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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”
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CONDANNARE ALL’OBLIO. PRATICHE DELLA DAMNATIO MEMORIAE NEL MEDIOEVO
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Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno
(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27-29 novembre 2008)
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ISA LORI SANFILIPPO e ANTONIO RIGON
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2010
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III serie diretta da Antonio Rigon
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Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
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Comune di Ascoli Piceno
Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno
Istituto storico italiano per il medio evo
© Copyright 2010 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO Redazione: SILVIA GIULIANO ISBN 978-88-89190-73-9
Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2010
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Naturalmente faccio i migliori auguri per la riuscita di questo convegno. Quando mi è arrivato il depliant ho fatto qualche ricerca, ho cercato qualche notizia sulla damnatio memoriae. Pensate che è un fatto sempre esistito: in età Repubblicana c’erano l’abolitio nominis e la rescissio actorum in base alle quali il prenome del condannato non si poteva tramandare e tutte le cose che egli aveva fatto dovevano essere distrutte: una vera e propria condanna a scomparire dalla storia. Questo è successo anche in età Imperiale: una grande lista di imperatori, tra i quali Caligola, venivano condannati e di loro non si doveva più parlare. Nel Medioevo la pratica è continuata ed ha lambito con i suoi effetti anche la Chiesa: prendiamo il caso di Papa Formoso, del quale non si doveva più parlare. In epoca successiva, a Napoli, ricordiamo la sostituzione degli stemmi dei Borboni sul Palazzo Reale e sul Teatro San Carlo con lo stemma dei Savoia. Ai tempi moderni basta pensare alle grandi dittature del secolo scorso. Nell’Unione Sovietica c’erano delle fabbriche che lavoravano assiduamente per costruire le statue di Stalin; quando è caduto il muro di Berlino c’è stato un gran lavorio per distruggerle tutte: una vera e propria damnatio memoriae. Si discute ora di togliere la statua di Lenin dalla Piazza Rossa che, è noto, è stata meta di un gran numero di operai che andavano a rendergli omaggio... ora ci sono solo i turisti. Pensate a quello che è accaduto in Germania dopo il Nazismo, benché tale nazione abbia avuto il coraggio di mantenere alcune memorie dei campi di concentramento, cosa che non è avvenuta, per esempio, per i gulag in Russia. Un episodio che ha fatto molto discutere in Spagna è stato la rimozione della statua di Francisco Franco dopo 30 anni dalla sua morte. Allora, al di là del racconto delle cose accadute, la domanda che uno si pone è questa: è giusto cancellare la storia? Oppure dobbiamo avere il coraggio di accettarla? Se cancelliamo ciò che non ci piace, diventiamo naturalmente più deboli, perché nella storia della cultura il confronto è
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sempre un elemento di crescita. Una cultura diventa debole quando c’è il pensiero unico, diventa forte quando c’è il confronto e quando resta il ricordo… forse il ricordo di qualcosa che non è stato un bene, tuttavia fa porre la domanda: perché è successo? Perché è potuto accadere? Quali sono state le manchevolezze degli spiriti liberi in quel momento? La storia bisogna giudicarla non rimuoverla. Quel che ho descritto capita anche a noi, quando un ricordo brutto ci dà fastidio vogliamo rimuoverlo, ma rimuoverlo vuol dire impoverire la personalità. Rimuovere può voler dire rendere più debole una civiltà. É anche vero che tante volte un ricordo può essere uno stimolo. La problematica è molto complessa, ma non sono io che ne devo trattare perché qui ci sono degli illustri oratori, tuttavia quando mi sono messo un po’ a riflettere su questo tema mi venivano in mente tante domande, perché il racconto dei fatti può essere piacevole, ma serve fino ad un certo punto! Quello che veramente serve è riflettere sui fatti e cercare di dare delle ipotesi di soluzione. Questa sera purtroppo non posso trattenermi a lungo, ma spero che emergano ipotesi stimolanti, anche se nessuno può avere una risposta definitiva. Certe volte, andando a leggere pagine dimenticate, ci accorgiamo che sono tutte di ‘dissidenti russi’, condannati alla damnatio memoriae per un certo periodo; ora andiamo a leggere i loro testi e li troviamo stupendi. Penso a Forevsky. Io sono innamorato di questo autore, che forse è il più grande pensatore russo del secolo scorso e voi ragazzi certamente ne dovrete parlare a scuola, perché dovete leggere il pensiero dei grandi non la cronaca dei poveri uomini. Leggere il pensiero dei grandi, anche se tante volte ci scombussola un po’, ma ci fa bene! Pensare fa bene, fa molto bene! Allora questo convegno deve essere un occasione per noi per pensare e, talvolta, per sentirci anche interpellati, per far cadere qualche nostra certezza… però è un bene aprirsi a questo spaccato. É la prima volta che ho avuto l’occasione di riflettere su questo argomento, per cui sono molto curioso di sentire e vi ringrazio di avermi invitato.
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S. E. Mons. Silvano Montevecchi Vescovo di Ascoli Piceno
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Sono trascorsi oltre vent’anni da quando, nella sala dei Mercatori del palazzo dell’Arengo, l’allora sindaco Gianni Forlini (con la prestigiosa collaborazione del prof. Franco Cardini e di altri ragguardevoli esponenti del mondo giornalistico, quali Enzo Carra, Antonio Donat Cattin, Franco Cangini e Mario Pendinelli) presentò la prima edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno. Un Premio per accendere i riflettori sulla città, così profondamente e capillarmente medievale, ed inserirla nell’ambito dei più qualificati circuiti della cultura medievistica nazionali ed internazionali. Ascoli, la città di pietra, forte della sua storia bimillenaria era, ed è, la cornice ideale per questo appuntamento culturale che negli anni ha saputo conquistare un suo spazio assolutamente unico di grande prestigio e di risonanza internazionale. Un successo che va senz’altro ascritto agli illustri professori che si sono impegnati perché non venisse mai meno l’alta valenza scientifica di un Premio che ha saputo, negli anni, ritagliarsi uno spazio importante nel panorama culturale nazionale. Fin dalla sua prima edizione, con il riconoscimento a Elémire Zolla e Jaques Le Goff, il Premio Internazionale Ascoli Piceno si è sempre contraddistinto per la caratura internazionale degli studiosi, a qualunque titolo vi abbiano preso parte sia come componenti della giuria/Comitato scientifico che come vincitori. Ora vengono presentati gli atti del convegno 2008. Gli atti del XX Premio internazionale Ascoli Piceno, dal suggestivo titolo “Condannare all’oblio. Pratiche della damnatio memoriae nel Medioevo”, e caratterizzato per aver visto vincitore un famosissimo regista: Pupi Avati “per la sua passione, attenzione e sensibilità mostrate a più riprese nella sua densa carriera artistica e storia intellettuale nei confronti dell’universo Medioevo, straordinariamente sublimate nel film-affresco
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“Magnificat” del 1993 (presentato a Cannes) e ambientato nella settimana santa della Pasqua del 926”. Di Pupi Avati ora potremo apprezzare la sua brillante Lectio Magistralis e la sua ricerca volta, come disse, a “trovare un’epoca in cui la fede era fondamentale per riempire quel silenzio di Dio che era allora identico a quello che è oggi. Era tale e tanta la necessità di trovare un interlocutore che trascendesse le cose e gli uomini per dare un senso ad una vita così grama e bestiale, per trovare un modo di vivere e sperare”. Accanto a Pupi Avati, altri illustri cattedratici che con i loro interventi seppero rendere, come sempre interessante il Premio internazionale Ascoli Piceno. Perché il Medioevo è un periodo tutt’altro che buio ma, come disse Jacques Le Goff all’inaugurazione nell’ormai lontano 1987, “vitale, di grande progresso, un periodo tutt’altro che buio, anzi meravigliosamente colorato. Un mondo molto concreto ma anche straordinariamente capace di sognare”. Con questo nuovo volume sono certo che per Ascoli Piceno si apre una ulteriore, prestigiosa, vetrina per farne conoscere ed apprezzare il suo impianto urbanistico medievale. “Passeggiare per le sue antiche strade – scrisse Jean Paul Sartre – è come lo sfogliare a caso un volume di storia dell’arte e avere la fortuna di incontrare le illustrazioni più rappresentative e espressive dei vari periodi dell’arte italiana”.
