v: «Chomo à nome questo in toischo? Chomo à nome in lonbardo?». Ivi. La traduzione latina è italicum, quella tedesca welsch. MNa, c. 51v. L’esempio ricompare in RV con minime varianti formali.


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Ristretta a RV è l’aggiunta di una serie di frasi in apertura ed in chiusura del codice. Le prime consistono in brevi domande con relative risposte, talora banali convenevoli. A volte i dialoghi restanto legati al mondo mercantile, con richiamo a quelli finali delle precedenti famiglie, in altri casi paiono venire incontro alle necessità pratiche di un viaggiatore che, ad esempio, deve farsi radere la barba, lavarsi i capelli, medicare una piaga: allora il richiamo alle Glosse di Kassel risulta immediato. Attraverso i dialoghi recuperiamo anche un’indicazione che sottolinea l’interesse dell’autore per la Lombardia (già emerso nel codice MNa), attraverso la provenienza del solito garzone, qui chiamato Petro, che dichiara di avere «diexi ani»62 e di essere figlio di Piero e di Katelina, della famiglia di «cuey dala Croxe»63. Alle domande poste, Piero risponde: «E’ vegno da Milan…»; «E’ son de Lombardia…»64. Ancora una volta le frasi conclusive sono legate al commercio, ma restano decisamente distanti da quelle che si trovano nei codici precedentemente analizzati. Da notare però la presenza dei richiami al fondaco e alla città della laguna: «E’ voio andar al fontego dei todeschi per sentire che vale el bombaxo, el pevere e ‘l ciafaran…; Va e fa descharegar quele balle che son vegnude de Lemagna in Veniexia e paga el carezo e ‘l dacio»65.

Per l’estero si richiama in particolare Vienna:

«El (sic) anchuò tolto in credencza diexe botte de savon per menar a Viena…»66. 62 63

RV, c. 1v. RV, c. 1v. Il testo contiene molti errori che manifestano carattere di copia, come in questo caso, in quanto il ms. riporta esattamente «de auey dala croye», che propongo di emendare nel modo indicato sopra, tenendo conto del possibile scambio di c (scritta un po’ chiusa) ed a e poi di y ed x che nella grafia del manoscritto, piuttosto irregolare, non uscita dalla penna di un copista di professione, sono tra loro molto simili (cfr. in particolare excepto, c. 3v, 24-27; Simplex, c. 11r, 3). Il passo doveva essere mal scritto o deteriorato nel manoscritto guida (probabilmente italiano-tedesco), considerato che il corrispondente all’italiano *croxe in tutte le altre tre lingue, il tedesco e le due aggiunte latino e ceco, si mantiene uguale, nella forma czuicze, che non dà senso (osservo che in Il Vocabolario quadrilingue cit. il termine non trova posto in nessuno degli elenchi alfabetici, divisi per lingua). Se però si legge cr la prima sequenza cz, nel testo tedesco si ottiene, assai soddisfacentemente, «ich pin von dem *cruicze», in latino «ego sum de *cruicze», non troppo lontano da *cruce. 64 RV, cc. 1v e 4v. 65 RV, c. 48r. 66 RV, c. 48v.


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La sezione lessicale, come sempre suddivisa in capitoli organizzati per tema, notevolmente ridotti nel numero e nei contenuti, resta legata alla quotidianità. Funzionano da separatori, in apertura il titolo e in chiusura, una massima o un proverbio, come già accadeva nel testo di Giorgio da Norimberga. Gli elenchi lessicali prevedono, almeno nella prima parte, l’uso dell’articolo indeterminativo invece di quello determinativo, presente in tutte le altre famiglie di codici. Sul piano strutturale emergono tratti d’improvvisazione e di mancanza di organicità, responsabili del carattere di appunto che marca il testo. Il confronto con la tradizione delle famiglie A e B mette in evidenza un deciso calo dell’informazione sul piano lessicale, ma anche la conservazione di un numero rilevante di argomenti che, se non sono sufficienti per rimandare ad un testimone comune, consentono quanto meno di pensare ad una fonte unica, diversamente rielaborata, individuabile in un repertorio che indicazioni di vario genere presenti anche nel codice RV fanno presupporre esistente alla fine del Trecento67. L’evoluzione a stampa

La tradizione fin qui esaminata è manoscritta, germinata a Venezia, ma presto diffusa in un’area più vasta, che interessa in particolare Verona e Padova, ma anche, come abbiamo visto Venzone, Milano e Firenze. L’introduzione della stampa moltiplica il successo dell’opera mediante redazioni nuove, che semplificano, riducono e banalizzano i contenuti, proiettandoli però attraverso tutta l’Europa. Al centro di questo lancio c’è ancora Venezia, dove un altro tedesco, questa volta di professione stampatore, «maister Adam von Rodueil», nel 1477 fa uscire dai suoi torchi uno svelto volumetto che si apre così: «questo libro il quale se chiama introito e porta de quele che voleno imparare e comprender todescho a latino, cioè taliano, el quale è utilissimo per quele che vadeno apratichando per el mundo el sia todescho o taliano»68.

67 Cfr. a questo proposito anche Il Vocabolario quadrilingue cit., p. VII. Da dati interni la composizione di questo testo stesso pare doversi ascrivere agli ultimi anni del Trecento. 68 Cito dalla ristampa anastatica da me curata: “Introito e Porta” vocabolario italianotedesco, Torino 1971; per la descrizione dell’incunabolo cfr. A. Bart Rossebastiano, Antichi vocabolari plurilingui d’uso popolare. Parte I: la tradizione del ‘Solenissimo Vochabuolista’, «De Gulden Passer», 55 (1977), pp. 99-102; Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari pluri-


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La glossa «latino, cioè taliano» del 1477 merita una nota, in quanto documenta l’incertezza ancora presente nella denominazione della nostra lingua (in tedesco sempre indicata con «welsch» o sue varianti), per la quale vengono utilizzate diverse definizioni: «latin»69 nei codici di Giorgio da Norimberga (1424) e ancora in FN (1467: «latino»70), «lumbardo / lombardo»71 in MNa e RV (metà del Quattrocento). La data 1477 in cui compare il sostantivo taliano ad indicare la nostra lingua è di appena due anni successiva alla prima attestazione nota72. Nel Cinquecento (1526) invece si comincerà a parlare di lingua «toscana»73, con ciò creando una netta oppo-

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lingui d’uso popolare: la tradizione del «Solenissimo Vochabuolista», Alessandria 1984, pp. 41-44. Intorno al medesimo cfr. anche V.R. Giustiniani, Adam von Rottweil, DeutschItalienischer Sprachführer, Tübingen 1987. Qualche richiamo all’opera si individua in A. M. Finoli, Aspetti didattici nei dizionari plurilingui del XVI secolo: L’Utilissimo Vocabulista, in Lessicologia e lessicografia nella storia degli insegnamenti linguistici, Bologna 2003 (Quaderni del CIRSIL, 2), pp. 112-122; N. Bertoletti, Un continuatore di Amita e la flessione imparisillaba nei nomi di parentela, «Lingua e stile», 41 (2006), pp. 159-200. Un minimo cenno trova pure posto in W. Schweickard, Italian, in Dictionaries. An International Encyclopedia of Lexicography, cur. R.H. Gouws - U. Heid - W. Schweickard - H.E. Wiegand, Berlin-Boston 2013, p. 673. 69 MN 109r; cfr. qui p. 76. Secondo l’Opera del Vocabolario Italiano, la prima attestazione del sostantivo con valore di ‘lingua italiana’ è datata 1302/08 (Bartolomeo da San Concordio). Il termine compare pure in uno scritto di area veneziana del 1321 (Fr. Grioni, La legenda de Santo Stady, ed. A. Monteverdi, Perugia 1930). Cfr. anche W. Schweickard, Deonomasticon Italicum, II, Tübingen 2006, p. 646, che data il termine al 1293ca). La confusione resiste ancora nel Cinquecento: «Questo sie Uno Libro Utilissimo A chi Se dilecta De Intendere Todescho Dechiarando In Lingua Latina», titolo di un vocabolario italianotedesco. Da segnalare il valore di latini (s. m. pl.) nel codice ME (1433-37: «Capitolli dî latini», c. 116r), dove il termine vale ‘dialoghi, esercitazioni didattiche per l’apprendimento di una lingua’, con riferimento all’italiano e al tedesco e non al latino, come viceversa noto attraverso s. Bernardino da Siena (1427, Schweickard, Deonomasticon cit., II, p. 647). 70 FN, c. 72v: «imparare latino / velichs zo lernen». 71 MNa, RV, 6v; cfr. qui p. 89. Vale genericamente ‘lingua italiana’, come confermato dalla traduzione tedesca; la prima attestazione del termine, con valore di sostantivo e con questo significato, secondo Schweickard, Deonomasticon cit., II, p. 757 (s.v. Lombardia), risale al 1389 circa e si presenta nella forma lombart («parlant per letre, lombart et fransos»); la variante lombardo è datata 1778 («un gergo di greco, latino e lombardo», ivi, p. 757, 53). 72 Schweickard, Deonomasticon cit., II, p. 550. Le attestazioni nelle successive stampe, a partire dal Solenissimo Vochabuolista di De Lapi (1479) sono frequentissime nel Quattrocento: talian, taliano (1479, 1482; 1479-1493); taliano (1498). Il sintagma Lingua taliana compare nel 1498, poi nel 1499. Per i riscontri cfr. Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., pp. 41-64. La prima attestazione nota risale al 1484 (Schweickard, Deonomasticon cit., II, p. 554). 73 Cfr. la stampa di Francesco Garrone («Vocabulista de le cinque lengue. Cioe latina. Toscana. Franzosa. Spagnola et Tedesca»), dove in qualche punto, però, a documentare la persistente confusione, italiano significa invece latino. Cfr. A. Rossebastiano, Regole per la


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sizione, in gran parte fittizia, al volgare di tipo settentrionale presente nei primi codici. Il titolo «Introito e porta» non è una novità: era già presente nel codice del 1467 da noi indicato con FN e suggerisce immediatamente il collegamento tra le due tradizioni. Ovviamente non basta la concordanza del titolo per individuare una fonte, neppure quando la coincidenza è così evidente nella sua particolarità, ma nello specifico altri dati interni, tra cui la sostanza del contenuto, sostengono l’ipotesi e garantiscono del collegamento. Nuova è invece la citata dichiarazione che collega esplicitamente il manuale al mondo dei viaggiatori che percorrono le strade d’Europa, dal Mediterraneo al Mare del Nord. Con questo dato sappiamo per certo che l’opera esce dallo stretto ambiente della scuola (magari quella dedicata alla formazione dei mercanti, ma pur sempre una scuola), per avvicinarsi al mondo degli adulti, in particolare quelli che, grazie alla loro attività, hanno già qualche conoscenza delle due lingue. Di fatto siamo dunque di fronte ad un manuale per autodidatti adulti, ai quali le lingue presentate non sono del tutto ignote, anche se evidentemente non sono neppure perfettamente possedute, soprattutto sul piano del lessico. Proprio questa nuova destinazione rende ragione delle modifiche apportate dallo stampatore, che riduce la quantità della materia, intervenendo soprattutto con tagli imponenti nella sezione grammaticale e in quella fraseologica, ormai ridotte ad alcune pagine finali a costituire il secondo libro. Il primo libro raccoglie invece la sezione lessicale, che si mantiene ricca e varia, depurata delle applicazioni anteriormente previste: il viaggiatore ha evidentemente modo di esercitarsi direttamente, lungo le strade che percorre, e di perfezionare, parlando, anche la sua grammatica. Nell’insieme lo sviluppo risulta riduttivo, sia in direzione quantitativa che qualitativa, ma apre uno scenario di portata inimmaginabile nei decenni precedenti in quanto a possibilità di diffusione del prodotto sul piano numerico e sociale.

lettura della lingua seconda nei manuali bilingui e plurilingui per autodidatti (secoli XVXVI), in corso di stampa. Da notare che la denominazione toscana si presenta solo nel testo latino e in quello italiano; in quello francese è «sinc lengages… italien»; in quello spagnolo «çinco lenguas…italiana»; in quello tedesco «Funffelrley sprachenn…Vuellsch». La denominazione toscana attribuita alla lingua italiana nella stampa del Garrone sostituisce italica utilizzata esclusivamente nel titolo latino della versione quadrilingue del Mazzocchi (1510: «Vocabularius quattuor linguarum Latinae Italicae Gallicae et Alamanicae»), che immediatamente dopo parla invece di Italian. Il sintagma lengua toscana è attestato almeno dal 1328ca (Schweickard, Deonomasticon cit., IV, Berlin/Boston, 2013, p. 611, s.v. Toscana). Cfr. anche L. Tomasin, Italiano. Storia di una parola, Roma 2011.


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La nuova prospettiva di divulgazione, sostenuta dall’invenzione della stampa, richiede interventi a volte radicali. Uno di questi consiste nella necessità di sopperire all’assenza del maestro per indicare all’allievo la pronuncia della lingua straniera: l’introduzione delle norme per la corretta interpretazione dei segni usati nella scrittura a comporre le voci di due lingue diverse. L’autore si pone cioè il problema della corrispondenza biunivoca tra segno e suono, fornendo delle indicazioni che, se non riescono a soddisfare del tutto le incertezze dell’apprendente, colgono però in pieno l’importanza della questione. Per maggiore chiarezza Adamo di Rottweil si sofferma prima sulla lettura del tedesco da parte di un italiano, poi su quella dell’italiano da parte di un tedesco:

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«Chi voio mo ben intendere e comprendere questi doi lenguazi besongerà a sapere le diferencie dele letere e del a b c come si truouerai de qua dria schripto in questo libro presento. La prima letera sia el .a. doue chi to truouera el .a. non lezelo per .a. ma lezelo per o saluo si tu truoue per titulo chomo tol vedi qui .á. lezelo per .a. Item, doue tu truoua el .v. dauanti de vno vochauolo chomo sia el .a.e.i.o. lezelo per .f. saluo si tu truoue preso de vna altra letera come si sia in a b c lezelo per .v. Item anchuora le defrencie in questi doi figuri .ch.sch. el quale non se puose deschiarare con ela pena ma bexongia deschiarar cun ela buocha ciascauno todesco chi se schriuere e lezer el sa a dischiarare. Item questa letera .w. lezela per .b.».

Passa poi alle indicazioni in tedesco74 per la lettura dell’italiano: «…wo du vindest ein .a. so leses nit fúr ein .a. sunder leses fúr disen á. silm. Item wo du findest ein .o. das less fúr ein .a. in wálhisch. Item wo du vindest ein .v. vor einem lauten púchstab so less in fúr ein .w. Item wo du vindest ein .x. das less fúr ein .s. Item wo du vindest .ch. das less fúr ein .k. Item wo du vindest .sch. das less fúr disen silm .sc.».

Questa biforcazione delle norme conferma l’ormai avvenuto passaggio del manuale da strumento per imparare il tedesco a strumento per imparare o il tedesco o l’italiano e si predispone idealmente all’ampliamento del repertorio linguistico. Le indicazioni, piuttosto sommarie e non del tutto 74 L’attuale dieresi utilizzata per segnalare la palatalizzazione delle vocali a > ä, o > ö, u > ü, nel testo è sostituita da segni diacritici differenti che riproduco utilizzando quelli più simili tra i simboli a mia disposizione.


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soddisfacenti, sono d’aiuto per chi già conosce parzialmente le due lingue, ma diventano indispensabili per chi le affronta per la prima volta, senza andare a scuola e senza l’aiuto della pratica acquisibile sulle strade del mondo. Tra i destinatari dell’opera si trova anche questa categoria di persone, chiaramente evidenziata nella ristampa del 1479, realizzata da Domenico de Lapi a Bologna, alla “Sapienza”:

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«Solenissimo vochabuolista e utilissimo a imparare legere per queli che desiderase senza andare a schola, como e artesani e done. Anchora puo imparare todescho eltalian eltodescho puo i parare talian, perche in questo libro size tuti nomi vocaboli e parole che se posino dire in piu modi».

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Se la citazione degli artigiani tra i destinatari non suscita meraviglia, non altrettanto si può dire per l’esplicito riferimento alle donne, che abitualmente restano ai margini della cultura. Ancora più notevole il fatto che la dichiarata apertura alle donne trova riscontro solo nel prologo italiano, mentre in quello tedesco sono menzionati esclusivamente gli artigiani («hantwercksz lüt»): la piccola rivoluzione al femminile che interessa i destinatari ha dunque l’Italia come epicentro assolutamente isolato. Tentare di fornire chiarimenti per la lettura corretta in un momento in cui il problema non era affatto affrontato risultava faccenda piuttosto complessa e l’autore ammette talora, molto pragmaticamente, di non essere in grado di indicare per scritto la pronuncia delle lettere, rimandando all’esperienza diretta del parlante competente. Coerentemente con la destinazione, l’indicazione è pratica e del tutto prevedibile. I suggerimenti offerti al lettore in realtà, come si vede, non sono molti, non sono forse i più necessari e addirittura non sono sempre coerenti, ma ci paiono notevoli per la loro precocità e sono testimonianza importante del fermento culturale sotteso a strumenti che solo in apparenza sono modesti. Il problema della corrispondenza biunivoca tra segno e suono, dopo la proposta avanguardistica di Leon Battista Alberti75 sarà infatti al centro delle discussioni dei linguisti del Cinquecento a partire dal Trissino (1524) per continuare con il Tolomei (1524) e il Giambullari (1544), se vogliamo fermarci alla prima metà del Cinquecento, ma proseguiranno ancora attraverso il Citolini e molti altri studiosi della nostra lingua76.

75 Cfr. Leon Battista Alberti, Grammatichetta e altri scritti sul volgare, cur. G. Patota, Roma 1996 (in particolare pp. 71-79). Cfr. anche N. Maraschio, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Storia della lingua italiana, I, cur. L. Serianni, P. Trifone, Torino 1993, pp. 139-227. 76 Un’ottima sintesi si trova in Maraschio, Grafia e ortografia cit.


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La possibile apertura ad una serie più ampia di lingue, deducibile dalla scissione delle norme di lettura, dovrà attendere qualche decennio ancora, ma si realizzerà a partire dal 1510, quando gli idiomi accostati diventano quattro: latino, italiano, francese e tedesco. È il primo passo che prelude allo sviluppo fino ad otto lingue affiancate (primo esempio in una stampa parigina del 1546: italiano, francese, spagnolo, tedesco, fiammingo, inglese, latino, greco) all’interno di una rosa di possibilità che comprende ben dodici lingue (in ordine cronologico di acquisizione: italiano, tedesco, catalano, latino, francese, spagnolo, boemo, fiammingo, inglese, ungherese, greco, portoghese) attraverso un successo ininterrotto che giunge almeno fino al 1636, quando appare ancora una stampa in sei lingue (latino, fiammingo, francese, spagnolo, italiano, inglese), profondamente deteriorata, uscita dai torchi di un libraio poeta, David Ferrand, più volte condannato per le sue stampe scandalistiche e diffamatorie, che aveva bottega nel ghetto di Rouen77, uno dei più importanti d’Europa. L’opera ha compiuto un lungo viaggio: dalle anse del Canal Grande ha toccato quelle della Senna, seguendo le tracce dei mercanti che nel frattempo hanno lasciato il Mediterraneo per guardare verso il Mare del Nord, ormai divenuto nuovo epicentro del commercio. Nelle stampe della Normandia (1611, 1625, 1631, 1636) si perde per la prima volta la traduzione tedesca, che fino ad allora aveva resistito senza cedimenti. Ancora più radicato nella tradizione mostra di essere l’italiano, assente in un solo bilingue: quello catalano-tedesco del 1502. Mancando il testo italiano, anche il richiamo alla destinazione femminile risulta mancante: il proemio catalano riflette esattamente quello tedesco, citando esclusivamente i «menestrals»78. Resta invece ben chiara la prevista applicabilità bidirezionale evidenziata anche dal titolo: «Uocabolari molt profitos per apendre lo Catalan allamany y lo Allamany catalan»79. A stampare l’opera fu ancora un tedesco, Meister Hans Rosenbach, attivo a Perpignan, una delle città della Catalogna storica, sede di un Consulat de mar, creato per regolamentare e favorire il commercio della zona. L’opera mostra altri caratteri innovativi, tra cui la riduzione del formato, che dagli originali 194 x 144 mm. dell’incunabolo di Rottweil, diven77 78

Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., p. 202. Ibid., p. 68. Cfr. anche G. Colon - A.-J. Soberanas, Panorama de lexicografia catalana, Barcelona 1991. Qualche cenno anche in M. Carreras i Goicoechea, La presenza dell’italiano nella lessicografia catalana. Dagli antichi repertori linguistici ai moderni dizionari catalano-italiano e viceversa, in Lessicologia e lessicografia nella storia degli insegnamenti linguistici, Bologna 2003 (Quaderni del CIRSIL, 2), p. 60. 79 Ibid., p. 67.


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ta qui 136 x 95, avviandosi verso la dimensione del tascabile, adatto ad essere collocato con facilità nelle bisacce dei mercanti e dei viaggiatori; è un anticipo dell’ancor più drastico taglio operato verso la metà del Cinquecento (es. Pasquier le Tellier, Parigi 1548, otto lingue, 104 x 76), quando si affaccia anche la forma allungata in orizzontale (es.: Ioannes Ghelius, Anversa 1569, sette lingue 96 x 155). Con l’incunabolo catalano abbiamo ormai varcato il limite del Quattrocento, che ha visto uscire dai torchi dei primi stampatori, italiani nella maggior parte dei casi, ben otto prodotti di questo tipo, tutti bilingui, in cui l’italiano si oppone al tedesco. Il centro principale dell’attività tipografica si mantiene a Venezia, dove vengono approntate cinque stampe (1477, Adam von Rodueil; 1493-98, Bernardino Benali; 1498, Giovan Battista Sessa; 1499, Manfrino da Monteferrato; 1500, Giovan Battista Sessa). Le altre vedono la luce a Bologna (1479, Domenico De Lapi), Vienna (1482, Stephan Koblinger), Roma (1479-1493, Stephanus Plannck). L’opera non si esaurisce lì, ma ciò che accadrà in seguito riguarda l’età moderna, che sposta uomini, merci, denaro verso altri lidi, guardando sempre più a ponente. Bibliografia

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Fig. 1 - Il Campo S. Bortolamio visto dall’alto

Fig. 2 - Apollonio Domenichini, Veduta settecentesca del Fondaco dei Tedeschi


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Fig. 3 - Hotel Cavalletto

Fig. 4 - “Taberna ad Cavaletum”: insegna lato strada


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Fig. 5 - Chiesa di S. Stadi

Fig. 6 - Campanile della chiesa di S. Bartolomeo


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«Mi penso siate diventato buon tedescho e che abiate preso tutti li loro buoni costumi»1. Con queste parole nel 1543 Giovanni Olivieri, da Firenze, si rivolgeva a Francesco Carletti, mercante fiorentino che si trovava a Venezia dopo un breve periodo trascorso in Germania. L’assimilazione culturale, come vedremo, andava spesso di pari passo con l’apprendimento linguistico e l’area germanica creò grandi problemi in tal senso a coloro che vi si trasferivano. In questo caso, dunque, pur lasciando aperta la possibilità che Carletti fosse particolarmente dotato, è probabile che Olivieri volesse garantirsi il suo favore blandendolo con un complimento che non rispecchiava la realtà dei fatti. Nell’affrontare il problema dell’apprendimento linguistico, dobbiamo prendere con estrema cautela dichiarazioni di conoscenza o di mancata conoscenza riferite a se stessi o agli altri, in quanto presentano un elevato grado di soggettività. Le fonti, peraltro, non sono neppure molto abbondanti per quanto riguarda l’argomento: lettere e ricordanze – i documenti cui è naturale far riferimento – non presentano che cenni piuttosto brevi e sporadici. Indubbiamente, il fatto che l’invio all’estero di giovani desiderosi di diventare mercanti avvenisse a un’età molto precoce favoriva certo l’apprendimento almeno di qualche base della lingua straniera. Ma era questa la regola? Vedremo, come detto, che i comportamenti non erano affatto univoci. La questione delle colonie/nazioni dei mercanti italiani all’estero è stata oggetto di numerosi lavori, sia individuali che collettanei; l’accento è stato posto su vari aspetti, dalle modalità del loro insediamento, alla loro attività e ai privilegi ottenuti, ecc. Vari studiosi hanno parlato degli stranie-

1 Firenze, Archivio di Stato (d’ora in poi ASF), Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 2037, c. 264r, Giovanni Olivieri, in Firenze, a Francesco Carletti, in Venezia, 19.05.1543.


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ri sia in termini di esclusione che in quelli opposti di inclusione, di integrazione: in questo ambito è stato ad esempio attivo in Italia il Gisem («Gruppo Interuniversitario per la Storia dell’Europa Mediterranea»), con una serie di volumi dedicati soprattutto alla storia urbana. Poi vi sono naturalmente gli studiosi di storia culturale, o i sociologi, che hanno analizzato i rapporti lingua/identità e lingua/comunità2. Il sentimento di solidarietà che si creava all’interno di una natio, e che ne costituiva un elemento portante, era ovviamente legato anche all’identità linguistica, e l’endogamia matrimoniale che molti praticavano la rinforzava e a sua volta era rinforzata da essa. Invece il problema della conoscenza delle lingue è stato oggetto soltanto di richiami occasionali, come se fosse un problema di secondaria importanza. Sembra che il tema venga dato per scontato, ma non è chiaro se nel senso della conoscenza o della non conoscenza di esse. Secondo due linguisti, Kurt Braunmüller e Gisella Ferraresi, i mercanti medievali «all were (or became) multilingual – but no one would ever have had to emphasize this fact. It was just normal. Therefore there is little evidence to be found in (written) sources which stresses the fact that a certain person was multilingual or that the commend of a lingua franca, like Latin or any other language for a specific purpose, was mandatory for a certain job. A lack of such linguistic skills would, by contrast, have been worth mentioning»3. In realtà c’è molto da dire e questo articolo mira a sollevare la questione con lo scopo di stimolare un dibattito; nel far ciò limiteremo al massimo considerazioni relative all’apprendimento linguistico che non riguardavano figure di mercanti ma personaggi quali pellegrini, missionari o altri viaggiatori. 1. I prestiti linguistici

I linguisti hanno dedicato molta attenzione agli scambi linguistici nel Medioevo. Non sarà nostro scopo affrontare problemi di questo tipo; tuttavia è utile fare un cenno al problema dei “prestiti”. Cento anni fa, Emilio Re sottolineava come in riferimento al Duecento si possa parlare di «una civiltà cristiano-europea» in cui lo scambio di vocaboli assunse un signifi-

2

Per tutti si veda P. Burke, Languages and Communities in Early Modern Europe, Cambridge 2004. 3 K. Braunmüller - G. Ferraresi, Introduction, in Aspects of Multilingualism in European Language History, Amsterdam-Filadelfia 2003, p. 3.


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cato speciale; e fautori di tale scambio, ancor prima di «cherici» e poeti, furono proprio i mercanti. A tale periodo si possono far risalire i «primi anglicismi della lingua italiana»: il «chierico» nel senso di scrivano derivava dall’inglese clerk, così come il «feo» aveva chiare radici nel fee inglese, nella sua accezione di «compenso materiale», «stipendio» (significato materiale, appunto, da cui ormai si era distaccato il «fio»); e così, ancora, «costuma» da custom, «bigla» e «attornato» da bill e attorney4. Particolare fortuna e attenzione ha ricevuto, specie in anni recenti, la documentazione dei Gallerani (1304-09), conservata a Gand e appartenente a una compagnia mercantile-bancaria senese attiva nel Nord-Europa, e in particolare a Londra e Parigi. L’ambiente in cui agivano i Gallerani di Londra all’inizio del XIV secolo vedeva da un lato l’inglese, parlato dalla comunità locale, dall’altro il francese, lingua ufficiale della corte e dell’amministrazione (fino a metà Trecento). Il libro di conti della filiale londinese, quindi, è caratterizzato sia da anglicismi legati alla sfera del commercio che da francesismi utilizzati, oltre che per termini di ambito mercantile, anche per una gamma più ampia di contesti: «I testi pratici di natura mercantile testimoniano la peculiarità della Verkehrssprache, non regolata direttamente dal gusto, né dalla moda, né dal generico prestigio socio-culturale delle lingue in causa, ma piuttosto assoggettata alla necessità – ancor prima che all’opportunità – di chiamare le cose con il loro nome in realtà alloglotte»5. Insomma, «as far as they [i contabili che tenevano le scritture mercantili] were concerned, these were not “foreign” words (in the sense of “xenisms”) but simply [...] different technical terms»6. Se l’italiano prendeva dunque a prestito vocaboli stranieri, è vero anche il contrario: ad esempio i Port Books di Southampton, sopravvissuti per buona parte degli anni Trenta del Quattrocento, furono tenuti in francese negli anni 1435-36, ma con l’utilizzo di alcuni italianismi; quelli del 1439-40, invece, pur compilati prevalentemente in latino, contengono

4 E. Re, Archivi inglesi e Storia italiana, «Archivio Storico Italiano», 71 (1913), pp. 272278. In realtà, più che di anglicismi, si tratta presumibilmente di anglo-normannismi (M. Tiddeman, Early Anglo-Italian contact: new loanword evidence from two mercantile sources, 1440-1451, in Merchants of Innovation: The Language of Trade, in corso di stampa). 5 R. Cella, Libri, conti e lettere della compagnia senese dei Gallerani. I testi, Pisa 2005, p. 13. 6 D. Trotter, Italian merchants in London and Paris: evidence of language contact in the Gallerani accounts, 1305-08, in On linguistic change in French: socio-historical approaches. Le changement linguistique en français: aspects socio-historiques. Studies in Honour of R. Anthony Lodge. Études en hommage au Professeur R. Anthony Lodge, cur. D. Lagorgette T. Pooley, Charenton-le-Pont 2012, p. 214 (v. anche pp. 222-223).


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molti vocaboli in inglese e in francese7. Sempre in Inghilterra, i Views of Hosts degli anni 1440-44 sono scritti per metà in latino, per metà in un anglo-normanno infarcito di parole medio-inglesi; molti sono anche gli italianismi presenti8. Se poi pensiamo al linguaggio tecnico in campo finanziario, l’italiano è entrato abbondantemente in molte lingue nei secoli seguenti. Come ha sottolineato Weissen, la terminologia commercialfinanziaria tedesca ha preso a piene mani dalla lingua italiana9. E la stessa cosa si può dire per quanto riguarda il fiammingo; tra l’altro, quando, a partire dal XVI secolo, iniziarono a fare la loro comparsa in varie piazze europee (in primis Anversa) i listini a stampa con i prezzi delle merci, la lingua utilizzata fu per molto tempo l’italiano10. È significativo peraltro che, se durante il periodo di supremazia dei mercanti italiani la penetrazione della loro lingua nelle altre riguardava soprattutto l’ambito economico, con l’andare del tempo – e con il venir meno di tale primato – le altre lingue iniziarono a prendere in prestito sempre meno termini economici e sempre più termini artistici11. In ogni caso bisogna tenere ben distinta la conoscenza di una lingua nel suo complesso dal mero utilizzo di termini tecnici. I problemi che intendiamo affrontare con questo contributo riguardano la conoscenza o la mancata conoscenza delle lingue straniere da parte dei mercanti, a partire da un’analisi su come la storiografia ha affrontato il problema (Par. 2); poi vedremo quali strumenti gli uomini d’affari avevano per poter apprendere le lingue straniere (Par. 3). Infine, dopo aver presentato esempi relativi a mercanti che conoscevano le lingue straniere e mercanti che invece non le conoscevano (Parr. 4-5), sarà importante soffermarsi sulla pratica e valutare quindi se essi avessero davvero bisogno di conoscerle o se potessero svolgere proficuamente i loro affari anche senza possedere la dimestichezza con idiomi diversi dal proprio (Par. 6). Concluderemo con alcune brevi considerazioni sull’Asia, un’area in cui – anche in ambito linguistico – il mito si mescolava spesso con la realtà (Par. 7). 7

D. Trotter, Oceano vox: You never know where a ship comes from. On multilingualism and language-mixing in Medieval Britain, in Aspects of Multilingualism cit., p. 16. 8 Tiddeman, Early Anglo-Italian contact cit. 9 K. Weissen, Ci Scrive in Tedescho! The Florentine Merchant-Banker Tommaso Spinelli and his German-Speaking Clients (1435-72), «The Yale University Library Gazette», 74 (2000), p. 113. 10 J.J. McCusker, The Italian Business Press in Early Modern Europe, in Produzione e commercio della carta e del libro, secc. XIII-XVIII. Atti della XXIII Settimana di Studi dell’Istituto di Storia Economica “F. Datini” (15-20 aprile 1991), cur. S. Cavaciocchi, Firenze 1992, p. 800. 11 Burke, Languages and Communities cit., p. 1.


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2. Cenni storiografici

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Alcuni storici si sono sbilanciati in affermazioni molto precise per quanto riguarda i mercanti italiani e le lingue straniere; in realtà, spesso, tali considerazioni possono essere valide per specifici contesti, ma difficilmente si adattano alle generalizzazioni nelle quali sono inserite. La situazione è infatti fluida e a volte contraddittoria. Nel 2010, in occasione dell’International Medieval Congress di Leeds, all’interno di una sessione intitolata Travellers’ Tales from Italy and Iberia. I. Overcoming linguistic barriers: communication problems and language learning, presentai i primissimi risultati delle mie ricerche, intitolando la mia relazione Si aprende mal questa lingua; alla stessa sessione partecipava anche Elisa Soldani, con un paper intitolato E perché costui è uxo di qua e intende bene la lingua. Tale decisa contraddizione era ovviamente dovuta al diverso ambito territoriale di riferimento: l’area germanica nel primo caso, quella iberica nel secondo. I problemi che si devono porre quando si affronta una discussione di questo tipo, come detto, sono in particolare due: se i mercanti italiani conoscessero le lingue straniere e/o se avessero bisogno di conoscerle. Secondo Armando Sapori non ne avevano bisogno, dato che il loro idioma «era noto ovunque»12; più recentemente anche Ugo Tucci, nel sottolineare come un mercante italiano all’estero fosse circondato soprattutto da connazionali e i suoi rapporti con la popolazione locale fossero limitati quasi esclusivamente a un ambito commerciale, ha riaffermato come egli non avesse bisogno comunque di imparare la lingua del luogo, perché quella italiana era «conosciuta da tutti»13. Qualche anno prima Pierre Jeannin sottolineava come nel XVI secolo gli italiani fossero «nella stessa situazione degli anglosassoni di oggi. La loro lingua è la lingua internazionale degli affari, salvo che nel territorio basso-tedesco che va dai Paesi Bassi fino al mondo slavo»; il francese avrebbe invece beneficiato «della sua posizione intermedia (dal punto di vista geografico se non linguistico)» nell’Europa atlantica14. Altri invece (Aron Gureviè) sottolineano come «notevole importanza veniva attribuita allo studio delle lingue straniere; i figli dei mercanti italia12 13

A. Sapori, La mercatura medievale, Firenze 1972, p. 52. U. Tucci, La formazione dell’uomo d’affari, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. 4, Commercio e cultura mercantile, cur. F. Franceschi - R.A. Goldthwaite - R.C. Mueller, Treviso-Costabissara 2007, p. 496. 14 P. Jeannin, I mercanti del ’500, Milano 1962, pp. 103-104. «La lingua italiana fu la lingua ufficiale per molto tempo dei negozi di cambio» anche per P. Rota, Storia delle Banche, Palermo 19642, p. 57.


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ni imparavano l’inglese e il tedesco», anche se comunque «le lingue più correnti di comunicazione internazionale erano l’italiano (nel Mediterraneo) e il tedesco medio-basso (nel Baltico)»15. Indubbiamente vi erano delle lingue più importanti di altre, per lo svolgimento del commercio internazionale. Nel norvegese Speculum regale, testo di metà XIII secolo, si immagina un dialogo tra figlio e padre, in cui quest’ultimo dice al primo che, se egli avesse voluto diventare un buon mercante, avrebbe dovuto imparare tutte le lingue, ma soprattutto latino e francese, in quanto le più usate16. Nel periodo dello sviluppo delle fiere di Champagne il francese rivestì il ruolo di lingua internazionale del commercio; tuttavia l’italiano prese ben presto il sopravvento, anche se il bassotedesco prevaleva nella zona anseatica17. 3. La formazione dei mercanti

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Come noto, l’apprendistato dei giovani mercanti iniziava molto presto: già alle scuole elementari, oltre alle capacità di leggere e scrivere, essi imparavano forse i primi rudimenti di contabilità, che certamente venivano poi raffinati nelle scuole d’abaco; il lavoro presso una locale compagnia era il passo successivo, al quale poteva seguire un trasferimento all’estero presso una delle filiali dell’azienda di famiglia o di connazionali. Per gli standard moderni, questo trasferimento avveniva in tenera età, e ciò rendeva l’apprendimento di una lingua straniera potenzialmente più facile. Se l’esperienza sul campo costituiva indubbiamente un atout decisivo, ci possiamo chiedere quali altri strumenti avesse un mercante per imparare le lingue straniere.

3.1. Le pratiche di mercatura Quando commerciava con altri paesi, il mercante poteva fare uso delle Pratiche di mercatura, che da fine XIII secolo lo coadiuvavano fornendogli molte informazioni sulle usanze locali, le unità di misura, le gabelle, i prodotti, le monete, ecc. Occasionalmente ci sono in tali testi richiami alle lin-

A.Ja. Gureviè, Il mercante, in L’uomo medievale, cur. J. Le Goff, Bari 1987, p. 299. The King’s Mirror, translated from the old Norwegian by L.M. Larson, New York 1917, p. 81. 17 J. Le Goff, Mercanti e banchieri nel Medioevo, Messina-Firenze 1976, p. 96. In ambito mediterraneo all’italiano si affiancavano catalano e greco (B. Bischoff, The Study of Foreign Languages in the Middle Ages, «Speculum», 36 [1961], p. 211). 15 16


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gue: ad esempio, la celeberrima Pratica di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti si apre con una sezione dedicata alle Dichiaragioni, in cui sono presenti alcuni termini commerciali espressi in diverse lingue («grechesco», «fiammingo», «inghilese», «ispagnuolo», «proenzalesco», «francesco», ecc.). La sezione, significativamente, si conclude con «Turcimanno», che «in più linguaggi, calamanci in tartaresco, sono gente che temperano e dànno a intendere linguaggi da uno linguaggio a un altro che non si intendessero insieme»18. Tuttavia, nella pratica, sarebbe stato difficile pensare di poter arrivare a comunicare correntemente in una lingua straniera basandosi soltanto su manuali di questo tipo.

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3.2. Glossari e dizionari In aggiunta ai manuali mercantili vi furono precoci esempi di glossari redatti ad uso dei mercanti, come ad esempio un glossario arabo-latino o un dizionario trilingue latino-persiano-kumano (lingua turca che costituiva il gergo commerciale nella vastissima area compresa tra il Mar Nero e il Mar Giallo). Questi Gesprächsbücher si diffusero a partire dal Trecento, sulla scia di una tradizione che risaliva alla tarda antichità19. In Inghilterra si produssero manuali linguistici volti all’apprendimento del francese20; del Trecento sono anche un glossarietto francese-veneto e uno provenzale-italiano21. Di fine Trecento-inizio Quattrocento è un glossario italiano-arabico, la cui destinazione “pratica” è ben esemplificata da un paragrafo sulle mesure22. Negli anni del grande fervore commerciale dei Paesi Bassi furono prodotti numerosi vocabolari o compendi di conversazione per persone di madrelingua fiamminga e francese: ad esempio il Livre des Mestiers de Bruges è un testo franco-fiammingo comprendente una lista di circa cento professioni (molte delle quali relative all’industria tessile) che erano

18 F. Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, ed. A. Evans, Cambridge Mass. 1936, pp. 14-19 (citaz. p. 19). 19 P.W. Waentig, Gesprächsbücher bi- e plurilingui nell’Europa occidentale tra il Trecento ed il Seicento: aspetti lessicologici-lessicografici della terminologia tessile, «Quaderni del CIRSIL», 2 (2003), p. 1 ricorda l’Ars Minor di Donato, del IV secolo, con dialoghi in greco e latino. 20 P. Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia intorno al 1420, in La trasmissione dei saperi nel Medioevo (secoli XII-XV). Atti del XIX Convegno internazionale di studi (Pistoia, 16-19 maggio 2003), Pistoia 2005, p. 325 (nota 11). 21 A. Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui d’uso popolare: la tradizione del “Solenissimo Vochabuolista”, Alessandria 1984, pp. 25-26 (nota 3). 22 E. Teza, Un piccolo glossario italiano e arabico del Quattrocento, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», ser. V, 2 (1893), pp. 77-88.


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attive nel 1349, nel periodo di splendore della città fiamminga. Tali testi non miravano a una conoscenza approfondita della lingua, ma a fornire elementi di base per la comunicazione relativa a viaggi, soggiorni e commerci. Nel corso del tempo la tematica religiosa, che inizialmente si accompagnava agli elementi quotidiani, tese a scomparire23. Fin dalla prima metà del Quattrocento esistevano a Venezia glossari italiano-tedeschi, come ad esempio quello compilato da Giorgio di Norimberga (Meister Jörg), la cui prima versione manoscritta a noi nota risale al 1424: si tratta di un libro di testo con una grammatica, una lista di termini commerciali e, nell’ultima parte, due lunghi dialoghi di argomento prettamente mercantile24. Presumibilmente questo testo, compilato in bavarese-veneziano, venne scritto ad uso di uomini d’affari italiani appartenenti a compagnie di medio-piccole dimensioni25. I dialoghi sono molto coloriti e a volte ci riportano alla pulsante attività del mercato, con tutte le sue trattative e strategie, anche se la vivacità del testo è probabilmente superiore alla sua reale utilità pratica. Basti citare un esempio quattrocentesco, di cui riportiamo un passo nella sola versione italiana, ovvero veneziana (nell’originale, italiano e tedesco sono presentati a righe alterne)26: As tu bon valessio e bon bochasin? No ve l’ò io dito? E’ ho el mior che sia in questa terra Adù zà! Lassalo vedere! Tu sa’ ben loldar la to roba E’ l aloldo chola veritade Questo sa ben Dio El sa anche so mare. Vardé! Ve piase questa roba? Quante peze me ne puotu dar de quello de la chorona? Quanti volé vuy?

A partire dal tardo Quattrocento, dopo l’invenzione della stampa, iniziarono a diffondersi ancor di più in Europa manuali bi- o pluri-lingui che raccoglievano simili prontuari fraseologici assieme a nozioni lessicali. Si 23 Waentig, Gesprächsbücher bi- e plurilingui cit., pp. 2-5; Bischoff, The Study of Foreign Languages cit., pp. 211-212. 24 Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., pp. 26-29. P. Höybye, Glossari italiano-tedeschi del Quattrocento, «Studi di filologia italiana», 22 (1964), pp. 172204. 25 Weissen, Ci Scrive in Tedescho! cit., pp. 117-118. A metà XV secolo fu prodotta anche una versione fiorentina del glossario (L. Böninger, Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter, Leiden 2006, pp. 115-116). 26 Höybye, Glossari italiano-tedeschi del Quattrocento cit., pp. 174-175.


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trattava di libretti intesi a favorire, con esempi pratici, chi si recava in terra straniera per tempi più o meno lunghi e per ragioni che non gli richiedevano se non la conoscenza di alcuni aspetti pratici di comunicazione linguistica: particolarmente ricca fu la produzione di testi italiano-tedeschi27. Con il Cinquecento iniziarono ad apparire anche dizionari, grammatiche e glossari per imparare il turco28. Assai noto è il Solenissimo Vochabuolista, stampato in molte edizioni a partire da una veneziana del 1477 e presumibilmente nato per italiani che si recavano in Germania più che per tedeschi giunti a Venezia, i quali avrebbero potuto facilmente trovare in loco propri connazionali in grado di aiutarli. Peraltro, dopo alcune edizioni bilingui in italiano-tedesco, esso si trasformò progressivamente, arrivando ad accostare ben dodici parlate29. Si ha notizia invece di un solo manuale pre-cinquecentesco per l’apprendimento dell’italiano da parte di tedeschi30. Risale a fine Quattro-inizi Cinquecento un manuale bilingue, italianoneerlandese, scritto con il chiaro intento di insegnare l’italiano (di prevalente inflessione veneta), oltre che di fornire precetti mercantili. Prodotto certamente da un madre-lingua neerlandese (brabantino), anch’esso si presenta sotto la tradizionale forma della conversazione: particolarmente rilevante, in questo contesto, è l’ultima parte, un dialogo fra un mercante italiano e uno fiammingo che riguarda il commercio internazionale31. Restando nello stesso ambito linguistico, sappiamo che nella prima metà del Quattrocento i lucchesi Guinigi possedevano un non meglio precisato «quaderno da imparare il fiamingo»32. Resta da vedere tuttavia quanto tali testi potessero contribuire ad un efficace apprendimento linguistico. Dovremmo insomma avere maggiori dati sulla diffusione dei citati volumi per poter valutare se, effettivamente, 27 28

Ibid., 22 (1964), pp. 167-204 e 32 (1974), pp. 143-163. E. Dursteler, Speaking in Tongues: Language and Communication in the Early Modern Mediterranean, «Past and Present», 217 (2012), p. 65. 29 Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., pp. 10-12. L’editore (e forse anche autore), Adamo de Rodvila (Adam von Rotweil), lo definiva «vtilissimo per queli che vadano apratichando per el mundo, el sia todescho o taliano» e «vtilissimo a imparare legere per queli che desiderasen senza andare a schola» (Waentig, Gesprächsbücher bi- e plurilingui cit., p. 9). 30 Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., pp. 34-35. 31 J. van der Helm - T. Bruni, «Caxza in là quilli boy, mena in qua li castroni». Dialogo inedito fra un mercante fiammingo e un suo collega italiano a cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento, «Zeitschrift für romanische Philologie», 119 (2003), pp. 443-479. 32 E avevano anche “uno santo Gradale in francioso” (L. Galoppini, Mercanti toscani e Bruges nel tardo Medioevo, Pisa 2009, p. 290 e nota).


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si trattava di testi ampiamente utilizzati. Il numero di copie supersiti del glossario di Giorgio da Norimberga sembrerebbe indicare una qualche diffusione, ma non è possibile valutare quanto essa travalicasse i confini di una ristretta élite. Dati sulla compravendita o sul possesso di tali volumi, almeno per il Quattrocento, sono quasi inesistenti: il mercante fiorentino Niccolò Rucellai possedeva una delle copie manoscritte del glossario di Giorgio da Norimberga; nel 1473, a Bologna, Hans Praun, mercante di Norimberga, acquistò un vocabolario italo-tedesco33. Naturalmente vi potevano poi essere precettori privati o insegnanti (lo stesso Giorgio da Norimberga ebbe una scuola a Venezia). Ma è impossibile valutare quanto i giovani mercanti italiani apprendessero attraverso i libri e le scuole, e quanto invece venisse loro dalla pratica, sia all’estero che in città cosmopolite come Venezia.

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4. Mercanti che conoscevano le lingue

Alcuni documenti (non molti, in realtà) ci hanno tramandato notizie di mercanti italiani che avevano acquisito adeguate conoscenze di alcune lingue straniere. Nel 1307-08 il fiorentino Jacopo da Certaldo, agente dei Peruzzi, esattori per conto di Filippo il Bello, redigeva in francese il libro della «taglia»; nel 1315 alcuni soci degli stessi Peruzzi firmavano dichiarazioni in lingua francese34. Nel 1379 Simone di Rinieri Peruzzi conosceva sia l’inglese che il tedesco ed era quindi in grado di fare da interprete tra due condottieri, un inglese e un tedesco, appunto35. Tuccio di Gennaio fu scelto da Francesco Datini come collaboratore della compagnia barcellonese nel 1397 perché, data la sua precedente esperienza presso i Tecchini e presso altri mercanti in Catalogna, egli era ben inserito nel luogo e «inten-

33 Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia cit., pp. 328, 336. La copia del volume di Rucellai contiene la seguente nota: «questo libro è di Nicholò Rucelaj e chonpagni in Firenze e chi lo truove l’achonsegnj a luj». 34 R. Cella, Le carte della filiale londinese della compagnia dei Gallerani e una Ricordanza di Biagio Aldobrandini (ottobre 1305), «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 8 (2003), p. 404 e nota. 35 «Messere Gianni [Aghud, capitano degli inglesi] ène inghilese, il Chonte [Luccio, capitano dei tedeschi] è tedescho: queste due lingue si fanno male insieme, ed eglino si ghareggiano insieme: io sarò utile e buono mezzo tra lloro due, e sono dimesticho e praticho choll’una lingua e choll’altra, e amicho e dimesticho del chonte e di messere Gianni» (Libro segreto di Simone di Rinieri Peruzzi, in I libri di commercio dei Peruzzi, ed. A. Sapori, Milano 1934, p. 523).


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de bene la lingua»; in caso contrario, si valutava che un mercante senza tale esperienza avrebbe avuto bisogno di almeno sei mesi prima di apprendere correttamente l’idioma locale36. Il mercante senese Beltramo Mignanelli si trasferì a Damasco a fine Trecento; conosceva il greco e il latino e studiò l’arabo. Grazie a queste competenze, dopo il rientro in Toscana egli era in grado di agire da interprete in occasione del Concilio di Firenze del 143937. Nelle istruzioni fornite nel 1446 da Cosimo de’ Medici e Giovanni Benci a Gerozzo de’ Pigli, in partenza per Londra, si sottolineava come «Allexandro [Rinuccini] sarà pratichato e sperto e potràli dare poi a luogho e tenpo il conto della chassa e masime chome arà apresa la linghua, nientedimeno ordina più e meno come ti pare»38. Dopo tanti anni a Bruges a servizio del banco Medici, Tommaso Portinari parlava correntemente il francese – presumibilmente anche grazie alle sue frequentazioni di corte, o proprio per potervi accedere con maggior facilità – e forse aveva un’infarinatura di fiammingo; nel 1464 egli chiese alla casa madre di assumere a Bruges un fattore che parlasse francese, per promuovere un commercio di drappi serici presso la corte, ma probabilmente la richiesta fu respinta. Negli stessi anni comunque lavorava a Bruges per i Medici Carlo Cavalcanti, adatto alle vendite a corte per la sua buona conoscenza del francese, ma anche la sua prestanza e la sua amabilità39. Carlo Gigli, un mercante lucchese che fece la sua carriera a Bruges negli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento e poi si trasferì a Londra, era capace di insegnare il francese a William Worcester, il segretario di Sir John Fastolf (eroe della Guerra dei Cent’Anni, morto nel 1459); probabilmente fu lo stesso Gigli a fornire a Fastolf una copia del De casibus virorum illustrium di Boccaccio40.

36 F. Melis, Aspetti della vita economica medievale (Studi nell’Archivio Datini di Prato), Siena 1962, pp. 255-256. 37 A.M. Piemontese, Mignanelli, Beltramo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 74, Roma 2010, ad vocem; N. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere, Roma 2013, pp. 86-87. 38 R. de Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze 1970, pp. 135, 561. 39 Ibid., pp. 136, 491-492. Nelle Fiandre, a partire dal 1384, anno di inizio della dominazione da parte dei duchi di Borgogna, la lingua di corte era il francese. Essa veniva correntemente utilizzata anche nel mondo degli affari, pure tra i mercanti locali: questa era una fortuna per gli italiani, che così potevano evitare di dover imparare il – certamente più ostico – fiammingo. 40 The Paston Letters, A.D. 1422-1529, ed. J. Gairdner, London-Exeter 1904, I, p. 152 e III, p. 132; J. Hughes, Stephen Scrope and the Circle of Sir John Fastolf: Moral and Intellectual Outlooks, in Medieval Knighthood, IV, cur. C. Harper-Bill - R.E. Harvey, Woodbridge 1992, p. 132.


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Le lettere di alcuni giovani fiorentini ci danno conto della fierezza che essi potevano provare nell’apprendere la lingua del paese in cui si erano da poco trasferiti; a metà Quattrocento, ad esempio, Lorenzo Strozzi scriveva alla madre da Barcellona: «Ed io sone mezzo parlare catelano, tanto che m’intendono ciò che i’ dico; e così io loro»41. Circa cinquant’anni dopo, nel 1509, Giovanni Morelli, da poco arrivato a Lisbona, si era messo a lavorare sodo, tanto che in una lettera a Giansimone Buonarroti scriveva: «chominccio a chonprendere nello ischrittoio e a ’nparare la favella»42. Negli anni Quaranta del Cinquecento Leonardo Spina sembra esser stato l’unico della compagnia Salviati di Lione ad aver appreso il francese o, meglio, una sorta di italo-francese, come si evince dalle lettere. D’altronde poteva scrivere in spagnolo anche ad alcuni personaggi francesi43. 5. Mercanti che non conoscevano le lingue

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A volte si ha notizia di mercanti che invece non possedevano un’adeguata conoscenza della lingua del paese in cui risiedevano o avevano intenzione di risiedere. Questo poteva talora costituire un handicap. Ad esempio Agnolo Tani, che pur aveva acquisito una certa esperienza presso la filiale medicea di Bruges, non venne nominato direttore della filiale londinese nel momento in cui, nel 1446, essa venne staccata da quella in terra di Fiandra: questo perché egli non sapeva l’inglese (non aveva imparato neppure il francese, peraltro, che era l’idioma correntemente parlato nel mondo degli affari di Bruges). Contrariamente al solito, la scelta ricadde su un personaggio estraneo al banco, Gerozzo de’ Pigli, il quale aveva però l’indubbio pregio di possedere dimestichezza con la lingua inglese, oltre a una certa esperienza d’affari a Lombard Street44. Un comportamento particolare fu quello tenuto da Giancarlo Affaitati: nonostante una quarantennale permanenza ad Anversa in pieno Cinquecento, il mercante cremonese si guardò bene dall’utilizzare altra lingua che l’italiano45. Questa scelta, tuttavia, non pregiudicò affatto la sua capacità di svolgere notevolissimi affari di respiro internazionale. 41

A. Macinghi Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, ed. C. Guasti, Firenze 1877, p. 30. 42 M. Spallanzani, Mercanti fiorentini nell’Asia Portoghese, Firenze 1997, p. 43. 43 N. Matringe, L’enterprise florentine et la place de Lyon. L’activité de la banque Salviati au milieu du XVIe siècle, Tesi di dottorato, Istituto Universitario Europeo, 2013, pp. 138-139. 44 de Roover, Il banco Medici cit., pp. 466-468. 45 J. Denucé, Inventaire des Affaitadi, banquiers italiens à Anvers, de l’année 1568, Antwerpen-Paris 1934, p. 54.


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Un’area che sembra aver creato ricorrenti problemi ai mercanti italiani è quella tedesca. Però, ad esempio, quando a metà degli anni Trenta del Quattrocento il Concilio fu di stanza a Basilea, non si preoccuparono di apprendere tale idioma tutti quei mercanti-banchieri, tra cui Tommaso Spinelli, che vi si trasferirono a seguito della corte papale: la loro clientela, infatti, non era certo composta da persone del luogo, ma piuttosto dai rappresentanti della Curia di Roma (il papa in primis)46. Tuttavia una serie di lettere conservate presso l’Archivio di Stato di Firenze mostra come normalmente la vita di un mercante fiorentino in terra di Germania nella prima metà del Cinquecento fosse tutt’altro che semplice. Critiche e disprezzo non si appuntavano solo sulla lingua, ma anche – e soprattutto – sulle abitudini molto differenti, tra cui una spiccata inclinazione al bere. Usi così diversi facevano nascere in alcuni una forte nostalgia di casa. Prima di metà Quattrocento Gherardo Bueri, dopo quasi trent’anni passati a Lubecca, l’acquisizione della cittadinanza e una moglie tedesca, era prontissimo a tornare a Firenze, se fosse stato sorteggiato per una delle cariche pubbliche cittadine47. Un secolo dopo anche Lorenzo di Bernardo Villani dichiarava apertamente di non voler «morire in fra questi barberi», circondato da persone senza «più né fede né bontà e vivano e fano pegio che le bestie»48. Giunto diciottenne in Germania nel 1508, dopo aver trascorso quarant’anni tra Norimberga e Francoforte (e aver anche sposato una donna del luogo), egli non ne poteva più; ciò nonostante, liquidare tutti gli affari e riscuotere tutti i crediti non doveva essere cosa da poco e inoltre la prospettiva di qualche buon profitto ritardava in continuazione la decisione finale. Quindi da un lato egli manifestava chiari segni di voler rientrare (chiedendo ad amici fiorentini di piantare aranci nel suo orto in madrepatria oppure rinunciando all’ottima dote di una vedova tedesca che gli era stata proposta in moglie), dall’altro non riusciva mai a staccarsi completamente49. E in effetti la morte lo colse a Spira, nel 155950. Uno dei problemi, come detto, era quello linguistico: apprendere bene il tedesco richiedeva molti anni e, specialmente all’inizio, i progressi erano

46 47 48

Weissen, Ci Scrive in Tedescho! cit., pp. 113-114. Ibid., pp. 115-116. ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 2037, cc. 313, 315, Lorenzo Villani, in Francoforte, a Francesco Carletti, in Firenze, 01.11.1552, 23.01.1553. 49 Ibid., cc. 308, 322, 329, Lorenzo Villani, in Francoforte, a Francesco Carletti, in Firenze, 27.04.1554, 15.07.1554, 20.08.1555. 50 K. Weissen, I mercanti italiani e le fiere in Europa centrale alla fine del Medioevo e agli inizi dell’età moderna, in La pratica dello scambio. Sistemi di fiere, mercanti e città in Europa (1400-1700), cur. P. Lanaro, Venezia 2003, p. 175.


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lenti e la situazione poteva risultare frustrante. Nel 1536 Francesco Carletti pensava di mandare un proprio fratello a Norimberga presso la locale compagnia dei Bartolini, gestita da Piero Saliti, con la quale egli era in affari; ma Saliti, che aveva trascorso molti anni in Germania, rispose che non era il caso, non solo per motivi economici (un altro dipendente sarebbe stato un costo eccessivo in un momento non facile per la compagnia), ma anche per i lunghi tempi necessari all’ambientamento («chome si passa 20 in 22 anni si aprende mal questa linghua e si stenta parechi anni avanti che l’huomo se ne possa servire»)51. Dalla medesima compagnia in terra tedesca anche Alessandro Talani si esprimeva in termini analoghi, se non addirittura più pessimistici: «E avete a sapere che per noi non si può fare tutto sì per la lingua […] e se voi sapessi certo quanto poco ci possiamo adoperare el Bonsi e io della lingua»52. La soluzione forse poteva essere quella di far venire giovani, che sarebbero stati più pronti e rapidi ad apprendere non solo una lingua così complicata, ma anche il modo di vita tedesco: «Egli è ben vero che qui sarebe di bixogno a levare uno putto di 14 anni che inprendessi la lingua, acciò per di qua a 2 o 3 anni ci servisimo di lui come tedescho […] esendo giovane s’avezerà a bere cervogia come fecie el fratello di Bernardo Acaiuoli, ch’è più tedescho che ’taliano: e tutto nasce che li giovanetti inparono meglio che gl’atenpati e s’avezono meglio a’ costumi tedeschi. […] Certo in canbio del Bonsi aresti fatto venire uno giovanetto, ché benché noi altri inpariamo a dire 4 parole, se avesimo a piatire e a preghare santi no llo sapren fare quando qui saremo stati X anni. E questo è certo»53. In realtà c’era anche di peggio: a Norimberga, tutto sommato, la presenza italiana era abbastanza consistente e quindi ci si poteva anche arrangiare. Nel momento in cui ci si muoveva, ad esempio per recarsi alle fiere di Lipsia, invece, non si poteva più fare a meno di conoscere la lingua e quindi bisognava darsi da fare: «El Bonsi Piero l’à lasciato a Lipizi sì perché là è assai roba, alsì non n’arà là a pensare a nulla; potrà dare opera a ’nparare, che qui per essere tanti ’taliani non si può inparare niente: là bixognerà parli tedesco, che non v’è ’taliani»54.

51 ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 2037, c. 174v, Piero Saliti, in Norimberga, a Francesco Carletti, in Firenze, 6.11.1536. 52 Ibid., cc. 351v, 352v, Alessandro Talani, in Norimberga, a Francesco Carletti, in Firenze, ....10.1536. 53 Ibid., c. 352r-v, Alessandro Talani, in Norimberga, a Francesco Carletti, in Firenze, ....10.1536. 54 Ibid., c. 352v, Alessandro Talani, in Norimberga, a Francesco Carletti, in Firenze, ....10.1536.


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Leggermente diversa era la situazione dei veneziani, che mostravano un’inclinazione più spiccata, rispetto ai fiorentini, all’apprendimento del tedesco, anche grazie a legami molto più consolidati con l’area germanica e per il gran numero di tedeschi che faceva riferimento alla Serenissima per i suoi traffici con il Mediterraneo e oltre. Alcuni veneziani, patrizi o cittadini, acquisirono conoscenze molto approfondite della lingua teutonica: essi potevano ad esempio prender parte a delegazioni importanti, oppure tradurre testamenti di mercanti tedeschi morti nel Fondaco55. Non a caso, quindi, furono predisposti a Venezia i già citati manuali linguistici che iniziarono ad apparire sin dal secondo quarto del Quattrocento e sempre a Venezia il più volte citato maestro Giorgio insegnava il tedesco a veneziani destinati a trattare con mercanti tedeschi il più delle volte rimanendo in madrepatria (ad esempio con il ruolo di sensali del Fondaco). Firenze, invece, pur avendo i suoi mercanti un ruolo internazionale molto importante, non era in realtà – almeno fino al Cinquecento – una città che attraeva molti stranieri, se si paragona non solo a Venezia, ma anche a Genova o Milano. Neppure nel caso dei fiorentini e del tedesco, tuttavia, si può generalizzare. Ad esempio, in una novella di Sacchetti appare in “controtendenza” l’atteggiamento di Ugolotto degli Agli che nel 1360, ormai ottantenne e rientrato in Italia dopo un lungo periodo trascorso in Germania, si era così appassionato alla lingua che anche a Firenze «volea favellar tedesco»56. Ovviamente si tratta di una novella e quindi deve essere presa con le dovute cautele; tra l’altro dobbiamo segnalare che in Sacchetti la conoscenza della lingua straniera sembra essere associata alla stranezza, alla stravaganza, come nel caso di Dino di Geri Tigliamochi, personaggio ripugnante che infarciva il suo eloquio di espressioni fiamminghe e inglesi57. Finora abbiamo visto casi di facile ambientamento e di apprendimento linguistico, ma anche situazioni di senso contrario, in cui gli ostacoli posti da una lingua straniera sembrano esser stati molto difficili da superare. Come accennato all’inizio, bisogna allora chiederci – ed è un problema

55 56

Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia cit., pp. 323-324, 336. F. Sacchetti, Il trecentonovelle, ed. D. Puccini, Torino 2008, Novella LXXVIII, p. 230: «E sempre, perché era uso nella Magna, volea favellar tedesco; […] e tornossi a casa, rammaricandosi, quando in latino e quando in tedesco». 57 «Dino di Geri Tigliamochi fu uno cittadino di Firenze mercatante, uso molto ne’ paesi di Fiandra e d’Inghilterra. Era lunghissimo e maghero, con uno smisurato gorgozzule, ed era molto schifo d’udire o di vedere brutture; e per questo, favellando mezzo la lingua di là, avea un poco del nuovo» (ibid., Novella LXXXVII, p. 259).


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certamente connesso – se i mercanti italiani avessero la necessità di imparare, ovvero se la mancata conoscenza della lingua straniera potesse inficiare un proficuo svolgimento degli affari. 6. La pratica degli affari

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Gli italiani all’estero utilizzavano la propria lingua per gestire la compagnia: il personale era infatti composto interamente da connazionali, con l’eccezione di corrieri o servitori che invece potevano essere locali. Ma i grandi mercanti-banchieri avevano rapporti sia a livello locale, con i mercanti o le autorità dei territori in cui si trovavano ad agire, che a livello internazionale con altri mercanti-banchieri.

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6.1. Scambi epistolari Fra le decine di migliaia di lettere conservate presso l’Archivio Datini ve ne sono alcune scritte in francese, inglese, castigliano e persino in arabo ed ebraico: il fatto che esse venissero inviate a una delle compagnie del gruppo deve far presupporre che vi fosse qualcuno in grado di comprenderle e tradurle. Simone Bellandi, il socio di Francesco Datini a Barcellona, era in grado di scrivere in catalano ai suoi corrispondenti catalani, mentre Jacopo Rog, mercante catalano, scriveva in italiano alla filiale pisana di Datini58. La corrispondenza fra i mercanti-banchieri italiani e le grandi compagnie tedesche avveniva normalmente in italiano, come ad esempio dimostrano le lettere scritte attorno al 1500 dalle compagnie dei Welser-Vöhlin di Augusta, Lione e Milano a Lanfredino Lanfredini in Firenze59. Tanto erano “viziati” gli italiani in questo senso che alcuni anni prima Tommaso Spinelli, nel ricevere da un corrispondente di Basilea e da uno di Norimberga alcuni documenti scritti in lingua tedesca, reagì con stizzita sorpresa: «ci scrive in tedesco!»60.

58 Melis, Aspetti della vita economica medievale cit., p. 118. Melis esclude la possibilità di un intervento da parte di un traduttore attraverso una comparazione calligrafica tra le lettere scritte in catalano e quelle scritte in italiano da Bellandi. 59 H. Lang, Fremdsprachenkompetenz zwischen Handelsverbindungen und Familiennetzwerken. Augsburger Kaufmannssöhne aus dem Welser-Umfeld in der Ausbildung bei Florentiner Bankiers um 1500, in Fremde Sprachen in frühneuzeitlichen Städten: Lernende, Lehrende und Lehrwerke, cur. M. Häberlein - C. Kuhn, Wiesbaden 2010, pp. 81-82, 86. 60 Weissen, Ci Scrive in Tedescho! cit., p. 118.


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Nell’ambito del carteggio della compagnia Salviati di Lione negli anni Quaranta del Cinquecento, su un campione di 806 lettere spedite, l’81% era in italiano (comprese quelle scritte ai Fugger e ai Welser) e il restante 19% in castigliano sia a spagnoli che a portoghesi (non importa se residenti a Lisbona o Anversa); peraltro – e direi curiosamente – i Salviati scrivevano in spagnolo anche alla compagnia di Burgos dei genovesi Spinola mentre – più logicamente – usavano l’italiano per la loro filiale di Anversa61. A volte era il prestigio di un mercante a determinare la lingua di comunicazione. Ad esempio il celebre uomo d’affari di Burgos Simon Ruiz, il quale faticava a leggere francese e italiano, si lamentava quando non gli scrivevano nella sua lingua. Tant’è che i grandi mercanti italiani di Lione gli scrivevano appunto in castigliano e quando, per essere assolutamente chiari, scrivevano in italiano, sentivano il dovere di giustificarsi62. Nell’Anversa del Cinquecento, membri dell’illustre famiglia mercantile dei Della Faille corrispondevano in italiano non solo con le loro controparti italiane, ma anche con altri fiamminghi e persino con alcuni tedeschi, soprattutto di Augusta, anche se si può notare una certa trascuratezza nell’uso della grammatica. La cosa si estendeva oltre l’ambito della terminologia commerciale, che a volte esisteva soltanto in italiano, tanto che, anche in lettere personali, frasi in italiano potevano inframezzarsi a frasi in fiammingo. I van der Meulen, peraltro imparentati ai già citati Della Faille, mantennero questo uso anche dopo il trasferimento nei Paesi Bassi settentrionali, a fine Cinquecento. L’italiano, inoltre, veniva usato anche nella tenuta dei libri contabili – specie ad Anversa – dove pure potevano presentarsi parole in fiammingo63.

6.2. Scambi tra mercanti Le principali piazze mercantili erano ovviamente dei crocevia di nazionalità e, di conseguenza, di lingue. Città portuali come Venezia erano osannate per il fatto che vi si parlava un numero così elevato di idiomi64: alcu-

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Matringe, L’enterprise florentine et la place de Lyon cit., p. 138. J. Bottin, La pratique des langues dans l’espace commercial de l’Europe de l’Ouest au début de l’époque moderne, in Langues et langages du commerce en Méditerranée et en Europe à l’époque moderne, cur. G. Buti - M. Janin-Thivos - O. Raveux, Aix-Marseille 2013, p. 86. 63 J.A.M. de Bruijn-van der Helm, Merce, moneta e monte: termini commerciali italiani attestati nei testi nederlandesi dei secoli XVI e XVII, Utrecht 1992, pp. 34-38. 64 Nel 1608 il viaggiatore inglese Thomas Coryat scrisse che in Piazza San Marco si potevano udire «all the languages of Christendome, besides those that are spoken by the barbarous Ethnickes» (Dursteler, Speaking in Tongues cit., p. 47).


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ni stranieri si stabilivano permanentemente in tali piazze, mentre altri si limitavano a soste di breve durata, magari perché giunti a bordo di navi o in occasione di fiere. In tutte queste città gli scambi tra persone di nazionalità diversa erano dunque molto frequenti e potevano assumere forme e procedure diverse. In alcuni tipi di transazioni il linguaggio era più semplice e l’operazione poteva essere completata, con soddisfazione delle parti, anche senza adeguate conoscenze linguistiche. In altri casi, ad esempio quando si procedeva alla redazione di contratti, una totale comprensione di quanto contenuto nel testo scritto era necessaria: di conseguenza si doveva ricorrere spesso a intermediari linguistici. Indubbiamente nei principali centri commerciali vi erano a disposizione interpreti che facilitavano le transazioni degli stranieri; inoltre le nationes all’estero potevano fornire ai propri connazionali staff bilingui per aiutarli nello svolgimento dei loro affari65. In alternativa, gli italiani potevano anche occasionalmente assumere collaboratori del posto per farsi tradurre le lettere. Ma era sempre pericoloso divulgare informazioni a persone esterne all’azienda: come scriveva nell’epistola al lettore il compilatore del Solenissimo Vochabuolista, il conoscere una lingua straniera permetteva di evitare il ricorso a un interprete «estraneo et forse inimico»66. In alcuni luoghi (ad esempio ad Alessandria d’Egitto) gli interpreti erano imposti dalle autorità, cioè erano interpreti ufficiali. In altri (ad esempio in Grecia) essi erano reclutati a pagamento dai mercanti stranieri e in questo caso erano dunque più legati a loro che alla controparte locale. Nel 1449 un gruppo di mercanti veneziani in Costantinopoli protestò ufficialmente perché il cretese Nicolaus Langadioti non era secondo loro in grado di agire come interprete67. Nell’Oriente mediterraneo, ad ogni modo, l’esistenza di colonie genovesi e veneziane aveva contribuito a una certa diffusione dell’italiano. In Asia un grande numero di interpreti significò la trasmissione di parole orientali nel lessico occidentale: ad esem-

65 M.E. Soldani, «E perché costui è uxo di qua e intende bene la lingua». Remarques sur la communication entre marchands au bas Moyen Âge, in Les langues de la négociation, cur. D. Couto - S. Péquignot, in corso di stampa. 66 Weissen, Ci Scrive in Tedescho! cit., p. 123; Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., p. 10. Da ricordare anche la celebre espressione «traduttore, traditore». 67 D. Jacoby, Multilingualism and Institutional Patterns of Communication in Latin Romania (thirteenth-fourteenth centuries), in Diplomatics in the Eastern Mediterranean 1000-1500. Aspects of Cross-Cultural Communication, cur. A.D. Beihammer - M.G. Parani - C.D. Scabel, Leiden-Boston 2008, p. 37. La scusa ufficiale era che si richiedeva qualcuno «bene aptus et litteratus in gramatica greca»; ma può anche darsi che i veneziani pensassero che l’interprete assegnato non fosse neutrale.


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pio la stessa parola turcimanno, largamente usata proprio per indicare l’interprete, deriva dall’arabo68. Anche nel Vicino Oriente vi erano comunque mercanti veneziani, fiorentini e senesi che riuscirono ad acquisire una buona conoscenza del turco nel XVI secolo: alcuni – come ad esempio il veneziano Tommaso de Freschi – lo fecero così bene da diventare a loro volta dragomanni, cioè interpreti69. Oltre agli interpreti ufficiali vi erano altre categorie professionali che potevano svolgere lo stesso ruolo: ad esempio i funzionari doganali. Anche gli stessi notai potevano talora agire come intermediari linguistici tra i mercanti locali e quelli stranieri nel caso in cui dovessero stilare contratti o atti pubblici. A volte essi rogavano lo stesso atto in più lingue: nel 1430, ad esempio, un notaio pisano tradusse il protesto di un mercante catalano in latino e poi lo lesse ad alta voce in volgare, affinché tutte le parti in causa avessero chiara la situazione70. La traduzione poteva insomma costituire un elemento fondamentale per dare validità a un atto poiché, come detto, era necessario che tutte le parti ne avessero completa comprensione71. Il 23 ottobre 1281 si presentarono davanti ad Alfonso XI alcuni genovesi residenti in Siviglia chiedendo la riconferma di privilegi concessi da Fernando III nel 1251 e poi confermati da Alfonso X. Interessante è il fatto che si trattava di un «traslado» – una traduzione – in «romance» dell’originale latino, fatta su richiesta di un genovese (Opizzino Musso), «porque lo entendiesen mejor e no les passe contra el». Evidentemente i genovesi da un lato temevano che, poiché il latino non aveva grande diffusione a Siviglia, si potessero creare fraintendimenti tali da mettere in pericolo i loro diritti, dall’altro dovevano avere sufficiente conoscenza del castigliano per verificare la congruenza con il testo originale72. Ad Anversa, durante processi relativi a casi di violenza che coinvolgevano italiani o spagnoli, lo sceriffo si rivolgeva a loro nella loro lingua e anche i notai redigevano documenti in italiano. Nei loro rapporti con la municipalità di Anversa gli italiani si servivano a volte, nel corso del

68 Ad Alessandria nel tardo Medioevo la lingua franca era costituita da una base d’italiano infarcito di “prestiti” arabi e greci (P.D. Curtin, Cross-cultural trade in World History, Cambridge 1984, p. 132). 69 Dursteler, Speaking in Tongues cit., p. 58. 70 Soldani, «E perché costui è uxo di qua» cit. 71 Si veda anche Bottin, La pratique des langues cit., pp. 80-85, per la situazione di Rouen dove, nella prima età moderna, i mercanti stessi potevano agire come interpreti. 72 S. Fossati Raiteri, La nazione genovese tra Cordova e Siviglia nel secondo ’400, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, cur. G. Petti Balbi, Napoli 2001, pp. 286-287.


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Cinquecento, della propria lingua (anche se in prevalenza dovettero usare il neerlandese, lingua ufficiale della città brabantina)73. Anche per Bruges c’è evidenza dell’utilizzazione di lingue straniere. Era normale prassi tradurre in latino i documenti destinati ai tribunali, anche se nel corso del Cinquecento l’uso di tale lingua nel mondo commerciale diminuì sensibilmente, fino a scomparire attorno al 160074. Ciò non accadeva di frequente in Inghilterra, dove tuttavia alcuni scrivani sembrano esser stati fluenti in lingue straniere, anche se soltanto quelle del Nord-Europa75. L’esistenza di vari tipi di intermediari, anche linguistici, serviva dunque a facilitare lo svolgimento degli affari. Vi erano casi, invece, in cui la lingua era utilizzata come strumento per complicare deliberatamente le cose. Negli anni Dieci e Venti del XV secolo l’Hansa stabilì che i butenhansen (mercanti non anseatici) attivi in Livonia (area compresa fra le attuali Estonia e Lettonia) non potessero imparare la lingua locale: ciò aveva il chiaro scopo di impedire loro un diretto accesso al mercato76. A metà XIV secolo il governo veneziano proibì ai mercanti di utilizzare fattori o impiegati che conoscessero il tedesco («scientes linguam teuthonicam») nel Fondaco dei Tedeschi, poiché si era verificato che essi avevano spesso fatto affari in proprio e in modo illecito («faciendo res oculte»)77. Bisogna tuttavia considerare che gli uomini d’affari tedeschi impegnati in attività mercantili-bancarie di livello internazionale spesso conoscevano la lingua italiana, anche grazie a soggiorni – in particolare a Venezia – con i quali miravano a conseguire una formazione a tutto campo nel mondo commerciale. Pieter Ugleimer, mercante e imprenditore tipografico originario di Francoforte, ma residente per anni a Venezia e deceduto a Milano nel 1487, redasse il proprio testamento direttamente in italiano78.

73 J.A. Goris, Étude sur les colonies marchandes méridionales (portugais, espagnols, italiens) à Anvers de 1488 à 1567, 1925, p. 83. 74 Ibid., p. 83. 75 A metà Quattrocento, ad esempio, Robert Bale era in grado di tradurre dal fiammingo (The Book of Privileges of the Merchant Adventurers of England, 1296-1483, ed. A.F. Sutton - L. Visser-Fuchs, Oxford 2009, p. 104). Anche i giovani apprendisti dei principali mercers londinesi possedevano alcuni rudimenti di francese e olandese (A.F. Sutton, The Mercery of London. Trade, Goods and People, 1130-1578, Aldershot 2005, p. 169). 76 S. Jenks, Zum hansischen Gästerecht, «Hansische Geschichtsblätter», 114 (1996), p. 36. 77 L. Molà, La comunità dei lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria della seta nel tardo Medioevo, Venezia 1994, p. 246 (nota 121). 78 P. Mainoni, La nazione che non c’è: i tedeschi a Milano e a Como fra Tre e Quattrocento, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, cur. G. Petti Balbi, Napoli 2001, p. 226.


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Lucas Rem (1481-1541), quattordicenne, si recò da Augusta a Venezia, dove trascorse un anno e mezzo per imparare non solo la contabilità, ma anche l’italiano; successivamente si trasferì a Lione, dove in un anno imparò anche il francese. Possedeva comunque una preparazione superiore alla media, con cui poté iniziare la carriera di agente dei Welser79. Anche i mercanti dei Paesi Bassi si recavano in Italia per apprendere la lingua, che poi utilizzavano nel commerciare pure con gli spagnoli. Da metà Quattrocento i notai comaschi cominciarono a riportare espressamente la conoscenza linguistica del mercante straniero (tedesco in particolare), segnalando anche l’eventuale intervento di interpreti; questi ultimi erano a volte stranieri, ma il più delle volte svolgevano tale ruolo osti comaschi, categoria all’interno della quale si riscontra un diffuso bilinguismo (italiano-tedesco). Ciò non accadeva a Milano, dove la preparazione linguistica dei mercanti tedeschi era più elevata, in quanto si trattava di agenti delle grandi compagnie. Forse proprio a causa del bilinguismo degli osti di Como, in tale città è attestata la presenza di un solo oste tedesco nel XV secolo, a fronte di molti esempi in varie località dell’Italia settentrionale80. In definitiva, quindi, non era forse così necessario, per gli italiani, l’impegno nell’apprendimento di una lingua tanto ostica quando avevano a che fare con le grandi compagnie internazionali tedesche. Tuttavia non è detto che in terra di Germania gli italiani potessero avere la stessa facilità di trovare persone che parlassero o capissero la loro lingua: nel 1449, alla morte del già citato fiorentino Gherardo Bueri, avvenuta a Lubecca, le autorità dovettero ricorrere ai fiorentini Niccolò Bonsi e Francesco Rucellai per liquidare il suo patrimonio, in quanto essi erano gli unici in grado di comprenderne le carte (tutte scritte in italiano)81. All’estero vi potevano comunque essere situazioni particolarmente propizie. Il cosmopolitismo delle principali città dei Paesi Bassi certo avvantaggiava gli italiani, che trovavano spesso un ambiente molto favorevole, anche dal punto di vista linguistico. Nel XVI secolo Lodovico Guicciardini non poteva mancare di segnalare quanto fosse cosa «commoda & ammirabile» il fatto che «i terrazzani [= abitanti] d’Anversa», ma «insino a molte donne […] sono dotati di tre & di quattro lingue» e alcuni addirittura di «cinque, sei & sette»82. Era certamente merito della scuo79 80

Jeannin, I mercanti del ’500 cit., pp. 101-103. S. Duvia, «Restati eran thodeschi in su l’hospicio». Il ruolo degli osti in una città di confine (Como, secoli XV-XVI), Milano 2010, pp. 79-84. 81 de Roover, Il banco Medici cit., pp. 92-94. 82 L. Guicciardini, Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore, Anversa 1588, pp. 155-156.