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il Sindaco (Dott. Ing. Piero Celani)
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L’intervento della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno a sostegno dell’Istituto di Studi Medievali Cecco d’Ascoli, finalizzato a rafforzare la presenza e la conoscenza del Premio Internazionale Città di Ascoli sul territorio, si completa con la raccolta degli Atti relativi alla XX edizione del Premio Internazionale Ascoli Piceno 2008. Un intervento concreto, dimostrazione dell’impegno profuso dalla Fondazione nel territorio e per il territorio, operando su due livelli: da un lato, la Fondazione produce reddito, perchè senza adeguati rendimenti degli investimenti non è possibile erogare e, dunque, svolgere il proprio ruolo istituzionale, dall’altro utilizza tale reddito allo scopo di massimizzarne l’utilità sociale, restituendo, cioè, alla comunità locale un beneficio sociale superiore rispetto all’impegno economico distribuito. Per raggiungere tale obiettivo, la Fondazione pone in essere una dialettica continua con i soggetti del Terzo Settore, di cui essa stessa così come l’Istituto di Studi Medievali Cecco d’Ascoli fanno parte, attivando forme di collaborazione che siano in grado di dare concretezza alle idee espresse dalla comunità locale. La Fondazione ha messo in campo risorse proprie allo scopo di promuovere la città di Ascoli Piceno. Attraverso il Premio si intende inserire la città di Ascoli Piceno nell’ambito dei circuiti culturali nazionali ed internazionali più qualificati, veicolando l’immagine dei nostri luoghi anche al di fuori dei confini locali. Un fatto concreto che conferma l’attenzione della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno verso la crescita del proprio territorio, di cui essa stessa si fa espressione attraverso una dialettica continua e a diversi livelli con tutta la nostra comunità, al fine di raccoglierne i segnali, di coglierne le opportunità e di favorire tutte quelle forme di collaborazione e coordinamento il risultato delle quali sia un beneficio collettivo. Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
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Introduzione ai lavori
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Sono trascorsi venti anni da quando Gianni Forlini, sindaco illuminato e lungimirante di Ascoli Piceno, con felice intuizione lanciò l’idea di istituire il Premio internazionale Ascoli Piceno, collegandovi lo svolgimento di un convegno. Lo scopo era quello di contribuire ad approfondire la conoscenza di un’epoca «nella quale – affermava il sindaco nel discorso inaugurale del primo convegno – affondano le radici della nostra civiltà», che ha segnato profondamente la stessa facies urbana di Ascoli. Ma lo scopo – sosteneva con forza e convinzione Forlini – era anche quello di «costituire e garantire in via permanente alla città, un fatto culturale di alto livello» perché – scriveva – «occorre accostarsi alla vera cultura … per poter essere una città viva e non un agglomerato di case e di individui, spenti nella solitudine propria dell’isolamento». Non fui allora coinvolto nell’iniziativa, ma a rileggere i primi volumi di Atti dei Convegni ascolani, a scorrere la lista dei premiati, ad ascoltare i ricordi di chi allora era presente si coglie bene il clima di entusiasmo fattivo con il quale si affrontò l’impresa, la sua alta qualità, l’interesse suscitato, il consenso ottenuto nel mondo della cultura e nella cittadinanza ascolana. Le parole del primo illustre premiato, Jacques Le Goff, un grande della medievistica internazionale, che ascolteremo nella videointervista conclusiva di queste giornate (il cui testo verrà inserito negli Atti), sono una testimonianza eloquente di quegli esordi felici. Dopo venti anni sarebbe forse il caso di tracciare un bilancio scientifico del lavoro svolto; forse lo faremo; una prima traccia si può trovare già nell’intervento introduttivo al volume che raccoglie gli Atti del Convegno su Cecco d’Ascoli, svoltosi in occasione della 17a edizione del Premio, che, con una Giuria / Comitato scientifico rinnovati, inaugurò una nuova fase della manifestazione. Intanto mi preme dire che l’entusiasmo c’è ancora; c’è ancora l’impegno, ci sono i risultati. I convegni hanno assunto sempre più un carattere internazionale; l’Istituto storico italiano per il Medio Evo, grazie alla sollecitudine del suo Presidente, prof. Massimo Miglio, e al lavoro dei suoi col-
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laboratori che cordialmente ringrazio, ha puntualmente pubblicato gli Atti dei nostri Convegni in una nuova collana dalla splendida veste editoriale. Nella dimensione della storia politica e della cultura, che costituisce il filo rosso dei Convegni ascolani, la stessa storia di Ascoli ha sempre avuto un suo posto di rilievo e ad essa si è rivolta una costante attenzione. Con una punta di orgoglio credo di poter dunque affermare che la finalità, indicata vent’anni fa dal sindaco Forlini, di inserire la città nel circuito vivo degli studi e della cultura si è realizzata. Nell’ambito della medievistica Ascoli è ormai un centro di eccellenza, capace non solo di proporre forme organizzative nuove con il concorso di enti pubblici e privati, ma di assumere anche prospettive di ricerca innovative nel settore degli studi medievali, come anche questo convegno dimostra. L’argomento scelto dal Comitato scientifico per festeggiare il ventennale di istituzione del Premio internazionale Ascoli Piceno, quello della damnatio memoriae, è difatti nuovo per la storiografia medievistica italiana e poco frequentato da quella internazionale. Molto, in verità, è stato scritto sul tema della memoria: si potrebbe fare un lungo elenco di opere e di autori – non solo storici e non solo medievisti – che ad esso hanno dedicato riflessioni di metodo e ricerche sul campo. Il rapporto con la storia, la memoria come cultura e civiltà, l’invenzione della tradizione, il legame con gli archivi, i linguaggi della memoria sono stati e sono soggetto di costante attenzione da parte di studiosi notissimi: da Jacques Le Goff a Michel de Certeau, da Otto Gerhard Oexle a Pierre Nora, da Peter Burke a Eric Hobsbawm per citare solo alcuni tra i maggiori rappresentanti della storiografia francese, tedesca, anglosassone. Pochi temi come questo si sono prestati al dialogo con le scienze umane e sociali, per non parlare delle suggestioni derivanti dalla psicologia, dalla psicanalisi, dalla biologia. Il fatto è, per dirla con Le Goff, che «il concetto di memoria è un concetto cruciale». Lo è per tutte le epoche e in particolar modo per il medioevo. Religione del ricordo, il cristianesimo medievale diffonde i propri riti fondati sulla memoria di Gesù e sulla commemorazione dei santi e dei defunti, il cui nome si fissa in calendari, necrologi, obituari, libri memoriales di chiese e monasteri. Lunghe liste di antenati celebrano la memoria lunga di stirpi, di popoli e di regnanti, la memoria genealogica di nobili famiglie e casati, le ricordanze di borghesi e mercanti. Le città tramandano il ricordo di mitici fondatori laici ed ecclesiastici, recuperano ed inventano tradizioni, dispongono in un’elementare annalistica la successione delle magistrature ed elaborano poi una più matura coscienza storica in forma di cronaca. Gli Ordini religiosi, e più di ogni altro l’Ordine dei frati Minori, scrivono a più riprese la storia delle loro origini e della loro evoluzione, cercano di coglierne il senso profondo, valutano il proprio pre-
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INTRODUZIONE AI LAVORI
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sente alla luce del proprio passato, dividendosi a volte drammaticamente, nel giudizio, come appunto nel caso dei francescani, dolorosamente scissi, fra Due e Trecento, nel reputare successo o deviazione lo sviluppo dell’Ordine. Fra di loro a fare le spese di una memoria divisa è innanzitutto un personaggio come frate Elia, successore di Francesco alla guida dell’Ordine, sul cui ricordo cadde la damnatio di quanti lo ritenevano colpevole di tradimento nei confronti dell’originaria proposta di vita cristiana del fondatore. Nel secolo che vide la demonizzazione degli scomunicati Federico II ed Ezzelino da Romano, anche frate Elia incappò nella scomunica [antica pratica di damnatio memoriae cristiana], che, nella pratica, significò spesso anche memoria negata, condanna all’oblio. Nel sinodo di Reisbach del 798 si dispose, per uno scomunicato, che dopo la sua morte nulla si scrivesse a sua memoria; e nel sinodo di Elne del 1027 si decretò, a proposito di altri condannati, che i loro nomi non venissero letti sull’altare assieme a quello dei fedeli morti. Sul versante laico la condanna all’oblio venne attuata in forme diverse: la distruzione di documenti, l’annullamento di statuti, la cancellazione di stemmi, simboli, insegne di un passato regime. A Padova, dopo il 1236 sembra cessare ogni produzione legislativa: il codice statutario del comune distingue gli statuta vetera, anteriori a quell’anno, dai successivi emanati solo a partire dal 1257. Nel mezzo c’è un vuoto normativo di venti anni: precisamente il ventennio della dominazione di Ezzelino. Sui provvedimenti statutari di quegli anni cadde in realtà la mannaia dell’annullamento e dell’oblio totale e irreversibile, corrispondente alla distruzione di gran parte della documentazione prodotta negli anni del “perfido Ezzelino”. Ad Ascoli, a pochi mesi dalla caduta della signoria di Ardizzone e Obizzo da Carrara (agosto 1426) e dal ritorno della città sotto il diretto dominio papale, ci si affrettò a far sparire le tracce della signoria dei da Carrara e il 10 febbraio 1427 fu versato un ducato d’oro a maestro Giovanni pictor «quia pinxit arma, insignia sanctissimi domini nostri pape et Ecclesie in platea Arengi et pro pictura quatuor confalonorum populi et pro destruendo arma et insignia illorum de Carraria in tota civitate». Il fatto è che impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle prime e delle massime preoccupazioni dei vincitori, dei gruppi dominanti e degli individui che raggiungono ed esercitano il potere. La damnatio memoriae può anzi diventare un supporto potente e una componente ideologica essenziale a sostegno di istituzioni politiche, progetti di governo, disegni egemonici. Così avvenne, ad esempio, nei comuni della Marca Trevigiana, e in particolare a Padova, dove manovrando il ricordo e praticando l’oblio attorno alle figure dannate di Ezzelino e di Federico II, i governi cittadini innalzarono
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il vessillo delle libertà comunali contro la tirannide, legittimando se stessi e dando spessore ideologico al proprio sistema costituzionale. Condannare all’oblio! La memoria negata in realtà non esaurisce tutte le pratiche della damnatio memoriae. Certo, ci può essere l’annullamento o il tentativo di annullamento del ricordo anche nelle forme estreme e violente del rogo di uomini e di libri, largamente praticate nell’età di mezzo. Ma la damnatio memoriae è anche nascita di miti che perpetuano in negativo il ricordo di personaggi ed eventi del passato. Può essere anche condanna al ricordo attraverso le intoccate rovine di case e palazzi dei traditori, le pitture infamanti, le maledizioni, le invettive scolpite nella pietra, le scalpellature che perpetuano il ricordo di figure ed eventi del passato e, simbolicamente, emettono una sentenza di condanna destinata a restare e, almeno nelle intenzioni, a infiggersi nella memoria individuale e collettiva. Noi, uomini del Novecento, abbiamo inciso per sempre nel cuore un imperativo: «Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole». Sono le parole di Primo Levi in Se questo è un uomo, che richiamano la grandezza universale del tema della memoria e i nostri limiti. Il convegno guarda solo al medioevo (né poteva essere diversamente), si concentra su alcuni temi, prende in esame solo alcuni personaggi, non pretende alcuna esaustività. Rifletteremo in generale su concetti e teorie del non ricordo, affronteremo temi metodologici e legati alla problematica delle fonti, ci muoveremo tra politica, arte, cultura, ricorrendo a testi giuridici, letterari, cronachistici, a documenti e fonti iconografiche ed epigrafiche; punteremo ancora una volta i riflettori anche su Ascoli e la sua storia. Siamo consapevoli di essere solo all’inizio di una ricerca che ci auguriamo non si esaurisca in questo convegno, ma dia l’avvio ad altri lavori, ad altri approfondimenti, come l’importanza del tema merita. Intanto devo ringraziare come sempre (ma da parte mia al di fuori di ogni ritualità) chi sostiene la nostra attività e quella dell’Istituto superiore di Studi medievali (Premio, convegno, corsi di alta cultura), consapevole dell’importanza che esse rivestono per una città come Ascoli: l’amministrazione comunale di Ascoli, la Fondazione Carisap, la Provincia, la Camera di Commercio. Un ringraziamento va anche alla Giunta regionale della Regione Marche che ha concesso il proprio patrocinio. Un plauso caloroso infine al prof. Morganti, Presidente dell’Istituto superiore di Studi medievali Cecco d’Ascoli, alla dott.ssa Elia Calilli, a Isabella Monti, ad Alessandro Simoni, a Laura Castelli per l’assiduo e appassionato impegno profuso anche in questa occasione per l’organizzazione e la migliore riuscita del convegno e delle manifestazioni. Diamo dunque inizio ai nostri lavori.