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la ma anche – come nuovamente sottolineato da Guicciardini – del fatto che era facile praticare le lingue con tutti gli stranieri che frequentavano la città brabantina83. Nella Ragusa (Dubrovnik) del Quattrocento l’italiano era la lingua degli affari. Se l’uomo della strada parlava serbo, i mercanti locali dovevano invece conoscere assai bene l’italiano, se lo utilizzavano per tenere i propri libri di conto; inolte rogiti notarili erano redatti in latino e italiano84. Al veneziano, che in area dalmata si diffuse precocemente accanto al neolatino dalmatico e allo slavo grazie all’influenza che la città lagunare esercitò nella zona dall’alba del secondo millennio, si affiancò, nella Ragusa duecentesca, il toscano, dapprima nella classi più elevate ma poi anche presso una larga fascia di popolazione. Le famiglie prominenti mandavano i propri figli a studiare in Italia e l’italiano, in una delle sue forme, divenne lingua di produzione letteraria oltre che di grande diffusione85. Qualche considerazione aggiuntiva la merita il latino. Anche in un contesto, come quello mercantile, in cui il vernacolo era diffuso, il latino «viene a punto molte volte», come evidenziato in alcune lettere conservate presso l’Archivio Datini di Prato86. A Genova i libri contabili venivano spesso tenuti in latino ancora nel XV secolo e quindi l’apprendimento di tale lingua, pur in una forma semplificata («gramatica secundum mercatores»), aveva risvolti pratici. In ogni caso, i genovesi ricorsero frequentemente a interpreti e produssero un lessico commerciale genovese-latinogreco-cumano87. In ambito mediterraneo il latino era più diffuso che altrove e i notai dettero certamente un contributo in questo senso. Ma a volte vi sono casi sorprendenti anche in altre aree geografiche. Ad esempio, tro-

83 Ibid., p. 143: «Sono medesimamente nella citta [...] diverse scuole, doue s’insegna la lingua Franzese, cosi alle femmine come a maschi, talche fra l’impararla alla scuola, & poi con l’uso & con tanta conuersazione di forestieri si sparge, & allarga in guisa, che in brieue tempo ci si parlerà generalmente quasi, come la lingua materna. Et piu ci sono ancora maestri, che insegnano il linguaggio Italiano, & lo Spagnolo; onde apparisce in tutti i modi, che questa è, & ha da essere la patria comune di tutte le nationi de Christiani». 84 D. Kovaèeviæ-Kojiæ, Account Books of the Caboga (Kabužiæ) Brothers, Beograd 1999; Documenta Archivi Reipublicae Ragusinae, cur. M. Diniæ, 3 voll., Beograd 1957-1967, I, pp. 33-34, 35-90. 85 R. Fontanot, Sulla storia della presenza della lingua italiana in Dalmazia, in Identità e diversità nella lingua e nella letteratura italiana. Atti del XVIII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, LouvainAntwerp-Brussels, 16-19 luglio 2003, 3 voll., Firenze 2007, I, pp. 341-343. 86 Melis, Aspetti della vita economica medievale cit., p. 118. 87 J. Heers, Genoa: an Example of Mediterranean Towns in the Middle Ages, «Diogenes», 71 (1970), p. 58.


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vandosi perso in mezzo alla Germania sulla via del ritorno dall’Inghilterra a Venezia, nel 1562, il mercante e viaggiatore veneziano Alessandro Magno fu circondato da un gruppo di contadini che dicevano cose per lui incomprensibili; riuscì a ritrovare la strada solo perché uno di essi era in grado di dargli indicazioni in latino88. A inizio Quattrocento il fiorentino Giannozzo Manetti iniziò da bambino a lavorare presso la compagnia paterna, dove prese dimestichezza con gli strumenti contabili; all’età di 25 anni, tuttavia, cominciò studi letterari e imparò latino, greco ed ebraico89. A metà del secolo il mercante ideale di Benedetto Cotrugli doveva conoscere il latino: «lo mercante debbe essere […] buono rectorico, il che gli è necessarissimo, perché la grammatica fa l’homo intelligente in cognoscere bene uno contracto, uno comandamento, uno previlegio. Etiamdio lo fa intendere molte nationi, perché egli è idioma commune a molte nationi et diverse genti. […] L’essere rectorico è necessario, perché non solamente questa arte della rectorica fa l’huomo eloquente in lingua latina, ma etiamdio in vulgari»90. Ma probabilmente – come per Manetti, per il quale gli studi classici costituivano anche il sintomo di una ribellione e il desiderio di distaccarsi dalla mercatura – si trattava più di un’abilità volta alla formazione di una persona a tutto tondo che a un uso quotidiano nel mondo degli affari. Peraltro, come detto, il latino dei mercanti era molto semplificato. 7. L’Asia tra mito e realtà

Nel loro percorso verso la Cina i Polo incontrarono 20-30 lingue diverse91. Effettivamente, anche se il cumano e il persiano potevano essere considerate lingue franche pure nell’impero mongolo del XIII-XIV secolo, il problema era in quale zona dell’Asia ci si trovava a trafficare. Lo stesso Marco Polo, infatti, aveva appreso il persiano92, mentre nella sua Pratica di

88 Washington DC, Folger Shakespeare Library, Ms. V.a.259, c. 184r. Ringrazio Claire Daunton per avermi passato questa informazione. La Relazione di Magno è stata pubblicata: A. Magno, Voyages (1557-1565), ed. W. Naar, Fasano-Paris 2002. 89 Tucci, La formazione dell’uomo d’affari cit., pp. 485, 488. 90 B. Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura, ed. U. Tucci, Venezia 1990, pp. 210-211. 91 J. Favier, L’oro e le spezie. L’uomo d’affari dal Medioevo al Rinascimento, Milano 1990, p. 81. 92 J. Richard, L’enseignement des langues orientales en Occident au Moyen-Âge, «Revue des études islamiques», 44 (1976), ristampato in Croisés, missionaires et voyageurs. Les perspectives orientales du monde latin médiéval, London 1983 (Variorum), n. XVIII, pp. 153-


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mercatura Pegolotti suggeriva comunque di dotarsi di turcimanni che conoscessero «la lingua cumanesca»93. In ogni caso, meno di trenta parole erano forse sufficienti a soddisfare i bisogni della vita quotidiana (alloggio, cibo, ecc.). Ma svolgere operazioni commerciali poteva essere più complicato, anche perché la mancata capacità di comprendere la lingua locale esponeva a rischi di varia natura. In Asia come altrove, infatti, l’essere (e apparire) stranieri sottoponeva a raggiri di vario tipo, come ad esempio un aumento di prezzo94. Altre volte vi erano anche pericoli maggiori, connessi con la salvaguardia personale: nei Precepts for Travellers contenuti all’interno del suo Itinerary, Fynes Moryson, che aveva lungamente viaggiato in Europa e in Medio-Oriente a fine Cinquecento, ricordava come egli avesse sempre tentato di imparare almeno le basi delle lingue locali in modo tale da nascondere la propria origine ed evitare i pericoli95. Se gli italiani, come abbiamo visto, mostravano una certa presunzione per quanto riguarda la lingua nel momento in cui si recavano all’estero per affari, la stessa cosa si può dire – più in generale – per gli europei che si avventuravano al di fuori dei confini del proprio continente. In rari casi si trovano occidentali che, dopo una permanenza più o meno prolungata in Asia, avevano appreso bene qualche lingua locale. Recatosi in Oriente nel 1515 anche in missione diplomatica per conto di papa Leone X, quattro anni dopo il mercante fiorentino Andrea Corsali si trovava a Cochin, in India: un suo connazionale poteva scrivere a Firenze che egli «sa bene la lingua persica e la malabare»96. Vi furono poi altri casi di personaggi che avevano appreso lingue locali (rinomati, più o meno a ragione, sono quelli di Filippo Sassetti e del gesuita Roberto de’ Nobili tra fine Cinquecento e inizio Seicento) ma nel complesso «for 300 years after Vasco da Gama touched Calicut generations of traders, merchants, missionaries, soldiers, and other emissaries from at least five different nations of Europe took

154. Il persiano, oltre a essere lingua franca per il commercio terrestre attraverso l’Asia, aveva rimpiazzato il greco come lingua del commercio anche in Medio-Oriente a partire dall’ultimo quarto del primo millennio d.C., ovvero nel primo periodo Abasside (Curtin, Cross-cultural trade cit., p. 107). 93 Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura cit., pp. 21-22. 94 M.E. Soldani, A Firenze mercanti, cavalieri nella signoria dei re d’Aragona. I TecchiniTaquí tra XIV e XV secolo, «Anuario de Estudios medievales», 29 (2009), p. 580 mostra esempi relativi a stranieri in Catalogna. 95 D.R. Holeton, Fynes Moryson’s Itinerary: A Sixteenth Century English Traveller’s Observations on Bohemia, its Reformation, and its Liturgy, in The Bohemian Reformation and Religious Practice, V/2, cur. Z.V. David - D.R. Holeton, Prague 2005, pp. 381-382. 96 Spallanzani, Mercanti fiorentini cit., pp. 32, 177.


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their turn in India, pursuing their interests at a respectful distance, making no obtrusive efforts to scrape acquaintance with Sanskrit culture»97. Molto più spesso si riteneva infatti che fosse dovere degli orientali quello di apprendere le lingue dell’Occidente e di fornire quindi traduttori e interpreti98. Peraltro, gli europei non perdevano neppure tempo a insegnare la propria parlata in maniera corretta: si venivano così a creare delle “lingue franche”, che erano in realtà le lingue europee semplificate (dal punto di vista sia lessicale che grammaticale), le quali costituivano per i colonizzatori anche un’ulteriore dimostrazione dell’inferiorità intellettuale delle popolazioni locali. Quando si recavano in Asia, i mercanti italiani non avevano se non rarissimi contatti con le lingue del posto, ma apprendevano da questi pidgin le poche parole esotiche che poi citavano nei loro scritti: e quindi consideravano – erroneamente – come locali parole che invece erano state là esportate dai portoghesi e poi magari riadattate99. I paesi extra-europei, in ogni caso, stimolavano l’immaginario degli occidentali. Così, a fine Medioevo e nei secoli successivi, vennero prodotti anche alfabeti di fantasia come ad esempio quello del supposto regno del Prete Gianni100. Nei rapporti con l’Africa e ancor più con l’Asia, insomma, il mito si mescolava spesso alla realtà. 8. Conclusioni

Alcune lingue hanno radici comuni che rendono l’apprendimento di una lingua molto più facile ma anche, paradossalmente, meno necessario, poiché ciascuno può continuare a parlare la propria lingua ed essere capito. Il più delle volte, peraltro, la prossimità linguistica è anche lo specchio di una prossimità culturale; in alcune aree del continente molti mercanti italiani decisero di stabilirsi, acquisendo la cittadinanza e divenendo poi sempre più integrati con la società che li ospitava. Ciò successe in particolare in Portogallo, Castiglia e Catalogna, dove tale processo di integrazio-

97

J.R. Firth, Alphabets and Phonology in India and Burma, «Bulletin of the School of Oriental Studies, University of London», 8 (1936), p. 517. 98 Richard, L’enseignement des langues orientales cit., p. 158. Discorso analogo era valido per la costa occidentale africana (Curtin, Cross-cultural trade cit., pp. 12, 58). 99 G.R. Cardona, L’elemento di origine o di trafila portoghese nella lingua dei viaggiatori italiani del ’500, «Bollettino dell’Atlante Linguistico Mediterraneo», 13-15 (19711973), pp. 170-173. 100 Bischoff, The Study of Foreign Languages cit., p. 213.


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ne portò anche a “portoghesizzazioni” o “catalanizzazioni” dei nomi o di altre parole101. Certamente, nel corso del Medioevo, l’italiano fu una lingua importante nel mondo del commercio internazionale e di conseguenza i mercanti della penisola potevano avere aspettative che la controparte ne possedesse quanto meno un’infarinatura; in alternativa essi potevano dotarsi di fattori o corrispondenti capaci di comunicare; in ultima istanza potevano ricorrere a interpreti, anche se quest’ultima era una scelta da ponderare bene, visti i pericoli connessi con il coinvolgimento di terze parti e la divulgazione di informazioni strategiche o riservate. Oltre a interpreti professionali, come si è visto, diverse categorie professionali potevano svolgere tale ruolo: sensali, notai, scrivani e altri. In generale non è facile fare commenti sulle capacità linguistiche dei mercanti italiani del Medioevo. Solo pochi di loro, tuttavia, sembrano essere stati perfettamente fluenti, e più difficilmente quelli che si trasferivano nelle regioni del Nord-Europa. Ad esempio, libri di conto tenuti da italiani in città come Londra e Bruges mostrano una gran quantità di nomi locali storpiati: ciò non sarebbe probabilmente accaduto se essi avessero appreso bene la lingua. In conclusione, sarebbe certamente interessante valutare se la buona conoscenza delle lingue straniere potesse costituire un’arma nelle mani dei mercanti italiani all’estero: ovvero se essa permettesse a chi la possedeva di avere trattamenti “preferenziali”, cioè migliori condizioni e profitti più elevati. Anche nelle situazioni più complicate, comunque, i mercanti italiani svolgevano la loro attività commerciale, con o senza la conoscenza della lingua del luogo. Forse i fiorentini non riuscivano ad adattarsi in Germania, ma portavano avanti con profitto i loro affari (vendita di preziosi tessuti serici)102. Il loro peso nell’ambito del commercio internazionale evidentemente restava forte a prescindere da eventuali barriere linguistiche.

101 Per un esemplare caso di integrazione si veda Soldani, A Firenze mercanti cit., pp. 575-604. Una lunga permanenza seguita da integrazione sembra aver caratterizzato maggiormente i mercanti toscani. Contrariamente ad essi, i genovesi risiedevano in genere nelle città estere 4-5 anni. Come sottolineato da Heers, nessuno aveva intenzione di formarsi una famiglia nella città né di restarvi a lungo: tornavano a Genova per sposarsi e ristabilirvisi (J. Heers, Los genoveses en la sociedad andaluza del siglo XV: orìgenes, grupos, solidaridades, in Hacienda y Comercio. Actas del II Coloquio de Historia Medieval Andaluza (Siviglia 8-10 aprile 1981), Sevilla 1982, pp. 419-444). 102 F. Guidi Bruscoli, Drappi di seta e tele di lino tra Firenze e Norimberga nella prima metà del Cinquecento, «Archivio Storico Italiano», 159 (2001), pp. 359-394; M. Spallanzani, Tessuti di seta fiorentini per il mercato di Norimberga intorno al 1520, in Studi in memoria di Giovanni Cassandro, 3 voll., Roma 1991, III, pp. 995-1016.


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Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, Adso ricorda il proprio incontro con Salvatore103:

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«Dovrò, nel prosieguo di questa storia, parlare ancora, e molto, di questa creatura e riferirne i discorsi. Confesso che mi riesce molto difficile farlo perché non saprei dire ora, come non compresi mai allora, che genere di lingua egli parlasse. Non era il latino, in cui ci esprimevamo tra uomini di lettere all’abbazia, non era il volgare di quelle terre, né altro volgare che mai avessi udito. Credo di avere dato una pallida idea del suo modo di parlare riferendo poco sopra (così come me le ricordo) le prime parole che udii da lui. Quando più tardi appresi della sua vita avventurosa e dei vari luoghi in cui era vissuto, senza trovar radici in alcuno, mi resi conto che Salvatore parlava tutte le lingue, e nessuna. Ovvero si era inventata una lingua propria che usava i lacerti delle lingue con cui era entrato in contatto – e una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l’umanità felice aveva parlato, tutti uniti da una sola favella, dalle origini del mondo sino alla Torre di Babele, e nemmeno una delle lingue sorte dopo il funesto evento della loro divisione, ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva. Né d’altra parte potrei chiamare lingua la favella di Salvatore, perché in ogni lingua umana vi sono delle regole e ogni termine significa ad placitum una cosa, secondo una legge che non muta, perché l’uomo non può chiamare il cane una volta cane e una volta gatto, né pronunciare suoni a cui il consenso delle genti non abbia assegnato un senso definitivo, come accadrebbe a chi dicesse la parola “blitiri”. E tuttavia, bene o male, io capivo cosa Salvatore volesse intendere, e così gli altri. Segno che egli parlava non una, ma tutte le lingue, nessuna nel modo giusto, prendendo le sue parole ora dall’una ora dall’altra».

Come per Salvatore, anche per i mercanti l’essenziale era riuscire a farsi capire. In altre parole, tranne casi sporadici, essi guardavano all’apprendimento della lingua in termini molto pragmatici. A volte, è vero, la lingua poteva non essere solo una questione di convenienza, ma anche uno degli elementi attraverso cui si manifestavano la capacità e il desiderio di integrarsi all’estero: lo studio di una lingua straniera poteva quindi diventare una “scelta attiva” determinata, oltre che da una necessità (fare affari), dal piacere (la volontà di integrarsi). Se però si guarda alle tracce documentarie presentate in questo articolo, il primo aspetto sembra prevalente: i mercanti imparavano una lingua straniera quando e per quanto serviva ed era utile allo svolgimento dei loro affari.

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U. Eco, Il nome della Rosa, Milano 200147, pp. 54-55 (Primo giorno, Sesta).


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Un manuale di conversazione italiano-neerlandese nato nell’ambiente mercantile veneziano a cavallo fra Quattro e Cinquecento


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È nell’ambiente mercantile, a cavallo del Quattro e Cinquecento, che si trovano le prime tracce di un apprendimento dell’italiano. Si tratta di un periodo caratterizzato dalla grande fioritura delle attività commerciali a livello internazionale, di cui furono protagonisti proprio gli italiani cui si deve una serie di innovazioni che datano a partire dal basso Medioevo. Nel Cinquecento la loro conoscenza delle tecniche commerciali era a un livello tale da far assumere all’italiano il ruolo di lingua di modello e di prestigio. Questo contributo intende far vedere come in questo periodo mercanti stranieri, in particolare quelli neerlandesi, imparassero la lingua italiana. In base ai vari dialoghi bilingui (italiano-neerlandesi) documentati in un manoscritto risalente alla fine del XV o all’inizio del XVI secolo1, si cercherà di analizzare le modalità di apprendimento della lingua. Il libro (mercantile) di conversazione italiano-neerlandese

Il manoscritto, rimastoci in un solo esemplare nella British Library (contenuto nel codice Add. Ms. 10802), è nato nell’ambiente mercantile veneziano. Consta di 93 carte, per un totale di più di tre mila righe ed è bilingue: frasi italiane si alternano alla corrispondente traduzione in neerlandese. Finora il manuale era rimasto inedito, ma un gruppo di ricerca

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La data esatta del manoscritto non è conosciuta, però nel testo si fa menzione della tomba di «san Bernadino a L’Aquila». Bernardino da Siena è morto nel 1444 ed è stato santificato nel 1450. L’anno 1450 può essere perciò considerato un termine post quem. Inoltre il tipo di scrittura (littera hybrida) può essere collocato alla fine del Quattrocento o all’inizio del Cinquecento.


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interdisciplinare dell’Università di Utrecht, cui hanno partecipato sia italianisti che neerlandisti, ha preparato l’edizione critica, uscita di recente2. Per quanto si sa, questo manoscritto è il documento più antico conosciuto in cui l’italiano e il neerlandese compaiono insieme. Il testo è scritto dalla stessa mano; una divisione in capitoli manca, come pure una qualsiasi rubricazione. Nei repertori il contenuto viene descritto come: «un libro (mercantile) di dialoghi italiano-neerlandese», e viene datato all’inizio del XVI secolo3. Il testo non ha suddivisioni: si tratta di una sequenza continua di frasi senza sottotitoli o capitoli. In seguito vedremo due frasi alternate: una frase italiana e una seconda in neerlandese. Gli argomenti, propri del mondo mercantile dell’epoca, vengono collegati in maniera associativa. È da notare che la prima metà del manualetto è di contenuto prevalentemente moralistico-didattico, mentre la seconda metà mostra un’attitudine commerciale più pratica. L’interesse del manuale è triplice. Sta tra i documenti della lessicografia bilingue opponendo l’italiano (di area veneta) al fiammingo (il dialetto del Brabante). Inoltre il testo ci offre dati interessanti dal punto di vista storico-linguistico, per quel che riguarda sia le principali caratteristiche del veneto, sia quelle del dialetto brabantino del periodo. Infine si deve notare l’interesse storico-culturale del testo, il cui contenuto è strettamente legato al mondo mercantile del tardo Medioevo. In questo articolo presento tre passi che contengono dialoghi tipici del mondo mercantile coevo e che presentano, pur essendo una fonte scritta, spunti per la descrizione e l’analisi di un determinato tipo stilistico: la lingua parlata del periodo. Inoltre si mettono in rilievo il loro contenuto, le caratteristiche della lingua, nonché il loro intento e il loro legame con la tradizione lessicografica del tempo.

2 J. de Bruijn-van der Helm et al., Een koopman in Venetië. Een Italiaans-Nederlands gespreksboek uit de late Middeleeuwen, Hilversum 2001. Cfr. anche J. van der Helm - T. Bruni, Caxza in là quilli boy, mena in qua li castroni. Dialogo inedito fra un mercante fiammingo e un suo collega a cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento, «Zeitschrift für romanische Philologie», 119/3 (2003), pp. 443-480, dove si presenta a un pubblico internazionale l’ultimo dialogo che fa parte del manuale, mettendone in rilievo le caratteristiche della lingua italiana. 3 Il manoscritto viene descritto sotto vari titoli nei vari studi e repertori, fra cui K. de Flou - E. Gailliard, Beschrijving van Middelnederlandsche handschriften die in Engeland bewaard worden, in Verslagen en mededeelingen der koninklijke Vlaamsche Academie voor taal- en letterkunde, Gent 1895, I, pp. 215-216; R. Jansen-Sieben, Repertorium van de Middelnederlandse artes-literatuur, Utrecht 1989, p. 388.


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Primo esempio: dialogo tra una signora venditrice e un cliente Si comincia con un esempio del primo dialogo che si situa nell’ambito della compra-vendita: in una situazione fittizia due personaggi, una signora Venditrice e un Cliente, parlano in forma diretta. Tratta dal vivo – la realtà del mondo mercantile – la situazione è indubbiamente servita da modello. Si presenta la prima parte che può essere considerata un campione di tutto il dialogo (complessivamente da rr. 25-111):

26 […] 29

V - Volé voy comparare niente de questo bona roba? Wildi copen iet van desen goeden goede? Questa roba bona e vantizata. Dit goet es goet ende ghewardart.

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V - Dyo voy de’ ‘l bon dý. God gheve u goeden dach. Cl - Dyo voy de’ ‘l bon dý e bon anno. God gheve u goeden dach ende een goet jaer.

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[…] 33 34 35

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Cl - Madona che voy plaza que ti daga del centonaro? Vrouwe, wat ghelievet u dat ic u gheve van der hondert? V - Misier que volete voy del miliaro? Here, wat wildy van den dusende? Eo volio mille ducate. Ich wille dusent ducaten. Cl - E’-lla troppo caro. Het es te sere dire. V - Per meffè, de un altro tori più. By minder trouwen, van enen anderen neme ic meer. Eo posso fare melioro mercato altrui. Ich mach doen beter comescap anders waer.

Cosa si può notare nella strategia linguistica del discorso? All’inizio compare la consueta formula di saluto con cui il primo interlocutore si rivolge direttamente al secondo. È un saluto con l’impronta religiosa tipica del Medioevo: «Dyo voy de’ ‘l bon dý». Poi seguono la solita formula di cortesia con la domanda «Che voy plaze misier miyo?», la risposta «My plaze omni vostro been» e la raccomandazione della roba da vendere: «Volé voy comparare niente de questo bona roba? Questa roba bona e vantizata. Sinza paura nisuna tu pò’ comparare questa mercadantia, perché è fina et multo bona». Si conclude con il contrattare sul prezzo: «Eo volio mille ducate». «E’-lla troppo caro». «Per meffè, de un altro tori più. Eo posso fare melioro mercato altrui».


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Come si vede il dialogo rispecchia la vita quotidiana che si fa rivivere attraverso la conversazione. La scena si potrebbe definire «una mattina al mercato». L’argomento si collega all’ambiente e alle esperienze di chi impara: il mondo mercantile del tardo Medioevo. Il materiale linguistico è basato sull’uso pratico della lingua parlata4. In questo contesto si notano gli appellativi dati in una conversazione viva: «Madona che voy plaza que ti daga del centonaro?» «Misier que volete voy del miliaro?» Infine si notano la forma interrogativa con voi enclitico dopo il verbo coniugato: «Volé voy comparare niente di questo bona roba?» e l’esclamazione: «Per meffè, de un altro tori più». Secondo esempio: enumerazione di cibi

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In un altro dialogo attestato nel manuale (Dialogo tra due compagni: rr. 374-1288) salta agli occhi l’enumerazione di vari cibi. Specificamente si tratta di una cameriera che sa preparare e offrire diverse pietanze di carne [Fig. 1]: 866 867 868 869 870

Carne lessi de molti maneri: Ghesoden vleis in vele maniren: de porco e de castroni, van verkenne ende van hamels, de agno e de agnelli, van lammeren ende van jongen lammeren, de cavere e de caveretti, van gheiten ende van jongen gheiten, de bo e de bovini, van den rinde ende van ossen,

[...]

4 Nella tipologia di Gerhard Ernst il dialogo può essere definito come «Musterdialoge mit fiktiver directer Rede in didaktischen Texten» («Modelli di dialogo con discorso diretto in testi didattici»), cfr. G. Ernst, Prolegomena zu einer Geschichte des gesprochenes Französisch, in Zur Geschichte des gesprochenes Französisch und zur Sprachlenkung in Gegenwartsfranzösischen, cur. H. Stimm, «Zeitschrift für französischen Sprache und Literatur», 6 (1980), p. 3; cfr. anche G. Holtus - W. Schweickard, Elemente gesprochener Sprache in einem venezianischen Text von 1424: das italienisch-deutsche Sprachbuch von Georg von Nürnberg, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, cur. G. Holtus - E. Radtke, Tübingen 1985, pp. 354-376; E. Radtke, Gesprochenes Französisch und Sprachgeschichte. Zur Rekonstruktion der Gesprächskonstitution in Dialogen französischer Sprachlehrbücher des 17. Jahrhunderts unter besonderer Berücksichtigung der italienischen Adaptionen, Tübingen 1994.


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de aouke e de aucere van gansen ende van jongen gansen, e de molte altre maneri, ende van vele anderen manirren

In un altro luogo vediamo l’enumerazione di vari pesci:

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Ma compare, vòy tu sapere Mer gevader, wildi weten que pisso eo menzo volentire? wat vesche ic gherne ete? Truti, carpioni qui son grandi, Trute, carpioni di groet sijn, regine, lussche e sturrioni, carpers, scnoken ende sturre, e ancka calamari son boni, ende oec calamari sijn goet, qui volano in mare como oselli, di vliegen in zee als vogele, quando lory sentevano li tempesti. alsi gevoelen tempeeste.

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Attraverso l’enumerazione di queste vivande si rivela e si rivive la vita quotidiana del mondo medievale. Eppure nello stesso tempo il lettore ha l’impressione che le cose a cui ci si riferisce non siano completamente basate sulla realtà. Nel dialogo la cameriera sa offrire molte vivande. Troppe per consumarle in una sera, ma non troppe a menzionarle! Infatti la funzione del testo è didattica, cioé l’apprendimento di una lingua. Quanto maggiore è l’informazione relativa ai vocaboli e alle forme di espressione, tanto più ricco e articolato diventa il patrimonio lessicale destinato al lettore. Terzo esempio: consigli di viaggio

Infine si presentano alcuni passi dello stesso dialogo tra due compagni (rr. 374-1288), in cui il vecchio amico dà consigli pratici per viaggiare in una regione specifica: quella non lontana dalla città di Ascoli: 1022 1023 1024

E si non volé passare Ende en wildi niet doer liden e per mare navigare, ende bider zee scepen, mittete voy a pe’ caminare ghevet u te voete te wandelene


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Ancora a rente quilla citate Noch bi dier goeder stad sta un monte molto alte, staet enen berch zere hoge, dove Sibilla ha soy habitacione dar vrouwe Venus heft har woninge e anck Pilato sepulto suso. ende oec Pilatus dar op gegraven.

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per terra a fin a Venegia. ter eerden tot Venegien. E de là passa ultra Ende van dar gaet vort infin alla Merka de Ancona tot in der Merck van Anconen e demandate de una terra ende vraget na ene stad que ven clamata Norsza. die es gheheten Noers. E de là tu pò’ comparare Ende dar so modi coeppen dela cosa asay, si tu ha’ denare, vele goeds dinch, hebdi ghelt, perché el croco multo bone. want dat sofferaen es zere goet.

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In questo passo si punta sull’informazione pratica: come si deve viaggiare da Venezia verso il sud d’Italia per via di terra? Quali prodotti si possono comprare lì?: «croco molto bone». Intanto si dà anche qualche informazione ‘turistica’: «un monte molto alto dove Sibilla ha soy habitacione e anck Pilato sepulto suso». Evidentemente qui si sta parlando del monte Sibilla (2175 m) e del Lago di Pilato (1949 m) all’interno del parco nazionale dei monti Sibillini. Nella tradizione popolare sia il monte, sia il lago sono stati e sono ancora considerati un luogo magico e misterioso. Il monte deve il suo alone di mistero alla leggenda della Sibilla, figura mitologica che abitava la grotta omonima. Il lago prende infatti il suo nome da una leggenda secondo la quale nelle sue acque sarebbe finito il corpo di Ponzio Pilato condannato a morte da Tiberio.

Le caratteristiche dialettali della sezione italiana Esaminando i dati linguistici trasmessi dalla parte italiana del testo, troviamo a prima vista fenomeni che portano all’area veneta. In un secondo


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momento, accanto a questi tratti specifici di area veneta si riscontrano caratteristiche generali di tutta l’area settentrionale, insieme con altri influssi non specificamente settentrionali5. Si trova conferma fra gli altri dell’ipotizzabile origine veneta della lingua attraverso: - Il nesso -r- (invece di -dr- (da -TR-): paroen (it. padrone) (237)6, prere (it. pietre) (679 ). - Il suffisso -aro (invece di -aio) da -ARIUS. Questo esito è tipico della zona di Padova: miliaro (34, 1279). Il suffisso -er (veneziano) si trova in candeleri (1444). - Palatalizzazione completa della -L- in posizione intervocalica: a parte grafie latineggianti come familiaritate (1500), consilio (pass.), si ha: voyo (pass.), maravia (340), tayare (1418), towaie (1442), tanaye (1445). - Per la 4a persona pres. ind. l’estensione di –emo a tutte le coniugazioni: mangemo (891), volemo (374), havemo (312). - Per la 5a persona pres. ind. e imper. si ha -é (da -ETIS), che è più tipica per il veneziano: wardé (1302), respondé (1396), endé (171), dizé (1314) (acc. a dizete (pass.)). - Per la 2a pers. pres. ind. si nota il mantenimento di -s nella forma interrogativa con l’enclisi del pronome: dixis-tu (538), demandas-tu (173), vos-tu (1316). - Per il gerundio c’è l’estensione del morfema verbale -ando: caminando (654), ma anche fazando (811), siando (1375). Oltre alle caratteristiche venete si possono notare altri fenomeni attribuibili più o meno a gran parte dell’Italia settentrionale e perciò privi di valore distintivo per quel che riguarda una localizzazione geolinguistica specifica, come - Lo scempiamento delle consonanti doppie: inganato (pass.), madona (33), tuto, -a, -i, -e (pass.), caminare/ caminando (1024, 1341), asasino (1421), quatro (1245), dito (it. detto) (1489). - La sonorizzazione delle occlusive intervocaliche: /p/ > /v/ in: pevero (180), sovere (1175), cavere/ caveretti (869); /t/ > /d/ in: cradelli (1445), 5

Per la descrizione mi sono valsa degli studi seguenti: G. Pellegrini - A. Stussi, Dialetti veneti, in Storia della cultura veneta I. Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 424-452; A. Zamboni, Venezien/Veneto, in Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL), IV, cur. G. Holtus - M. Metzeltin - C. Schmitt, Tübingen 1988, pp. 517-538; P. Tomasoni, Veneto, in Storia della lingua italiana, cur. L. Serianni - P. Trifone, III, Torino 1994, pp. 211-240; cfr. anche Van der Helm - Bruni, Caxza in là cit., pp. 447-455. 6 Esempi (i numeri rinviano alle righe corrispondenti) tratti dall’intero testo edito in De Bruijn - van der Helm, Een koopman in Venetië cit.


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seda (1518); /k/ > /g/ in: logo (675) (acc. a loco), fige (1300), kagato (1474), traffigato (1513). All’interno di una caratterizzazione sostanzialmente settentrionale e più specificamente veneta, si notano particolarità che non possono essere attribuite all’italiano o alle sue varianti dialettali. Esse sono probabilmente dovute al carattere bilingue del testo: il neerlandese ha influenzato l’italiano conferendogli una veste ibrida, come l’impiego della w germanica nella parola wardé (1302) (il veneto darebbe varde) e la w in towaie (1442) e Anwers (1515) (cfr. neerl. Antwerpen); il prolungamento della vocale precedente tramite la -e- (raro: -i-, -u-), molto rilevante e affine al medio neerlandese, in particolare al brabantino, in cui è normale il prolungamento delle vocali7: -oe-: boen (54), oeicho (1478), salutacioen (1503), paltroen (1477); -ee-: been (pass.) (acc. a ben), floreen (1338); -ae-: maesza (1421), leaelmente (1404); -ii- : viin (1514).

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Intento del testo e tradizione lessicografica

Quale obiettivo si è posto l’autore nel registrare le frasi italiane, per poi tradurle in neerlandese? La risposta è evidente: insegnare l’italiano o impararlo lui stesso. Una prova convincente ce la dà un passo a metà del testo, alla fine del soprannominato dialogo fra due compagni, in cui sono registrati i numeri da 1 a 100. Un’analisi di queste pagine fa vedere che l’autore comincia fedelmente con l’italiano: le cifre sono scritte in lettere. La «traduzione» in neerlandese riporta invece semplicemente la cifra araba corrispondente. Evidentemente in neerlandese non è necessario scrivere i numeri in lettere. Ciò significa che si parte dal presupposto che il neerlandese sia conosciuto e l’italiano no. L’italiano è perciò la lingua da imparare! Alla fine del dialogo l’amico giovane, quando comincia a contare, dice infatti esplicitamente all’amico anziano: 1242 1243

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E si tu non intendé bene Ende eest dat ghijt niet wel en verstaet sò che sovere8 voy troverete [cioè il testo in italiano] so dat ghi boeven sult vinden,

Cfr. anche E. Tuttle, Profilo linguistico del Veneto, in La linguistica italiana fuori d’Italia. Società di Linguistica Italiana (SLI), cur. L. Renzi - M. Cortelazzo, Roma 1997, p. 138, dove si parla della mancanza nel veneto di dittonghi discendenti èi/óu. 8 Corsivo mio.


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wardate de sotto en contate bene [cioé le cifre arabe] siet beneden ende tellet wel: un doy tre quatro cinque 1 2 3 4 5 sey sette octo nove deze 6 7 8 9 10

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Fino a che punto il manuale presentato in questa sede si inserisce nella tradizione lessicografica? I punti di riferimento con essa, sia in territorio neerlandese sia in territorio italiano, non mancano, ma riguardano combinazioni di lingue diverse dall’italiano-neerlandese. L’esempio più conosciuto e forse anche più antico di un vocabolario bilingue comparso nei Paesi Bassi è il Livre des Mestiers o Bouc vanden Ambachten del secolo XV, in cui vengono presentate in due colonne parallele frasi in francese e la loro traduzione in neerlandese9. Il libretto deve il suo nome alla lista in ordine alfabetico dei diversi mestieri. A partire dal 1500 verranno stampate ad Anversa diverse edizioni rimaneggiate del Livre des Mestiers, sotto il nome di Vocabulare, il cui autore è il maestro Noel de Berlaimont10. Il genere del Vocabulare, col metodo parlato per l’apprendimento del fiammingo e del francese, ha avuto un grande successo e una grande diffusione fino al XVII secolo: sotto il nome di Colloquia ne sono uscite numerose edizioni riviste e ampliate con altre lingue. Nel corso del tempo si arriva addirittura a edizioni in otto lingue11. In un’edizione del 1558 viene aggiunto per la prima volta l’italiano accanto a neerlandese, francese e spagnolo12. Della tradizione lessicografica italiana fa parte un vecchio Sprachbuch italo-tedesco, che si è conservato in diversi manoscritti. Il più antico è del 142413. L’autore del libro di dialoghi è un certo Georg von Neurenberg 9

1931.

Pubblicata da J. Gessler, Het Brugsche Livre des Mestier en zijn navolgingen, Brugge

10 Cfr. anche L. Emery, Vecchi manuali italo-tedeschi (Il «Vochabulista»-Il «Berlaimont»-La «Ianua Linguarum»), «Lingua nostra», 8/2 (1947), p. 36. 11 È riedita recentemente una stampa del 1656 in C. Rizza et al., Colloquia et Dictionariolum Octo Linguarum Latinae, Gallicae, Belgicae, Teutonicae, Hispanicae, Anglicae, Portugallicae, Viareggio-Lucca 1996. 12 Cfr. F. Claes, Lijst van Nederlandse woordenlijsten en woordenboeken gedrukt tot 1600, «De Gulden Passer», 49 (1971), p. 179, n. 171. 13 L’edizione diplomatica è stata pubblicata a cura di O. Pausch, Das älteste italienischdeutsche Sprachbuch. Eine Überlieferung aus dem Jahre 1424 nach Georg von Nürnberg, Wien 1972; cfr. anche P. Höybye, Glossari italiano-tedeschi del Quattrocento, «Studi di filologia italiana», 32 (1974), pp. 143-163 e A. Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui d’uso popolare: la tradizione del «Solenissimo Vochabuolista», Alessandria 1984.


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(«maestro Zorzi»), che in quel periodo soggiornava a Venezia. Nel testo compare addirittura il suo indirizzo: «sul campo de san bortolamio apresso al fontego di thodeschi»14. Le lezioni nello Sprachbuch sono dirette originariamente a mercanti italiani a Venezia che dovevano imparare il tedesco. Lo Sprachbuch ha la struttura di un vero libro di testo, ed è suddiviso in tre parti: una lista di vocaboli, una grammatica e due dialoghi. Grazie alla sua struttura sistematica questo libro è diventato il precursore di una lunga serie di vocabolari italiano-tedeschi, di cui il primo venne stampato a Venezia nel 1477 con il titolo Introito e Porta15. In un’edizione del 1534 in questa serie si trova per la prima volta il neerlandese accanto all’italiano, francese, spagnolo e latino16. Un confronto fra il manuale discusso in questa sede e la tradizione franco-fiamminga dei manualetti dialogati da una parte e, dall’altra, il libro italo-tedesco Sprachbuch, mostra chiaramente come in tutti e tre i casi si tratti di manualetti di dialoghi scritti per imparare una seconda lingua. Per quanto riguarda lo Sprachbuch le somiglianze si fermano qui, perché anche se per entrambi i testi i dialoghi – vivacizzati da espressioni idiomatiche – possono venir collocati nell’ambiente mercantile di quel periodo, la struttura sistematica dello Sprachbuch è molto lontana dalle concatenazioni associative di argomenti del nostro testo. In questo senso lo Sprachbuch assume molto di più la veste di un metodo didattico ben conosciuto, come attestano i diversi testimoni diffusi in una vasta area geografica. Per quanto riguarda invece la relazione fra il manuale e il Livre des Mestiers, vi sono maggiori punti di riferimento. Nonostante il fatto che i testi presentino differenze notevoli per quanto riguarda la struttura17 e il contenuto, è comunque possibile riconoscere nel libretto di dialoghi italo-neerlandese alcune parti presenti nel Livre des Mestiers. Limitandosi a un solo esempio si può osservare che la tradizionale lista della spesa del Livre des Mestiers, nella quale vengono elencati diversi tipi di frutta, verdura, bevande, latticini, carni e pesci18, si ritrova, seppure in forma ridotta, nel dialogo tra due compagni citato sopra. Anche l’argomento «cifre e numeri» viene trattato in

14 15 16

Pausch, Das älteste italienisch-deutsche Sprachbuch cit., p. 261. Cfr. Rossebastiano Bart, Antichi vocabolari plurilingui cit., pp. 41-44, n. I. Ibid., pp. 117-118, n. XXXV. Cfr. anche J. van der Helm, Il Quinque linguarum del 1534. Il primo dizionario che presenta insieme l’italiano e il nederlandese, «Incontri. Rivista europea di studi italiani», 24/1 (2009), pp. 61-73. 17 Il testo nel Livre des Mestiers viene presentato in colonne verticali parallele, contrariamente al testo del manuale mercantile che è strutturato in coppie di righe orizzontali. 18 J. Gessler, Het Brugsche Livre des Mestier cit., I, pp. 11-15.


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entrambi i testi. Altri punti di contatto si trovano nel campo della religione e dell’etica: entrambi i testi trattano i dieci comandamenti. Contrariamente al Livre des Mestiers però, che è composto specialmente di parti non collegate tra loro, il manuale discusso in questa sede ha più la struttura di un racconto continuo. Sulla base dei risultati dell’analisi presentati fin qui, mi sembra giustificata l’ipotesi che l’autore del manualetto dialogato italo-neerlandese conoscesse la tradizione dei libretti di dialoghi bilingui scritti ad uso dei mercanti, ma non si può affermare che l’autore del testo abbia usato uno specifico libretto di dialoghi come esempio diretto. La relazione con il Livre des Mestiers deve essere vista piuttosto all’interno di un determinato ambiente che non come risultato di un contatto diretto.


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Fig. 1 - Manuale mercantile di conversazione italiano-neerlandese, f. 51r, British Library


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Le comunitĂ tedesche in Italia: problemi di comprensione linguistica e di inserimento


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Durante tutto il Medioevo viaggiatori, pellegrini, chierici, studenti e soldati d’Oltralpe battevano le strade del Bel Paese, ma solo a partire dal XIV secolo si registrò una più massiccia immigrazione di manodopera tedesca in tutta Italia. In precedenza non si erano formate vere e proprie comunità tedesche tranne che in alcune regioni alpine. La stessa definizione di “tedesco” (o “alamanno”, “della Magna”), per quanto potesse sembrare naturale con il solo riferimento alla lingua1, dal 1400 in poi non era più sufficiente, visto che queste comunità – effettivamente distinte anche per cultura – si dividevano nei grandi centri urbani italiani in almeno tre gruppi principali di persone provenienti dalle Fiandre e dall’Olanda, dalla Germania settentrionale o “Magna bassa”, e finalmente dalla “Magna alta” o meridionale. Se da un lato gli stranieri raramente partivano ‘alla cieca’ per l’Italia e si servivano di informazioni di prima mano fornite dai loro connazionali già arrivati (o ritornati), dall’altro il loro numero inizialmente esiguo li costringeva, una volta arrivati a destinazione e raggiunta una certa stabilità, ad adattarsi il più presto possibile alla nuova vita, anche linguisticamente. Si notano comunque vistose eccezioni e differenze tra le varie realtà locali: Venezia era un importante centro del commercio mediterraneo e europeo che ospitava mercanti tedeschi già nella prima metà del XIII secolo – il primo Fondaco dei Tedeschi fu costruito dopo il 1222 – e assorbiva molta manodopera straniera. Ancora, in altre città del Nord troviamo popolazioni miste, in cui italiani e tedeschi abitavano gli uni accanto agli altri, come per esempio a Trento dove a partire dal XII secolo lavoravano molti minatori tedeschi2. 1 «omnes qui nativam alemanicam habent linguam licet alibi domicilium» secondo la definizione dell’università di Bologna (A. Doren, Deutsche Handwerker und Handwerkerbruderschaften im mittelalterlichen Italien, Berlin 1903, p. 8 nota 2). 2 S. Luzzi, Stranieri in città. Presenza tedesca e società urbana a Trento (secoli XV-


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Nei vari ambiti lavorativi, il problema di comprensione linguistica doveva comunque essere all’ordine del giorno. Forse le maggiori difficoltà si verificavano nelle compagnie di ventura trecentesche. Lo storico lombardo Pietro Azario (1312-1367) riferisce, ad esempio, che nelle campagne militari dei Visconti, il condottiere tedesco Albrecht Sterz si intendeva molto bene con i suoi cavalieri inglesi in quanto sapeva un po’ della loro lingua, mentre il famoso conte Corrado di Landau nel 1363 trovò una ignominiosa morte “a piedi” perché i suoi cavalieri ungari non avevano compreso il suo comando «Alt! Alt!» per fermarsi e correre in suo aiuto3. Anche se i cancellieri o segretari dei condottieri usavano abitualmente sia l’italiano che il latino, la lingua usata dai soldati tedeschi nei loro documenti privati rimaneva il tedesco4. A metà Trecento l’interesse degli italiani per questa lingua era molto scarso. Il cronista fiorentino Matteo Villani così scriveva:

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i costumi e’ movimenti della lingua tedesca sono come barberi, e divisati e strani alli Italiani, la cui lingua e le cui leggi, costumi e’ gravi e moderati movimenti, diedono amaestramento a tutto l’universo, e a·lloro la monarcia del mondo. E però venendo l’imperadori dalla Magna col supremo titolo, e volendo col senno e colla forza dalla Magna reggere li Italiani, non lo sanno e no·llo possono fare5.

L’apprendimento della lingua italiana era, perciò, un’assoluta necessità per chi attraversava le Alpi in cerca di una più stabile sistemazione in

XVIII), Bologna 2003 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Monografie, 38), p. 24. 3 Petri Azarii Liber gestorum in Lombardia, ed. F. Cognasso, in R.I.S.², 16/4, Bologna 1925-1939, pp. 128, 163-164 (devo questo riferimento a William Caffero); in generale, cfr. G.M. Varanini, Mercenari tedeschi in Italia nel Trecento: problemi e linee di ricerca, in Kommunikation und Mobilität in Mittelalter. Begegnungen zwischen dem Süden und der Mitte Europas (11.-14. Jahrhundert), cur. S. de Rachewiltz - J. Riedmann, Sigmaringen 1995, pp. 159-178, e, per i problemi linguistici, S. Selzer, Deutsche Söldner im Italien des Trecento, Tübingen 2001, pp. 158-159. 4 Cfr. l’esempio della confessione di un debito con i rispettivi termini di ripagamento tra due soldati tedeschi del 1377 in L. Böninger, Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter, Leiden-Boston 2006, pp. 32-33 nota 56. Quattro lettere italiane del conte Ugo da Montfort del 1397 e di Anisi Filcimberg del 1393 e 1394 si trovano in Archivio di Stato di Firenze (da ora in poi ASF), Carte Del Bene, 49, 33, 48, 71, 72; una lettera latina di «Gerardus primogenitus comitis de Virninburg» ai Signori fiorentini (senza data) in ASF, Ferrantini, Pergamene, 74; una lettera italiana di «Conradus comes de Aychilberg» a Rinaldo Gianfigliazzi (3 aprile, senza l’anno), in ASF, Lettere varie, 10, c. 88. 5 Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani, ed. G. Porta, Parma 1995, I, pp. 588-589. Il topos della lingua tedesca ebbe lunga vita, cfr. P. Amelung, Das Bild der Deutschen in der Literatur der italienischen Renaissance (1400-1559), München 1964, p. 33.


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Italia. È oltremodo difficile distinguere in queste migrazioni tra chi cercava semplicemente la “ventura”, senza ancora aver imparato un mestiere e chi invece, da lavorante o nel periodo del suo garzonato, compiva il suo viaggio di tirocinio in Italia. Questa distinzione acquisì una certa rilevanza soprattutto nella seconda metà del Trecento, quando il movimento confraternale iniziò ad avere un ruolo sempre più centrale nell’organizzazione territoriale e sovraterritoriale degli artigiani tedeschi presenti nella Penisola. La meta preferita nel Quattrocento diventò presto, dopo Venezia, la città di Roma. È a Roma, infatti, che il Papa e la Curia si erano ristabiliti dopo il Concilio di Costanza nel settembre 1420, ed è lì che le numerose comunità straniere si organizzarono poi in nazioni con proprie chiese e una varietà infinita di confraternite devozionali e di mestiere. Bisogna tuttavia rivolgere lo sguardo indietro a Venezia per farsi un’idea della lenta e graduale espansione del movimento; erano infatti gli statuti (la “regola”) della compagnia (“scuola”) dei calzolai tedeschi a Venezia del 1383, composti da un frate agostiniano del convento di Santo Stefano, a servire da modello diretto per tutta una serie di statuti di altre confraternite, come quelle non professionali ma nazionali tedesche di Treviso (1439/1440) e Udine (1449/1450)6, quelle dei calzolai tedeschi di Roma e Firenze (1439, 1448)7, e quelle dei fornai tedeschi di Roma (prima del 1477) e di Napoli (1446)8. Purtroppo soltanto nel caso dei calzolai tedeschi di Firenze, si dispone di alcune lettere (in lingua tedesca) provenienti dall’archivio della loro compagnia che rivelano gli stretti rapporti con altri connazionali in Tirolo, Roma, Lucca e Pisa, a partire dal 14449. Per la maggior parte di queste compagnie, sfortunatamente, oggi non si dispone né di un libro di statuti, né di matricole o di un archivio proprio, il che rende le ricerche sulla loro origine e storia spesso difficoltose. Questo sembra essere pure il caso della confraternita di santa Barbara di

6 La “regula” bilingue della Scuola dei calzolai tedeschi a Venezia del 1383, ed. L. Böninger, con uno studio linguistico di M.G. Arcamone, Venezia 2002, pp. XXIII-XXV. 7 Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., pp. 54, 355-398. 8 K. Schulz - C. Schuchard, Handwerker deutscher Herkunft und ihre Bruderschaften im Rom der Renaissance. Darstellung und ausgewählte Quellen, Rom-Freiburg-Wien 2005, pp. 56-57, 371-394; T. Daniels, Vita comunis in der Fremde, Mobilität und Wissenstransfer: deutsche Handwerker und ihre Statuten in Italien vom 14. bis zum 17. Jahrhundert, «Römische Quartalschrift», 108 (2013), pp. 55-67. 9 C. Paoli, Urkunden zur Geschichte der deutschen Schusterinnung in Florenz, «Mittheilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung», 8 (1887), pp. 455476.


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Ascoli che aveva la sua cappella nella chiesa di Sant’Agostino10. Dall’intitolazione a questa santa si coglie comunque il legame con le altre compagnie tedesche devote a santa Barbara. Bisogna qui innanzitutto ricordare l’omonima, grande confraternita di Firenze che inizialmente era stata anch’essa sotto l’influsso degli agostiniani per sistemarsi poi nel 1445/1446 nella chiesa e convento dei Serviti, la Santissima Annunziata11. Anche i ruffiani e “compagnoni” fiamminghi di Firenze, esclusi evidentemente dai loro connazionali, avevano in questi anni nella piccola chiesa di San Leo una cappella intitolata a santa Barbara12. Altre confraternite tedesche dedicate a questa santa esistevano a Trento13, a Genova14, dal 1441 circa nella chiesa dei Serviti di Perugia15, e, dal 23 novembre 1478, anche a Siena, nella chiesa di San Domenico16. In mancanza di uno studio complessivo delle confraternite tedesche nell’Italia tardo medievale, questo quadro rimane necessariamente provvisorio. La realtà quotidiana della maggior parte dei lavoranti stranieri in Italia era dura, come si intende da una delle giustificazioni per la fondazione della compagnia veneziana del 1383 che doveva conservare la memoria di tutti quei calzolai tedeschi che, nati di buona famiglia («de bona gente nati in partibus suis»), dopo la fine del loro apprendistato si erano imbarcati sulle galee veneziane e avevano poi trovato una morte anonima in mari lontani17. 10 11

G. Pinto, Ascoli Piceno, Spoleto 2013, p. 96. M. Battistini, La confrérie de Sainte-Barbe des Flamands à Florence. Documents relatifs aux tisserands et aux tapissiers, Bruxelles 1931; per il ruolo dei frati agostiniani nell’intermediazione tra tedeschi e fiorentini, cfr. L. Böninger, Das florentinische Kloster Santo Spirito und die deutsche Gemeinschaft im fünfzehnten Jahrhundert, in Via communis und ethnische Vielfalt. Multinational zusammengesetzte Klöster im Mittelalter. Akten des internationalen Studientags vom 26. Januar 2005 im Deutschen Historischen Institut in Rom, cur. U. Israel, Münster 2006, pp. 73-95. 12 Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., pp. 200-201. 13 S. Luzzi, La confraternita alemanna degli zappatori. Lineamenti per una storia della comunità tedesca a Trento fra tardo Medioevo e prima età moderna, parte prima, «Studi Trentini di scienze storiche», 73 (1994), pp. 231-276: 261; parte seconda, ibid., pp. 331-363; parte terza ed ultima: ibid., 74 (1995), pp. 47-92. 14 G. Rossi, Capitoli della consorteria delli forestieri della chiesa delli Servi in Genova dell’anno 1393, «Miscellanea di storia italiana», 11 (1870), pp. 329-344; C. da Langasco P. Rotondi, La ‘consortía delli forestèri’ a Genova. Una Madonna di Barnaba da Modena e uno statuto del Trecento, con una nota di G. Folena, Genova 1957. 15 O. Scalvanti, Statuto della “Societas Germanorum et Gallorum” in Perugia nel secolo XV, «Bollettino della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 5 (1899), pp. 589626: 599, 621. 16 Die Kirchen von Siena, cur. P.A. Riedl - M. Seidel, 2/1.2, Oratorio della Carità - S. Domenico, Textband, München 1992, pp. 463, 606-619, 745-755, 907-909. 17 La “regula” cit., p. XIII.


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È perciò necessario fare i conti con il fenomeno dell’alta mobilità e dei frequenti cambiamenti di occupazione degli immigrati, che non necessariamente e non sempre corrispondevano a semplici logiche di avanzamento o di inserimento sociale. Purtroppo non si sono conservati racconti autobiografici del tardo Medioevo che diano un’idea concreta dei problemi linguistici degli immigrati. È sicuro che gli artigiani e mercanti nel Quattrocento, oltre a usare i libri della nota tradizione di “maistro Zorzi da Norimberga” (Georg von Nürnberg), compilassero anche semplici liste di parole, simili a quella di un dizionario germanico-arabico che tramanda non meno di «188 termini comuni e di vario genere, per lo più sostantivi strettamente connessi all’esistenza e all’esperienza quotidiane»18. Per avere informazioni più concrete su questo problema bisogna però volgere lo sguardo ai tempi moderni, per esempio all’autobiografia di Johann Kaspar Steube (1747-1795), il quale, nell’apparente imprevedibilità dei suoi viaggi, seguì ancora modelli del tutto tardo medievali. Formatosi come calzolaio a Gotha, dopo varie peregrinazioni si imbarcò a Rotterdam per approdare in poche settimane a Livorno, senza sapere una sola parola d’italiano. Appena sbarcato entrò nella bottega di un calzolaio livornese. Indicando con le mani le sue stesse scarpe non riuscì a farsi intendere dal maestro; solo quando il tedesco aveva preso in mano i suoi strumenti del mestiere, il maestro lo portò da un altro calzolaio di nome Corradini. Dopo aver dato una soddisfacente prova della sua perizia, questi gli offrì un lavoro. La dichiarata intenzione di Steube era anche quella di imparare l’italiano; perciò da allora si esercitò alcuni giorni della settimana come calzolaio e dedicò gli altri all’apprendimento della lingua. Dopo quattro settimane, con l’aiuto di un quaderno per i nuovi vocaboli e delle ripetizioni serali, Steube notò orgogliosamente che riusciva a farsi capire assai bene («so ziemlich verständlich machen»)19. Da Livorno egli si recò a Firenze guadagnandosi nel capoluogo la vita come fante e accompagnatore (‘Dominichino’); dopo altri lunghi viaggi ritornò a Gotha per concludere la sua vita come maestro calzolaio e anche come insegnante della lingua italiana. 18 V. Santoro, ‘Teustß uss saracenisse gedolmetzt’. Il lexicon germanico-arabicum della Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 607 (ff. 2r-4r), «Medioevo e Rinascimento», 13 / n. ser., 10 (1999), pp. 271-292: 271; più in generale, cfr. gli atti del convegno Fremdsprachen und Fremdsprachenerwerb, cur. Kristian Bosselmann-Cyran, «Das Mittelalter», 2 (1997), con una ricca bibliografia e una particolare attenzione al mondo dei pellegrini a Gerusalemme nel tardo medioevo. 19 J.K. Steube, Von Amsterdam nach Temiswar. Wanderschaften und Schicksale, Berlin 1984², pp. 66-67.


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Un racconto più semplice è quello presentato da un giovane della città di Aquisgrana, tale Johannes Krach, che negli anni intorno al 1464 da Firenze descriveva, in una lunga lettera, la sua esperienza italiana. L’occasione del relativo scambio epistolare si era aperta con il ritorno di un lavorante tessitore ad Aquisgrana che avrebbe riferito ai suoi familiari e sarebbe poi nuovamente ritornato a Firenze, con la loro risposta. Secondo il testo, Krach aveva inizialmente soggiornato per diciassette mesi a Roma, dove aveva conosciuto la misera vita dei lavoranti stranieri e sofferto il clima insàlubre. Aveva perciò lasciato la Città Eterna vagando per il paese («dat land besucht»). In queste sue peregrinazioni aveva incontrato un non meglio definito uomo dotto, al cui servizio era rimasto, imparando verosimilmente il latino. Grazie all’amicizia di questo dottore con un ignoto vescovo, Krach fu nominato notaio (evidentemente il vescovo possedeva anche la dignità di conte palatino). Solo in seguito si era trasferito a Firenze dove aveva “acquistato” un ufficio, cioè quello di scrivano alla corte della Mercanzia. Da allora Krach guadagnava tre ducati al mese, era ben vestito e rispettato. Nel caso che avesse dovuto lasciare il suo posto, era sempre pronto a ripartire per Roma. In ogni caso era deciso a non ritornare ad Aquisgrana se non “onorevolmente”. Alla fine del suo incarico Krach rimase invece a Firenze guadagnandosi la vita come copista di manoscritti e morì verosimilmente nel 147120. Non a caso questa lettera – o piuttosto la sua minuta – è conservata nei ricchissimi archivi fiorentini, nei quali si possono studiare molti aspetti della società comunale tardo medievale, anche con riguardo all’immigrazione tedesca. Narrazioni di viaggi attraverso l’Italia, senza un evidente scopo e senza i colpi della benevole fortuna, abbondano soprattutto negli atti ufficiali dei giusdicenti fiorentini, in cui vengono descritti – sempre dopo un’attenta inquisizione e spesso con dettagli curiosi – tutte le malefatte degli stranieri senza fissa dimora, i cosiddetti “vagabondi”, nei vari luoghi da loro visitati. Alla fine dei processi potevano naturalmente capitare anche errori giudiziari, dovuti forse proprio ai problemi di comprensione linguistica, come quando l’11 gennaio del 1455 un tale Arrigo di Piero della Magna fu giustiziato, «quale si disse era falsatore di 14 grossi che gli furono dati da un altro, e così morì innocento»21. Gli stessi atti, tuttavia, stilati secondo un rigoroso protocollo, di solito non accennavano a questi problemi, con l’eccezione dei tribunali delle corporazioni. Nel Libro dei testimoni dell’Arte della Lana fiorentina negli anni dal 1412 al 1415, ad 20 21

Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., pp. 293-298. Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, ms. II, I, 138, ad diem (senza paginazione).


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esempio, gli interpreti dei tessitori nordici erano spesso le loro stesse mogli italiane, che appartenevano ai ceti più poveri della società cittadina22. Un caso forse non tanto singolare fu discusso nella primavera del 1438 nella corte della Mercanzia in relazione al sequestro preventivo di un mulo presso un albergatore fiorentino, tale Filippo del Ciccia. Questi contestò lo “staggimento”, in quanto un suo lavoratore, tale «Federigo d’Alemagna famiglio del detto Filippo albergatore», non aveva ben compreso l’atto amministrativo; in seguito il mulo era stato illegittimamente reso ai suoi primi proprietari, due merciai di Perugia. Il gioco di squadra tra l’albergatore e il suo sottoposto tedesco resse però poco. Dopo una delicata inquisizione, con l’aiuto di un interprete (presumibilmente è da interpretare in questo senso la frase «il domandò per lectera se lui intendeva la lingua ytaliana»)23, Federico giurò infatti «contro ogni verità» di non «intendere la lingua ytaliana» e fu presto smentito, «cum ciò sia cosa che luy intenda la lingua ytaliana et sapia parlare molto bene, et questo per aiutare il dicto Philippo che non fusse constrecto ad alcuna cosa pagare o satisfare». Seguendo una strategia forse concordata o comunque molto comune, prima della sentenza Federico fuggì da Firenze. Egli fu condannato il 19 luglio 1438 in contumacia a una multa di cento lire; a quanto sembra, nessuna condanna fu invece inflitta al suo datore di lavoro24.

22 F. Franceschi, La mémoire des laboratores à Florence au début du XVe siècle, «Annales ESC», (1990/5), pp. 1143-1167: 1144. 23 Per tutto il Quattrocento, la Mercanzia impiegava donzelli tedeschi che sapevano anche scrivere ambedue le lingue; uno di loro, Niccolò di Lorenzo della Magna, dopo il suo incarico pubblico diventò un prolifico stampatore. 24 «Et dapoi a dì … del mese di marzo proximo passato, essendo convenuto dinanzi da messer l’officiale et del offitio suo il decto Filippo et domandato che lui dovesse consignare il decto mullo overo pagare il debito per lo quale era stagito et nel quale era dampnificato li dicti creditori, esso Filippo negò may avuto saputo alcuna cosa del predecto stagimento et disse che se alcuno stagimento fosse stato facto alla casa, alla p(resenz)a del famiglio suo non era venuto a sua notitia né etiamdio il decto famiglio aveva inteso dicto stagimento perché non intende / la lingua nostra ytaliana, dicendo questo potersi chiaramente comprendere per examinatione del dicto famiglio, et dipoi requirendo il dicto misser offitiale che a la sua presentia fusse facto venire il dicto famiglio per chiarificatione della veritade, il dicto Filipo albergatore, et non havendo Dio dinanzi agli ochi nella reverentia della divina magestà, ma l’enimico de l’umana natura, cum animo et intentione di commetere et fare commetere l’infrascripta falsità et lo infrascripto spergiuro et delicto, fece venire quello famiglio nomine Federigo d’Alemagna dinnanzi al decto misser offitiale cum informatione et gubernatione et contaminatione che dovesse fingere et simulare non intendere la lingua ytaliana. Et così comparso dinanzi a misser l’offitiale et domandato in lingua ytaliana d’alchune cose et non respondendo al proposito come persona che non intendesse il dicto misser offitiale, il domandò per lectera se lui intendeva la lingua ytaliana et se may il decto Antonio di Francesco messo della presente corte aveva facto il decto stagimento, il quale


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Il termine “lingua italiana” non era così diffuso. Mentre in Lombardia si poteva scrivere che un mercante di Norimberga parlava “bonum Lombardum”25, nel capoluogo toscano naturalmente si trova anche il “fiorentino”, come per esempio nel 1439, quando un tessitore di nome Ormanno di Giovanni da Colonia era chiamato dagli Ufficiali della Notte e Conservatori dei Monasteri a tradurre per un certo ruffiano fiammingo arrivato a Firenze per arricchirsi durante il grande concilio della Chiesa26. L’inserimento degli immigrati tedeschi nelle diverse realtà locali si articolava in varie fasi, durante le quali la conoscenza della lingua non era sempre una condizione imprescindibile per trovare un lavoro. Ad esempio, nelle ricordanze del frate Giuliano di Nofri Benini, cavaliere di San Giovanni e commendatario della “magione” di San Iacopo in Campo Corbolini, per il 1425 e 1427-1429 si trovano le spese minute sostenute per un suo fante che era arrivato al seguito di un ambasciatore fiorentino ritornato dall’Ungheria e da Venezia il quale «non sapea parlare ‘taliano». Dopo aver imparato le prime nozioni questo “Arrigho di Cristiano della Magnia” avrebbe accompagnato il religioso in viaggio a Venezia, Rodi, Modone, Corfù, Ragusa e Treviso27.

famiglio rispose che may non aveva veduto questo messo et che lui non intendeva la lingua ytaliana. Et così dato a lui il giuramento per misser l’offitiale giurò non intendere la lingua ytaliana, giurando contro ogni verita cum ciò sia cosa che luy intenda la lingua ytaliana et sapia parlare molto bene, et questo per aiutare il dicto Philippo che non fusse constrecto ad alcuna cosa pagare o satisfare, le quali cose et ciascuno di quelle furono perpetrate et commesse per li sopradicti et ciascuno di loro sciente(r), dolose, falsa et malitiosamente contro ogni verità, in vilipendio et offesa grandissima della divina magestà et in dampno et pregiuditio di decti creditori et in grave preiuditio de l’anima de’ predecti et ciascuno di loro, et in vilipendio et offesa del magnifico et potente comune di Firenze et del offitio et corte del decto misser offitiale» (ASF, Mercanzia, 11918, ad diem). 25 W. Schnyder, Handel und Verkehr über die Bündner Pässe im Mittelalter zwischen Deutschland, der Schweiz und Oberitalien, Zürich 1973-1975, n. 359 (cit. da U. Israel, Fremde aus dem Norden. Transalpine Zuwanderer im spätmittelalterlichen Italien, Tübingen 2005, pp. 49, n. 87, e 103). 26 «et audito dicto Iohanne olim leno et ruffiano predicto dicte Giannette [Iohannis de Flandria olim meretricis] et quia non bene scit loqui nec bene intelliget linghuam florentinam, pro eo Ormanno Iohannis de Colonia habitatore Florentie in populo Sancti Tomasii loquelam utramque, videlicet florentinam et dicti Iohannis Gherardi, bene intelligente et loquente, qui Ormannus tamquam interpres ea que per dictum Iohannem loquebatur exponebat et referabat dictis Offitialibus [...]» (ASF, Giudice degli Appelli e Nullità, 80, cc. 151-152). Ormanno di Giovanni viveva a Firenze da almeno un ventennio (ASF, Notarile antecosimiano, 15115, ad diem 6 februarii 1418[9]) e aveva allora 74 anni; il più giovane fiammingo fu incarcerato e poi liberato soltanto nel 1440 (ASF, Provvisioni Registri, 130, c. 344r-v). 27 ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 132, 484, cc. 27v, 94v,


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In grandi centri come Firenze, e indubbiamente anche altrove, esistevano intermediari professionali chiamati “accattafanti” che per pochi denari procuravano umili lavori domestici ai nuovi arrivati e a volte anche alle nuove arrivate. Molta forza lavorativa non qualificata veniva inoltre assorbita nelle cosiddette “famiglie” dei giusdicenti degli emergenti stati territoriali nelle città e castelli dominati, cioè come semplici soldati, guardie o, per esempio a Pisa, come “compagnoni” sulle galee comunali28. Il pernottamento in una delle confraternite tedesche nazionali o di mestiere era solitamente possibile solo a poche persone e per un breve periodo. Tuttavia in tutta la penisola italiana albergatori tedeschi esercitavano il loro mestiere e le loro locande funzionavano da riparo alternativo per i loro connazionali29. A Firenze si è conservato un libro bilingue di conti di un oste tedesco, tale Giuliano d’Arrigho da Colonia30. Alla prima fase di orientamento del nuovo arrivato seguirono i primi passi nell’occupazione scelta, per i più fortunati come lavorante presso un maestro in una bottega. Nei rari casi che il lavoratore tedesco portasse con sé un certo capitale o avesse già imparato un mestiere, i tempi dell’inserimento professionale si accorciavano considerevolmente, il che di solito avveniva con l’immediata iscrizione in una delle corporazioni di mestiere. Un importante passo verso il pieno inserimento anche sociale era il matrimonio che da parte sua era soggetto alle leggi del mercato, cioè in relazione alle aspettative lavorative ‘oggettive’ dell’immigrato e alle sue soggettive pretese economiche rispetto alla dote della sua eventuale moglie. Come nelle famiglie più altolocate, anche negli strati più umili della società e in particolare tra i poveri immigrati tedeschi, queste scelte erano presumibilmente affidate ad intermediari. Solo raramente si riesce a individuare un intervento ‘dall’alto’, per esempio da parte del primo citta-

98r, 99v,112r. Per il Benini, cfr. L. Sebregondi, San Jacopo in Campo Corbolini a Firenze, Firenze 2005, pp. 53-71. 28 Come nella Mercanzia (cfr. nota 23), anche nel Palazzo della Signoria fiorentina, Palazzo Vecchio, lavoravano degli stranieri come impiegati. Durante la visita dell’imperatore Federico III d’Asburgo nel 1452 toccava quindi proprio ai «famigli de’ Signori che avevan la linghua tedesca et unghera et il latino» a svolgere il lavoro degli interpreti (ASF, Carte Strozziane, ser. II, 16bis, Ricordanze di Francesco di Tommaso Giovanni, c. 14r). 29 Cfr. soltanto Israel, Fremde aus dem Norden cit., pp. 75-76, 159-161 (per Treviso); Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., pp. 117-122 (per Firenze); Schulz-Schuchard, Handwerker cit., p. 39 (per Roma); M. Tuliani, Osti, avventori e malandrini. Alberghi, locande e taverne a Siena e nel suo contado tra Trecento e Quattrocento, con una prefazione di G. Cherubini, Siena 1994, pp. 112-113; S. Duvia, “Restati eran thodeschi in su l’hospicio”. Il ruolo degli osti in una città di confine (Como, secoli XV-XVI), Milano 2010. 30 Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., p. 122.


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dino di Firenze, Lorenzo de’ Medici31. In Toscana, un tessitore, calzolaio, fornaio o lavorante tedesco poteva normalmente aspirare a una moglie connazionale (meglio se era vedova), a una giovane orfana del contado oppure a una schiava domestica liberata; queste ultime portavano a volte doti più alte rispetto alle più povere ragazze locali. Di nuovo le confraternite nazionali – come le arti professionali nei centri più piccoli – potevano giocare un ruolo essenziale nella definizione dei termini di questi matrimoni, così lontani dai parentadi delle grandi famiglie. Molto spesso, infatti, sono gli atti notarili riguardanti la ricezione della dote e non i primi contratti di locazione di una casa o bottega, a documentare la presenza di un immigrato in città. Non di rado lo sposo insieme con i suoi confratelli e/o connazionali garantivano la conservazione della dote alla sposa e ai futuri eredi. In altri casi la confessione della dote era immediatamente seguita dal testamento dello sposo per salvaguardare i diritti di tutti32. Esistevano naturalmente delle eccezioni. Una fonte privilegiata per studiare l’inserimento linguistico e sociale degli artigiani stranieri nel tessuto urbano tardo medievale, è costituita indubbiamente dalle fonti fiscali che, proprio a Firenze con i registri del famoso Catasto (a partire del 1427), hanno ispirato negli ultimi decenni studi e ricerche sempre più approfonditi sulla società cittadina33. Nel primo Catasto, quello del 1427, sono una novantina le cosidette “portate” dei lavoratori tedeschi, di cui però solo una minima parte autografa in quanto i tessitori di lana tedeschi risultavano quasi tutti analfabeti. Quando però dalla composizione della famiglia, o da altre attestazioni, si può dedurre che il capo famiglia abitasse già da qualche tempo a Firenze, le dichiarazioni italo-tedesche rivestono un certo interesse linguistico, come per esempio nel caso del ‘miserabile’ tessitore Ludovico di Niccolò da Colonia che viveva a Firenze almeno dal 141734. Due portate del 1427

31 Per il suo ruolo di “match maker”, cfr. F. Guidi Bruscoli, Politica matrimoniale e matrimoni politici nella Firenze di Lorenzo de’ Medici. Uno studio del Ms. Notarile antecosimiano 14099, «Archivio Storico Italiano», 155 (1997), pp. 347-398. 32 Cfr. un esempio del 1434 in ASF, Notarile antecosimiano, 5233, c. 159r-v. 33 D. Herlihy - C. Klapisch-Zuber, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna 1988. Per il lavoro della scuola sociologica di Chicago, cfr. J. F. Padgett - P. McLean, Economic Credit in Renaissance Florence, «The Journal of Modern History», 83 (2011), pp. 1-47 (con gli altri studi ivi citati). 34 ASF, Catasto, 344, cc. 93-94 (Santo Spirito, Drago, 1431); Catasto, 430 (1433), c. 66r. Questo tessitore risultava presente a Firenze già nel 1417 (ASF, Notarile antecosimiano, 19628, c. 85r), ma la sua prima portata al Catasto del 1427, quando aveva già 37 anni, non era autografa (ASF, Catasto, 25, c. 219). Visse fino al 1456 e confessò la ricezione della


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furono stese dai procuratori fiorentini dei lavoranti stranieri che avevano dichiarato di non saper scrivere italiano, «ma tedesco sì»35. Dell’ultimo di questi due, il calzolaio Brigoldo di Giovanni della Magna, si è però accertato che risiedesse a Firenze da almeno quattro anni36. Il veloce apprendimento di una lingua straniera non era quindi alla portata di tutti anche se forse per la professione di tessitore, calzolaio, muratore, sarto, fornaio o cuoco la conoscenza della lingua era – almeno inizialmente – secondaria37. Si è già fatto cenno ai traduttori chiamati ad hoc, ma non al fatto che una corporazione così importante per l’industria fiorentina come l’Arte della Seta o Arte Por Santa Maria ne aveva addiririttura quattro, di cui tre erano tedeschi e uno francese. Due di essi si erano precedentemente esercitati nel commercio dei cavalli, mestiere molto praticato dai tedeschi in Italia e legato a quello degli albergatori38. Di un notaio fiorentino, ser Bartolomeo di Bambo Ciai, è accertato che sapesse scrivere e parlare il tedesco, motivo per cui molti fiamminghi, olandesi e tedeschi lo ricercavano per la stesura dei loro atti. Nelle sue imbreviature i nomi degli stranieri e le loro provenienze risultano infatti molto più accurati che non in quelle degli altri notai fiorentini39. A Roma si sono conservati addirittura i rogiti di un notaio tedesco, tale Iohannes Michaelis Haunschilt da Straubing in Baviera, per gli anni dal 1467 al 1494; in essi alcune forme della sua ortografia si sono fedelmente mantenute (come per esempio la dieresi, l’Umlaut)40. Prima di concludere vale forse la pena di accennare a un’ultima que-

dote della sua seconda moglie soltanto poco prima di morire (ASF, Notarile antecosimiano, 15420, c. 165r, cfr. cc. 172v, 173v-174r). 35 ASF, Catasto, 49, c. 717r (Giovanni d’Ormanno della Magna «choregiaio di choregie di peltro in Borgho Sa’ Lorenzo»); Catasto, 48, c. 567r (Brigoldo di Giovanni della Magna calzolaio: «Io Nicolò di Frizi chalzolaio ò fatta questa scritta a pregiera del sopradetto Bregoldo ché no’ sapeva iscrivere egi italiano»; Niccolò di Frizzi era tedesco da parte del padre). 36 Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., p. 210 (per l’interessante testamento del 1433, cfr. pp. 212-213). 37 Una seconda fonte utile per studiare l’italiano dei tedeschi sono i grandi carteggi, per esempio l’Archivio Mediceo avanti il Principato in cui si trovano numerose lettere di artigiani d’oltralpe (per esempio ASF, Mediceo Avanti il Principato, XVI, 324; XXIII, 30 etc.). 38 Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., p. 116. 39 Ibid., p. 173. 40 A. Esch, Un notaio tedesco e la sua clientela nella Roma del Rinascimento, «Archivio della Società romana di storia patria», 124 (2001), pp. 175-209; Schulz - Schuchard, Handwerker deutscher Herkunft cit., pp. 149-172 (soprattutto sui fornai tedeschi); A. Esch, Deutsche im Rom der Renaissance. Indizien für Verweildauer, Fluktuation, Kontakte zur alten Heimat, in Kurie und Region. Festschrift für Brigide Schwarz zum 65. Geburtstag, cur. B. Flug - M. Matheus - A. Rehberg, Stuttgart 2005, pp. 263-276: 273.


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stione che meriterebbe di essere indagata più a fondo, cioè il problema della validità della documentazione contabile prodotta dagli stessi artigiani e mercanti tedeschi. A Firenze ciò interessava soprattutto la giurisdizione della corte della Mercanzia, ma non solo41. Sappiamo di casi in cui la stessa corte accettava i libri di conti in lingua tedesca, come per esempio nel 1477 quello di un mercante di Norimberga, Hans Praun42. Nonostante un suo precedente, lungo soggiorno a Firenze, l’italiano di questo mercante era rimasto mediocre come si può vedere da un suo libro di ricordanze oggi conservato nella biblioteca comunale di Norimberga, nel quale elencava alcuni vocaboli italiani accanto alle loro traduzioni43. Nel 1509, quando le migrazioni di massa degli artigiani tedeschi in Italia erano ormai un lontano ricordo, il fiorentino Francesco Vettori si trasferì per una missione diplomatica in Austria e nella Germania meridionale. Nel suo resoconto si legge anche il racconto di un perugino (ser Ciabatella) che viveva a Innsbruck:

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[questi] spesso se n’andava a un munistero de’ frati conventuali di San Francesco, che era poco fuori del castello. E, come interviene a chi pratica in un luogo, prese grande familiarità con uno d’essi frati, chiamato Ulrico. Et, ancora che ser Ciabatella non intendessi tedesco né il frate italiano, parlavano insieme una certa gramatica grossa in modo s’intendevano44.

Questa “gramatica grossa” consisteva verosimilmente nel fatto che ognuno dei due usava la lingua sua, improvvisando e instaurando un processo di reciproca intesa, concetto chiamato tandem nell’odierna glottodidattica. Sebbene oggi di questa pratica non c’è, e non ci potrebbe essere rimasta, traccia nelle biblioteche e negli archivi, indubbiamente essa era in assoluto il metodo più diffuso nel Medioevo per stabilire rapporti umani e imparare una lingua nuova.

41 Ad Arezzo si è conservato un libro tedesco di conti di un coiaio di Strasburgo, tale maestro Niccolò di Niccolò della Magna, che dopo la sua morte servì a conteggiarne l’eredità (Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., pp. 253-254). 42 ASF, Mercanzia, 317, c. 108r, per un debito del merciaio Antonio di Marchionne Malegonelle (cit. da Böninger, Die deutsche Einwanderung cit., p. 270 nota 69); Mercanzia, 7247, ad diem 20 augusti, per un altro debito di Filippo di Domenico d’Agostino vaiaio registrato nello stesso libro Debitori e creditori ‘A’. Non è escluso che all’interno del libro, i debitori fiorentini avessero firmato i loro debiti nei confronti di Praun di propria mano, come accadeva spesso nelle “ricordanze”. 43 Nürnberg, Stadtbibliothek, ms. Amb. 22 - 8°, cc. 128v-129r (cfr. H. Pohl, Das Rechnungsbuch des Nürnberger Grosskaufmanns Hans Praun von 1471 bis 1478, «Mitteilungen des Vereins für Geschichte der Stadt Nürnberg», 55 [1967-1968], pp. 77-136: 126). 44 Francesco Vettori, Scritti storici e politici, ed. E. Niccolini, Bari 1972, p. 83.