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Damnatio memoriae - oblio culturale: concetti e teorie del non ricordo
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Il Giovedì Santo dell’anno 1346 papa Clemente VI annunciò la scomunica dell’imperatore Ludovico IV, detto il Bavaro, che fu anatemizzato a causa del suo comportamento eretico: «L’ira di Dio Onnipotente e dei Santi Pietro e Paolo, la cui chiesa egli ha voluto e vuole rendere piena di vizi s’infiammi contro di lui – in questa e nella prossima vita; che tutti gli elementi lottino contro di lui in questa e nella prossima vita! [...] In una generazione sia cancellato il suo nome e la sua memoria sparisca dalla terra! [...] Che i meriti di tutti i santi lo annichilino e gli mostrino già in questa vita la vendetta, che dovrà aprirsi su di lui nella vita prossima! I suoi figli siano allontanati dalle loro case e cadano nelle mani dei loro nemici di fronte ai suoi occhi»1. Inoltre in una lettera del 7 dicembre 1347 a Carlo IV di Lussemburgo, Clemente condanna l’imperatore «ipse damnate memorie Ludovici de Bavaria»2. Con queste parole, l’imperatore fu condannato con raro vigore. Con la dichiarazione di voler sopprimere la 1
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«[...] in generatione una deleatur nomen eius et dispereat de terra memoria eius. Cuncta elementa sint ei contraria. Habitatio ejus fiat deserta, et omnium sanctorum quiescentium merita illum confundant, et in hac vita super eum apertam vindictam ostendant, filiique ipsius ejciantur de habitationibus suis, et videntibus ejus oculis in manibus hostium eos perdentium concludantur»: Annales Ecclesiastici, ad. 1346, § 7, nell’edizione degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, continuati da O. Raynaldo, XVI, Coloniae Agrippinae 1691, e nell’edizione degli Annales Ecclesiastici continuati da A. Theiner, XXVI, Bar-le-Duc 1872. Nella predica dello stesso giorno (1346, Apr. 13) Clemente VI non utilizza la metafora della memoria annullata, cfr. J.P. Schunk, Beyträge zur Mainzer Geschichte mit Urkunden, 3 voll., Mainz 1788-1790, II, pp. 341-352. Sul conflitto dell’imperatore Ludovico e la curia cfr. M. Menzel, Die Memoria Kaiser Ludwigs des Bayern, in Auxilia Historica. Festschrift für Peter Acht zum 90. Geburtstag, München 2001, pp. 249-283: 250; M. Kaufhold, Gladius Spiritualis, Heildelberg 1994, p. 282: nota 134; J. Miethke, Kaiser und Papst im Spätmittelalter. Zu den Ausgleichsbemühungen zwischen Ludwig dem Bayern und der Kurie in Avignon, «Zeitschrift für Historische Forschung», 10 (1983), pp. 421-446. 2 S. von Riezler, Vatikanische Akten zur Deutschen Geschichte in der Zeit Kaiser Ludwigs des Bayern, München 1891, rist. anast. Aalen 1973, p. 849.
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memoria di Ludovico Clemente VI si riferiva ad una pratica antica, che sottintendeva non solo la distruzione fisica dell’avversario, ma anche la cancellazione del suo ricordo. Non voleva soltanto distruggere l’avversario, ma anche cancellare per sempre il suo ricordo, come se lui non fosse mai esistito. Questi concetti di cancellare la memoria si trovano più sviluppati nell’antichità3. Si applicavano a persone che, a causa di alto tradimento (perduellio), venivano condannati a morte, alla confisca dei loro beni e all’annullamento della loro memoria. Abbiamo precisa conoscenza dell’esercizio dell’antica damnatio memoriae tramite il senatus consultum, cioè la decisione del Senato sul destino di Cnaeus Calpurnio Piso nell’anno 20 d.C.4. Gli fu revocato il diritto alla tomba, ai suoi parenti fu vietato di piangerlo e furono capovolte le statue che lo raffiguravano in pubblico. Inoltre non fu permesso ai suoi parenti di tenere in casa la sua immagine. In altri casi è noto che fu vietato di dare il suo nome a membri della sua famiglia. Questa condanna fu eseguita, tra l’altro, anche nei confronti di Nerone (68), di Giuliano (193), e addirittura di Massimino (238) 5. Questi imperatori furono dichiarati nemici dello Stato dopo morti con decisione del Senato. In seguito a questo decreto – il senatus consultum – le loro statue furono rimosse, fu eseguita l’eradicazione del loro nome da iscrizioni e monete e furono rescissi i loro atti personali di governo (= rescissio actorum)6. In questo senso la damnatio memoriae è una parte stabilita del pensiero giuridico romano nelle leggi e nella prassi amministrativa. La formula damnatio memoriae invece è un termine tecnico dell’età moderna, usato nella storiografia come metafora e non si trova nelle fonti del mondo antico. Solo dal Seicento appare la costruzione nominale Damnatio Memoriae7. Già da molto tempo la damnatio memoriae viene esaminata in dettaglio come un fenomeno giuridico di ricerca nella Storia antica. La prima tesi 3 N. Loroaux, La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Paris 1997; per l’epoca biblica cf. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997. 4 W. Eck - A. Caballos - F. Fernandez, Das senatus consultum de Cn. Pisone patre, München 1996, riporta il testo intero del senatus consultum alle pp. 38-51. 5 S. Brassloff, Damnatio Memoriae, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV, Stuttgart-Weimar 1901, coll. 2059-2062; Chr. Gizewski, Damnatio memoriae, in Der Neue Pauly, III, Stuttgart-Weimar 1996, pp. 299-300. 6 T. Mayer-Maly, Damnatio memoriae, in Der Kleine Pauly, Lexikon der Antike in fünf Bänden, 1, Köln 1979, p. 1374. 7 Su “damnatio memoriae” come termine tecnico v. F. Vittinghoff, Der Staatsfeind in der römischen Kaiserzeit: Untersuchungen zur “damnatio memoriae”, Berlin 1936, (Neue deutsche Forschungen Abteilung Alte Geschichte), pp. 64-74.
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DAMNATIO MEMORIAE
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con il titolo De Damnatione Memoriae è stata scritta a Lipsia da Christoph Schreiter nel 16898. Certo, dato che il volume consta di 40 pagine, nella tesi non c’è posto per una riflessione metodologica. Tuttavia questo lavoro è una compilazione di tutte le fonti storiografie e giuridiche importanti dell’epoca del Principato e documenta già le specifiche implicazioni giuridiche nel diritto romano. Sempre a Lipsia, duecento anni dopo fu pubblicata da Gottfried Zedler una tesi metodologicamente già più corretta, essendo i suoi ragionamenti basati sulla damnatio memoriae nell’ambito della storia giuridica9. Il punto sugli studi sulla damnatio memoria nell’ambito antico-romana è stato fatto da Friedrich Vittinghoff nel 193610. Recentemente, nel 2004 e nel 2006, due storici americani, Eric Varner11 e Harriet Flower12, hanno pubblicato due monografie sul tema, con le quali hanno verificato il valore del paradigma di ricerca sull’intenzionale eliminazione dalla memoria. Essi descrivono la damnatio memoriae oltre il contesto giuridico e istituzionale, spiegandone le implicazioni culturali13. Tuttavia questo fenomeno della distruzione e annullamento dalla memoria storica esisteva pure nel medioevo cristiano, anche se non era chiamato “damnatio memoriae” e non era coerente con le misure legali, che sono riportate per l’uso della damnatio memoriae nell’antichità. Alcuni medievalisti qualificano singole condanne o misure tra il quinto e il quindicesimo secolo come damnatio memoriae. In genere queste condanne esprimono non solo l’intenzione di un processo di oblio accelerato, ma soprattutto la distruzione deliberata di tutte le tracce e le implicazioni storiche. Ritengo che in seguito sarà necessario prendere in considerazione anche un’altra implicazione della damnatio memoriae: la deformazione delle tradizione storiche. Per questo sembra utile presentare qui un altro esempio. Nella cronaca di Thomas Ebendorfer (scritta nel 1463) si legge su Ludovico: «L’imperatore, ignorando la scomunica del 1328 ed essendo consigliato dai Romani e da altri principi secolari e ecclesiastici, andò a Roma per ricevere la consacrazione e la corona imperiale. Ma il papa Giovanni XXII gliele rifiutò e per questo l’imperatore nominò papa, in accordo con il con8 Chr. Schreiter, Dissertationem juridicam de damnatione memoriae, Lipsiae 1689. 9 G. Zedler, De Memoriae Damnatione quae dicitur, Darmstadt 1885. 10 Cfr. supra nota 7. 11 E. Varner, Mutilation and transformation: damnatio memoriae and Roman imperial
portraiture, Leiden-Boston 2004 (Monumenta Graeca et Romana, 10). 12 H.I. Flower, The art of forgetting disgrace and oblivion in Roman political culture, Chapel Hill, NC 2006. 13 Preannunciata per il 2010 la dissertatione sintetica sulle concezioni giuridiche e sociali della damnatio memoriae nell’antichità: F. Krüpe, Damnatio Memoriae, Gutenberg [2010].
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siglio dei Romani e di alcuni vescovi, un certo Pietro di Corbara, che chiamò Nicola V, un frate minore originario della Spagna. Dopo aver destituito papa Giovanni e aver nominato alcuni cardinali, Nicola effettuò l’incoronazione imperiale di Ludovico»14. Il racconto tralascia aspetti essenziali: non viene menzionato, per esempio, Sciarra Colonna, personaggio importante del viaggio a Roma. Invece l’autore della cronaca descrive la seconda incoronazione di Ludovico, molto meno significativa, eseguita dall’ultimo antipapa imperiale. L’autore non solo avvolge Sciarra Colonna nel manto del silenzio, ma occulta così uno dei più controversi, ma anche dei più creativi personaggi della storia romana sotto il termine “Romani”. Ebendorfer, come cronista imperiale della corte degli Habsburg a Vienna15, pone l’accento unicamente su Niccolò V, la creatura di Ludovico. Nella storiografia risulta che la deformazione storiografica e il silenzio sul tribuno di Roma fanno parte del fenomeno della damnatio memoriae. L’obiettivo di questa relazione è illustrare le due manifestazioni del fenomeno della damnatio memoriae, cercando di descrivere la tecnica culturale del “fare oblio” negli attuali concetti teorici sul ricordare e di classificarla nell’ambito della memoria, presentando in questo modo un quadro d’interpretazione per studi seguenti. All’inizio andrebbe citato Ludovico IV il Bavaro. In primo luogo si parla della tecnica della cancellazione materiale, cioè la distruzione fisica delle tracce. Poichè la scoperta o il rintracciamento della distruzione di statue, monumenti, chiese, ecc. richiedono specialisti, gli storici dipendono dai risultati di altre discipline come l’archeologia e la storia dell’arte. Nel caso di Ludovico il Bavaro ci si riferisce agli studi sulla sua damnatio nelle cattedrali e nelle chiese di Augsburg, Monaco di Baviera, Indersbach etc16. Per esempio Clemente VI ordinò in una delle
14 Thomas Ebendorfer, Chronica pontificum Romanorum, ed. H. Zimmermann, in Monumenta Germaniae historica, Scriptores rerum Germanicarum, Nova Series, 14, München 1994, p. 448: «Imperator vero eius excommunicationem parvipendens circa annum Domini MCCCXXX [recte 1328] ad suasionem Romanorum et aliorum principum tam spiritualium quam secularium, Romam venit, quatenus benedictionem imperialem susciperet et dyadema, sed cum papa sibi hoc denegaret, suasione Romanorum et ceterorum principum, eciam episcoporum quendam fratrem Petrum de Corbaria, quem Nicolaum V. appellavit, nacione Hyspanum, ordinis Minorum, sibi in papam delegit, Johannem a papatu vero deposuit, qui et post electis certis cardinalibus Ludowicum imperiali dyademate insignivit». Cfr. J. von Pflugk-Harttung, Die Wahl des letzten kaiserlichen Gegenpapstes Nikolaus V. 1328, «Zeitschrift für Rechtsgeschichte», 22 (1901), pp. 568s. 15 H. Zimmermann, Thomas Ebendorfer als Universalhistoriker der konziliaren Epoche, «Römische Historische Mitteilungen», 40 (1998), pp. 389-414. 16 R. Suckale, Die Hofkunst Kaiser Ludwigs des Bayern, München 1993, p. 27.