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La dimensione culturale plurilingue nell’Adriatico orientale (secoli XI-XV)


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1. L’Adriatico in generale e l’Adriatico orientale, in particolare, costituiscono uno spazio di confine e di confluenza tra modelli di civiltà del Mediterraneo e d’Europa1. Una linea di frattura o, volendo, una faglia, dove alle linee divisorie tra Romania/Italia e Slavia si è sommato per secoli il confine tra confessioni e il confine politico tra i domini di Venezia e quelli croati e ungheresi e poi tra la Serenissima, gli Asburgo e gli ottomani. L’Adriatico orientale andrebbe studiato come uno spazio a sé, come un problema storico e storiografico nell’ambito del Mediterraneo e d’Europa2. Più nello specifico, e come spunto di discussione, credo sia opportuna una linea interpretativa dei confini tra un’Italia e una Slavia adriatica, da intendersi come spazi linguistici, culturali e di identità/identificazione, dal tardo medioevo alla contemporaneità. Si sa che la più attenta linguistica storica muove seri dubbi in merito alla continuità storica di una lingua, di un medium linguistico, per non parlare di denominazioni in senso nazionale e contemporaneo di idiomi nello spazio balcanico (croato, serbo, bosniaco, montenegrino, macedone, bulgaro). Condivido pienamente lo scetticismo verso la classificazione «una volta per tutte» di lingue3. Tuttavia, e le fonti lo provano, nel litorale adriatico orientale, ci fu una continuità di situazioni in cui è stata documentata la presenza di lingue e parlate riferibili all’italiano e all’odierno croato/serbo/bosniaco4. Naturalmente, si sa, lingua non significa identità. Semmai, c’è la costante, fino al secondo Novecento, del plurilinguismo. A 1 Questo saggio riprende alcune parti del libro E. Ivetic, Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900), Roma 2014. 2 Ibid.; G. Bosetti, De Trieste a Dubrovnik: une ligne de fracture de l’Europe, Grenoble 2006. Cfr. inoltre Histoire de l’Adriatique, dir. P. Cabanes, Paris 2001. 3 S. Kordiæ, Wörter im Grenzbereich von Lexikon und Grammatik im Serbokroatischen, München 2001; S. Kordiæ, Jezik i nacionalizam, Zagreb 2010. 4 P. Skok, Slavenstvo i romanstvo na jadranskim otocima. Toponomastièka ispitivanja,


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parte le lingue, nell’Adriatico orientale, come in poche altre zone del Mediterraneo, si ripropongono nel tempo confini politici che hanno ricalcato la tradizionale dicotomia litorale/entroterra, la distinzione tra regioni marittime (mediterranee) e continente5. Confini permeabili, e lo si nota nelle fonti della quotidianità (negli scambi commerciali), ma anche rigidi limites tra Stati, nonché fattori d’identificazione collettiva di intere comunità negli scontri bellici o durante le emergenze epidemiche. Di certo, la frontiera e il confronto con l’altro hanno fatto da coagulante nella definizione o auto-definizione di una o più comunità nelle terre adriatiche orientali; nella definizione o auto-definizione di quell’ethnos, termine assai controverso, che in sé ha racchiuso altre diversità, amalgamate e omologate da processi di identificazione collettiva proprio in virtù del confronto con il confine/frontiera/altro. Appunto: identificazione, che si preferisce rispetto all’ineffabile e di per sé statico concetto di identità di una comunità. In altre parole, comunità, popolo, nazione non sono che contesto e testo di un’identificazione collettiva6. Se questa è la parte teorica, per forza spesso ipotetica, del ragionamento qui proposto, all’opposto, la parte concreta del discorso riguarda le terre di confine, che hanno una precisa definizione storica amministrativa, dal medioevo ad oggi: province, comuni, contadi, feudi. Contesti che possono racchiudere in sé zone di contatto, compresenze tra aree linguistiche e culturali diverse, tra modelli sociali diversi, certo variabili, definiti secondo criteri coevi o a posteriori; oppure possono esse stesse costituire una zona di contatto. Ad un livello più circoscritto, le relazioni, il contatto, si realizzano e si riscontrano (e sono documentabili) attraverso una serie di situazioni di convivenza, tra diversità linguistiche e sociali; situazioni, a loro volta, connotate da molteplici combinazioni di convivenza tra diversità linguistiche, culturali e sociali. Le terre di confine, in cui si incontrano l’Italia e la Slavia riguardano in concreto l’Istria e la Dalmazia, due regioni (province) storiche dell’Adriatico, per secoli luoghi di molteplici confini. Non considero qui la complessa problematica dei confini italiani/friulani/sloveni nel Friuli, tra Friuli e Carniola e nella contea di Gorizia. Né Trieste, le relazioni italianeslovene tra la città e il suo ristretto entroterra, poiché è un caso a sé, incentrato sulla città, caso ormai delineato sul piano storico e storiografico. Lo stesso discorso vale per Fiume e la sua vicenda. E non mi soffermo in

Zagreb 1950. Cfr. pure E. Banfi, Linguistica balcanica, Bologna 1985; Banfi, Storia linguistica del Sud-Est europeo. Crisi della Romania balcanica tra alto e basso Medioevo, Milano 1991. 5 Ivetic, Un confine nel Mediterraneo cit., pp. 63-74. 6 R. Brubaker, Ethnicity without groups, Cambridge (Mass.) 2004.


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modo diffuso sul caso di Ragusa, città plurilingue, poiché anch’essa è dotata di storia specifica e riconoscibile, simile ma a sé, per alcuni secoli, rispetto alla Dalmazia7. L’Istria e la Dalmazia, insomma, proprio per la loro territorialità, il loro essere regionale spiccatamente mediterraneo, sembrano due segmenti esemplificativi del modello Adriatico orientale.

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2. E per comprendere la dimensione culturale plurilingue dell’Adriatico orientale nei secoli XI-XV va considerata l’intera vicenda storica di questo litorale nell’evo di mezzo8. Con la pace di Aquisgrana dell’812, l’Adriatico divenne un mare di confine tra l’impero romano d’Oriente e l’impero di Carlo Magno9. Bisanzio mantenne i suoi possessi in Puglia, nelle lagune venete, in Dalmazia e nell’attuale Albania. Carlo Magno ebbe la sovranità sull’Istria, sull’Italia centro-settentrionale e il protettorato sulle terre croate fino al fiume Narenta. Da Aquisgrana in poi, l’Adriatico nord-orientale ebbe un percorso storico divergente rispetto al medio e basso litorale. L’Istria, nel Sacro Romano Impero, fu accorpata agli assetti germanici: negli anni 952-976 divenne provincia sotto il vasto ducato di Baviera, posseduta da dinastie tedesche. Così fino al Duecento. La Dalmazia era rimasta un tema bizantino e, come Venezia, continuò a riconoscere la sovranità formale di Bisanzio per altri tre secoli10. Le vicende storiche dell’Istria e della Dalmazia si riavvicinarono solo nel XV secolo, in un’altra epoca, sotto il segno di Venezia. La spedizione del doge Pietro II Orseolo in Dalmazia, nell’anno Mille, non fu una conquista quanto un’operazione per ribadire il prestigio marittimo di Venezia nell’Adriatico orientale. Non fu ancora sovranità, poiché la sovranità era quella bizantina, tuttavia, l’evento avviò l’età in cui Venezia divenne egemonica nel contesto del mare, nella navigazione, nei traffici e nella forza navale. Di fatto, dall’XI secolo l’Adriatico comincia a trasformarsi in golfo di Venezia (così chiamato nelle fonti del XII secolo), una città, potenza navale e commerciale, in grado di mettere al bando piraterie varie e garantire la stabilità lungo i vettori di scambio. Questa affermazio7 B. Krekiæ, Dubrovnik in the 14th and 15th centuries. A city between East and West, Norman (Ok) 1972; B. Krekiæ, Dubrovnik. A Mediterranean urban society, 1300-1600, Aldershot-Brookfield (Vt) 1997. 8 Ivetic, Un confine nel Mediterraneo cit., pp. 34-42. 9 G. Ortalli, Il ducato e la ‘civitas Rivoalti’: tra carolingi, bizantini e sassoni, in Storia di Venezia, I, Origini, Età ducale, cur. L. Cracco Ruggini - M. Pavan - G. Cracco - G. Ortalli, Roma 1992, pp. 725-789. 10 N. Budak, Prva stoljeæa Hrvatske, Zagreb 1994.


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ne di Venezia ha consolidato il ruolo della comunicazione adriatica nel mondo mediterraneo; per molti aspetti, Venezia aveva integrato ulteriormente l’Adriatico nel Mediterraneo orientale. Allo stesso tempo, sul mare si affacciavano soggetti territoriali del Sacro Romano Impero, come l’Istria, marchesato imperiale dal 1060, sempre sotto dinastie tedesche. Le città della penisola si adeguarono e riconobbero, attraverso patti, il primato marittimo di Venezia; ma continuavano ad appartenere al mondo germanico. In Dalmazia, per le città bizantine c’era l’alternativa del regno di Croazia, che tuttavia non ebbe consistenza per maturare come potentato locale. Il passaggio dinastico della corona croata ai re d’Ungheria, agli Arpad, nel 1102, cambiò definitivamente le cose nell’entroterra11. Il regno danubiano, ingrandito e divenuto marittimo, entrò in competizione con Venezia, aprendo un lungo periodo di contrasti per il dominio sulle città dalmate, alcune ancora formalmente bizantine, ma investite dal processo dello sviluppo comunale e decise a conservare il più possibile la propria autonomia. In un Mediterraneo segnato dalle crociate e dal dominio economico di Bisanzio, per Venezia divenne indispensabile il saldo possesso, senza concorrenti, della costa dalmata. La sovranità di Costantinopoli non era messa in discussione nel basso litorale adriatico. Nel 1060/70, erano pienamente funzionanti i temi di Dalmazia e di Durazzo, anche se, laddove c’è l’odierno Montenegro, a partire dal 1035 emerse la Zeta, una compagine dalla forte autonomia. Antivari, sede metropolitana della chiesa ortodossa e capoluogo della Dioclea e della Zeta, divenne sede arcivescovile cattolica nel 1089, per volontà di papa Gregorio VII e in stretta relazione con il vescovato di Bari. Più a meridione, Durazzo si mantenne come caposaldo bizantino, salvo una parentesi macedone nel 989/1005. Nel corso dell’XI secolo ci furono insurrezioni popolari nella Zeta e in quella che cominciava ad essere indicata come Albania, Arberia, terra degli albanesi12. La geografia dell’Adriatico orientale nel 1102, un anno importante, vedeva dunque allinearsi il Sacro Romano Impero, con il marchesato dell’Istria, Venezia padrona del mare, con navi e uomini che imponevano patti commerciali alle città rivierasche, l’Ungheria che era giunta al mare, proprio in quell’an-

11 T. Raukar, Hrvatsko srednjovjekovlje. Prostor, ljudi, ideje, Školska knjiga, Zagreb 2007 (1997); N. Budak - T. Raukar, Hrvatska povijest srednjeg vijeka, Zagreb 2006. 12 A. Ducellier, La façade maritime de l’Albanie au Moyen Âge. Durazzo et Valona du XIe au XVe siècle, Thessalonique 1981; Ducellier, L’Arbanon et les Albanais au XIe siècle, in Ducellier, L’Albanie entre Byzance et Venise, Xe-XVe siècle, London 1987, pp. 353-368.


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no, accorpando la corona di Croazia, e ancora Bisanzio, tra Dalmazia e Durazzo; e poi i nuovi soggetti come la Zeta, la Rascia, ovvero Serbia, e l’Albania, che si protendevano verso la costa, comunque sotto l’egida bizantina. L’Adriatico come dimensione della comunicazione fu essenziale per lo sviluppo politico di ciascuno di tali contesti. Un’Europa ai confini tra cristianità occidentale e quella orientale. Venezia, Ungheria e Croazia e Bisanzio si alternarono nelle lotte per il controllo delle città dalmate. Una competizione per un tratto di mare senza eguali nel Mediterraneo del XII secolo, se si eccettua la Terra Santa. L’ultimo momento della sovranità bizantina sulle città dalmate si ebbe nel 1180/85, a sei secoli dall’età di Giustiniano13. I veneziani, ormai del tutto proiettati verso l’Egeo e il Levante, decisero di conquistare Zara, città chiave, e di instaurare un dominio duraturo. L’occasione si concretizzò nel 1202, con la quarta crociata, quando Venezia e i crociati franchi misero sotto assedio e portarono alla capitolazione la città dalmata14. Fu il precedente della caduta di Bisanzio in mano agli occidentali nel 1204: una svolta per il Mediterraneo, per i Balcani e ovviamente per l’Adriatico. Il dominio di Venezia si estese sulle isole dalmate e su Ragusa. Tra il 1202/1204 e il 1358 possiamo parlare di una prima sovranità del Comune Veneciarum su parte della Dalmazia, sovranità segnata da ripetute insurrezioni di Zara. Nel primo Trecento, con il crollo del potere dei conti croati di Bribir, Venezia ampliò il suo dominio su Traù e Sebenico (1322), su Spalato (1327) e Nona (1329). Ma questo rafforzamento durò un paio di decenni. L’alternativa dell’Ungheria e Croazia e il desiderio di una maggiore autonomia stavano lacerando le città dalmate, con divisioni interne tra fazioni filoungheresi e filo-veneziane. Lo scontro tra Venezia e Ungheria fu inevitabile. Dopo quasi quattro secoli di sovranità tedesca, nel 1209, il marchesato dell’Istria divenne possesso del patriarca di Aquileia. Solo nel 1267, con la dedizione volontaria della città di Parenzo, iniziò l’espansione di Venezia nella penisola. Tramite dedizioni, più o meno indotte, il Comune Veneciarum impose la sua sovranità sulle principali città: Capodistria, Pola, Cittanova, Pirano, Rovigno, Montona15. La diretta ingerenza veneta nel contesto istriano fu necessaria per contrastare l’espansione dei conti di

L. Margetiæ, Iz ranije hrvatske povijesti. Odabrane studije, Split 1997. Quarta crociata. Venezia-Bisanzio-Impero latino, cur. G. Ortalli - G. Ravegnani - P. Schreiner, Venezia 2006; The fourth crusade. Event, aftermath, and perceptions, cur. T.F. Madden, Aldershot-Burlington 2008. 15 G. De Vergottini, Lineamenti storici della costituzione politica dell’Istria durante il Medioevo, Trieste 1974 (Roma 1924). 13 14


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Gorizia, una famiglia di potenti feudatari, radicati tra il Tirolo, Gorizia e appunto l’Istria. Intanto in Dalmazia ci fu nel 1345/46 l’ennesima ribellione di Zara, accompagnata da uno scontro con Lodovico d’Angiò, re d’Ungheria; nel 1356/58 ci fu una seconda guerra contro l’Ungheria che si risolse con la pace di Zara del 1358; una debacle per Venezia, che dovette cedere a Lodovico tutti i domini da Lussino all’Albania16. Per la città lagunare si aprì una delle più difficili congiunture della sua storia, culminata nella guerra veneto-genovese di Chioggia del 1378/81. Le difficoltà di Venezia permisero il rafforzamento di un Adriatico diverso, articolato sull’asse Ungheria-Croazia-Dalmazia. Un assetto passato alla storia come possibile alternativa al Golfo di Venezia, ma che di fatto non ebbe durature conseguenze. Era questione di tempo e Venezia si sarebbe ripresa. Per due secoli, dal 1250 al 1450, dal Carso all’Albania si ebbe, anche qui, l’età delle signorie, dei piccoli potentati nell’entroterra, come altrove nell’Europa mediterranea. Compagini di notevole consistenza, fino a diventare piccoli regni, si ebbero nel basso litorale. La Arberia, con Kroja come capoluogo, fu dominata dalla famiglia Progon, che si era rafforzata nel 1208/10, per poi passare come vassallo sotto il despotato dell’Epiro. Poco più a settentrione si era costituito il regno di Serbia, sotto la sovranità di Stefano dei Nemanjidi (Nemanjiæi), il «primo incoronato» nel 1217, come conseguenza dell’eclissi dell’impero bizantino. In più riprese, fra il Due e il Trecento, nonostante periodiche crisi interne, il regno serbo si ingrandì in direzione sud-est (l’attuale Albania e Macedonia) e incluse la già bizantina Skopje, nonché verso l’Adriatico, nella Zeta. La Rascia, la Serbia storica, si trasformò sul piano economico dalla metà del Duecento, grazie all’arrivo di colonie di minatori sassoni e alla diffusione dell’attività estrattiva di metalli preziosi, oro, argento, rame, stagno e piombo. Seguì, promosso e incoraggiato dai sovrani, il conio di monete ufficiali e non, il che favorì un’ulteriore ascesa economica17. Un regno d’Albania sorse nel 1271 per volontà di Carlo d’Angiò, re di Sicilia, dopo la sua traversata dell’Adriatico18. Il basso litorale divenne oggetto di contrapposte mire politiche. Il regno durò fino al 1286, quando i bizantini, con Andronico II Paleologo, riconquistarono per qualche anno le terre albanesi. Già nel 1296 fu la volta della Serbia, anch’essa giunta fino a Durazzo. La città ritornò in mano agli Angioini nel 1304. Fino al 1331, 16 17

G. Praga, Storia di Dalmazia, Varese 1981, pp. 131-156. Istorija srpskog naroda, I, Od najstarijih vremena do marièke bitke (1371), Beograd

1981.

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Ducellier, La façade maritime cit.


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la regione fu divisa tra Serbia (il nord), il regno d’Albania degli Angiò (Durazzo) e Bisanzio (il meridione). Lo zar serbo Dušan si impose nel 1331/55 anche sull’Albania, a parte Durazzo. Nel decennio 1346/55 il territorio sotto sovranità di Dušan raggiunse la penisola Calcidica e la Tessaglia. Fu il secondo caso di una potenza centro-balcanica, dopo l’impero bulgaro del X secolo. Un’esperienza, tuttavia, di breve durata. Alla morte di Dušan, nel 1355, seguì la frammentazione tra signorie minori e feudi e coinvolse l’intera area serba, albanese e macedone. Una pluralità di poteri locali che, di fatto, rese più facile l’espansione ottomana19. Tra prove di forza, come le battaglie della Marizza (1356) e di Kosovo (1389), e accordi di vassallaggio, i turchi infatti estesero il loro controllo sulla Bulgaria e sulla Serbia, gettarono le basi della loro Rumelia, i domini europei. In anni di instabilità, seguita alla disintegrazione del regno di Serbia, nel secondo Trecento ebbe modo di emergere il regno di Bosnia, con un mondo religioso al confine tra ortodossia serba e cattolicesimo, tollerante verso le eresie e il diffuso sincretismo. La parcellizzazione tra signorie e feudi e l’assenza di un potere centrale forte non furono ovviamente solo dei Balcani. Fu una tendenza diffusa in Europa. Caso mai, le vicende balcaniche denotano quanto quest’area fosse simile al resto dell’Europa occidentale. Tutta la dorsale adriatica orientale, dalle Alpi Giulie all’Epiro, era un susseguirsi di piccole signorie tedesche, slovene, croate, bosniache, serbe, montenegrine e albanesi. In Croazia, a ridosso del litorale, si ricordano oltre gli Šubiæ (tra i Kotari di Zara e Bribir), i Frangipane o Frankopan (Veglia), i Baboniæ (Slavonia e odierna Bosnia nord-occidentale) e i Nelipiæ (area del fiume Cetina, in Dalmazia); famiglie nobili che si sono contese il titolo di bano, ovvero governatore del regno di Croazia (il re era il sovrano d’Ungheria)20. Frammentazione che permise a Venezia di avere gioco libero con le città, nonché a nuovi soggetti di fare ingresso nell’Adriatico. A nord, Alberto IV di Gorizia, padrone dell’Istria centrale con il titolo di conte d’Istria, fece un accordo con la casa degli Asburgo nel 1354, concedendo ad essa, previa copertura dei debiti, tutti i diritti sui suoi possedimenti, poiché privo di eredi21. L’accordo fu rinnovato nel 1364 e divenne effettivo nel 1374, quando Alberto morì. Da quell’anno, gli Asburgo hanno dominato sull’Istria interna (Pisino); un dominio durato fino all’ottobre del 19 J.V.A. Fine, The late medieval Balkans. A critical survey from the late twelfth century to the Ottoman conquest, Ann Arbor (Mi) 1987. 20 N. Klaiæ, Povijest Hrvata u razvijenom srednjem vijeku, Zagreb 1976. 21 P. Štih, I conti di Gorizia e l’Istria nel medioevo, Rovigno 2013.


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1918. Poi Trieste: nel settembre del 1382, dopo varie vicissitudini interne alla città e il prevalere di una corrente favorevole agli austriaci, il comune riconobbe la sovranità di Leopoldo III. La dedizione fu condizionata, cioè patteggiata, e in effetti Trieste ebbe un’autonomia superiore a quella attribuita da Venezia ai comuni istriani; inoltre ebbe la garanzia di protezione definitiva contro qualsiasi pretesa veneziana. Gli Asburgo, a quel punto, ebbero il controllo diretto sulla contea dell’Istria (dal 1374), già di Alberto IV di Gorizia, su Trieste, e quello indiretto, dal 1366 – da quando Ugo di Duino si fece vassallo dei duchi d’Austria Alberto III e Lodovico III – sulla signoria dei Duinati (diventata dei Walsee nel 1399), la quale si estendeva dal castello di Duino, attraverso il Carso, fino al castello di Castua e alla cittadina di Fiume. Un potere che si consoliderà nel corso del Quattrocento. La Casa d’Austria aveva raggiunto il Mediterraneo. Chiusa la partita con Genova, nella guerra di Chioggia (1378/81), il Comune Veneciarum non perse tempo per ricostruire il proprio Golfo22. A partire dal basso Adriatico orientale: nel 1386 ci fu l’acquisizione di Corfù e nel 1392 quella di Durazzo e ancora, nel 1393, quella di Alessio. Nel 1396 si ebbe l’acquisto di Scutari, nel 1397 di Drivasto e nel 1405/1406 la conquista di Dulcigno, Budua e Antivari, possedute fino al 1412 e riacquistate definitivamente nel 1421. In parallelo con l’avanzata nella terraferma fino a Brescia e Bergamo e il consolidamento in Istria, Venezia, tra il 1409 e il 1420, si riprese la Dalmazia. Decisivo fu l’acquisto nel 1409 dei diritti su Zara, Pago, Aurana e Novegradi per 100.000 ducati dati a Ladislao di Durazzo e l’acquisto di Ostrovizza e Scardona, pagate a un nobile bosniaco nel 1411. Ci fu il rinnovo delle dedizioni nel caso di Cherso, Ossero, Nona e Arbe nel 1409, di Spalato, Brazza e Curzola nel 1420 e di Lesina nel 1421; ci furono nuove dedizioni nel caso di Cattaro nel 1420 e di Pastrovicchio nel 1423 e conquiste militari nel caso di Sebenico nel 1412 e di Traù nel 1420. Rimase indipendente Ragusa, Res publica dal 1402, formalmente legata al regno di Ungheria (dal 1358), ma in realtà dipendente dal regno e poi despotato di Serbia, e infine Stato tributario dell’impero ottomano dal 1458. Ragusa, con l’accorta politica di neutralità e soprattutto con il ruolo di mediatore commerciale tra le città balcaniche, l’Adriatico, l’Italia e il

B. Krekiæ, Venezia e l’Adriatico, in Storia di Venezia, III, La formazione dello Stato patrizio, cur. G. Arnaldi - G. Cracco - A. Tenenti, Roma 1997, pp. 51-85; M. Balard, La lotta contro Genova, ibid., pp. 87-126; B. Doumerc, La difesa dell’impero, ibid., pp. 127-158; B. Doumerc, L’Adriatique du XIIIe au XVIIe siècle, in Histoire de l’Adriatique cit., pp. 173274. Inoltre R. Cessi, Dopo la guerra di Chioggia. Il nuovo orientamento della politica veneziana alla fine del secolo XIV, cur. M. Zanazzo, Venezia 2005. 22


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Mediterraneo, si garantì quella sostanziale Libertas che ostentava sul suo vessillo. La potenza di Venezia si staglia insomma netta alla metà del Quattrocento, quando si attua la ridefinizione dello Stato da Comune Veneciarum a Serenissimum Dominium, Serenissima Signoria, ovvero la repubblica. Di là dal mare, una sequela di città e porti si snodava da Capodistria a Pola, da Zara a Spalato, dalle grandi isole di Lesina e Curzola fino a Cattaro, ad Antivari e a Durazzo e da lì a Corfù: Istria, Dalmazia, Albania, Ionio23. Considerando i domini nello Ionio, nell’Egeo, Candia e l’acquisizione di Cipro (1489), si trattava dello Stato più marittimo del Mediterraneo. L’Adriatico era una grande strada e le città della costa orientale erano sobborghi di Venezia, come in un’unica dimensione urbana. Attorno a questo asse urbano, il dominio veneto si estese sui limitrofi contesti feudali e sulle leghe rurali di confine. La Serenissima promosse vincoli di fedeltà con i potentati, famiglie e clan della Zeta, ossia Montenegro e dell’Albania (con i clan Dukadjin, Castriota, Topia, Zenevisi), realizzando quella pluralità di relazioni che si riscontra pure fra la terraferma e le Alpi. Venezia era riuscita ad integrare l’Adriatico orientale come nessun altro soggetto politico dai primi secoli bizantini. La controparte della Serenissima sul piano politico-diplomatico divennero gli Asburgo, il regno di Ungheria-Croazia e, dal 1458, l’impero ottomano. Un’avanzata, quella turca, graduale ma costante, fatta di battaglie, scorrerie, intimidazioni e trattative con i potentati locali, per costruire una nuova sovranità, un nuovo mondo. Scomparvero il despotato serbo, ultimo pezzo di Serbia sotto la guida di Djuradj Brankoviæ (1458), il regno di Bosnia, le signorie dei Balsa nell’entroterra albanese e quella di Hrvoje Vukèiæ nell’odierna Erzegovina (1463). Nel vuoto di potere locale affiorano clan, fratellanze, tribù di popolazioni definite vlasi, o morlacchi secondo le fonti venete, l’unica organizzazione sociale delle montagne, mentre nelle vallate e nelle zone pianeggianti gli ottomani restaurano la viabilità romana e fondano nuove città come Sarajevo, Mostar, Travnik, Banja Luka, Tirana ed Elbasan, consolidano città più antiche come Scutari e Skopje. Città che conservano quel multiculturalismo già presente nelle città-miniere della Serbia medievale. Dunque nuovo urbanesimo, viabilità e trasformazione delle società delle montagne. Il tutto alimentato, nei decenni 1470/1540, dall’economia della guerra, dall’avanzata verso la Croazia e Ungheria e la Dalmazia.

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E. Orlando, Venezia e il mare nel medioevo, Bologna 2014, pp. 159-187.


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3. Sotto l’intelaiatura politica, sotto i confini sociali e culturali, c’era infine la geografia religiosa e confessionale24. Sulla Dalmazia il patriarcato di Costantinopoli forse ebbe un certo ascendente dopo la pace di Aquisgrana dell’812. Di certo, l’Istria e la Croazia, sotto la sovranità e la protezione carolingia, rimasero nell’ambito della liturgia latina. L’influenza di Roma finì per prevalere in Dalmazia con il concilio di Spalato nel 925, mentre Costantinopoli, nei secoli X-XI, guadagnò l’interno, le sclavinie, con il proselitismo di Cirillo e Metodio e con la liturgia slava. Sono secoli, il X e l’XI, in cui avviene una delle vicende più interessanti della storia culturale dell’Adriatico orientale: la diffusione della scrittura slava glagolitica, elaborata dallo stesso Costantino, ovvero Cirillo, scrittura che non ebbe fortuna (nel corso del medioevo) se non sulle coste adriatiche orientali, tra Segna, Veglia, Arbe e Pago. Il rito slavone, che il glagolitico esprimeva, fu rigettato dal concilio ecclesiastico di Spalato nel 925; ma, di fatto, il concilio testimoniava sia la presenza del glagolitico sia la pertinenza di Roma. Questa sorta di ibridismo slavo-cattolico, considerata come una peculiarità culturale croata, è provata ulteriormente nell’area tra Istria orientale e Dalmazia settentrionale nei secoli XII-XIII da scritte in glagolitico, di carattere religioso e normativo25. Pure l’ortodossia greca-bizantina appartiene all’Adriatico orientale. Nel 1018 l’imperatore Basilio II rese Ocrida (Ohrid) un archiepiscopato autocefalo. Ocrida fu per secoli un riferimento per le popolazioni ortodosse nel basso Adriatico, tra l’Epiro, le terre albanesi e l’odierno Montenegro. La caduta di Costantinopoli nel 1204 diede l’opportunità alla chiesa serba di essere riconosciuta in quanto ecclesia autocefala, nel 1219, dal patriarca di Costantinopoli rifugiato a Nicea. In tal modo il rito serbo ortodosso subentrò allo slavo bizantino nell’entroterra adriatico, ad eccezione delle pertinenze greche di Ocrida. Da notare che il regno serbo fu riconosciuto negli stessi anni dal pontefice romano. Tra le due confessioni, tra l’Oriente ora rappresentato dalla chiesa serba e l’Occidente latino, la Bosnia si profilava come un contesto incerto, di transizione, del resto geograficamente isolato dalle pianure e dal mare, e perciò un luogo di sincretismo e di eresia26. Dalla fine del Duecento si susseguirono gli anatemi contro la chiesa bosniaca da parte del papa; fino al 1463, anno della conquista ottomana, la Bosnia era considerata come una terra sfuggente sul piano ecclesiastico ed eretica. Nel basso versante, Cattaro, Antivari e 24 25 26

Ivetic, Un confine nel Mediterraneo cit., pp. 74-82. Croatia in the Early Middle Ages, cur. Philiph Wilson, London-Zagreb 1999. M. Anèiæ, Na rubu Zapada. Tri stoljeæa srednjovjekovne Bosne, Zagreb 2001.


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Scutari erano invece le estreme sedi vescovili di un cattolicesimo come incuneato nell’ortodossia, cattolicesimo che si era diffuso poco all’interno e che avrebbe riguardato solo i clan albanesi dei Mirdita. Dalla metà del XV secolo in poi, il confine del cattolicesimo, della latinità, coincise con il confine politico dell’Occidente27. La chiesa cattolica ebbe in Croazia (corona del regno d’Ungheria) e nella Dalmazia veneta i suoi punti estremi sud-orientali, nel senso di continuità territoriale. E la Slavia adriatica corrisponde anzitutto alla Croazia odierna28. Certo, c’è una presenza slovena sul Carso e nell’Istria settentrionale, ma non si tratta di popolazione marittima; ci sono gli ortodossi delle Bocche di Cattaro, ma si discute se fossero nel passato serbi o genuini montenegrini. I clan montenegrini sudditi di Venezia, i Pastrovich, i Pobori, Maini e Braich ortodossi rappresentano comunità minime della Slavia adriatica. La maggior parte delle popolazioni slave litoranee erano dunque di confessione cattolica e vivevano nei domini di Venezia, degli Asburgo e di Ragusa, erano gli schiavoni, la cui parlata era croata ciakava nei domini veneti e štokava a Ragusa. Parlate comunque distinte dallo štokavo croato (e serbo e bosniaco) dell’interno. L’Italia qui è intesa in senso geografico, linguistico e culturale, come l’hanno vista per secoli sia le popolazioni che l’hanno abitata sia le popolazioni contermini, gli stessi croati, sloveni e serbi, che qui ci interessano, come del resto i francesi o i tedeschi. Il confine orientale dell’Italia, così intesa, che è stato dal 1866 in poi il confine orientale dello Stato e della nazione italiana, incontra e si salda con i confini della Slavia, del Meridione slavo, delle terre abitate da sloveni, croati e serbi, tra le Alpi Giulie e l’Adriatico orientale29. Questo confine non è stato lineare: basta pensare al nord-est italiano, alla pianura dove il veneto si è intersecato per secoli con il friulano e questo con lo sloveno dinanzi alle Alpi Giulie. Per quanto il concetto di confine da sempre è parso ambiguo e strumentale, per legittimare determinati poteri, sovranità politiche, culturali e nazionali (su questo, si sa, si potrebbe discutere a lungo), non c’è dubbio, e l’esperienza lo insegna, che a misurare le situazioni locali nell’Adriatico orientale (come in altre parti d’Europa dove si riscontra una linea di demarcazione tra qualcosa) emerge la costante del confine tra contesti linguistici diversi. E tutto inizia nel VII secolo. 27

Croatia in the Late Middle Ages and the Renaissance, cur. Philip Wilson, LondonZagreb 2008. 28 Ivetic, Un confine nel Mediterraneo cit., pp. 82-87. 29 Ibid.


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La presenza di popolazioni slave, da allora in poi, in Istria come in Dalmazia è un dato accettato, scontato, anche se restano aperte molte questioni sul come intendere, definire le popolazioni del litorale e dell’interno nell’alto medioevo. Di certo, come sottolineato, la costa visse una continuità romano-bizantina rispetto all’interno che tuttavia non fu compattamente slavo, considerando le popolazioni morlacche, ossia le comunità autoctone romanizzate e linguisticamente romanze fin dopo l’XI secolo. Ovvero, fino alla slavizzazione in virtù della liturgia in lingua slava, dopo l’elaborazione dell’alfabeto slavo, il glagolitico, da parte di Cirillo e Metodio e del cirillico, da parte dei loro allievi, le popolazioni slave che erano dilagate nella regione balcanica hanno dovuto convivere per almeno tre secoli (600-900) con popolazioni romanze della costa e delle montagne, popolazioni cristiane, mentre loro, i vari slavi, erano pagani. La diffusione della liturgia slava, del glagolitico e del cirillico aveva avviato una marcata slavizzazione sia delle popolazioni delle montagne sia delle popolazioni del litorale in una fase che possiamo indicare tra il 900 e il 1300. Oltre che in latino, dall’XI-XII secolo troviamo più frequenti scritte glagolitiche e interi testi religiosi, come messali, breviari e salteri composti dal clero regolare e poi secolare in una fascia territoriale compresa tra l’Istria orientale, Veglia, Arbe, Segna, Vinadol, l’entroterra di Zara30. Un rito liturgico, quello in slavo ecclesiastico, e una scrittura, quella glagolitica, che vanno osservati sullo sfondo dello sviluppo e poi della scomparsa dei conventi benedettini: nell’Istria interna fu il caso di San Michele in Monte presso Pisino, di Santa Petronilla presso Due Castelli, di San Pietro in Selve. E dunque si osserva sia il rilancio del latino sia la straordinaria conservazione del glagolitico. Una scrittura nata altrove, concepita da Cirillo e Metodio, pensata per altre popolazioni, gli slavi boemi, e sopravissuta sulle sponde adriatiche; in sostanza, una scrittura parte della civiltà adriatica. Furono il glagolitico e la liturgia slava cattolica a rafforzare per secoli i legami culturali (tramite la circolazione del clero) tra l’Istria orientale, il Quarnero (Veglia) e il litorale croato (Vinadol, Segna). A partire dal XIV secolo e fino alla metà del XVI, il glagolitico fu utilizzato sporadicamente come scrittura negli atti testamentari, dunque in ambito laico e civile. La distinzione fra slavità e romanità fu un fatto inizialmente etnico, con tutti i limiti che tale termine – etnico – comporta, quanto politico, ed ha 30 J. Bratuliæ, Povijesne odrednice istarskog glagolizma, «Slovo. Èasopis staroslavenskog

instituta», 21 (1971), pp. 333-346; Bratuliæ, Istarski razvod. Studija i tekst, Pula 1978; Bratuliæ, Istarske književne teme, Pula 1987; Bratuliæ, Izazov zavièaja. Rasprave iz književne povijesti Istre, Pula 1990.


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marcato le differenze fra le comunità urbane, romanze, e i contadi e l’entroterra, slavi. In Dalmazia, fra i secoli X e XV, con le migrazioni locali, la slavità gradualmente si estese alle isole e alle città; fu una dinamica prevalentemente linguistica. La Dalmazia si slavizzò nella sua popolazione e nella lingua, ma rimase intatta la specificità istituzionale e culturale dei contesti litoranei rispetto all’interno. La stessa lingua, il croato ciakavo, si distingueva dalle parlate croate e serbe štokave dell’interno, dove pure il cirillico veniva ampiamente usato dai cattolici nelle scritture ecclesiastiche e in quelle laiche, pubbliche. La slavità della costa, sebbene simile nella lingua, non fu la stessa cosa sul piano sociale e culturale. Qui dominava il latino. Tommaso Arcidiacono, un cronista di Spalato, scrive la storia degli slavi con cui confina, descrive la storia dei croati, non mancando di sottolineare la differenza di cultura e di società31. Il processo di slavizzazione della Romania dalmata è stato più lungo di quello che in genere si potrebbe pensare. Si tratta di almeno quattro secoli (secoli IX-XII) prima della fondamentale quarta crociata, del 1202/04, che ha portato alla sovranità di Venezia sulla Dalmazia32. Un processo che ha visto avanzare gradualmente l’idioma slavo, oggi croato, a partire dalle zone meridionali della provincia bizantina di Dalmazia33. Nel corso dei secoli XI-XIV si è diffusa l’influenza slava croata, sulle parti settentrionali della Dalmazia storica, le odierne isole di Veglia, Arbe, Cherso e Lussino. A partire da Cattaro, Ragusa e poi fino a Spalato e Traù si è trattato di trasformazione linguistica; ma non di trasformazione culturale. Anche un fermo assertore dell’italianità della Dalmazia, come Giuseppe Praga, riscontrava per Spalato trecentesca la seguente situazione: «Nell’ordine cittadino ed ecclesiastico la latinità ha senza dubbio la prevalenza, ma l’uno e l’altro ordine sono sensibilmente intaccati dalla penetrazione dell’elemento slavo che, specie nella seconda metà del Trecento, è notevole. Nei populares, per quanto l’originario nucleo latino sia nel Trecento ancor forte e vigoroso, la prevalenza è costituita dagli slavi immigrati. Gli habitatores, elemento nuovo, sono per metà italiani e per metà slavi. I districtuales sono tutti slavi. Questo però quanto ad origine. Quanto a lingua e a costumanze la cosa va diversamente considerata. Non 31 Arhiðakon Toma, Kronika, Split 1977; Toma Arhiðakon i njegovo doba. Zbornik radova, cur. M. Matijeviæ Sokol - O. Periæ, Split 2004. 32 C. Jireèek, Die Romanen in den Städten Dalmatiens während des Mittelalters, Wien 1901-1904; Jireèek, L’eredità di Roma nelle città della Dalmazia durante il medioevo, cur. G. Bonfante - A. Budrovich - R. Tolomeo, Roma 1984-1986 (3 voll.). 33 P. Tekavèiæ, O kriterijima stratifikacije i regionalne diferencijacije jugoslavenskog romanstva u svijetlu toponomastike, «Onomastica jugoslavica», 6 (1976), pp. 35-56.


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va dimenticato che 1’elemento principe della città, quello che legifera e dirige, quello che comanda e impone, quello intorno al quale si muove tutta la vita cittadina, è interamente latino»34. Ma non solo. Sempre il Praga, studiando i testi in lingua volgare, in dalmatico, di Spalato nel Trecento, testi ricavati dagli atti notarili (compravendita, testamenti, cessioni, divisioni), ci rivela un mondo a tutti gli effetti ibrido: nomi e cognomi slavi di soggetti che si esprimono in dalmatico35. C’è una chiara spontaneità, che lascia intuire un diffuso bi-trilinguismo. Testimonianze che evidenziano in che cosa consisteva la simbiosi latinoslava ai tempi di Tommaso Arcidiacono, simbiosi che fu la vera dominante della vita civile nelle città della Dalmazia36. Altre fonti evidenziano un mondo slavo-italiano per nulla compreso dalla storiografia vigente37. Un mondo che attende di essere ricostruito da nuove generazioni di storici. La storia culturale della Dalmazia medievale, dalla scrittura beneventana, dalla letteratura popolare all’architettura, alla musica, al canto religioso, denota forti legami con la sponda occidentale dell’Adriatico. Legami scontati, se si considera la situazione culturale nell’entroterra balcanico, sul quale poco si può dire per i secoli IX-XII. Durante la prima fase del dominio veneziano in Dalmazia, 1202-1358, si è confermata la simbiosi culturale, con bilinguismo o multilinguismo diffuso, con una prevalenza slava, ma altresì con zone ancora romanze, nel caso dei centri maggiori e delle isole38. In sostanza, la Dalmazia si profila come un interessantissimo esempio di compresenza e commistione slavo-romanza. È questa la sua connotazione, ma per nulla eccezionale rispetto alle situazioni di altre regioni storiche del Mediterraneo, come l’Andalusia, la Sicilia, Cipro, e delle regioni dell’Asia minore. Una caratteristica affatto mediterranea, che andrebbe capita. L’affermazione del dominio veneto dal XIII secolo in Dalmazia certamente rafforzò la dimensione linguistica romanza, anche se alla parlata romanza autoctona, che era il dalmatico, si sostituì la lingua franca del veneto marittimo. I molti secoli passati sotto il segno della Serenissima

34 G. Praga, Testi volgari spalatini del Trecento, «Atti e memorie della Società dalmata di storia patria», 2 (1928), pp. 35-36. 35 G. Praga, Lo Scriptorium dell’abbazia benedettina di San Grisogono in Zara, «Archivio storico per la Dalmazia», fascicoli 39-49 (1930), pp. 126 (estratto); Praga, Atti e diplomi di Nona, 1284-1509, «Archivio storico per la Dalmazia», 21 (1936), pp. 132 (estratto). 36 B. Krekiæ, On the Latino-Slavic Cultural Symbiosis in the Late Medieval and Renaissance Dalmatia and Dubrovnik, «Viator», 26 (1995), pp. 321-332. 37 Il messale croato-raguseo (Neofiti 55) della Biblioteca apostolica Vaticana, edd. C. Giannelli - S. Graciotti, Città del Vaticano 2003. 38 Krekiæ, On the Latino-Slavic Cultural Symbiosis cit.


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videro convivere il veneto con le parlate slave locali, lo schiavonesco, che corrisponde al croato nella sua forma ciakava e štokava del litorale. Proprio la dimensione linguistica slava/croata, nel caso della Dalmazia, ci riporta già nelle fonti medievali il termine Schiavonia, con il quale ci si riferiva piuttosto a una dimensione linguistica e culturale, non romanza, e che riguardava appunto la Dalmazia, ma anche altri contesti contermini, in primis la Croazia. L’intera area aveva inoltre una denominazione più colta di Illirico, un luogo riconosciuto dai dotti in tutta l’Europa. Illirica fu pure indicata la lingua schiavonesca, il croato o serbo tra l’Adriatico e la pianura danubiana. Se in Dalmazia i confini fra la dimensione slava/croata e italiana/veneta si realizzavano dentro gli stessi contesti urbani, lasciando spazio a plurilinguismo, ibridismi e simbiosi, più a settentrione, nell’Istria, questa distinzione avveniva sul territorio, nei contadi settentrionali e occidentali, rispetto ai quali le principali città rimasero compattamente romanze. Quanto si riscontra nel tardo medioevo permane fino all’età delle nazioni; e questa eccezionale durata comporta invero alcune questioni. A partire dal quesito in che cosa consistesse la romanità/latinità/italianità in tali terre. Si tratta della presenza sul territorio di popolazioni spiccatamente romanze, nella parlata e nelle tradizioni orali; ma anche della diffusione e l’uso delle lingue romanze, latino, lingua franca veneta e infine l’italiano sul territorio, dal X al XX secolo; come pure dell’estensione delle compagini politiche in cui il latino e poi il veneto e l’italiano (Istria veneta, Dalmazia veneta) hanno costituito la lingua ufficiale e la principale lingua veicolare (leggi, terminazioni, ma pure statuti e atti notarili). Questi tre aspetti (popolazione, medium linguistico, istituzioni) si sono ripetutamente sovrapposti attraverso i secoli. Ed è questa sovrapposizione che crea fraintendimenti tra gli stessi storici. Proviamo a tracciare la geografia della popolazione romanza. Fino a dove si era consolidata una popolazione affatto latinofona/italofona? Da quanto conosciamo, in base agli studi toponimici e alle fonti più remote, è difficile immaginare, per i secoli XI-XIV, una “copertura romanza” dell’Istria superiore a quanto si riscontra alla fine del XV secolo, quando le fonti sono più abbondanti39. Non ci sono dubbi che tra Grado, l’estrema propaggine del Dogado e delle lagune, Trieste e la costa settentrionale dell’Istria ci fosse una continuità linguistica; questa omogeneità proseguiva lungo la fascia costiera fino all’Istria meridionale. Da questa fascia si 39 F. Crevatin, Per una storia della venetizzazione linguistica dell’Istria. Prospettive metodologiche per una sociolinguistica diacronica, «Studi mediolatini e volgari», 23 (1975), pp. 59-99.


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diramavano alcune zone prevalentemente romanze verso l’interno, in direzione di Buie, di Portole, lungo la valle del Quieto fino a Montona e Pinguente, nonché i borghi dell’interno erano certamente tutti bilingui, se non prevalentemente romanzi40. Rimane difficile ipotizzare per la penisola istriana, assieme a Trieste, una geografia affatto diversa da quanto ha ritratto il censimento austriaco del 1910, quando si dette importanza alla lingua d’uso. Le competenze territoriali delle lingue erano rimaste uguali41. Dunque un’Istria linguisticamente italiana nel litorale settentrionale e occidentale; un’Istria bilingue nel primo entroterra; un’Istria slovena e croata nell’interno e nella parte orientale. Ciò che più colpisce chi ha studiato a fondo tutte le fonti disponibili dal Trecento all’Ottocento, è la sostanziale continuità, o la scarsa variabilità, delle probabili situazioni medievali rispetto a quanto riscontrato nel XV secolo, prima dell’arrivo massiccio dei coloni morlacchi in entrambe le Istrie, e la mappa etnografica dell’Istria che aveva redatto Carlo Schiffrer nel 1945. Come è stato possibile questo equilibrio linguistico per così tanti secoli in un unico territorio? La prima risposta (anticipata) è il mare. Il mare ha alimentato la dimensione romanza della costa in Istria, nel Quarnero e in Dalmazia. Lo si nota bene nella sub-regione quarnerina, relativamente remota rispetto ai contesti spiccatamente romanzi/italiani, nei centri principali, da Lussino, a Ossero, a Cherso fino a Fiume, da sempre cittadina di frontiera. E qui siamo al secondo punto: la geografia della lingua di comunicazione. Tutto l’Adriatico orientale era interessato dalla presenza del latino e del veneto lingua franca quale lingua di scambio, degli affari, delle istituzioni e soprattutto della cultura. Ragusa ne è l’esempio più eclatante. Ma pure un vescovato tradizionalmente croato come Segna ha preparato il proprio clero al glagolitico, al latino e all’italiano. Insomma, la lingua ufficiale rimaneva il latino; la latinitas era parte della vita civile, mentre dal mare fu costante l’influenza veneziana e in genere italiana. Il litorale visse a lungo in equilibrio tra queste due dinamiche: popolazioni, con una propria lingua, dall’interno, lingua, soprattutto di istituzioni e cultura, dal mare. Alla lunga, è indubbia una sempre più circoscritta presenza territoriale di popolazioni esclusivamente romanze; però, nel contempo, non era venuta meno la lati-

40 M. Deanoviæ, Istroromanske studije, «Rad. Jugoslavenska Akademija Znanosti i Umjetnosti», 303 (1955), pp. 51-118; P. Tekavèiæ, Per un atlante linguistico istriano, «Studia romanica et anglica Zagrabiensia», 41-42 (1976), pp. 227-240. 41 M. Metzeltin, La Dalmazia e l’Istria, in L’italiano nelle regioni. Storia della lingua italiana, cur. F. Bruni, I, Milano 1996, pp. 478-505.


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nità delle terre, nel senso della lingua ufficiale. E non era venuta meno la presenza dell’italiano in quanto lingua amministrativa, di governo e del potere. Ecco il terzo punto. Chi ha visto le fonti amministrative e non solo quelle veneziane, ma pure quelle ragusee, i documenti ecclesiastici, i documenti dell’età napoleonica e austriaca sa bene di quale lingua si tratta42. Questo processo ha coperto il basso medioevo ed è perdurato fino all’Ottocento43.

42 D. Dotto, “Scriptae” venezianeggianti a Ragusa nel XIV secolo. Edizione e commento di testi volgari dell'Archivio di Stato di Dubrovnik, Roma 2008. 43 M. Zoriæ, Književna prožimanja hrvatsko-talijanska, Split 1992; Zoriæ, Italia e Slavia. Contributi sulle relazioni letterarie italo-jugoslave dall’Ariosto al D’Annunzio, Padova 1989; Zoriæ, Dalle due sponde. Contributi sulle relazioni letterarie italo-croate, cur. R. Tolomeo, Roma 1999.


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Predicazione come comunicazione

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«Chi è questi che vuole fare un Ordine, che sieno tutti vescovi?». Questa sarebbe la prima reazione di Innocenzo III di fronte alla richiesta di approvare l’Ordo Praedicatorum avanzata da Domenico di Guzmán nel 1215, nel corso del Concilio Lateranense IV1. Questo episodio leggendario è narrato a Firenze, in Santa Maria Novella, da fra Giordano da Pisa (o da Rivalto) nella festa di s. Domenico, il 5 agosto del 1303. La meraviglia si spiega perché, continua Giordano, «a quel tempo non facean prediche se none i vescovi». L’urgenza di affrontare e vincere l’eresia sprona Domenico a progettare un nuovo tipo di predicazione, uno strumento adatto a comunicare efficacemente i contenuti fondamentali della teologia; di qui l’iniziativa parallela di aprire scuole per i frati. «Costui fu il primo predicatore», aggiunge Giordano, «questi fu il primo che fece iscuole di theologia, ove s’amaestra di divinitade»; dietro Domenico e i suoi frati vengono tutti i predicatori “moderni”2. Agostino, Girolamo «diceano alcu1

Fondamentale per la storia degli inizi dell’Ordine dei Predicatori lo studio di S. Tugwell, Notes on the Life of St Dominic, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 65 (1995), pp. 5-169: 28-35, e v. anche M.P. Alberzoni, I nuovi Ordini, il IV concilio lateranense e i Mendicanti, in Domenico di Caleruega e la nascita dell’Ordine dei Frati Predicatori. Atti del XLI Convegno storico internazionale, Todi, 10-12 ottobre 2004, Spoleto 2005, pp. 39-89: 73-74, 80-81. 2 Cito dall’edizione critica in appendice a C. Delcorno, Medieval Preaching in Italy (1200-1500), in The Sermon, directed by B.M. Kienzle, Turnhout 2000 (Typologie des sources du Moyen Âge occidental, 81-83), pp. 449-559: 545-546. Vedi anche Prediche del B. Fra Giordano da Rivalto recitate in Firenze dal MCCCIII al MCCCVI, ed. D. Moreni, I, Firenze 1831 (d’ora in poi Moreni), pp. 233-244. L’iniziativa di aggiungere alla predicazione la formazione negli Studia dell’Ordine è rapidamente menzionata da Remigio de’ Girolami nel sermone de sancto Dominico: «Omnes moderni ab ipso superferunt exemplum et mictendi fratres ad studium et predicandi» (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale [d’ora in poi BNCF], Conv. Soppr. D I 937, c. 240ra). Remigio fu lettore e quindi magister nello Studio


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n’otta al popolo certe omelie», ma «rade volte»; Gregorio Magno – osserva in altra occasione3 – «predicava come fanno oggi i predicatori al popolo», cioè quotidianamente e rivolgendosi ai laici, usando peraltro una maniera ormai inadatta, la forma omiletica. Il sermone “moderno” se ne distingueva per essere costruito sull’esegesi non di una lunga pericope della Bibbia, ma su un versetto di poche parole, il thema, secondo regole stabilite ed esemplificate in manuali di retorica sacra, le artes praedicandi, e in raccolte di sermoni modello4. Proprio questi strumenti della predicazione, molti dei quali furono composti nelle scuole dei frati Mendicanti, rivelano, al di là degli artificiosi tecnicismi, la costante preoccupazione di assicurare il contatto tra emittente e destinatario, perché la Bibbia, e la sua chiara interpretazione, siano comunicate a tutti i fedeli, soprattutto ai laici, secondo le loro capacità di comprensione. Era, questo, il problema trattato in una parte facoltativa del sermone, il cosiddetto prothema o antethema, che si concludeva con la preghiera a Dio, alla Vergine Maria (talvolta ad un santo intercessore) perché la Grazia divina assistesse il predicatore e il pubblico nel comune lavoro5. Qualcuno ha osservato che nel prothema vi è la più importante e profonda teoria della predicazione medievale6, si potrebbe dire quasi una teoria della comunicazione, sebbene il termine non fosse usato nell’accezione moderna7. Non sorprende che in ambiente universitario si allestissero apposite di S. Maria Novella per più di quarant’anni, fino alla morte (1319). Giordano, in qualità di lector, supplì alle assenze di Remigio negli anni 1302-1304. Cfr. E. Panella, Remigiana. Note biografiche e filologiche, «Memorie Domenicane», n.ser., 13 (1982), pp. 366-421; Panella, Nuova cronologia remigiana, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 60 (1990), pp. 145-311. 3 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306 [stile fiorentino], ed. C. Delcorno, Firenze 1974 (Autori classici e documenti di lingua pubblicati dall’Accademia della Crusca) (d’ora in poi QF), p. 241 (predica XLVI del 12 marzo 1306). 4 Vedi le relazioni pubblicate in De l’homélie au sermon. Histoire de la prédication médiévale. Actes du Colloque international (9-11 juillet 1992), cur. J. Hamesse - X. Hermand, Louvain-la-Neuve 1993 (Publications de l’Institut d’Études Médiévales), in particolare B.M. Kienzle, The Typology of medieval Sermon and its Development in the Middle Ages: Report on Work in Progress, pp. 83-101: 85. Per la terminologia della predicazione e per la distinzione tra omelia e sermone vedi Kienzle, Introduction a The Sermon cit., pp. 161-164. 5 Cfr. Th.M. Charland O.P., Artes Praedicandi. Contribution à l’histoire de la rhétorique au Moyen Âge, Paris-Ottawa 1936 (Publications de l’Institut d’Études Médiévales d’Ottawa), pp. 125-135; J.B. Schneyer, Die Unterweisung der Gemeinde über die Predigt bei scholastischen Predigern, München 1967. 6 Schneyer, Die Unterweisung, cit., p. 8. Sulle raccolte di prothemata cfr. Sancti Thomae de Aquino Opera omnia, t. XLIV, 1, Sermones, ed. L.J. Bataillon, Roma-Paris 2014, cap. VI dell’Introduzione, pp. 111*-121*. 7 Sull’uso del termine e del concetto di “comunicazione” nella storiografia moderna cfr. M. Mostert, Introduzione al volume A Bibliography of Works on Medieval


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raccolte da utilizzare nelle più disparate circostanze. Il prothema poteva essere di estensione variabile, ed era introdotto a sua volta da un versetto scritturale dove spiccava di solito un’immagine che vivamente rappresentava le qualità ideali richieste al dicitore e all’uditore. Erano similitudini ricavate da un repertorio biblico, a cominciare dalle parabole evangeliche. La parabola del seminatore (Lc 8,5) indica perfettamente l’origine e lo scopo della predicazione, il movimento della Parola di Dio dalla pagina della Bibbia alla memoria degli uditori8. Il buon pastore (Ego sum pastor bonus, Io 10, 11) suggerisce la versatilità del predicatore, pastore universale che nutre ogni genere di ascoltatori col pane della vita, intendi col suo esempio e con la scienza, dissetandoli con l’acqua della sapienza divina9. Piacciono le immagini derivate dall’area semantica della musica e dei suoi strumenti. Il domenicano Iohannes de Biblia, che insegna nello Studium del convento di Bologna (1307-1332) paragona la predicazione ad un concerto, dove il predicatore ha la funzione del solista, ed è accompagnato dai suonatori di strumenti: «Hi qui in amatoriis mundi cantibus diligenter instructi sunt interdum aliquos musicorum instrumentorum doctos sibi associant qui suarum uocum modulationibus huiuscemodi instrumenta concordant». Con la lingua e con la sua vita il predicatore deve elevare un canto, essere come un salmo; ma deve anche distribuire ai fedeli gli strumenti perché lo accompagnino: «ad predicatorem […] duo pertinent.

Communication, Turnhout 2012. Su comunicazione e “oral literature” cfr. K. Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature, introduzione al volume collettivo Medieval Oral Literature, Berlin-Boston 2012, pp. 3-67. Sottolinea la necessità di una più precisa elaborazione del termine “comunicazione” negli studi medievali M. Hohlstein, Soziale Ausgrenzung im Medium der Predigt. Der franziskanische Antijudaismus im spätmittelalterlichen Italien, Köln-Weimar-Wien 2012, pp. 36-38. 8 Schneyer (Die Unterweisung, cit., p. 17) menziona il prothema del francescano Giovanni Rigaldi: «Unde semen predicationis sumitur? A Scripturae veritate» (Biblioteca Apostolica Vaticana [d’ora in poi BAV], cod. Vat. lat. 957, c. 172ra). Per l’uso di questa parabola mi sia concesso di rinviare al mio studio La predicazione volgare in Italia (sec. XIIIXIV). Teoria, produzione, ricezione, «Revue Mabillon», 4 (1993), pp. 83-107: 88. 9 Iohannes de Biblia, sermo In commemoratione fidelium (BAV, cod. Borghesi 24, c. 211vb). Il sermone ha per thema: Iustorum anime in manu dei sunt et non tanget illos tormentum mortis (Sap 3,1); il prothema si fonda sul versetto Omnes anime mee sunt (Ez 18,4). L’allegoria del Buon Pastore è particolarmente usata nei sermoni sinodali: cfr. C. Delcorno, Beatrice predicante, «L’Alighieri», n.ser., 35 (2010), pp. 111-131: 118-119. Iohannes de Biblia legge le Sententiae al convento domenicano di Bologna (1307) e continua a insegnare a Bologna (1313, 1317, 1321, 1323, 1332). Cfr. Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, II, Roma 1975, pp. 385-386; J.B. Schneyer, Repertorium der Lateinischen Sermones des Mittelalters für die Zeit von 1150-1350, III, Münster 1971, pp. 259-373.


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Primum est psallere idest dei magnalia suarum laudum preconiis personare […] Secundum est quasi musica instrumenta auditoribus dare idest eorum opera sue tam uite quam uoci conformia per imitationem reddere». Naturalmente si tratta di strumenti dal significato morale: il timpano della mortificazione, il salterio a dieci corde che indica l’osservanza dei dieci comandamenti, la cetra dell’obbedienza, virtù indicata dalle corde adeguatamente tese e temperate10. Federico Visconti, arcivescovo di Pisa, amico e ammiratore dei frati Mendicanti, in un ampio e articolato prothema sul versetto Orate pro nobis, ut sermo Domini currat et clarificetur (2 Tess 3,1) chiede di pregare perché la Scrittura sia da lui esposta chiaramente e attentamente udita: infatti come uno strumento, cetra o salterio, rende suoni sgradevoli quando non sia percorso dal plettro di un abile musicista, così il predicatore non è gradito se non lo tocca la grazia dello Spirito Santo: preghino dunque perché, ascoltandolo, i presenti dicano con le parole del Cantico dei cantici (Ct 2,14) «Sonet vox tua in auribus nostris, vox enim tua dulcis»11. La lingua della predicazione

Ai laici si predicava in volgare da secoli, fin dalle disposizioni sancite dal Concilio di Tours dell’81312, ma le raccolte dei sermoni sono scritte in

10 BAV, cod. Borghesi 23, c. 133ra-b. Sermone De sancta Agatha: Edificaberis uirgo Israel adhuc ornaberis tympanis tuis et egredieris in choro ludentium. Jere. xxxi [v. 4]. Il prothema è introdotto dal versetto Sumite psalmum et date tympanum, psalterium iocundum cum cythara (Ps 80,3). 11 Les sermons et la visite pastorale de Federico Visconti archevêque de Pise (1253-1277), sous la direction de N. Bériou, Rome 2001 (Sources et documents d’histoire du Moyen Âge publiés par l’École française de Rome, 3), pp. 851-852 (sermo LXVI ad clerum, sette giorni dopo la morte di Leonardo, arciprete pisano). 12 Nel preambolo dei decreti del concilio si fa obbligo ai vescovi di predicare «sui temi fondamentali della fede, salvezza e dannazione», usando le omelie dei Padri, ingiungendo «ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam romanam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur». Cfr. G. Folena, Textus testis: caso e necessità nelle origini romanze, in Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, cur. V. Branca, Firenze 1973 (Civiltà europea e civiltà veneziana. Aspetti e problemi, 7), pp. 483-507: 498 (ristampato in Folena, Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino 2002, pp. 3-26). Utilizzo in parte il mio saggio La lingua dei predicatori. Tra latino e volgare, in La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300. Atti del XXII Convegno internazionale (Assisi, 13-15 ottobre 1994), Spoleto 1995, pp. 21-46 (ristampato col titolo Tra latino e volgare in C. Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, cur. G. Baffetti - G. Forni et al., Firenze 2009, pp. 23-41).


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latino fino al Quattrocento, sia che il predicatore stesso componga un sermonario, talvolta utilizzando appunti degli uditori13, sia che la viva voce trovi un’immediata registrazione, più o meno fedele, in una reportatio, una tecnica basata su abbreviazioni in uso nelle università e nella pratica notarile14. È un latino mobile e irregolare, che ricalca il volgare nella sintassi e nel lessico; una lingua franca, già pronta per essere riconvertita in una performance volgare, indice di un’osmosi, di un continuum piuttosto che di un’opposizione tra oralità e scrittura15. La caratterizza una tendenza, più o meno accentuata, alla mescidanza linguistica, che è segno inconfondibile della familiarità con la cultura volgare del pubblico, e trova riscontro in altri testi delle origini. Si pensi al latino di Salimbene da Parma, dei glossatori bolognesi (da Azzone a Odofredo), al parlato di Benvenuto da Imola, per tacere del pluringuismo sperimentato nella poesia coeva16. L’ibridismo linguistico si presenta generalmente con un’alternanza secca e regolare, “organica”: espressioni introdotte con le tipiche formule glossanti di demarcazione (vulgo, in vulgari, vulgariter, quod dicitur vulgariter)17, proverbi, canzoni. Per quanto riguarda l’uso di proverbi, basterà un esempio dal sermonario di Giovanni da San Gimignano: «Non respiciunt nisi ad presens dellectabile […] Unde dicunt proverbi quod “Ad presens ova cras pullis sunt meliora”, scilicet in vulgari tusco Meglio è ogi l’uovo che a tempo la galina»18. È una pratica diffusissima, che attiva una “complicità culturale” col pubblico: qualcuno recentemente ha ipotizzato che sia una moda parigina, iniziata a metà Duecento attorno alla predicazione autore-

13 Nel prologo dei suoi Sermones Dominicales Giovanni da San Gimignano dichiara di servirsi non solo dei suoi appunti (cedulae), ma anche delle recollectae degli uditori: «Et quedam ab audientibus incongrue recollecta […] hic quedam quidem immutata, quedam vero magis completa vel saltem plus limata collocare curavi» (BNCF, Conv. Soppr. J II 40, c. 1ra). Cfr. Delcorno, La predicazione volgare in Italia cit., p. 86; e A. Dondaine, La vie et les oeuvres de Jean de San Gimignano, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 9 (1939), pp. 128-191. 14 Cfr. R. Rusconi, Reportatio, in Dal pulpito alla navata. La predicazione medievale nella sua ricezione da parte degli ascoltatori (secc. XIII-XV). Convegno internazionale in memoria di Z. Zafarana (Firenze, 5-7 giugno 1986), «Medioevo e Rinascimento», 3 (1989), pp. 7-36; N. Bériou, L’avènement des maîtres de la Parole. La prédication à Paris au XIIIe siècle, I, Paris 1998, pp. 73-80. 15 Cfr. Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature cit., p. 11. 16 Cfr. C. Delcorno, La lingua dei predicatori cit., p. 24. Vedi in questo volume la relazione di F. Brugnolo, Il plurilinguismo e la consapevolezza delle varietà linguistiche. 17 Per alcuni esempi si veda La lingua dei predicatori cit., pp. 33-35. 18 Ibid., p. 33. Il proverbio è citato nel sermone In funere alicuius aucupis seu venatoris (Pavia, Biblioteca Universitaria, Aldini 564, c. 90rb).


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volissima dell’arcivesco Guglielmo d’ Auvergne19. Un uso più raro è quello di citare versi in volgare: non la poesia religiosa, come avverrà nel Quattrocento, ma la rimeria popolare. Albertino da Verona, un francescano attivo a Bologna, che Salimbene loda come «solemnis predicator», trattando della gloria di Paradiso in un sermone de Sancto Lucha, insinua che i mondani stessi ne hanno qualche idea quando cantano, pensando alle pene e alle gioie amorose, «Un sol çorno arò- çò m’è ‘viso-/ mille volte inferno et paradiso»20. Perfino le distinctiones, che indicano le parti del sermone, sono talvolta in volgare. Ecco come Servasanto da Faenza, un grande predicatore francescano attivo a Firenze nel convento di S. Croce nella seconda metà del Duecento, introduce la materia di un sermone utile per il ciclo santorale (De uno sancto), elencando gli inganni che allontanano dalla santità: «Delectatur enim homo in quattuor, in quibus valde decipitur, scilicet in richeça, in grandeça, in belleça, in forteça»21. Soluzione che imita in volgare il similiter cadens, contro le norme delle artes praedicandi22, e che peralF. Morenzoni, Les proverbes dans la prédication du XIIIe siècle, in Tradition des proverbes et des exempla dans l’Occident médiéval, cur. H.O. Bizzarri - M. Rhode, BerlinNewYork 2009, pp. 131-149: 147. Giunto al termine della monumentale edizione dei Sermones, l’editore auspica un apposito studio linguistico dei termini francesi inseriti nel tessuto latino, tanto sono frequenti e a volte difficili espressioni vernacolari e proverbi. Cfr. Gvillelmi Alverni Sermones, ed. F. Morenzoni, IV (Sermones de communi sanctorum et de occasionibus), Turnhout 2013 (CCCM 230C), p. 403 Note à propos de la langue des sermons. 20 Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. Soppr. cod. 548, c. 107vb: «De ipsa paradiso cantant carnales dicentes: “Un sol çorno arò- çò m’è ‘viso-/ mille volte inferno et paradiso”». Su Albertino v. il saggio fondamentale di C. Cenci, Sermoni del comune dei santi, dei morti e della Madonna composti dal francescano Fr. Albertino da Verona (sec. XIII), «Antonianum», 69 (1994), pp. 273-314; e L. Pamato, «Ut digne valeam scribere et aliis predicare». I sermoni di Albertino da Verona o. min. nel cod. Laurenziano Conv. Soppr. 548, «Il Santo», ser. II, 37 (1997), pp. 105-122; A. Rigon, Note sulla fortuna dei Sermoni antoniani nel sec. XIII, in Congresso Internacional Pensamento e Testemunho. 8° Centenario do Nascimento de Santo Antonio. Actas, I, Braga 1996, pp. 227-244: 230-231 (saggio ristampato col titolo La fortuna dei “Sermones” nel Duecento, in Rigon, Dal Libro alla folla. Antonio da Padova e il francescanesimo medievale, Roma 2002, pp. 69-88). 21 V. Gamboso, I sermoni festivi di Servasanto da Faenza nel codice 490 dell’Antoniana, «Il Santo», 13 (1973), pp. 3-88: 59 nota 65. Su Servasanto v. ora A. Del Castello, La tradizione del Liber de virtutibus et vitiis di Servasanto da Faenza. Edizione critica delle distinctiones I-IV, Napoli 2013 (tesi di dottorato in cotutela con l’École Nationale des Chartes di Parigi); A. Conte, «Naturalia mutari non possunt»: Novellino III, Servasanto da Faenza e le metamorfosi “esemplari” di un tema novellistico, «Strumenti critici», 3 (2013), pp. 349362. 22 Tommaso Waleys, De modo praedicandi, cap. VI (Charland, Artes Praedicandi cit., p. 373): «Absit autem a praedicatore ut, praedicaturus populo in vulgari, tales rhythmos eis faciat». Eccezionalmente anche nelle reportationes delle prediche di Giordano da Pisa si 19


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tro è impiegato da altri predicatori in Italia23, in Francia, in Inghilterra24. La mescolanza è ben più ampia, imprevedibile e continua in alcuni testi del Trecento, secondo una fenomenologia già di tipo “macaronico”, che ha riscontro anche in altre lingue, soprattutto altrove, ad esempio in Inghilterra. Un caso particolarmente significativo per l’ampiezza del fenomeno di mescolanza di umbro e latino, e anche per la datazione, è il sermonario del domenicano perugino, Angelo di Porta Sole, vescovo di Grosseto dal 1330 alla morte (1334)25. Non è un caso che l’uso più ardito di tale ibridismo si noti nella rappresentazione della Passione26, dove il vol-

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ricorre a questo metodo, come ho mostrato in Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze 1975, p. 163. 23 Agli esempi che ho menzionato nel saggio su La lingua dei predicatori (cit., p. 32), si aggiunga il sermone anonimo De vilitate humane miserie (Napoli, Biblioteca Nazionale, cod. VIII A 21, c. 45r): «Homo vanitati similis factus est […] In quibus verbis tria misteria clarissime contemplantur […] delli vestiti denudato […] de l’uso de’ membri privato […] Como bestia insensato […] da nimici assediato». Cfr. C. Cenci, Manoscritti francescani della Biblioteca Nazionale di Napoli, II, Grottaferrata (Romae) 1971, p. 702. Un caso anche nelle schede di Vicente Ferrer (Perugia, Convento di S. Domenico, cod. 477, c. 55v), dove il thema Non potestis deo seruire et mammone (Mt 6, 24) è diviso nel modo seguente: «Mammona diuitie interpretatur. Non dicit habere, nam licet habere ad bene dispensandum, sed dicit seruire. Nota ergo quod diuitie huius modi sunt: maculose brutament, enganose falsament, infructuose certament, periculose grandament». Vedi ora Sermonario de Perugia (convento dei Domenicani, ms. 477), introdd. e edd. F.M. Gimeno Blay - M.L. Mandigorra Llavata, trad. castellana D. Gonzalbo Gimeno, coll. R. Sanchez Rometo, Valencia 2006. 24 Si vedano i modelli di distinctiones nella Summa di Guy d’Evreux, pubblicati in P. Michaud-Quantin, Guy d’Evreux o.p. technicien du sermonnaire médiéval, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 20 (1950), pp. 213-233: 229 nota 37. Altri esempi sono nei sermoni di Gilles d’Orléans, riportati da Raoul de Châteauroux: cfr. N. Bériou, Latin et langues vernaculaires dans les traces écrites de la parole vive des prédicateurs (XIIIe-XIVe siècles), in Approches du bilinguisme latin-français au Moyen Âge. Linguistique, codicologie, esthétique, cur. S. Le Briz - G. Veysseyre, Turnhout 2010, pp. 191-201: 201. Lo stesso uso si nota nei sermoni inglesi riportati in latino: cfr. S. Wenzel, Macaronic Sermons. Bilingualism and Preaching in Late-Medieval England, Ann Arbor 1995, p. 25; A.J. Fletcher, Late Medieval Popular Preaching in Britain and Ireland. Texts, Studies and Interpretations, Turnhout 2009 (Sermo 5). 25 Alcuni esempi di questa mescolanza ho raccolto nel saggio su La lingua dei predicatori cit., pp. 39-46, e cfr. I. Baldelli, Francesco e il volgare, in Non dica Ascesi, che direbbe corto. Studi linguistici su Francesco e il francescanesimo, Assisi 2007, p. 39; R.M. Dessì, “Diligite iustitiam vos qui iudicatis terram” (Sagesse I,1). Sermons et discours sur la justice dans l’Italie urbaine (XIIe-XVe siècle), «Rivista Internazionale di Diritto Comune», 18 (2007), pp. 187-230: 205-206. 26 Analogamente a quello che è stato osservato nei sermoni “macaronici” inglesi: «The manuscripts that have preserved macaronic sermons show a decided predilection for certain occasions and concerns, which may be summed up as calls for repentance, meditation on the passion of Christ, and, to a lesser extent, praise of the Blessed Virgin» (Wenzel, Macaronic Sermons cit., p. 66).


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gare interviene nella descrizione dei particolari più cruenti o assume addirittura cadenze dialogiche proprio dello stile delle laudi “passionali” del repertorio perugino. Basti ricordare qualche esempio: Maledicti Iudei […] accusabant Christum ante Pilatum quia ista miracula faciebat in sabbato et dicebant: Questu è malvasciu et unu reo homo qui sabbatum non custodit […] salutabant eum et spuebant in faciem eius, dicentes: -Ave rex Iudeorum-, quasi dicerent […] Or ecco bon rege, or ecco bon propheta, or ecco figlio de Dio, qui ita flagellatur et verberatur, et non potest se iuvare et defendere a nobis27;

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Or, signori, debetis scire quod mors et passio istius domini fuit cum maxima debilitate et infirmitate […] videte impietatem et crudelitatem, che li panni de gamba no gli lassaro, conciossia cosa che la camiscia e panni de gamba et aliquando una gonnellecta si ène lassa ad li malifactori et latroni28.

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È una tipologia che ha riscontri significativi nei sermoni del Venerdì Santo del Medio Evo inglese, per i quali si adotta uno stile narrativo e drammatico apposito, per così dire una “grammar of Good Friday”29.

Le “reportationes” delle prediche di Giordano da Pisa come mediazione linguistica e culturale Il primo corpus di prediche riportate in volgare è realizzato a Firenze negli anni 1303-1306, quando uno o forse più uditori registrano dalla viva voce le prediche tenute da fra Giordano da Pisa (o da Rivalto) in Santa Maria Novella e nelle principali chiese e piazze di Firenze; si aggiungono, dal 1307 e il 1309, altri cicli raccolti a Pisa in volgare pisano30. Poco altro

27 Angelo da Porta Sole, Sermones de tempore. Feria vj sul thema O uos omnes qui transitis per uiam attendite et uidete si est dolor similis sicut dolor meus [Threni 1, 12] (BNCF, Conv. Soppr. B. 8. 1637, c. 137r-v). 28 Ibid., feria secunda post Pascha sul thema Surrexit dominus uere et apparuit Symoni [Lc 24, 34] (ibid., cc. 143v-144r). 29 H. Johnson, The Grammar of Good Friday. Macaronic Sermons of Late Medieval England, Turnhout 2012, in particolare il cap. 2 (Preaching the Passion in Late Medieval England). 30 Cfr. C. Delcorno, Giordano da Pisa in Dizionario Biografico degli Italiani, 55, Roma 2000, pp. 243-251; Panella, Nuova cronologia remigiana cit., pp. 216-217; S. Serventi, La catechesi nella predicazione di Giordano da Pisa tra teologia e morale, «Studi e problemi di critica testuale», 79 (2009), pp. 131-164; Serventi, Did Giordano da Pisa use the Distinctiones of Nicolas Gorran? in Constructing the Medieval Sermon, cur. R. Anderson,


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rimane, per quel che attualmente si conosce, della predicazione volgare trecentesca31. Fra Giordano ha un’acuta coscienza del suo ruolo di mediatore tra la teologia degli Studia, la dottrina dell’Aquinate – «frate Tommaso d’Aquino, quel savio uomo»32 – e la cultura volgare che in Firenze e in Toscana è ormai in grado di esprimere una letteratura nuova. Non si contano le dichiarazioni che richiamano l’attenzione sullo sfondo comunicativo e sul lavoro linguistico del predicatore, in un alternarsi di inviti e di ripulse, puntualmente annotate dal tachigrafo. Quasi all’inizio della sua predicazione fiorentina il frate avverte: «Queste [cose] ch’io v’ho dette sono fatte e provate per le persone secolari e grosse, che hanno in ciò grosso intendimento»33. Tre anni dopo dichiara: «Io cavo la citerna per avere de l’acqua, ma io la ricuopro acciò che non ci caggiate, imperò che io lascio di dirvi le suttili cose e le profonde, però che nolle intenderesti»34. L’inferiorità dei laici, è stato osservato, «riguarderà soprattutto la cultura volgare, più che la lingua, le abitudini mentali più che le parole»35. Giordano si impegna nella costruzione di una “vernacular theology”36, convinto che la nuova lingua s’accosta con la lettera, con la gramatica: «Noi di Firenze – si legge a proposito del termine latino labor – chiamiamo fatiche non solamente il pensare e ’l vegghiare, ma ogni tribulazione. L’altre genti non chiamano fatiche se non quelle che l’uomo ha in durare fatiche [cioè “fatiche fisiche”]. Noi dunque ci accostiamo con la lettera»37. Per questo la sua predicazione assume spesso «la funzione di educazione

Turnhout 2007, pp. 83-116; E. Corbari, Vernacular Theology. Dominican Sermons and Audience in Late Medieval Italy, Berlin-Boston 2013, pp. 40-49. 31 Cfr. C. Delcorno, La predicazione, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, II, La circolazione del testo, Roma 2002, pp. 405-431: 417-418. 32 Moreni, I, p. 165 (predica del 30 giugno 1303). 33 Prediche inedite del B. Giordano da Rivalto dell’Ordine de’ Predicatori recitate in Firenze dal 1302 al 1305, ed. E. Narducci, Bologna 1867 (Collezione di opere inedite o rare della Commissione pe’ testi di lingua) (d’ora in poi Narducci), p. 107 (9 giugno 1303). 34 QF, p. 171 (pred. XXXIII del 3 marzo 1306). Topica interpretazione allegorica di un passo biblico (Esodo 21,33). Si veda la ricchissima nota al sermone XIV (Attendite a falsis prophetis) di san Tommaso in Sancti Thomae de Aquino Opera omnia, t. XLIV, 1, Sermones cit., p. 218, ll. 190-203. 35 V. Coletti, Parole dal pulpito. Chiesa e movimenti religiosi tra latino e volgare nell’Italia del Medioevo e del Rinascimento, Genova 1983, p. 70. Sulla competenza linguistica di fra Giordano, sulla capacità di «soppesare limiti e pregi della lingua volgare» v. R. Librandi, La letteratura religiosa, Bologna 2012, pp. 36-37. 36 Vedi sopra nota 30. 37 Moreni, II, p. 206 (predica del 2 novembre 1305).


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linguistica»38 e sollecita la competenza lessicale e grammaticale dell’uditorio, come hanno rilevato filologi e storici della lingua, nel solco, del resto, dei compilatori del primo Vocabolario della Crusca. Se il rapporto tra latino e volgare è al centro del lavoro linguistico del predicatore domenicano, egli non tralascia di rivolgere l’attenzione degli uditori ad un più ampio orizzonte, quello, si può dire, delle più importanti lingue allora note: il francese, l’arabo e soprattutto le lingue della Bibbia, l’ebraico e il greco. Poche sono le citazioni della lingua d’oil: Siri, ‘signore’ in un exemplum ambientato in Francia; “Per la mère di Dio”, citando la formula usata oltralpe dagli accattoni39. Ben più insistito è il richiamo delle lingue bibliche: l’ebraico, al quale Giordano fu avviato da un pio ebreo «che gl’insegnava leggere giudeesko»40; il greco, esaltato come la lingua più bella del mondo. Egli la leggeva nelle icone bizantine, nelle “taule” della Madre di Dio. Quel nome «si dipigne ne le taule, e sono quelle lettere dallato grecesche, ch’è la più bella lingua del mondo e propria, e dicono Mitir, l’altra Teù, ch’è a dire “Madre di Dio”. Così nella prima predica tenuta sulla piazza di Santa Maria Novella per la festa dell’Annunciazione del 1306, e nella seconda, detta in chiesa quella stessa mattina, spiega il saluto dell’angelo ricordando l’originale greco-bizantino, kere (chaire): «Ave dice santo Ieronimo ch’è a dire gaude. Santo Luca, che scrisse in grecesco, sì lla pone apunto egli come fu, e dice Kere. Questo è nome proprissimo in grecesco, e chi intendesse bene quella lingua – è troppo bellissima – questo chere si è a dire “allegrati”»41. Forse con qualche civetteria fra Giordano esibisce la conoscenza esatta di alcuni termini dell’arabo, molto probabilmente giovandosi dell’insegnamento di Riccoldo da Monte di Croce, uno dei più esperti arabisti dell’Ordine, che dal 1300 viveva nel convento di S. Maria Novella42. Potestas ‘podestà’ va inteso come persona autorevole e

38 Coletti, Parole dal pulpito cit., p. 66. V. anche pp. 68-69 dove si danno esempi di osservazioni giordaniane sul lessico fiorentino. 39 Narducci, p. 26 (predica del [14 febbraio] 1303); QF, p. 351 (predica LXXI del 25 marzo 1306). Per l’exemplum vedi Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare cit., Repertorio degli esempi, pp. 280-281 n° 57; e Giordano da Pisa, Esempi, ed. G. Baldassarri, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, cur. G. Varanini - G. Baldassarri, II, Roma 1993, p. 313 (n. 161). 40 Prediche del Beato F. Giordano da Rivalto dell’Ordine dei Predicatori, [ed. D.M. Manni], Firenze 1739, p. 86. 41 QF, p. 351 (predica LXXI) e p. 354 (predica LXXII). Sulla cultura greca in S. Maria Novella cfr. A. Malquori, Il giardino dell’anima. Ascesi e propaganda nelle Tebaidi fiorentine del Quattrocento, Firenze 2012, pp. 62-65. 42 Cfr. E. Panella, Ricerche su Riccoldo da Monte di Croce, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 58 (1988), pp. 1-85: 11 e 44.