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sue lettere che tutti i documenti e privilegi di Ludovico sarebbero dovuti essere distrutti, in particolare quelli in cui il volto di Ludovico (imago eius) era visualizzato sulla lettera iniziale – un’invenzione della cancelleria di Wittelsbach a Monaco di Baviera. Troviamo una sua profanazione in un manoscritto di Monaco di Baviera, una copia del diritto dell’AltaBaviera17, dove si può notare la sfigurazione intenzionale del volto di Ludovico. Abrasioni del viso, atti simili e, inoltre, anche cancellazione del nome “LU (DOVICUS) IMP (ERATOR)” sono evidenti nell’antifonario dell’imperatrice Margarethe di Olanda18. Queste rasure riguardano il secondo livello della damnatio memoriae, ossia la deformazione di fonti scritte o la censura di testi e passaggi, così come li ho esposti all’inizio. Questo “fare oblio” metodico è da confrontare con gli attuali concetti teorici sul ricordare. Per mettere in ordine la diversità delle condanne alla cancellazione dal ricordo sociale devono essere esaminate le diverse teorie sulla questione della memoria e dell’oblio. La posizione più chiara è stata formulata da Umberto Eco nel 198819. Egli mette fondamentalmente in dubbio la possibilità dell’oblio artificiale. Nel suo saggio, intitolato “An ars oblivionalis’ – Forget it!”, sostiene che l’eliminazione della memoria è contraria a tutti i trattati medievali e moderni sulla memoria, che anzi consigliano metodi per ricordare cose o persone attraverso analogie, sillogismi, concatenamenti mentali, ecc. La capacità mnemonica aumenta in relazione alla capacità di associare cose sconosciute a cose conosciute. Secondo Eco questo processo non è reversibile. I trattati alto-medievali ammettono che i luoghi (loci) sono collegati mentalmente alla memoria delle cose da ricordare. Queste, una volta poste nella memoria, non possono essere rimosse artificialmente, soppresse o sciolte. È stato dimostrato da Paolo Rossi nel 1966 con la pubblicazione della sua Clavis Universalis20, che gli autori medievali erano consapevoli del fatto che i processi smemorativi non erano control-
17 Oberbayerisches Landrecht, München Bayerische Staatsbibliothek, germ. 1506; cf. R. Suckale, Oberbayerisches Landrecht Ludwigs des Bayern, in Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation. 962 bis 1806. Von Otto dem Grossen bis zum Ausgang des Mittelalters, cur. M. Puhle - Cl.P. Hasse, Dresden 2006, p. 380; H. Schlosser, Oberbayerisches Landrecht Ludwigs des Bayern von 1346, Köln-Weimar 2000, pp. 16-17. 18 R. Suckale, Antiphonar der Kaiserin Margarethe von Holland, in Heiliges Römisches Reich cit., pp. 375-376. 19 U. Eco, An Ars oblivionalis? Forget it!, «Publications of the Modern Language Association», 108/8 (1988), pp. 254-261. 20 P. Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna 1960, rist. 2000; cfr. anche Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Sei saggi di storia delle idee, Bologna 1991.
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labili. Solo l’invecchiamento naturale, demenza, debolezza mentale e degenerazione possono accelerare il dimenticare. Questa interpretazione riguarda solo il livello semiotico del ricordare e il rapporto tra significante e significato. Relativamente al livello dell’esistenza dei “segni del ricordo” la damnatio memoriae consiste nell’antica forma della distruzione in pubblico. Questi “segni del ricordo” erano il vero luogo della memoria, fornendo la capacità di ricordare. Con la loro distruzione sparisce lo stimolo per ricordare. La memoria non viene recuperata, quindi è cancellata. Il problema dei segni, che non possono simboleggiare la loro non-esistenza, si applica anche alla letteratura. Il linguaggio non può accennare al silenzio, ossia alla non-esistenza. Per quanto riguarda la damnatio memoriae ciò significa che il non detto si perde nella dimenticanza. Harald Weinrich scrive nel saggio Lete: arte e critica dell’oblio su questo paradosso21. Afferma che il dimenticare artificialmente è possibile senza la distruzione dei segni promemoria. Si riferisce a questo tema, quando parla dell’ambito delle forme speciali di mnemotecnica del medioevo. Riporta le indagini svolte da Lina Bolzoni, Le stanze della memoria riguardo ai teorici della memoria del Quattrocento22. Questi studiosi, alla soglia dei tempi moderni, svilupparono nei loro trattati un metodo per cancellare i ricordi. La procedura era un approccio intellettuale e trovava la sua base in Cicerone e nella Rhetorica ad Herennium. La memoria, secondo loro, è la concatenazione delle cose da ricordare con immagini e luoghi virtuali. Più vivide e impressionanti sono queste immagini, più profondamente si radicano nella memoria come imagines agentes23. Rimanendo a questo livello si usa la stessa capacità mentale per distruggere quelle immagini, che sono state usate per creare le concatenazioni. Si usano tecniche per nascondere, oscurare o confondere queste immagini mentali con altre immagini. Così diviene ovvio, che già nel Medioevo esistevano ragionamenti teorici sulla sovrapposizione delle immagini, ossia sulla manipolazione della memoria. Sulla base di questa prospettiva possiamo quindi ritenere che la distruzio-
21 H. Weinrich, Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens, München 1997; trad. it. Bologna 1999. 22 L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino 1995 (trad. ingl. Toronto 2001). Cfr. anche Bolzoni, Memoria e memorie. Convegno internazionale di studi, Roma, 18-19 maggio 1995, Accademia Nazionale dei Lincei, Firenze 1998. 23 Weinrich, Lethe cit., p. 251; Bolzoni, Stanza della memoria cit., p. 146 nota 24. Si riferisce: Giovanni Fontana, Secretum de thesauro experimentorum ymaginationis hominum, in E. Battisti - G. Saccaro Battisti, Le macchine cifrate di Giovanni Fontana, Milano 1984, pp. 143-158, 155.