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come potere, corrisponde all’arabo soldano, spiega in una predica dello stesso ciclo, il 15 marzo 1306: «Onde dice il vangelo, il quale fu iscritto (intendi “tradotto”) in quella lingua de’ saracini, quando dice (Io 10,18) “Io hoe podestade di porre l’anima mia et cetera”, sì dice “soldayn”, sultan»; e il riportatore nota con ammirazione: «Fra Giordano il disse in quella lingua egli»43. Il sermone “moderno” è una costruzione semplice e ad un tempo complessa. Nella forma più elaborata occorre innanzitutto proporre la divisio, le parti fondamentali del discorso, che richiamano le parole del versetto scritturale scelto come thema, di solito ricavato dalla liturgia del giorno. Il compito più delicato consiste poi nel trovare altri passi della Bibbia a conferma della divisione iniziale richiamata nei concetti e nelle forme linguistiche, realiter et verbaliter; da queste citazioni, con procedimento analogo, prende avvio la subdivisio, che può a sua volta procedere con altre suddivisioni di secondo e terzo grado44. Fra Giordano sperimenta questo schema, pur con qualche semplificazione, soprattutto nei primi due anni della predicazione a S.Maria Novella;45; ma nel corpus delle sue prediche prevale uno svolgimento più semplice (detto per distinctiones), che consiste nel proporre subito una pluralità di argomenti riferiti a ciascuna delle parole del versetto iniziale, evitando lunghe e complicate catene di citazioni bibliche in latino46. Un altro accorgimento che permetteva a fra Giordano di comunicare,

43 QF, p. 277. V. Panella, Ricerche su Riccoldo cit., pp. 44-45. A p. 50 l’autore ricorda che anche Giovanni da San Gimignano nella Summa de exemplis et similitudinibus spiega un termine arabo (faqîr), sostenendo di averlo udito viaggiando in paesi mussulmani: «et ego qui inter eos fui frequenter, hoc audivi ab eis et a suis sachariis (= fachariis? faqîh, faqîr) qui religiosi sunt dicti apud eos». 44 Riprendo alcune osservazioni più ampiamente ragionate nel mio studio su Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare cit., in particolare p. 93. 45 Ibid., p. 96. 46 Ibid., p. 94-96. Lo schema più frequente prevede la divisio in tre membri, seguita dalla trattazione per distinzioni a quattro punti. Era il tipo «absque subdivisione membrorum principalium» consigliato dalle artes praedicandi più attente alle esigenze dell’uditorio laico, come il trattato del domenicano Giacomo da Fusignano. Sullo sviluppo per distinctiones si fondavano anche i modelli proposti dal domenicano Guy d’Evreux nel suo fortunatissimo manuale, la Summa Guiotina, composto nell’ultimo decennio del Duecento e subito diffuso in tutti gli Studia dei Frati Predicatori e nell’università di Parigi. Bériou (L’avènement des Maîtres de la Parole cit., p. 189 nota 201) fa notare che il manuale era diffuso per pecia et exemplar. La “pièce maîtresse” del manuale è l’Index alphabeticus dictionum, 74 parole della Bibbia, tra le più ricorrenti nei versetti del thema, per ognuna delle quali si suggerisce una serie di possibili sviluppi per distinzioni (di soliti a quattro membri), le famose “scalette” del predicatore. Cfr. P. Michaud-Quantin, Guy d’Evreux cit., p. 226.


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fin dal principio, in modo semplice e diretto col pubblico laico era l’omissione delle forme più complesse del prothema, che, come si è accennato, era una parte riservata al livello più alto della predicazione47; in ciò egli seguiva l’insegnamento di Umberto di Romans, quinto maestro dell’Ordine dei Predicatori, che nel De eruditione praedicatorum suggeriva di tralasciarlo quando si predicava ad un uditorio modesto, iniziando senz’altro il discorso dopo una breve preghiera48. Nelle reportationes di fra Giordano peraltro manca qualsiasi traccia di orazione ed è ben fondato il sospetto che proprio l’inizio delle prediche sia stato arbitrariamente abbreviato dal riportatore. È probabile che egli usasse uno schema ben documentato non soltanto nella predicazione fiorentina (1400-1406) di Giovanni Dominici49, ma presente anche in una modesta raccolta di modelli di prediche in volgare, derivata da materiali trecenteschi, copiata nel 1468 a Firenze da don Benedetto di Colombo50. In questo interessante manuale sono confluite sia alcune prediche di un anonimo predicatore sia testi derivati dalle reportationes giordaniane, adattate al calendario liturgico romano: mentre nel primo caso si usa regolarmente il prothema, che ha diversa estensione e si conclude con la salutatio della Vergine, le prediche giordaniane ne sono prive. Proprio per supplire a questa mancanza il compilatore ha inserito un’antologia di dodici prothemata perché

47 È un ornamento retorico probabilmente ideato dai domenicani. Cfr. R.H. Rouse M.A. Rouse, Preachers, Florilegia and Sermons. Studies on the Manipulus florum of Thomas of Ireland, Toronto1979, p. 74. 48 De eruditione praedicatorum, P. VII, cap. XL, in B. Humberti de Romanis Opera de vita regulari, ed. J.J. Berthier, II, Romae 1889, p. 481. 49 La reportatio è solo in parte edita. Cfr. N. Ben-Aryeh Debby, Renaissance Florence in the Rhetoric of Two Popular Preachers: Giovanni Dominici (1356-1419) and Bernardino da Siena (1380-1444), Turnhout 2001 (con bibliografia pregressa); Ben-Aryeh Debby, Political Views in the Preaching of Giovanni Dominci in Renaissance Florence, 1400-1406, «Renaissance Quarterly», 55 (2002), pp. 19-48; Giovanni Dominici da Firenze, Catalogo delle opere e dei manoscritti, cur. M.M. Romano, Firenze 2008 (Sentimento religioso e identità italiana, 5 - La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 14), pp. 16-17 e Appendice II, Incipitario dei sermoni italiani. L’edizione delle prediche volgari è in corso a cura di Giovanni Strinna. Ho trascritto il prothema per la predica del lunedì dopo Pentecoste (Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms 1301, c. 116r) nel saggio su Pietà personale e di famiglia nella predicazione quattrocentesca, in Religione domestica (Medioevo-Età moderna), Verona 2001, pp. 117-146: 118 (saggio ristampato col titolo Maestri di preghiera per la pietà personale e di famiglia, in Delcorno, “Quasi quidam cantus” cit., pp. 123-145). 50 Il codice (BNCF, Nuovi Acquisti 1408) era noto ai compilatori del Vocabolario degli Accademici della Crusca come “Libro di prediche” di Piero Segni. Descrizione e tavola nel mio saggio Il ritrovato “Libro di prediche” di Piero Segni. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Nuovi Acquisti 1408, «Memorie Domenicane», n.ser., 33 (2002), pp. 175-193.


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siano utilizzati dove manchino, appunto, nei pezzi ricavati dalle prediche di fra Giordano51. Il successo della predicazione di fra Giordano è certo dovuto agli adattamenti e alle semplificazioni della complessa architettura del sermone, ma decisiva fu la mimesi del parlato, l’abile orchestrazione di tutte le risorse della comunicazione orale. Risparmio e spreco, «Sparsamkeit und Verschwendung in Ausdruck», per usare i termini di Leo Spitzer52, sono i principi che regolano le più frequenti figure retoriche del suo discorso: da una parte la ripetizione martellante sulle stesse parole (anafora, epifora, complexio)53; dall’altra l’ellissi completata dalla situazione comunicativa e dal gesto, dalla “grammatica dei gesti”54. Lo stile giordaniano evita la lentezza analitica della prosa trecentesca – si pensi ai trattati del Cavalca – perché è ravvivato da un dialogo ininterrotto tra predicatore e pubblico, un faccia a faccia veicolato dalla sermocinatio: un dialogo simulato55 epperò autentico, in quanto rivela con sicura intuizione sentimenti, dubbi, esperienze dell’uditorio. Ecco come utilizza un vecchio motivo folclorico, quello del contadino che va a piedi nudi per non consumare le scarpe, a dimostrare che è stolto danneggiare l’anima per risparmiare il corpo:

Or mi di’: – Or perché porti tu il calzaio? Or già si logora egli – Or tu dirai: – Che mmi guarda il piede – E così ti dico: – Quale è meglio, o che si logori il calzaio e stea sano il piede, o riporre i calzari e risparmiarli e il piede si logori? – I

51 La raccolta di prothemata (cc. 77va-79ra) si trova proprio alla fine della sezione costruita con materiali di fra Giordano ed è preceduta da un’avvertenza: «Per cagione che ’ vangeli di questo libro non ànno le salutationi, qui inscriverrò il modo che ssi dee tenere. Detta la proposta [cioè il thema], vuolsi disporre per volgare, e poi pigliare qualunque ti pare de’ detti scripti qui per venire alla salutatione». Cfr. ibid., p.185. 52 L. Spitzer, Italienische Umgangssprache, Bonn-Leipzig 1922, p. 134. Riprendo alcune osservazioni esposte nel saggio Il parlato dei predicatori, «Lettere Italiane», 51 (2000), pp. 4-50, ristampato in Delcorno, “Quasi quidam cantus” cit., pp. 43-84. Si veda inoltre C. Frenguelli, “Teatralità” e parlato nelle prediche del beato Giordano da Pisa, in Le forme e i luoghi della predicazione. Atti del Seminario internazionale di studi (Macerata, 21-23 novembre 2006), cur. C. Micaelli - G. Frenguelli, Macerata 2009, pp. 115-154; S. Serventi, La parole des prédicateurs. Indices d’oralité dans les reportationes dominicaines, XIVe-XVe siècles, «Cahiers de Recherches Médiévales et Humanistes», 20 (2010), pp. 281-299. 53 Le figure di ripetizione sono comuni a qualsiasi forma di performance. Cfr. Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature cit., p. 21. 54 Per alcuni esempi di ellissi vedi Il parlato dei predicatori, p. 58. Sull’interazione tra parola e gesto cfr. C. Frugoni, La grammatica dei gesti. Qualche riflessione, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo (Spoleto, 15-20 aprile 2004), Spoleto 2005 (Atti Settimane CISAM, 52), pp. 895-936. 55 Cfr. Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature cit., pp. 20-21.


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villani il soglion fare, portare i calzari in mano: dicono che vogliono anzi che si logori il piede che ’l calzaio. Cotale è a dicere volere così avere cura del corpo, ché avendo cotale cura del corpo, e risparmiandolo così, sì ssi guasta l’anima e sozzasi56.

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Non meno efficace e drammatico, pur mancando l’esplicita forma dialogica, è l’appello all’esperienza del pubblico, chiamata in causa dai verbi di percezione (vedere, udire). Nessuno conosce l’ora della morte: la banale osservazione, che Giordano introduce nella predica del 26 luglio 1304 sulla parabola del fattore infedele – il thema è appunto Redde rationem villicationis tuae (Lc 16, 2) – acquista uno straordinario rilievo quando Giordano fulmineamente accenna all’assalto dei fuoriusciti Bianchi di pochi giorni prima. Gli uditori hanno visto gli incendi, le impiccagioni, i saccheggi del 20 luglio, fatti narrati in tutti i dettagli dal Compagni57: «Vedesti pur l’altrieri: molti si credeano vivere molto tempo per innanzi, e d’essere chiamati nulla ragione faceano, e vedete quanti ne sono morti!»58. La messa in scena della predica: Bernardino da Siena Si deve attendere fino ai primi decenni del Quattrocento, l’età delle Osservanze, per trovare documenti paragonabili al corpus giordaniano: la raccolta, di proporzioni ridotte, delle prediche pronunciate a Firenze da Giovanni Dominici dal 1400 al 140659, l’inedita reportatio del quaresimale

56 QF, p. 45 (predica X, 20 febbraio 1306). Per questo motivo folclorico si veda Speculum laicorum. Édition d’une collection d’exempla composée en Angleterre à la fin du XIIIe siècle, ed. J.Th. Welter, Paris 1914, p. 17 (cap. X De avaricia): «Stultus quidam habens nova calciamenta abscondit ea in sinu suo vadens per loca aspera, et cum graviter pedem lesisset, gaudebat eo quod calciamenta essent illesa. Sic avarus omni lesioni corporis et anime exponit se ut res suas conservet illesas»; Stephanus de Borbone, Tractatus de diversis materiis predicabilibus, Prologus. Prima Pars De dono timoris, edd. J. Berlioz - J.-L. Eichenlaub, Turnholti 2002 (Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis, CXXIV), I I, pp. 23-24: «Multi autem sunt ut rusticus quidam, qui vadens ad forum ocreas vilissimas portabat super humeros suos, magis volens nudos pedes ledere quam ocreas». Ne deriva probabilmente Humbert de Romanis, De dono timoris I De VII speciebus timoris (ed. Ch. Boyer, Turnholti 2008, p. 17, e la nota a p. 222). Per altre testimonianze v. F.C. Tubach, Index exemplorum. A Handbook of Medieval Religious Tales, Helsinki 1969 (FF, Communications, 204), n. 4351 e il data base Thesaurus exemplorum Medii Aevi: <gahom.ehess.fr>. 57 Dino Compagni, Cronica, ed. D. Cappi, Roma 2013, lib. III 56-68. 58 Moreni, vol. I, p. 205. Altri esempi ho indicato in Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, cit., pp. 48-49. 59 V. sopra alla nota 49.


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predicato in S. Spirito nel 1427 dall’agostiniano Gregorio d’Alessandria60, infine l’imponente serie dei cicli predicati da Bernardino da Siena dal 1424 al 1427, a Firenze e a Siena. Il capolavoro, come è noto, si deve ravvisare nella predicazione senese del 1427, registrata de verbo ad verbum, quasi una “sbobinatura”, dal cimatore di panni Benedetto di maestro Bartolomeo61. Pur nelle evidenti analogie il caso delle reportationes dei cicli di prediche di Bernardino da Siena si presenta con caratteristiche ben distinte a confronto col corpus giordaniano. Il rapporto tra latino e volgare non pone nessuna difficoltà; non vi sono più quelle “lezioni di lingua”, quei chiarimenti sull’uso del fiorentino che rendono preziosi per i lessicografi i discorsi del domenicano. La lingua parlata dai suoi ascoltatori, secondo Bernardino, è così vicina alla “gramatica” che egli si azzarda a proporre l’immediata comprensione del latino, almeno di quello facile delle preghiere. «Doh! guarda che la gramatica è vocabolo (cioè, base del vocabolo volgare) e ’l suo parlare quasi intendibile», osserva trattando della orazione; e dà subito un esempio: «Deus, in nomine tuo salvum me fac (Ps 53, 3). Dice: Idio, nel tuo nome, fammi salvo! E però pone intendimento a quello che dici»62. Nuova e tutta sua63 è l’attenzione per la varietà dei volgari regionali, ben comprensibile in un predicatore itinerante, che va «di terra in terra»: «Quando io giogno in uno paese, io m’ingegno di parlare sempre sicondo i vocaboli loro; io avevo imparato e so parlare al lor modo molte cose». Così afferma rivolgendosi ai suoi concittadini nel ciclo del 1427, alludendo alla sua non comune conoscenza dei volgari settentrionali. In Lombardia «“mattone” viene a dire el fanciullo, e la “mattona” la fanciulla», termini che sul Campo di Siena non avrebbero corso. Allo stesso modo

60 Si veda, con riferimenti alla bibliografia pregressa, O. Visani - M.G. Bistoni, La Bibbia nella predicazione degli agostiniani: il caso di Gregorio di Alessandria, in Sotto il cielo delle Scritture. Bibbia, retorica e letteratura religiosa (secc. XIII-XVI), cur. C. Delcorno - G. Baffetti, Firenze 2009, pp. 115-137. 61 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, ed. C. Delcorno, Milano 1989 (d’ora in poi S27). 62 Bernardino da Siena, Le prediche volgari. Predicazione del 1425 in Siena, ed. C. Cannarozzi, Firenze 1958, I, p. 290 (pred. XXI). D’ora in poi si citerà S25. 63 Analoga sensibilità linguistica, fuori d’Italia, dimostra Vicent Ferrer, che è in grado di osservare le mescolanze tra catalano e castigliano. Un cenno nel mio saggio su Vicent Ferrer e l’Osservanza francescana, in Mirificus praedicator. À l’occasion du sixième centenaire du passage de saint Vincent Ferrer en pays romand. Actes du colloque d’Estavayer-le-Lac, 7-9 octobre 2004, cur. P.B. Hodel - F. Morenzoni, Roma 2006 (Institutum Historicum Fratrum Praedicatorum. Dissertationes Historicae, XXXII), p. 26. Il saggio è ristampato in “Quasi quidam catus” cit., pp. 263-289).


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egli si guarderebbe di usare in Lombardia l’aggettivo “cocciuto” col valore di solido, che ha appena usato elencando una delle ragioni che inducono a detestare le parti, le divisioni politiche64. È una sensibilità linguistica ed estetica che egli sa mettere a frutto con esiti espressivistici proprio nei discorsi diretti e nei dialoghi che animano, come si dirà, i suoi racconti esemplari. Ecco come spicca il milanese in un mimo che inscena l’incontro di due viaggiatori:

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L’uno non sa chi sia l’altro né l’altro l’uno né donde è. L’uno di costoro per sapere qualche cosa di lui dice: – Donde se’, compagnone? – Elli risponde: – So’ da Milani mi. Già ha saputo questo. Anco el domanda: – Che mestiero fai? – Mi so far de’ fustani […]»65.

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La comunicazione diretta e chiara del messaggio evangelico orienta la costruzione della predica bernardiniana, come egli stesso espone nella terza predica del ciclo senese del 1427, che ha per thema un versetto dei Salmi (Ps 118, 130), Declaratio sermonum tuorum illuminat, e tratta appunto gli argomenti solitamente riservati al prothema: il dicitore e le sue virtù, la materia, il comportamento dell’uditore. La predica inizia col famoso racconto del buon frate, grossolano e confusionario, pieno di ammirazione per il confratello «valentissimo in predicazione», così sottile da risultare incomprensibile66 . Più che le artes praedicandi della scuola francescana67 furono decisivi 64 S27, pp. 672-673 (pred. XXIII). 65 S27, p. 190 (pred. IV). Già nel Novellino mi è la marca dei volgari settentrionali. Cfr.

Il Novellino, ed. A. Conte, pref. C. Segre, Roma 2001 (I novellieri italiani), nov. LVII 6, p. 90 e v. la Nota linguistica, p. 283. Altrove, a proposito delle salutari correzioni inflitte da Dio ai peccatori perché si ravvedano, egli riferisce una frase proverbiale usata in Puglia, «che parlano mezzo in volgare e mezzo in latino, cioè in gramatica». Si racconta che un asino, uscito di strada per rodere una siepe spinosa, ruppe il sacco di grano che il contadino recava alla macina, e fu punito con una crudele bastonatura: «Di che si dice di là: “Uscisti della semita, andastine alla siepe, rompesti lo sacco e versastici lo tritico; ergo recipere, ergo recipere”; e dagli del bastone» (Bernardino da Siena, Le prediche volgari. Quaresimale del 1425, ed. C. Cannarozzi, Firenze 1940, I, p. 54, pred. III). 66 S27, pp. 144-145: «Elli parlò tanto alto, che io non intesi nulla», deve ammettere, quando è richiesto di riassumere il contenuto della predica tanto esaltata. Non è questo il modo di predicare proposto da Bernardino: «Elli bisogna che ’l nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo chiarozzo chiarozzo, acciò che chi ode ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato». Bernardino ricorda Girolamo, ep. LII 8: «Qui minus intelligit praedicationem, aliquando plus laudat praedicatorem» (PL 22, col. 534). 67 Forse l’Ars faciendi sermones di Géraud du Pescher o l’ars di Francesco Eiximenis. Vedi C. Delcorno, L’ars praedicandi di Bernardino da Siena, in Atti del Simposio internazionale cateriniano-bernardiniano (Siena, 17-20 aprile 1980), cur. D. Maffei - P. Nardi, Siena


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per Bernardino negli anni di apprendistato, tra Siena e Firenze68, i sermoni modello di Bonaventura da Bagnoregio, di Antonio da Padova, di Francesco de Meyronnes, particolarmente attento, quest’ultimo, all’impiego della mnemotecnica, un’arte che proprio tra i Minori, soprattutto per iniziativa di Ludovico da Pirano, era coltivata con originali risultati69. Nel ciclo ventisettano vi sono ancora prediche complesse, costruite per subdivisiones introdotte regolarmente da citazioni bibliche, concordate verbalmente o a senso con le parole messe in evidenza nella divisione iniziale; ma non è più lo schema del vecchio sermone universitario, perché la concordanza è il modo per attivare immagini forti e impressionanti, di solito tratte dall’Apocalisse, vere imagines agentes – per usare i termini dell’ars memorativa – che visualizzano e imprimono nella memoria dell’uditore i concetti più astratti70. Di fatto prevale nettamente un modello più semplice che prevede la divisione del thema in tre membri, ciascuno dei quali a sua volta è sviluppato con distinzioni, di solito a tre punti: uno schema “bonaventuriano” per l’implicito simbolismo trinitario, definitivamente stabilito nei sermonari latini (il De christiana religione e il De evangelio aeterno), scritti di proprio pugno da Bernardino dall’inizio degli anni Trenta alla morte71.

1982, pp. 419-449; Delcorno, L’Osservanza francescana e il rinnovamento della predicazione, in I frati Osservanti e la società in Italia nel secolo XV. Atti del XL Convegno internazionale (Assisi-Perugia, 11-13 ottobre 2012), Spoleto 2013, pp. 3-53: 8 . 68 Cfr. D. Pacetti, S. Bernardino da Siena Vicario Generale dell’Osservanza (1438-1442) con documenti inediti, «Studi Francescani», Numero dedicato a S. Bernardino da Siena nel V Centenario della morte (1444-1944), Firenze 1944, pp. 7-69: 15-20; Pacetti, Introduzione a Petrus Ioannis Olivi Quaestiones quatuor De Domina, Quaracchi, Florentiae 1954; R. Rusconi, La tradizione manoscritta delle opere degli Spirituali nelle biblioteche dei predicatori e dei conventi dell’Osservanza, «Picenum Seraphicum», 12 (1975), pp. 63-137. 69 Su Ludovico da Pirano, predicatore famoso e teologo incorporato nella Facoltà di teologia padovana, autore delle Regulae memoriae artificialis, oltre il mio contributo su L’ars praedicandi di Bernardino da Siena cit., pp. 419-449: 430-431, v. L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino 2002, pp. 153-155; T. Caliò voce Ludovico da Pirano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 66, Roma 2007, pp. 427-430. 70 Un esempio eccellente è la predica XIII sul Giudizio Universale: la divisione fondamentale, a tre membri, è tracciata su un versetto del salmo 109 (v. 6 Iudicabit in nationibus, implebit ruinas, conquassabit capita in terra multorum), lo svolgimento è scandito dalle immagini dell’Apocalisse (cap. 15, vv. 14-16). Per l’analisi dettagliata della predica cfr. L’ars praedicandi cit., pp. 434-435. 71 Cfr. D. Pacetti, I codici autografi di S. Bernardino da Siena della Vaticana e della Comunale di Siena, «Archivum Franciscanum Historicum», 27 (1934), pp. 224-258; 565584; 28 (1935), pp. 253-272, 500-516; 29 (1936), pp. 215-241, 501-537; e si veda R. De Pierro, Lo scriptorium di san Bernardino nel Convento dell’Osservanza di Siena, in In mar-


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Ben poco peraltro si capirebbe dell’arte retorica bernardiniana se ci accontentassimo della descrizione della macrostruttura delle sue prediche, perché esse sono generate, per così dire, dalla recitazione e dal ritmo musicale delle parole; come bene intese il suo più fedele e diretto allievo, Giacomo della Marca, parlandone in un panegirico tenuto a Padova nel 1460, e riportato in volgare padovano da un notaio, ser Francesco di ser Andrea Novellino72. La sua predicazione «è quasi una continua scena drammatica», scrisse cent’anni fa Massimo Bontempelli73: le componenti del sermone medievale (auctoritates, rationes, exempla, per usare i termini delle artes praedicandi)74, tutto è fuso da una «voce recitante» che si rivolge al pubblico presente sulla piazza nel suo assieme o nelle sue componenti, quasi a rilevare insistentemente la situazione comunicativa oral-aurale75. Ben noti sono gli appelli rivolti alle donne, ai fanciulli, agli artigiani (“O orafo!”, “O butigaio”), ma anche a preti, a ufficiali del governo76, spesso agli stessi tachigrafi77. Del resto, il suo sguardo e la sua parola si rivolgono ai margini della predicazione, si scontrano con gli ostacoli, con le persone ostili e indifferenti78, che vivono anch’esse nei suoi indimenticabili a parte79.

gine al Progetto Codex. Aspetti di produzione e conservazione del patrimonio manoscritto in Toscana, cur. G. Pomaro, Pisa 2014 (Toscana. Biblioteca e Archivi, III), pp. 29-105; N. Giové, Sante scritture. L’autografia dei santi francescani dell’Osservanza del Quattrocento, in Entre stabilité et itinérance: livres et culture des ordres mendiants, 13e-15e siècle, dir. N. Bériou - M. Morard - D. Nebbiai, Turnhout 2014 (Bibliologia 37), pp. 161-187. 72 Le prediche di Bernardino erano facilmente memorizzabili per l’ordine dell’esposizione («erano tanto bene partide […] che ogniuno de ogni quallità ne portava a caxa»), ed erano nuove, affascinanti, perché muovevano gli affetti degli ascoltatori trasportati dai gesti e dalle intonazioni musicali della voce: «Se lui voleva predicarti del paradixo, lui te mostrava giesti e modi che ’l te pareva proprio esser nel paradixo», e così dell’inferno e di ogni altro argomento. Cito dal mio saggio su Due prediche di Giacomo della Marca (Padova 1460), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», Classe di scienze morali, lettere ed arti, 128 (a.a. 1960-1970), pp. 135-205 (ristampato in “Quasi quidam cantus” cit., pp. 327-377: citazioni a p. 359). 73 M. Bontempelli, Bernardino da Siena, Genova 1914, p. 47. 74 Tommaso Waleys riduceva a questi tre elementi le tecniche della dilatatio. Cfr. Charland, Artes Praedicandi cit., p. 195. 75 Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature cit., p. 21, e per il concetto di “situazione comunicativa” vedi p. 54. 76 E. Pasquini, Costanti tematiche e varianti testuali nelle prediche bernardiniane, in Atti del Simposio internazionale cateriniano-bernardiniano cit., pp. 677-713: nota 17 a p. 687. 77 Vedi S27, XVII 62 (p. 494); XXIV 8 (p. 684), XXVII 60 (pp. 772-773); XXXIX 15 (p. 1143). 78 Un aspetto della predicazione ben presente nella letteratura degli exempla. Cfr. J. Berlioz- M.A. Polo de Beaulieu, The Preachers Facing a Reluctant Audience According to the Testimony of Exempla, «Medieval Sermon Studies», 57 (2013), pp. 16- 28. 79 S27, XXV 3 (p. 710): «Guarda me, hai inteso? Guarda me! […] O della fonte! che


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La riportazione del ciclo ventisettano riproduce con estrema attenzione le componenti puramente foniche e prosodiche, la vocalità della predicazione di Bernardino (per usare il termine coniato da Paul Zumthor)80: interiezioni, a cominciare da quel famoso Doh! senese, quasi uno squillo di tromba per risvegliare l’attenzione; esclamazioni iterate, strascicate (gli “Oooh!”, “Uuh!”) che costellano il discorso, fonetismi mimici delle interrogative (“Chee?”, “Perchée?”) e delle ingiuntive (“Non faare”, “Sii”), parole sillabate e segmentate come moderni slogans (“pe-co-ro-ne”), per tacere delle invenzioni di suoni onomatopeici, a partire dalla serie dei suoni animali – la ranocchia (“qua qua qua qua”), l’oca (“ca ca ca ca”), il nibbio (“mio mio mio”) – fino al ciarlare delle comari, simili a gazze (“chi chi chi”)81. All’estremo opposto rispetto all’onomatopea si collocano le pause improvvise, che si indovinano nella sdrucitura delle sequenze sintattiche, che sembrano interrotte o meglio concluse da un gesto: «Hai tu veduto quando uno è turbato cor un altro? Sai come elli se li dimostra? Elli se li dimostra col grugno, vedi… così!»82. L’importanza della gestualità, della messa in scena della predicazione bernardiniana è lucidamente intesa da tutti i riportatori, ai quali, del resto, non doveva mancare qualche familiarità con analoghe tecniche di recitazione dei canterini83. Così l’anonimo che registra la predica sul Nome di Gesù tenuta a Firenze nel 1424 annota che, finita la predica, Bernardino «cavò fuori una tavoletta di circa a uno braccio per ogni verso e in essa figurato el nome di Gesù nel campo azzurro, con uno razzo d’oro con lettere intorno»; a questo gesto risponde la gestualità dell’assemblea: «Tutto el popolo, che era piena la chiesa, inginocchione, senza nulla in capo, tutti piangendo di tenerezza dell’amore di

state a fare il mercato, andatelo a fare altrove»; S27, XXXV 128 (p. 1022): «Alla palla gonfiata sento che si giuoca, e qui si predica». 80 P. Zumthor, La lettera e la voce. Sulla “letteratura” medievale, trad. it., Bologna 1990 (La lettre et la voix. De la littérature médiévale, Paris 1972), p. 28. Sulla “vocalità” bernardiniana v. C. Bologna, “Io son voçe de choluj che clama…”, in Predicazione e società nel Medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento, cur. L. Gaffuri - R. Quinto, Padova 2002 (Centro Studi Antoniani, 35), pp. 1-22: 13. 81 Traggo l’esemplificazione da Pasquini, Costanti tematiche cit., pp. 692-694 e dall’ Introduzione a Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo 1427 cit., pp. 41-44. 82 S27, XIV 66 (p. 430). 83 Alcune osservazioni sui tratti orali e sulla gestualità della recitazione canterina in L. Degli Innocenti, I «Reali» dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, Firenze 2008, pp. 202-209, e v. ora la sua relazione Paladini e canterini: appunti sull’oralità nella tradizione cavalleresca italiana del Quattro e Cinquecento al convegno Carlo Magno in Italia e la fortuna dei libri di cavalleria (Zurigo, 6-8 maggio 2014). Atti in corso di pubblicazione.


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Gesù, e per grande divozione adorandolo e reverendolo»84. La scena della predica e le cerimonie che l’accompagnano (pacificazioni, roghi delle vanità, ostensione della tavoletta col Nome di Gesù), come osservava Zelina Zafarana, «conferiscono anche al popolo un suo ruolo e danno spazio a reazioni emozionali, nel gioco di una mimica drammatizzante»85. L’exemplum bernardiniano

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Nella predicazione ai laici si era imposta fin dal Duecento una forma di mediazione culturale di sicuro e larghissimo successo, l’exemplum, una forma di argomentazione retorica in grado di utilizzare ogni genere di racconto antico e medievale: ogni narrazione, della più diversa provenienza, può servire come exemplum quando è utilizzato per un’ intenzione comunicativa86. Bernardino ha a disposizione un repertorio imponente, raccolto nelle summe exemplorum, ed egli se ne serve spregiudicatamente, non senza accogliere motivi e tecniche della fiorente novellistica, a cominciare dal Decameron87. Nel corpus della sua predicazione, sia reportationes che

84 F24, II, pp. 213-214 (pred. XL). La cerimonia è ripetuta in altre occasioni, ad es. a Siena nel 1425 (pred. XXXIV, II, p. 184). Sul culto del Nome di Gesù, cuore della predicazione di Bernardino, e sull’opposizione da lui incontrata esiste una ricchissima bibliografia. Cfr. R.M. Dessì, La prophétie, l’Évangile et l’État. La prédication en Italie au XVe et au début du XVIe siècle, in La parole du prédicateur, Ve-XVe siècle. Études réunies par R.M. Dessì et M. Lauwers, Nice 1997 (Collection du Centre d’Études médiévales de Nice, 1), pp. 395-444: 414; E. Michelson, Bernardino of Siena visualizes the Name of God, in Speculum sermonis. Interdisciplinary Reflections on the Medieval Sermon, cur. G. Donavin - C.J. Nedermann - R. Utz, Turnhout 2004, pp. 157-179. 85 Z. Zafarana, Bernardino nella storia della predicazione, in Bernardino predicatore nella società del suo tempo, Todi 1976 (Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, XVI), pp. 41-70, a p. 66. Il saggio è ristampato in Zafarana, Da Gregorio VII a Bernardino da Siena. Saggi di storia medievale con scritti in ricordo di Zelina Zafarana, cur. O. Capitani et al., Perugia-Firenze 1987). Isolato e bizzarro, ma estremamente significativo è lo sputo collettivo contro i sodomiti, che ripete appunto il gesto del predicatore con una pronta, entusiastica adesione, tanto che «parve un tuono», ricorda il tachigrafo (F24, predica XXXI, II, p. 48). Un gesto che, si badi, non è alla conclusione della predica, ma demarca il passaggio alla terza e ultima parte, è una modalità dell’argomentazione che però stringe un patto, uno straordinario segno di intesa del predicatore col suo pubblico. 86 Cfr. J. Berlioz - M.A. Polo de Beaulieu, Introduction générale a Le Tonnerre des exempla. Exempla et médiation culturelle dans l’Occident médiéval, cur. M.A. Polo de Beaulieu - P. Collomb - J. Berlioz, Rennes 2010, p. 12: «On sait que l’exemplum n’est tel que lorsque se présente une certaine intention communicative». 87 Rimando a Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, in particolare al capitolo Bernardino narratore (pp. 127-162); e alla mia Introduzione al


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sermonari scritti a tavolino, si contano non meno di 720 canovacci esemplaristici, derivati da tutte le forme della narrativa breve medievale, dalle leggende agiografiche ai contes folclorici, dalle visioni ai miracoli, alle favole esopiche, per tacere dei rifacimenti delle parabole evangeliche e delle storie bibliche88. Tuttavia l’istinto di grande comunicatore lo inclina a scegliere l’argomento dei suoi racconti nella contemporaneità, in ciò che è vicino all’esperienza sua e degli uditori: «Ma che bisogna che noi andiamo cercando e libri antichi? Va cerca el libro de la memoria, quello che è stato pure dal Quattrocento in qua», prorompe in una predica del ciclo senese ventisettano89. Non la storia, che ordina e sceglie i fatti, ma il “libro della memoria” unisce in un sentimento corale il pulpito e la navata, il predicatore e il suo pubblico. È qualcosa di più del sacchettiano “libro del Cerbacone”90, qualcosa di più vasto e profondo della memoria personale:

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Repertorio degli esempi volgari di Bernardino da Siena, cur. C. Delcorno - S. Amadori, Bologna 2002, ristampata (e aggiornata) col titolo L’exemplum multiforme di Bernardino da Siena. Tra fonti scritte e canali di informazione, in “Quasi quidam cantus” cit., pp. 203-242. Per la rielaborazione di motivi decameroniani vedi ora N. Maldina, Retoriche e modelli della predicazione medievale nel Corbaccio, «Studi sul Boccaccio», 39 (2011), pp. 155-187; Maldina, Lettori devoti. Sul Boccaccio di Bernardino da Siena, in Boccaccio e i suoi lettori. Una lunga ricezione, cur. G.M. Anselmi - G. Baffetti et al., Bologna 2013, pp. 229-242. La ripresa esplicita di novelle decameroniane è stata attentamente studiata nei trattati di Iacopo Mazza, minore osservante messinese, tra la fine del Quattrocento e i primi vent’anni del secolo successivo. Cfr. F. Conte, Un francescano osservante alle propaggini del Medioevo. Gli exempla di Iacopo Mazza. Tra materiale novellistico e motivi edificanti topici, pref. A. Pioletti - G. Lalomia, Roma 2014 (Meridionalia, 11), in particolare pp. 137-141. 88 Sui problemi particolari posti dagli exempla tratti dalla Bibbia rimando al mio saggio Exempla bibliques, exempla classiques, in Le Tonnerre des exempla cit., pp. 81-102. 89 S27, pred. XLII (pp. 1251-1252). Movimento retorico topico, che trova riscontro in molti scrittori. Agli esempi del Cavalca, che ho ricordato in Exemplum e letteratura cit., p. 138 si aggiunga Boccaccio, ep. XIII a Francesco Nelli (ed. G. Auzzas, in Tutte le opere di G. Boccaccio, cur. V. Branca, vol. V/1, Milano 1992, p. 613): «Ma a che conduco io in mezzo gli antichi esempi, con ciò sia cosa che egli abbia dinanzi agli occhi…», e retrocedendo nel tempo Girolamo, ep. LIV ad Furiam (PL 22, col. 560): «Quid vetera repetam et virtutes feminarum de libris proferam cum possis multas ante oculos tibi proponere in Urbe qua vivis, quarum imitari exemplum debeas?» ; Arrigo da Settimello, Elegia, lib. III, v. 155 (ed. C. Fossati, Firenze 2011): «Ecce modernorum priscis exempla relictis». 90 Espressione scherzosa per indicare il proprio cervello (da cervello+bacca). Vedi Franco Sacchetti, Le trecento novelle, cur. M. Zaccarello, Firenze 2014, nov. CLI, p. 360: «Essendo domandato da certi valentri uomini se le ragioni con che io aveva vinto Fazio aveva trovato mai in alcun libro, et io dissi che sì, che io l’aveva trovate in un libro che io portava sempre meco, che aveva nome il Cerbacone». E v. Franco Sacchetti, Il libro delle rime, ed. F. Brambilla Ageno, Firenze-Perth 1990 (Italian Medieval and Renaissance Studies. The University of Western Australia, 1), CLIX, vv. 366-370: «Lasciai il calamaio e la penna, /che scrisse/ insino a questo ciò che vi si disse,/ che non capea nel mio cerbacone,/ recando meco cotal zibaldone».


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M. Halbwachs, La mémoire collective, Paris 19682 (1a ed. postuma 1950), p. 70: «un courant de pensée continue, d’une continuité qui n’a rien d’artificiel, puisqu’elle ne retient du passé que ce qui n’en est encore vivant ou capable de vivre dans la conscience du groupe qui l’entretient». La storia, che sceglie e ordina i fatti, inizia dove cessa la memoria collettiva (pp. 68ss.). Per l’uso di queste categorie sociologiche nella storiografia v. Reichl, Plotting the Map of Medieval Oral Literature cit., p. 15. 92 Cfr. J. Le Goff, Types d’exempla, in L’exemplum cur. Cl. Bremond - J. Le Goff J.Cl. Schmitt, Turnhout 1982 (Typologie des sources du Moyen Âge Occidental, 40), p. 45: «La crédibilité de l’histoire ne vient pas du héros de l’anecdote, mais de la qualité du narrateur et plus encore de son informateur»; Le Goff, L’exemplum et la rhétorique de la prédication aux XIIIe-XIVe siècles, in Retorica e poetica tra i secoli XIII e XIV, cur. C. Leonardi - E. Menestò, Firenze-Perugia 1988, pp. 3-29: 10: «L’autorité qui entraine la croyance en l’authenticité de l’exemplum […] se déplace du personnage sujet, héros de l’exemplum […] vers le fournisseur de l’exemplum et vers le prédicateur lui-même». Per quanto riguarda Bernardino, v. l’Introduzione al Repertorio degli esempi volgari di Bernardino da Siena cit., pp. XV-XIX (e v. correzioni e aggiunte introdotte nella ristampa con titolo L’exemplum multiforme di Bernardino da Siena in “Quasi quidam cantus” cit., pp. 211-215). Per le caratteristiche della narrativa degli Osservanti francescani rimando a Apogeo e crisi della predicazione francescana tra Quattro e Cinquecento, in Anno 1517. La divisione nella Chiesa e nell’Ordine francescano (Firenze, 25 ottobre 2014). Gli Atti della giornata sono in corso di stampa. 93 Un precedente di grande valore è l’exemplum della morte dell’avaro inserita nella seconda redazione dell’Epistola ad fideles (Francesco d’Assisi, Scritti, cur. C. Paolazzi, Grottaferrata 2009, pp. 198-200), e v. il mio studio Pour une histoire de l’exemplum en Italie, in Les exempla médiévaux: nouvelles perspectives, cur. J. Berlioz - M.A.Polo de Beaulieu, Paris 1998, pp. 147-176: 151-152. 94 M. Zink, Le temps du récit et la mise en scène du narrateur dans le fabliau et dans l’exemplum, in La Nouvelle, Actes du colloque internationale de Montréal (McGill University, 14-16 octobre 1982), cur. M. Picone - G. Di Stefano - P. Stewart, Montréal 1983, pp. 27-44: 29: «Le cheminement vers le présent […] apparaît donc en même temps comme un cheminement vers le Je»; e vedi Zink, La subjectivité littéraire. Autour du siècle de saint Louis, Paris 1985, pp. 83-84. 95 Ho constatato che nelle raccolte di exempla francescane, a differenza di altre summe, evidente è la cura di conservare la struttura dialogica delle fonti, v. Les dialogues

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Bernardino intuisce l’importanza della “memoria collettiva” dove è raccolto solo ciò che è ancora vivo negli altri, identificando una generazione, un gruppo sociale91. La novità decisiva, che fa di Bernardino il maestro, il fondatore di una narrativa dell’Osservanza francescana, è la messa in rilievo del predicatore come garante delle cose narrate e l’insistenza sui “canali di informazione” che danno autorità di prova alle “cose viste”92. Fedele ad una costante della tradizione francescana, che ha il modello supremo in Francesco d’Assisi93, Bernardino porta alla perfezione la contemporaneizzazione dell’exemplum, processo inseparabile dalla messa in scena della soggettività del predicatore94. La sapiente strutturazione dialogica dell’exemplum95 ne


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Conclusione

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fa spesso una sorta di “mimo” nel quale il pubblico riconosce le situazioni della vita vissuta. Nel monologo di Bernardino vi è una drammaticità implicita, nell’unica voce recitante si distinguono altre voci, che probabilmente egli sapeva caratterizzare con diverse intonazioni e gesti96. Si è già accennato a quest’arte “giullaresca” a proposito dell’uso del volgare milanese, e non è questa la sede per una campionatura, sia pur sommaria, di tali implicazioni drammatiche. Anche il riferimento agli “informatori” introduce una sorta di “spalla” dell’attore principale, alludendo ad un cerchio di personaggi qualificati, per lo più autorevoli frati dell’Osservanza francescana, professionisti della parola come Bernardino97.

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Se è vero che la predicazione è un medium nell’età precedente all’introduzione della stampa98, non si può dubitare che il ciclo bernardiniano del 1427 abbia tutte le qualità di una comunicazione di massa: per chiarezza di esposizione dei concetti, per eccellenza e ricchezza di procedimenti retorici, per l’uso abilissimo di effetti teatrali. Tuttavia sarebbe un errore storiografico se lo considerassimo un capolavoro isolato della letteratura quattrocentesca, un documento del “parlato” sorto improvvisamente per

des Pères du désert et les exempla des prédicateurs, in Formes dialoguées dans la littérature exemplaire du Moyen Âge. Actes de colloque établis sous la direction de M.A. Polo de Beaulieu, Paris 2012, pp. 23-53: 29-33. 96 Cfr. V. Berardini, Prédicateurs et acteurs. À la recherche d’indices de performance dans les sermons de la fin du Moyen Âge, in Prédication et performance du XIIe au XVIe siècle, cur. M. Bouhaïk-Gironès - M.A Polo de Beaulieu, Paris 2013, pp. 79-90: 85. La “sceneggiatura” delle voci dei personaggi è evidente anche nei racconti di Giordano da Pisa: cfr. Frenguelli, “Teatralità” e parlato nelle prediche del beato Giordano da Pisa cit., p. 131. Nonostante il moltiplicarsi degli studi sulla predicazione medievale, l’interazione tra predica e teatro sacro è argomento ancora da approfondire, come nota M. Bouhaïk-Gironès, La scène prédicatrice, Introduction a Prédication et performance cit., pp. 9-15. Si veda anche X. Leroux, Implications dramaturgiques du monologue dans le théâtre édifiant du Moyen Âge, in Vers une poétique du discours dramatique au Moyen Âge. Actes du colloque international de Toulon, cur. Leroux, Paris 2011, pp. 101-119. 97 Frati dell’Osservanza sono metà degli informatori di Bernardino da Siena: v. l’elenco in L’exemplum multiforme di Bernardino da Siena cit., pp. 212-213. 98 D. D’Avray, Medieval Marriage Sermons. Mass Communication in a Culture without Print, Oxford 2001. Tutta la predicazione dei Mendicanti, come notava Corrado Bologna, funziona «alla maniera di un grande strumento di comunicazione di massa» («Io son voçe de choluj che clama…» cit., p. 15).


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la creatività linguistica e fantastica di un geniale toscano e per la straordinaria attenzione del suo riportatore. Lo preparano due secoli di lavoro sul volgare in tutte le regioni d’Italia, un’instancabile ricerca di modelli retorici adatti alla comunicazione dal pulpito, fatta di successi e di cadute, irta di ostacoli e di resistenze, lungo un percorso che la storiografia recente ha individuato come uno dei più affascinanti e decisivi nella storia della cultura italiana.


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L’università di Parigi e la cultura letteraria in lingua francese (XIII-XIV secolo)*


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Generalmente la storiografia dà per certo che nel Medioevo le università, e le scuole in generale, fossero istituzioni nelle quali il latino si imponeva come lingua unica della comunicazione orale e scritta. Eppure bisogna riconoscere che i testi normativi su questo argomento restano rari, anche per un’istituzione così importante come l’Università di Parigi. Tuttavia qualche precisazione sugli usi linguistici imposti ai maestri e agli studenti si trova negli statuti dei numerosi collegi che accoglievano molti tra quelli che venivano a Parigi per seguire un corso universitario. In occasione dei miei lavori sull’Università di Parigi, negli anni ‘90, misi insieme un corpo di statuti di trenta collegi, la maggior parte risalente al XIV secolo, che avevo trovato, pubblicati o manoscritti, tra i fondi dei collegi negli Archivi nazionali, a Parigi1. Tra questi, solamente otto facevano riferimento alla lingua, per precisare che il latino era la sola lingua permessa nell’istituto. Ad esempio, gli statuti del collegio di Navarra prescrivono: «loquatur communiter latinum ut per assuetudinem promptius et magis congrue proferant et loquantur»2. Quelli del collegio di Plessis sono ancora più precisi: Item et ne inter vos invicem, vel alias infra metas ejusdem domus, nisi quando cum personis extraneis vel illiteratis vos stare contigerit, Gallicis, nec nisi duntaxat Latinis, seu turpibus vel aliis inhonestis verbis uti3.

* Vorrei esprimere tutta la mia riconoscenza a Francesca Tempestini per la bella traduzione in italiano del mio testo. 1 S. Lusignan, L’enseignement des arts dans les collèges parisiens au Moyen Âge, in L’enseignement des disciplines à la Faculté des Arts (Paris et Oxford, XIIIe-XVe siècles). Actes du colloque international, Turnhout 1997, pp. 43-54. Recentemente, Thierry Kouamé ha annunciato un progetto di edizione di tutti gli statuti conosciuti dei collegi parigini: L’édition des sources médiévales des collèges parisiens. Bilan et perspectives, in Die universitäten Kollegien im Europa des Mittelalters und der Renaissance, Bochum 2011, pp. 39-58. 2 C.E. du Boulay, Historia Universitatis Parisiensis a Carolo Magno ad nostra tempora, IV, Paris 1665-1673, p. 96. 3 M. Félibien - G. A. Lobineau, Histoire de la ville de Paris, III, Paris 1725, p. 282.


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La legislazione scolastica sembra confermare quello che molto spesso è dato per certo. Tuttavia, esiste uno statuto scolastico che lascia spazio all’uso del francese nel quadro del corso di studi e, cosa ancora più sorprendente, si tratta dello statuto del collegio di Cluny, che accoglieva a Parigi i membri del grande ordine benedettino. Uno degli articoli precisa che: Statuimus quod post Pascha de quindena in quindenam fratres et studentes in Gallico predicent, ut in hujusmodi usu et opere exercitati possint per ordinem et alibi promptius in Gallico proponere verbum Dei4.

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Lo statuto prevedeva un apprendimento della pratica oratoria in francese, nel quadro della formazione universitaria dei monaci. Può darsi che nell’ambiente scolastico la separazione tra cultura latina e cultura volgare sia stata meno assoluta di come spesso si è tentati di supporre? Tale quesito trova risposta in diversi approcci storici, di cui vorrei presentare una visione d’insieme articolata in tre punti: 1. L’influenza dell’apprendimento del latino sulla lingua volgare francese 2. Il controllo del francese letterario da parte delle università 3. Lo sviluppo di un pensiero erudito in francese. 1. L’apprendimento del latino e la grammaticalizzazione della lingua volgare

Un primo chiarimento sulla questione è dato dallo studio delle modalità di insegnamento del latino nelle scuole medievali. Sappiamo che era fondato, tra le altre cose, sull’apprendimento dello studente di un sapere grammaticale elementare, di cui la grammatica di Donato forniva i canoni. Già nel 1968 Jean-Claude Chevalier notò che un tale apprendimento della grammatica latina poteva difficilmente realizzarsi senza la presa di coscienza da parte dello studente delle categorie grammaticali della lingua madre5. Ad esempio, il giovane poteva difficilmente comprendere la nozione di “nominativo” senza comprendere parallelamente che “li maistre” svolgeva la funzione di soggetto nella frase “li maistre lit”, per citare un esempio spesso utilizzato nei manuali medievali. Al giorno d’oggi sono ben noti i piccoli manuali di insegnamento del latino, che ispiravano i maestri delle

4 5

Ibid., p. 281. J.-C. Chevalier, Histoire de la syntaxe. Naissance de la notion de complément dans la grammaire française (1530-1750), Genève 1968.


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scuole, grazie a diverse edizioni, tra le quali la migliore è la raccolta di dieci di queste opere curata da Maria Colombo Timelli. Questi manuali esponevano i rudimenti della morfologia e della sintassi del latino, spesso in francese, ma a volte anche in latino, illustrati attraverso esempi per la maggior parte in latino e talora in francese. Come sottolinea la curatrice, queste grammatiche trasmettevano un metalinguaggio tecnico applicabile sia al latino che al francese, inculcando così negli studenti una riflessione d’ordine grammaticale che si rispecchiava pure sulla loro lingua volgare6. Citiamo questo breve esempio relativo ai diversi casi di sostantivo in latino:

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Ly nominati ensi comme quoy? Ensi comme magister, ly maystre, ly geniti magistri, dou maystre, ly dati magistro, ou maystre, ly acusati magistrum, luz maystre, ly vocati o magister, o tu maystre, ly ablati ab hoc magistro, de par le maystre7.

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Così, provocando una riflessione grammaticale sulla lingua volgare, l’apprendimento del latino costituì una prima tappa verso l’emergere di un registro letterario del francese. La possibile acquisizione di una solida padronanza del latino non comportava di per sé il venir meno della capacità di riflettere sulla lingua volgare, neanche tra gli universitari. Questa riemerge soprattutto quando il latino si dimostra insufficiente ad esporre una questione. In occasione del suo commento al libro XVII delle Institutiones di Prisciano, il cui capitolo 27 tratta dell’articolo in greco, Robert Kilwardby segue una riflessione parallela ispirata dall’uso dell’articolo in francese: Hoc patet manifeste in gallico quod distinguit articulas. Si enim dicatur “maistre”, ad hoc confusum est respectu casuum et respectu diversarum ordinum in oratione. Si enim dicitur “li maistres”, determinatur ei nominativus et determinatur ei ratio ordinationis, ut ab eo potest sic egredi actus, quod patet sic dicendum “li maistres lit”. Si autem dicatur “le maistre”, determinatur ei accusativus et ratio ordinationis, ut recipiat actum sic: “Je vois le maistre’’8.

Dal canto suo Ruggero Bacone mette in rilievo la funzione denotativa dell’articolo francese:

6 M. Colombo-Timelli, Traductions françaises de l’Ars minor de Donat au Moyen Âge (XIIIe - XVe siècles), Firenze 1996, pp. 8-9. 7 Ibid., p. 207. 8 S. Lusignan, Parler vulgairement. Les intellectuels et la langue française aux XIIIe et e XIV siècles, Paris-Montréal 1987, p. 27.


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Nam hoc est de proprietate articuli ut veritatem rei designet. Sed hoc non apparet in Latino, quia Latini non habent articulum. Nam satis innotescit in Gallico. Unde cum dicitur Parisius Li reis vent, iste articulus li designat proprium et verum regem talis loci, quasi regis Franciae. Et non sufficeret hoc ut denotaret adventum regis Angliae. Nullus enim diceret de rege Angliae veniente Parisius, Li reis vent, sed adjungeret aliud dicens, Li reis de Engletere vent. Et ideo articulus 9 solus sufficit ad veritatem et proprietatem rei de qua sermo disignandam .

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L’ esperienza linguistica del francese non è mai stata molto distante da quella del latino, anche tra gli universitari di primo piano come Kilwardby e Bacone. Nel loro modo di pensare i due idiomi mantenevano uno stretto rapporto. Se accadeva che il francese sopperisse alle carenze del latino, il suo contatto con la lingua dotta doveva contribuire al suo sviluppo come lingua letteraria.

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2. La padronanza del francese letterario da parte degli universitari

Molto presto, dagli albori del XIII secolo, alcuni universitari estesero la loro esperienza di riflessione linguistica sul francese, divenendo loro stessi scrittori e oratori in questa lingua. Vorrei ricordare brevemente qualche conclusione di una ricerca condotta nel terzo capitolo del mio ultimo libro, consacrato al ruolo del francese nell’Università di Parigi10. Ricordiamo che la forma scritta del francese medievale prese in prestito diversi scripta secondo l’origine geografica degli autori. Benché destinata a divenire dominante nel corso degli ultimi due secoli del Medioevo, la scripta parigina apparve a poco a poco nei testi nel corso della prima metà del secolo XIII, mentre la scripta anglo-normanna era nata già un secolo prima, e quella piccarda era già ben consolidata verso il 1200. Alain Corbellari – con cui concordo pienamente – sostiene che i testi più antichi scritti in francese parigino si trovano quasi tutti legati, in un modo o nell’altro, all’ambiente universitario11. L’autore più antico a cui possiamo risalire, è Enrico d’Andeli. Dobbiamo a lui La bataille des vins (1223-1224), Le Lai d’Aristote (circa 1235), Le dit du chancelier Philippe (1237) e La batail-

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p. 77.

Roger Bacon, The Opus Majus of Roger Bacon, ed. J.H. Bridges, III, London 1900,

10 S. Lusignan, Essai d’histoire sociolinguistique. Le français picard au Moyen Âge, Paris 2012 (Recherches littéraires medievales, 13). 11 A. Corbellari, La voix des clercs: littérature et savoir universitaire autour des dits du XIIIe siècle, Genève 2005 (Publications romanes et françaises, 236).


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le des sept arts (circa 1230): testi che rivelano, per la maggior parte, un sapore universitario12. A seguire, troviamo Jean le Teinturier d’Arras (seconda metà del XIII secolo), autore di un Mariage des sept arts ispirato a Marziano Capella, e soprattutto Rutebeuf, morto verso il 1285, di cui molti lais vertono su soggetti universitari. Pensiamo, tra gli altri, a La descorde de l’Université et des Jacobins, scritto verso il 1254-1255, poema nel quale l’autore si schiera con i secolari contro i mendicanti nella celebre querelle che li vedrà in contrapposizione riguardo al diritto di nominare i professori di teologia. Papa Alessandro IV, lui stesso un francescano, sostenne senza riserva i mendicanti nelle loro rivendicazioni, e in una bolla del 1259, che aveva come scopo la pacificazione definitiva dell’ambiente accademico, raccomandò di gettare nel fuoco le opere e i poemi scritti in latino o in francese contro i mendicanti:

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Quosdam alios libellos famosos in infamiam et detractationem eorundem fratrum ab eorum emulis in litterali et vulgari sermone necnon rismis et cantilenis indecentibus de novo ut dicitur editos13.

Questo testo suona come una condanna di autori come Rutebeuf. Si potrebbe pensare che gli autori francesi siano cresciuti ai margini dell’università di Parigi, ma che quest’ultima, al suo interno, non lasciasse spazio alcuno alla scrittura volgare. Ciò significherebbe ignorare un altro aspetto degli scritti parigini in francese che si collegano chiaramente con l’attività pastorale, tanto importante nella facoltà di Teologia, e di cui ci è pervenuta un’eco attraverso gli statuti del collegio di Cluny. Sappiamo che Maurice de Sully avrebbe composto una raccolta di sermoni in latino tra il 1168 e il 1171. Molto presto venne alla luce una versione francese dell’opera, la cui paternità si esita ad attribuire allo stesso Maurice de Sully, ma che – cosa certa – è datata al più tardi agli anni intorno al 122014. Nicole Bériou ha evidenziato che a partire dagli anni ’30 del XIII secolo la predicazione divenne la posta in gioco più importante nella formazione dei teologi15; a tale scopo erano previsti esercizi, e i maestri predicavano nelle chiese pari-

12 Henri d’Andeli, Les Dits d’Henri d’Andeli, ed. A. Corbellari, Paris 2003 (Classiques français du Moyen Âge, 146). 13 H. Denifle - É. Châtelain, Chartularium Universitatis Parisiensis, I, Paris 1889, p. 391. 14 M. Zink, La prédication en langue romane avant 1300, Paris 1982 (Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge 4), pp. 32-36. 15 N. Bériou, L’avènement des maîtres de la Parole: la prédication à Paris au XIIIe siècle, I, Paris 1998, pp. 125-129.


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gine. La studiosa porta testimonianze relative a una predicazione in francese da parte di teologi universitari molto importanti come Pierre de Limoges, Robert de Sorbon, Jean d’Abbeville, Raoul de Châteauroux. Al dossier degli scritti in francese provenienti dall’Università di Parigi e va aggiunta la traduzione della Bibbia, detta Bible du XIII siècle o Bible de Paris, effettuata tra il 1220 e il 126016. Si tratta della più antica traduzione completa in volgare della Bibbia in Occidente, destinata verosimilmente a laici di alto rango. È accompagnata da glosse tratte dalla Glossa Ordinaria e dalle Postille di Ugo di Saint-Cher. Questo lavoro non ha potuto essere completato che in un ambiente ben provvisto di libri e da una équipe di traduttori specialisti in esegesi. Tutto lascia credere che questo lavoro debba essere attribuito a universitari parigini, probabilmente domenicani, come lasciano supporre i prestiti presi da Ugo di Saint-Cher, le cui Postille sono esattamente coeve. Nel Medioevo l’uso del francese andava ben oltre le frontiere del paese della lingua d’oïl; era pure un’importante lingua di scrittura in Inghilterra, a fianco del latino. Le due testimonianze di una riflessione grammaticale realizzata a partire dal francese, citate precedentemente, vengono da due universitari inglesi che studiarono a Parigi: Kilwardby, intorno al 1235, e Bacone un po’ più tardi17. Proprio nel Li reis vent di Bacone si nota che “reis” per “rois” (re) et “vent” per “vient” (viene) sono due tratti anglonormanni. Se Kilwardby e Bacone non furono autori di opere in francese, si conoscono altri due universitari inglesi della stessa epoca che lo furono. Il primo è Roberto Grossatesta che studiò teologia a Parigi dal 1209 al 1214, poi ritornò al suo paese d’origine per divenire infine vescovo di Lincoln nel 1235. Oltre all’inglese, sapeva un po’ di ebraico e conosceva bene il francese, il latino e il greco; tradusse dal greco al latino, scrisse opere erudite in latino e si deve a lui un’opera anglo-normanna, il Château d’amour, scritta intorno al 1215: un lungo poema che racconta, sotto forma allegorica, la storia della salvezza18. Il secondo universitario che ci interes-

C.R. Sneddon, The ‘Bible du XIIIe siècle’: its medieval public in the light of its manuscript tradition, in The Bible and Medieval Culture, Louvain 1979, pp. 35-59; Sneddon, Rewriting the Old French Bible: the New Testament and Evolving Reader Expectations in the Thirteenth and Early Fourteenth Centuries, in Interpreting the History of French. A Festschrift for Peter Rickard on the Occasion of his Eightieth Birthday, Amsterdam-New York 2002, pp. 35-59. 17 Per i dati biografici sugli universitari citati si veda B. Patar, Dictionnaire abrégé des philosophes médiévaux, Longueuil 2000. 18 Robert Grosseteste, in Dictionnaire des lettres françaises. Le Moyen Âge, Paris 1992, pp. 1287-1288. 16


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sa è John Peckham, nato nel 1220, anche lui studente a Parigi, per poi terminare la sua carriera come arcivescovo di Canterbury dal 1279 al 1292. Autore di trattati teologici e filosofici in latino, ci restano di lui trentadue lettere in anglo-normanno, delle quali molte datano all’epoca del suo arcivescovato19. L’approccio condotto attraverso la sola storia letteraria potrebbe lasciar credere che gli universitari che avevano la padronanza dei registri letterari del francese restassero un’eccezione. Lo studio della questione, basato sulla storia sociale dell’Università di Parigi, permette di avanzare l’ipotesi che al termine del loro percorso universitario un buon numero di studenti avesse una certa padronanza della lettura e della scrittura in francese. È quello che si può dedurre dall’esperienza della ricerca storica degli ultimi quaranta o cinquant’anni. Un primo aspetto importante riguarda l’area di reclutamento dell’Università di Parigi. Anche se una sfilza di nomi di maestri illustri, per giunta quasi sempre teologi, potrebbe far pensare a un reclutamento europeo, le fonti nominative, come i ruoli delle suppliche indirizzate al papa dall’Università per ottenere benefici ecclesiastici per i suoi membri, mostrano che alla fine del Medioevo l’Università di Parigi reclutava la maggior parte degli studenti nella metà nord della Francia, ovvero in terra d’oïl, e nelle regioni di lingua germanica limitrofe. D’altronde molti lavori hanno contribuito a dimostrare che gli studi universitari costituivano per molti un fattore di promozione sociale, permettendo loro di accedere a posti di rilievo a servizio della Chiesa o delle varie amministrazioni pubbliche20. Se si prendono in esame le carriere che si aprivano per i diplomati dell’Università di Parigi, si può constatare che un buon numero di queste richiedeva certo la padronanza del latino, ma anche del registro letterario della lingua francese. Coloro che si orientavano verso il sacerdozio e l’inquadramento dei fedeli, dai semplici curati fino ai vescovi, dovevano avere padronanza dell’arte oratoria in francese. Anche il rito della confessione si svolgeva per lo più in francese. In ogni caso, il sacerdote doveva saper esprimere in volgare le conoscenze teologiche o canoniche di base imparate in latino a Parigi. Una buona padronanza del francese era forse ancor

19 John Peckham, Registrum Epistolarum Fratris Johannis Peckham, Archepiscopi Cantuariensis, ed. C.T. Martin, 3 voll., London 1882-1885 (Rolls Series, 77); F.J. Tanquerey, Recueil de lettres anglo-françaises, 1265-1399, Paris 1916, pp. XIV-XVII 20 Si veda, tra gli altri, J. Verger, Histoire des universités en France, Toulouse 1986; Verger, Les gens de savoir en Europe à la fin du Moyen Âge, Paris 1997.


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più necessaria per chi seguiva gli studi giuridici, che davano accesso a carriere ben remunerate21. A questo proposito bisogna ricordare che i secoli XIII e XIV videro lo sviluppo delle amministrazioni pubbliche regie, principesche e urbane, che reclutavano un numero crescente di persone e il cui funzionamento si basava sempre di più sullo scritto. Eccezion fatta per l’amministrazione regia della Francia, che utilizzava le due lingue, tutte le altre in territorio d’oïl prendevano in prestito essenzialmente il francese per i loro scritti. In Inghilterra il francese e il latino si dividevano il campo delle scritture regie, principesche e urbane. Nei due regni la pratica giuridica e l’esercizio della giustizia aprivano orizzonti assai appetibili per i laureati in diritto. Nella Francia del nord, di diritto consuetudinario, le scritture si redigevano quasi senza eccezione in francese, sia che si trattasse di contratti, di documenti dei tribunali o della messa per iscritto dei costumi. Solo il Parlamento di Parigi utilizzava le due lingue, seguendo la pratica dell’amministrazione regia. Per quanto concerne l’Inghilterra, la pratica del diritto si basava sulle due lingue quanto allo scritto. Aggiungiamo che si richiedeva la conoscenza del francese a coloro che, di lingua olandese, entravano al servizio delle amministrazioni principesche e urbane nelle loro regioni d’origine; questo in modo particolare nella contea delle Fiandre. Nel mio ultimo libro ho avanzato l’ipotesi che il loro soggiorno a Parigi potesse essere una tappa importante per l’apprendimento del francese. Si aggiunga, infine, che molti potevano passare qualche anno all’Università senza conseguire i gradi accademici, ma avendo imparato quanto bastava loro per esercitare le funzioni di scriba o di maestro nelle piccole scuole urbane. Partendo dal principio che imparare una lingua, come fanno i bambini per mimetismo, e saperla scrivere, comportano due processi di apprendimento completamente differenti, al termine della nostra ricerca ci troviamo di fronte a due quesiti. Innanzitutto, attraverso quale processo i ragazzi, che seguivano un percorso scolastico completo, dalla scuola primaria fino all’università, acquisivano una buona padronanza del francese colto che li mettesse in grado di predicare, perorare, redigere atti, lettere, documenti contabili o giudiziari, o addirittura un’opera letteraria? D’altra parte, si può davvero pensare che in ambito universitario si rimanesse indifferenti all’esigenza pratica dei laureati di controllare bene il registro

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Per quello che segue cfr. S. Lusignan, La langue des rois au Moyen Âge. Le français en France et en Angleterre, Paris 2004 (Nœud Gordien); Lusignan, Essai d’histoire sociolinguistique cit.


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colto del francese? Devo ammettere che non ho molte risposte a queste domande, che pure sono di primaria importanza e ineludibili. Gli archivi eccezionalmente ricchi sulle piccole scuole urbane della città di Valenciennes mostrano, senza ombra di dubbio, che la loro prima missione era l’insegnamento del francese. Ecco cosa si può leggere in tre contratti di ingaggio di un maestro: «Docuerit scolares scribere et legere»; «Litteras ac legendas sic cunctas tam in gallico quam latino absque grammaticali doctrina et citra Donatum»; «Pueros docere in gramaticalibus gallicis»22. Queste direttive sui compiti attribuiti al maestro mi sembrano corrispondere pienamente all’attività pedagogica, di cui i manuali di insegnamento presi in esame in precedenza sono il riflesso. Il francese e il latino erano insegnati congiuntamente. Il soggiorno all’università contribuiva a perfezionare i rudimenti del francese scritto acquisiti nelle piccole scuole urbane? Nessuna fonte consente di confermarlo. Al tempo stesso si deve ammettere che si conosce meglio l’attività intellettuale svolta all’Università di Parigi attraverso la produzione dei suoi membri che non attraverso la legislazione sui programmi, che resta scarna. Parigi raggruppava di gran lunga la più grande concentrazione di scrivani letterati; ma la mancanza di fonti rende difficile l’indagine sulle varie dinamiche culturali che si sono potute sviluppare in un tale ambiente. Tuttavia una cosa è certa: un grandissimo numero di uomini formatisi all’Università di Parigi ha scritto in francese nel corso degli ultimi tre secoli del Medioevo. 3. L’emergere nel XIV secolo di un pensiero erudito in francese

Per comprendere il ruolo del volgare nell’Università di Parigi, una terza possibilità d’approccio ci viene dall’intensa attività di traduzione di opere erudite in francese, ordinata dai re di Francia a partire da Filippo il Bello (1268-1314), l’iniziatore, fino a Carlo V(1338-1380), che ne fece una vera politica di Stato. Il fenomeno ha dato luogo a numerosi studi23. Si può supporre che la maggior parte dei traduttori avessero una formazione universitaria e si sa che di alcuni di loro compaiono i nomi nelle fonti dell’Università di Parigi: Pierre Bersuire, Denis Foulechat, Jean Golein, Nicole Oresme, ecc. Le traduzioni sono spesso accompagnate da un pro22 23

Lusignan, Essai d’histoire sociolinguistique cit., p. 133. Si veda la recente opera di sintesi C. Galderisi, Translations médiévales. Cinq siècles de traductions en français au Moyen Âge (XIe-XVe siècles). Étude et Répertoire, 3 voll., Turhout 2011.


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logo nel quale il traduttore esprime a volte il suo pensiero sul rapporto tra il francese e il latino come lingua d’espressione del sapere. Molti si lamentano delle carenze della lingua volgare rispetto al latino. La prima argomentazione riguarda il lessico francese che non possedeva, ai loro occhi, un vocabolario tecnico adeguato per rendere le parole erudite latine. Traducendo le Decadi di Tito Livio per il re Giovanni il Buono, Pierre Bersuire dichiarò:

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Et si n’avons en langage françois nulz propres mos semblables qui toutes cestes choses puissent segnefier, ainçois convient par grans declaracions et circonloqucions donner entendre que ceulz mos segnifient24.

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I traduttori tentavano di ovviare a questa lacuna, traducendo le parole latine o con perifrasi o con omonimie o creando parole nuove. Certi corredano la loro opera di un lessico dei neologismi così creati. D’altronde il registro astratto del lessico francese attuale è debitore di un gran numero di parole ai traduttori del XIV secolo25. Altro motivo di insoddisfazione dei traduttori era l’inferiorità retorica del francese rispetto al latino. Traducendo per Carlo V l’allegoria morale Bonum de apibus di Thomas de Cantimpré, domenicano del XIII secolo, Henri du Trévou affermava:

J’ai peu aucune foiz ou l’aucteur du livre et les docteurs et philosophes ont pour le plus bel et rectorique latin querir transporté les dictions pour quoy françois ainsi ordené seroit pesant et moins cler a entendre, j’ai la sentence mise rez a rez si comme j’ay pensé que il l’eussent dit eulz meismes se il parlassent françois26.

La quasi totalità dei traduttori concordava sulla difficoltà di tradurre a causa dell’inferiorità del francese rispetto al latino quando si trattava di esporre il sapere. Un solo traduttore superò queste notazioni negative sullo stato della lingua per avanzare l’idea che la traduzione fosse un fattore di progresso per il francese: si tratta di Nicole Oresme, celebre maestro dell’Università di Parigi. Egli basò la sua argomentazione sul motivo della translatio studii, che rimodellò in un modo assolutamente originale. In un prologo comune alla sua traduzione dell’Etica e della Politica di Aristotele

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J. Monfrin, La traduction française de Tite-Live, in Histoire littéraire de la France, XXXIX, Paris 1962, pp. 358-414: 360. 25. J. Chaurand, Introduction à l’histoire du vocabulaire français, Paris 1977, pp. 37-49; O. Bertrand, Du vocabulaire religieux à la théorie politique en France au XIVe siècle: les néologismes chez les traducteurs de Charles V (1364-1380), Paris 2005. 26 Bruxelles, Bibliothèque Royale 9507, f. 1v.


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(1374 circa), Oresme notava sin dall’inizio che il latino non sempre rendeva adeguatamente il greco di Aristotele. Riconosceva, tuttavia, la netta superiorità del latino sul francese per l’espressione del sapere. Ma, aggiungeva, in passato non era sempre stato così. Appoggiandosi sulla testimonianza di Cicerone (Academica posteriora I, 4-11) affermava che nella sua epoca «Grec estoit en resgart de latin quant as Romains si comme est maintenant latin en regart de françois quant a nous»27. Oresme sostiene, infine, che la traduzione contribuisce allo sviluppo delle competenze in una lingua. Quello che fu vero per il latino, d’ora in poi lo sarà per il francese: «Par mon labeur pourra estre mieulx entendue ceste noble science et ou temps avenir estre bailliee par autres en françois plus clerement et plus complectement». Pertanto rimise in discussione il monopolio del latino sul sapere. In effetti Oresme, riguardo al greco e al latino all’epoca di Cicerone, concludeva: «Et estoient pour le temps les estudians introduiz en grec, et a Romme et ailleurs, et les sciences communelment bailliees en grec; et en ce pays le langage commun et maternel, c’estoit latin». Definito come la lingua madre dei romani, più nulla distingueva il latino dal francese. Questa tesi era in contrasto con tutto ciò che si scriveva all’epoca sul rapporto tra le due lingue. La natura del rapporto tra il francese e il latino riguardo al sapere fu verosimilmente più complessa di quanto non lascino intendere i traduttori del XIV secolo. Nello spirito della riflessione, iniziata da Rita Copeland, Joëlle Ducos ricorda che tradurre, «c’est aussi une rhétorique transposée en français, soit celle du discours universitaire habile à gloser et à disputer»28. È il caso di Nicole Oresme che, nella sua traduzione della Politica di Aristotele, esprime in francese un pensiero dotto, assolutamente originale, riguardo certe glosse elaborate in forma di domande discusse secondo la maniera universitaria, che niente dovevano alla tradizione dei dotti commentari latini dell’opera29. Il francese diventava portatore di un nuovo

27 Le citazioni di Nicole Oresme sono tutte tratte da Nicole Oresme Le livre de Ethiques d’Aristote, ed. A.D. Menut, New York 1940, pp. 100-101. Cfr. S. Lusignan, Le latin était la langue maternelle des Romains, la fortune d’un argument à la fin du Moyen Âge, in Préludes à la Renaissance. Aspects de la vie intellectuelle en France au XVe siècle, Paris 1992, pp. 265-282. 28 J. Ducos, Traduire la science en langue vernaculaire: du texte au mot, in Science Translated. Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe, Leuven 2008, pp. 181-195; R. Copeland, Rhetoric, Hermeneutics and Translation in the Middle Ages: Academic Traditions and Vernacular Texts, Cambridge 1991. 29 J. Dunbabin, The reception and interpretation of Aristotle’s Politics, in The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, Cambridge 1982, pp. 723-737.


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sapere. Edward Grant dà lo stesso giudizio quando confronta il contenuto dottrinale di un’opera giovanile di Oresme – il commentario latino del De Caelo di Aristotele – e la sua traduzione commentata dello stesso testo – in francese Le livre du ciel et du monde – terminata venti o trent’anni più tardi. Conclude su questo argomento dicendo che «in short, Oresme had a far greater scope in Le Livre du Ciel than he had in the Questiones super De caelo – and he made full use of it»30. Giustamente Joëlle Ducos ha potuto scrivere che per Oresme «la langue vernaculaire n’est pas qu’un moyen de vulgariser, elle est aussi un outil de pensée, de rang égal avec le latin». I lavori su Évrart de Conty, la cui sintesi è stata fatta durante un recente simposio, giungono a conclusioni simili. Insomma tutto suggerisce che certi traduttori di corte possedessero una certa disinvoltura nell’esporre un pensiero dotto in francese, al momento di intraprendere i lavori che il re affidava loro. Si tratta di una questione fondamentale della storia intellettuale del XIV secolo francese, di cui si è ben lontani dall’averne esplorato tutte le sfaccettature. Conclusioni31

Al termine di questo excursus sulle diverse strade che si aprono per analizzare il posto del francese nell’ambiente universitario parigino, si arriva a un certo paradosso. Da un lato, la legislazione scolastica tendeva a respingere la lingua volgare ai margini dell’Università di Parigi. A partire dalla stesura in francese di opere erudite, i traduttori riconoscevano, quasi all’unanimità, le notevoli carenze del francese rispetto al latino per l’espressione dello scibile. Si potrebbero aggiungere molte altre fonti da me citate in Parler vulgairement, che affermano la singolarità del latino rispetto al francese. Tra le tante, partendo dal passaggio del Vangelo di san Giovanni (XIX, 20) relativo al fatto che sulla croce l’iscrizione «Gesù di Nazareth Re degli Ebrei» era scritta in ebraico, in greco e in latino, se ne può dedurre come ciò permettesse agli esegeti di parlare del carattere sacro di queste tre lingue in opposizione alle lingue volgari32. Sono tutte

30 E. Grant, Nicole Oresme, Aristotle’s On the Heavens and the Court of Charles V, in Texts and Contexts in Ancient and Medieval Science. Studies on the Occasion of John F. Murdoch’s Seventieth Birthday, Leiden-New York-Köln 1997, pp. 187-207. 31 Riprendo qualche elemento di una lunga analisi da me condotta in Essai d’histoire sociolinguistique cit., pp. 32-39. 32 Lusignan, Parler vulgairement cit., p. 59.


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queste fonti che mi hanno fatto sostenere il carattere diglossico, lungo nel tempo, del rapporto tra il latino ed il francese. D’altro canto, il posto effettivo del francese accanto al latino in ambiente universitario suggerisce piuttosto una situazione di lingua in contatto. Questo rapporto si stabiliva fin dall’inizio dell’apprendimento del latino da parte dei bambini ed era confermato, in seguito, da certi insegnamenti universitari e soprattutto dai testi scritti in francese nei luoghi dell’Università di Parigi. Nel XIV secolo importanti maestri universitari si dimostrarono capaci di esporre un pensiero originale in lingua volgare, anche se la scrittura in francese era il pane quotidiano di un gran numero di ufficiali regi, principeschi e urbani. Si potrebbe sostenere che l’evoluzione della lingua verso il sistema francese, che si caratterizza tra le altre cose per la sua rilatinizzazione, deve molto a questa situazione di lingua in contatto che caratterizza il rapporto tra il latino e il francese in ambiente universitario33. Perché allora c’è questo divario tra il discorso degli universitari sul rapporto tra il latino e il francese e l’esperienza quotidiana che avevano di questo rapporto? La risposta potrebbe riguardare il carattere ideologico di questo discorso. Dalla Riforma gregoriana al concilio Laterano IV, la politica costante della Chiesa fu di rinforzare la separazione tra il mondo dei chierici e quello dei laici. Nella società francese della fine del Medioevo i chierici beneficiavano di numerosi privilegi che dovevano difendere contro lo sconfinamento del potere regio, che, a partire dal regno di Filippo il Bello, era sempre più minaccioso su tale argomento. Quando i tribunali laici volevano contestare lo stato clericale di un accusato, attraverso il quale egli cercava di sottrarvisi, il loro primo atto era di verificare se sapesse leggere il latino34. Il fallimento di questo test includeva automaticamente il malcapitato tra i laici, e lo privava dei privilegi della Chiesa. I motivi che affermavano lo scarto tra il latino e il francese non erano forse che una sfaccettatura del discorso più ampio della difesa dei privilegi clericali? Questo sarebbe il senso dell’opposizione – ribadita sovente dagli ecclesiastici del tempo – fra il latino, lingua dei chierici, e il volgare, lingua dei laici, che rendeva il latino la loro lingua identitaria.

33 A proposito della rilatinizzazione del francese cfr. Lusignan, Essai d’histoire sociolinguistique cit., p. 33. 34 R. Génestal, Le procès sur l’état de clerc aux XIIIe et XIVe siècles, in École pratique des hautes études, section des sciences religieuses, Paris 1909-1910, pp. 1-39.


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Dulce differentias sentire. Bibbia, traduzioni e traduttori nel Quattrocento


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Alla fine d’agosto del 1435, frate Alberto da Sarteano si trovava a Venezia, in procinto di partire per la Terrasanta, incaricato da papa Eugenio IV1. Da quella città, l’amico Francesco Barbaro2, fine cultore di humanae litterae e alto funzionario veneziano, in due lettere, indirizzate l’una al marchese Lionello d’Este, e l’altra al loro comune maestro, Guarino Veronese3, esprimeva tutta la sua preoccupazione per le sorti del predicatore: in Siria frate Alberto si sarebbe esposto al rischio del martirio e, per giunta, quale il senso, l’utilità di quella missione, quale apostolato avrebbe potuto mai compiere questi in mezzo a genti delle quali ignorava del tutto la lingua4? Le perplessità del Barbaro non trovarono ascolto. Il frate minore lasciò Venezia nell’autunno di quell’anno, ponendo le basi, con questo viaggio, di un importante ruolo di mediatore che avrebbe svolto durante una serie di missioni in partibus infidelium5. Mettendo in rilievo l’incompetenza linguistica di frate Alberto, il Barbaro poneva tuttavia l’accento su un problema centrale della societas

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Si tratta della prima missione affidata a frate Alberto da Sarteano da papa Eugenio IV, missione che lo impegnò e lo tenne lontano dall’Italia dalla fine del 1435 alla metà d’agosto del 1437; sulla carriera e sulle missioni dell’osservante in oriente cfr. P. Santoni, Alberto da Sarteano observant et humaniste envoyé pontifical à Jérusalem et au Caire, «Mélanges de l’École française de Rome», 86 (1974), pp. 165-211: 181-186. Vedi anche T. Tanase, «Jusqu’aux limites du monde». La papauté et la mission franciscaine, de l’Asie de Marco Polo à l’Amérique de Christophe Colomb, Rome 2013, pp. 691-695. 2 Su Francesco Barbaro, nonno di quell’Ermolao Barbaro che, qualche anno più tardi, avrebbe tenuto a Padova scuola di dottrine aristoteliche cfr. G. Gualdo, Barbaro Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 6, Roma 1964, ad vocem. 3 Sui legami tra frate Alberto da Sarteano e Guarino Veronese di cui l’osservante seguì i corsi che il Guarino tenne a Verona vedi Santoni, Alberto da Sarteano cit., pp. 177-179. 4 Ibid., pp. 181-182. 5 Ibid., pp. 181-202.