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ne della memoria può essere eseguita tramite la distruzione delle immagini stimolanti, avendo la memoria bisogno della ripetizione e della stimolazione. Il secondo passo della damnatio memoriae, la deformazione e la reinterpretazione di un racconto storico, può causare l’oblio in modo diverso. Questa questione dei mezzi dell’oblio è il tema centrale della monografia di Kai Behrens sulla “Obliviologia Estetica” pubblicata nel 200524. Il termine obliviologia è un neologismo per descrivere la scienza del dimenticare. L’interesse di Behrens verte sull’analisi di come la conoscenza diventa non-conoscenza. Per noi, che ci interessiamo della damnatio memoriae è importante l’elaborazione del modello medio-trasmettitore-ricevitore. Nella letteratura l’oblio può essere interpretato come un’attività creata da un autore o poeta originario, che intende “fare dimenticare”. Dall’altra parte è situato il ricevente, o piuttosto la vittima dell’oblio. Il “medio” (nel modello medio-trasmettitore-ricevitore) consiste nel difficile processo del dimenticare. Questo processo ha due aspetti, l’abilità di dimenticare e la voglia di fare-dimenticare. Come conseguenza della comunicazione, l’oblio da parte del ricevitore proviene quindi dalla deformazione di un messaggio precedente. Per quanto riguarda la damnatio memoriae, ciò significa che il dimenticare non si trova su entrambi i lati. Come si vede nel caso di Ludovico di Baviera, nel quale il papa intende non dimenticare l’ereticità dell’imperatore, ma vuole che il pubblico, ossia i fideles dimentichino il regno del Bavaro. Questo ci conduce al concetto di memoria culturale, che è stato presentato da Jan Assmann nel 1992, in un libro pubblicato in italiano nel 199725. La memoria culturale si basa su esempi tratti dalle civiltà antiche avanzate. Questo concetto è stato sviluppato anche dal ricordo sociale – come scrive Aleida Assmann – che introduce anche una distinzione tra memoria culturale e memoria funzionale26. Questa è importante in quanto la memoria funzionale possiede carattere ufficiale ed è utile particolarmente per il potere dello Stato. La memoria ufficiale può essere usata da parte dello Stato per la sua legittimazione. Il potere ha bisogno di un’eredità (Herrschaft braucht Herkunft). Per questo ha sempre una memoria pro24 K. Behrens, Ästhetische Obliviologie zur Theoriegeschichte des Vergessens, Würzburg 2005 (Epistemata. Reihe Literaturwissenschaft, 476). 25 J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München 1992, trad. ital. La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997. 26 A. Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandel des kulturellen Gedächtnisses, München 1999, trad. ital. Ricordare: forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna 2002.
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pria. La distruzione di una tradizione culturale del funzionamento della memoria crea, secondo Assmann, lo spazio per una chiara auto-legittimazione. In questo modo si può cancellare dalla memoria come delegittimazione qualsiasi posizione critica. Inoltre, il concetto di memoria culturale di Assmann, che collega la dimensione retrospettiva con le prospettive della memoria, è anche utile come prova per la distruzione della memoria che avviene in vista del presente e del futuro. L’idea della memoria culturale e della memoria comunicativa è basata sul background teorico della memoria collettiva. Maurice Halbwachs ha analizzato le condizioni della memoria sociale e il suo impatto sul gruppo27. Si basa sull’intensa attività di ricerca di Sigmund Freud, ma non include le due questioni fondamentali per la damnatio memoriae: la dimenticanza collettiva e in particolare la dimenticanza coatta. Anche se questa relazione non descrive esplicitamente l’approccio psicologico e medico, il concetto freudiano di rimozione rimane centrale. L’interpretazione psicoanalitica mostra come la dimenticanza è intenzionale come rimozione degli istinti. Così va perso quella che possiamo chiamare “l’innocenza del dimenticare”. Possiamo però vedere un’analogia con la damnatio memoriae: a livello psicoanalitico, la dimenticanza del singolo ha sempre una causa. La dimenticanza sociale funziona come pratica intenzionale che caratterizza la storia. Inoltre la storiografia deve a Freud28 numerosi concetti, come la rimozione dei ricordi o degli istinti e l’analogia della memoria come lavoro. Anche Michel Foucault interpreta l’oblio in relazione ai gruppi sociali. Nel suo scritto sulla memoria (1971/1987) usa esplicitamente il concetto di memoria di Nietzsche29. Foucault conclude che la memoria deve avere un ruolo attivo per ricercare altri percorsi storici ed esperienze diverse, per avere la capacità di dubitare dell’unico racconto che legittima il potere. L’opposto del racconto legittimo e il contre-memoire dovrebbe essere la voce della minoranza trascurata per ottenere ascolto. Foucault identifica quindi la discussione delle diverse esigenze di memoria come la controversia stessa sulla validità e la sostenibilità di formazioni sociali. Tale
27 M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Paris 1935, trad. ital.: I quadri sociali della memoria, Napoli 1997; Halbwachs, La mémoire collective, Paris 2005 (Bibliothèque de l’évolution de l’humanité), trad. ital.: La memoria collettiva, cur. Paolo Jedlowski, Milano 1996. 28 S. Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens: Üeber Vergessen, Versprechen, Vergreifen, Aberglaube und Irrtum, Leipzig 19228. 29 M. Foucault, Nietzsche, die Genealogie, die Historie, in Von der Subversion des Wissens, Frankfurt a.M. 1971/1985, pp. 69-90; Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, «Il Verri», 39-40 (1972), pp. 69-82.
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controversia si manifesta nel campo della memoria tra amnesia e catarsi e dimostra di essere efficace quando la parte soccombente non ha la capacità di costruire una memoria alternativa. In questa dimensione morale del ricordare e dimenticare si inseriscono le riflessioni di Paul Ricoeur. Nel suo libro La Mémoire, l’histoire, l’oublie del 2000 egli si riferisce all’identità come alla più importante qualità del ricordo, come è noto già dai testi di John Locke. Ricoeur non parla solamente dell’identità individuale, ma sottolinea l’importanza dell’identità sociale30. La domanda «Chi sono io?» è elemento centrale dell’identità. La risposta a questa domanda contiene sempre la memoria, ma anche le esperienze del presente e la loro proiezione nel futuro. Questo significa che gli storici si dovrebbero concentrare principalmente sia sulle memorie sia sull’abuso della memoria per trovare accesso ad un’identità sociale. Secondo Ricoeur, l’abuso della memoria si può presentare in tre modi diversi: la memoria manipolata, la memoria coatta e la memoria impedita. Per lui la manipolazione della memoria è inizialmente il sequestro di commemorazione nelle sue varie forme, sia essa la ritualizzazione o la vita comunitaria. Una manipolazione completa significherebbe certamente il controllo di luoghi, organizzazioni e simboli. Conforme alla seconda categoria di Ricoeur, la memoria può essere manipolata tramite una commemorazione comandata. Anche se il comportamento e il modo della memoria sono opportuni, il ricordo ordinato può essere danneggiato, perché è eccessivo o troppo limitato. La terza forma di abuso, la memoria impedita, non corrisponde al fenomeno della damnatio memoriae stessa. Per Ricoeur più importante dello stimolo del ricordo è la capacità o la predisposizione dell’oblio. Qui non subentra la distruzione degli stimoli della memoria. Allora Ricoeur attribuisce un’idea immateriale alla damnatio memoriae, che si può realizzare anche senza la distruzione fisica. Per lui l’oblio è in primo luogo il sottrarre agli attori sociali la loro capacità di raccontare se stessi, di autodefinirsi. Questa espropriazione della memoria si trova già a livello del “non-voler-sapere”. La questione solleva un’ulteriore controversia sulla memoria collettiva: chi è, che si ricorda? Qual’è l’obiettivo della nonmemoria? Che cosa si può dire sull’oblio in una epoca specifica?31 30
P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris 2000, trad. ital. La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003; cfr. anche Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare : l’enigma del passato, Bologna 2004. 31 Cfr. anche M. Saar, Wem gehört das kollektive Gedächtnis? Ein sozialhistorischer Ausblick auf Kultur, Multikulturalismus und Erinnerung, in Kontexte und Kulturen der Erinnerung. Maurice Halbwachs und das Paradigma des sozialen Gedächtnisses, cur. G. Echterhoff - M. Saar, Konstanz 2002, pp. 267-278: 272.