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basso medievale: ovvero il modo attraverso il quale persone, che parlavano lingue assai diverse, riuscivano a comunicare tra loro. L’ignoranza dell’arabo da parte dell’osservante costituiva però, in quell’occasione, un problema secondario, o almeno tale da non inficiare il buon esito della missione, che pare legarsi a questioni interne alla custodia di Terrasanta6. Il problema emerse invece con maggiore incisività nel corso del secondo viaggio del minorita in oriente, e sulle sue soluzioni siamo parzialmente informati. Nell’estate del 1439, all’indomani della proclamazione dell’unione della chiesa romana con le chiese greca e armena, frate Alberto veniva nominato da papa Eugenio IV commissario apostolico in India, Egitto, Etiopia e Gerusalemme7. Proprio per far fronte alle difficoltà di comunicazione che il suo legato avrebbe incontrato, il papa si rivolse allora al guardiano del convento francescano di Beyruth e lo invitò a mettersi a disposizione del legato e, all’occorrenza, a fungere da interprete8. Sappiamo, tuttavia, dalla corrispondenza del frate minore che, nel corso di questa lunga missione presso i rappresentanti delle chiese orientali, egli si avvalse anche di altri intermediari linguistici. Al Cairo – dove era giunto per annunciare ai copti

6 Si tratta probabilmente di una missione legata alla necessità di nomina del nuovo guardiano di Terrasanta, scelta sulla quale frate Alberto da Sarteano intervenne proponendo a papa Eugenio IV un osservante, Nicola da Osimo, cfr. ibid., pp. 185-186; Tanase, «Jusqu’aux limites du monde» cit., p. 691-692. 7 Dopo la firma del decreto d’unione con la Chiesa greca (luglio 1439) e con quella armena (novembre 1439), papa Eugenio IV estese i propri “progetti unionistici” anche alle altre chiese orientali, intraprendendo nuovi tentativi di dialogo ecclesiale con la Chiesa monofisita e con quella etiopica, per giungere ad aprire un dialogo con i Siri, con i Caldei e con i Maroniti. La missione di Alberto da Sarteano, nata per annunciare la lieta novella della ritrovata unità con la Chiesa greca e armena, voleva al contempo ottenere dal patriarca copto l’avvio di un dialogo che preludesse alla risoluzione dello scisma tra le due Chiese. Per quel che concerne il concilio e in particolare quel decisivo momento dei lavori conciliari si vedano J. Gill, Il concilio di Firenze, trad. it., Firenze 1977, pp. 383-390, J. Richard, La ricerca dell’unione con le altre chiese orientali, in Storia del Cristianesimo, VI, Un tempo di prove (1274-1449), cur. M. Mollat-A. Vauchez, trad. it., Roma 1997, pp. 785-794; G. Cecconi, Studi storici sul concilio di Firenze, Firenze 1869, p. 564; G. Hoffmann, La «chiesa» copta ed etiope nel concilio di Firenze (nel centenario della bolla d’unione Cantate Domino, 4 febbraio 1442), «La civiltà cattolica», 93/2 (1942), pp. 141-146, 228- 235. Sulla missione conferita ad Alberto da Sarteano durante la celebrazione del concilio di FerraraFirenze da papa Eugenio IV vedi anche Tanase, «Jusqu’aux limites du monde» cit., pp. 691692; F. Cardini, In Terrasanta. Pellegrini italiani tra medioevo e prima età moderna, Bologna 2002, pp. 254-256; E. Cerulli, Berdini Alberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, 8, Roma 1966, pp. 800-804: 802-803; Cerulli, Eugenio IV e gli Etiopi al concilio di Firenze, «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», ser. VI, 9 (1933), pp. 347-368. 8 Santoni, Alberto da Sarteano cit., p. 187.


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l’unione con le chiese greca e armena, e per invitarli ad intraprendere trattative unionistiche – frate Alberto ricorse alle competenze di alcuni preti copti e di alcuni veneziani presenti nella città egiziana, ai quali fece approntare la traduzione araba del decreto d’unione e di alcune delle lettere papali9. L’esito e le conseguenze della missione del frate di Sarteano, approdato ad Ancona alla fine d’agosto del 1441 insieme alle delegazioni della chiesa copta ed etiope10, sono vicende sin troppo note, per essere ulteriormente ripercorse in questa sede. Vale comunque la pena di rileggerne alcuni momenti, se non altro perché questa fase particolare del concilio fiorentino costituì un’occasione davvero singolare di incontro di uomini, di culture e, per l’appunto, di lingue diverse. A questo incontro il papa e la curia si stavano preparando sin dal 1439, cercando mediatori, interpreti e provvedendo ad approntare traduzioni nelle più diverse lingue. Testimonianza

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9 Frate Alberto portò con sé, nella sua missione, una copia del testo del decreto d’unione con la chiesa greca e, probabilmente, attese a Firenze fino al 22 novembre la conclusione dell’unione con la chiesa armena per avere anche il testo del decreto d’unione con quella chiesa. Sulla questione cfr. ibid, pp. 187-188. 10 Il viaggio delle legazioni copta ed etiope dal Cairo e da Gerusalemme è descritto da Georg Hoffmann in La «chiesa» copta ed etiopica nel concilio di Firenze, «La civiltà cattolica», 93 (1942), pp. 144-146. La delegazione copta-etiope composta da circa dodici monaci fu divisa in tre gruppi e fatta partire in momenti diversi per non destare i sospetti delle autorità islamiche. I tre gruppi si sarebbero dovuti riunire a Rodi nell’ottobre del 1440. Dopo non poche difficoltà, i rappresentanti delle chiese monofisite d’Egitto sbarcarono ad Ancona e da lì raggiunsero i padri conciliari riuniti a Firenze sul finire dell’estate del 1441 (era il 26 agosto). Qualche settimana più tardi, a settembre, giunse presso il concilio anche il diacono Pietro, inviato da Nicodemo, abate del monastero copto etiope di Gerusalemme, il quale, pur ricevuto dai padri conciliari, non poté portare avanti le trattative, in quanto rappresentante di quell’unico monastero. Il decreto d’unione con la Chiesa copta, del quale fu data lettura solenne il 4 febbraio del 1442 in Santa Maria Novella, non riguarda infatti la Chiesa etiope e nella primavera del 1442 papa Eugenio IV attendeva ancora l’arrivo dei rappresentanti ufficiali della Chiesa etiopica inviati dal Negus Zare’a Yá‘qob e legittimati a condurre trattative per l’unione. I monaci orientali arrivati nell’agosto fecero il loro trionfale ingresso a Roma, il 9 ottobre 1441, con quasi un anno di ritardo rispetto alle previsioni. Cfr. Santoni, Alberto da Sarteano cit., pp. 165-211, 181-202, Hoffmann, Orientalium Documenta Minora, Romae 1953, pp. 53-58 («Iohannes XI patriarcha coptorum Eugenio IV gratias pro legatione Alberti de Sarteano agit mittitque Albertum et Andream abbatem Sancti Antonii ut suos legatos»). Sulla possibile presenza a Firenze nel 1442 di un altro messo, inviato direttamene da quel sovrano cristiano d’Etiopia nel quale si riconosceva al tempo il leggendario «prete Gianni», e sulla possibile identificazione di questo terzo inviato copto con quell’ «indiano cristiano di cintura mandato dal Prete Gianni» cui fa riferimento il racconto di viaggio del Fiorentino Marco di Bartolomeo Rustici cfr. Cardini, In Terrasanta cit., pp. 254-257; Hoffmann, La «chiesa» copta ed etiopica cit., pp. 141-146, 228235.


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importante di questo intenso lavoro è tra gli altri il manoscritto Gaddi 108 conservato ad oggi presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, manoscritto che tramanda la versione dei dodici articoli del Credo in sei diverse lingue: hebraica, caldea, armenica, tartarica (mongola in scrittura uighura), arabica, et greca, esclusa tuttavia l’etiopica, assenza che, come rilevava nel 1933 Enrico Cerulli, tradisce le «difficoltà gravissime» che papa Condulmer e il suo entourage dovettero affrontare all’arrivo degli Etiopi al concilio11. Come è stato scritto e più volte osservato, l’arrivo delle delegazioni orientali a Firenze rese imprescindibile la necessità di chiamare presso il concilio interpreti e traduttori, irrinunciabili mediatori nelle discussioni teologiche che si sarebbero di lì a poco intraprese, cercando tra mercanti, viaggiatori o pellegrini chi avesse acquisita una sufficiente padronanza di quelle lingue, dal momento che, come è noto, se si esclude il caso siciliano caratterizzato da una persistente competenza orientalistica, nella penisola italiana, sia l’arabo che altri idiomi orientali erano lingue il cui apprendimento era, in quegli anni, legato quasi esclusivamente all’esperienza diretta, alla frequentazione di quelle regioni, meta di pellegrinaggi e di viaggi di affari o più raramente di lunghe missioni diplomatiche12. Tra le numerose testimonianze che raccontano momenti salienti di quella fase del concilio una delle più ricche di particolari è quella dell’umanista Flavio Biondo, segretario papale dal 1434, e reportator d’eccezione di quegli incontri13. Il resoconto dell’umanista getta luce anche sul ruolo 11 12

Cerulli, Eugenio IV e gli Etiopi al concilio cit., pp. 321-362. Vedi il recente volume miscellaneo Maghreb-Italie. Des passeurs médiévaux à l’orientalisme moderne (XIIIe-milieu XXe siècle), cur. B. Grévin, Roma 2010, in particolare Grévin, Maghreb-Italie des passeurs médiévaux à l’orientalisme moderne. Apories scientifiques et stratégies de contournement, pp. 1-15; Grévin, Connaissance et enseignement de l’arabe dans l’Italie du XVe siècle: quelques jalons, pp. 103-138; A.M. Piemontese, Trinacria arabistica e umanistica, in Azhàr. Studi arabo-islamici in memoria di Umberto Rizzitano (1931-1980), cur. A. Pellitteri- G. Montaina, Palermo 1995, pp. 177-186. 13 Flavio Biondo entrò a far parte del personale della curia papale nel 1433, in qualità di notaio della Camera apostolica, e l’anno successivo venne nominato segretario papale da Eugenio IV. Prese parte ai lavori conciliari e descrisse la missione di Alberto di Sarteano, l’arrivo delle delegazioni orientali a Firenze, riportando anche le orazioni tenute al concilio e le successive discussioni conciliari suscitate da quell’incontro. Per l’edizione della reportatio dell’umanista Flavio Biondo vedi B. Nogara, Scritti inediti e rari di Flavio Biondo, Roma 1927 (rist. anast s. loc. 1973), pp. XCI, 19- 27: «Qua ratione de caeli aspectu, de climate, de aequinoxiali, de dierum noctiumque varietate […] de eorum vetustatis et gestis rebus historia et huiusmodi multis parum scite noverant respondere». Il Biondo osserva come il colloquio procedesse nel segno dell’ampliamento delle conoscenze, toccando il tema stesso della identità del leggendario prete Gianni e dell’estensione dei suoi possedi-


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avuto da quelle figure che svolgevano funzioni di corredo al lavoro dei padri conciliari e, pur non svelando l’identità degli interpreti coinvolti, di volta in volta, nelle singole sessioni informa sulle modalità attraverso le quali si garantì, o almeno si cercò di garantire, la corretta comprensione di quei dialoghi14. I discorsi dei legati orientali al concilio – racconta Flavio Biondo – avvennero alla presenza di due interpreti, dei quali uno arabo, l’altro latino alternis referentibus. Il segretario papale non trascurò di sottolineare come, al di là delle inevitabili deformazioni della traduzione, le discussioni conciliari fossero state spesso seriamente compromesse dall’imperizia dei traduttori, i quali ignoravano del tutto i problemi dottrinali che si andavano discutendo e, con essi, il registro lessicale e linguistico con il quale si dava corpo a quei concetti: «Ea vero in re maximo fuit incommodo interpretum imperitia, quod eorum nullus doctrina vel mediocriter tinctus erat», dichiara l’umanista, senza svelare tuttavia l’identità di quegli importanti mediatori linguistici15.

menti e delle sue forze militari: «De rege interrogati, cui apud nos et in Syria ac Aegypto presbytero Iohanni est appellatio, responderunt: eum, qui indigne ferat hanc absurdam sibi natam appellationem, nomine proprio Zareiacob». Il confronto procede analizzando le dottrine religiose professate, i culti, il calendario liturgico, i sacramenti e l’origine dello scisma con la Chiesa latina. Un’altra versione latina del discorso dei copti e degli etiopi al concilio anche in Hoffmann, Orientalium Documenta Minora cit., pp. 62-63, n. 41 («Sermo Andree legati patriarche Coptorum coram concilio»). 14 Cerulli, Eugenio IV e gli Etiopi al concilio cit., pp. 347-368: 352. Nogara, Scritti inediti e rari di Flavio Biondo cit., p. 20: «Hi octo monachi ad pontificis cardinaliumque et totius romanae curiae conspectum publico loco perducti mandata, quae in arabico scripta ostendebant, binis interpretibus, quorum unus esset arabus alter latinus alternis referentibus, in hanc sententiam exposuere». Una ulteriore versione latina dell’orazione tenuta dal già menzionato diacono Pietro, rappresentante di Nicodemo, abate del monastero etiope di Gerusalemme, tradita da due testimoni (il codice Vaticano Latino 4136 della Bibliteca Apostolica Vaticana e il Ms II.I.313 della Biblioteca Nazionale centrale di Firenze) è stata edita da Hoffmann, Orientalium documenta minora cit., pp. 63-64. Il contenuto del discorso dei rappresentanti del monastero copto etiope di Gerusalemme al concilio fu oggetto anche di reportationes in volgare fiorentino. Una di queste si conserva attualmente presso l’Archivio di Stato di Firenze, Carte di Corredo, registro 58 ed è stata commentata ed edita da Franco Cardini in Una versione volgare del discorso degli “ambasciatori” etiopici al concilio di Firenze, «Archivio storico italiano», 130 (1972), pp. 269-276, ora in Cardini, “De finibus Tuscie”. Il medioevo in Toscana. Saggi, Firenze 1989, pp. 229-234. 15 Cfr. Nogara, Scritti inediti e rari di Flavio Biondo cit., p. 19. Insiste su questo tema, esplicitando inesattezze, equivoci e omissioni contenute nella traduzione araba dei decreti d’unione anche l’instancabile editore delle carte del concilio di Ferrara-Firenze, l’Hoffmann, in La “chiesa” copta ed etiope cit., pp. 228-229. Anche l’umanista Flavio Biondo pone l’accento sull’operato non sempre impeccabile dei traduttori chiamati al concilio. L’umanista non svela l’identità degli interpreti coinvolti nelle sessioni del concilio, ma lascia


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Solo cinque secoli più tardi, l’instancabile editore degli atti del concilio, Georg Hoffmann, ha cercato di far luce sull’identità di alcuni dei traduttori che in quei mesi avevano potuto fornire informazioni preziose «sulla situazione dei cristiani nell’impero dei mamelucchi e nei paesi confinanti», e potevano aver contribuito alla comprensione del dialogo tra i padri conciliari e le rappresentanze delle Chiese orientali16, mettendo le proprie competenze linguistiche al servizio della causa della Chiesa: lo studioso ipotizza che, in quella occasione, potevano aver svolto un ruolo di intermediazione figure che, come il mercante Niccolò de’ Conti, convertito al Cairo per opera di Alberto da Sarteano17, l’ambasciatore fiorentino Felice Brancacci, inviato alla corte del sultano del Cairo nel 1422 dal governo di Firenze18, o il prete senese Mariano da Siena, autore di una relatio del suo viaggio in Terrasanta19, potevano vantare una lunga frequentazione dei paesi arabofoni che si affacciavano sul Mediterraneo orientale, importanti snodi commerciali o mete di pellegrinaggi devozionali. Ad essi può essere aggiunto anche il nome di un altro conoscitore di lingue orientali, già noto alla curia papale e allo stesso papa Condulmer dai tempi del concilio di Pisa, una figura poco nota nel panorama culturale e politico del

tuttavia trasparire, tra le righe, la continuità della presenza e dell’impegno di alcuni di essi nei mesi in cui si protrassero a Firenze le discussioni tra i padri conciliari e i rappresentanti delle chiese orientali. 16 Hoffmann, La «chiesa» copta ed etiope cit., pp. 229-230. 17 Per un profilo biografico del mercante e dictator del racconto di viaggio, elaborato dalla penna di Poggio Bracciolini, vedi il denso profilo di F. Surdich, Conti Niccolò de, in Dizionario Biografico degli Italiani, 28, Roma 1983, ad vocem. Per una disamina del libro di viaggio e della sua ampia circolazione vedi A. Grossato, L’India di Nicolò de’ Conti. Un manoscritto del Libro IV del De Varietate Fortunae di Francesco Poggio Bracciolini da Terranova (Marc 2560), Padova 1994. Per l’edizione completa del Liber de varietate fortunae di Poggio Bracciolini vedi P. Bracciolini, De varietate fortunae, ed. O. Merisalo, Helsinki 1993. 18 U. Tucci, Brancacci Felice, in Dizionario Biografico degli Italiani, 13, Roma 1971, ad vocem. Vedi anche F. Cardini, In Terrasanta cit., p. 250. Per quel che concerne la politica economica del governo di Firenze nel corso del Quattrocento e il suo crescente interesse verso la difesa e l’espansione degli interessi marittimi e commerciali con i maggiori porti del Mediterraneo orientale, in particolare Alessandria d’Egitto, Damietta, Beiruth, e l’avvio di trattative diplomatiche che sfociarono nella stipulazione di trattati commerciali con il sultanato di Egitto e Siria, si veda il denso saggio di F. Cardini, I fiorentini e il Mediterraneo fra Tre e Quattrocento. Presupposti e fondamenti di una «politica marinara», «Nuova Rivista Storica», 94 (2009), pp. 733-784. 19 Per quel che concerne la figura e l’opera del pellegrino Mariano di Nanni da Siena, autore di una relatio nella quale ripercorre le tappe del suo pellegrinaggio gerosolimitano, vedi F. Cardini, Nota su Mariano di Nanni rettore di San Pietro a Ovile in Siena, in Toscana e Terrasanta nel Medioevo, cur. F. Cardini, Firenze 1982, pp. 177-187.


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Quattrocento, ma assai attiva negli ambienti curiali e nella vita politica e culturale della Toscana del Quattrocento: si tratta del senese, Beltramo di Leonardo Mignanelli, che, come recita il testo della nota obituaria contenuta nel libro dei morti della chiesa di S. Domenico a Siena, fu tra gli altri «vocatus ab eodem pro unione illorum presbiteri Iohannis, vocatorum Cristicole centure»20, per la sua padronanza della lingua araba, acquisita durante un lungo soggiorno in Oriente, legato probabilmente all’esercizio della mercatura. Come è stato più volte osservato, l’assise conciliare non costituì soltanto l’occasione di un confronto serrato su importanti questioni teologiche che dividevano le diverse anime della cristianità. Fu evento singolare e impressionante che, per di più, non si consumò solo nello svolgersi di quell’incontro fiorentino: l’arrivo e il peregrinare per buona parte dell’Italia centrale, da Ancona a Firenze e da Firenze a Roma, dei rappresentanti delle chiese orientali e del loro seguito fu un avvenimento che lasciò un segno profondo nella memoria, nell’immaginario collettivo, nell’orizzonte culturale di una società già animata dall’interesse umanistico per la grecità e altrettanto pronta a recepire, se non ad ampliare, le proprie conoscenze orientali21. Trascinato dalla forza propulsiva di quell’evento, cominciò a farsi strada un interesse per l’apprendimento delle lingue orientali che avrebbe trovato sanzione, se non piena maturazione, nei decenni centrali e finali del Quattrocento22. Chiara testimonianza di questa nuova atmosfera che si andava respirando all’indomani di quell’evento è, non a caso, l’opera uscita dalla penna di uno dei traduttori chiamati a partecipare a quell’assise conciliare, il

20 Per l’edizione della nota obituaria di Beltramo di Leonardo Mignanelli, contenuta nel Necrologio dei laici del convento di S. Domenico in Camporegio a Siena, conservato ad oggi presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena (da ora in poi BCIS, C.III.2), vedi N. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere, Roma 2013 (Nuovi Studi Storici, 91), pp. 111-112. 21 Sulle conseguenze culturali degli incontri scaturiti durante il concilio di FerraraFirenze e in particolare sul fascino esercitato nell’immaginario collettivo dai rappresentanti delle chiese orientali vedi gli studi di Angelo Michele Piemontese citati alla nota successiva, e le considerazioni di Cardini, In Terrasanta cit., pp. 253-257. 22 A.M. Piemontese, Lo studio delle cinque lingue presso Savonarola e Pico, in Europa e Islam tra i secoli XIII-XVI, cur. M. Bernardini - G. Borrelli, Napoli 2002, pp. 179-202; Piemontese, Trinacria arabistica e umanistica cit., pp. 177-186; Piemontese, Il corano latino di Ficino e i corani arabi di Pico e Monchates, «Rinascimento», 36 (1990), pp. 227-273; Grévin, Connaissance et enseignement de l’arabe, pp. 103-138; si vedano anche gli studi sulla biblioteca di Federico da Montefeltro, in particolare Ornatissimo codice. La biblioteca di Federico di Montefeltro, cur. M. Peruzzi, Milano 2008, pp. 189-195 (scheda di descrizione del manoscritto di Angelo Michele Piemontese).


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senese Beltramo Mignanelli. Già noto alla curia per la redazione di due cronache sulla storia dell’oriente siro-egiziano tra Tre e Quattrocento, redatte durante la sua partecipazione al concilio di Costanza e per un progetto de recuperatione Terresancte commissionatogli proprio da papa Eugenio IV in pieno svolgimento conciliare23, nel 1442, venne chiamato a Firenze in qualità di interprete per agevolare la mediazione linguistica tra i padri conciliari e le rappresentanze delle chiese orientali24. Un anno più tardi, durante il soggiorno di papa Condulmer nella sua città, il Mignanelli avrebbe composto uno studio sulle varianti latine e arabe del libro dei Salmi, che intitolò Liber de variantibus psalterii25. Con quello scritto, elaborato proprio sull’onda delle suggestioni ancora vive di quel concilio che, in quei mesi, si spostava da Firenze a Roma, passando proprio per Siena, il Mignanelli provava a far convergere le sue competenze arabistiche con le direttrici delle nuove tendenze culturali, che egli aveva fiutato durante i suoi soggiorni curiali e, in particolare, con i sempre più crescenti interessi umanistici verso gli studia divinitatis26. Del Liber ad oggi si conosce un solo

23 Per una disamina delle circostanze di composizione, dei contenuti e della tradizione dell’Informatio contra Infideles di Beltramo di Leonardo Mignanelli cfr. N. Mahmoud Helmy, Pensare la crociata nel Quattrocento. Proposte e strategie di riconquista della Terrasanta dall’Informatio contra infideles di Beltramo Mignanelli, in Luoghi del desiderio. Gerusalemme medievale «Quaderni di storia religiosa», 17 (2010), pp. 157-183; vedi anche Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 209-270. 24 Sulle circostanze che portarono il Mignanelli a prendere parte all’assise conciliare fiorentina, probabilmente dopo l’arrivo delle delegazioni scortate da frate Alberto da Sarteano, cfr. ibid., pp. 209-216. 25 Il Liber de variantibus psalterii attende ad oggi un’edizione. La sola introduzione del Liber è stata oggetto di una trascrizione settecentesca pubblicata nel quarto volume della Miscellanea del Mansi cfr. S. Baluze, Miscellanea novo ordine digesta, aucta opera ac studio J.D. Mansi, IV, Lucae 1764, pp. 132-134. 26 L’interesse di alcuni umanisti italiani per le scritture sacre si andò intensificando negli anni Quaranta del Quattrocento, durante la celebrazione del concilio di FerraraFirenze, ispirato anche dai confronti dottrinali e dalle discussioni avvenute durante quegli incontri. Quell’interesse e il confronto sulla complessa tradizione del testo biblico sfociarono, intorno alla metà del secolo XV, in imprese di traduzione di alcuni libri del canone vetero e neo testamentario. Alla metà del secolo, fu proprio papa Niccolò V a commissionare all’umanista Giannozzo Manetti, fine conoscitore del greco e dell’ebraico, un imponente lavoro di revisione della traduzione del Nuovo e dell’Antico Testamento, che conobbe tuttavia solo una parziale realizzazione a causa della morte del pontefice protettore dell’umanista nel 1458, e di quella dello stesso Manetti l’anno successivo. Di quell’ambizioso progetto il Manetti poté portare a compimento la sola traduzione dal greco del Nuovo Testamento e, per quel che concerne l’Antico, la traduzione dall’ebraico del Libro dei Salmi. Quella del Manetti non fu tuttavia un’impresa isolata. Qualche anno prima, anche Lorenzo Valla elaborò una nuova traduzione del Nuovo Testamento dal greco, anche se il suo tentativo fu accolto in modo piuttosto controverso, e non trovò l’approvazione papale.


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testimone, l’idiografo conservato presso la Biblioteca degli Intronati di Siena, copiato nel 1446 da un certo Antonio, presbiter, per dotare la ricca biblioteca della sacrestia della cattedrale di una copia di quello scritto, corretto di mano dello stesso Mignanelli27. L’opera si estende per trentun carte e si articola in un’introduzione, brevissima, che precede e presenta il cuore del testo, il lungo elenco di varianti tra due traduzioni latine e una versione araba del libro dei Salmi che, disposto su due colonne, occupa le successive trenta carte28.

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A partire proprio dalla riflessione di Leonardo Bruni sui criteri del tradurre, negli anni centrali del secolo, la discussione e il confronto sui metodi di traduzione e sul diverso approccio ai differenti generi di testi si fece sempre più serrata e fu portata avanti da Lorenzo Valla nella sue Annotationes in Novum Testamentum e successivamente dallo stesso Giannozzo Manetti nel suo Apologeticus, appassionata difesa della sua traduzione del Salterio. Nelle pagine di quel libro il Manetti costruì una serrata teorizzazione del metodo di traduzione dei testi, e in particolare del testo sacro, esplicitando le linee guida e i principi ai quali si era attenuto nel tradurre dall’ebraico il Libro dei Salmi. Sul tema della traduzione in età umanistica vedi innanzitutto G. Folena, “Volgarizzare” e “tradurre”: idea e terminologia della traduzione dal Medioevo italiano e romanzo all’Umanesimo europeo, in La traduzione. Saggi e studi, Trieste 1973, pp. 57-120; per quel che concerne le teorie umanistiche del tradurre di Leonardo Bruni vedi anche C. Mottella, I logonimi del tradurre nel De interpretatione recta di Leonardo Bruni, «AIΩN. Annali del Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico. Sezione linguistica», 29 (2007), pp. 227-244, R. Fubini, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica. Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, Annio da Viterbo, «Medioevo e Rinascimento», 2 (1988), pp. 283-324, Fubini, L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini rinascimentali-critica moderna, Milano 2001, pp. 104-184; su Giannozzo Manetti e sui cinque libri del suo Apologeticus (Quinque libri adversus suae novae Psalterii traductionis obtrectatores apologetici) vedi anche le considerazioni di A. De Petris, Le teorie umanistiche del tradurre e l’Apologeticus di Giannozzo Manetti, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance. Travaux et Documents», 37 (1975), pp. 15-32 (ora in De Petris, Ripercorsi filosofici e letterari da Platone a Ficino, Spoleto 2012, pp. 633-654), G. Manetti, Apologeticus, ed. A. De Petris, Roma 1981, pp. V-XLII. Va tuttavia chiarito fin da subito che la riflessione e l’opera di Beltramo Mignanelli che, richiamando una definizione cara al circolo umanistico, si definisce nell’explicit del suo testo, senensis alumpnus, indicando così i reali e per lui forse ideali destinatari della sua fatica, precede di quasi un decennio l’impresa del Manetti, ma si lega, al pari di alcune riflessione di Lorenzo Valla, alle discussioni conciliari, e alla celebrazione stessa del concilio come momento di incontro tra diverse confessioni. 27 Il codice X.VI.2, conservato presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, faceva parte della Biblioteca della sacrestia del Duomo di Santa Maria. Si tratta di un idiografo, realizzato a Siena, negli ambienti della cattedrale, per tramandare innanzitutto proprio il Liber de variantibus Psalterii composto da Beltramo di Leonardo Mignanelli durante il soggiorno in città di papa Eugenio IV e della sua curia. Il manoscritto presenta anche altri due scritti dell’autore senese: De ruina Damasci, Liber Machometi et opinio perfida iudeorum. Per una descrizione del manoscritto cfr. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 307-314. 28 BCIS, X.VI.2, cc. 1-30v.


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Accostandosi al libro più familiare ad ogni cristiano del medioevo, il senese accoglieva le istanze di un contesto culturale che riscopriva un vivo interesse per la lettera del testo sacro. Di lì a qualche anno, nell’intento di recuperare un testo più vicino possibile alla sua versione originale, un affermato umanista come Giannozzo Manetti avrebbe approntato una nuova traduzione del Salterio, dall’ebraico al latino29. Il Mignanelli rileggeva invece quelle preghiere nelle diverse tradizioni testuali mettendo in luce le peculiarità, le differenze, financo le lievi increspature di quelle traduzioni, sulle quali, in quegli anni, ci si interrogava e si discuteva. Anticipando il Manetti l’opera del Mignanelli si inseriva già nel solco di una tradizione di studi ben consolidata che, a partire dall’Esapla di Origine, aveva visto allestire sinossi nelle quali le differenti versioni del Salterio venivano affiancate per una più agevole comparazione30. Testimone importante della ripresa del trigrafismo nell’Europa del Quattrocento, il Salterio di Beltramo Mignanelli si differenzia, tuttavia, anche da quei modelli di Bibbie digrafiche, trilingue o plurilingue, perché non propone l’intero testo salmico ma, salmo per salmo, evidenzia soltanto passi o singole lezioni varianti31.

29 De Petris, Le teorie umanistiche del tradurre cit., pp. 15-32, R. Fubini, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica cit., pp. 283-296; G. Manetti. Apologeticus cit., pp. V-XLII. 30 Per quello che concerne la tradizione dei salteri bilingui, trilingui e plurilingui v. Piemontese, Trinacria arabistica e umanistica cit., pp. 177-186, in cui l’autore descrive alcuni importanti testimoni di Salteri poliglotti come il manoscritto Harley 5786, Salterio trilingue, greco, latino e arabo, o il codice Vaticano Ar. 5, salterio arabo con traduzione interlineare ebraica aggiunta nel secolo XIV; Piemontese, Codici greco-latino-arabi in Italia fra XI e XV secolo, in Libri, documenti, epigrafi medievali, Spoleto 2002, pp. 445-466, all’interno del quale lo studioso presenta un Salterio bilingue che potrebbe tra l’altro avere qualche legame con il Liber de variantibus Psalterii di Beltramo Mignanelli: il Salterio interlineare arabo-latino conservato presso la Biblioteca comunale di Poppi, Salterio che potrebbe essere stato realizzato negli scriptoria minoritici della Terrasanta. 31 La lunga tradizione dei Salteri poliglotti, manoscritti e a stampa (a partire dalla fine del secolo XV), affonda le sue radici nell’Esapla di Origene, e ad essa si rifà come modello di riferimento anche se di quell’opera critica perduta dal VII secolo si conservano soltanto alcuni frammenti. Numerose sono le tipologie di libri salmi poliglotti, contenenti o meno il testo ebraico, una o più traduzioni di Girolamo, il testo greco dei Settanta, e talvolta una traduzione araba. La pubblicazione di Salteri plurilingui costituisce anche oggi un metodo di approccio tutt’altro che superato al testo salmico, sostenuto dai moderni metodi della filologia biblica. Si contano numerose imprese editoriali, tra le più recenti mi limito a segnalare, a titolo di esempio, D. Barthélemy - S. Desmond Ryan - A. Schenker, Critique textuelle de l’Ancien Testament. Tome 4. Psaumes, Fribourg-Göttingen 2005 (Orbis Biblicus et Orientalis 50/4); vedi anche I canti di lode dei Padri. Esapla dei Salmi, Bologna 2009, di cui segnalo l’Introduzione di Adrian Schenker. Per l’inquadramento del fenomeno in epoca medievale e per la descrizione di alcuni tra i più interessanti testimoni realizzati nel corso del medioevo, e per la ripresa del fenomeno in pieno umanesimo vedi bibliografia citata alla nota precedente e alla nota 22.


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Prima dedicarmi all’analisi dell’opera, evidenziando alcune delle sue principali caratteristiche, credo sia utile ripercorrere alcuni passaggi della biografia del Mignanelli, non soltanto per mettere in luce taluni tra i momenti più interessanti della vicenda biografica di un esponente a lungo dimenticato della vita culturale del Quattrocento, quanto piuttosto per osservare, attraverso l’analisi di un caso concreto, il modo in cui si poteva andare formando, alla fine del medioevo, il bagaglio di conoscenze e competenze linguistiche di un interprete. Nato a Siena nell’ultimo quarto del Trecento in una famiglia che, fin dalla stagione della costruzione dell’organismo comunale, aveva giocato un ruolo incisivo nella vita politica della città32, dopo aver compiuto vent’anni, Beltramo si era avviato, nel solco di consolidate tradizioni familiari, a compiere un periodo di apprendistato mercantile in una delle più strategiche piazze d’oltremare: quel sultanato di Siria, e in particolare la sua capitale, Damasco, che, nell’ultimo decennio del Trecento, era uno dei fulcri della geografia dei traffici del Mediterraneo. Partiva avendo intessuto una trama di relazioni complessa e solo parzialmente intelligibile con la compagnia del mercante pratese Francesco di Marco Datini e raggiungeva la città siriana nel 1393, dove attese alla mercatura per quasi un decennio33.

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Per la conoscenza della vicenda biografica del Mignanelli e per l’analisi dei suoi scritti si vedano Mahmoud, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit.; Mahmoud, Memorie levantine e ambienti curiali. L’oriente nella vita e nella produzione di un senese del Quattrocento: Beltramo di Leonardo Mignanelli, in Religioni per via «Quaderni di Storia religiosa», 12 (2006), pp. 236-266; Mahmoud, I Mignanelli: mercatura, impegno pubblico e intellettuale di un casato senese tra XIII e XV secolo, «Bullettino senese di storia patria», 114 (2007), pp. 967; Mahmoud, Una Betlemme a Siena. Note sulla chiesa di Santa Maria in Bellem, «Bullettino senese di storia patria», 115 (2008), pp. 306-329; Mahmoud, Pensare la crociata nel Quattrocento. Proposte e strategie di riconquista della Terrasanta dall’Informatio contra infideles di Beltramo Mignanelli, in Luoghi del desiderio cit., pp. 157-183; A.M. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese biografo di Tamerlano, in La civiltà Timuride come fenomeno internazionale, cur. M. Bernardini, I, «Oriente Moderno», n.ser. (1996), pp. 213226; Piemontese, La lingua araba comparata da Beltramo Mignanelli, «Acta Orientalia Accademiae Scientiarum Hungaricae», 48 (1995), pp. 155-170. Ricaviamo l’anno di nascita di Beltramo Mignanelli dalla notizia veicolata dalla nota obituaria contenuta nel già citato Libro dei morti del convento senese di San Domenico, luogo di sepoltura degli esponenti del casato. In essa si legge infatti che «Beltramus olim Leonardi nobilis de Mignanellis obiit die 26 ianuarii 1455 et anno etatis sue octuagesimo quinto». La nota obituaria di Beltramo Mignanelli è edita in Mahmoud, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 111-112. Una precedente traduzione in I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe senesi o’vero relazione degli huomeni e delle donne illustri di Siena, II, Lucca 1648, p.108. 33 A testimoniare i legami tra il senese e un socio di Francesco di Marco Datini, Luca del Sera, (cfr. M. Luzzati, Datini Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 33, Roma 1987 pp. 55-62: 58-59) resta ad oggi un’unica missiva, scritta da Damasco il secondo gior-


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Apprese così l’arabo che avrebbe da allora in avanti padroneggiato alla stregua della sua lingua materna, come si legge nella nota obituaria contenuta nel Libro dei morti del convento senese di San Domenico34. Già durante il suo soggiorno in oriente ebbe occasione di mettere a frutto la sua competenza linguistica. Fece difatti da interprete alla corte del sultano Barquq quando, nel 1394, arrivò l’ambasciatore di Giangaleazzo Visconti. In quella circostanza il Mignanelli lo introdusse presso la corte del sultano e prese parte all’incontro, traducendo dall’arabo al latino la lettera del sultano per il duca di Milano, così come aveva mandato dal latino all’arabo quella portata dall’ambasciatore35. Al suo ritorno a Siena, era la primavera del 1403, venne quasi contestualmente cooptato nei quadri della classe dirigente cittadina ricoprendo, nel corso di un trentennio, uno svariato numero di uffici e segnalandosi come titolare di delicate e importanti missioni diplomatiche36. Alla partecipazione alla res publica senese e alla gestione del patrimonio mobiliare e immobiliare del suo casato egli affiancò tuttavia anche la collaborazione con la corte pontificia di Gregorio XII. Una collaborazione inaugurata, nella primavera del 1409, da una missione diplomatica tra Firenze, Pisa e Lucca, e continuata con la partecipazione al concilio di Costanza, a fianco del cardinale Giovanni Dominici che, nel 1415, lo nominò suo segretario, proprio «per i diversi linguagi che congnoscea»37. Se dopo la morte del cardinale il suo impegno presso la curia papale subì un drastico ridimensionamento, il legame che egli aveva stretto con alcuni dei fedelissimi di papa Correr rappresentò la chiave che gli spalancò nuova-

no di agosto del 1395 da Beltramo Mignanelli. La missiva conservata presso l’Archivio di Stato di Prato è edita da F. Melis, Documenti per la storia economica dei secoli XII-XVI, Firenze 1972, p. 184. Per la ricostruzione del soggiorno orientale di Beltramo Mignanelli Mahmoud, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 17-32. 34 «Ab adolescentia sua et iuventutis tempore longo, in Barbaria ibique arabum idioma percepit ac si inter eosdem natus et enutritus fuisset, illudque continuo retinuit non minus quam maternum in legendo, scribendo, interpretando», cfr. nota obituaria ricordata alla nota 20, Mahmoud, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 111-112. 35 Sull’episodio, raccontato dal Mignanelli a conclusione di uno dei suoi scritti, l’Ascensus Barcoch, v. ibid., pp. 24-32; nella seconda parte dello stesso volume vedi anche I testi, Ascensus Barcoch, § [241]-[242]. Un accenno anche in Golubovich, Biblioteca biobibliografica della Terrasanta e dell’Oriente francescano, v. Annali di Terrasanta dal 1346 al 1400, Firenze 1927, p. 301. 36 Per quel che concerne la partecipazione alla vita politica senese del Mignanelli e la sua attività di ambasciatore, svolta per conto del governo nel corso di un trentennio dal 1403 al 1433 vedi Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 33-63. 37 Per le vicende legate alla collaborazione del Mignanelli con l’entourage di papa Gregorio VII vedi ibid., pp. 64-86.


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mente le porte della curia pontificia. Come già accennato, nel 1442 Eugenio IV che, in gioventù era stato vescovo di Siena, lo chiamò a Firenze presso il concilio, in occasione dell’arrivo degli orientali38. Quando dunque in senectute il Mignanelli si dedicò alla composizione del Liber de Variantibus lo fece non solo e non tanto per consolazione propria e dei posteri – come avrebbe dichiarato nell’introduzione del testo –, ma anche e soprattutto per offrire un omaggio riconoscente al papa per gli incarichi ricevuti. A dispetto della dedica al pontefice e della solennità del titolo, l’opera si apre, preceduta dalla sola invocazione «In nomine patris et filii et spiritus sancti». L’autore entra subito in medias res, per far luce sull’architettura del testo, sulle fonti utilizzate per il lavoro di collazione e sui principi sottesi alla scelta delle varianti citate. Spiega dunque che nel suo elenco di varianti egli riporta nel primo rigo, la lezione tradita dallo Psalterium ecclesie, cioè il testo in uso nella liturgia latina, il così detto Salterio gallicano, ovvero la traduzione che Girolamo aveva tratto dal testo dei Settanta, stabilito da Origene nella quarta colonna della sua Esapla; nel secondo rigo, egli riporta invece la lezione del salterio secundum sanctum Ieronimum, ovvero la traduzione che Girolamo aveva compiuto direttamente dalla Bibbia ebraica39, e, infine, nel terzo rigo la lezione tradita da un salterio in lingua araba, utilizzato dalle comunità cristiane orientali, che egli ipotizza basato anch’esso sulla traduzione greca dei Settanta40. Delle varianti tratte da quest’ultima versione, il Mignanelli fornisce tanto il testo arabo che la traduzione latina di questo. Lo stesso egli afferma di ripromettersi di voler fare con la versione ebraica, alla quale egli spiega di destinare lo spazio bianco che effettivamente lascia al termine di ogni gruppo di varianti41. Quello spazio, tuttavia, non venne mai colmato

38 Sulle circostanze che portarono il Mignanelli a partecipare alle sedute fiorentine del concilio, in seguito all’arrivo delle delegazioni orientali, cfr. ibid., pp. 209-216. 39 La bibliografia sulla tradizione scritturale del Salterio è pressoché sterminata, per un primo orientamento vedi J. Marks, Der textkritische Wert des psalterium Hieronymi juxta hebreos, Winterthur 1956; S. Del Paramo, Salmi, in Enciclopedia della Bibbia, Torino 1971, coll. 82-99, e bibliografia ivi citata. 40 BCIS, Ms X:VI.2, c. 1r: «Nota quod ubi est A est ut habetur in Psalterio ecclesie, et ubi est B est secundum sanctum Ieronimum et ubi est C est ut habetur in arabico [et] repertum est secundum cristianos ultramarinos quod tamen credo esse secundum grecos». Arduo appare non soltanto individuare l’antigrafo arabo dal quale il Mignanelli ha tratto i passi dei Salmi, ma anche solo fornire dati certi sulla tradizione scritturale del Salterio arabo da lui utilizzato, soprattutto perchè la parzialità del testo citato rende l’analisi assai difficile. 41 Ibid., c. 2r: «Et sciant me dimisisse illud spatium quod intra versum et versum et differentiam et differentiam est, cupiens in eo ponere in hebraico sicut in arabico scriptum est».


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dall’autore che – come egli stesso afferma – non conosce la lingua ebraica, ma solo la comprende «propter conformitatem lingue arabice»42. Il lungo elenco di varianti che compone lo studio critico sul Salterio è ancora ad oggi inedito, mentre l’introduzione, già oggetto di un’edizione settecentesca, è stata di recente portata all’attenzione degli studiosi da un saggio di Angelo Michele Piemontese, che l’ha definita «la più antica descrizione comparata della lingua araba documentata in Italia», e il suo autore «il primo arabista dell’Italia umanistica»43. L’opera del Mignanelli si proponeva di favorire una più attenta comprensione d’un testo biblico che era il libro della preghiera ufficiale della chiesa, la cui recita scandiva, nella liturgia delle ore, i tempi della preghiera quotidiana dei chierici e dei laici devoti44. Dolce, dunque, – afferma il Mignanelli – sarebbe stato sentire quelle differenze nell’esercizio della preghiera per chi avesse voluto bene intelligere il testo salmico e diligenter attendere alla comprensione della varietà delle sentenze e dei vocaboli45. Altrettanto piacevole sarebbe stato, tuttavia, per chi avesse voluto e possedesse le competenze linguistiche e l’interesse per la filologia, transire dal latino all’arabo e dall’arabo al latino quelle preghiere46. Proprio per giustificare la scelta dell’adozione di un salterio arabo in luogo di quello greco, dal quale pure – come tiene a sottolineare l’autore – quel testo doveva scaturire, il senese passa ad occuparsi, nella seconda parte dell’introduzione, di questioni di tipo linguistico e filologico. Analizza dunque il problema

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Ibid., c. 2r: «Non hoc dico pro detrahendo hebraico, quod ignoro, verum quia comprehendo propter conformitatem lingue arabice cum hebraica, quod ipsi non negant». 43 Piemontese, La lingua araba comparata da Beltramo Mignanelli cit., pp. 155-170; Piemontese, Lo studio delle cinque lingue cit., pp. 179-202: 180-181; Grévin, Connaissance et enseignement de l’arabe cit., p. 124. 44 BCIS, Ms X.VI.2, c. 1v:«Pro consolatione mea et futurorum introductione volentium Psalterius bene intelligere et varietates sententiarum et vocabulorum diligenter attendere, libellum hunc in senectute mea composui». Sul ruolo del Salterio nella liturgia e nella vita religiosa, sulla sua tradizione scritturale vedi la sintesi di L. Freeman Sandler, Salterio in Enciclopedia della Bibbia cit., pp. 281- 288; interessanti le considerazioni di Angelo Michele Piemontese il quale analizzando i salteri bi e trilingui realizzati nel corso del Medioevo e analizzando la ripresa del fenomeno in età umanistica pone l’attenzione sul fatto che il Salterio costituisce anche «l’unico libro della serie testamentaria riconosciuto in misura conciliare dalle tre grandi religioni rivelate, [...] e dunque base testuale e pacifica su cui era possibile imbastire un dialogo interreligioso» cfr. Piemontese, Trinacria arabistica e umanistica cit., pp. 177-186: 178. 45 Vedi testo citato alla nota precedente. 46 BCIS, Ms X:VI.2, c. 1r: «Et licet dulce sit istas differentias Psalmorum sentire, non minus erit dulce et valebit iste libellus volentibus et aliqualiter introductis transire a gramatica ad arabicum et e contrario ab arabico ad gramaticam».


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della rappresentazione della lingua araba, del suo valore culturale e del suo ruolo rispetto alle altre lingue – latina, greca, ebraica, caldea –, elaborando una breve ma efficace descrizione geolinguistica della terra. Dopo aver elencato il numero e l’estensione dei paesi arabofoni, osserva che, mentre il latino era la lingua cui si doveva attribuire maggior valore, l’arabo era l’idioma maggiormente diffuso sulla terra: «nec est sub celo ydioma maius illo»47. Non trovano spazio, in questa riflessione, pregiudizi di carattere confessionale. L’analisi linguistica, condotta con metodo filologico ed applicata ad un testo sacro, viene portata avanti non con le armi della disputa dottrinale, bensì attraverso il principio della lingua vista come veicolo di diffusione di cultura e di scienza. Il problema linguistico affrontato nel Liber de variantibus è lo stesso che avrebbe animato in parte le osservazioni dell’Opinio perfida iudeorum48, ovvero il valore, l’estensione ed il primato della pentade linguistica costituita dalle lingue latina, greca, ebraica, caldea, araba. Si tratta di una questione discussa probabilmente anche sull’onda delle dispute dottrinali con i rappresentanti della comunità ebraica, nelle quali uno dei temi caldi era proprio quello della pretesa primazia della lingua ebraica sulle altre lingue rivelate49. Nel Liber de variantibus il Mignanelli confuta questa tesi attraverso un procedimento diverso da quello impiegato nell’Opinio perfida iudeorum: qui si sarebbe attenuto ai metodi della controversistica antigiudaica fondata su temi dottrinali50, nel Liber de variantibus ricorre invece ad una diverso approccio. Nell’introduzione al Liber l’autore allarga l’orizzonte e amplia la questione, dando così vita ad una piccola argomentazione di linguistica, in cui elabora una sorta di gerarchia degli idiomi antichi e allora correnti, anche se il suo interesse principale sembra comunque restare, in tale contesto,

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Ibid., c. 1v. Per una presentazione dei contenuti, della circolazione e delle finalità di quello che costituisce l’ultimo scritto del Mignanelli Opinio perfida iudeorum (tradito anche con il titolo di De iudeis perfidis), composto probabilmente a Siena nel 1444, forse realizzato più per una personale fruizione che per una reale e ampia circolazione vedi Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 263-266. 49 Per un inquadramento generale delle tematiche della trattatistica antigiudaica nel Quattrocento G. Fioravanti, Polemiche antigiudaiche nell’Italia del Quattrocento, un tentativo di interpretazione globale, in Ebrei e cristiani nell’Italia medievale e moderna: conversioni, scambi, contrasti. Atti del VI Congresso Internazionale dell’AISG (San Miniato, 4-6 novembre 1986), cur. M. Luzzati - M. Olivari - A. Veronese, Roma 1988, pp. 76-91; Fioravanti, L’apologetica antigiudaica di Giannozzo Manetti, «Rinascimento», 23 (1983), pp. 3-32: 3-14. 50 Vedi bibliografia citata alla nota precedente.


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quello per la lingua araba: se delle quattro lingue che egli prende in considerazione, il latino, era quella, come già detto, cui attribuire maggior valore, l’arabo era la lingua maggiormente diffusa sulla terra: «nec est sub celo ydioma maius illo»51. Il Mignanelli affida la dimostrazione di questa sua asserzione ad una descrizione geo-linguistica della terra, nella quale indica il numero e l’estensione dei paesi arabofoni:

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«Clarum quippe est machinam terre detectam ab aqua in tres partes fore divisam videlicet: Asiam, que est maior, Affricam que est minor, et Europam que tertie partis ut mediocris est magis conformis; nam tota Affrica idioma arabicum tenet, deinde Asia tenet totum Egiptum, Siriam, Mesopotamiam, Assiriam, Caldeam, Arabiam in sua divisione, in quibus arabica omnes lingua locuntur usque ad littora Rubri et per Secci maris et similiter in Europa -proh dolor- in regnum Granate, situm inter tria regna catholicorum»52.

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In questo suo saggio non trovano spazio pregiudizi di carattere confessionale ed anche eventuali ragioni di opportunità storica e politica vengono superate ed eclissate da quelle culturali. Non c’è posto in questo testo per i toni aspri della polemica dottrinale e, non casualmente, l’accento del Mignanelli subito cade su quei molti periti giudei, che avevano non solo lodato la lingua araba, ma anche composto proprio in quell’idioma i loro testi di filosofia e medicina. Nonostante egli, alla fine del passo, si rammarichi per l’esistenza del regno di Granada, «situm infra tria regna catholicorum», non può fare a meno di osservare come quel regno avesse dato natali a molti «viri fama lucentes»53. Ribadendo la conformità della sua trascrizione del testo arabo dei passi varianti rispetto all’antigrafo che egli aveva citato, nihil addito vel diminuto, l’autore pone invece l’accento sulle tante difficoltà del lavoro di traduzione: difficillima si era rivelata – avverte Mignanelli – la traduzione dall’arabo al latino di quei passi, a causa della difformità tra le due lingue, della diversità dei vocaboli, della carenza, talvolta invece della sovrabbondanza della versione araba54. Un’ulteriore difficoltà doveva imputarsi alle

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BCIS, Ms X.VI.2, c. 1v. Ibid., c. 1v. Ibid., c. 1v: «et similiter in Europa - proh dolor - est regnum Granate, situm inter tria regna catholicorum, quod regnum etiam arabicum est in quo nonnulli fuere viri fama lucentes, inter quos Avicenna, Averrois, Rais Almonsor et quidam alii qui notabilia ediderunt, denotantur». 54 Ibid., c. 1v: «In arabico etiam scribere decrevi proprie ut in psalterio arabico continetur, nichil addito vel diminuto, notificans tamen quod huiusmodi interpretatio difficil-


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diversità morfo-sintattiche esistenti tra le due lingue, come ad esempio il sistema flessivo: quello dell’arabo è giudicato dall’autore meno complesso rispetto al latino, le declinazioni – scrive – «pauca apud eos sunt», e alla loro carenza «in casibus aliquando et temporibus», l’arabo supplisce attraverso circumlocuzioni. A queste diversità si deve inoltre aggiungere l’assenza nella lingua araba dell’uso del verbo essere. L’attenzione per le lingue orientali e la scelta del libro dei Salmi, libro biblico comune alla tre religioni rivelate, non mi sembra invece costituire, come pure è stato scritto, una piattaforma per un dialogo interreligioso. Il salterio arabo dal quale l’autore aveva tratto le varianti rispetto a quello gallicano e quello iuxta hebreos non era, difatti, un libro destinato a un devoto musulmano ma, come afferma l’autore in apertura del testo, il libro di preghiere di un cristiano d’oriente, un christicola ultramarinus, secondo la formula adottata dall’autore per indicare probabilmente i membri delle comunità cristiane melchite di Siria55. Il lavoro filologico condotto dall’autore non mira – si badi – a una ricostruzione completa di una versione più corretta del testo sacro: piuttosto si limita a mettere in risalto soltanto la sua complessa tradizione testuale. Dal punto di vista formale sceglie di non collocare le varianti in sinossi – articolazione ‘classica’ che avrebbe agevolato il confronto – ma di estrapolarle dal contesto del salmo, presentandole in successione ed elencando una sotto l’altra le diverse lezioni. Dispone tuttavia l’elenco dei gruppi di varianti su due colonne, secondo un’articolazione che ricorda solo graficamente i codici digrafici o trilingui del Salterio56. Dei centocinquanta salmi contenuti nel salterio, sono centotrentatre quelli di cui il Mignanelli riporta le varianti testuali. Sono dunque diciassette quelli che, secondo il lavoro di collazione dell’autore senese, non presenterebbero alcun passo variante. In questi centotrentatre salmi l’autore segnala cinquecentottanta varianti testuali. Il lavoro di ricerca delle varianti è tutt’altro che superficiale, coinvolge anche le sfumature di quei testi,

lima est propter deformitatem modi loquele a nobis, et mutationem vocabulorum, et maxime quia ipsi interdum carent vocabulis et sepe sepius habundant et melius vulgare nostro salva nostra gramatica, ipsa vocabula apropriant et distinguunt nec est sub celo idioma maius illo nec nostra gramatica et sic probatur (sic)». 55 Ibid., c. 1r, testo citato alla nota 40. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia cit., pp. 266-270, sulla questione vedi anche le considerazioni di Piemontese, La lingua araba comparata da Beltramo Mignanelli cit., pp. 155-170. 56 Per alcuni esempi cfr. Piemontese, Trinacria arabistica, pp. 177-181, vedi anche la bibliografia citata alla nota 22.


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colte attraverso singoli termini varianti, difformità di traduzione, diversità di resa delle costruzioni dalla lingua originale, oltre che i passi nei quali le divergenze appaiono più significative anche rispetto al senso. Il testo tradito dal gallicano e quello arabo, proposto anche nella sua traduzione latina, scaturiti entrambi dalla Bibbia greca dei Settanta, convergono in un numero significativo di casi: sono ben centotrenta le coincidenze perfette, e molte di più quelle nelle quali il testo presenta solo lievi divergenze di traduzione: l’uso del singolare in luogo del plurale o l’adozione di termini perfettamente sinonimi. Non mancano tuttavia passi nei quali sono invece il testo del Psalterium iuxta hebreos e quello arabo a proporre una lezione comune, divergente da quella proposta dal Gallicano: in questo senso si contano una decina di convergenze. Quel cumulo di più di mezzo migliaio di varianti, elencate attraverso un rigido schema di successione, mette bene in luce la complessità della tradizione testuale del libro di preghiere più usato e più familiare ad ogni cristiano e si inserisce in un dibattito che, in quegli anni, si faceva molto acceso, nel contesto dell’innovativo approccio ai testi, anche quelli sacri, allora proposto dall’umanesimo, e che ebbe, come già accennato, in Giannozzo Manetti uno dei maggiori esponenti. Il lavoro del senese – che nel testo si definisce senensis alumpnus, applicando a sé un’espressione assai cara alla cerchia umanistica57 – si incunea in un punto chiave di quel dibattito: il rapporto tra il testo greco dei LXX e l’hebraica veritas, anticipando una questione che si sarebbe imposta all’attenzione pochi anni più tardi, animata dalla discussione sulle metodologie della traduzione e sollevata dagli esperimenti di revisione delle traduzioni geronimiane del Nuovo Testamento elaborata da Lorenzo Valla58 e dalla traduzione dall’ebraico

57 La definizione è contenuta nell’explicit del testo cfr. BCIS, X.VI., c. 30v: «Explicit libellus iste. Anno Domini MCCCCXLIII. Editus per me Beltramum quondam Leonardi de Mignanellis senensem alumpnum, Senis, tempore quo papa Eugenius IIII in ipsa civitate cum sua curia residebat». 58 Per quel che concerne l’attenzione di alcuni umanisti alla traduzione dei libri biblici vedi le considerazioni di S. Garofolo, Gli umanisti italiani del secolo XV e la Bibbia, «Biblica», 27 (1946), pp. 338-373 (ora in La bibbia e il concilio di Trento. Conferenze commemorative, Roma 1947, pp. 38-75); Fubini, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica cit., pp. 283-324; per quel che riguarda la traduzione del Nuovo Testamento dal greco di Lorenzo Valla vedi le considerazioni contenute nei densi saggi di Fubini, Lorenzo Valla tra il concilio di Basilea e quello di Firenze, e il processo dell’Inquisizione, in Fubini, L’umanesimo italiano cit., pp. 136-162; Fubini, Lorenzo Valla e le tradizioni sacre, ibid., pp. 163-183 e bibliografia ivi citata.


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dei Salmi approntata dal Manetti, traduzione quest’ultima che faceva parte di un progetto più ampio di revisione dell’intero corpus della Bibbia commissionata all’umanista da papa Niccolò V59, e dalla difesa appassionata di quel lavoro affidata dal Manetti alle pagine del suo Apologeticus60. Nella seconda parte del IV libro di quest’ultima opera, l’umanista appronta un elenco di varianti, raggruppando le differenze di interpretazione della traduzione geronimiana dei LXX rispetto al testo ebraico relative ai titoli con i quali i salmi furono diversamente denominati. A differenza di quanto aveva fatto il Valla nelle sue Adnotationes, il Manetti non riporta l’originale ebraico e neppure si sofferma sul significato, ma si limita a registrare le parole omesse, aggiunte o variamente tradotte61. Dieci anni prima del lavoro di Giannozzo Manetti, Mignanelli aveva avuto invece il merito di evidenziare, elencandole, quelle differenze. L’autore senese non aveva tuttavia voluto elaborare una nuova traduzione del libro biblico. Ne sarebbe probabilmente stato – del resto – incapace: pur ripromettendosi di accostarsi al testo ebraico, disattende anche a quell’impegno. Egli aveva inoltre ignorato completamente, né avrebbe potuto fare altrimenti, il testo greco. A dispetto della sua pretesa qualifica di alumpnus, il senese era e rimaneva, e non solo per quel che riguarda la sua formazione, un mercante. I suoi studi non erano stati propedeutici ad

59 È grazie all’assiduo studio dell’ebraico, al quale Giannozzo Manetti si dedicò a partire dal novembre 1442 (la data si ricava da una nota che il Manetti appone su uno dei manoscritti sui quali cominciò a studiare l’ebraico, comprato da Nicola di Bartolo da Prato l’11 novembre 1442: «1442 die dominica XI novembris cum Emanuele hebreo incepi hebraice») e alla sicura padronanza di quella lingua «acquisita attraverso la lettura ripetuta del testo semitico della Bibbia e di alcuni commenti rabbinici» che papa Niccolò V nei primi anni ’50 del secolo XV lo chiamò a Roma con l’intento di affidargli la revisione della traduzione dell’intero testo biblico. A quell’impresa il Manetti si dedicò dal momento in cui gli fu affidato l’incarico, tra il 1454 e il 1455, e riuscì a realizzare la traduzione del Nuovo Testamento dal greco e la traduzione dei Salmi dall’ebraico. Sulla questione vedi U. Cassuto, Gli ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, Firenze 1918 (rist. anast. Firenze 1968), pp. 144-245, 275-278, 287; C. Trinkaus, In our images and likeness, II, Chicago 1970, pp. 578-601; sull’opera di De Petris, Le teorie umanistiche del tradurre cit., pp. 15-32; Fubini, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica cit., pp. 283-324. 60 Alle critiche seguite alla sua nuova traduzione dei Salmi dall’ebraico il Manetti rispose nel 1456, da Napoli, dove si era trasferito dopo la morte di papa Niccolò V, con la composizione dei Quinque libri adversus suae novae Psalterii traductionis obtrectatores apologetici, editi da Alfonso De Petris nel 1981 (cfr. Manetti, Apologeticus cit.) . 61 Sull’opera di Lorenzo Valla vedi le considerazione di Fubini, Lorenzo Valla e le tradizioni sacre cit., pp. 163-183; alcune considerazioni anche in Manetti, Apologeticus cit., pp. XXXII-XXXV.


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una istruzione superiore di tipo universitario, né tanto meno s’erano compiuti sotto la guida di magistri insigni che potessero avviarlo allo studio dei testi della classicità greca. Il suo orizzonte culturale di maturo uomo di cultura, segnato dall’interesse per la storia, l’astronomia e, soprattutto, dalla padronanza della lingua araba, rimaneva comunque privo di quella approfondita conoscenza delle lingue classiche, fulcro dell’interesse del nascente umanesimo. Il suo libro si pone, dunque, al crocevia di suggestioni, modelli e tendenze culturali a lui contemporanei, provenienti dal circolo umanistico curiale, animato, in quegli anni, da interessi per lo studio dell’ebraico e dell’arabo: confrontare le versioni dei salmi adottate da cristiani d’oriente e d’occidente in diverse epoche era negli anni del concilio e dell’unione con le chiese orientali un buon modo per ritrovarsi uniti, attraverso la comprensione e l’analisi dei testi, in un medesimo patrimonio di fede, di dogmi e di Libri. Il Mignanelli sembra aver colto a pieno l’interesse che questo avrebbe avuto per quel circolo umanistico e lo sfruttò pur senza condividere, fino in fondo, gli stimoli e le competenze culturali che muovevano quell’interesse. In lui, uomo d’una diversa cultura, radicata nel mondo dei mercanti cittadini, a determinare lo stimolo alla scrittura è ancora una volta quella competenza linguistica, maturata durante il suo viaggio di mercatura in Siria, che egli seppe abilmente sfruttare nel corso della sua lunga esistenza, mettendola a servizio della politica papale, delle esigenze del circolo umanistico, ma soprattutto della propria affermazione personale, che da giovane mercante, ben inserito nei circuiti internazionali, lo portò a divenire membro della curia papale. È ancora una volta ricorrendo al bagaglio di storie e conoscenze acquisite durante la sua personalissima esperienza orientale che conclude, in realtà, anche quest’opera. Sceglie infatti, tra molti aneddoti che sa di poter raccontare, un esempio colorito e vivace capace di chiarire immediatamente al lettore il valore del multilinguismo e le principali caratteristiche dei diversi idiomi. Racconta dunque di un sultano d’Egitto e Siria, che egli identifica col Saladino, ma che è in realtà da identificare con il sultano Barquq, capostipite della dinastia dei mamelucchu circassi il quale: «inter alia IIII idiomata eleganter sciebat, videlicet grecum, turcum, persicum et arabicum, quibus utebatur, loca, personas, et tempora magno ordine distinguebat, qui in camera cum suis mulieribus et ancillis loquebatur greco vel persico, et in exercitu et noctis tempore turco, in audientia vero et in iuditio utebatur arabico. Qui, interroganti et admiranti quia, sic respondit: «Sic convenit quia grecum


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et persicum sunt dulcia, mitia et muliebria, turcum vero rude, tonans et acerbum, arabicum autem magis diffusum vocabulis habundans et compendiose bene distintum». Et velle super huiusmodi disputare multa occurrerent, que censeo potius relinquenda»62.

62 BCIS, Ms X.VI.2, c. 2r. Vedi anche le considerazioni di Grévin, Connaissance et enseignement de l’arabe, p. 124.


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La lingua della legge. I volgarizzamenti di statuti nell’Italia del Basso Medioevo*


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1. Premessa

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L’uso del volgare nei testi a carattere giuridico dell’Italia bassomedievale costituisce un fenomeno di vasta portata che coinvolge fattori diversi di natura eminentemente linguistica, politica e culturale. Per offrire un quadro ragionevolmente dettagliato e critico del problema abbiamo scelto di imporre a questa relazione alcuni limiti ‘esterni’, in modo da concentrare l’attenzione su un ambito circoscritto del quale sia possibile focalizzare bene le questioni. In primo luogo, quindi, la nostra trattazione non andrà cronologicamente oltre la fine del XIV secolo. Chiaramente non è possibile considerare il 1399 uno spartiacque in nessun senso e, per i fenomeni a carattere generale terremo senz’altro presenti i lineamenti della storia quattrocentesca; nondimeno il fuoco della relazione sarà centrato sul Due e Trecento. La seconda limitazione riguarda, invece, le tipologie documentarie prese in esame, ed avrà un effetto probabilmente più condizionante. Oggetto della nostra analisi saranno i testi normativi di enti pubblici, cioè città, comuni rurali e corpi di rappresentanza territoriale: escluderemo, pertanto, tutti i casi, notevolissimi sul piano linguistico e per molti versi più precoci, delle statuizioni di ambito confraternale e corporativo1.

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Il testo è frutto di un confronto e di una discussione comuni. La stesura è stata così ripartita: i paragrafi 1, 2, 3 e 9 vanno attribuiti a Lorenzo Tanzini; i paragrafi 4, 5, 6, 7 e 8 a Francesco Salvestrini. Il paragrafo 10 è stato redatto congiuntamente dai due autori. ASF = Firenze, Archivio di Stato. SCAS = Statuti delle Comunità autonome e soggette. 1 Cfr. per un esempio particolarmente significativo, anche in rapporto alle modalità dell’edizione, F. Bambi, Un testo statutario inedito (o quasi) della metà del Trecento: i capitoli della compagnia «la quale si rauna al luogo della chiesa di Santo Michele» di Carmignano, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 8 (2003), pp. 241-285.


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Limitazione condizionante, questa, che non si giustificherebbe di per sé in uno studio complessivo sul fenomeno linguistico del volgare scritto nella vita sociale del Medioevo, ma che ci è parsa ragionevole in considerazione della diversa natura della tipologia statutaria considerata: corporazioni professionali e sodalizi confraternali presentavano, infatti, un carattere eminentemente associativo, e l’uso del volgare negli statuti si giustificava in rapporto ad un simile carattere, mentre la scelta esclusiva per gli enti di natura espressamente pubblica vuol concentrare l’attenzione sul volgare come lingua del diritto, capace di veicolare concetti e tematiche dell’organizzazione istituzionale e della cultura giuridica2. Proprio riguardo al volgare come lingua del diritto sarà bene anticipare fin d’ora un carattere fondamentale del fenomeno, che è stato del resto ben evidenziato dagli studi recenti, soprattutto a partire dai lavori di Piero Fiorelli. In Italia il volgare si affermò molto lentamente come lingua adatta al vocabolario e al linguaggio giuridico: molto più lentamente di quanto riscontrabile nelle altre regioni dell’Europa romanza e germanica. L’attaccamento della cultura giuridica al latino, assolutamente incontrastato negli studi universitari, e il peso delle consuetudini notarili nella scrittura del diritto fecero sì che l’avanzata del volgare nell’ambito dei testi giuridici fosse vigorosamente rallentata, almeno fino al XIV secolo3. Si potrebbe dire, anzi, che in Italia soltanto il Dottor volgare di Giovanbattista De Luca – e siamo nel 1673 – inaugurasse un’esplicita e dichiarata presa di coscienza del volgare come lingua del diritto4, che quindi si confermò come dato solo faticosamente consolidato nel corso del tempo.

2 La differente impostazione del problema relativo al volgare come lingua del diritto negli statuti delle istituzioni cittadine e in quelle di realtà associative è ben formulata da F. Bambi, Alle origini del volgare del diritto. La lingua degli statuti di Toscana tra XII e XIV secolo, «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 126 (2014), in corso di pubblicazione on line. All’autore va il nostro ringraziamento per averci fornito il testo ancora in bozze, e per aver letto e discusso la prima versione di questo saggio nei punti di comune interesse. 3 Si vedano i saggi raccolti in P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, Milano 2008. Il medesimo studioso in La lingua del diritto e dell’amministrazione, in Storia della Lingua Italiana, a cura di L. Serianni - P. Trifone, II. Scritto e Parlato, Torino 1994, pp. 553-597 parla, per la grande esplosione di cultura giuridica nel XII secolo, di «un rinascimento senza volgare»: la rinascita della scienza giuridica fissò, anzi, immutabilmente il latino quale lingua del diritto in Italia, mentre già dal XII secolo in Francia si cominciava a passare al volgare, come dimostra la redazione di una sorta di epitome del Codex giustinianeo in lingua provenzale, Le Codi (ivi, pp. 556-561). 4 G.B. De Luca, Se sia bene trattare la legge in lingua volgare, ed. P. Fiorelli, Firenze 1980 [ristampa commentata del proemio del Dottor volgare, prima edizione Roma 1673].


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Di questo fenomeno proveremo a seguire i segnali d’avvio nel periodo, sicuramente decisivo, dei decenni tra XIII e XIV secolo. 2. Uno sguardo geografico

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Volendo tracciare in via preliminare, come quadro d’insieme, la mappa dell’uso del volgare nelle redazioni statutarie italiane del Due-Trecento, ci troviamo di fronte ad un panorama molto diseguale, con alcune zone a forte densità di testimonianze, non pochi vuoti e qualche episodio singolare. Innanzitutto, la grandissima parte dei testi statutari in volgare di questo periodo proviene dalla Toscana. L’assoluta preminenza toscana testimonia come ovvia una familiarità all’uso del volgare che è parte di un fenomeno più ampio, e investe beninteso anche tipologie testuali molto diverse. Basterà a questo proposito ricordare che la più recente rassegna sui volgarizzamenti letterari nel Trecento recensisce 41 versioni di testi non documentari dal 1301 al 1325 e 53 dal 1326 al 1350: e per l’intero cinquantennio i casi censiti risultano 78 in toscano (di cui 31 fiorentini, 21 pisani e gli altri vari e incerti), 10 in volgari settentrionali (di cui 3 veneziani), 3 centro-meridionali e 3 meridionali siculi5, con uno squilibrio territoriale più che evidente. In effetti, però, la coincidenza di dati del genere con l’uso del volgare in ambito statutario vale solo a livello macroscopico, perché entrando nel dettaglio le sfasature risultano abbastanza vistose. Sta di fatto, ad esempio, che all’interno del quadro statutario toscano vi siano articolazioni significative. In primo luogo, la priorità cronologica e la prevalenza quantitativa spettano sicuramente a Siena e al suo territorio. Anche senza contare il caso veramente eccezionale della redazione volgare dello statuto di Montieri del 12196, entro la metà del Trecento il territorio senese conta una decina di statuti volgari: alcuni di comunità rurali, altri di uffici pub-

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F. Romanini, Volgarizzamenti dall’Europa all’Italia, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, dir. G.L. Fontana - L. Molà, II, Umanesimo ed educazione, cur. G. Belloni - R. Drusi, Vicenza 2007, pp. 381-405: 388-404. Per un repertorio dei testi volgarizzati si veda il progetto che fa capo all’Accademia della Crusca, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, i cui dati sono accessibili sul sito http://www.ovi.cnr.it; l’elenco con bibliografia è stampato in E. Artale, I volgarizzamenti del corpus TLIO, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 8 (2003), pp. 299-377. 6 Che forse fu una sorta di volgarizzamento alla rovescia, cioè la versione preliminare volgare usata per redigere in un secondo momento quella latina: cfr. A. Castellani, La prosa italiana delle origini. I/1. Testi toscani a carattere pratico. Trascrizioni, Bologna 1982, pp. 41-51.


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blici cittadini7, più il caso notissimo del volgarizzamento dello stesso Costituto comunale del 1309-1310. Questo innegabile primato senese si appanna però nel secondo Trecento, quando al contrario si assiste alla proliferazione di statuti volgarizzati nel territorio fiorentino. A parte i casi di uffici cittadini, che vedremo nel dettaglio, dal 1370 alla fine del secolo si sono conservati una quindicina di statuti di comunità soggette o leghe del contado di Firenze in volgare8, con una regolarità e concentrazione cronologica che non può non far pensare ad una deliberata politica di volgarizzamento messa in atto dalle autorità della Repubblica. Rispetto a questi esempi senesi e fiorentini il quadro per le altre città e centri minori toscani è sorprendentemente povero: Pisa presenta alcuni statuti e regolamenti pubblici redatti o tradotti in volgare nella prima metà del

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7 Già il vecchissimo ma accurato F.L. Polidori, Proposta per la pubblicazione degli statuti scritti in volgare nei primi due secoli della lingua, Bologna 1861 ne elencava gran parte, ma si vedano le integrazioni segnalate in Bibliografia dei testi in volgare fino al 1375 preparati per lo spoglio lessicale, Firenze, CNR-Accademia della Crusca-Opera del vocabolario italiano, 1992. Tra gli statuti di comunità rurali si segnalano quelli di Montagutolo (12801297), Chiarentana (1314?) e Pieve a Molli (1338), che tuttavia – si badi – vanno intesi come esempi senesi solo nel senso della collocazione geografica, perché nessuna di queste comunità era soggetta a Siena nel periodo dello statuto: su questo spunto ha in corso un lavoro di approfondimento Andrea Giorgi, che ringraziamo della segnalazione; tra quelli relativi agli uffici pubblici cittadini lo Statuto sui gonfalonieri e le compagnie di popolo del primo Trecento, quello della Gabella delle porte e passaggi di Siena (1301 e seguenti), lo Statuto della Società del padule d’Orgia (ante 1329), lo Statuto della Mercanzia di Siena del 1342 e gli statuti dell’ufficio finanziario del Camarlingo e Quattro della Biccherna, risalente alla prima metà del secolo XIV, ma con varie aggiunte successive agli anni Cinquanta. 8 Si fornisce qui l’elenco degli statuti locali in volgare conservati nell’Archivio di Stato di Firenze, fondo SCAS: Frammento di statuti trecenteschi di Bibbiena (n. 79); Statuti della Lega di Borgo San Lorenzo del gennaio 1376 (n. 92); Statuti del comune di Castelfranco di Sopra del 1393 (n. 173); Statuti della Lega del Chianti dell’ottobre 1384 (n. 232); Statuti della lega di Cintoia del 21 settembre 1397 (n. 240); Statuti del comune di Corniolo di Romagna del 1376 (n. 275); Statuti del comune di Gello in Casentino del 24 aprile 1373 (n. 357); Statuti del comune di Montemurlo del 1387 copiati il 17 settembre 1410 (nn. 498499); Statuti del comune di Monterappoli del 1393 (n. 506); Statuti del comune di Premilcuore dell’agosto 1379 (n. 684, in copia cinquecentesca); Statuti dei popoli della pieve di San Vito all’Ancisa (detti anche comuni de extra del comune di Incisa) del 10 aprile 1380 (n. 805); Statuti del comune di Santa Maria a Monte dell’8 giugno 1391 (n. 816); Statuti del comune di Signa del 1399 (n. 850); Statuti del comune di Soci e Villa Farneta del 1360 (n. 856). Per ribadire la preminenza fiorentina nel panorama degli statuti rurali di questo periodo si potrà segnalare che gli statuti di Corniolo e Premilcuore, entrambi in territorio romagnolo al tempo soggetto a Firenze, sono le uniche redazioni volgari superstiti per tutta l’area emiliano-romagnola del Trecento, come risulta dal Repertorio degli statuti comunali emiliani e romagnoli, secc. XII-XVI, cur. A. Vasina - E. Angiolini, Roma 19971999, in particolare I, pp. 221-223, 252-253.


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secolo9, mentre a Lucca l’unica testimonianza volgare in questo senso è un modesto statuto suntuario del 136210. In altri centri come Pistoia e Arezzo il latino copre pressoché integralmente il panorama delle fonti pubbliche11. Con uno stacco quantitativo fortissimo rispetto ai casi toscani, si riscontrano poi alcune aree – forse sarebbe il caso di definirle occorrenze locali, visto che si distribuiscono su singole città più che su territori – con un numero limitato ma significativo di statuti volgari: l’Italia centrale, cioè nel concreto Perugia, e Venezia, intesa solo come città e non nella sua estensione politica alla Terraferma12. Dato che si tratta di ordinati cittadini di grande portata politica, vedremo più avanti nel dettaglio le rispettive caratteristiche. Infine, da questo sguardo ancora del tutto estrinseco alle testimonianze superstiti, emergono alcune zone geograficamente periferiche, nelle quali l’uso del volgare sembra ben affermato nel corso del XIV secolo: la Sardegna, la Sicilia e le isole della Dalmazia13. Il termine ‘periferico’ va inteso qui in un senso totalmente privo di connotazioni valutative, ma soltanto come richiamo ad una insularità che poneva questi territori in condizione di contatto e sovrapposizione di identità politiche e pratiche di uso della scrittura molto diverse da quelle caratterizzanti buona parte del territorio della Penisola. Il caso sardo è in questo senso quello che offre una maggiore messe di testimonianze, peraltro con tipologie statutarie molto diverse. La celebre Carta de Logu tardotrecentesca della giudicessa Eleonora d’Arborea, che include a sua volta la redazione del Codice Rurale

9 Ordinamenti dei pubblici pascoli dei cavalli in Pisa, cur. L. Tanfani, Pisa 1867; Ordinamenti della nuova piazza del grano a Pisa, in L. Tanfani, Notizie di artisti tratte dai documenti pisani, Pisa 1897. Si vedano avanti i casi ben più interessanti di volgarizzamenti degli statuti del comune. 10 Statuto suntuario di Lucca del 1362, in G. Tommasi, Sommario della Storia di Lucca 1004-1700, compilato su documenti contemporanei; continuato sino all’anno 1799 e seguito da una scelta degli indicati documenti per cura di C. Minutoli, «Archivio Storico Italiano», ser. I, 10 (1847), pp. 48-134. 11 Ma si veda L. Tanzini, Mercato e fiscalità a Pistoia alla metà del Trecento dallo statuto volgare della gabella delle porte del 1353, «Bullettino Storico Pistoiese», 107 (2005), pp. 3-50, con edizione del testo. 12 Sull’uso del volgare nella tradizione normativa veneziana si veda l’accuratissimo studio di L. Tomasin, Il volgare e la legge. Storia linguistica del diritto veneziano (secoli XIIIXVIII), Padova 2001. 13 Non consideriamo qui il caso di Trento e delle sue prime redazioni statutarie, redatte in latino ma con precoci traduzioni tedesche, trovandoci appunto in un’area linguistica differente, nella quale peraltro la debolezza dell’organizzazione notarile testimonia l’affinità con un contesto germanico più che con quello italiano cui facciamo riferimento: H. von Voltelini, Gli antichi statuti di Trento, Rovereto 1989 [ed. orig. Innsbruck 1902].


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del padre Mariano di metà secolo, sempre in sardo, si può considerare la prima grande statuizione regia interamente in volgare della storia medievale italiana, mentre la variante logudorese del sardo medievale è testimoniata dagli statuti trecenteschi di Sassari14. Per contro il volgare pisano veniva usato nelle statuizioni ‘coloniali’ dei possedimenti della città tirrenica sull’isola a Cagliari e a Iglesias15. Il complesso del caso isolano lascia intendere come qui abbiano operato molto meno che altrove quei limiti all’impiego del volgare tipici del mondo continentale, in particolare le consuetudini notarili, e come del resto la situazione di contiguità o sovrapposizione tra identità locali e dominazioni esterne abbia in qualche modo legittimato un attaccamento ai fattori linguistici identitari. A un fenomeno di questo tipo si possono forse ricondurre anche le interessanti testimonianze di testi normativi trecenteschi in volgare siciliano. Qui non si tratta, nella maggior parte dei casi, di veri e propri statuti in senso comunale, quanto piuttosto di capitoli di (auto)regolamentazione delle pratiche mercantili e fiscali locali, come nei capitoli volgari di Caltagirone, Calatafimi, Alcamo e Licata, sottoposti all’approvazione dei sovrani aragonesi16. Proprio la dualità tra il siculo dei capitoli e l’universalistico latino della cancelleria regia sembra costituire la dinamica fondamentale di queste scelte linguistiche17.

14 Sul caso arborense si può far riferimento agli aggiornati saggi in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cur. I. Birocchi - A. Mattone, RomaBari 2004; per Sassari cfr. Gli statuti della Repubblica di Sassari: edizione critica curata col sussidio di nuovi manoscritti, con varianti, note storiche e filologiche ed appendici, cur. V. Finzi, Cagliari 1911 [estratto dall’«Archivio storico sardo»]. La versione originaria in latino risale al periodo di dominazione pisana, mentre il testo volgare è datato 1316, quando Sassari si trovava soggetta a Genova: è dibattuta la questione dell’effettivo periodo del volgarizzamento. 15 Per il caso di Cagliari cfr. sotto, nota 25; sul breve della Villa di Chiesa/Iglesias, conservatosi nella versione del 1327 sotto il dominio già aragonese, ma in una forma testuale ‘pisana’, si veda ora il lavoro di S. Ravani, Il Breve di Villa di Chiesa (Iglesias), Cagliari 2011. 16 Un quadro generale in S. Giambruno - L. Genuardi, Capitoli inediti delle città demaniali di Sicilia, I, Palermo 1918 (Documenti per servire alla storia di Sicilia, ser. II, 10); edizioni di singoli testi si trovano in A. Guarnero, Un diploma di grazie e privilegi municipali concessi nel 1393 dai magnifici conti di Peralta alla città di Calatafimi, «Archivio Storico Siciliano», 14 (1889), pp. 293-314, mentre ai primi anni del Quattrocento risale il testo edito da G. Travali, Alcuni privilegi accordati da re Martino alla città di Messina, ivi, 14 (1889), pp. 183-186. 17 A tal proposito H. Bresc, La pratique linguistique des municipalités. Sicile et Provence, 1300-1440, «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 117 (2005), pp. 641-664, nell’osservare la lenta affermazione del volgare nelle cancellerie siciliane alla fine del Trecento, ha distinto l’uso del latino come ‘lingua dello Stato’ dalla possibilità, ancora episodica, dell’uso del siciliano per una comunicazione politica in senso più largo.


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Il caso più singolare è, infine, quello delle isole della Dalmazia: la serie cospicua di testimonianze statutarie in volgare in città come Ragusa e Spalato18, ma anche in piccole comunità isolane come Cherso (Ossero), Curzola, Lagosta e Meleda, si trova al margine dei nostri interessi, non solo per ovvi motivi di natura storico-politica, ma anche per la ben più approfondita rassegna che le ha dedicato Egidio Ivetic in questo stesso volume. Detto questo, appare chiaro che, se volessimo considerare in maniera così ‘esterna’ le testimonianze in volgare delle fonti statutarie due-trecentesche, ci troveremmo a studiare solo un ristretto novero di situazioni locali: un piccolo arcipelago di ‘isole’ volgari (qualcuna un po’ più grande) in un mare di testimonianze latine. Per dare un senso complessivo al nostro studio occorre, invece, dichiarare un punto cruciale nel rapporto tra latino e volgare durante il periodo considerato. Latino e volgare sono nell’Italia del Trecento due idiomi immancabilmente abbinati, dei quali l’uno non è mai totalmente indipendente dall’altro nelle abilità linguistiche dello scrivente. L’intreccio è così intenso che non si può neppure farlo coincidere in modo rigido con due registri (‘alto’ e ‘basso’) gerarchicamente ben ordinati19. La situazione di fronte alla quale ci troviamo è quella di una diglossia latino-volgare, nella quale cioè l’impiego di due lingue differenti nella medesima società non risponde ad appartenenze identitarie, ma ad intenti e registri linguistici dei medesimi scriventi in diverse circostanze, con una dinamica tutt’altro che lineare20. La questione introduce, quindi, il tema del volgarizzamento inteso non come passaggio ad una lingua diversa da quella comunemente intesa, ma come adeguamento dei testi ad un tipo di comunicazione adatta alle circostanze. Non a caso gli studi filologici sui più antichi statuti volgari manifestano non di rado grande difficoltà nel distinguere se il testo sia stato originariamente redatto in latino e poi ‘tradotto’, o concepito originariamente nella versione vernacolare21. La scelta di passaggio al volgare risponde,

18 Statuto di Spalato, ed. G. Alacevic, Spalato 1878 (volgarizzamento trecentesco dell’originale del 1312). 19 C. Giovanardi, Il bilinguismo italiano-latino del Medioevo e del Rinascimento, in Storia della Lingua Italiana cit., pp. 435-467. 20 Sulla diglossia come fenomeno sociolinguistico ci limitiamo a rinviare a J. Goody, Il suono e i segni. L’interfaccia tra scrittura e oralità, Milano 1989, in particolare pp. 288-292; per una discussione dei modelli sociolonguistici sul rapporto latino-volgare nel basso medioevo si veda ora B. Grévin, L’historien face au problème des contacts entre latin et langues vulgaires au Bas Moyen Âge (XIIe-XVe siècle), «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 117 (2005), pp. 447-469. 21 I casi di statuti di cui si siano conservati la versione volgare e l’antigrafo latino sono


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quindi, a obiettivi e intenti che sono molto meno banali di un semplice allargamento dei possibili lettori. Ma su questo torneremo nelle prossime pagine. 3. Lingua e tipologie testuali

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Proviamo quindi a dare una connotazione non geografica bensì tipologica ai testi statutari, articolando l’esposizione in due grandi gruppi: i testi ‘nati’ direttamente in volgare e quelli di cui conosciamo (perché si è conservata o della cui esistenza abbiamo tracce documentarie certe) una prima versione latina. Il caso di testi statutari redatti immediatamente in volgare non ha nessuna occorrenza per le grandi città comunali: i maggiori corpora normativi delle istituzioni municipali nacquero sempre dalla redazione latina, e quindi gli unici comuni che vollero redigere i propri statuti in volgare furono quelli rurali, talvolta come scelta autonoma (come pare nel caso delle comunità del territorio senese tra fine Duecento e inizio Trecento), talvolta come imposizione dall’alto di un modello statutario della dominante, quale si delinea nei testi fiorentini del tardo XIV secolo. Per trovare, invece, anche in ambito cittadino un numero significativo di testi normativi redatti in volgare ci dobbiamo spostare dal novero dei grandi monumenti legislativi a quello delle raccolte a carattere amministrativo, nelle quali, come si può capire, le finalità pratiche facevano aggio sul rispetto di una consuetudine della cultura giuridica a favore del latino. Risalgono ad esempio ai primissimi anni del Trecento gli statuti delle gabelle di Siena22: una tipologia, questa, che nel corso del secolo avrebbe visto molte redazioni volgari anche in ambiti geografici diversi, come nel caso molto lontano dei regolamenti fiscali di Alcamo del 136723. Lo statu-

del resto piuttosto rari anche nel Trecento, come osserva P. Fiorelli, Gli “Ordinamenti di giustizia” di latino in volgare, in Ordinamenti di Giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, cur. V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 65-103. 22 Del 1301-1302, edito in Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV e pubblicati secondo i testi del R. Archivio di Stato in Siena, ed. L. Banchi, Bologna 1871, II, pp. 171; il testo include anche alcune redazioni schematiche di gabelle d’ingresso per merci provenienti in particolare da Lucca, Bologna, Orvieto e Paganico. 23 Capitoli gabelle e privilegi della città d’Alcamo ora la prima volta pubblicati preceduti da notizie storiche, ed. V. Di Giovanni, Palermo 1876 (Documenti per servire alla storia di Sicilia, ser. II, 1). Per altri esempi siciliani cfr. E. Li Gotti, Volgare nostro siculo, Firenze 1951. Sono in volgare anche alcune rubriche su dazi e gabelle degli Statuta Urbis Romae,


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to di gabella era del resto una forma di regolamento normalmente molto schematica dal punto di vista giuridico, perché veniva costruita su un elenco di merci o fattispecie con la relativa imposizione, corredato da brevi sezioni discorsive sugli adempimenti fiscali. Era naturale, quindi, concepirla nella lingua più vicina alla pratica quotidiana piuttosto che nel formale latino notarile. Non a caso si sono conservate in Toscana una serie di redazioni volgari di statuti di gabella per città che durante tutto il Trecento continuarono ad usare il latino nelle proprie statuizioni di carattere propriamente istituzionale: accadde per esempio a Pistoia nel 1353 e a Borgo San Sepolcro nel 135824. La redazione volgare del Breve del porto di Cagliari, che risale al 1318, è d’altra parte una delle più antiche testimonianze in questo senso che si conservino a Pisa25; e anche in questo caso la scelta della lingua vernacolare per i regolamenti prevalentemente mercantili e fiscali della città ‘coloniale’ sarda sembra dettata soprattutto da ragioni pratiche. Anche a Firenze, del resto, fra i più antichi testi normativi del comune dettati «in vulgari et licterali sermone» vanno annoverati alcuni ordinamenti canonizzati della Camera, cioè dell’ufficio deputato all’amministrazione della contabilità pubblica. Piuttosto vicino a questa tipologia è il caso di statuti che si riferiscono ai tribunali mercantili, cioè a istituzioni provviste di un profilo per così dire a metà strada tra il pubblico e il corporativo. Si conserva in versione volgare lo statuto della Mercanzia lucchese del 137626, mentre un modello ancora differente è quello degli statuti del mare di Ancona del 139727, che raccoglievano una serie di norme consuetudinarie e di regolamenti intercittadini secondo l’esempio di poco antecedente del Libro del consolato del mare, tramandato di nuovo in forma vernacolare nell’ambiente marittimo catalano.

stampati a Roma probabilmente nel 1471, primo caso noto di incunabolo ‘statutario’, che riutilizzava testi precedenti della tradizione normativa cittadina, per lo più latina. 24 ASF, SCAS, 795, ff. 211r-259r. Alcuni frammenti ancora più antichi di statuti di gabella del comune di San Gimignano sono editi in Testi sangimignanesi del secolo XIII e della prima metà del secolo XIV, ed. A. Castellani, Firenze 1956, pp. 77-78 e 92-93. Per una rassegna di casi non toscani di questa tipologia cfr. Testi non toscani del Trecento, edd. B. Migliorini - G. Folena, Modena 1952. 25 Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, ed. F. Bonaini, II, Firenze 1870, pp. 1087-1131 (poi anche Gli ordinamenti pisani per il porto a Cagliari. Breve portus kallaretani, ed. F. Artizzu, Roma 1979); nello stesso volume (pp. 1255-1266) sono editi gli Ordinamenti della dogana del sale, redatti in volgare nel 1339. 26 Statuto della Corte dei Mercanti in Lucca del 1376, edd. A. Mancini - U. Dorini - E. Lazzareschi, Firenze 1927. 27 Ancona e il suo mare: norme, patti e usi di navigazione nei secoli XIV e XV, I, Statuti del mare di Ancona - Patti del Comune di Ancona con diverse nazioni, Ancona 1998.


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Infine, il volgare è usato in alcuni casi trecenteschi di norme a carattere suntuario, che nella composizione sono tutto sommato assimilabili agli statuti di gabella. Testimonianze in tal senso si trovano a Lucca, Pistoia e Firenze28. Anche qui, comunque, il caso toscano mostra tutta la sua originalità, dal momento che, ad esempio in area umbro-marchigiana, nessuno dei numerosi regolamenti suntuari dettati fino al XV secolo si discosta dalla tradizionale redazione in latino29. Se passiamo dai testi composti direttamente in volgare a quelli che sappiamo essere stati volgarizzati dall’originale latino, il novero dei casi si allarga sensibilmente. Anzitutto vediamo finalmente comparire i casi dei grandi comuni cittadini, impegnati in complesse traduzioni dei loro imponenti codici normativi, spesso frutto di lunghe elaborazioni e stratificazioni duecentesche. Per la verità, non si tratta di un fenomeno rilevante dal punto di vista numerico, perché, come vedremo, il panorama vede soltanto quattro città: Siena, Firenze, Perugia e Venezia30. È interessante notare, per contro, come la scelta in favore del volgare sia stata presa più spesso, anche fuori da quel quadrilatero urbano che si è citato, per testi diversi dagli statuti cittadini veri e propri, ma che facevano riferimento a norme dalla forte valenza identitaria per la comunità cittadina. A Pisa, per esempio, nel 1330 si intraprese un’impegnativa opera di volgarizzamento ‘politico’ che avrebbe affiancato i codici già in volgare citati sopra per l’ambito mercantile-fiscale; la scelta però non cadde sul Breve Pisani communis, che costituiva la più corposa sede di raccolta del diritto cittadino, ma sul Breve populi et compagniarum, cioè sugli ordina-

28 S. Ciampi, Statuti suntuari ricordati da Giovanni Villani circa il vestiario delle donne, i regali e banchetti e circa le pompe funebri ordinati dal comune di Pistoia negli anni 1332 e 1333, Pisa 1815. Le redazioni suntuarie fiorentine trecentesche sono in realtà volgarizzamenti: cfr. F. Bambi, Le aggiunte alla compilazione statutaria fiorentina del 1355 volgarizzate da Andrea Lancia: edizione diplomatico-interpretativa del manoscritto ASF Statuti del comune di Firenze, 33, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 6 (2001), pp. 319389. Del medesimo autore si veda ora Una nuova lingua per il diritto. Il lessico volgare di Andrea Lancia nelle provvisioni fiorentine del 1355-57, I, Milano 2009; una seconda edizione è in Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del Comune di Firenze volgarizzati da Andrea Lancia (1355-1357), ed. L. Azzetta, Padova-Venezia 2001. 29 La legislazione suntuaria, secoli XIII-XVI, Umbria, cur. M.G. Nico Ottaviani, Roma 2005. 30 Vi sono, beninteso, molti statuti cittadini trecenteschi il cui testo latino venne volgarizzato in epoca posteriore: è il caso del celebre statuto di Ascoli del 1377, la cui versione volgare non giunse prima degli anni Ottanta del secolo successivo: si veda ora Statuti di Ascoli Piceno, edd. G. Breschi - U. Vignuzzi: I, Edizione critica, ed. Breschi, Ascoli Piceno 1999; II, Commento filologico-linguistico, cur. Breschi - Vignuzzi, Ascoli Piceno 2004.


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menti che regolavano la magistratura degli Anziani e fissavano le consuetudini popolari del regime31. Era, per così dire, qualcosa di meno e qualcosa di più di uno statuto cittadino vero e proprio. Rispetto al più grande Breve communis il testo mancava di tutta la parte relativa al diritto civile e penale e alla procedura dei tribunali: restavano in latino, quindi, tutte le norme necessarie al funzionamento della giurisdizione, affidate al lavoro dei giusdicenti forestieri e scritte in una lingua auspicabilmente ben comprensibile da tutti i tecnici del diritto come il latino notarile. Il Breve del popolo era, però, allo stesso tempo qualcosa di più dello statuto del comune, perché più di quest’ultimo incarnava la rinnovata natura del regime in carica, e quindi costituiva una sorta di segnale politico identitario per la città. In questo senso si può dire che pure con obiettivi più modesti, il caso pisano ripeteva alcune caratteristiche del significato politico del volgarizzamento esemplificate in forma radicale dall’episodio senese che vedremo. Il caso non è unico. A Firenze, come accennato, il volgarizzamento dello statuto del comune giunse molto tardi rispetto alle altre tre città maggiori. Molti anni prima, però, si era proceduto a volgarizzamenti di testi più brevi, meno problematici dal punto di vista dei concetti giuridici, e allo stesso tempo molto indicativi dell’identità politica cittadina: gli Ordinamenti di Giustizia, vero emblema della natura popolare della città, furono volgarizzati con ogni probabilità nel 1324 da un autore tutt’oggi ignoto32, mentre una decina d’anni dopo comparve la redazione dello Statuto della Parte Guelfa, anch’esso cruciale per la definizione dell’imma-

31 Statuti inediti della città di Pisa cit., II, pp. 441-641. Il volgarizzamento, redatto in un codice molto curato con belle miniature, dichiarava un intento molto esplicito, analogo a quello del Costituto senese (p. 443): «Questo breve del populo et delle compagne del comuno di Pisa fue translatato et assemprato di gramatica in volgaro del Breve del populo, al tempo delli infrascripti discreti et savi homini honorabili Ansiani del populo di Pisa. Li quali feceno fare la infrascripta opera sì chome di sotto si contiene, adciò che quelle persone che non sano di gramatica, possano avere perfetto intendimento di quelle cose che ne vorrano sapere. […] Anno domini MCCCXXX e XXXI, indictione tertiadecima, dei mesi di marso e d’aprile. Ser Miguele del Lante da Vico, notaio, existente cancelliere delli Ansiani del populo di Pisa. Ser Andrea di ser Francesco da Calcinaia, notaio et scriba publico delli predicti Ansiani in del suprascripto tempo». 32 Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 243-260. L’edizione del testo si trova in La legislazione antimagnatizia a Firenze, cur. S. Diacciati - A. Zorzi, Roma 2013, pp. 263-371, cfr. in partic. Diacciati, Introduzione, pp. XI-XLIII: XXX-XXXI. Si ricordano anche due sillogi di capitoli statutari del primo Trecento poste in coda al volgarizzamento degli Ordinamenti, la cui traduzione fu promossa da Lorenzo, converso cistercense del monastero di Settimo, in qualità di camarlengo della Camera dell’armi (Statuti del Comune di Firenze nell’Archivio di Stato. Tradizione archivistica e ordinamenti, Saggio archivistico e inventario, cur. G. Biscione, Roma 2009, pp. 252, 262, 508-509, 681).


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gine di Firenze nel periodo del predominio dell’alleanza angioina, composto dichiaratamente in forma bilingue33. Si potrebbe quindi concludere che i ceti dirigenti delle maggiori città comunali italiane trecentesche, consci del carattere problematico dell’uso del volgare nell’ambito della prassi giudiziaria, riservassero quest’ultimo, e tutta la relativa retorica della ‘pubblicità’ del testo, soprattutto a sezioni del diritto municipale sentite come emblematiche e caratterizzanti l’identità politica civica34. Anche per i volgarizzamenti un ambito assai ricco è costituito dai testi a carattere pratico e amministrativo, o dagli statuti dei tribunali di commercio. Tra i primi, un caso emblematico è costituito dai capitolari veneziani. Si tratta di una tipologia documentaria tipicamente veneta, direttamente legata alle modalità di delibera del diritto cittadino: le ‘poste’ del Maggior Consiglio e delle altre magistrature deliberanti della Repubblica venivano periodicamente raccolte e ordinate per materia, dando luogo a veri e propri ‘testi unici’ relativi a singoli uffici o ad ambiti dell’amministrazione pubblica. Non di rado questo lavoro di raccolta e selezione veniva integrato con un passo ulteriore, ossia il volgarizzamento della legge latina. I più antichi capitolari in volgare sono quello dei Capicontrada (1318), e dei capi di Dexena (1335, con una nuova versione del 1385 circa), mentre caratteri testuali più elaborati hanno i capitolari dei Camerlenghi di Comun (circa 1330) e soprattutto quello degli ufficiali sopra Rialto, cui andranno aggiunti per il pieno Trecento il capitolare dei Provveditori e Patroni all’Arsenal composto dopo il 1376 e vari frammenti del Capitolar de le Broche della Zecca. Malgrado la rilevanza numerica e l’altezza cronologica di tutti questi casi, gli studi recenti sono inclini alla cautela nel valutare l’effettiva portata simbolica dell’uso del volgare per testi simili, nei 33

Statuto della parte guelfa di Firenze compilato nel MCCCXXXV, ed. F. Bonaini, «Giornale Storico degli Archivi Toscani», 1 (gennaio-marzo 1857), pp. 1-41; per il volgarizzamento si veda il paragrafo XXXVI: «Anche, acciò che li Statuti de la detta Parte etiandio a’ layci siano manifesti; proveduto è che due volumi di statuti presenzialmente si facciano, uno per lectera et l’altro in volgare. Il quale statuto in volgare stare debbia nel palagio de’ detti capitani, legato al desco del detto notaio con una catenella, sì che continuamente si possa leggere et vedere. Et l’altro statuto stea appo i capitani, o a cui e’ diputassero». 34 Forse non è estraneo a una dinamica del genere anche il caso di Pistoia. Qui gli statutari continuarono per tutto il Trecento ad usare il latino, ma una precoce redazione volgare si è conservata per lo Statuto dell’opera di San Iacopo del 1313: L’Opera di S. Jacopo in Pistoia e il suo primo statuto in volgare (1313), edd. L. Gai - G. Savino, Pisa 1994. Questa compilazione, pur rientrando nella categoria degli statuti di ambito devozionale o religioso, fungeva da segnale dell’identità civica intorno alla celebrazione del santo protettore e dei suoi attributi monumentali.


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quali le necessità pratiche di un personale prevalentemente mercantile costituivano il fattore determinante35. A queste tipologia si affianca dunque, naturalmente, il caso di statuti di tribunali mercantili, per i quali non sarà il caso di ripetere quanto accennato sopra. L’esempio più emblematico è quello costituito dallo statuto senese del 1342, che fu tra l’altro usato a modello per quello aretino di pochi anni successivo36. Altrettanto interessanti risultano, però, i volgarizzamenti pisani: il Breve consulum curiae mercatorum, noto in latino nella versione del 1305, ha conservato un volgarizzamento del 1321 con successive aggiunte; mentre il tribunale deputato alla gestione delle controversie marittime, la Curia o Ordine del Mare, ebbe il suo breve volgarizzato tra il 1322 e il 134337. Un’ultima tipologia di statuti volgarizzati ci conduce apparentemente fuori dagli ambiti urbani su cui ci siamo concentrati finora, ma ci fornisce per contro una chiave interpretativa forse decisiva. Tra il 1357 e il 1362 venne redatta probabilmente a Perugia la versione volgare delle Costituzioni di Egidio di Albornoz, testimoniata da un unico manoscritto vaticano38. Si trattava di una operazione certamente impegnativa, che tuttavia rispondeva ad un esplicito impulso dell’autorità pontificia, dal momento che le stesse Costituzioni, al capitolo VI, 27, disponevano al riguardo: volumus et districtius precipimus quod omnes et singuli rectores et thesaurarii dictarum provinciarum et in omnibus et singulis universitatibus, communitatibus magnarum et minorum terrarum dictorum locorum […], omnium et singularum constitutionum in presenti volumine contentarum copiam infra duos menses immediate sequentes recipiant integre et perfecte, et demum infra decem dies post dictos duos menses sequentes ipsas in eorum parlamento publice vel saltem in generali consilio integraliter publicari et exponi faciant in vulgari et in libris statutorum suorum scribi et inseri faciant39.

35 «Nonostante la loro diretta pertinenza alla Cancelleria statale, i documenti fin qui esaminati non sono che testimonianze isolate e in ogni caso di dimensioni relativamente ridotte» (Tomasin, Il volgare e la legge cit., p. 44). 36 Q. Senigaglia, Lo Statuto dell’arte della Mercanzia senese (1342-1343), «Bullettino Senese di Storia Patria», 14 (1907), pp. 211-271; 15 (1908), pp. 99-186; 16 (1909), pp. 87290; l’edizione Senigaglia è riprodotta in A. Barlucchi, La Mercanzia ad Arezzo nel primo Trecento. Statuti e riforme (1341-47), Roma 2008. 37 Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, ed. F. Bonaini, III, Firenze 1857, pp. 169-344 e 447-584; la rubrica LXXXVI di quest’ultimo, «De’ brevi vulgarmente fare fare e exemplare», disponeva che fossero redatte tre copie della versione volgare, due delle quali destinate agli ufficiali pisani di Cagliari e di Piombino. 38 P. Colliva, Studi sul cardinale Albornoz e sulle “Constitutiones Aegidianae”, con in Appendice il testo volgare delle “Costituzioni” del 1357 dal ms. Vat. Lat. 3939, Bologna 1969. 39 Costituzioni Egidiane dell’anno MCCCLVII, ed. P. Sella, Roma 1912, pp. 234-235.


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In questo senso la norma ripeteva, però, quanto già ordinato dal legato Bertrand de Déaulx nel 1336: [De modo observandi suprascriptas constituciones] copiam omnium et singularum constitutionum predictarum infra XV dies immediate sequentes recipiant et habeant integre et perfecte, et intra decem dies ex tunc sequentes constitutiones ipsas in publico parlamento vel saltem in consilio generali suarum civitatum et terrarum intelligibiliter publicari et exponi faciant in vulgari, et in libris statutorum scribi et inseri facere40.

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Considerando il carattere territoriale generale di simili disposizioni, il volgarizzamento perugino fu sicuramente un episodio isolato: il testo si tramanda, come accennato, in un codex unicus, peraltro privo di tracce d’uso, simile, come vedremo, in relazione alla sua storia esterna, a quei codici statutari cittadini senesi o fiorentini che richiesero enorme dispendio per la redazione ma ebbero ben poca utilità nella prassi, se si eccettua la loro funzione simbolica. La tradizione manoscritta fornisce, cioè, il senso di quanto i legati pontifici intendevano richiedere alle città soggette: sia nel 1336 che nel 1357 le costituzioni papali dovevano essere lette in volgare nel pubblico parlamento e poi inserite nel corpo del diritto cittadino, ma per questa seconda operazione non si prescriveva in maniera esplicita l’uso linguistico, che anzi venne lasciato implicitamente alla consuetudine, cioè di fatto al latino. Sembra di capire, quindi, che il volgare abbia svolto essenzialmente una funzione legata al momento cerimoniale della lettura pubblica. Sarebbe un errore intendere una simile funzione come marginale o limitante, specie dopo l’intervento di Massimo Oldoni a questo convegno, che ha messo in luce come l’esperienza dell’ascolto avesse un’efficacia comunicativa per molti versi superiore a quella della lettura. Del resto in rapporto alle costituzioni pontificie tale ritualità della legge ascoltata dall’assemblea non poteva essere scevra da densi riferimenti biblici che la rendevano ancora più significativa41. Tocchiamo qui un nodo interpretativo che si può ritenere cruciale per la comprensione del fenomeno di cui ci stiamo occupando. Il rapporto lati-

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Colliva, Studi sul cardinale cit., p. 51 nota 115. In particolare all’episodio della lettura integrale della Legge da parte del sacerdote Esdra a tutto il popolo d’Israele tornato dall’esilio: «Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere: tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della Legge» (Ne 8, 1-12). Un possibile richiamo del cerimoniale statutario collettivo è anche alla «alleanza di Sichem» narrata in Gs 24, 1-28.


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no-volgare nei testi giuridici italiani non va inteso, come accennato, nel senso di una dualità linguistica, quanto piuttosto come manifestazione del binomio scritto-orale. Il volgare è nella maggior parte dei casi il veicolo dell’oralità, di quella oralità dalla forte efficacia comunicativa cui si è fatto cenno. In certi casi il testo normativo venne volgarizzato proprio per dare un supporto visibile all’uso orale, ma in ogni caso si trattava di un uso orale molto più largo e diffuso di quanto non lasci intendere la testimonianza dei testi superstiti. La vita pubblica, istituzionale e giudiziaria dell’Italia duetrecentesca era teatro di un onnipresente ‘volgarizzamento implicito’ (la definizione è di nuovo di Piero Fiorelli) affidato ai notai, capaci di passare estemporaneamente da un registro linguistico all’altro, tenendo sott’occhio il latino e leggendo in volgare agli ascoltatori. Non era forse questa l’operazione compiuta quotidianamente dal notaio anche nella sua attività professionale, basata sul redigere in formule latine ciò che veniva pattuito e stipulato nell’oralità volgare dei contraenti42? 4. La normativa delle città comunali

Come dicevamo, gli esempi di testi statutari in volgare più articolati e significativi, gli unici di ambito propriamente urbano, datano alla prima metà del secolo XIV43. Fu durante questo periodo che a una crescente diffusione degli idiomi locali nelle dinamiche di scritturazione dei documenti pubblici si accompagnò una maggiore stabilità nel diritto civile, in quello criminale e nell’organizzazione processuale. Ciò favorì il progressivo distacco dei programmi politici e amministrativi dalla normativa statutaria e il recupero dei medesimi ai consigli cittadini, col conseguente ridimensionamento delle competenze podestarili nella prospettiva di una più lunga durata della legge44. Poiché, come hanno ampiamente sottolineato Piero

42 Non mancano in questo senso, di nuovo in Toscana e nell’Italia centrale tra Due e Trecento, alcuni esempi di formulari notarili bilingui o con sezioni in volgare: cfr. Les langues de l’Italie médiévale. Textes d’histoire et de littérature Xe-XIVe siècle, dir. O. Redon, Turnhout 2002, pp. 99-101 e 141-146. 43 Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1978 (1 ed. 1960), pp. 199200. 44 Cfr. G. Tabacco, La genesi culturale del movimento comunale italiano, in Civiltà Comunale: Libro, Scrittura, Documento. Genova (8-11 novembre 1988), Genova 1989, pp. 15-32: 30; M. Ascheri, I diritti del Medioevo italiano. Secoli XI-XV, Roma 2000, pp. 314316; F. Salvestrini, Gli Statuti municipali, in Storia della civiltà toscana, I, Comuni e Signorie, cur. F. Cardini, Firenze 2000, pp. 99-114: 106-108; P. Manni - N. Maraschio, Il plurilinguismo italiano (secc. XIV-XV): realtà, percezione, rappresentazione, in L’Italia alla fine del


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Fiorelli e Federigo Bambi, fu proprio tramite i dettati statutari (leges municipales), e in particolare attraverso i codici relativi ai centri maggiori, che cominciò a definirsi il volgare quale lingua del diritto, è esattamente a una lettura di questo tipo di documenti che adesso intendiamo volgere la nostra attenzione45. Le città che realizzarono in volgare i più precoci compendi dispositivi della normativa comunale furono, in ordine cronologico: Siena, Venezia, Perugia e Firenze, in riferimento ad un arco cronologico che va dal primo Trecento al 1355-5646. Tali centri presentavano in quei decenni alcune affinità che non furono estranee alla scelta compiuta dai loro rettori, o da altre figure, di rendere nella lingua locale la lettera delle leggi. Si trattava, in primo luogo, di città importanti dal punto di vista demografico, economico e politico. Nessuna di esse sperimentò durante il periodo in esame, salvo brevi stagioni di minor impatto legislativo, forme di governo riconducibili al modello della ‘tirannide’47. Tutte dettero vita a sistemi istituzionali caratterizzati da ampie e dettagliate regolamentazioni del diritto proprio, in larga misura compreso nei codici statutari48. Ciò che cercheremo di illustrare sono le ragioni esplicitamente addotte, spesso nell’ambito dei dettati deliberativi, per l’opera di volgarizzamento degli ordinati costituzionali, e quelle che a nostro avviso rimasero sottese, ma non per questo risultarono meno determinanti. Proveremo anche ad

Medioevo: i caratteri originali nel quadro europeo, II, cur. F. Cengarle, Firenze 2006, pp. 239-267: 244. 45 Cfr. F. Bambi, I nomi delle ‘leggi fondamentali’, «Studi di Lessicografia Italiana», 11 (1991), pp. 153-224: 193-195; Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 13-18. 46 La datazione di una normativa pisana coeva o addirittura anteriore a quella senese, conservata solo per lacerti, è ancora oggetto di approfondimento storiografico. Per la normativa veneziana è stata proposta, ma non confermata, come vedremo, una datazione del più antico codice ancor oggi disponibile alla fine del Duecento. Cfr. M. Ascheri, Il Costituto nella storia del suo tempo, in M. Ascheri - C. Papi, Il ‘Costituto’ del Comune di Siena in volgare (1309-1310). Un episodio di storia della giustizia?, Firenze 2009, pp. 9-62: 15. 47 Cfr. ora in proposito Tiranni e tirannide nel Trecento italiano, cur. A. Zorzi, Roma 2013. 48 Cfr. M. Ascheri, Gli statuti delle città italiane e il caso di Siena, in Dagli Statuti dei Ghibellini al Constituto in volgare dei Nove con una riflessione sull’età contemporanea. Giornata di studio dedicata al VII Centenario del Constituto in volgare del 1309-1310, Siena (20 aprile 2009), cur. E. Mecacci - M. Pierini, Siena 2009, pp. 65-111: 77-78; E. Faini, Le tradizioni normative delle città toscane. Le origini (secolo XII-metà XIII), «Archivio Storico Italiano», 171/3 (2013), pp. 419-481. Cfr. anche M. Meccarelli, Statuti, «potestas statuendi» e «arbitrium»: la tipicità cittadina nel sistema giuridico medievale, in Gli Statuti delle città: l’esempio di Ascoli nel secolo XIV. Convegno di Ascoli Piceno (8-9 maggio 1998), cur. E. Menestò, Spoleto 1999, pp. 87-124: 94, 100.


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evidenziare le modalità attraverso le quali i governi cittadini, oppure singoli privati, promossero la traduzione delle suddette scritture, già esistenti in versione latina. Prenderemo, quindi, in esame i personaggi – quando siano noti – ai quali fu affidato il lavoro, ed infine illustreremo alcuni aspetti del loro modo di procedere, senza scendere, però, in questioni strettamente terminologiche, fonologiche, morfosintattiche o di natura lessicale, che non sono di nostra specifica competenza e che risultano ben approfondite nella cospicua letteratura dedicata a questi volumi e ad altre scritture di natura giuridica49. Precisiamo solo che per i traduttori fu piuttosto arduo esprimere in lingue giovani e dinamiche vocaboli, concetti e frasari legislativi profondamente consolidati dalla tradizione del diritto comune, codificati dalla dottrina ed acquisiti dallo ius proprium. I dettati normativi dovevano essere cogenti e quindi non suscettibili di differenti interpretazioni. Il volgarizzamento configurava una trasmissione dei contenuti che comportava la sostanziale riscrittura del testo al fine di salvaguardare la corretta resa dei significati, anche a prescindere dall’eleganza formale del discorso50. Il passaggio dal latino al volgare andava nel senso di quella che Gianfranco Folena ha definito traduzione ‘verticale’, per cui la lingua di partenza, ossia il latino, godeva di un prestigio tradizionalmente superiore rispetto a quella di arrivo51. Tale condizione obbligò gli operatori a scelte di resa testuale talvolta molto ardite, sia dal punto di vista della proposta semantica sia da quello di una complessa costruzione sintattica, che spesso risultarono meno sintetiche e chiare dei formulari originari dettati nell’idioma dei giuristi52.

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Fra le più dettagliate analisi di tale natura ricordiamo I. Calabresi, Glossario giuridico dei testi in volgare di Montepulciano. Saggio d’un lessico della lingua giuridica italiana, Roma-Firenze-Pisa 1988-1993, 3 voll.; Bambi, Una nuova lingua cit. 50 Su questi concetti, riconducibili ad una Umarbeitung del testo, cfr. I. Baldelli, Problemi e rapporti fra uso del volgare e scrittura nei più antichi documenti italiani, in Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana, Perugia 1978, pp. 187-191; G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991, pp. 10-12, 45-49; Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento. Convegno di Mantova (18-20 ottobre 2001), cur. A. Calzona - F.P. Fiore - A. Tenenti - C. Vasoli, Firenze 2003; Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 233-238. Cfr. anche G. Orlandi, Latino e volgari nell’Occidente medievale, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, II, La circolazione del testo, Roma 2002, pp. 267-303: 296-297. 51 Folena, Volgarizzare cit., p. 13. Cfr. anche P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, pp. 17-19, 56; Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 28-33. 52 Cfr. Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 89-96, 261-267.


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A chiusura di tali considerazioni avanzeremo alcune ipotesi circa l’effettiva vigenza, l’uso e la circolazione di questi testi, cercando di capire se lo scopo sovente dichiarato per la loro composizione, ossia la miglior comprensione delle leggi da parte della cittadinanza ignara della grammatica, fosse anche l’obiettivo reale delle traduzioni stesse, al di là della retorica e delle affermazioni di principio. Precisiamo in via preliminare che tutti i dettati oggetto d’esame sono stati interessati da approfondite letture e disamine storiografiche volte a ricostruirne la natura, i contesti di produzione e gli elementi linguistici. Buona parte di essi ha conosciuto edizioni critiche, anche recenti, ed è stata analizzata da vari punti di vista. Quella che segue sarà, pertanto, una disamina comparativa finalizzata a una riflessione di carattere generale sul ruolo svolto dal volgare nella normativa statutaria in riferimento alle città italiane del secolo XIV.

Abbiamo detto che il più antico testo normativo in volgare di una certa consistenza risulta essere il Costituto senese del 1309-10, monumento linguistico dell’età di Dante oggetto di ben due edizioni moderne, nonché di una rinnovata attenzione storiografica coincidente con le celebrazioni per i settecento anni dalla sua stesura53. Siena, come è noto, conobbe agli inizi del Trecento uno dei momenti più dinamici della sua storia medievale, sia dal punto di vista economicofinanziario, sia da quello politico-istituzionale, grazie alla straordinaria durata del governo popolare dei Nove che resse le sorti della città dal 1287 al 135554. Durante quegli anni fiorirono in loco la letteratura nonché, più

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Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. A. Lisini, Siena 1903; Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. M. Salem Elsheikh, Siena 2002. Sulla ricorrenza del termine ‘costituto’ in riferimento alla normativa statutaria in volgare cfr. Bambi, I nomi cit., pp. 207-210. Per un bilancio delle numerose attività editoriali scaturite dalle celebrazioni per il settecentenario del 2009 cfr. M. Ascheri, Novità sul Costituto volgarizzato del 1310 e sui Nove a Siena, in Studi in onore di Sergio Gensini, cur. F. Ciappi - O. Muzzi, Firenze 2013, pp. 201-210; Siena nello specchio del suo Costituto in volgare del 1309-1310, cur. N. Giordano - G. Piccinni, Pisa 2014. 54 G. Martini, Siena da Montaperti alla caduta dei Nove (1260-1355), «Bullettino Senese di Storia Patria», 20 (1961), pp. 75-128; W. Bowsky, Un Comune italiano nel Medioevo: Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, Bologna 1986 (1 ed. 1981); P. Brogini, L’età d’oro: lo sviluppo di Siena sotto i Nove, in Storia di Siena, I, Dalle origini alla fine della Repubblica, cur. R. Barzanti - G. Catoni - M. De Gregorio, Siena 1995, pp. 129-140.


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in generale, la scrittura in volgare55. Dal punto di vista della retorica giuridica si riconobbe a questa compagine un ruolo di eccellenza. Non è un caso che le lezioni svolte a Bologna dal giurista Rainerio da Perugia si siano conservate in versione italiana grazie ad un codice senese; così come non lo è il fatto che Guido Faba situasse in tale città toscana l’ambiente fittizio delle sue formule epistolari, o che Guidotto da Bologna, cui si attribuisce una delle redazioni duecentesche del Fiore di Rettorica – traduzione in parte compendiosa condotta dal giudice fiorentino Bono Giamboni della pseudociceroniana Rhetorica ad Herennium – insegnasse allo Studio della città del Palio56. Abbiamo poi già osservato quale sia stato il numero e la precocità dei testi normativi in volgare relativi al capoluogo e al territorio senesi fin dai primi decenni del secolo XIII57. D’altro canto, gli anni 1306-1308 non furono privi di difficoltà per il governo locale, la cui ambigua condotta nell’ambito degli scontri fra i comuni toscani gli procurò la scomunica pronunciata dal legato pontificio Napoleone Orsini58. Non mancavano neppure espressioni di malcontento in una compagine che accettava malvolentieri l’adesione alla parte guelfa, in netto contrasto con le scelte politiche del secolo precedente; e tutto ciò mentre si andavano delineando i primi segnali di crisi e di progressiva deinternazionalizzazione per quel sistema bancario che aveva fatto, in passato, la fortuna economico-finanziaria della città59.

55 Cfr. M. Salem Elsheikh, Testi senesi del Duecento e del primo Trecento, «Studi di Filologia Italiana», 29 (1971), pp. 113-145; Vangelio de Sancto Johanni. Antica versione italiana del secolo XIII, ed. M. Cignoni, Roma 2005. Sulle caratteristiche del volgare senese fra Due e Trecento cfr. P. Manni, Il Trecento toscano. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, Bologna 2003 (Storia della lingua italiana), pp. 47-49. 56 Cfr. C. Segre, I volgarizzamenti, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, III, La ricezione del testo, Roma 1995, pp. 271-298: 278-280; P. Nardi, L’insegnamento superiore a Siena nei secoli XI-XIV. Tentativi e realizzazioni dalle origini alla fondazione dello studio generale, Milano 1996, pp. 74-76. 57 Cfr. in proposito anche P. Turrini, Un frammento in volgare dello statuto di Biccherna del 1337 (Archivio di Stato di Roma, Statuti 454/14), in Siena e il suo territorio nel Rinascimento, III, cur. M. Ascheri, Siena 2000, pp. 1-14; Ascheri, Il Costituto nella storia cit., pp. 14-15. 58 Cfr. Cronache senesi, edd. A. Lisini - F. Iacometti, in R.I.S.2, 15/6, Bologna 19321934 (rist. 1966-1970), pp. 87-88, 296-297. 59 Cfr. E. English, Enterprise and Liability in Sienese Banking, 1230-1350, Cambridge Mass. 1988; P. Cammarosano, Il comune di Siena dalla solidarietà imperiale al guelfismo: celebrazione e propaganda, in Le forme della propaganda politica nel Due e Trecento, cur. Cammarosano, Roma 1994, pp. 455-467; G. Piccinni, Il sistema senese del credito nella fase di smobilitazione dei suoi banchi internazionali. Politiche comunali, spesa pubblica, propaganda contro l’usura (1332-1340), in Fedeltà ghibellina affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla


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Siena disponeva di un ampio costituto risalente al 1262, ossia agli anni immediatamente successivi la vittoria ghibellina di Montaperti60. Esso raccoglieva la normativa anteriore risalente al XII secolo, ed aveva conservato una parte significativa della sua struttura anche dopo la definitiva vittoria angioina e il passaggio della città allo schieramento guelfo (1269)61; sebbene fosse uno statuto del comune, riflettesse, pertanto, il regime podestarile e contenesse anche le riforme dettate durante il periodo di formale emarginazione politica subito negli anni Settanta dalla componente popolare62. Dal 1299 non era più obbligatorio rivedere annualmente gli statuti, che acquisivano così una fisionomia più stabile63. Nel maggio 1309, mentre si profilava la minaccia di un possibile passaggio dell’imperatore Enrico VII e il restaurato comune di Popolo vedeva crescere le velleitarie ambizioni del ceto magnatizio64, i Nove deliberarono di far tradurre, o meglio,

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storia di Siena fra Due e Trecento, cur. Piccinni, Pisa 2008, I, pp. 209-289; Piccinni, Sede pontificia contro Bonsignori da Siena. Inchiesta intorno ad un fallimento bancario (1344), in L’età dei processi: inchieste e condanne tra politica e ideologia nel Trecento. Convegno di studio, Ascoli Piceno (30 novembre-1 dicembre 2007), cur. A. Rigon - F. Veronese, Roma 2009, pp. 215-246: 219 nota 21; Piccinni, Siena 1309-1310: il contesto, in Siena nello specchio cit., pp. 15-36: 22-25, 28. 60 Il Costituto del Comune di Siena dell’anno 1262, ed. L. Zdekauer, Milano 1897 (rist. anast. Bologna 1974 e 1983). 61 Conferenze in occasione del VII centenario della Battaglia di Colle (1269-1969), Castelfiorentino 1979; P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al “Caleffo Vecchio” del Comune di Siena, Siena 1988, pp. 72-74. 62 Cfr. L. Zdekauer, Il frammento degli ultimi due libri del più antico constituto senese (1262-1270), «Bullettino Senese di Storia Patria», 1 (1894), pp. 131-154, 271-284; 2 (1895), pp. 135-144, 315-322; 3 (1896), pp. 79-92; G. Salvemini, Zdekauer, Il Constituto senese del 1262, «Archivio Storico Italiano», ser. V, 21 (1898), pp. 371-389; U.G. Mondolfo, L’ultima parte del constituto senese del 1262 ricostruita dalle riforme successive, «Bullettino Senese di Storia Patria», 5 (1898), pp. 194-228; M. Ascheri, Legislazione, statuti e sovranità, in Antica Legislazione della Repubblica di Siena, cur. Ascheri, Siena 1993, pp. 1-40: 1-17; Ascheri, Siena nel 1208: immagini dalla più antica legge conservata, ivi, pp. 41-66; Bibliografia delle edizioni di statuti toscani, secoli XII-metà XVI, cur. L. Raveggi - L. Tanzini, Firenze 2001, pp. 91-95; Ascheri, Il Costituto di Siena: sintesi di una cultura giuridico-politica e fondamento del ‘buongoverno’, in Il Costituto del Comune di Siena, ed. Salem Elsheikh, III, pp. 2357: 38-39, 42, 47-49; E. Mecacci, Gli statuti del periodo dei Nove precedenti il volgarizzamento con una nota sulla ‘VII distinzione’, ivi, III, pp. 62-83; Ascheri, Gli statuti delle città italiane cit., p. 82; E. Mecacci, Dal frammento del 1231 al constituto volgarizzato del 13091310, in Dagli Statuti dei Ghibellini cit., pp. 113-157. Sull’operazione condotta da Zdekauer cfr. F. Salvestrini, Storiografia giuridica ed erudizione storica nel secolo XIX. Lodovico Zdekauer editore degli Statuti pistoiesi, in Statuti Pistoiesi del secolo XIII. Studi e testi, cur. R. Nelli - G. Pinto, I, Studi, Pistoia 2002, pp. 15-79. 63 Ascheri, Il Costituto cit., pp. 48-49; Mecacci, Dal frammento cit., p. 134. 64 P. Turrini, Storia e struttura urbana della città del Costituto, in La città del Costituto. Siena 1309-1310: il testo e la storia, Siena 2010, pp. 75-99: 88-89.


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riscrivere tutte le norme accumulatesi fino agli anni Novanta del Duecento, nonché le deliberazioni aggiunte all’inizio del secolo successivo65. I motivi della decisione furono esplicitati nella delibera inviata al camarlengo del comune e riportata nel codice stesso:

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Et che li signori camarlengo et IIII proveditori del Comune di Siena, sieno tenuti et debiano, sotto pena di X libre di denari per ciascuno di loro, fare scrivere, a l’expese del Comune di Siena, uno statuto del Comune, di nuovo in volgare di buona lettera grossa, bene legibile et bene formata, in buone carte pecorine […] el quale statuto stia et stare debia legato ne la Biccherna, accioché le povare persone et l’altre persone che non sanno gramatica, et li altri, e’ quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trare et avere a·lloro volontà66.

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Come è stato ben illustrato dagli studi più recenti, il progetto del volgarizzamento fu definito dai tredici emendatori degli statuti. Essi ritennero la normativa latina sufficientemente organica, sebbene non ordinata, da consentire una sua resa nella lingua della città67. L’operazione si configurò come una delle più significative espressioni del ceto di governo, ossia quella ‘mezzana gente’ («mercatanti de la città di Siena overo de la meça gente») di difficile definizione, che comprendeva i grandi mediatori finanziari, ma anche una fluida presenza di artigiani ed altri lavoratori, i quali possedevano un discreto livello di alfabetizzazione68, ma non avevano

65

Compresa la celebre delibera relativa alla corsa del Palio di Santa Maria d’agosto, presa nel 1310 [Il Costituto del Comune di Siena, ed. Salem Elsheikh cit., I, dist. I, rub. 586, pp. 411-412; Ascheri, Il Costituto cit., pp. 38-39; D. Balestracci, Il potere e la parola. Guida al Costituto volgarizzato di Siena (1309-1310), Siena 2011, p. 75]. 66 Il costituto del Comune di Siena, ed. Salem Elsheikh cit., I, dist. I, rub. 134, pp. 122123. Il testo della provvisione che ordinava il volgarizzamento nel maggio 1309 citava: «pauperes persone et alie persone gramaticam nescientes et alii qui voluerint possint ipsum videre et copiam exinde sumere et hinc pro sue libito voluntatis» (M. Salem Elsheikh, Premessa, ivi, I, pp. IX-XI: X). Cfr. in proposito anche A. Bartoli Langeli, I manoscritti del Costituto, ivi, III, pp. 1-20: 2. 67 Ascheri, Il Costituto cit., p. 28; Ascheri, Il Costituto nella storia cit., pp. 48-54. Cfr. anche Bartoli Langeli, Uso del volgare e ‘Civiltà senese’, in Siena nello specchio cit., pp. 177192: 177-180. 68 Cfr. Ascheri, Il Costituto cit., pp. 35-40; P. Trifone, A onore e gloria dell’alma città di Siena. Identità municipale e volgare senese nell’età del libero Comune, «La lingua italiana. Storia, strutture, testi», 1 (2005), pp. 41-68: 41-48; Balestracci, Il potere cit., pp. 79 ss. Sui livelli di alfabetizzazione in area senese cfr. D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere. Alfabetizzazione e istruzione nelle campagne toscane alla fine del Medioevo (XIV-XVI secolo), Pisa 2004.


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dimestichezza con l’uso della grammatica, appannaggio soprattutto di chierici e giuristi69. Significativamente fra gli emendatori del 1309 non figurava nessun operatore del diritto70. La redazione del Costituto in volgare rappresentò una vera e propria rottura nelle pratiche della scritturazione normativa municipale71. Il ricorso all’idioma locale fu, infatti, inteso soprattutto come alternativa al linguaggio di giudici e notai, ossia di coloro che si ritenevano gli unici addetti a leggere e quindi capire ed applicare la legge. Il volgarizzamento senese fu motivato da una forte diffidenza della magistratura di governo nei confronti dei giuristi, ritenuti troppo vicini al ceto dei ‘grandi’ e lontani dalle esigenze dei popolari allora al potere. Tale diffidenza, divenuta in seguito vera e propria ostilità, portò nel 1318 ad una congiura dei legali spalleggiati dai carnaioli, fatto che provocò la soppressione dell’arte dei giudici e notai per circa un ventennio72. Andava, del resto, in quella stessa direzione anche il divieto, esplicitato nello statuto, di interpretare le norme, le quali dovevano essere applicate alla lettera e non affidate all’esegesi fuorviante degli esperti73. Che il Costituto esprimesse un ceto di governo pronto a sconvolgere i precedenti assetti per favorire la propria stabilità, a prescindere da più alti condizionamenti ideologici, lo dimostra l’atteggiamento tenuto verso la chiesa cittadina. Ricordiamo, infatti, come dal 1305 fosse stata abbandonata la prassi del reclutamento fra i religiosi degli addetti all’Opera del duomo, sostituiti da laici controllati dal regime74.

69 Sulla variegata estrazione sociale dei Nove cfr. quanto osservano M. Ascheri, La Siena del ‘Buon Governo’ (1287-1355), in Politica e cultura nelle repubbliche italiane dal Medioevo all’età moderna: Firenze-Genova-Lucca-Siena-Venezia, cur. S. Adorni Braccesi M. Ascheri, Roma 2001, pp. 81-107; S. Raveggi, Il governo dei Nove nella sesta distinzione del Costituto, in Siena nello specchio cit., pp. 37-49. 70 Cfr. Ascheri, Gli statuti delle città italiane cit., pp. 103-104. Per le polemiche contro i giuristi alla fine del Medioevo e nell’ambito della cultura umanistica cfr. V. Piergiovanni, Statuti e riformagioni, in Civiltà Comunale cit., pp. 81-98: 90-92; M. Ascheri, I giuristi: categoria professionale e presenza culturale, in L’Italia alla fine del Medioevo cit., II, pp. 87-110: 89-90. 71 Sul ruolo comunque determinante dei notai nell’opera di mediazione tra latino e volgare cfr. M. Ascheri, Il «dottore» e lo statuto: una difesa interessata, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 69 (1996), pp. 95-113; Manni - Maraschio, Il plurilinguismo cit., p. 246; Fiorelli, Intorno alle parole cit., pp. 18-28. 72 G. Catoni, Il collegio notarile di Siena, in Il notariato nella civiltà toscana. Convegno di Roma (maggio 1981), Roma 1985, pp. 337-363: 341-342; Bowsky, Un Comune cit., p. 196; Ascheri, Il Costituto nella storia cit., pp. 54-60; Bartoli Langeli, Uso del volgare cit., pp. 190191; V. Costantini, Tra lavoro e rivolta: i carnaioli, in Siena nello specchio cit., pp. 219-247. 73 Cfr. Ascheri, Il Costituto cit., p. 31; Balestracci, Il potere cit., p. 126. 74 M. Pellegrini, La norma della pubblica pietà. Istituzioni comunali, religione e pia loca


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Tali scelte hanno fatto ipotizzare, in relazione al volgarizzamento, una «politica di grande rilievo democratico»75. Stando a quanto ufficialmente dichiarato nella suddetta provvisione, la riscrittura del codice sarebbe stata, in senso tecnico, un’interpretazione dei testi a favore del ‘volgo’. Tuttavia la storiografia recente ha valutato l’opera degli emendatori soprattutto come un atto di paternalistica propaganda compiuto al fine di promuovere l’immagine del governo, più che per favorire l’intelligibilità della legge. Il Costituto era destinato ad essere poco usato nella prassi giudiziaria e nella quotidiana applicazione del diritto, che restavano, in ogni caso, compito dei giudici, i quali preferivano ricorrere ai testi in latino. Che di questo statuto si sia fatto un impiego limitato lo testimoniano, da un lato, la progressiva riduzione, proprio a partire dal primo Trecento, dell’attività degli emendatori76, dall’altro la confezione dei manoscritti, conservati in copia unica e privi di pagine bianche poste al termine, lasciate in genere per ospitare eventuali capitoli frutto di revisioni e riforme successive. Sembra proprio che non vi fosse l’intenzione di creare una serie parallela a quella dei testi in latino. I dettati erano stati concepiti per rimanere un unicum; sebbene una nuova stesura in volgare sia stata poi realizzata nel 133977. Anche il buono stato di conservazione dei codici e l’assenza di chiose denunciano un impiego tutto sommato circoscritto. Del resto, se lo scopo dell’operazione fosse stato effettivamente quello dichiarato, sarebbe bastato raccogliere, ordinare e rendere accessibili le minute in volgare delle riforme statutarie, le quali circolavano, a Siena come altrove, al pari dei brogliacci impiegati per leggere in pubblico bandi e rubriche78. Ciò che i Nove avevano voluto era, al contrario, un volgarizzamento completo, ufficiale ed elegante, in fondo non meno difficile da comprendere senza l’aiuto degli esperti di quanto non lo fosse la versione in latino, e che rispondeva ad esigenze le quali andavano ben oltre la più estesa fruizione e l’accessibilità della legge79. Peraltro, quanto scarso sia stato l’impatto dell’impre-

nella normativa statutaria senese fino al Costituto volgare del 1309, in Siena nello specchio cit., pp. 249-294: 269. 75 Mecacci, Dal frammento cit., p. 147, che però definisce più oltre l’opera un’«operazione di facciata». Cfr. anche Mecacci, Il volgarizzamento del Costituto di Ranieri di Ghezzo Gangalandi (con una riflessione sullo Statuto volgare di Radicofani del 1441), «Bullettino Senese di Storia Patria», 111 (2004), pp. 205-215: 205. 76 Ascheri, Legislazione cit., pp. 15-16. 77 Mecacci, Il volgarizzamento del Costituto cit., pp. 208-210, 211-213. 78 Cfr. in proposito Manni - Maraschio, Il plurilinguismo cit., p. 242. 79 È di questa opinione anche F. Bambi, Un costituto davvero per tutti? (a proposito del Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX) a cura di Mahmoud Salem Elsheikh, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 33-


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sa sulla cittadinanza sembra suggerirlo l’assenza di qualsiasi riferimento ad essa nella contemporanea cronistica municipale. Il Costituto, quindi, si configurò in primo luogo come un manifesto, un programma politico e un proclama diretto al ceto dirigente. Se, infatti, ci si chiede perché la sua stesura sia stata decisa proprio in quegli anni, crediamo che la risposta vada cercata soprattutto nella progressiva trasformazione degli statuti in testi tendenzialmente chiusi e soggetti a riforme meno strutturali, connotati da una funzione tanto più simbolica quanto meno rilevante per la corrente pratica legislativa, affidata in misura crescente a deliberazioni e ordinamenta. Va interpretato in questo senso anche il ricorso ad un professionista per la sua realizzazione, ossia al notaio Ranieri di Ghezzo Gangalandi, personaggio di famiglia fiorentina e di tradizione ghibellina, che già aveva prestato servizio per il governo in quanto notaio delle riformagioni. Egli era un uomo di legge, ma si configurava come un personaggio indipendente, che meritò la fiducia del regime soprattutto per il fatto di aver stilato, nel 1303, le aggiunte allo Statuto dell’arte della Lana, operando quindi in un ambiente più vicino ai Nove. Andava a suo vantaggio una notevole competenza nell’uso delle due lingue, acquisita non sui testi letterari, ma dalla pratica di redigere minute e documenti in mundum usati nelle commissioni e nelle sedi deliberative80. Furono, inoltre, professionisti anche Bindo del Viva, colui che realizzò le pregevoli miniature e le iniziali decorate del codice, purtroppo molto danneggiate forse alla caduta del regime novesco, e il suo legatore Mino di Bindo. Così come il comune aveva provveduto a far arricchire i propri registri contabili, i volumi della cosiddetta Biccherna, con copertine elaborate da artisti illustri, allo stesso modo volle dare una veste decorativa anche alle pagine del Costituto, sempre nell’ottica di un’attenta operazione d’immagine81.

34/2 (2004-05), pp. 1239-1249: 1247-1249. Cfr., inoltre, M. Ascheri, Il Costituto del Comune volgarizzato nel 1310 e il diritto vigente a Siena nel suo tempo, in Siena nello specchio cit., pp. 83-95: 84-85; Bartoli Langeli, Uso del volgare cit., pp. 184-191. 80 Cfr. L. Neri, Culture et politique à Sienne au début du XIVe siècle: le Statut en langue vulgaire de 1309-1310, «Médiévales », 22-23 (1992), pp. 207-222: 213-217; Neri, Ranieri Ghezzi Gangalandi, il volgarizzatore del Costituto, in Siena nello specchio cit., pp. 97131: 113-119, 121-128. Cfr. anche Ascheri, Il Costituto cit., pp. 52-54. 81 Cfr. R. De Gramatica, Ricerche intorno ad un restauro: il volgarizzamento del Costituto del Comune di Siena (1309-1310) da “cimelio” a “unità archivistica”, «Bullettino Senese di Storia Patria», 113 (2006), pp. 357-366; P. Turrini, Il senso dell’iniziativa. Con una nota sugli ‘Statuti medievali senesi’ in mostra, in Dagli Statuti dei Ghibellini cit., pp. 2324, 25-36, 42-44.


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Analizzando il modo di procedere del volgarizzatore vediamo come, a prescindere dal fatto che la traduzione risulti integralmente opera sua – stando a quanto sostiene Mecacci –, o che sia stato più o meno ufficialmente affiancato da alcuni collaboratori – come propenderebbero a credere Ascheri e Bartoli Langeli –, egli incontrò delle difficoltà nella resa testuale. Purtroppo non conosciamo (e questa è una situazione che ritroveremo per tutti i codici delle città prese in esame) l’esemplare manoscritto degli statuti duecenteschi che servì da base alla traduzione, anche se gli studiosi hanno identificato, tramite la collazione dei codici rimasti e sulla falsariga offerta dai volgarizzamenti stessi, alcune parti riconducibili al possibile antigrafo latino. Sappiamo, comunque, che per questo statuto, diversamente ad esempio da quello fiorentino del 1355, la versione originaria doveva risultare grosso modo uguale, come estensione complessiva del dettato, a quella in volgare. Il traduttore, infatti, aveva ricalcato, talora pedissequamente, la prosa latina, facilitato dal fatto che varie parole ed espressioni idiomatiche presenti nel codice erano in fondo termini di uso volgare. In ogni caso la traduzione non sempre risulta agevole, chiara e, soprattutto, precisa82. Solo a titolo di esempio poniamo a confronto una breve e semplice rubrica del 1262 non soggetta a modifiche successive con la sua versione elaborata dal notaio Ranieri:

Et non permittam aliquem civem Senensem ire ad rationem petendam vel querimoniam deponendam de aliquo cive Senensi in causis temporalibus, nisi ad curiam Senensem, nisi vetita sibi esset curia Senensis iniuste […] et si quam sententiam per illam curiam consecutus fuerit, illam non sequar nec observabo. Et illum talem compellam omnia dampna et expensas, alteri parti ob hoc inflictas, ad suam defensionem emendare, si potero; nec ei ius vel constitutum aliquod observabo, et eum de civitate et districtu Senensi ad voluntatem alterius partis in avere et persona exbanniam83. Et non lassarò alcuno cittadino di Siena andare a dimandare ragione overo richiamo ponere d’alcuno cittadino di Siena, ne le questioni temporali, se non a la corte di Siena, se non se vietata fusse a·llui la corte di Siena, ingiustamente […] Et se alcuna sententia ne seguitarà per quella corte, quella non seguitarò né oservarò; et quello cotale costregnarò tutti li danni et dispese da l’altra parte perciò sostenute a sua difensione mendare. Et se potrò, né ragione, né costoduto li osservarò; et

82

Ascheri, Il Costituto cit., p. 23; Mecacci, Il volgarizzamento del Costituto cit., pp. 210-211; Mecacci, Dal frammento cit., pp. 145-146, 154; Bartoli Langeli, I manoscritti cit., pp. 6-10. 83 Il Costituto del Comune di Siena dell’anno 1262 cit., dist. II, rub. [XV], pp. 209-210.


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a lui de la città et del distretto di Siena, a volontà de l’altra parte, in avere et persona exbandirò84.

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Il Costituto senese del 1309-10, stilato come manifesto politico mentre Duccio di Buoninsegna realizzava la Maestà della Vergine destinata alla cattedrale (1308-11) e i Nove progettavano i più importanti interventi edilizi e urbanistici che ancora oggi connotano la forma urbis senese85, riveste un grande rilievo nella storia del volgare italico applicato alla stesura delle leggi municipali. Si tratta, infatti, di un ampio codice che, per ben cinquecento carte, evidenzia come la lingua del popolo, efficacemente modellata dalla prosa narrativa della cronistica e della novellistica, potesse ormai adattarsi ad esprimere con efficacia anche rapporti giuridici, operazioni politiche, negozi civili e sanzioni criminali. Grazie alla consapevolezza acquisita all’inizio del secolo, nel 1337-39, in singolare coincidenza con la redazione del grande liber iurium del comune noto come Caleffo dell’Assunta (1335-36) e con la realizzazione del celeberrimo ciclo pittorico del Buono e del Cattivo Governo in Palazzo pubblico (1338-39), venne compilata una versione in volgare anche del nuovo statuto; un testo di cui purtroppo si sono perse le tracce86. L’uso del latino, di un latino difficile e pretenzioso, tornerà col codice normativo del 1545, ultimo statuto della Repubblica senese; ma questo conterrà la legge di una città permeata dall’ideologia nobiliare che si avviava a perdere la propria indipendenza e in cui da tempo si era eclissata quell’ideologia ‘popolare’ che aveva promosso il più antico volgarizzamento statutario87. 6. Venezia

Spostando la nostra attenzione dal centro al nord della Penisola, facciamo adesso riferimento alla compagine dei testi normativi veneziani vol-

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Il Costituto del Comune di Siena ed. Salem Elsheikh cit., I, dist. II, rub. 19, p. 424. Cfr. M. Ascheri, Siena in the Fourteenth Century: State, Territory, and Culture, in The “Other Tuscany”. Essays in the History of Lucca, Pisa, and Siena during the Thirteenth, Fourteenth, and Fifteenth Centuries, cur. Th.W. Blomquist - M.F. Mazzaoui, Kalamazoo (Mi) 1994, pp. 163-197: 182-186; F. Gabbrielli, Il palazzo del Comune di Siena e il suo Campo, in Siena nello specchio cit., pp. 51-66: 65-66. 86 Cfr. M. Ascheri, Introduzione. Lo statuto del Comune di Siena del 1337-1339, in D. Ciampoli, Il Capitano del popolo a Siena nel primo Trecento. Con il rubricario dello statuto del Comune di Siena del 1337, Siena 1984, pp. 7-21: 8-9. 87 L’ultimo statuto della Repubblica di Siena (1545), ed. M. Ascheri, Siena 1993.


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garizzati a partire dal primo Trecento o forse dalla fine del secolo precedente88. Come ha ben spiegato Lorenzo Tomasin, gli statuti della Serenissima si collocano, sia pure in modo come vedremo marginale, nel contesto di profonda ristrutturazione conosciuto dalla cancelleria della Repubblica a partire dai primi anni Sessanta del secolo XIII e che giunse a compimento all’inizio del Quattrocento. Nel corso di tale periodo il suddetto ufficio andò definendo i propri compiti e caratteristiche, a prescindere dall’influenza del notariato cittadino89. Quest’ultima categoria venne reclutata a Venezia, fino al principio dell’età moderna, tra il clero secolare, con una scarsa presenza di operatori laici, quasi esclusivamente forestieri. Ciò ebbe come conseguenza che in città non si costituì un vero e proprio ceto professionale addetto all’attività documentaria. Rimase, quindi, marginale il ruolo politico dei giuristi e non vennero a crearsi situazioni conflittuali del tipo di quelle che abbiamo osservato nella realtà del caso senese90. I più antichi testi in volgare prodotti dalla cancelleria datano agli anni Venti del Duecento. A partire dagli inizi del secolo successivo divenne prassi normale redigere in lingua veneziana la corrispondenza rivolta alle istituzioni del governo centrale; laddove le lettere indirizzate dalla cancelleria agli ufficiali periferici continuarono ad essere scritte per lo più in latino91. Anche a Venezia l’uso del volgare nei registri pubblici del dogado fu il frutto di una diffusa alfabetizzazione che interessò, fra XIII e XIV secolo, il ceto degli operatori economici. Ne derivò un numero significativo di carte dettate nell’idioma locale relative ad accordi commerciali, soprattutto con organismi politici stranieri e non cristiani, e di testimonianze depositate dai cittadini presso le corti giudiziarie92. Il volgare caratterizzò, pertanto, testi non sempre o non del tutto formalizzati; ed appare interessante che l’impiego del medesimo derivasse da situazioni sostanzialmente contingenti, dettate da esigenze di comprensione di volta in volta diverse, come dimostra il fatto che nei più antichi trattati con le potenze musulma-

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Sui più antichi volgarizzamenti di ambito letterario in area veneta cfr. Segre, I volgarizzamenti cit., p. 277. 89 L. Tomasin, Il volgare nella cancelleria veneziana fra Tre e Quattrocento, in Scritture e potere. Pratiche documentarie e forme di governo nell’Italia tardomedievale (XIV-XV secolo), cur. I. Lazzarini, «Reti Medievali Rivista», 9 (2008), http://www.retimedievali.it. 90 Cfr. M. Folin, Procedure testamentarie e alfabetismo a Venezia nel Quattrocento, «Scrittura e Civiltà», 14 (1990), pp. 243-270: 248; A. Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, pp. 60-62, 64-65; Ascheri, I giuristi cit. pp. 98-99. 91 Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 19-25. 92 Ivi, pp. 11-18, 27, 32-33.


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ne il veneziano si alternasse al latino e al francese, lingua di uso più comune fra i mercanti europei attivi in Oriente nel corso del Duecento93. L’iniziativa di traduzione dei complessi normativi da parte dei maggiori organi dello stato o di altre istituzioni fu un fenomeno piuttosto tardo, non anteriore, come dicevamo, alla fine del secolo XIII. Esso interessò in primo luogo testi che potremmo definire para-statutari, come i capitolari di arti e fraglie cittadine, oppure regolamenti volti ad aggiornare e riscrivere normative di singole magistrature; sebbene le raccolte concernenti queste ultime siano state composte ancora per tutto il Trecento principalmente in latino. Abbiamo già ricordato alcuni fra gli esempi più significativi94. Aggiungiamo la menzione delle deliberazioni (dette ‘parti’) dei principali consigli della Repubblica (Maggior Consiglio, Senato, Collegio, Consiglio dei Dieci, Quarantia criminale), che si distinguono dalla normativa precedentemente ricordata perché nel corso del Trecento acquisirono sezioni sempre più ampie scritte ‘direttamente’ in volgare, soprattutto quando assumevano la connotazione di proclami e gride destinati al pubblico bando95. Queste tipologie testuali non configurarono un ingresso stabile del volgare nell’espressione della suprema legge veneziana. In ogni caso favorirono l’appropriazione di una terminologia giuridica da parte del dialetto locale e costituirono la principale via d’accesso della lingua del popolo alla redazione dei più importanti testi dispositivi. Per quanto riguarda gli statuti cittadini, il codice promulgato nel 1242 sotto il dogado di Iacopo Tiepolo96, rimasto in vigore nella sua struttura fondamentale fino alla fine della Repubblica, è conservato in un esemplare forse risalente al 128197 e in alcune versioni datate con maggiore certezza al secolo XIV. Esso conobbe vari processi di volgarizzamento databili al tardo Duecento o, più probabilmente, al primo Trecento. Tali versioni risultano abbastanza precoci nel panorama statutario italiano e precocissime in rapporto alle regioni settentrionali. Tuttavia non si configurano come testi ufficiali di ambito cancelleresco, poiché le cinque redazioni oggi disponibili, distribuite su sette testimoni, evidenziano, per il loro numero 93 Cfr. ivi, pp. 15-17; ed anche M. Cortelazzo, Venezia, il Levante e il mare, Pisa 1989, pp. 99-113. 94 Cfr. il paragrafo terzo del presente lavoro. 95 Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 33-45; Tomasin, Il volgare nella cancelleria cit., pp. 5-16. 96 La cui più accurata edizione è Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, ed. R. Cessi, Venezia 1938. Per una disamina della produzione statutaria anteriore, risalente alla fine del XII secolo, si rinvia a Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 45-46. 97 Ivi, p. 49 nota 86.


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e le loro caratteristiche, la sostanziale estraneità delle istituzioni di governo all’opera di resa in lingua locale della legge. Questa, infatti, si svolse fuori o al margine degli uffici pubblici e del controllo esercitato dall’autorità cittadina, per volontà ed opera di privati, quasi certamente in ambiente mercantile. Essa rispose alla necessità che gli operatori economici, definiti da Stussi alfabetizzati ma illitterati98, avevano di disporre delle norme fondamentali in un idioma per loro più facilmente comprensibile. Stessa cosa si verificò in rapporto alle quattro redazioni successive, tràdite da altri sei manoscritti, nonché per le edizioni a stampa realizzate in età moderna, quasi tutte di carattere non propriamente ufficiale99. In fondo i volgarizzamenti presentarono caratteristiche non troppo diverse rispetto a quelle dei testi latini da cui derivavano, in considerazione del fatto che a Venezia non si mirò mai alla redazione di copie dei codici esposte alla pubblica consultazione in ambienti appositamente deputati, come avvenne in molte città dell’Italia comunale100. Le traduzioni statutarie sono tramandate da codici per lo più di modesta fattura e privi di apparati decorativi, contenenti in alcuni casi i soli volgarizzamenti, in altri entrambe le versioni. I testi risultano, come abbiamo detto, di difficile datazione, dato che questa non compare quasi mai sui manoscritti. L’arco cronologico ipotizzato per le stesure più antiche è compreso tra la fine del Duecento e il 1346101. Circa le modalità della traduzione o comunque della resa in volgare, i dettati più precoci, analizzati dal Tomasin102, si configurano per lo più come semplici ricalchi lessicali, soprattutto nel caso del manoscritto maggiormente risalente. Tuttavia i redattori dei volgarizzamenti veneziani, forse meno condizionati rispetto ai toscani dalla natura semiufficiale o non ufficiale dei loro lavori, riformularono profondamente gli originali latini, impiegando nessi e locuzioni tipici della comunicazione orale. Ne derivarono periodi più estesi e infarciti di elaborate circonlocuzioni. A questo proposito appare evocativo quanto affermato nel 1848 da Daniele Manin:

98 99

A. Stussi, Lingua, dialetto, letteratura, Torino 1993, pp. 114-115. Gli statuti veneziani cit., Prefazione, pp. III-XV: III-IV; Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 47-48; Tomasin, Il volgare nella cancelleria cit., pp. 16-21. 100 A. Padovani, La politica del diritto, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, III, La formazione dello stato patrizio, cur. G. Arnaldi - G. Cracco - A. Tenenti, Roma 1997, pp. 303-329; Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 49-51. 101 Sulle caratteristiche dei manoscritti statutari veneziani cfr. A. Bartoli Langeli, ‘Littera clugiensis’ e modelli veneziani: i codici legislativi medievali di Chioggia e Venezia, «Studi Veneziani», n. ser., 24 (1997), pp. 45-48; Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 52-54. 102 Ivi, pp. 54-58.


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Le antiche leggi dei veneti statuti erano stese in lingua latina: per facilitarne la popolare intelligenza furono tradotte nel vulgare dialetto veneziano verso la metà del secolo XIV. Il vulgare di questa traduzione […] oggi riuscirebbe in più luoghi meno intelligibile del latino, sebbene a bastanza barbaro, del testo: vi si trovano vocabili, frasi e forme grammaticali ora da secoli non più usate103.

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Uno stacco molto forte separa il caso veneziano da quello senese, non tanto per la supposta singolarità del diritto veneto, un dato che gli studi hanno progressivamente ricondotto al suo carattere di meditata autorappresentazione104, o anche per la possibile anteriorità dei volgarizzamenti settentrionali, quanto piuttosto per la sostanziale episodicità di queste imprese e per il fatto che, sebbene sia plausibile una certa vicinanza dei traduttori agli ambienti di palazzo, essi risposero ad esigenze molto pragmatiche e non ufficiali, dando seguito ad iniziative prese al margine o al di fuori dell’attività di governo.

Un altro comune urbano precoce e interessante per quanto riguarda la produzione normativa in volgare fu Perugia. Anche in questa città, fra le maggiori dell’Italia centrale, il volgarizzamento dello statuto, pubblicato nel primo Novecento e poi oggetto di una nuova edizione critica in epoca più recente105, risultò espressione dello sviluppo economico e sociale, nonché dell’affermazione conosciuta dal volgare nel contesto culturale della letteratura locale. Questa vide emergere alcune interessanti figure di cronisti aperti alle influenze linguistiche toscane e di poeti notai attivi durante i

103 D. Manin, Della veneta giurisprudenza civile mercantile e criminale, Discorso tratto dal primo volume dell’opera intitolata Venezia e le sue lagune, Venezia 1848, p. 11. 104 Cfr. L. Tanzini, Il governo delle leggi. Norme e pratiche delle istituzioni a Firenze dalla fine del Duecento all’inizio del Quattrocento, Firenze 2007, p. 137. 105 Statuti di Perugia dell’anno MCCCXLII, ed. G. Degli Azzi, Roma 1913-16; Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare, ed. M. Salem Elsheikh, coll. A. Bartoli Langeli, Perugia 2000. Cfr. Salem Elsheikh, Gli Statuti di Perugia del MCCCXLII: correzioni testuali e precisazioni linguistiche, «Studi e problemi di critica testuale», 39 (1989), pp. 41-65; 40 (1990), pp. 23-49; Perugia milletrecentoquarantadue. Incontro interdisciplinare (Perugia, 27 giugno 1997), cur. P. Pimpinelli, «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 95 (1998), pp. 203-247, saggio miscellaneo strutturato nella forma alquanto frammentaria di liberi interventi di vari autori in una discussione. Sull’uso del volgare in area umbra si veda Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare cit., I, Premessa, pp. XI-XVIII: XII; Salem Elsheikh, Il caso Ciuccio, «Studi di Filologia Italiana», 38 (1980), pp. 11-32.


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primi decenni del Trecento intorno allo studium generale aperto nel 1308106. Ancora una volta la traduzione della legge fondamentale si accompagnò all’ingresso del parlato e dell’idioma cittadino nella stesura di altre scritture e documenti pubblici107. Il codice statutario del 1342, compiuto fra 1343 e 1344 da autori anonimi, costituì la resa in lingua perugina della ricca produzione latina risalente al 1279-85 (1279), con l’aggiunta delle redazioni composte fra 1308 e 1320 (compresa la nuova stesura del primo codice unico per il comune e il Popolo risalente al 1315) e di quella latina del 1342, conservata solo in pochi frammenti di non sicura datazione108. Anche per quanto concerne il capoluogo umbro non è stato possibile identificare con esattezza il testo che fu alla base del volgarizzamento109. Infatti del codice duecentesco edito da Severino Caprioli – fondatore di un’ecdotica speciale per la pubblicazione degli statuti cittadini – e delle riforme successive esso non costituisce la traduzione letterale, bensì una riscrittura in volgare, che salva l’ossatura ma non la lettera di molte rubriche. L’ipotesi che a Siena l’opera di volgarizzamento del Gangalandi sia stata affiancata da quella di alcuni collaboratori è in rapporto a Perugia una certezza, per lo meno a livello della stesura, dato che il manoscritto risulta composto da tre mani diverse le quali procedettero contemporanea-

106 I. Baldelli, Lingua e letteratura di un centro trecentesco: Perugia, «La Rassegna della letteratura italiana», 66/1 (1962), pp. 3-21; A. Bruni Bettarini, Postille ai poeti perugini del Trecento, «Studi di Filologia Italiana», 29 (1971), pp. 147-189; E. Mattesini, L’Umbria, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, cur. F. Bruni, Torino 1992, pp. 507-539: 516-519; Mattesini, L’Umbria, in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, cur. F. Bruni, Torino 1994, pp. 517-556: 526. Sullo studio cittadino, G. Ermini, Fattori di successo dello studio perugino delle origini, in Storia e arte in Umbria nell’età comunale. VI Convegno di studi umbri, Gubbio (26-30 maggio 1968), Perugia, 1971, II, pp. 289-309. 107 F. Agostini, Il volgare perugino negli «statuti del 1342», «Studi di Filologia Italiana», 26 (1968), pp. 91-199: 94. 108 Ivi, p. 95; R. Abbondanza, Gli statuti perugini dal 1279 al 1342 e il ritrovamento del primo rilevante frammento della redazione statutaria latina del 1342, in Storia e arte in Umbria cit., II, pp. 855-868: 856-858, 862-864; Statuto del Comune di Perugia del 1279, ed. S. Caprioli, coll. A. Bartoli Langeli - C. Cardinali - A. Maiarelli - S. Merli, Perugia 1996; J. Grundman, Guida allo studio degli statuti medioevali perugini, con particolare riferimento ai frammenti statutari costituenti il codice numero dodici dell’Archivio di Stato di Perugia, «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 95 (1998), pp. 5-35: 6, 8-9, 12-13; Bartoli Langeli, Notai cit., pp. 217-223. Sulla ricca produzione normativa della regione cfr. Repertorio degli statuti comunali umbri, cur. P. Bianciardi - M.G. Nico Ottaviani, Spoleto 1992; Gli statuti comunali umbri. Convegno di Spoleto (8-9 novembre 1996), cur. E. Menestò, Spoleto 1997; La legislazione suntuaria, secoli XIII-XVI, Umbria cit. 109 Cfr. Abbondanza, Gli statuti perugini cit., pp. 855-868: 859-860; Abbondanza in Perugia milletrecentoquarantadue cit., p. 208; Grundman, Guida cit., pp. 5-6, 8-12.


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mente stilando fascicoli differenti. Non è da escludere che anche la resa testuale sia da attribuire a più di un operatore, sebbene Bartoli Langeli propenda per l’esistenza di un unico traduttore, il quale avrebbe prodotto una minuta presumibilmente cartacea esemplata dai notai estensori materiali del codice110. La lettura del dettato non consente di cogliere con immediatezza differenze di rilievo nello stile e nella ricerca lessicale tra le varie parti dell’elaborato. Certo è che se a Siena il nome del volgarizzatore fu tramandato in quanto figura di spicco della cancelleria comunale, quella perugina si configura come un’impresa anonima e molto meno ricercata. Tale dato determina – usando le parole di Bartoli Langeli – una maggiore ‘bruttezza’ dello statuto perugino rispetto a quello senese: bruttezza della lingua e del costrutto sintattico, inferiore padronanza fonetica, minor nitore ortografico, rozzezza del supporto alquanto semplice e ordinario. Tali elementi risultano evidenti soprattutto dal confronto col testo latino duecentesco, ben scritto e ben curato, il cui proemio si appoggia alla lettera delle Novelle giustinianee111. Diciamo pure che la normativa perugina si inserisce a pieno titolo nel livello più basso della gamma di stili attribuita da Dante alla composizione in volgare, ossia in quel «gradus insipidus» teorizzato nel De vulgari eloquentia per indicare icasticamente le traduzioni più corrive112. Circa il modo di procedere dei volgarizzatori, essi ridistribuirono e riorganizzarono la materia, accorpando frasi e concetti al fine di rendere più schematici e quindi maggiormente comprensibili i testi. Facciamo un solo esempio evidenziato anche da Mahmoud Salem Elsheikh. Nella stesura duecentesca figurava il capitolo 341 «Qualiter puniatur et eiciatur mulier, que concubuerit cum aliquo leproso»113. Nel volgarizzamento troviamo la rubrica «De la femmena giacente col leproso, e de la cristiana giacente con lo iudeo»114. Tale norma, per mezzo di un’estensione semantica operata dai traduttori, unisce testi precedentemente separati, a prescindere dal momento in cui i singoli articoli erano stati redatti e quindi promulgati115. Ricordiamo anche come la disciplina principale relativa allo sfrut-

110

A. Bartoli Langeli, Il manoscritto, in Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare cit., III, pp. 3-9: 4, 7-9. Cfr. anche Agostini, Il volgare cit., p. 95. 111 Cfr. Bartoli Langeli, Uso del volgare cit., p. 191. 112 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, VI, 4. 113 Statuto del Comune di Perugia del 1279 cit., I, pp. 319-320. 114 Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare cit., II, lib. III, rub. 104, pp. 155-156. 115 M. Salem Elsheikh, in Perugia milletrecentoquarantadue cit., p. 224.


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tamento delle cosiddette comunanze del Chiugi, una vasta area demaniale116, dispersa in varie rubriche del testo latino (rubb. 252, 253, 254, 441)117 sia stata tutta raccolta in un unico ampio articolo di quello volgare118. Notiamo, inoltre, la difformità del proemio. Se lo statuto del 1279 si apriva con la consueta invocazione a Cristo e a Dio Padre, la versione in lingua perugina richiama solo il comune, il Popolo e l’autorità del Consiglio dei priori. Possiamo infine sottolineare la precisazione, assente nel testo latino e aggiunta in quello volgare, relativa all’attività dei macellai, allorché il divieto di vendere carne «morticinas», termine di cui il testo latino azzarda addirittura una dotta etimologia («ita quod hec dictio ‘morticinas’ componatur a ‘morte’ et ‘cado cadis’»), viene corredato di una più pratica perifrasi esplicativa atta a rendere esattamente il significato di quella parola: «cioè de bestie le quale non per ferro ma per enfermetà perissero overo per caso»119. Ma non basta. Come a suo tempo osservato da Roberto Abbondanza, i volgarizzatori omisero intere rubriche e sezioni di rubriche dei testi latini più recenti, compresi quelli del 1342, e ne aggiunsero altre assenti nell’ultima versione, riprendendole da stesure risalenti al primo decennio del secolo. Tuttavia negli statuti redatti in latino successivamente al volgarizzamento del 1342, per esempio in quello del 1366120, alcuni articoli omessi tornarono al loro posto, mentre le aggiunte operate nella versione volgarizzata furono espunte121, a dimostrazione del fatto che anche a Perugia la tradizione composta nella lingua dei giuristi procedette su binari propri e ben distinti dalla traduzione; mentre il volgarizzamento fu condotto non sulla base di un unico esemplare, ma a partire da uno

116 Sulla quale si rinvia a G. Francesconi - F. Salvestrini, La scrittura del confine nell’Italia comunale. Modelli e funzioni, in Frontiers in the Middle Ages. Congress of Medieval Studies, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Jyväskylä, FIN (10-14 June 2003), cur. O. Merisalo - P. Pahta, Louvain-la-Neuve 2006, pp. 197-221: 208-211. 117 Statuto del Comune di Perugia del 1279 cit., I, pp. 244-259, 396-397. 118 Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare cit., I, lib. I, rub. 82, pp. 294-298. 119 Statuto del Comune di Perugia del 1279 cit., I, cap. 366, pp. 344-346; Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342 in volgare cit., II, lib. III, rub. 227, p. 301. Cfr. in proposito F. Bambi in Perugia milletrecentoquarantadue cit., pp. 234, 236-237. 120 Perugia, Archivio di Stato, Archivio Storico Comunale, Statuti, 3, 4. Cfr. Grundman, Guida cit., p. 13-17, 19-22. Cfr. anche le edizioni dei testi in Civitatis populique Perusini statutorum tertium volumen …, Perugia, Per Girolamo Cartolari 1523 e Primumquartum volumen, 1526; sulle quali, P. Veneziani, Cartolari, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 20, Roma 1977, pp. 807-809: 808. 121 Abbondanza, Gli statuti perugini cit., pp. 859-862, 864.


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zibaldone di testi precedenti122. Questi elementi suggeriscono un uso limitato della versione in volgare nella prassi giudiziaria e nella normale applicazione del diritto statutario. A Perugia, come a Siena, il volgarizzamento dello statuto fu osteggiato da una parte del ceto dirigente e dei giuristi. Vari indizi ne danno conferma. Sappiamo, ad esempio, con certezza che una prima proposta di far tradurre i codici risaliva al 1322. Essa era stata avanzata e approvata, come confermano gli Annali decemvirali e le Riformanze. Tuttavia è anche sicuro che a tale disposizione non venne dato alcun seguito, poiché in una inquisitio del 1324 ordinata dal Capitano del Popolo si trova scritto testualmente che il magistrato doveva inquisire «contra omnes arengantes vel proponentes quod statuta comunis Perusii scribantur vulgariter»123. In effetti lo statuto in lingua locale del 1342, per quanto commissionato dal governo cittadino, fu espressione dei gruppi mercantili e delle loro esigenze, sostanzialmente divergenti da quelle del ceto dei giuristi. Roberto Abbondanza ha addirittura ipotizzato che, sebbene il codice sia pervenuto tramite uffici pubblici, l’iniziativa della sua redazione sia stata essenzialmente privata, in forte analogia col caso veneziano. Tale dato spiegherebbe anche la relativa rozzezza della stesura e la sostanziale semplicità della sua confezione124. Il manoscritto fu forse consultato in misura maggiore rispetto all’elegante e prestigiosa redazione senese, ma non in forma per così dire ufficiale e in un ambiente controllato. Infatti coloro che ebbero fra le mani la copia ancor oggi conservata non mancarono di corredarla (trattandosi di mani coeve) di curiosi ed evocativi, anche se non insoliti, disegni di membro virile, i quali, come sottolinea ironicamente Bartoli Langeli, «arricchiscono di senso la dizione ‘statuto volgare’»125. 8. Firenze

I nuovi statuti del Podestà e del Capitano del Popolo di Firenze furono realizzati alla metà del secolo XIV per precise istanze storico-documentarie e in rapporto a mutamenti di natura politico-istituzionale126. Le 122 123 124 125 126

Cfr. A. Bartoli Langeli, in Perugia milletrecentoquarantadue cit., pp. 239-240. Abbondanza, Gli statuti perugini cit., pp. 865-866. Cfr. ivi, pp. 866-867. Bartoli Langeli, Il manoscritto cit., p. 3. Il periodo era cruciale per il rinnovamento normativo di alcune grandi città comu-


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numerose riforme, chiose e correzioni apportate alle stesure del 132225127, le distruzioni di documenti avvenute dopo la cacciata del Duca d’Atene, signore di Firenze, nel 1343, nonché la necessità di integrare al corpus normativo alcune provvisioni del decennio successivo imposero, infatti, una riscrittura delle leggi fondamentali, divenute caotiche e di fatto inapplicabili, ma ancora ritenute la griglia costituzionale alla base della corrente attività di governo. Per altro verso, le mutate esigenze del nuovo dominio territoriale, cresciuto in misura notevole durante il primo Trecento, richiedevano un più appropriato quadro legislativo che si estendesse alla città-stato, al suo contado ed al distretto128. Nell’opinione di Riccardo Fubini i primordi della nuova redazione compiuta nel 1355 risalivano grosso modo al 1348, allorché nella città sconvolta dalla peste si avviò un processo di profonda ristrutturazione istituzionale all’insegna di un rafforzamento del Priorato delle arti, tornato cinque anni prima al vertice del potere129. Fin dal marzo 1351 era stata avanzata una proposta di ordinamento e revisione dell’intera legislazione statutaria ad opera dei Priori e del Gonfaloniere di Giustizia130. La definitiva occasione per procedere ad un riesame totale del dettato normativo fu però colta

nali, come ad esempio Bologna sotto il dominio visconteo e la signoria di Giovanni da Oleggio, con nuovi codici del 1352 e 1357 (Gli Statuti del Comune di Bologna degli anni 1352, 1357; 1376, 1389, ed. V. Braidi, Bologna 2002). 127 Cfr. Statuti della Repubblica fiorentina, ed. R. Caggese, Firenze 1910 e 1921, Nuova ed. cur. G. Pinto - F. Salvestrini - A. Zorzi, Firenze 1999. 128 Cfr. in proposito C. Guimbard, Appunti sulla legislazione suntuaria a Firenze dal 1281 al 1384, «Archivio Storico Italiano», 150 (1992), pp. 57-81: 74-75; A. Zorzi, Le fonti normative a Firenze nel tardo Medioevo. Un bilancio delle edizioni e degli studi, in Statuti della repubblica fiorentina cit., I, pp. LIII-CI; F. Salvestrini, Per un commento alle edizioni di Romolo Caggese. I codici statutari, il trattamento dei testi, la critica, ivi, pp. IX-LII; Zorzi, Gli statuti di Firenze del 1322-1325: regimi politici e produzione normativa, in Signori, regimi signorili e statuti nel Tardo Medioevo, cur. R. Dondarini - G.M. Varanini - M. Venticelli, Bologna 2003, pp. 123-141; J. Kirshner, Baldo degli Ubaldi’s contribution to the rule of law in Florence, in VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi, 1400-2000, cur. C. Frova M.G. Nico Ottaviani - S. Zucchini, Perugia 2005, pp. 313-364: 321; Tanzini, Il governo delle leggi cit., pp. 109-110. 129 R. Fubini, Le edizioni dei «Libri fabarum», in I Consigli della Repubblica fiorentina. Libri fabarum XVII (1338-1340), cur. F. Klein, Roma 1995, pp. XI-XXI: XIV-XV; Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica diplomazia cultura, Pisa 1996, pp. 34-35. Cfr. anche Tanzini, Il governo delle leggi cit., pp. 25-26. 130 «Multa ordinamenta et provisiones et reformationes comunis […] non sunt in volumine statutorum nec reperiuntur in publico propter combustionem camere comunis Florentie», l’incendio era quello successivo alla cacciata del Duca d’Atene (ASF, Provvisioni, Registri, 38, ff. 196r-196v, 12-14 marzo 1351). Cfr. L. Tanzini, Statuti e legislazione a Firenze dal 1355 al 1415. Lo Statuto cittadino del 1409, Firenze 2004, pp. 35-36, 38, 40.


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in coincidenza con un avvenimento importante di notevole valenza soprattutto simbolica, ossia il conferimento alle magistrature cittadine, in cambio di un rilevante compenso pecuniario, del diritto di rappresentanza come vicari imperiali, concesso nell’ambito di analoghi riconoscimenti per volontà del principe Carlo IV di Boemia (che «Firenze si reggesse secondo li statuti, le leggi municipali e ordinamenti consueti del detto Comune [facendo] confermagione delle leggi dette e statuti fatti, o·cche per inanzi si facessono, aprovandoli e confermandoli»)131. Risaliva, infine, al 1355 la ripresa dei lavori alla fabbrica della cattedrale, simbolo precipuo del prestigio cittadino, col progetto di ampliamento affidato a Francesco Talenti132. Ad eseguire l’importante e solenne lavoro di scrittura venne chiamato un giurista che godeva di chiara fama, messer Tommaso di ser Puccio da Gubbio, al momento dell’incarico in ufficio a Firenze come giudice collaterale dell’Esecutore degli Ordinamenti di Giustizia. Egli, fra il 1353 e il 1355, coadiuvato da due collaboratori133, compilò il nuovo ordinamento del comune. La cultura giuridica dell’estensore poté esprimersi senza apparente contrasto con le esigenze della classe politica sua diretta committente134. Tenendo conto della mutata situazione non solo politico-istituzionale, ma anche sociale e culturale, la Signoria ritenne opportuno affiancare al testo originale una versione volgarizzata più largamente comprensibile («et etiam pro faciendo unum volumen ipsorum omnium statutorum vulgariççari»), per la cui esecuzione, unitamente alla copia dei testi latini, furono

131 Matteo Villani, Cronica, ed. G. Porta, Parma 1995, IV, LXXVI, vol. 1, pp. 583-584. Si veda in proposito F. Baldasseroni, Una controversia fra Stato e Chiesa in Firenze nel 1355, «Archivio Storico Italiano», 50, ser. V, 3 (1912), pp. 39-54; D. De Rosa, Coluccio Salutati: il cancelliere e il pensatore politico, Firenze 1980, pp. 106, 119-120; C. Storti Storchi, Appunti in tema di «potestas condendi statuta», in Statuti città territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, cur. G. Chittolini - D. Willoweit, Bologna 1991, pp. 319-343: 322-323, 332-333; Ascheri, Il «dottore» cit., p. 111; A.M. Cabrini, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001, pp. 20-22; R. Fubini, Storiografia dell’Umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma 2003, pp. 146-148; Ch. M. de La Roncière, De la ville à l’État régional: la constitution du territoire (XIVe-XVe siècle), in Florence et la Toscane, XIVe-XIXe siècles. Les dynamiques d’un État italien, Rennes 2004, pp. 15-38: 29. Forse l’orientamento tradizionalmente guelfo della città impose di non menzionare l’evento nei prologhi degli statuti. 132 Cfr. G. Fanelli, Firenze, architettura e città, Firenze 1973, rist. 2002, p. 89. 133 Cfr. Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 38-50, 636-646. Cfr. anche G. Guidi, Il governo della città-repubblica di Firenze del primo Quattocento, Firenze 1981, I, pp. 59 ss. 134 Sul benevolo atteggiamento delle autorità fiorentine verso i giuristi, molto diverso da quello dei senesi, cfr. Kirshner, Baldo cit., pp. 316-318; Tanzini, Il governo delle leggi cit., pp. 155-214 e le conclusioni del presente lavoro.


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stanziati 300 fiorini d’oro135. Il sotteso scopo dell’operazione era implicitamente lo stesso dichiarato nel 1356 dalla provvisione che impose la traduzione in lingua locale di alcune ulteriori deliberazioni con valore di statuto, ossia l’intelligibilità della legge ai digiuni di grammatica («ad hoc ut ipsi artifices et layci possint per se ipsos legere et intelligere ipsa statuta et ordinamenta»)136. In realtà la scelta risultava rilevante per il suo significato politico più che per il suo risvolto pratico, dal momento che interessò una stesura latina ancora priva della formale ratifica da parte dei consigli. Quest’ultima, del resto, a dimostrazione di quanto fosse diminuito il rilievo operativo degli statuti per il funzionamento delle istituzioni comunali, arrivò solo nel 1366137. Al principio degli anni Cinquanta il ricorso al volgarizzamento per alcuni testi normativi più o meno formalizzati non era di sicuro neanche a Firenze una novità138. Ad esempio in ambiente confraternale la compagnia di San Gilio (Sant’Egidio) fin dal 1278-84 si era dotata di uno statuto scritto nella lingua del popolo139. Gli anni Trenta del Trecento videro la promulgazione di vari statuti di arti tradotti o dettati in volgare (basti citare il codice di Calimala del 1334)140. Il valore pubblico assunto dal nuovo linguaggio veniva esplicitamente dichiarato nello statuto dell’arte degli oliandoli, volgarizzato tra il 1310 e il 1313 affinché «quelli che ignorano e non sanno gramatica possino tutti capitoli di questo constituto leggere e intendere»141. Abbiamo già accennato agli altri episodi fiorentini del primo Trecento142, che però si infittiscono col passare dei decenni. Su richiesta della Mercanzia nel 1346 il nuovo ordinamento della medesima venne

135

3-5.

ASF, Provvisioni, Registri, 42, ff. 156v-157r. Cfr. Bambi, Una nuova lingua cit., pp.

136 Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 10, 45-46. Cfr. in proposito anche Guimbard, Appunti cit., p. 69. 137 Cfr. L. Azzetta, Notizia intorno a Andrea Lancia traduttore degli Statuti per il Comune di Firenze, «Italia Medioevale e Umanistica», 37 (1994), pp. 173-177: 173-174; F. Bambi, «Ser Andreas Lance, notarius, de ipsis in magna parte vulgariçavit»: il prologo e sei rubriche dello statuto del podestà di Firenze del 1355 tradotto in volgare da Andrea Lancia, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 4 (1999), pp. 345-366: 347; L. Tanzini, Albertano e dintorni. Note su volgarizzamenti e cultura politica nella Toscana tardo-medievale, in La parola utile. Saggi su un discorso morale nel Medioevo, Roma 2012, pp. 161-217: 201-202. Cfr. anche Tanzini, Il governo delle leggi cit., pp. 51-52, 111. 138 Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 508-509. 139 Cfr. Zorzi, Le fonti normative cit., p. XCIII. 140 Ivi, p. LXXXIX. 141 Cfr. Bambi, Una nuova lingua cit., p. 5. 142 Cfr. il paragrafo terzo.


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approvato dai consigli nella sua versione in volgare143. Nel settembre 1348 il notaio delle Riformagioni ser Piero di ser Grifo lesse nei consigli le proposte da discutere «vulgariter ad intelligentiam»144. Una provvisione del 1355 stabiliva che le cause presentate al tribunale della Mercanzia dovessero essere da allora redatte nella lingua comunemente parlata dai cittadini145. Del resto durante la prima metà del Trecento il volgare aveva conosciuto a Firenze un processo di notevole arricchimento lessicale e di perfezionamento sintattico che configurava un modello di eccellenza per l’intera Penisola, grazie in particolare ai cronisti come Giovanni Villani146. Viene quindi da pensare che proprio quando i rettori furono legittimati a produrre e ufficializzare la normativa locale, essi decisero orgogliosamente di farlo sia nella lingua della dottrina, sia in quella del popolo, non troppo diversamente dai loro omologhi senesi147. Anche per l’esecuzione del volgarizzamento le autorità si rivolsero ad un noto professionista, il notaio Andrea Lancia (ante 1296-post ottobre 1357). Questi godeva di una fama già consolidata soprattutto come traduttore di testi classici. Sebbene vi sia ancora un aperto confronto tra gli studiosi in merito alle opere di resa in volgare che vantano la sua paternità, appare certo che sia da riferire a lui una delle prime versioni compendiate dell’Eneide, così come quella, sempre parziale, delle Epistole a Lucilio di Seneca148. La critica gli attribuisce tradizionalmente anche la probabile 143 144

ASF, Provvisioni, Registri, 33, ff. 90r, 92r. D. Marzi, La Cancelleria della Repubblica fiorentina, Firenze 1910, pp. 415-425. L’anno dopo Lapo Vecchietti, scriba degli Ufficiali della Condotta, tracciava in lingua locale atti e rendiconti dei medesimi (ASF, Provvisioni, Registri, 37, ff. 59r, 66r). 145 Ivi, 42, ff. 96r, 97r. 146 Cfr. G. Porta, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Malato, II, Il Trecento, Roma 1995, pp. 159-210: 166-167, 205-206; Manni, Il Trecento toscano cit., pp. 34-41; J. Najemy, A History of Florence, London 2006, pp. 45-50. 147 Cfr. Statuti del Comune, Biscione cit., p. 509; Tanzini, Albertano cit., pp. 203-204. Per il motivo suddetto appare poco probabile che l’intenzione originaria non fosse quella di far tradurre l’intero corpus statutario, ma solo una parte di esso e sulla base di un ipotetico volgarizzamento dei codici risalenti al 1322-25, diverso da quello del già ricordato frate Lorenzo, come sostiene Statuti del Comune, Biscione cit., p. 510; tanto più che poi la traduzione risultò integrale, una scelta non riconducibile all’arbitrio di Andrea Lancia. 148 G. Valerio, La cronologia dei primi volgarizzamenti dell’‘Eneide’ e la diffusione della ‘Commedia’, «Medioevo Romanzo», 10 (1985), pp. 3-18; R. Migliorini Fissi, Lancia, Andrea, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 105-109; I volgarizzamenti trecenteschi dell’Ars amandi e dei Remedia amoris, ed. V. Lippi Bigazzi, Firenze 1987, II, pp. 890892; L. Azzetta, Per la biografia di Andrea Lancia: documenti e autografi, «Italia Medioevale e Umanistica», 39 (1996), pp. 121-170: 128-129; Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 12-16. Cfr. anche Folena, Volgarizzare cit., pp. 47, 49; Segre, I volgarizzamenti cit., p. 287.


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identificazione con l’autore dell’Ottimo commento alla Commedia dantesca149. Certamente egli tracciò le chiose miscellanee alla medesima contenute nel manoscritto II.I.39 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, così come una copia del poema150. Sappiamo, inoltre, che ebbe contatti con Boccaccio, come evidenzia, fra altri elementi, la traduzione dell’Ars amandi di Ovidio in un esemplare chiosato dal prosatore certaldese; e infine che fu amico del citato Giovanni Villani151. Il Lancia, di cui sono noti numerosi dati biografici grazie ai recenti studi di Federigo Bambi e Luca Azzetta, è attestato come tabellione almeno dal 1314. Risiedette nel ‘popolo’ fiorentino di San Pier Maggiore152 e ricoprì numerosi incarichi pubblici, come quello di notaio dei sindaci dell’Esecutore degli Ordinamenti di Giustizia (1333), di custode dei libri pertinenti alla Camera del Comune (1335), di console dell’arte dei giudici e notai (1337), di scriba per gli Ufficiali alla Condotta degli Stipendiari

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149 Accettano l’identificazione F. Mazzoni, Lancia, Andrea, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, pp. 565-566; Folena, Volgarizzare cit., pp. 49-50; Segre, I volgarizzamenti cit., p. 286; V. Cioffari, Anonymous Latin Commentary on Dante’s Commedia. Reconstructed Text, Spoleto 1989, p. 1. Resta un dato incerto per Th. Maissen, Attila, Totila e Carlo Magno fra Dante, Villani, Boccaccio e Malispini. Per la genesi di due leggende erudite, «Archivio Storico Italiano», 152/3 (1994), pp. 561-639: 588-589. Sulla questione cfr., nell’ambito della ricchissima bibliografia, F. Geymonat, Un nuovo testimone frammentario dell’Ottimo, «Studi Danteschi», 62 (1990), pp. 187-248; Azzetta, Per la biografia cit., p. 122; P. Pasquino, Nuovi appunti sulla tradizione dell’«Ottimo Commento», «Medioevo e Rinascimento», 12 (1998), pp. 121-141; Pasquino, Benvenuto da Imola e la tradizione dell’«Ottimo Commento», in Scritti offerti a Francesco Mazzoni dagli allievi fiorentini, Firenze 1998, pp. 85-94; S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della Commedia da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004, pp. 304-313. Nuova luce su alcuni dettagli della biografia del Lancia e significativi dubbi in merito all’attribuzione dell’Ottimo sono stati recentemente portati da R. Iacobucci, Un nome per il copista del più antico frammento della Divina Commedia: Andrea Lancia, «Scrineum», 7 (2010), http://scrineum.unipv.it; L. Azzetta, Andrea Lancia, in Censimento dei commenti danteschi, 1. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), cur. E. Malato - A. Mazzucchi, I, Roma 2011, pp. 19-35; M. Corrado, Ottimo Commento, ivi, pp. 371-406. 150 Cfr. L. Azzetta, Le chiose alla Commedia di Andrea Lancia, l’Epistola a Cangrande e altre questioni dantesche, «L’Alighieri. Rassegna dantesca», 21 (2003), pp. 5-76; Azzetta, Per la biografia cit., pp. 150-153. 151 Cfr. F. Maggini, I primi volgarizzamenti dai classici latini, Firenze 1952, pp. 90-96; Ch.T. Davis, Topographical and Historical Propaganda in Early Florentine Chronicles and in Villani, «Medioevo e Rinascimento», 2 (1988), pp. 33-51: 46; Azzetta, Per la biografia cit., pp. 130-133, 141-142, 146-150; Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 16-21, 2930, 34-39; M. Cerroni, Lancia, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, 63, Roma 2004, pp. 317-320: 318-319. 152 ASF, Balie, 1, ff. 95v-96r (1342); ASF, Estimo, 41, f. 20v (1351); ASF, Podestà, 702, ff. 54v-55r (1351). Cfr. Azzetta, Per la biografia cit., pp. 123-133, 141; Bambi, «Ser Andreas cit., p. 349.


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(1349 e 1351)153. Una volta conclusa, dopo circa dieci mesi, la traduzione dei codici statutari, ricevette l’incarico, forse su sua stessa sollecitazione154, di volgarizzare i già ricordati ordinamenti e provvisioni con valore di statuto fra il 1356 e il 1357155. Siamo di fronte ad un personaggio non troppo dissimile da Ranieri Gangalandi, anche se forse ancora più colto e maggiormente esperto soprattutto nell’uso letterario del volgare. Andrea pianificò e per un certo periodo condusse in prima persona la traduzione degli statuti, stilando di propria mano, come emerge dal confronto grafico con altri scritti di suo pugno, il codice del Podestà156. L’esemplare conservato si configura quale copia di lavoro non priva di chiose e correzioni che forse avrebbe dovuto essere successivamente esemplata in mundum. Occorre inoltre valutare la possibilità che non sia opera sua la resa in lingua fiorentina del dettato relativo alla pace del Cardinale Latino del 1280 e delle costituzioni contro gli eretici (scritture più antiche ma incluse nel corpus statutario)157, il cui registro appare molto diverso e meno ricercato rispetto al resto del volume. Ad un collaboratore del notaio, probabilmente non fiorentino, va infine attribuita buona parte del volgarizzamento dello Statuto del Capitano del Popolo, il quale, redatto anch’esso da un’unica mano, presenta notevoli varianti grafiche e lessicali rispetto all’omologo del Podestà158. Questo secondo manoscritto si carat-

153 ASF, Tratte, 743, f. 30v. Cfr. Azzetta, Per la biografia cit., pp. 126-127, 133-141, 144-146; Bambi, «Ser Andreas cit., p. 350; Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 10-11, 21-29, 31-33. Per una procura del notaio risalente al 1353 cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 15021, f. 22v. 154 Cfr. l’ipotesi di Bambi, Una nuova lingua cit., pp. 1-3. 155 ASF, Provvisioni, Registri, 43, ff. 144v-145r, 148r. Legge suntuaria fatta dal Comune di Firenze l’anno 1355 e volgarizzata nel 1356 da ser Andrea Lancia, ed. P. Fanfani, Firenze 1851; Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 50-58; Bambi, Le aggiunte alla compilazione cit.; Bambi, Una nuova lingua cit., pp. 19-211; Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 509, 516-517. 156 ASF, Statuti del Comune di Firenze, 19. Cfr. Azzetta, Notizia cit., p. 174; Azzetta, Per la biografia cit., pp. 156-160, 166-170; Bambi, «Ser Andreas cit., pp. 347, 351-352; Ordinamenti, provvisioni e riformagioni cit., pp. 44-45; Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 513-514. 157 Cfr. I. Lori Sanfilippo, La pace del cardinale Latino a Firenze nel 1280. La sentenza e gli atti complementari, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 89 (1980-81), pp. 193-259; A. Piazza, «Affinché … costituzioni di tal genere siano ovunque osservate». Gli statuti di Gregorio IX contro gli eretici d’Italia, in Scritti in onore di Girolamo Arnaldi offerti dalla Scuola nazionale di studi medioevali, Roma 2001, pp. 425-458. 158 ASF, Statuti del Comune di Firenze, 13. Cfr. Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 511-513. I due volumi sono in corso di pubblicazione a cura degli autori del presente contributo. Che l’opera di traduzione non sia stata interamente condotta dal Lancia lo indica


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terizza per una maggiore qualità formale nell’esecuzione: vi è quasi del tutto assente il sistema abbreviativo e le carte appaiono molto pulite. Tuttavia esso si configura come una mera copia di conservazione che non sembra aver conosciuto alcun tipo di impiego, presentando – fra l’altro – errori che non si ritenne mai di dover correggere. Per esempio, al termine della rubrica LXXIII del secondo libro compare una datazione 1386 che traduce per sbaglio l’anno 1286 indicato nei testi latini, senza alcun intervento volto al recupero dell’anno corretto159. La provvisione del 12 settembre 1356 con cui si affidava al Lancia il volgarizzamento dei successivi provvedimenti legislativi non solo conferma che egli «in magna parte vulgariçavit» i principali testi statutari, ma ci fornisce anche alcune notizie relative alla destinazione e all’uso di questi scritti, precisando: «catenata sunt in loco publico, videlicet in camera Dominorum omnium Gabellarum dicti Comunis». Tuttavia, che l’operazione commissionata al Lancia fosse di natura più politica che strettamente utilitaristica viene dimostrato, come a Siena, dallo scarso uso dei compendi volgarizzati nella prassi normativa e dall’ottimo stato di conservazione dei due codici160. Anche a Firenze non è rimasto il testo originale sulla base del quale fu condotta la traduzione. Le dodici redazioni latine, integrali o parziali, ancor oggi disponibili sono, del resto – come hanno dimostrato Federigo Bambi e Giuseppe Biscione – copie più tarde destinate ad uffici minori161. Per quanto riguarda le scelte lessicali e le modalità del volgarizzamento, la cultura del notaio e la sua proprietà di linguaggio emergono chiaramente dalle parti del testo in cui meno stretto era il vincolo alla lettera del dettato dispositivo, come ad esempio i prologhi. La traduzione di questi ultimi risulta, infatti, poco letterale e presenta elementi di notevole ricercatezza. Si pensi, in particolare, all’invocazione incipitaria del codice del Podestà: «la gratia del nostro signore Iesu Cristo fancendoci la via inan-

anche la citata provvisione del 1356. Essa, infatti, nel conferirgli il secondo incarico, riferiva che in rapporto ai codici statutari egli solo «in magna parte vulgariçavit» (ASF, Provvisioni, Registri, 43, f. 143v). 159 «Et hec locum habeant a kalendis ianuarii currentibus annis Domini millesimo ducentesimo ottuagesimo sexto in antea» (ASF, Statuti del Comune di Firenze, 10, f. 86v; ivi, 12, f. 119r); «E queste cose abbino luogo da kalende di gennaio correnti gli anni Domini milletrecentoottantasei innançi» (ivi, 13, f. 127r). 160 Cfr. Bambi, Una nuova lingua cit., p. 6; Statuti del Comune, Biscione cit., p. 511. Analoga è la condizione di altri volgarizzamenti del Quattrocento (ivi, pp. 517-521). 161 Bambi, «Ser Andreas cit., p. 354; Bambi, Una nuova lingua cit., p. 13; Statuti del Comune, Biscione cit., pp. 429-506, 692-695, 696-704, 709.


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zi…» («gratia igitur domini nostri Iesu Christi previa»); oppure alla scelta di rendere il termine «ambiguitas», ricorrente nella normativa statutaria, col già dotto volgare «dubitatione»162. In linea di massima anche un confronto veloce fra testi latini e versione volgarizzata evidenzia come quest’ultima presenti rubriche spesso più estese e ricche di circonlocuzioni. Maggiormente letterale, proprio perché più rischiosa, era la traduzione delle rubriche con valore strettamente coercitivo. Tuttavia non mancarono anche qui ardite soluzioni lessicali. Per esempio, come ha sottolineato Federigo Bambi, nella traduzione di una rubrica trattante la professione notarile (la ventinovesima del secondo libro nello Statuto del Podestà) il Lancia rese il termine «complere» – verbo indicante il passaggio dalla fase dell’imbreviatura a quella dell’instrumento – tramite il volgare «compiere», ancora non codificato con questo preciso significato. Interessante risulta anche la coppia «commissio»-«commissione», laddove la parola latina si riferiva alla scrittura definitiva di un documento da parte di un notaio diverso da quello che aveva ricevuto l’incarico, con una valenza tecnica che il corrispondente lemma, scelto per assonanza, non aveva affatto nel linguaggio comune dell’epoca163. 9. Fuori dagli statuti

Alla luce dei casi considerati fin qui, ed anche per seguire coerentemente le aporie e le riserve che abbiamo avanzato sul ruolo del volgare nelle grandi codificazioni statutarie cittadine, vale la pena almeno accennare un’incursione anche in quei territori testuali di confine tra scrittura e oralità in cui più chiaramente si poneva la necessità di mediare tra i due registri. Tre sono le sedi documentarie più significative in tal senso: i bandi, le pratiche di discussione e registrazione nelle grandi assemblee politiche, e la prassi giudiziaria. Quando parliamo di bandi intendiamo quei testi che venivano adoperati dagli appositi ufficiali pubblici per comunicare innovazioni normative introdotte dalle autorità, abbastanza rilevanti per la vita cittadina da dover essere comunicati teoricamente a tutti gli abitanti. Con modalità molto varie, ma talvolta partitamente stabilite per legge, il banditore si recava in 162 Cfr. Statuti cit.,19, f. 1r; F. Bambi, Andrea Lancia volgarizzatore di statuti, «Studi di Lessicografia Italiana», 16 (1999), pp. 5-29: 14-19. 163 Cfr. Bambi, «Ser Andreas cit., pp. 354-366; Bambi, Una nuova lingua cit., pp. 428429, 435-437.


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punti chiave dello spazio urbano per dare lettura del dettato. In questa operazione doveva ragionevolmente servirsi di un testo base, che non doveva essere la norma nella sua forma originaria, ma una sua versione sfrondata dal formulario e soprattutto tradotta in volgare, in modo da essere compresa dagli astanti. Questo testo per sua natura volatile, che fungeva da supporto al passaggio tra norma scritta e versione ‘ascoltata’, difficilmente veniva conservato, e infatti in pochi casi disponiamo di testimonianze significative per il XIV secolo. Il più noto di questi casi è quello di Lucca, dove i ricchissimi registri della pratica amministrativa e giudiziaria trecentesca hanno lasciato numerosi esempi di fogli sciolti con bandi destinati alla pubblica lettura. I bandi lucchesi, dei quali Salvatore Bongi pubblicò una cospicua serie per gli anni 1331-1356164, presentano un carattere per lo più giudiziario, militare e fiscale. Privi di ogni formulario specifico e corredati solo del sintetico riferimento all’autorità disponente (Podestà, Capitano, sindaco del comune, Luogotenente, Vicario o uffici particolari), essi trasmettono provvedimenti specifici sull’ordine pubblico, l’igiene e la sicurezza cittadina, le gabelle e le imposizioni fiscali. L’impiego del volgare assimila questi testi ‘orali’ ai casi di statuti e regolamenti fiscali di cui abbiamo visto sopra, ma manca in ogni caso una connessione riconoscibile con i compendi statutari di maggior impegno: non si riscontrano, cioè, rubriche statutarie ‘bandite’ in volgare, che consentano di seguire il passaggio da una modalità linguistica all’altra. Questa distanza tra il testo statutario e il bando si riscontra anche nelle testimonianze leggermente più tarde note per Mantova, dove a partire dagli anni Sessanta troviamo vari esempi di bandi volgari165: qui si tratta esclusivamente di ordini dei signori, che non coinvolgono in alcun modo gli statuti cittadini. Negli stessi anni e in un regime parimenti signorile, a Fano, i bandi dei Malatesta erano abitualmente in latino166: evidentemente l’incaricato della lettura doveva tradurre all’impronta il testo, oppure munirsi di una traccia scritta in volgare che però non veniva conservata. 164

Bandi lucchesi del secolo decimoquarto tratti dai registri del R. Archivio di Stato in Lucca, ed. S. Bongi, Bologna 1863. 165 Bandi mantovani del secolo XIV tratti dall’archivio storico dei Gonzaga, ed. P. Ferrato, Mantova 1876. Si tratta di una piccola raccolta di bandi volgari del periodo 13691400, tutti ordini e decreti signorili, come naturale visto l’archivio di provenienza. I testi trattano dei temi classici di ordine pubblico, questioni economiche, caccia e pesca, e non hanno nessun riferimento né alle istituzioni del comune né tantomeno agli statuti, che non vengono mai citati. Si sono conservati anche bandi volgari di Francesco da Carrara il Vecchio a Padova: cfr. Migliorini-Folena, Testi non toscani cit., pp. 68-69. 166 Bandi malatestiani nel comune di Fano. Curiosità storiche (1367-1463), ed. R. Mariotti, Fano 1892: il primo esempio in volgare è del 1411.


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Il caso dei bandi, insomma, ha tutte le caratteristiche per fornire utili spunti sul passaggio tra oralità e scrittura (più precisamente tra scrittura e oralità), ma non trova positivi agganci al testo statutario. Non offre, cioè, lumi significativi sul senso e l’utilità delle grandi imprese di volgarizzamento degli statuti. Un ambito, invece, nel quale questo aggancio è frequente e ben documentato risulta quello delle pratiche consiliari. Nel Due e Trecento la dinamica vita politica delle assemblee cittadine si svolgeva come ovvio in volgare, ma la mediazione tecnica irrinunciabile dei notai faceva sì che le registrazioni scritte delle delibere, e anche dei dibattiti, risultassero immancabilmente in latino. Il fatto è che il passaggio da una lingua all’altra in ambito consiliare non andava in un solo senso, cioè dalla discussione volgare alla delibera latina: i notai dovevano essere anche in grado di leggere ai consiglieri testi statutari o modelli di delibere, e i consiglieri dovevano essere messi in condizione di comprenderli. Laddove, per esempio, in una testimonianza precoce come quella dei consigli perugini del 1262 l’assemblea deliberava che «statutum populi legatur et examinetur et corrigatur in presenti consilio»167, è difficile immaginare che questa lettura avvenisse in latino. Quindi si deve supporre che i notai avessero realizzato almeno oralmente un (faticosissimo!) volgarizzamento dello statuto per consentire la correzione pubblica. Questa prassi di lettura volgare di statuti e delibere durante le riunioni consiliari è documentata in maniera esplicita in molti casi del primo Trecento, tra i quali si possono citare i verbali di Todi168 o di Siena169. A Venezia è possibile anche individuare alcuni frammenti statutari in volgare che probabilmente servivano proprio per letture come quelle appena citate, o a situazioni cerimoniali pubbliche quali i giuramenti degli ufficiali170. Si potrebbe supporre, in definitiva, che i volgarizzamenti statutari avessero come obiettivo pratico quello di fornire alle consuetudini consiliari un utile supporto per le letture pubbliche dei testi normativi nella lingua che poteva essere intesa da tutti. Anche in questo caso, però, tra le diverse tipologie di fonti a nostra disposizione vi sono distanze note167 Reformationes comunis Perusii quae extant anni MCCLXII, ed. U. Nicolini, Perugia 1969, p. 42 (2 agosto 1262). 168 Todi, Archivio Storico del Comune, Riformanze, 9, ff. 44r-44v (1319): convocato il consiglio il difensore proponeva «super supradictis provisionibus hodie factis per XXIIII…lectis et vulgariçatis per me notarium». 169 Siena, Archivio di Stato, Consiglio Generale, 109, ff. 130r-130v (1330): «ex forma cuiusdam alterius capituli constituti dicti comunis sub rubrica de consilio fiendo super facto carnificum lecta et vulgariçata per me dominum notarium in presenti consilio». 170 Tomasin, Il volgare e la legge cit., pp. 33-37, 63-64.


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voli. Nulla, infatti, testimonia che le grandi redazioni statutarie cittadine siano state concepite per rispondere ad una simile esigenza consiliare. A Firenze, per esempio, fino agli anni Trenta del secolo fu comune l’abitudine di iniziare la seduta leggendo i capitoli statutari potenzialmente ostativi delle delibere che l’assemblea stava per discutere, ma normalmente non si specificava che ciò dovesse avvenire in volgare171; e sebbene sia possibile che lo si facesse, è altrettanto probabile che in realtà si trattasse di una lettura solo in senso formale, inclusa tra gli adempimenti impliciti del notaio a inizio seduta. Ad ogni modo la menzione dei capitoli da leggere al principio (in qualsiasi lingua vogliamo pensare che venisse effettuata) scompare negli anni successivi dai verbali consiliari. Quindi la versione volgare dello statuto del 1355 giunse quando quella prassi di lettura era ormai in disuso; ed anche ammettendo che in realtà non fosse stata del tutto abbandonata, di certo era relegata tra le pratiche tralatizie dell’assemblea, che certo non giustificavano imprese di traduzione172. È tra l’altro interessante che, sempre a metà secolo, le sedute consiliari venissero aperte da una formula diversa, per noi più significativa, nella quale il notaio delle Riformagioni ricordava che legi et recitavi vulgariter distincte et ad intelligentiam in ipso consilio et coram consiliariis in eo presentibus provisiones infrascriptas173,

prima di riportare partitamente il testo delle varie delibere. Il notaio quindi, conclusa la discussione, leggeva ai presenti il testo definitivo sottoposto all’approvazione e lo faceva in volgare ad intelligentiam di tutti i presenti: visto il dispositivo che era appena stato formulato, doveva trattarsi di una traduzione all’impronta, effettuata senza passaggi scritti o comunque preparata quasi istantaneamente dal notaio su fogli volanti. Anche nella prassi consiliare di questo periodo, dunque, se è vero che il volgare aveva grande parte, nondimeno era un volgare affidato al lavoro estemporaneo e presumibilmente soprattutto orale del notaio. E per questo tipo di situazione disporre di un intero codice statutario in volgare non presentava grande utilità. 171

La formula standard (qui citata da ASF, Provvisioni, Registri, 27, f. 1v, 1335), era «per me notarium lecta fuerunt infrascripta capitula et statuta populi et comunis Florentie in ea parte et partibus qua et quibus in infrascriptis infra propositis vel eorum aliquo contradicere videbantur». Come si è accennato sopra (p. 294) formulari consiliari di questo tipo cominciano a far riferimento a letture in volgare già all’inizio del secolo. 172 A Perugia mancano le riformanze degli anni intorno al volgarizzamento del 1342, quindi il rapporto tra le delibere consiliari e l’iniziativa statutaria resta abbastanza incerto. 173 Testo citato da ASF, Provvisioni, Registri, 39, f. 1r (1352): ma cfr. anche supra, p. 288.


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L’ultimo ambito documentario che ci siamo proposti di considerare è la prassi giudiziaria coi suoi riflessi testuali. La giurisdizione è senza dubbio uno degli ambiti in cui la consuetudine notarile manifestava in maniera più spiccata e duratura il suo legame con il latino: il peso dei formulari impedisce in questo senso di trovare testimonianze significative di ‘penetrazione’ del volgare, se si eccettuano i pittoreschi episodi di testi allegati per necessità particolari, come i resoconti di conversazioni e scritture private174. Nulla, cioè, che abbia a che fare con la procedura vera e propria. La situazione è leggermente diversa, però, nel caso dei tribunali mercantili: istituzioni, come abbiamo visto, a metà strada tra l’organizzazione corporativa e l’ufficio pubblico. Per una giurisdizione che si volle intendere come esplicitamente ‘sommaria’ e scevra dai formalismi del processo romano-canonico, la possibilità di produrre atti in volgare e quindi di svolgere i vari passaggi processuali evitando la testualità latina era una scelta distintiva. Anche in questo caso, però, il quadro risulta molto meno uniforme di quanto si potrebbe pensare. Solo a Firenze, con una delibera del 1355, si dispose per tutti gli atti del Tribunale della Mercanzia l’uso del volgare, che quindi si estese anche alle componenti formulari del processo175. Nelle Mercanzie delle altre città italiane, invece, il volgare ‘arrivò’ soltanto ad estendersi agli atti presentati dalle parti, mentre il formulario, di diretta derivazione notarile, rimase per lo più latino, come si può constatare dagli atti superstiti più o meno abbondanti a Lucca, Siena e Bologna176. Quella di Firenze era una volontà distintiva molto spiccata: prova ne sia il fatto che la medesima onnipresenza del volgare venne imposta a partire dal 1414 anche ai tribunali delle arti177. Proprio il fatto che una

174 Forse questo fenomeno risulta in qualche modo sottovalutato a partire da uno studio dei libri giudiziari. Più significativo ci apparirebbe se potessimo analizzare tutta la documentazione relativa a biglietti e carte sciolte che – conservata talvolta tra le pagine dei registri processuali – rappresenta il primo impulso delle cause e dei vari passaggi della procedura: petizioni, schemi di testimonianze, citazioni. A questo proposito sono preziosi gli esempi raccolti nel volume II di Nuovi testi pratesi dalle origini al 1320, ed. R. Fantappiè, Firenze 2000, pp. 31-323. 175 L. Boschetto, Writing the Vernacular at the Merchant Court of Florence, in Textual Cultures of Medieval Italy, cur. W. Robins, Toronto-Buffalo-London 2011, pp. 217-262. 176 Oltre ai testi già citati si vedano, in particolare per Siena e Bologna, M. Ascheri, La decisione nelle corti giudiziarie italiane del Tre-Quattrocento e il caso della Mercanzia di Siena, in Judicial records, Law reports, and the growth of case law, cur. J.H. Baker, Berlin 1989, pp. 101-122; Diritto particolare e modelli universali nella giurisdizione mercantile (secoli XIV-XVI), cur. P. Bonacini - N. Sarti, Bologna 2008. 177 Boschetto, Writing the vernacular cit., pp. 225-227. Si può notare, peraltro, che una simile inziativa coincise con l’avvio a Firenze di una pratica di volgarizzamento sistematico dei testi normativi composti nel corso del Trecento, raccogliendo delibere tematiche sui


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simile scelta, in sedi corporative che già naturalmente avrebbero potuto sentire minore attaccamento ai formulari latini, provenisse da un impulso dall’alto piuttosto che da una concreta esigenza pratica, esprime bene il tono e il senso politico di simili iniziative. Potremmo tentare una provvisoria conclusione interpretativa dicendo che nel complesso lo sguardo alle tipologie documentarie ‘di frontiera’ tra i due usi linguistici non ha significativamente modificato, anzi per molti aspetti ha confermato, le impressioni tratte dall’analisi dei grandi codici statutari volgarizzati, specialmente nei contesti cittadini. Il passaggio dal latino al volgare, cioè, non veniva sentito nel corso del XIV secolo come una traduzione, un’operazione testuale da realizzarsi tramite lo sdoppiamento del testo in un’altra lingua. Esso era piuttosto uno dei tanti risvolti che la mediazione notarile veniva incaricata di realizzare nella sua pratica professionale. Di conseguenza, il fatto di disporre di un codice scritto in volgare non va inteso come un necessario strumento per facilitare la mediazione, ma piuttosto come un’iniziativa politica, o di politica della comunicazione pubblica. 10. Alcune conclusioni

Per tentare di dare una dimensione complessiva al nostro discorso possiamo far riferimento ad alcuni punti chiave. In primo luogo tutti gli studi che abbiamo preso in considerazione, soprattutto ma non solo per le grandi città comunali, convergono nel focalizzare l’attenzione sul ruolo svolto dai notai, e in particolare sulla dinamica tra notariato e istituzioni cittadine. Il caso più emblematico risulta senza dubbio quello di Siena, dove il ceto dirigente del periodo dei Nove intese deliberatamente escludere notai e professionisti del diritto dai gangli dell’amministrazione pubblica, in modo da configurare una gestione tutta politica della città. Per questo motivo la traduzione dello statuto doveva essere una specie di contraltare alla giustizia sostanziale, informale e tendenzialmente ‘laica’ della Mercanzia. Il volgare, dunque, appariva come alternativa alla cultura notarile. Si trattava di un’alternativa per molti aspetti paradossale, perché era proprio il notariato ad agire da principale ‘volgarizzatore implicito’ nelle prassi amministrative comunali. Tuttavia, proprio in questo senso il corpo-

singoli uffici: una tipologia, cioè, simile a quella già incontrata dei capitolari veneziani in volgare. Su testi del genere cfr. Tanzini, Il governo delle leggi cit., pp. 109-110.


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so statuto scritto nella lingua della città avrebbe dovuto fungere da definitivo surrogato a quell’ingombrante ruolo di mediazione. Il carattere sostanzialmente erratico ed episodico della grande impresa del 1309 testimonia, in definitiva, il fallimento di un’utopia del potere pubblico fondato solo sulla cultura popolare, sostanziale e sommaria espressa dal ceto dirigente mercantile, che avrebbe subito già nel corso del XIV secolo il riflusso delle consuetudini notarili, ivi compresa quella relativa all’uso del latino. Stante la difficoltà di ricostruire la vicenda dello ‘statuto’ perugino del 1342, è comunque convinzione degli studiosi che il tipo di approccio all’impresa fosse in questa città abbastanza simile a quello manifestato a Siena, se non altro per una certa affinità dell’ideologia popolare-mercantile che ne faceva da sfondo. Anche qui, insomma, il ricorso all’idioma del popolo contro la ‘centralità’ dei notai. In contesti diversi tale ostilità non aveva avuto modo di manifestarsi, e si può parlare piuttosto di debolezza del ruolo svolto dai legali; di situazioni, cioè, nelle quali non agiva quella onnipresenza della cultura notarile che gli studi (di Piero Fiorelli in testa) hanno chiaramente mostrato come il principale ostacolo alla formazione di una nuova lingua scritta del diritto. Valga in proposito il caso di Venezia, ove infatti la penetrazione del volgare nella tradizione normativa fu precoce, progressiva e in un certo senso ‘pacifica’, senza intenti ideologici pregiudiziali, ma allo stesso tempo e per lo stesso motivo molto meno esplicita e programmatica. O valga, del resto, in maniera analoga, tutto ciò che abbiamo visto per la precoce diffusione del volgare in aree geografiche (la Sardegna, la Dalmazia) o socio-politiche (il mondo rurale, le corporazioni) in cui la presenza dei notai nelle istituzioni era meno strutturata e pervasiva. Entro uno schema del genere resta vistosamente escluso il caso di Firenze. Per certi aspetti la connotazione ideologica del caso fiorentino è opposta a quella senese: nel 1355 la scelta del volgarizzamento poggiava proprio su quella tradizione notarile di versione dal latino che nella maggiore città toscana conosceva ormai una fortuna floridissima – non si spiega altrimenti la decisione di affidare l’impresa a ser Andrea Lancia, la cui fama era legata alla traduzione letteraria di Virgilio. Nessun intento per così dire di competizione professionale anti-notarile, dunque, anzi un impiego a fini di prestigio dei frutti più aggiornati della cultura espressa dai legali nel campo del volgare. A Firenze, pertanto, in un momento non a caso più tardo rispetto alle vicende di Siena e Perugia, le autorità cittadine non si trovarono di fronte un ceto notarile sentito come portatore di valori ‘altri’ rispetto alla cultura politica del ceto dirigente, bensì un notariato ormai da decenni protagonista del volgarizzamento letterario. E quest’ultimo non era solo un vezzo da amatori: trasferire il patrimonio letterario


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romanzo e soprattutto latino nella lingua del presente rappresentava una grandiosa operazione di ammaestramento etico e civico, che era stata avviata già nel secondo Duecento da uomini della generazione di Brunetto Latini e Bono Giamboni. Quell’operazione rendeva accessibile ad uno strato significativo della cittadinanza parti sempre più vaste del patrimonio di testi e valori della classicità, fin dall’inizio con una spiccata inclinazione ‘civile’ che avrebbe avuto conseguenze profonde nella stessa formazione dell’umanesimo fiorentino178. La scelta del 1355, quindi, non era un atto polemico, ma un matrimonio maturato a lungo tra la passione notarile per il volgarizzamento e l’intento politico di sfruttarne tutte le potenzialità identitarie e d’immagine179. Quanto poi quel matrimonio fosse destinato a durare, è un’altra questione. Infatti il quadro offerto dalle grandi città promotrici dei volgarizzamenti statutari è molto variegato, pur in presenza di situazioni analoghe dal punto di vista demografico ed economico e in risposta ad esigenze affini in merito alla necessità di conoscere la legge e di disporre della medesima. Se, infatti, a Siena come a Firenze la traduzione venne promossa dalle autorità comunali in favore, almeno teoricamente, di tutti i cittadini e della loro possibilità di comprendere la normativa, a Venezia l’iniziativa non fu del governo ma di privati; mentre l’autorità pubblica introdusse con grande lentezza il volgare nella prassi cancelleresca. Qualcosa di intermedio, con una versione ufficiale ma per molti aspetti informale, si verificò a Perugia. In ogni caso, proprio il confronto tra le varie realtà osservate sembra sottolineare che se la motivazione ufficiale talora addotta era quella di un paternalistico intervento delle magistrature urbane ai fini di una comprensione della legge da parte di coloro che non intendevano la grammatica, l’operazione sembra essere stata, in Toscana, essenzialmente politica e rivolta più al ceto dirigente stesso che non alla totalità dei cittadini, e negli altri casi diretta ad un pubblico ristretto ed elitario, con la conseguenza di

178 Sul ruolo decisivo dei volgarizzamenti (segnatamente a Firenze) per la nascita dell’Umanesimo cfr. anche R. Witt, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo, Roma 2005 (ed. orig. Leiden 2000), pp. 179-234. Ha richiamato con forza questa antichità della congiunzione fiorentina di familiarità coi classici e attenzione alla sfera pubblica G. Tanturli, Continuità dell’umanesimo civile da Brunetto Latini a Leonardo Bruni, in Gli umanesimi medievali. II Congresso internazionale dell’Internationales Mittellateinerkomitee (Firenze, 11-15 settembre 1993), cur. C. Leonardi, Firenze 1998, pp. 735-780. 179 Tanzini, Albertano cit., pp. 183-187, 200-202.


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uno scarso uso degli statuti in volgare, mai sostitutivi di quelli in latino. La ragione di questa situazione, come è stato più volte sottolineato, è da cercarsi nelle stesse possibilità di impiego linguistico dell’idioma del popolo, non ancora normalizzato e fortemente caratterizzato da elementi regionali e quindi non particolarmente adatto all’uso da parte di ufficiali che non di rado provenivano da città diverse o da territori lontani. È fuor di dubbio che per un rettore umbro o marchigiano fosse preferibile consultare un testo latino piuttosto che una versione in volgare fiorentino o senese – e il fenomeno doveva essere ancora più spiccato per volgari regionali meno fortunati di quelli toscani nell’allora comune circolazione dei testi. Non per nulla i casi dubbi e le situazioni problematiche imponevano senz’altro il ricorso alle versioni originali. È quanto si legge, ad esempio, nel volgarizzamento dello statuto di Ascoli:

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Et quando illi infrascripti statuti vulgari over reformançe accadesse per lu advenire alcuna dubitatione, recorrase per loro dechiaratione a li statuti et reformançe licterale, donde li infrascripti statuti et reformançe vulgari sonno cupiate, per dechiaratione de la dicta dubitatione, como se fa quanno fosse dubio inter doi libri de lege discordanti, dove per dechiaratione d’issi se manda a le pandecte de Pisa et mo’ de Fiorenza et como se dubitasse de alcuna parola ine lu instrumento copiato, se deve de rasione recorrere a lu originale onde lu dicto instrumento è stato copiato et tracto. Et, quantunqua le rubriche infrascripte appara diverse da le rubriche subscripte i ne le statuti licterali, sonno state facte più piene, acciocché li populari meglio lo intenda et retrove quello che è scripto in ciascuno statuto180.

Questa nota, per quanto tarda rispetto al fuoco cronologico del nostro intervento, ben si presta a rappresentare il risvolto pratico di una scelta, quella del volgarizzamento statutario, che nel Trecento mantenne un carattere prevalentemente d’immagine. Ciò non ne intacca il significato culturale in quanto lunga sperimentazione di una nuova lingua del diritto. Tuttavia appare chiaro come solo nel secolo successivo essa abbia conosciuto un’affermazione significativa. Le imprese di traduzione si rivelarono ovunque occasionali e rimasero sganciate dai meccanismi ordinari del rinnovamento statutario. Se possono essere oggi definite operazioni culturali, lo sono nella misura in cui evidenziarono la volontà di esprimere una cultura politica più ‘partecipativa’ rispetto al formalismo del diritto colto. Esse risposero a motivazioni per molti aspetti analoghe a quelle che portarono alla stampa degli statuti

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Statuti di Ascoli Piceno cit., I, p. 380.


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urbani fra Quattro e Cinquecento, essendo anche queste opere in larga misura episodiche, condotte soprattutto per ragioni di prestigio, spesso svincolate dall’effettiva vigenza dei codici e che per di più quasi mai interessarono antichi o recenti volgarizzamenti, ma solo testi latini alquanto risalenti e non più in vigore181, con la significativa eccezione di Ascoli182. Come gli statuti si guadagnarono il diritto di esistere nella prassi prima di giungere dopo molto tempo e con difficoltà ad essere oggetto di analisi da parte dei giuristi, che a lungo li guardarono con sospetto e disprezzo, così i loro volgarizzamenti, nati contro o comunque al di fuori degli interessi dei teorici e degli operatori del diritto, furono il frutto di una volontà ‘popolare’ e di operazioni politiche di immediata comunicazione, non derivando da una specifica riflessione teorica. Né Ranieri Gangalandi, né Andrea Lancia né altri, a quanto ci risulta, elaborarono una trattatistica in merito alla modalità di volgarizzamento degli statuti, e non esistono manuali per la resa di questi testi. Il bilinguismo venne in fondo confinato nella mera prassi operativa e non riflesse, nella sostanza, un bilinguismo sociale. Si cercarono, a Siena come a Firenze, dei professionisti non perché cultori del diritto, bensì in ragione della loro esperienza nell’impiego delle lingue latina e volgare e nella traduzione di testi letterari, che sapessero esprimere, pur ricorrendo a un idioma ancora fluido, i principi legislativi della normativa comunale.

181 Cfr. F. Salvestrini, Su editoria e normativa statutaria in Toscana nel secolo XVI, «Quaderni Medievali», 46 (1998), pp. 101-117; Salvestrini, Erudizione storica e tradizioni normative. La stampa degli Statuti medievali toscani tra età moderna e contemporanea, in Studi in onore di Sergio Gensini cit., pp. 237-278: 238-248. La Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche in lingua italiana, I, Testi statutari e dottrinali dal 1470 al 1700, Firenze 1978 recensisce un certo numero di statuti volgarizzati a stampa già per i primi anni del Cinquecento. Un caso emblematico è costituito da Costituzioni della Patria del Friuli nel volgarizzamento di Pietro Capretto del 1484 e nell’edizione latina del 1565, edd. A. Gobessi - E. Orlando, con un saggio introduttivo di G. Zordan, Roma 1998 (Corpus Statutario delle Venezie, 14). 182 Cfr. G. Ortalli, Lo statuto tra funzione normativa e valore politico, in Gli Statuti delle città: l’esempio di Ascoli cit., pp. 13-35: 19-22.


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Mes premiers mots seront pour remercier très chaleureusement les membres du jury du prix international «Cecco d’Ascoli», son président, le professeur Antonio Rigon, comme tous les membres de l’Istituto superiore di studi medievali «Cecco d’Ascoli». C’est un très grand honneur que de recevoir aujourd’hui, accordée par mes collègues italiens, cette marque de distinction et de reconnaissance. Et pour moi qui ai consacré ma carrière d’historienne à étudier les villes d’Italie, c’est une joie particulière que de recevoir ce prix à Ascoli Piceno que je connaissais jusqu’ici seulement par le beau livre que lui a consacré Giuliano Pinto1. La découverte de cette ville vient, s’il en était besoin, me prouver encore qu’on n’a jamais fini de découvrir l’histoire des villes d’Italie. C’est donc, en manière d’hommage à cet objet historique, que j’ai choisi d’évoquer devant vous mon parcours d’historienne, un parcours d’historienne française vouée à l’étude du fait urbain médiéval et de l’Italie. A la fin des années 1970, lorsque je me décidai de me lancer dans l’aventure d’une thèse d’État consacrée à la Venise des derniers siècles du Moyen Âge, l’histoire urbaine était en France conquérante: elle affichait une belle vitalité qui visait à combler le retard de la recherche française par rapport aux traditions beaucoup plus anciennes de l’histoire urbaine dans d’autres pays à commencer par l’Allemagne et la Belgique. Dans les études universitaires, les lectures de Max Weber, et sa thèse de l’absolue singularité de la ville médiévale occidentale constituée en communauté politique, pesaient encore sur les approches. L’influence pirennienne exerçait toujours ses effets, directs ou indirects. Marc Boone a justement écrit dans un ouvrage consacré à la société urbaine des anciens Pays-Bas au bas Moyen Âge, et je le cite, qu’ «en matière d’histoire des

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G. Pinto, Ascoli Piceno, Spoleto 2013.


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villes, au début il y avait le verbe et le verbe était celui d’H. Pirenne»2. Toute leçon sur l’histoire des villes, dans la Sorbonne des années 1970, faisait donc les comptes avec les thèses de Pirenne. Le débat qui, des années durant, avait retenu l’attention et les énergies des spécialistes et qui concernait les origines de la ville médiévale, figurait en bonne place dans l’enseignement, au titre au moins de nécessaire rappel. Cette discussion entre tenants de la thèse de la continuité et défenseurs de celle de la rupture continuait donc à marquer de son empreinte la réflexion et à éclairer, d’un jour ou d’un autre, les caractères originaux de la ville médiévale. Par-delà leurs divergences, ces théories, empreintes d’une forte charge idéologique, offraient en effet une vision de l’histoire des hommes et de la «civilisation occidentale». Dans la recherche, le temps était aux grandes monographies urbaines, parues ou en voie d’achèvement. Certaines de ces études privilégiaient une approche qui n’était plus celle, prioritairement socio-économique, qui avait dominé vingt ans plus tôt. Je pense, et nous faisons retour vers les années 1950, à la thèse de Philippe Wolff sur Toulouse tout entière tournée vers l’étude du commerce et des grands marchands3 ou à celle de J. Schneider, sur Metz, attachée à décrire les activités économiques des familles dominantes4. Dans ces enquêtes, l’étude de la vie politique et administrative pouvait être privilégiée à moins que le regard ne fut plutôt porté sur le rôle et les fonctions d’une ville, dotée du statut de capitale régionale dans les derniers siècles du Moyen Âge. Mais d’autres travaux avaient en fait des ambitions différentes. Leur propos était d’embrasser, avec une volonté globalisante, la totalité de la vie sociale et avec elle l’ensemble des réalités économiques et institutionnelles. Un seul exemple suffira, celui de l’introduction de la thèse de Pierre Desportes consacrée à Reims et aux Rémois. Comment définissait-il sa démarche ? «Donner l’ordre de grandeur de la population urbaine, retrouver sa hiérarchie interne, reconstituer la cadre topographique, juridique et économique dans lequel vivaient les Rémois, tels furent les objectifs que nous nous sommes assigné avant de chercher à replacer Reims au milieu de ses campagnes, au centre de sa région et à l’intérieur du royaume»5. Certains de ces portraits de villes, composés à une ou plusieurs mains

2 M. Boone, À la recherche d’une modernité civique: la société urbaine des anciens PaysBas au bas Moyen Âge, Bruxelles 2010. 3 Ph. Wolff, Commerces et marchands de Toulouse, vers 1350-vers 1450, Paris 1954. 4 J. Schneider, La ville de Metz aux XIIIe et XIVe siècles, Nancy 1950. 5 P. Desportes, Reims et les Rémois aux XIIIe et XIVe siècles, Paris 1979.


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puisqu’il ne faut pas oublier que prospérait alors la grande entreprise d’histoires collectives des villes, témoignaient en fait d’une même espérance, ou plutôt dirions-nous aujourd’hui d’une même illusion, celle de faire ressurgir la totalité d’une histoire, de mettre au jour un ensemble de données dans le but de rejoindre l’exhaustivité. À la manière de ces biographies traditionnelles attachées à suivre la trajectoire d’une vie, à approcher et à ordonner la complexité d’une présumée individualité, le but était sur un ou deux siècles d’associer les éléments, de croiser les thématiques de l’histoire politique, économique, sociale, voire religieuse, pour construire une vision d’ensemble, une somme que l’on souhaitait complète, aboutie. Avec une menace toutefois, rarement conjurée, celle de traiter de tout, en un inventaire préétabli, à l’intérieur d’un cadre lui-même défini a priori. La menace de considérer la ville comme un réceptacle et l’histoire urbaine comme une catégorie de stockage de données… Et puis, d’autres livres existaient. De loin en loin, quelques ouvrages tentaient de dépasser la lecture monographique pour traiter du phénomène urbain et s’efforcer de rendre intelligible par delà l’ensemble des villes, «la» ville. Le propos était alors de façonner une représentation de la ville médiévale et de produire une forte dimension interprétative. D’où d’autres réflexions, plus ou moins suggestives, d’autres portraits en fait, même si ces derniers ressortaient à une volonté figurative et surtout heuristique différente de celle qui guidait les monographies d’abord évoquées. Un temps de grandes ambitions donc, mais le temps peut-être aussi de deux risques majeurs: celui de la réification holiste que pouvaient rencontrer quelques-unes de ces monographies, celui du nominalisme qui guettait les quelques ambitieuses réflexions d’ensemble… Ne tombons pas dans la reconstruction par trop lisse d’un parcours: je n’avais alors, à dire vrai, aucune conscience réelle de ces deux risques. Mais la lecture de certains des travaux que je viens de citer n’emportait pas vraiment mon adhésion. Et si je voulais tenter l’aventure de la monographie urbaine, j’avais aussi l’intuition intellectuelle, voire la conviction préétablie, que cette monographie dans tous les cas ne s’ordonnerait pas selon les schèmes établis qui régissaient le genre: d’abord mettre en place le cadre (situation et site); évoquer ensuite les hommes avant les fonctions et les activités, puis les hiérarchies socio-économiques, l’organisation du pouvoir avant que ne viennent des pages consacrées aux fêtes, aux divertissements, à la criminalité et aux marginaux, puisque ces nouvelles thématiques commençaient à s’introduire jusque dans les études de facture très classique, et je ne grossis ici qu’à peine le trait. Surtout, si je croyais à la force des structures, – la génération de médiévistes français à laquelle j’ap-


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partiens fut formée dans le culte de la thèse de P. Toubert consacrée aux structures du Latium médiéval6 –, si l’histoire, pour moi, surtout dans le cadre de la thèse d’État, ne pouvait être que totale, j’avais découvert qu’il existait d’autres manières de faire de l’histoire. Les chantiers de l’histoire de la vie privée, de l’histoire des femmes, de l’histoire de la famille étaient alors lancés. L’anthropologie historique exerçait sa puissante attraction et faisait envisager autrement les structures de la parenté et la violence, le pouvoir ou le fait religieux… Mais les travaux de l’École de Chicago étaient aussi lus. On citait alors plus volontiers E. Goffman qu’on ne le cite aujourd’hui7. Tel était le contexte. Belles années, je dirai, pour les jeunes (et les moins jeunes) historiens que ces années-là, années de séminaires passionnants, de livres phares, années où l’histoire semblait une discipline reine et où l’intérêt d’un vaste public cultivé pour les sciences humaines était manifeste. Un âge d’or en somme… Mais un âge d’or qui connut un coup d’arrêt à la fin des années 1980 lorsque parurent plusieurs livres d’épistémologie de l’histoire. Le temps des doutes était venu, certains en appelaient à un tournant critique qui ne fut pris que par quelques-uns… C’est dans ce cadre chronologique que s’est inscrit, de manière bien sûr fortuite, mon travail de thèse. Lentement entamé en 1977, il s’acheva en 1989 et il fut le temps de la rencontre avec l’Italie. L’Italie médiévale et renaissante n’est certes pas la Chine, le Bengale ou l’Indonésie. Ajoutons que la tradition française des études d’histoire italienne est aussi solide qu’ancienne. Il reste, et il y a là une chance et un défi, que travailler sur un espace étranger, même s’il appartient à la même koinè culturelle que celui où vous avez été formé, nécessite en un préalable indispensable de mettre de côté les cadres spontanés de sa réflexion, de reléguer ses acquis culturels les plus solides, pour tenter de se familiariser avec d’autres cadres réflexifs, des plus évidents, à l’exemple des manières propres à chaque tradition nationale de classer les archives et d’ordonner les fonds, aux plus subtils, aux plus complexes, aux plus souterrains… De ce choc épistémologique et herméneutique qui vous conduit à transformer les cadres de la réflexion en objet de celle-ci mais qui vous permet au bout du compte de trier entre les paradigmes et d’ouvrir votre voie, je voudrai évoquer quelques aspects. Toute recherche sur l’Italie médiévale et renaissante exige en premier 6 P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, 2 vol., Rome 1973. 7 E. Goffman, La mise en scène de la vie quotidienne, 2 vol., trad. fr., Paris 1973.


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lieu de se familiariser avec une formidable bibliographie et les diverses écoles historiques qui la produisirent. D’abord l’italienne, souvent formidablement érudite, mais de préférence étroitement liée à l’étude d’une ville, ou au mieux d’une région. L’espace italien en effet, comme si le caractère tardif de l’unité politique continuait à exercer ses effets, paraît devoir être difficilement pensé, par ses historiens nationaux, comme un tout. Les profondes spécificités inhérentes à chaque cité, à chaque région, qu’atteste une documentation, là encore foisonnante jusqu’à l’excès, ont donc alimenté, dans le champ de l’histoire politique et sociale principalement, de la part de ces historiens italiens, une remarquable tradition qui trouve plutôt à s’exprimer dans les savantes études monographiques. En outre, dans le cas de Venise, ce campanilisme scientifique s’est depuis les origines, et en liaison avec l’histoire que la République vénitienne produisit d’elle-même, affolé jusqu’à l’excès, en des travaux qui ont tous la même particularité, celle de cerner Venise comme un objet historique unique, irréductiblement différent: différent parce que cette ville exceptionnelle a été bâtie sur un site singulier, différent parce que cette ville d’origine byzantine, n’a pas suivi, du Moyen Âge aux temps modernes, l’évolution politique commune au reste de l’Italie du Nord et du Centre, différent parce que la trajectoire de Venise aurait été, dans tous les domaines de l’économie à la musique, de l’architecture aux institutions religieuses, singulière. Toute cité-état italienne se dit unique mais parmi toutes ces cités, Venise se dit, et est dite, la plus singulière. Les voix vénitiennes et étrangères, depuis les premières chroniques locales, les premiers récits de voyage ou les premiers traités consacrés à l’organisation constitutionnelle de la République, ont en effet souligné la singularité de la cité lagunaire. Le problème se posait donc, dans un travail consacré à une telle ville, de ne pas exagérer, du fait du site, de la construction de la ville sur l’eau ou des caractères des institutions, la «vénitianité» de l’étude. Je résolus en conséquence de recourir à une comparaison relativement large avec les autres situations urbaines de l’Italie du Nord et du Centre. Le but fut, en premier lieu, de montrer que Venise était une ville comme une autre, moins d’ailleurs pour réduire la singularité lagunaire que pour replacer certaines préoccupations ou réalisations dans un contexte général, dans un moment de l’histoire des villes. C’était là le seul moyen à mon sens pour que l’étude acquière une pertinence. Je parvins de la sorte, découvrant peu à peu ce qui était irréductible à la confrontation, à mieux cerner les originalités vénitiennes. Le mythe n’a donc donc jamais été considéré dans cette réflexion comme un «mythe» dont il fallait démontrer l’existence, et le fait qu’il avait fonctionné comme un écran, mais plutôt comme


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un commentaire et une explication, à comprendre et à «démonter», des réalités vénitiennes. A côté de cette tradition d’études italiennes sédimentées, il existait bien d’autres travaux puisque les Italiens ne sont assurément pas les seuls à avoir écrit sur Venise et l’Italie. Des historiens de toute nationalité ont contribué au foisonnement historiographique et parmi eux les AngloSaxons, et spécialement les Américains, sont les plus nombreux. Longtemps concentrés sur Florence pour des raisons sur lesquelles je ne reviendrai pas puisqu’elles tiennent à l’histoire même des États-Unis et à celle de la réflexion sur la «liberté» américaine8, ces historiens finirent dans les années 1970 par détenir un quasi monopole sur l’histoire de Florence – au point que quelques Italiens réagirent contre ce qu’ils nommaient une véritable «colonisation» américaine. Certains de ces chercheurs américains pratiquèrent alors une migration vers d’autres villes et en particulier Venise que jusqu’alors F. Lane, seul ou presque, avait exploré9. On le constate, au moment où je commençais mon exploration systématique des archives de Venise, le paysage historiographique était loin d’être dépeuplé. Mais la plupart des travaux avaient depuis longtemps choisi d’étudier les particularités du système institutionnel et de la vie politique10. Une autre grande question retenait l’attention et il s’agissait, on s’en doute, de l’aventure économique maritime vénitienne11 : les trafics et ce qui était alors nommé l’«empire»... Mais d’autres objets historiques commençaient à être envisagés, surtout par les historiens américains, et ces nouvelles études portaient sur le premier humanisme12, les rituels

8 E. Crouzet-Pavan, Préface à la nouvelle édition de W.K. Ferguson, La Renaissance dans la pensée historique, Paris 2009, pp. 7-27. 9 Pour quelques titres: F.C. Lane, Andrea Barbarigo merchant of Venice, Baltimore 1944; Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965; Storia di Venezia, trad. it., Torino 1978; I mercanti di Venezia, Torino 1982; Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983; The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale: Essays Presented to Wallace K. Ferguson, cur. J.G. Rowe - W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 236-274; F.C. Lane - R.C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Baltimore-London 1985; II, The Venetian Money Market: Bank, Panic and the Public Debth.1200-1500, Baltimore 1997. 10 Des inflexions se faisaient alors toutefois jour: S. Chojnackii, In Search of the Venetian Patriciate. Families and Factions in 14th century Venice, Renaissance Venice, cur. J.R. Hale, London 1973, pp. 47-90 et The Making of The Venetian Renaissance State: The Achievement of a Noble Political Consensus, Ph. D, 1968, University Microfilms International, 1985. 11 On citera bien sûr le nom de G. Luzzatto et la Storia economica di Venezia dal XI al XVI secolo, Venezia 1961. 12 M.L. King, Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominance, Princeton 1986.


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publics13, les milieux populaires14, la criminalité ou les pratiques sexuelles15… Une floraison de travaux donc et en même temps une évidence qui s’est assez vite imposée à moi. Alors que des dizaines de milliers de pages avaient été écrites dans toutes les langues sur l’histoire vénitienne, la ville – c’est-à-dire le bâti et son organisation, le lieu dans lequel les groupes, les réseaux, les activités s’organisent, le théâtre indispensable à la mise en scène des gestes quotidiens ou des pratiques exceptionnelles, le cadre où s’élaborent les systèmes de signes d’une communauté – avait toujours eu tendance à rester, comme dans les images nombreuses qui la représentent, merveilleusement suspendue entre la terre et l’eau, comme si la forma urbis avait constitué un donné neutre et invariable. Aux monuments vénitiens, des analyses stylistiques et formelles avaient bien sûr été appliquées par les historiens de l’urbanisme et de l’architecture mais avec toutes les apories qui, dans ces années, pouvaient être celles de ces disciplines, en sacrifiant souvent à l’illusion formaliste, comme si le monument ou l’édifice pouvait à lui seul exprimer sa propre vérité. Pourtant, l’histoire de Venise avait été celle d’un organisme vivant, malaisément construit et organisé, dont toutes les parties ne furent pas édifiées, habitées, embellies au même moment. Un long processus avait opéré qu’avaient impulsé de multiples et tenaces chantiers. D’où mon choix d’étudier dans ce site l’espace en mouvement dans une perspective ouverte par un certain nombre de travaux, surtout italiens, dédiés, dans une agglomération ou une autre, à l’étude de la morphologie urbaine. Toutefois, mon approche voulait également se distinguer de ces études consacrées aux formes matérielles de la ville où les hommes deviennent abstraits, la société inconsistante, le pouvoir absent. Je voulais considérer non les formes et l’esthétique d’un paysage monumental, ni même seulement les structures matérielles d’une cité donnée, mais la relation dialectique qui existe entre une société et son espace de vie. En outre, comment restituer ce qu’avait été la vie de cette communauté urbaine – la vie des hommes, la vie des lieux qu’ils aménagèrent et modifièrent – sans faire surgir un ensemble territorial plus vaste: celui des 13 14

E. Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981. D. Romano, S. Giacomo dell’Orio: Parish Life in Fourteenth-Century Venice, Ph. D., 1981, University Microfilms International, 1981 avant Patricians and Popolani. The Social foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987. 15 G. Ruggiero, The Ten: Control of Violence and Social Disorder in Trecento Venice, Ph. D, 1972, University Microfilms International, 1980; Violence in Early Renaissance Venice, New Brunswick-New Jersey 1980 et The Boundaries of Eros. Sex Crime and Sexuality in Renaissance Venice, Oxford 1985.


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lagunes? Les Vénitiens ne tranchaient pas dans les liens qui unissent les espaces bâtis aux eaux qui les entourent. Ils savaient en effet que la survie de leur société dépendait étroitement de ce milieu naturel dont il fallait retracer l’histoire, puisqu’elle n’avait pas été, elle non plus, immobile. Or l’eau, l’environnement et ses contraintes avaient été ignorés par les histoires de Venise. Des monographies avaient été traditionnellement consacrées à la géographie des lagunes. Mais elles constituaient un secteur particulier, œuvre en général de géographes ou d’ingénieurs, et dont les apports éventuels n’étaient pas intégrés dans une réflexion d’ensemble. Les particularités du site, celles de la situation d’une ville bâtie à la frontière entre deux mondes, sur une façade maritime active, étaient bien sûr comptées parmi les paramètres qui pouvaient expliquer les succès commerciaux vénitiens. Le décor des lagunes était planté par les études qui rappelaient les commencements du peuplement, l’installation des hommes sur les îles et les cordons littoraux et l’exploitation des quelques ressources locales. Mais, dès que commençait l’irrésistible croissance de RialtoVenise, ce processus tendait à capter seul l’attention historique. Et l’eau, domestiquée, élément du merveilleux décor vénitien, n’était plus évoquée par les analyses historiques que dans leurs descriptions de l’esthétique et de la théâtralité urbaines ou leurs méditations sur la magie vénitienne. Les lagunes avaient été de ce fait précipitées dans l’oubli. Vidées de leurs hommes et de leurs activités au bénéfice de la cité-capitale, elles avaient été aussi privées d’histoire. En somme, les historiens avaient écrit une histoire urbaine sans pierres ni structures matérielles, les historiens de l’art avaient déchiffré le langage architectural des principaux monuments tandis que l’étude de l’environnement avait été laissée à quelques spécialistes de l’hydraulique. J’entrepris donc d’écrire l’histoire de la construction d’un espace urbain et de sa morphologie évolutive, d’examiner les réponses techniques, sociales et politiques apportées au défi des contraintes liées au milieu. D’où le choix assumé de découvrir le temps dans l’espace, celui d’une cité qui se forme, grandit et s’embellit au milieu des eaux et des marais. D’où tout un volet de ma recherche attaché à faire surgir une histoire de longue durée, celle de la création d’une agglomération là où s’étendaient des surfaces humides e e et fragiles et des terres insalubres. La séquence qui va du XIII au XV siècle fut toutefois privilégiée: elle est en effet celle durant laquelle l’agglomération, malgré les crises, prend sa forme presque définitive. La Vue Perspective de Jacopo de Barbari, exécutée en 1500, en témoigne qui montre avec une saisissante précision une Venise dont l’extension est proche de sa configuration actuelle ainsi qu’une trame urbaine serrée.


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Si l’on excepte quelques affleurements rocheux, certains îlots plus solides, où les communautés s’installèrent d’abord, pour y construire leurs maisons et leurs églises, le sol même à Venise n’existait pas. Sans site antique préexistant, sans héritage planimétrique aucun, la trame urbaine se constitua à partir de plusieurs pivots de croissance: les rares terres qui étaient émergées. Et, peu à peu, cette trame se resserra, à mesure que la ville en mouvement conquit son espace et que le territoire de chacun des îlots fut asséché, organisé, loti. Les rapports de la terre et des eaux furent, de ce fait, sans cesse modifiés. L’expansion urbaine supposa, en une première et indispensable étape, de créer le sol avant de bâtir. Il en résulta une série d’avancées et de conquêtes sur la lagune et les étangs intérieurs, une vague d’assèchements, de drainages, de bonifications, de palifications. Cette vague, qui calque l’histoire du peuplement, enfla au cours des siècles jusqu’à devenir une formidable entreprise qui multiplia les lieux de l’implantation et fit naître des îles à la place de l’eau. Quant au réseau des canaux, si l’on excepte l’axe du Grand Canal qui donne sa forme générale à l’agglomération, et la large voie d’eau de la Giudecca, il ne constitua pas davantage un élément stable du paysage, semblable à ce que serait un fleuve dans d’autres sites. Bien des canaux furent asséchés, d’autres furent ouverts dans les zones de drainage; l’ensemble du système fut avec constance remodelé. La construction, au cœur des lagunes, d’une des plus grandes agglomérations de l’Occident médiéval exigea des travaux continus, des efforts cumulés et des techniques imaginatives. Le milieu multipliait les difficultés et la liste est longue des opérations que ce site, particulièrement impropre, chargea d’obstacles. Pourtant, l’homme apprit à vivre dans l’eau, avec l’eau. Il fallait donc mettre également au jour les acteurs de cette entreprise collective. Au premier rang d’entre eux, dans les siècles qui retenaient mon attention, l’autorité publique se manifestait et tous les volets de la politique qui avait été menée, avec ses rythmes, ses temps de pause et d’accélération, devaient être restitués. À l’Archivio di Stato di Venezia, j’avais empiriquement commencé mes dépouillements par les séries des sources publiques: registres des Délibérations du Grand Conseil, Grâces du Grand Conseil, Délibérations du Sénat (Misti et Terra), du Collegio, du Conseil des Dix, avant d’entreprendre les investigations dans les fonds des diverses et nombreuses magistratures publiques, administratives, judiciaires, financières… Nul doute que ma recherche ait été en conséquence d’abord influencée par cette rencontre avec l’énorme masse des archives publiques vénitiennes. Mais, subissant les effets de ce qui avait été l’histoire même de la conservation et de l’organisation des archives de la République, elle subissait


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aussi et surtout les conséquences de ce qu’avait été le système politique vénitien. Je compris donc assez vite, même si l’on travaillait beaucoup moins dans ces années qu’aujourd’hui sur les conditions de la production documentaire, qu’un risque pouvait poindre: celui de réduire l’histoire de Venise en train de se construire à celle de l’action victorieuse de l’autorité publique pour faire vivre une agglomération de plus de 100 000 habitants au milieu des lagunes. Oui, l’autorité publique était présente, présente pour impulser les chantiers de la bonification ou ceux de l’approvisionnement en eau, présente pour réguler le marché des biens immobiliers ou trancher dans les conflits de voisinage, présente pour tenter de maîtriser les équilibres instables de l’écosystème lagunaire, présente pour statuer sur la production des fours à brique, décider du réemploi des gravats, exproprier, organiser les marchés publics et le financement des travaux, présente pour rectifier le tracé des rues, faire construire des quais et des ponts, curer les canaux, délivrer de premiers brevets d’invention pour des dragues ou d’autres machines hydrauliques, présente dans toutes les sphères de l’intervention, dans les grandes et les petites choses … Il importait toutefois ne pas céder à la fascination des historiens de Venise pour le pouvoir et tomber dans ce piège que les sources tendaient, du fait des caractères de la documentation conservée. Cette remarque, il y a plus de décennies, sentait un peu le souffre et certains des historiens vénitiens ne me la pardonnèrent pas. Elle est aujourd’hui devenue banale, reprise qu’elle a été dans bien des travaux. Dans leur richesse formidable, mais très déséquilibrée selon les séries, les archives vénitiennes conduisent en effet à ce que le regard se focalise sur l’action publique. Par dizaines, des registres de délibérations issus des conseils et des assemblées de la république, par dizaines encore, des registres et des cahiers documentant l’action administrative ou judiciaire des nombreuses magistratures en charge de la ville et de la lagune… Les folios se comptent donc par dizaines de milliers et leur lecture, jamais finie, entraîne naturellement ou presque à surévaluer le poids des interventions de la puissance publique, les marques du pouvoir dans l’espace. Pour obvier à ce risque, une seule solution s’offrait. Il était nécessaire de s’immerger dans les archives, de dépouiller encore pour croiser les sources et adopter un seul parti pris, celui de n’avoir aucun parti pris documentaire. Lire les testaments moins pour étudier les dévotions que les pratiques sociales, dépouiller les archives judicaires non pour découvrir la criminalité et le fonctionnement du système judiciaire mais pour faire resurgir, au creux des dépositions tese timoniales, les représentations que les Vénitiens du XIV sièce nourrissaient à l’égard de leurs espaces de vie, consulter certaines séries, jamais


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alors ouvertes depuis leur classement par un archiviste au XIXe siècle, à l’exemple de celles des podestats des communautés de la lagune ou des magistratures en charge de certaines juridictions civiles… D’autres centaines de parchemins, d’autres milliers de folios où j’ai fini par trouver le plus rare, la parole des hommes et des femmes du temps sur la ville, les traces de ce qu’avait pu être leur rapport à l’espace de la rue, du quartier, du marché, de la ville, leurs expériences et leurs mots. De quoi se déprendre, peu à peu, au fil des jours à l’Archivio di Stato des évidences et de la vision traditionnelle … Cette traque documentaire, menée des années durant, m’a seule permis de réaliser mon projet qui était d’appréhender le développement de la ville médiévale conçu comme un enjeu social et politique où se noue l’essentiel des rapports entre les divers membres de la communauté sociale, les groupes familiaux, professionnels, religieux, «ethniques», comme entre cette formation sociale et l’autorité publique. Si aucun postulat méthodologique ou historiographique n’avait au départ orienté la mise en œuvre de cette étude, si plus intuitivement qu’intellectuellement, il m’avait semblé dès l’abord, entamant une recherche d’histoire urbaine, que le «contenant» l’espace était aussi important que le «contenu» et surtout qu’il n’y avait ni contenant ni contenu, cette intuition s’est peu à peu imposée comme une évidence que des lectures, comme celles de M. Halwbachs16 et d’H. Lefebvre17, sont venues renforcer. L’espace façonné par le groupe doit bien sûr être examiné comme une donnée que transforment les chantiers et les aménagements. Mais son intérêt historique ne s’épuise pas avec cette reconstitution. Les relations des hommes modèlent autant l’espace que la disposition du parcellaire ou l’organisation du bâti. Le sol urbain n’est donc pas que le lieu où se déploient les politiques urbanistiques et où sont mis en place les espaces et les infrastructures du public. Mais il ne peut être non plus conçu seulement comme l’objet des affrontements et des stratégies contradictoires des factions, des partis, des familles. S’il connaît, et particulièrement durant les siècles parmi plus féconds de l’histoire des villes italiennes, des modifications essentielles, son histoire ne se réduit pas au cours de cette évolution, à la somme des adaptations d’une collectivité à un milieu, d’une société aux transformations de ses structures. En somme, il ne suffit pas d’unir les deux tendances contradictoires qui régissent en général la manière de faire de l’histoire urbaine, associer le courant attentif à référer l’espace construit aux structures socioécono16 17

M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Paris 1952. H. Lefebvre, La production de l’espace, Paris 1974.


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miques de telle ou telle formation sociale à la tendance qui recherche plutôt dans la ville les traces des politiques urbaines. Il ne suffit pas de combiner l’étude des structures urbaines et des politiques urbaines pour percevoir comment l’espace est produit. Il faut encore y associer l’étude de l’imaginaire de la ville, de cet ensemble de représentations que la cité produit d’elle-même non seulement pour saisir l’image que la communauté choisit de projeter mais encore pour comprendre, selon une procédure de fashionning, comment cette image put aussi peser sur la communauté, déterminer des comportements et des choix politiques, expliquer des habitus. Comme il faut encore concevoir que les acteurs sociaux dans leur diversité, enserrés dans des communautés et des réseaux variés, la famille, la paroisse, le métier, actifs au sein de solidarités diverses que soudent la proximité, l’âge ou le sexe, isolés aussi parfois, ouvrent des parcours, délimitent des territoires. Ils construisent de cette manière l’espace urbain, inventent des cultures et des images de la ville en utilisant ce que H. Lefebvre nomme l’espace dominant, mais parfois aussi en s’y s’opposant. De la Venise triomphante, imposant son ordre monumental place SaintMarc, aux cultures concurrentes, à la conflictualité de l’espace révélée dans quelques interstices de la documentation, j’ai donc tenté d’appréhender, au sein de cet organisme urbain, pour la période des derniers siècles du Moyen Âge toutes les modalités de production de l’espace. Cette longue fréquentation des pierres, des hommes et des imaginaires de la Venise médiévale m’a en fait conduite à mener ensuite quatre ou cinq chantiers principaux. Le premier allait en quelque sorte de soi. Il consistait, naturellement ou presque, à Venise ou dans d’autres villes d’Italie, à poursuivre d’un article à l’autre l’enquête sur les territoires urbains, les espaces sociaux, les images et imaginaires de la ville et, à ce chantier, je travaille toujours18. Un deuxième chantier s’est en revanche imposé comme une réponse directe à ma longue recherche sur Venise. J’avais écrit l’histoire de la Venise triomphante devenue la capitale d’un empire maritime et d’un état territorial. Je choisis, et l’idée était de rétablir un équilibre en construisant une sorte de diptyque, de retracer cette fois l’histoire d’une Venise qui n’avait pas été, l’histoire d’une cité disparue, celle de Torcello et des petites communautés du nord de la lagune19. Très délibérément, cette Villes vivantes. Italie. XIIIe-XVe siècle, Paris 2009, trad. it.: Le città viventi. Italia XIII-XV secolo, Siena 2014. 19 La mort lente de Torcello. Histoire d’une cité disparue, Paris 1995; trad. it.: Torcello. Storia di una città scomparsa, Roma 2001. 18


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enquête, qui a donné lieu à un livre, menée dans des archives qui avaient été totalement ignorées, et qui depuis ont commencé à être un peu explorées, s’est voulue une sorte de pied de nez historiographique. L’écriture de l’histoire vénitienne a longtemps subi en effet le poids du modèle historiographique qui fut construit par les Vénitiens eux-mêmes. C’est dire qu’elle a eu, dans ses déterminations comme dans ses implications, une dimension politique. Dans ce cadre, qui a été celui, je l’ai dit, de l’exaltation d’une singularité providentielle, le discours historique, élaboré par les chroniqueurs médiévaux avant d’être codifié par les historiographes officiels, a bénéficié en outre d’une formidable longévité. Les relais qu’ont constitué à travers l’Europe moderne les théoriciens politiques s’interrogeant sur la durée politique de la République ont en effet renforcé ce modèle historiographique étouffant, cette image d’une perfection politique et d’une harmonie sociale inégalée tranchant sur les convulsions répétées des autres organismes étatiques de l’Italie. Or, si ce modèle est aujourd’hui heureusement remis en cause, il n’en continue pas moins à peser d’une certaine façon sur l’analyse historique. Si nombre de travaux depuis quelques décennies s’attachent à montrer que le « mythe » politique de Venise fut bien un mythe et s’ils tentent de retrouver une « vérité » politique ou sociale de l’histoire de Venise en mettant au jour les failles et les dysfonctionnements du système politique et social, il reste que dans ces réécritures mêmes qu’il provoque, le modèle conditionne toujours en partie l’analyse. L’histoire de Venise demeure aujourd’hui, par ce travail même de réaction, liée aux sujets et aux thèmes du discours historique vénitien traditionnel. Le mythe de Venise, même déconstruit, continue en quelque sorte à produire du mythe. D’où le parti qui a été le mien de me placer en dehors de ces cadres imposés de la réflexion. Puisque la centralité triomphante de Venise avait jeté dans l’ombre le reste des lagunes, mon projet fut de faire ressurgir une histoire sans histoire, celle de ce monde disparu du nord de la lagune, une histoire sans quasiment de traces matérielles, si ce n’est le complexe de la basilique de Torcello. Le temps et le milieu avaient été ici destructeurs au point que, précisément, le monde de Torcello avait été comme englouti. L’eau et les marécages avaient rongé la plupart des sites. Quant à l’histoire, elle avait aussi englouti ce monde dans l’oubli. En somme, au moyen de documents rongés par l’humidité et portant en eux-mêmes le travail destructeur du temps, j’ai choisi de faire ressurgir l’antithèse absolue de l’histoire de Venise, une histoire passionnante puisqu’elle faisait revivre des petites villes disparues, des communautés humaines fantômes et avec elles la construction d’un oubli.


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Trois essais de synthèse sont ensuite venus. Le premier a été consacré à l’histoire de Venise au Moyen Age20. L’heure me semblait être venue d’une manière de point d’aboutissement, d’un livre dans lequel j’ai tenté d’intégrer les apports de mon travail personnel mais aussi de la recherche récente et où j’ai rompu avec la trame d’un récit classique qui partage l’histoire en séquences chronologiques successives pour pratiquer une inversion dans l’ordre historiographique de fonctionnement des catégories et donner le primat à l’espace, aux jeux des espaces imbriqués qui avaient produit, à mon sens, l’histoire vénitienne : la ville, la mer, la Terre Ferme… Les deux autres essais ont eu l’Italie pour cadre et l’idée que l’on pouvait construire autrement le récit du passé médiéval de l’Italie explique leur conception. Dès mes premiers contacts avec l’histoire de l’entité vénitienne, j’avais eu la certitude que j’obtiendrai plus de résultats à multiplier les points de vue comparatistes, à tenter d’identifier les traits et les problèmes communs aux autres villes de l’Italie médiévale et seigneuriale, à aérer en somme la réflexion, qu’à rester installée dans ma lagune. Contre les prédicats d’une historiographie dominante, il m’était apparu que l’histoire des différentes cités-états gagnait à être mise en parallèle. J’avais acquis par ailleurs au fil du temps le conviction qu’il peut y avoir une voie entre la recherche pointue et la compilation, que la réflexion d’ensemble n’est pas inéluctablement superficielle, que le discours historique a aussi pour fonction, par la mise en perspective des problèmes et l’articulation d’informations nombreuses, de produire une lecture globalisante. Sont ainsi nés deux ouvrages, l’un centré sur un long XIIIe siècle, le temps par excellence du dynamisme et des inventions italiennes21, le deuxième sur les Renaissances du XVe siècle en faisant le choix dans les deux cas de recourir à des jeux d’échelles, et d’inclure dans une structure globale des analyses plus resserrées réservées à un acteur, à un moment, à un tableau, un paysage urbain, un monument… Et c’est ce dernier livre qui est dans sa traduction italienne aujourd’hui distingué22. On le voit, jusqu’à la ville des villes, Jérusalem, finalement abordée dans un dernier ouvrage qui se veut surtout une réflexion sur l’histoire et

20 Venise Triomphante. Les Horizons d’un mythe, Paris 1999 (2003); trad. it.: Venezia trionfante. Gli orizzonti di un mito, Torino 2001. 21 Enfers et Paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, Paris 2001 (2004); trad. it.: Inferni e Paradisi. L’Italia di Dante e di Giotto, Roma 2007. 22 Renaissances italiennes, Paris 2007 (2013); trad. it.: Rinascimenti italiani. 1380-1500, Roma 2012.


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la manière de l’écrire23, beaucoup de villes dans ce parcours, la ville comme objet historique parce que cet objet historique, en Italie particulièrement, permet, selon moi, mieux sans doute que d’autres de réfléchir à la vision du passé proposée, au récit «national» progressivement bâti, à la construction de la mémoire et à celle de l’oubli, la ville parce que cet objet historique peut ainsi consentir à l’historien d’affirmer son utilité sociale et de dire, contre Bossuet, qu’il ne faut pas laisser le passé à l’oubli et l’avenir à la Providence.

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Le mystère des rois de Jérusalem. 1099-1187, Paris 2013.


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INDICI

a cura di Veronica Vestri


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Le fonti archivistiche e codicologiche sono indicizzate, in ordine alfabetico, sotto la città in cui ha sede l’istituzione che le conserva (es. “FIRENZE, Archivio di Stato, Arte della Lana, 103-124”). Le diverse istituzioni presenti sotto ogni città sono indicizzate anch’esse in ordine alfabetico e, sempre in ordine alfabetico, compaiono le singole voci all’interno di ogni istituzione. Nel caso in cui la fonte compare solo nelle note e non nel corpo principale del testo, a fianco del numero della pagina è segnata una “n”. I nomi di persona sono indicizzati di preferenza in base al cognome del personaggio; ciò vale pure nei casi di nomi di famiglie o riconosciute dinastie derivanti da toponimi (es. “Este (d’) Meliaduse”). I santi, i beati, i sovrani/imperatori (es. “Carlo II, imperatore, detto il Calvo”) e gli individui designati attraverso un generico riferimento di parentela (es. “Benedetto di maestro Bartolomeo”) o per mezzo del toponimo d’origine, quando non appartenenti a particolari casati (es. “Alberto da Sarteano”), sono invece indicizzati sotto il nome proprio. Si è cercato inoltre di segnalare tutte le diciture sotto le quali ciascun personaggio compare nel testo, rinviando poi alla voce corrispondente. Nel caso in cui un antroponimo compare solo nelle note e non nel corpo principale del testo, a fianco del numero di pagina è indicata una “n” (“nn” se compare in più note nella stessa pagina). Il nome proprio degli autori moderni è indicato con l’iniziale puntata. I nomi di luoghi o di istituzioni che si trovano in città o paesi sono indicizzati come sottovoci della località in questione (es. “Convento della Santissima Annunziata” sotto “Firenze”). Quando il toponimo compare solo nelle note e non nel corpo principale del testo, a fianco del numero di pagina è segnata una “n”.


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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI


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CITTÀ DEL VATICANO Biblioteca Apostolica Vaticana cod. Vat. lat. 957, c. 172r, @@ 187n cod. Borghesi 24, c. 211v, @@ 187n

FIRENZE

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Archivio di Stato Balie, 1, ff. 95v-96r, @ 289n Carte Del Bene, – 33, @ 150n – 48, @ 150n – 49, @ 150n – 71, @ 150n – 72, @ 150n Carte di Corredo, 58, @ 231n Carte Strozziane, serie II, 16bis, @ 157n Catasto – 25, c. 219, @ 157n – 48, c. 567r, @ 159n – 49, c. 717r, @ 159n – 344, cc. 93-94, @ 157n – 430, c. 66r, @ 157n Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 2037, cc. 174v, 264r, 313, 315, 351v, 352r-v, @ 105, 117-118nn Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 132, 484, cc. 27v, 94v, 98r, 99v, 112r, @ 156-157n Estimo, 41, f. 20v, @ 289n Ferrantini, Pergamene, 74, @ 150n Giudice degli Appelli e Nullità, 80, cc. 151-152, @ 156n Lettere varie, 10, c. 88, @ 150n Mediceo avanti il Principato, XVI, 324; XXIII, 30, @ 159n Mercanzia, – 317, c. 108r, @ 160n – 7247, @ 160n – 11918, @ 156n Notarile antecosimiano, – 5233, c. 159r-v, @ 158n – 15021, f. 22v, @ 290n – 15115, @ 156n – 15420, c. 165r, cc. 172v, 173v-174r, @ 150n – 19628, c. 85r, @ 158n Podestà, 702, ff. 54v-55r, @ 289n


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Provvisioni, Registri – 27, f. 1v, @ 295n – 33, ff. 90r, 92r, @ 288n – 37, ff. 59r, 66r, @ 288n – 38, f. 196r-v, @ 285n – 39, f. 1r, @ 295n – 42, ff. 156v-157r, @ 287n – 43, f. 143v; ff. 144v-145r, 148r, @ 290n – 130, ff. 344r-v, @ 156n Statuti del Comune di Firenze – 10, @ 291n – 13, @ 290n – 19, @ 290n Statuti delle Comunità autonome e soggette – 79, @ 254n – 92, @ 254n – 173, @ 254n – 232, @ 254n – 240, @ 254n – 275, @ 254n – 357, @ 254n – 498-499, @ 254n – 506, @ 254n – 684, @ 254n – 805, @ 254n – 816, @ 254n – 850, @ 254n – 856, @ 254n – 795, @ 254n Tratte, 743, f. 30v, @ 290n

Biblioteca Nazionale Centrale II, I, 138, @ 154n Conv. Soppr. B. 8. 1637, c. 137r-v, @ 192n Conv. Soppr. D I 937, c. 240r, @ 185n Conv. Soppr. J II 40, c. 1r, @ 189n Nuovi Acquisti 1408, @ 196n Biblioteca Medicea Laurenziana Conv. Soppr. cod. 548, c. 107vb, @ 190n Biblioteca Riccardiana 1301, c. 116r,@ 196n


INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI

329

HEIDELBERG Biblioteca Palatina cod. Palat. Lat. 1789, @ 87n Biblioteca universitaria Pal. Germ. 657, @ 84n MODENA

NAPOLI

IS IM

Biblioteca Nazionale cod. VIII A 21, c. 45r, @ 191n

E

Biblioteca Estense H.5.20, @ 82n

PAVIA

Biblioteca Universitaria Aldini 564, c. 90rb, @ 189n PERUGIA

Archivio di Stato Archivio storico comunale, Statuti, 3, 4, @ 283n

Convento di S. Domenico cod. 477, @ 191n SIENA

Archivio di Stato Consiglio Generale, 109, f. 130r-v, @ 294n Biblioteca Comunale degli Intronati C.III.2, @ 133n X.VI.2, @ 235n


330

INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI

SIVIGLIA Biblioteca Colombina 7.3.18, @ 84n TODI

IS IM

E

Archivio storico del comune Riformanze, 9, f. 44r-v, @ 294n


E

IS IM

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO


E

IS IM


Alighieri, Dante, 5, 16-17, 25, 29-30, 32, 43 e n, 45 e n, 268n, 282 e n Alpago, Andrea, 69 Alpi, 171 - Giulie, 169, 173 Amadori, S., 205n Amelung, P., 150n Anãiæ, M., 172n Ancona, 229 e n, 233 Andalusia, 176 Anderson, R., 192n Andrea d’Ungheria, 46n Andrea di Francesco da Calcinaia, 261n Andronico II Paleologo, imperatore, 168 Angelo di Porta Sole, vescovo di Grosseto, 191, 192n Angiò, famiglia, 168-169 - Carlo (d’), re di Sicilia, 168 Angiolini, E., 254n Anglade, J., 31n Anselmi, G.M., 205n Anselmi, S., 9n Antivari, 166, 170-172 Antonio da Padova, santo, 201 Antonio di Francesco, 155n Anversa, 108,121, 123, 143 Aquileia, 82, 167 Aquisgrana, 154, 165, 172 Arbasino, A., 35 Arbe, 170, 172-173, 175 Arendt, H., 47 e n Arezzo, 160n, 255 Aristotele, 220-221 Arizaleta, A., 23n Arnaldi, G., 170n, 279n Arpad, famiglia, 166 Arrigo da Colonia, 157 Arrigo da Settimello, 205n Arrigo di Cristiano dalla Magna, 156 Arrigo di Piero, 154 Artale, E., 253n Artizzu, F., 259n Arzachel v. Al-Zarqali Asburgo, famiglia, 163, 169-171, 173 - Alberto III, duca d’Austria, 170

IS IM

E

Abbondanza, R., 281n, 283-284 e n Acciaiuoli, Bernardo, 118 Adam von Rodueil, v. Burkardt, Adamo Adamo de Rodvila, v. Burkardt, Adamo Adamo di Rottweil, v. Burkardt, Adamo Adams, J.N., 32n Adelardo, santo, 20, 22 Adenet Le Roi, 25n Adige, fiume, 10 Adriatico, mare, 8, 9n, 163-173, 176-178 Affaitati, Giancarlo, 116 Africa, 69, 13 Agli (degli), Ugolotto, 119 Agobardo di Lione, 35 e n. Agostini, F., 281n Agostino di Ippona, santo, 16, 185 Al-Qaysï, Muhammad, 66 Al-Zarqali, 57n Alacevic, G., 257n Albania, 165-169, 171 Albert von Stade, 30 Alberti, Leon Battista, 95 e n Albertino da Verona, 190 e n Alberto da Sarteano, 227-229 e nn, 230n, 232, 234n Alberto III d’Asburgo v. Asburgo Alberto IV, conte di Goriza e di Istria, 169-170 Alberzoni, M.P., 185n Albizzesi, Bernardino, santo, 57, 92n, 135n, 199 e n, 200n, 201, 202n, 203 e n, 204 e n, 206 e n, 207 e n Albornoz, Egidio, 263 Albumasar, v. Ibn Abû ma‘shar Ja‘far Alcamo, 256, 258 Alchabitius v. Ibn ‘Othmán al-Qabïöï, Abd al-‘Azïz Alcuino, 37 e n, 38, 48 Alessandria d’Egitto, 122, 123n, 232n Alessandro IV, papa, 61, 215 Alessio, 170 Alfonso X, re di Castiglia e di León, 30, 123 Alfonso XI, re di Castiglia e di León, 123 Alfraganus, v. Ibn Muìammad ibn Kathïr al-Farghánï, Abû al-‘Abbás Aìmad


334

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Banfi, E., 164n Banja, 171 Banniard, M., 17-18nn, 19 e n, 20n, 30n Barbari, Jacopo (de’), 314 Barbaro, Ermolao, 227n Barbaro, Francesco, 227 e n Barcellona, 116,120 Bari, 166 Barlucchi, A., 263n Barquq, sultano d’Egitto, 56, 238, 246 Barthélemy, D., 236n Bartoli Langeli, A., 271-272nn, 274n, 275 e n, 277n, 280-282nn, 284 e n Bartolini, famiglia, 118 Bartolomeo da San Concordio, 92n Barzanti, R., 268n Basilea, 117,120 Basilio II, detto Bulgaroctono, imperatore d’Oriente, 172 Bataillon, L.J., 186n Battistini, M., 152n Bäuml, F., 60n Bausi, F., 68n Baviera, 159, 165 Beck, H.G., 9n Becker, J., 45n Becket, Thomas, 28 Beda, 60n Beihammer, A.D., 122n Belgio, 307 Bellandi, Simone, 120 e n Bellini, Giovanni, 88n Bellomo, S., 289n Ben-Aryeh Debby, N., 196n Benali, Bernardino, 97 Benci, Giovanni, 115 Benedetto da Norcia, santo, 49 Benedetto di Colombo, 196 Benedetto di maestro Bartolomeo, 199 Benedetto XVI, papa, 35 Bengala, 310 Benini, Giuliano di Nofri, 156, 157n Benini, Nofri, 156 Benvenuto da Imola, 189 Berardini, V., 207n Berengario I, imperatore, 30, 37

IS IM

E

- Federico III, imperatore, 157n Ascheri, M., 6n, 265-266nn, 268-274nn, 275 e n, 276n-277n, 286n, 296n Ascoli Piceno, 139, 260n, 300-301, 307 - Chiesa di sant’Agostino, 152 Asia, 122,128 e n, 129 - minore, 176 Asor Rosa, A., 30n Augusta, 120-121, 125 Aurana, 170 Austria, 160 Auzzas, G., 205n Avalle, d’Arco Silvio, 21n Averroe v. Ibn Rushd, Abû l-Walïd Muìammad Avicenna v. Ibn Sïná Aymon de Varennes, 28 Azario, Pietro, 150 e n Azzetta, L., 260n, 287-288nn, 289 e n, 290n Azzone, giurista e glossatore, 189

Baboniæ, famiglia, 169 Bacchelli, F., 68n Bacone, Ruggero, 27, 66, 213-214 e n, 216 Baddeley, S., 11n Bader, H., 32n Baffetti, G., 188n, 199n, 205n Balard, M., 170n Balcani, 167, 169 Baldassarri, G., 194n Baldasseroni, F., 286n Baldelli, I., 191n, 267n, 281n Balducci Pegolotti, Francesco, 111 e n, 128 e n Bale, Robert, 124n Balestracci, D., 271-272nn Balsa, famiglia, 171 Baltico, mare, 110 Baluze, S., 234n Bambi, F., 251-252nn, 260n, 266 e n, 267-268nn, 273n, 283n, 287n, 289 e n, 290n, 291-292 e nn Banchi, L., 258n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Boone, M., 307, 308n Borgia, Stefano, 70 Borgo San Lorenzo, 254n Borgo San Sepolcro, 259 Borgogna, 115n Bori, P.C., 68n Borrelli, G., 233n Borso d’Este v. Este Borst, A., 26n, 31n Boschetto, L., 296n Bosetti, G., 163n Bosnia, 169, 171-172 Bossellmann-Cyran, K., 153n Bossuet, Jaques-Benigne, 321 Bottin, J., 121n, 123n Bouhaïk-Gironés, M., 207n Bourgain, P., 66n Bowsky, W., 268n Boyer, Ch., 198n Brabante, 136 Bracciolini, Poggio, 232n Braich, famiglia, 173 Braidi, V., 285n Brambilla Ageno, F., 205n Branca, V., 188n Brancacci, Felice, 232 Brankoviæ, Djuradj, 171 Bratuliæ, J., 174n Braunmüller, K., 106n Braunstein, Ph., 8n, 10n, 111n, 114n, 119n Brazza, 170 Bremond, Cl., 206n Bresc, H., 256n Breschi, G., 260n Brescia, 170 Bribir, 167, 169, Bridges, J.H., 214n Brigoldo di Giovanni della Magna, 159 en Brogini, P., 268n Brooke, C.N.L., 36n Brubaker, R., 164n Bruges, 115-116, 124, 130 Brugnolo, F., 5n, 15n, 189n Bruni, F., 31n, 178n, 281n

IS IM

E

Bergamo, 170 Bériou, N., 188-189nn, 191n, 195n, 202n, 215 e n Berlaymont, Noel, 143 Berlioz, J., 198n, 202n, 204n, 206n Bernardini, M., 233n, 237n, Bernardino da Siena, santo v. Albizzesi, Bernardino Bernardo di Settimania, 50-51 Berschin, W., 39n Bersuire, Pierre, 219-220 Bertini, F., 39n Bertoletti, N., 92n Bertrand de Deaulx, 264 Bertrand, O., 220n Besta, E., 8n Beyruth, 228, 232n Bianciardi, P., 281n Bibbiena, 254n Bindo del Viva, 274 Bingen, N., 11n Birocchi, I., 256n Bisanzio v. Costantinopoli Bischoff, B., 44n, 110n, 112n, 129n Biscione, G., 261n, 288n, 290n, 291 e n Bistoni, M.G., 199n Bizzarri, H., 190n Blomquist, Th. W., 276n Bobzin, H., 67n Boccaccio, Giovanni, 115, 205n, 289 Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino, 28 Bologna, 95, 97, 149, 187 e n, 190, 258n, 269n, 285n, 296n Bologna, C., 59n, 203n, 207n Bolzoni, L., 201n Bonacini, P., 296n Bonaini, F., 259n, 263n Bonaventura da Bagnoregio, santo, 201 Bonfante, G., 175n Bongi, S., 293 e n Böninger, L., 10n, 112n, 150-152nn, 154n, 157n, 159-160nn Bonsi, Niccolò, 125 Bonsi, Piero, 118 Bontempelli, M., 202 e n

335


336

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Caprioli, S., 281n Cardinali, C., 281n Cardini, F., 7n, 228-229nn, 231-232nn, 265n Cardona, G. R., 38, 59n, 129n Carletti, Francesco, 105 e n, 117n, 118 en Carlo d’Angiò v. Angiò Carlo II, imperatore, detto il Calvo, 20 e n, 36-37 Carlo IV di Boemia, v. Carlo IV di Lussemburgo, imperatore Carlo IV di Lussemburgo, imperatore, 31, 286 Carlo Magno, imperatore, 50,165 Carlo V detto il saggio, re di Francia, 219-220 Carniola, 164 Carreras i Goicoechea, M., 96n Carso, 168, 170, 173 Cartolari, Girolamo, 283n Casella, Ludovico, 58 Cassuto, U., 245n Castelfranco di Sopra, 254n Castellani, A., 253n, 259n Castriota, famiglia, 171 Castro, A., 15n Castua, castello, 170 Catalogna, 62n, 96, 114, 128n, 129 Catoni, G., 268n, 272n Cattaro, 170-173, 175 Cavalca, Domenico, 197, 205n Cavalcanti, Carlo, 115 Cavallo, G., 59n Cecchi, E., 17n, 26n Cecchini, E., 45n Cecconi, G., 228n Cella, R., 107n, 114n Cenci, C., 190-191nn Cengarle, F., 266n Cerroni, M., 289n Cerulli, E., 228n, 230 e n, 231n Cesario di Heisterbach, 45-46 e n Cessi, R., 170n, 278n Cetina, fiume, 169 Champagne, 110

IS IM

E

Bruni, Leonardo, 235n Bruni, T., 113n, 136n, 141n Bruni Bettarini, A., 281n Budak, N., 165-166nn Budrovich, A., 175n Budua, 170 Bueri, Gherardo, 117, 125 Buie, 178 Bulgaria, 169 Bumke, J., 31n Buonarroti, Giansimone, 116 Burgos, 121 Burkardt, Adamo, 91, 94, 96-97, 113n Burke, P., 55n, 106n, 108n Burkhardt, A., 32n Burman, T.E., 64-65nn Burns, R.I, 63n Bury, E., 17n Busa, Roberto 31 Busby, K., 7n Buti, G., 121n Cabanes, P., 163n Caffa, 56 Caferro, W., 150n Caggese, R., 285n Cagliari, 256 e n, 259 Cairo, 228-229, 232 Calabresi, I., 267n Calamai, A., 7n Calatafimi, 256 Calcidica, penisola, 169 Calicut, 128 Caliò, T., 201n Caltagirone, 256 Calzona, A., 267n Cam, 5 Cammarosano, P., 269n Canal, Martino da, 26 Candia, isola, 171 Cannarozzi, C., 199-200nn Capitani, O., 204n Capo, L., 48n Capodistria, 167, 171 Cappi, D., 198n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

E

Compagni, Dino, 198n Conon de Béthune, 28 Conrad, prete, 23 Contamine, G., 66n Contarini, Folco, 58-59 Conte, A., 190n, 200n Conte, F., 205n Conti (de’), Niccolò, 232 Copeland, R., 221 e n Corbari, E., 193n Corbellari, A., 214 e n Corbie, abbazia di, 20, 22 Corfù, 156, 170-171, Corniolo di Romagna, 254n Corradini, calzolaio livornese, 153 Corrado di Landau, 150 Corrado di Mure, 25 Corrado, conte di Aychilberg, 150n Corrado, M., 289n Corriente, F., 64n Corsali, Andrea, 128 Cortabarria, A., 60-61nn Cortelazzo, M., 59n, 142n, 278n Coryat, Thomas, 121n Coseriu, E., 31n Cosimo (de’) Medici, detto il Vecchio v. Medici Costa, P., 267n Costantini, V., 272n Costantinopoli, 8, 122, 165-167, 169, 172 Costanza, 44, 56, 83, 151, 238 Cotrugli, Benedetto, 127 e n Couto, D., 122n Coyfurelly, Thomas, 27 Cracco, G., 165n, 170n,279n Cracco Ruggini, L., 165n Crevatin, F., 177n Cristiano dalla Magna, 156 Cristiano di Magonza, vescovo, 31n Croazia, 166-169, 171-173,176 Crouzet Pavan, E., 312n Curtin, P.D., 123n Curzola, isola, 170, 171, 257

IS IM

Charentana, 254n Charland, Th.M., 186n Châtelain, E., 215n Chaurand, J., 28n, 220n Chazan, R., 61n Cherso, isola, 170, 175, 178, 257 Cherubini, G., 8n, 157n Chevalier, J.C., 212 e n Chianti, 254n Chicago, 158n, 310 Chiesa, P., 45n Chigi, Flavio, 70 Chioggia, 168, 170, Chittolini, G., 286n Chojnackii, S., 312n Chrétien de Troyes, 23n Ciabatella, cittadino perugino, 160 Ciai, Bambo, 159 Ciai, Bartolomeo di Bambo, 159 Ciampi, S., 260n Ciampoli, D., 276n Ciappi, F., 268n Cicerone, Marco Tullio, 221 Ciggaar, K.N., 56n Cignoni, M., 269n Cina, 127 Cintoia, 254n Cioffari, V., 289n Cipro, 61,171,176, Cirillo, santo, 172-173 Citolini, Alessandro, 95 Cittanova, 167 Claes, F., 143n Cluny, 51 Cocchia, E., 21n Cochin, 128 Cognasso, F., 150n Coletti, V., 193-194nn Coll, J.M., 61n Colliva, P., 263-264nn Collomb, P., 204n Colombo, Cristoforo, 84 Colombo Timelli, M., 213 e n Colón, Fernando, 84 Colon, G., 96n Como, 125

337


338

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Di Giovanni, V., 258n Di Stefano, G., 206n Diacciati, S., 261n Dieckmann, S., 28n Diniæ, M., 126n Dioclea, 166 Domenico d’Agostino, 160n Domenico di Guzmán, santo, 185 Dominici, Antonio, 57 Dominici, Giovanni, 196 e n, 198, 238 Donato, Elio, 66 e n, 111n, 212 Donavin, G., 204n Dondaine, A., 64n, 189n Dondarini, R., 285n Donizone di Canossa, 47 e n Doren, A., 149n Dorini, U., 259n Dotto, D., 178n Doumerc, B., 170n Dozio, P., 66n Drivasto, 170 Du Boulay, C.E., 211n Dubrovnik (Ragusa), 126, 165, 167, 170, 173, 175, 178, 257 Duccio di Boninsegna, 276 Ducellier, A., 166n, 168n Ducos, J., 221 e n, 222 Due Castelli, convento di santa Petronilla, 174 Duino, castello, 170 Dukadjin, famiglia, 171 Dulcigno, 170 Dunbabin, J., 221n Duoda di Guascogna, 50 e n, 51 Durazzo, 166-171, Dürer, Albert, 88n Dursteler, E., 113n, 121n, 123n Duvia, S., 10n, 125n, 157n

IS IM

E

D’Avray, D., 207n Da Langasco, C., 152n Dahan, G., 65-66nn Dahmen, W., 28n Dakhlia, J., 56n Dalmazia, 164-169, 171-178, 255, 257 Daly, L. W., 37n Damasco, 56, 58-59, 69, 115, 237 e n Damietta, 232n Daniels, T., 151n Dannenfeld, K., 69n Datini, Francesco di Marco, 7, 114, 120, 237 e n Daunton, Claire, 127n David, Z. V., 128n Davis, Ch.T., 289n De Bruijn-van der Helm, J.A.M., 121n, 136n, 141n De Flou, K., 136n De Gramatica, R., 274n De Gregorio, M., 268n De la Roncière, Ch. M., 286n De Luca, Giovambattista, 252 e n De Man, L., 87n De Petris, A., 235-236nn, 245n De Pierro, R., 201n De Roover, R., 115-116nn, 125n De Rosa, D., 286n De Vergottini, G., 167n Deanoviã, M., 178n Degli Azzi, G., 280n Degli Innocenti, L., 203n Del Castello, A., 190n Del Ciccia, Filippo, 155 e n Del Medigo, Elia, 68 Del Paramo, S., 239n Del Sera, Luca, 237n Delcorno, C., 6n, 185-189nn, 192193nn, 196-197nn, 199-201nn, 205n Della Faille, famiglia, 121 Denari, Odofredo, 189 Denifle, H., 215n Denucé, J., 116n Desmond Ryan, S., 236n Desportes, P., 308 e n Dessì, R. M., 191n, 204n

Eco, U., 36 e n, 131 e n Egeo, mare, 167, 171 Egitto, 56, 59, 61, 68, 228, 229n, 231232nn, 246 Eichenlaub, J.L., 198n Eiximenis, Francesco, 200n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Elbasan, 171 Eleonora d’Arborea, 255 Elia, Pietro, 25 Emery, L., 143n English, E., 269n Enrico d’Andeli, 214, 215n Epiro, 168-169, 172 Ermete Trismegisto, 68 Ermini, G., 281n Ernst, G., 138n Erzegovina, 171 Esch, A., 159n Este (d’), famiglia, 58 - Borso, prima marchese poi duca di Ferrara, 58 - Niccolò III, marchese di Ferrara, 58 Este, (d’), Meliaduse, 58, 60 Estonia, 124 Etiopia, 229n Eton, 73 Euclide, 70 Eugenio IV, papa, 57-58, 227-230 e nn, 232, 234, 235n, 239 Eulalia, santa, 22 Europa, 7, 11, 58, 67, 69-70, 73, 83, 86, 88, 93, 107, 109, 128, 163, 168-169, 177, 236 Évrart de Conty, 222 Evrat, poeta, 26

339

IS IM

E

Ferdinando III, re di Castiglia e di León, 23 Ferguson, W.K., 312n Ferrand, David, 96 Ferrara, 228, 231n, 233-234nn Ferraresi, G., 106n Ferrato, P., 293n Ferrer, Vicent, 191n, 199n Fiandra, 115n, 116, 119n, 149 Ficino, Marsilio, 67-68 Filcimberg, Anisi, 150n Filippo di Domenico d’Agostino, 160n Filippo IV, re di Francia, 114, 219, 223 Fine, J.V.A., 169n Finoli, A.M., 92n Finzi, V., 256n Fioravanti, G., 241n Fiore, F.P., 267n Fiorelli, P., 252n, 258n, 261n, 264-265, 267n, 272n, 298 Firenze, 8, 57-58, 85, 91, 105 e n, 114n, 117 e n, 118n, 119 e n, 120, 128, 150n, 151, 155, 157n, 158 e n, 160, 192-193, 196,198-200, 203, 228-229 e n, 230 e n, 232 e n, 233-234nn, 238239, 254 e n, 259-262, 266, 285-287, 289, 291, 295 e n, 296 e n, 298, 299 e n, 300-301, 312 - Borgo San Lorenzo, 159n - Chiesa di San Leo, 152 - Convento della Santissima AnnunziaFaba, Guido, 269 ta, 152 Fanelli, G., 286n - Convento di Santa Croce, 190 Fanfani, P., 290n - Convento di Santa Maria Novella, Fano, 293 185, 186n, 192, 194 e n, 195, 229n Fantappiè, R., 296n - Convento di Santo Spirito, 199 Fastolf, John, 115 - Palazzo Vecchio, 157n Favier, J., 127n - San Iacopo in Campo Corbolini, 156 Federico da Montefeltro, duca d’Urbi- Firth, J.R., 129n no, 233n Fiume, 164, 170, 178, Federico III d’Asburgo v. Asburgo Flavio, Biondo, 231 e n Federico, Visconti v. Visconti, Federico Fletcher, A.J., 191n Federigo d’Alemagna, 155 e n Flug, B., 159n Félibien, M., 211n Folena, G., 18 e n, 23n, 32n, 152n, 188n, Felix Faber, frate, 10 235n, 259n, 267 e n, 288-289nn, 293n Ferdinando de’ Medici v. Medici Folin, M., 276n


340

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Fontana, G.L., 253n Fontanot, R., 126n Forni, G., 188n Fossati Raiteri, S., 123n Fossati, C., 205n Foulechat, Denis, 219 Franceschi, F., 109n, 155n Francesco d’Assisi, santo, 61, 206 e n Francesco da Carrara il Vecchio, signore di Padova, 293n Francesco de Meyronnes, 201 Francesconi, G., 283n Francia, 25, 29, 191, 194, 218, 252n, 307 Franco, Maffeo, 10 Francoforte, 117 e n, 124 Frangipane, famiglia, v. Frankopan, famiglia Frank-Job, B., 21n, 32n Frankopan, famiglia, 169 Freeman Sandler, L., 240n Frenguelli, G., 197n Freschi, Tommaso, 123 Friuli, 8, 164, Frova, C., 285n Frugoni, C., 197n Fubini, R., 235-236nn, 244-245nn, 285 e n, 286n Fugger, famiglia, 88 e n, 121 Fugger, Jörg, 88n

IS IM

E

Garbini, P., 36n Garcías Palou, S., 63n Garin, E., 68n Garofolo, S., 244n Garrone, Francesco, 92n Gavinelli, S., 50n Gello di Casentino, 254n Génestal, R., 223n Genova, 119, 126, 130n, 152, 170, Genuardi, L., 256n Georg von Nürberg, 74, 82-86, 88, 92, 112, 114, 119, 143, 153 Gerardo, conte di Vininburg, 150n Géraud de Pescher, 200n Geremek, B., 6n Germania, 8, 9, 10, 31, 75, 105, 113, 117-119 e n, 125, 127, 130, 149-150, 154, 160, 307 Gerusalemme, 58, 73, 228-229, 320 Gessler, J., 143-144nn Geymonat, F., 289n Ghelius, Joannes, 97 Giacomo da Fusignano, 195n Giacomo della Marca, frate, 202 Giacomo II, re di Aragona, 61, 63 Giamboni, Bono, 299 Giambruno, S., 256n Giambullari, Pierfrancesco, 95 Gianfigliazzi, Rinaldo, 150n Giangaleazzo, Visconti v. Visconti Giannelli, C., 176n Gabbrielli, F., 276n Gigli, Carlo, 115 Gabriel, A. L., 43n Gill, J., 228n Gaffuri, L., 203n Gilles d’Orléans, 191n Gai, L., 262n Gimenez Reillo, A., 61-63nn, 65n Gaillard, E., 136n Gimeno Blay, F.M., 191n Gairdner, J., 115n Giordano da Pisa, frate, 185, 186n, Galderisi, C., 219n 190n, 192-193 e n, 194 e n, 195-197 e Gallerani, famiglia, 107 n, 198, 207n Galoppini, L., 113n Giordano da Rivalto, v. Giordano da Pisa Gama (de), Vasco, 128 Giordano, N., 268n Gamboso, V., 190n Giorgi, A., 254n Gand, 107 Giorgio da Norimberga v. Georg von Gangalandi, Ghezzo, 274 Nürberg Gangalandi, Ranieri di Ghezzo, 274, Giovanardi, C., 257n 281, 290, 301 Giovanni da Bibbia, frate, 187 e n


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Gregorio d’Alessandria, 199 Gregorio di Tours, 37 e n, 48 Gregorio Magno, papa, 37 e n, 186, Gregorio V, papa, 23,3 Gregorio VII, papa, 166, 238 e n Grévin, B., 5n, 230n, 233n, 240n, 247n, 257n Griffin, D., 64n Grimm, R., 22n Grioni, Franceschino, 92n Grondeaux, A., 17n, 23n, 32n Grossato, A., 232n Grundman, J., 281n, 283n Gualdo, G., 227n Gualtieri VI di Brienne, duca d’Atene, 285 e n Guarino Veronese, 227 e n Guarnero, A., 256n Guasti, C., 116n Guernes de Pont sainte Maxence, 28 Guglielmo d’Auvergne, 190 e n Guglielmo da Venzone, 84 Guglielmo di Settimania, 50-51 Guglielmo duca di Aquitania e conte di Alvernia, detto il Pio, 51 Guglielmo IX, duca d’Aquitania, 21 Guicciardini, Lodovico, 125 e n, 126 Guidi Bruscoli, F., 130n, 158n Guidi, G., 286n Guidotto da Bologna, 269 Guimbard, C., 285n Gureviã, A. Ja., 109, 110n Guy d’Evreux, 191n, 195n

IS IM

E

Giovanni da Colonia, 156 Giovanni da Oleggio, 285n Giovanni da San Gimignano, 189 e n, 194n Giovanni della Magna, 159 e n Giovanni di Garlandia, 43 e n Giovanni di Hildesheim, 39 e n Giovanni di Mosbach, 88 Giovanni di Ormanno della Magna, 159n Giovanni II detto il Buono, re di Francia, 220 Giovanni XI, patriarca copto, 56 Giovanni XXI, papa, 63 Giovè, N., 202n Giovini, M., 39n Girolami (de’), Remigio, 185-186nn Girolamo, santo, 185, 200, 205n, 236n, 239 Giuliano di Arrigo da Colonia, 157 Giustiniani, Agostino, 67 e n Giustiniani, V. R., 92n Giustiniano I, imperatore d’Oriente, 167 Glansdorff, S., 37n Glück, H., 75n Gobessi, A., 301n Goffman, E., 310 e n Goffredo di Strasburgo, 25 Goldthwaite, R. A., 10n, 109n Golein, Jean, 219 Golinelli, P., 47n Golubovich, G., 238n Gonzalbo Gimeno, D., 191n Gonzone da Novara, 30 Goody, J., 257n Goris, J.A., 124n Gorizia, 164,17 Goscelin de Saint Bertin, 26-27 Gotha, 153 Gouws, R.H., 92n Graciotti, S., 176n Grado, 177 Granada, 242 Grant, E., 222 e n Grecia, 1, 68, 122

341

Häberlein, M., 120n Hackett, J., 66n Halbwachs, M., 206n Hale, J.R., 312n Halwbachs, M., 317 e n Hamesse, J., 186n Harper-Bill, C., 115n Harvey, R.E., 115n Haunschilt, Giovanni di Michele, 159 Haunschilt, Michele, 159 Haye, Th., 43n


342

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Israele, 264n Istria, 8, 164-166, 168-173, 177-178 Italia, 5, 7, 9, 29, 42, 70, 106, 125, 126, 140, 151, 154, 165, 170, 173-174, 191, 208, 233, 251-252 e n, 265n, 280, 307, 310-312, 320 Ivetic, E., 8n, 163-165nn, 172-173nn Jacopo da Certaldo, 114 Jafet, 5 Janin-Thivos, M., 121n Jansen-Seiben, R., 136n Játiva, 62 e n Jean d’Abbeville, 216 Jeannin, P., 109 e n, 125n Jenks, S., 124n Jiménez de Rada, R., 23 e n Jireãek, C., 175n Joinville, Jean, 67 Jourdain, Ch., 65n

IS IM

E

Heers, J., 126n, 130n Heid, U., 92n Heidelberg, 84, 87n Henri du Trévou, 220 Henry de Crissey, 31 Herlihy, D., 158n Herman, J., 20n Hermand, X., 186n Hernandez Martin, R., 62n Hilka, A., 44n Hodel, P.B., 199n Hoffmann, G., 228-229nn, 231n, 232 e n Holeton, D.R., 128n Holstein, M., 187n Holtus, G., 29n, 32n, 138n, 141n Homs, 67 Horstman, C., 39n Höybye, P., 112n, 143n Hughes, J., 115n Humphreys, K.W., 57n

Iacometti, F., 269n Iacopo Tiepolo, doge veneziano, 278 Ibn Abû ma‘shar Ja‘far, 57n Ibn Battuta, 56 Ibn Butlan, 57n Ibn Muìammad ibn Kathïr al-Farghánï, Abû al-‘Abbás Aìmad, 57n Ibn ‘Othmán al-Qabïöï, Abd al-‘Azïz, 57n Ibn Rushd, Abû l-Walïd Muìammad, 57n, 68 Ibn Sïná, 57n, 68-70 Iglesias, 256 e n Ildegarda di Bingen, 26 Île de France, 27-28 India, 56,23 Indonesia, 310 Inghilterra, 7,8, 29, 108, 111, 119n, 124, 126, 191, 214, 218 Innocenzo III, papa, 185 Innsbruck, 160 Ionio, mare, 171 Irlanda, 7 Isidoro di Siviglia, 43 e n Israel, U., 156-157nn

Kaeppeli, Th., 187n Kafka, F., 40 e n Kassel, 21 Kedar, B. Z., 62n Khurdádhbih, Ibn, 23 Kienzle, B. M., 185-186nn Kierkegaard, Søren, 41 Kilwardby, Robert, 25, 213-214, 216 King, M.L., 312n Kirshner, J., 285-286nn Klaiæ, N., 169n Klapish-Zuber, Ch., 158n Klein, F., 285n Kleinhenz, Ch., 7n Koblinger, Stephan, 97 Koch, P., 22n Koll, H.G., 23n Kordiæ, S., 163n Körner, K.H., 32n Kosovo, 169 Kouamé, Th., 211n Kovaãeviæ-Kojiæ, D., 126n Krach, Johannes, 154


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

343

Kramer, J., 32n Krekiæ, B., 165n, 170n, 176 Kresálková, J., 87-88nn Kroja, 168 Kuhn, C., 120n

IS IM

E

Libano, 59 Librandi, R., 193n Licata, 256 Lindsay, W. M., 43n Lione, 120-121, 125 Lionello d’Este, marchese di Ferrara, 227 Lippi Bigazzi, V., 288n L’Aquila, 135n Lisbona, 116,121 Ladislao di Angiò Durazzo, re di Sicilia, 170 Lisini, A., 268-269nn Lagorgette, D., 107n Liutprando di Cremona, 45n Lagosta, 257 Liutprando, re dei Longobardi, 44 Lalomia, G., 205n Livonia, 124 Lamberto d’Ardres, 17n Livorno, 153 Lamprecht, prete, 23 Lobineau, G.A., 211n Lanaro, P., 117 Lodge, R.A., 28n, 56n Lancia, Andrea, 288 e n, 289-290nn, Lodi, M., 42, 43n 291-292, 298, 301 Lodovico III d’Asburgo, duca d’AuLane, F., 312 e n stria, 170 Lanfredini, Lanfredino, 120 Lombardia, 31, 90, 150, 156, 199, 200 Lang, H., 120n Londra, 107, 115, 120, 130 Langadioti, Nicolaus, 122 López, A., 62n Langton, Stephen, 25 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, Lapi, Domenico, 92n, 95, 97 158 Larson, L.M., 110n Lorenzo della Magna, 155n Latini, Brunetto, 26, 30 e n, 299 Lori Sanfilippo, I., 290n Lauer, Ph., 37n Lotario I, imperatore, 36 Lauwers, M., 204n Lubecca, 117,130, Law, V., 66n Lucca, 151, 238, 255 e n, 258n, 260, 293 Lazio, 309 Lüdi, G., 32n Lazzarini, I., 276n Ludovico d’Angiò, re di Ungheria, 168 Lazzereschi, E., 259n Ludovico da Pirano, 201 e n Le Briz, S., 191n Ludovico di Niccolò da Colonia, 158 Le Goff, J. , 5 e n, 110n, 206n Ludovico I, imperatore, detto il Pio, 45 Le Teinturier d’Arras, Jean, 215 Ludovico II, re dei Franchi, detto il Le Tellier, Pasquier, 97 Germanico, 20 e n, 36-37 Leeds, 109 Luka, 171 Lefebvre, H.,317 e n, 318 Lullo, Raimondo, 57n, 63-64 Lehmann, P., 45 e n Lusignan, S., 16 e n, 24n, 27-28nn, 31n, Leonardi, C., 59n, 206n, 299n 211n, 213-214nn, 218-219nn, 221-223nn Leone X, papa, 128 Lussino, isola, 168, 175, 178, Leopoldo III d’Asburgo, duca d’Au- Luzzati, M., 241n stria, 170 Luzzatto, G., 312n Leroux, X., 207n Luzzi, S., 149n, 152n Lesina, isola, 170-171 Lettonia, 124 Li Gotti, E., 258n Macedonia, 168


344

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Mariano da Siena, 232 e n Marie de Champagne, contessa di Fiandra, 26 Marie de France, 24 Marigo, A., 43n Mariotti, R., 293n Maritza, fiume, 169 Marks, J., 239n Marsilio, Pedro, 61 Martin, C.T., 217n Martini, G., 268n Marzi, D., 288n Marziano Capella, Minneo Felice, 215 Matheus, M., 159n Mathys, H.P., 32n Matijeviæ Sokol, M., 175n Matringe, N., 116n, 121n Matteo, santo evangelista, 27 Mattesini, E., 281n Mattone, A., 256n Maurice de Sully, 215 Mazzaoui, M. F., 276n Mazzocchi, Jacopo, 93n Mazzoni, F., 289n McCusker, J.J., 108n McLean, P., 158n Mecacci, E., 270n, 273n Mecacci, M., 266n, 275 e n Meccarelli, M., 266n Medici (de’), Cosimo detto il Vecchio, 115 Medici (de’), famiglia, 115 - Ferdinando, granduca di Toscana, 69 Medio Oriente, 128 Mediterraneo, mare, 7, 93, 110, 119, 163-164, 166-167, 170-171, 176, 237 Meleda, 257 Melis, F., 7n, 115n, 120n, 126n, 238n Menestò, E., 59n, 206n, 266n,281n Menut, A. D., 221n Merigoux’s, J. M., 64n Merisalo, O., 232n, 283n Merli, S., 281n Messore, Domenico, 58n Metcalf, D.M., 56n Metodio, santo, 172-173,

IS IM

E

Macinghi Strozzi, Alessandra, 116n Madden, T.F., 167n Maffei, D., 200n Maggini, F., 289n Magistrale, F., 57n Magliabechi, Antonio, 85 Magna, v. Germania Magno, Alessandro, viaggiatore veneziano, 127 e n Magonza, 19 Magris, C., 41 e n, 42 Mahmoud Helmy, N., 56-57nn, 115n, 234-235nn, 237-238nn, 241n Maiarelli, A., 281n Maini, famiglia, 173 Mainoni, P., 124n Maissen, Th., 289n Malatesta, famiglia, 293 Malato, E., 288n Maldina, M., 205n Malebranca, Latino, 290 Malegonnelle, Antonio di Marchionne, 160n Malegonnelle, Marchionne, 160n Malquori, A., 194n Mancini, A., 259n Mancini, M., 30n, 59n Mandigorra Llavata, M.L., 191n Manetti, Giannozzo, 127, 234-235nn, 236 e n, 245 e n Manfrino da Monteferrato, 97 Manin, D., 280n Manni, D.M., 194n Manni, P., 265n, 269n, 272-273nn Manoussacas, M., 9n Mansi, J.D., 234n Maometto, 57 Map, Walter, 36 e n Maraschio, N., 95n, 265n, 272-273nn Marco di Toledo, 65n Mare del Nord, 93 Mar Giallo, 111 Mar Nero, 56, 111 Margetiæ L., 167n Margherita Gonzaga, marchesa di Ferrara, 58


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Mörike, E., 36 e n Moryson, Fynes, 128 Mostar, 171 Mostert, M., 186n Mottella, C., 235n Mueller, R. C., 109n, 312n Muhammad ibn Zakariyá Rázï, 57n Muir, E., 313n Müller, B., 32n Müller, E., 37n Müller, K.L., 32n Mummoleno, santo, 21 Muratori, Lodovico Antonio, 23 Murcia, 61 Musso, Opizzino, 123 Muzzi, O., 268n Mynors, R.A.B., 36n

E

Metz, 308 Metzeltin, M., 29n, 32n, 141n, 178n Meun, 28 Meyer, P., 26n Micaelli, C., 197n Michaud-Quantin, P., 191n, 195n Michele di Lante da Vico, notaio, 261n Migliorini, B., 259n, 265n, 293n, Migliorini Fissi, R., 288n Mignanelli, Beltramo, 56-58 e n, 67, 115, 233-235nn, 236-239 e nn, 240, 241 e n, 242-243, 244n, 245-246 Mignanelli, Bertrando, v. Mignanelli, Beltramo Mignanelli, Leonardo, 233 e n, 234n Mignanelli, Mignanello, 56 Migne, J. P., 35n Milano, 10, 90-91, 119-120, 124-125 Mino di Bindo, 274 Mirdita, famiglia, 173 Modena, 82n Modone, 156 Molà, L., 124n, 253n Mollat, M., 228n Monaco di Baviera, 82, 87n Moncada, Guglielmo Raimondo, 68 Mondolfo, U. G., 270n Monfrin, J., 220n Monneret de Villard, U., 63n, 65n Montagutolo, 254n Montaina, G., 230n Montaperti, 270 Montemurlo, 254n Montenegro, 166, 171-172 Monterappoli, 254n Monteverdi, A., 92n Montieri, 253 Montona, 167, 178 Moos (von), P., 15n Morag, S., 65n Morard, M., 202n Morcinek, B., 75n Morelli, Giovanni, 116 Moreni, Domenico, 85n, 185n, 193n, 198n Morenzoni, F., 190n, 199n

345

IS IM

Naar, W., 127n Najemy, J., 288n Napoli, 151, 245n Nardi, P., 200n, 269n Narducci, E., 193-194nn Narenta, fiume, 165 Nebbiai, D., 202n, Nebrija, Elio Antonio de, 68 Neckam, Alexander, 25 Nedermann, C.J., 204n Nelipiæ, famiglia, 169 Nelli, Francesco, 205n Nelli, R., 270n Neri, L., 274n Niccolò da Colonia, 158 Niccolò della Magna, 160n Niccolò di Frizi, 159n Niccolò di Lorenzo della Magna, 155n Niccolò di Niccolò della Magna, 160n Niccolò III d’Este v. Este Niccolò V, papa, 234n, 245 e n Niccolò, maestro di tedesco, 10 Nicea, 172 Nico Ottaviani, M.G., 260n, 281n, 285n Nicodemo, abate di Gerusalemme, 56, 229n, 231n Nicola d’Oresme, 219, 221 e n, 222


346

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Nicola da Osimo, 228n Nicola di Bartolo da Prato, 245n Nicolini, U., 294n Niemeyer, Oscar, 51 Nitardo, cronista franco, 20, 37 e n Nobili (de’), Roberto, 128 Noè, 5 Nogara, B., 231n Nona, 167, 170, Norberg, D., 36 e n, 37, 44 e n Norimberga, 75, 88n, 114, 117, 118n, 120, 156, 160 Normandia, 96 Novegrad, 170 Novellino, ser Andrea, 202 Novellino, ser Francesco di ser Andrea, 202

IS IM

E

Paesi Bassi, 7, 110-111, 121, 125, 143, 307 Paganico, 258n Pago, 170, 172, Pahta, P., 283n Palatinato, 88 Palencia, 62 Palestina, 61 Pamato, L., 190n Panella, E., 186n, 192n, 194n Panella, V., 195n Paolazzi, C., 206n Paoli, C., 151n Paolo Diacono, 48 e n, 49 Papi, C., 266n Parani, M. G., 122n Parenzo, 167 Parigi, 27-28, 69, 107, 195n, 211, 214, 217-220, 222-223 Occitania, 7 - Collegio di Cluny, 212, 222 Ocrida, 172 - Collegio di Navarra, 211 Olanda, 149 - Collegio di Plessis, 211 Oldoni, M., 11n, 36n, 39n, 46n, 264 Parma, 46 Olivari, M., 241n Pascasio, Radbert, santo, 20, 22 Olivieri, Giovanni, 105 e n Pasquini, E., 202-203nn Orgia, 254n Pastrovich, famiglia, 173 Origene, 236 e n, 239, Pasuino, P., 289n Orlandi, G., 267n Patar, B., 216n Orlando, E., 171n, 301n Patrovicchio, 170 Ormanno della Magna, 159n Pausch, O., 74n, 76n, 143-144nn Ormanno di Giovanni da Colonia, 156 Pavan, M., 165n en Peckham, John, arcivescovo di CanterOrsini, Napoleone, 269 bury, 217 e n Ortalli, G., 165n, 167n, 301n Pellegrini, G., 141n Orvieto, 258n Pellegrini, M., 272n Ossero, 170, 178 Pellitteri, A., 230n Ostrovizza, 170 Penisola Iberica, v. Spagna Ottone di Mosbach, 88 Penzl, H., 60n Ovidio Nasone, 289 Péquignot, S., 122n Oxford, 85 Periæ, O., 175n Perpignano, 96 Pertusi, A., 9n Pacetti, D., 201n Pertz, G. H., 37n Padgett, J. F., 158n Perugia, 155, 255, 260, 263, 266, 280Padova, 91, 202, 281, 283-284, 295n, 298 Padovani, A., 278n - Chiesa dei Serviti, 152


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Polo de Beaulieu, M.A., 202n, 204n, 206-207nn Polo, famiglia, 127 Polo, Marco, 56,13 Pomposa, 47 Pontoise, 28 Ponzio, Pilato, 140, 192 Pooley, T., 107n Poppi, 236n Porta, G., 10n, 286n, 288n Porter, R., 55n Portinari, Tommaso, 115 Portogallo, 129 Portole, 178 Postel, Guillaume, 69 Praga, 83, 88n Praga, G., 168n, 175-176 e nn Prato, 8,13 Praun, Hans, 114,160 e n Premilcuore, 254n Presa, G., 87n Prisciano di Cesarea, 66 e n, 213 Progon, famiglia, 168 Puccini, D., 119n Puglia, 31, 165, 200n

IS IM

E

Peruzzi, famiglia, 114 Peruzzi, M., 233n Peruzzi, Rinieri, 114 Peruzzi, Simone, 10,11 Petrarca, Francesco, 68 Petti Balbi, G., 123-124nn Philippe de Thaün, 23-24nn Piasentini, S., 10n Piazza, A., 290n Piccardia, 28 Piccinni, G., 9n, 268-270nn Pico della Mirandola, Giovanni, 68 Picone, M., 206n Piemontese, A. M., 57-58nn, 67n, 115n, 233n, 236-237nn, 240 e n, 243n Piergiovanni, V., 272n Pierini, M., 266n Piero di ser Grifo, 288 Pierre de Limoges, 216 Pietro II Orseolo, doge veneziano, 165 Pieve a Molli, 254n Pigli (de’), Gerozzo, 115-116 Pilato, lago di, 140 Pimpinelli, P., 280n Pinguente, 178 Pinto, G., 9n, 152n, 270n, 285n, 307 e n Pioletti, A., 205n Pipino III, re dei Franchi, detto il Breve, 38 Pirano, 167 Pirenne, H., 308 Pisa, 151, 192, 232, 238, 254, 259-260, 261n, 300 Pisino, 169 - Convento di San Michele in Monte, 174 Pistoia, 255, 259-260, 262n Pizzoli, L., 59n Plannck, Stefano, 97 Platone, 68 Plotino, 68 Pobori, famiglia, 173 Pohl, H., 160n Pohl, W., 5n Pola, 167, 171 Polidori, F. L., 254n

347

Quarnero, 178 Quieto, fiume, 178 Quinto, R., 203n Rachewiltz (de), S., 150n Radtke, E., 138n Ragusa v. Dubrovnik Raimbaut de Vaqueiras, 15 Raimondi, Giovanni Battista, 70 Raimondo di Peñafort, santo, 61-62 Rainerio da Perugia, 269 Ramon Vidal de Besalù, 29 Raoul de Châteauroux, 191n, 216 Rascia, regione balcanica, 167-168, Raterio da Verona, 24 Raukar, T., 166n Ravani, S., 256n Raveggi, S., 270n, 272n


348

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Rossi, G., 152n Rossi, Pietro, 57 Rosvita di Gandersheim, 39 e n Rota, P., 109n Rotondi, P., 152n Rotterdam, 153 Rouen, 96, 123n Rouse, M.A., 196n Rouse, R.H., 196n Rovigno, 167 Rowe, J.G., 312n Rucellai, Francesco, 125 Rucellai, Niccolò, 85 e n, 114 e n Rucellai, Pietro, 85n Ruchard, J., 127n Ruggiero, G., 313n Ruiz, Simon, 121 Rusconi, R., 189n Rustici, Bartolomeo, 229n Rustici, Marco di Bartolomeo, 229n Rutebeuf, 215

IS IM

E

Ravegnani, G., 167n Raveux, O., 121n Re, Emilio, 106, 107n Redon, O., 265n Rehberg, A., 159n Reichert y Frühwirth, F. A., 62n Reichl, K., 187n, 197n, 202n Reims, 308 Rem, Lucas, 125 Renzi, L., 142n Rhases v. Muhammad ibn Zakariyá Rázï Rhode, M., 190n Ricci, L.G.G., 11n Riccoldo da Monte di Croce, 64-65 e n., 66, 194 Richard, J., 67n, 129n, 228n Riché, P., 50n Ricoldo da Montecroce, v. Riccoldo da Monte di Croce Riedl, P.A., 152n Riedmann, J., 150n Rigaldi, Giovanni, frate francescano, 187n Rigon A., 1, 190n, 270n, 307 Rinuccini, Alessandro, 115 Rius Serra, J., 61n Rizza, C., 143n Robert de Sorbon, 216 Robertini, L., 39n Roberto Grossatesta, 216 Robins, W., 296n Robles Sierra, A., 61-62nn Rodi, 156, 229n Rog, Jacopo, 120 Roma, 1, 8, 30, 97, 117, 151, 172, 229n, 233-234, 245n Romània, 19 Romanini, F., 253n Romano, D., 313n Romano, M. M., 196n Roncaglia, A., 17n, 26n Rosenbach, Hans, 96 Rosier-Catach, I., 16n, 66n Rossebastiano Bart, A., 10n, 73-74nn, 79n, 82n, 87n, 91-92nn, 96n, 111113nn, 122n, 143-144nn

Sabatini, F., 18n Sacchetti, Franco, 119 e n, 205n Salem Elsheikh, M., 6n, 268-271nn; 276n, 280n Salimbene da Parma (Salimbene de Adam), 31, 46 e n., 189-190 Saliti, Piero, 118 e n Salvatici, Vittore Porchetto, 57 Salvemini, G., 270n Salvestrini, F., 251n, 265n, 270n, 283n, 285n, 301n Salviati, famiglia, 116,121 San Gimignano, 259n San Giovanni in Croce, 42 San Vito all’Ancisa, 254n Sanchez Rometo, P., 191n Santa Maria a Monte, 254n Santiago de Compostella, 8 Santoni, P., 227-229nn Santoro, V., 153n Sapegno, N., 17n, 26n Sapori, A., 109 e n, 114n Saragoza, 62


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Sestan, E., 8n Sibilla, monte, 140 Sibillini, monti, 140 Sicilia, 176, 255, Siena, 56-57 e n, 58, 199, 201, 235 e n, 237-239, 241n, 253, 254n, 258, 260, 266, 271, 273n, 282, 284, 294, 296n, 297-299, 301 - Chiesa e convento di San Domenico, 152, 233 e n, 237n, 238 - Palazzo pubblico, 276 - Piazza del Campo, 199 Signa, 254n Simeoni, L., 47n Simon, P., 35 Simonsfeld, H., 76n Siria, 61, 67, 227, 231-232nn, 237, 243, 246 Siviglia, 84,12 Sjoerd van Koningsveld, P., 66n Skok, P., 163n Skopje, 168,171, Slavonia, 169 Sneddon, C. R., 216n Soberanas, A. J., 96n Sodano, A., 35 Soldani, M. E., 109, 122n, 123n, 128n, 130n Sordello da Goito, 32 Southampton, 107 Spagna, 8, 60n, 61, 68 Spalato, 167, 170-172, 175-176, 257 Spallanzani, M., 116n, 128n, 130n Spina, Leonardo, 116 Spinelli, Tommaso, 117, 120 Spinola, famiglia, 121 Spira, 117 Spitzer, L., 197n Stati Uniti, 312 Stefano di Bourbon, 198n Stefano I Nemanjidi, re di Serbia, 168 Stefano UroĹĄ IV DuĹĄan, zar di Serbia, 169 Stehl, Th., 22n Sterz, Albrecht, 150 Steube, Johann Kaspar, 153 e n

IS IM

E

Sarajevo, 171 Sardegna, 255 Sarti, N., 296n Sassari, 256 e n Sassetti, Filippo, 128 Savino, G., 262n Scabel, C.D., 122n Scaligero, Giovanni, 69 Scalvanti, O., 152n Scardona, 170 Scarramat, Pedro, 62 Schenker, A., 236n Schiaparelli, C., 64n Schiffrer, C., 178 Schipperges, H., 26n Schmitt, Ch., 32n, 141n Schmitt, J. Cl., 206n Schneider, J., 308 e n Schneyer, J.B., 186-187nn Schnyder, W., 156n Schreiner, P., 167n Schuchard, C., 151n, 157n, 159n Schultz, C.M., 43n Schulz, K., 151n, 157n, 159n Schulze-Busacker, E., 67n Schumann, O., 44n Schweinckard, W., 92-93nn, 138n Scutari, 170-171, 173 Sebenico, 167, 170 Sebregondi, L., 157n Segna, 172-173, 178 Segni, Piero, 196n Segre, C., 200n, 269n, 277n, 288-289nn Seidel, M., 152n Sella, P., 263n Selve, convento di san Pietro, 174 Selzer, S., 150n Sem, 5 Seneca, Lucio Anneo, 288 Senigaglia, Q., 263n Serbia, 167-171, Serianni, L., 30n, 59n, 95n, 141n, 252n Serra, M., 43 e n Servasanto da Faenza, 190 Serventi, S., 192n Sessa, Giovanni Battista, 97

349


350

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

Stewart, P., 206n Stìh, P., 169n Stimm, H., 138n Stoccolma, 36 Stockdale, W.H., 312n Storti Storchi, C., 286n Stotz, P., 11n Strange, J., 45n Strasburgo, 20,22, 36-37, 160n Straubing, 159 Strecker, K., 44n Strinna, G., 196n Strozzi, Lorenzo, 116 Stussi, A., 86n, 141n, 279 e n Šubiæ, famiglia, 169 Sullivan, R., 60n Surdich, F., 232n Sutton, A. F., 124n Svevia, 76 Swiggers, P., 29n

IS IM

E

Tigliamochi, Dino, 119 e n Tigliamochi, Geri, 119 e n Tirana, 171 Tirolo, 151,168, Tito Livio, 220 Todi, 294 Tolan, J., 61n Toledo, 23,62 Tolomei, Claudio, 95 Tolomeo, R., 175n, 178n Tolosa, 308 Tomasin, L., 30n, 93n, 255n, 263n, 277 e n, 278-279nn, 294n Tommasi, G., 255n Tommasino da Circlaria, 25 Tommaso d’Aquino, santo, 25, 27 e n, 186n, 193 e n Tommaso di ser Puccio da Gubbio, 286 Tommaso, arcidiacono, 175 e n, 176 Topia, famiglia, 171 Torcello, 319 Toscana, 115, 193, 253, 259, 265n, 299 Tabacco, G., 265n Toubert, P., 309 e n Talani, Alessandro, 118 e n Tours, 17-21, 49, 188 Tamburrini, A., 46n Traù, 167, 170, 175 Tanase, T., 227-228nn Travaini, L., 9n Tanfani, L., 255n Travali, G., 256n Tani, Agnolo, 116 Travnik, 171 Tanquerey, F. J., 217n Trento, 149,152, 255, Tanturli, G., 299n Treviso, 151, 156, 157n Tanzini, L., 251n, 255n, 270n, 280n, Trieste, 164, 170, 177 285-288nn, 297n, 299n Trifone, P., 30n, 95n, 141n, 252n, 271n Tavani, G., 15n Trinkaus, C., 245n Tecchini, famiglia, 114 Trissino, Gian Giorgio, 95 Tekavãiæ, P., 175n, 178n Trotter, D., 107-108nn Tempestini, F., 211n Trovato, P., 59n Tenenti, A., 170n, 267n, 279n Tubach, F.C., 198n Terracher, A., 23n Tucci, U., 109 e n, 127n, 232n Terrasanta, 7, 57-58, 63, 73, 88, 167, Tuccio di Gennaio, 114 227-228 e n, 232, 236n Tugwell, S., 185n Teule, G. B., 56n Tunisi, 61 Teza, E., 111n Turrini, P., 269-270nn, 274n Thomas de Cantimpré, 220 Tuttle, E., 142n Tiberio Claudio Nerone, imperatore romano, 140 Tiddeman, M., 107-108nn Udine, 151


INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

351

Ugleimer, Pieter, 124 Ugo d’Orleans, 43-44 Ugo di Duino, 170 Ugo di Montfort, 150n Ugo di Saint-Cher, 31, 216 Ugo Primate, v. Ugo d’Orleans Ulma, 10 Umberto di Romans, 24, 28, 61, 196 e n, 198n Ungheria, 9, 57, 156, 166-171, 173 Utrecht, 136 Utz, R., 204n

IS IM

E

Verbracken, P., 37n Vercellin, G., 69n Verger, J., 217n Verona, 9, 87, 91, 227n Veronese, A., 241n Veronese, F., 270n Vettori, Francesco, 160 e n Veysseyre, G., 191n Vienna, 90, 97 Vignuzzi, U., 260n Villani, Bernardo, 117 Villani, Filippo, 150n Villani, Giovanni, 288-289 Villani, Lorenzo, 117 e n Valastro Canale, A., 43n Villani, Matteo, 10n, 150 e n, 286n Valenciennes, 219 Vinadol, 174 Valerio, G., 288n Virgilio Marone, Publio, 298 Valla, Lorenzo, 234-235nn, 244-245nn Visani, O., 199n Van Acker, L., 36n Visconti, famiglia, 150 Van der Helm, J., 10n, 113n, 141n, 144n Visconti, Federico, arcivescovo di Pisa, Van der Meulen, famiglia, 121 188 Van Uyfanghe, M., 19n, 21n, 23n, 30n Visconti, Giangaleazzo, duca di Milano, Vanoli, A., 68n 238 Varanini, G. M., 150n, 194n, 285n Visser-Fuchs, L., 124n Varvaro, A., 16n, 26. 27n Vollmann, B. K., 44n Vasina, A., 254n Von Harff, Harnold, 73 Vasoli, C., 68n, 267n Von Neuremberg, Georg, v. Georg von Vauchez, A., 228n Nürberg Vecchietti, Lapo, 288n Von Voltelini, H., 255n Veglia, isola, 169, 172-175, Vose, R. J. E., 63n Venezia, 10, 69, 73-76, 81, 86, 88 e n, Vukciæ, Hrvoje, 171 91, 97, 105 e n, 112-114, 119, 121, 124-125, 127, 140, 144, 156, 163, 165171, 173, 175, 227, 255, 260, 266, Wace, 24 298-299, 307, 311-316, 319-320 Waentig, P. W., 111-113nn - Campo san Bartolomeo, 76-77 Wailly (de), N., 67n - Canal Grande, 315 Waitz, G., 46n - Convento di Santo Stefano, 151 Waleys, Tommaso, 190n, 202n - Fondaco dei Tedeschi, 76-77, 119, Walsee, famiglia, 170 124, 149 Watcher, R., 32n - Giudecca, 315 Weber, M., 307 - Piazza San Marco, 121n, 318 Wehle, W., 22n - Rialto, 314 Weiblingen, 47 - Sestiere di San Marco, 76 Weinstock, H., 66n Venticelli, M., 285n Weissen, K., 108 e n, 112n, 117n, 120n, Venzone, 91 122n


352

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO

IS IM

Ya’qub al-Kindi, 57n Yves le Breton, frate, 67

Zafarana, Z., 189n, 204 e n Zamboni, A., 141n Zanazzo, M., 170n Zanoletti, G., 50n Zara, 167-170, 174 Zaratustra, 68 Zare’a Yá’qob, imperatore d’Etiopia, 229n Zdekauer, L., 270n Zeller, B., 5n Zenevisi, famiglia, 171 Zeta, regione balcanica, 166-168, 171 Zordan, G., 301n Zoriæ, M., 178n Zoroastro, v. Zaratustra Zorzi da Norimberga, v. Georg von Nürnberg Zorzi, A., 261n, 266n, 285n, 287n Zucchini, S., 285n Zug Tucci, H., 10n Zuili, M., 11n Zumtor, P., 203 e n

E

Welfen, 47 Wells, H.G, 39 e n Welser-Vöhlin, compagnia commerciale, 120-121, 125 Welter, J. Th., 198n Wenzel, S., 191n Westerberg, U., 45n Wey, William, 73 Willoweit, D., 286n Wilmanns, W., 37n Wilson, Ph., 172-173nn Witt, R., 299n Wolff, Ph., 308 e n Wolfram von Eschenbach, 25 Worcester, William, 115 Wright, R., 18n, 22-23nn

Zaccarello, M., 205n


Indice generale

Saluti del Sindaco Pag.

V

E

Guido Castelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prima giornata

»

3

Furio Brugnolo, Il plurilinguismo medievale e la coscienza distintiva degli idiomi romanzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

13

Massimo Oldoni, Il Mediolatino: una lingua rigenerata dall’oralità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

33

Alessandro Vanoli, Lo studio e la conoscenza dell’arabo nell’Italia del Basso Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

53

Alda Rossebastiano, Strumenti e metodi per l’apprendimento delle lingue (sec. XV) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

71

Francesco Guidi Bruscoli, I mercanti italiani e le lingue straniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

103

José van der Helm, Un manuale di conversazione italianoneerlandese nato nell’ambiente mercantile veneziano a cavallo fra Quattro e Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

133

Lorenz Böninger, Le comunità tedesche in Italia: problemi di comprensione linguistica e di inserimento . . . . . . . . . . . . . . .

»

147

Egidio Ivetic, La dimensione culturale plurilingue nell’Adriatico orientale (secoli XI-XV) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

161

IS IM

Giuliano Pinto, La diffusione e l’apprendimento delle lingue nel basso Medioevo: considerazioni introduttive . . . . . . . . . . .


Seconda giornata »

183

Serge Lusignan, L’università di Parigi e la cultura letteraria in lingua francese (XIII-XIV secolo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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209

Nelly Mahmoud Helmy, Dulce differentias sentire. Bibbia, traduzioni e traduttori nel Quattrocento . . . . . . . . . . . . . . . .

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225

Francesco Salvestrini - Lorenzo Tanzini, La lingua della legge. I volgarizzamenti di statuti nell’Italia del Basso Medioevo . .

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249

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Carlo Delcorno, Comunicare dal pulpito (secc. XIII-XV) . . .

Lectio magistralis del Premiato 2013

Elisabeth Crouzet-Pavan, Paris-Venise ou comment devenir historienne de l’Italie des villes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

305

Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .

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325

Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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331

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Indici


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Composto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo

Finito di stampare nel mese di novembre 2015 dallo Stabilimento Tipografico ÂŤ Pliniana Âť Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG)


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Atti del premio internazionale Ascoli Piceno - III serie

Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica nell’Italia del Trecento. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-3 dicembre 2005), a cura di A. Rigon (2007), pp. 362, tavv. 27.

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Festa e politica della festa nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-2 dicembre 2006), a cura di A. Rigon (2008), pp. 271.

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L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre1 dicembre 2007), a cura di A. Rigon - F. Veronese (2009), pp. 404. Condannare all’oblio. Pratiche della Damnatio memoriae nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2008), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon (2010), pp. 254. Fama e publica vox nel Medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2011), pp. 271, ill. Parole e realtà dell’amicizia medievale. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010), a cura di I. Lori Sanfilippo A. Rigon (2012), pp. 292, ill.

Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del maestro di Offida (secoli XIVXV). Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 1-3 dicembre 2011), a cura di S. Maddalo - I. Lori Sanfilippo (2013), pp. 386, ill.

I giovani nel medioevo. Ideali e pratiche di vita. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXIV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 29 novembre - 1 dicembre 2012), a cura di I. Lori Sanfilippo - A. Rigon (2014), pp. 308, ill.


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Comunicare nel medioevo. La conoscenza e l’uso delle lingue nei secoli XII-XV. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 28-30 novembre 2013), a cura di I. Lori Sanfilippo - G. Pinto (2015), pp. 354, ill.


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