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Ricoeur inoltre punta ad una particolare dimensione temporale dell’oblio e lo giustifica tramite il concetto di “Essere e tempo” di Martin Heidegger.32 L’aspettativa verso il futuro dipende dalle condizioni presenti, così come la memoria discende dalla dimenticanza. Infatti, nel modo di dimenticare si mostra l’orizzonte, nel quale l’individuo si può ricordare. Ne consegue l’affermazione centrale: nessuno può fare in modo che ciò che non è più – ma che è stato – non sia mai stato. Il campo interessante per gli storici è lo spazio che si apre tra il “ciò-che-non-è-più” e il “ciò-cheè-passato”. Il reperto storico dimostra che nel caso di Ludovico di Baviera i “damnatori” della memoria cercavano di distruggere tutte le tracce, quelle presenti attuali e quelle future, sapendo che non è possibile invalidare il passato. Per questo si distruggevano immagini, documenti, chiese ecc. Da ciò nasce la domanda: come accedere ai ricordi di una società passata, non raggiungibili con il metodo storico-critico? E come classificare queste tracce che non si manifestano, ma che rimangono grani di polvere senza struttura? Sono queste le memorie non estinte, ma ugualmente non giunte a consapevolezza. Tali riflessioni filosofiche, sociologiche, antropologiche e culturali ci portano ai metodi storici e ai vari approcci nella storiografia. Una distinzione pratica tra memoria e storia è difficile, ed essa fu ampiamente analizzata nel 1977 da Jacques LeGoff nel suo Storia e Memoria33. In uno scritto sulla memoria dall’antichità ad oggi egli dimostra che la storia e la memoria sono due processi di organizzazione della conoscenza distinti, anche se interagiscono reciprocamente. Dedica alla damnatio memoriae una prima riflessione sulla storiografia medievale. Riconosce che la damnatio memoriae decisa dal senato romano è un’arma contro la tirannia imperiale. La distruzione della memoria, esercitata sulla figura dell’imperatore e dei suoi successori da parte dei senatori era causata dal fatto che la memoria possiede un grande potere. Le Goff riconosce la “damnatio memoriae cristiana” come un fenomeno specifico, diverso da quello dell’antichità. Per esempio ricorda, che nel sinodo di Reichenbach dell’anno 798 e nel secondo sinodo di Elne dell’anno 1027, è stata vietata la memoria di uno scomunicato34. Altri storici del medioevo che si sono interessati alla memoria come fenomeno sociale e in relazione a tutti gli ambienti culturali (e.g. architettura, liturgia, le fondazioni etc.) come Joachim Wollasch, Karl 32
M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1927, trad. ital. Essere e tempo. Testo tedesco a fronte, cur. A. Marini, Milano 2006. 33 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982. 34 Ibid., p. 371.
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Schmid o Otto Gerhard Oexle hanno analizzato questi problemi di metodo35. Michael Borgolte insieme a Cosimo Damiano Fonseca e Hubert Houben hanno studiato nuovi aspetti del tema della memoria allargandolo con la prospettiva dell’oblio culturale36. Comunque non consideravano la dimensione della damnatio memoriae come concetto dello stesso livello della ricerca sulla memoria. Anche Johannes Fried37, Frances Yates38, Mary Carruthers39 o Patrick Geary40 – autori classici per lo studio della memoria nel medioevo – affrontano il tema della distruzione del passato come tecnica culturale. Pierre Nora, lavorando sulla base di una topografia memoriale, tocca nel suo Lieux de memoire la distruzione dei luoghi di memoria. Tuttavia le numerose scoperte isolate della damnatio memoriae richiedono un telaio metodico per la loro interpretazione41.
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I concetti e le teorie del non ricordo su menzionate non rappresentano soltanto una frazione delle ricerche nell’ambito di “cultural studies” 42, bensì offrono una possibilità di classificazione, rispetto al contesto delle scienze umanistiche e scienze sociali. Necessariamente a queste dovranno essere aggiunte le ricerche nell’ambiente per esempio della teologia43 o
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35 Memoria. Der geschichtliche Zeugniswert des liturgischen Gedenkens im Mittelalter, München 1984; Gedächtnis, das Gemeinschaft stiftet, cur. K. Schmid - J. Wollasch, München-Zürich 1985; K. Schmid - J. Wollasch, Die Gemeinschaft der Lebenden und Verstorbenen in Zeugnissen des Mittelalters, «Frühmittelalterliche Studien», 1 (1967), pp. 365-405. O.G. Oexle, Memoria und Memorialüberlieferungen im früheren Mittelalter, ibid., 10 (1976), pp. 70-95; O.G. Oexle, Die Gegenwart der Toten, in Death in Middle Ages, cur. H. Braet - W. Verbeke, Leuven 1983, pp. 19-77; Memoria als Kultur, cur. O.G. Oexle, Göttingen 1995. 36 Memoria: ricordare e dimenticare nella cultura del medioevo = Memoria: Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte - C.D. Fonseca - H. Houben, (Annali dell’Istituto storico italo-germanico), Bologna 2005. 37 J. Fried, Der Schleier der Erinnerung, München 2004, p. 199. 38 F.A. Yates, The Art of Memory, Chicago 1966; trad. ital. L’arte della memoria, Torino 1998. 39 M. Carruthers, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990 (Cambridge Studies in Medieval Literature). 40 P.J. Geary, Phantoms of remembrance. Memory and oblivion at the end of the first milennium, Princeton 1994. 41 P. Nora, Les lieux de mémoire, 7 voll., Paris 1984-1991. Per l’applicazione del concetto in Italia v. I luoghi della memoria: personaggi e date dell’Italia unita, cur. Mario Isnenghi (et al.), Roma [etc.] 1997. 42 A. Erll, Kollektives Gedächtnis und Erinnerungskulturen, Stuttgart 2005, pp. 95-101, cfr. anche E. Zerubavel, Mappe del tempo: memoria collettiva e costruzione sociale del passato, Bologna 2005. 43 A. Angenendt, Theologie und Liturgie der mittelalterlichen Toten-Memoria, in Memoria. Der geschichtliche Zeugniswert cit., pp. 79-199.
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della giurisprudenza44. Concludendo vorrei mostrare come questi strumenti concettuali possano essere utilizzati per una nuova comprensione della damnatio memoriae nel medioevo. Il concetto di damnatio memoriae sembra ragionevole per spiegare una particolare forma di dimostrazione del potere politico all’interno di una controversia, in cui si vuole attuare non solo un danno fisico, ma anche un annullamento post-mortem del nemico. Questo è valido per tutti i casi di violenza fisica contro i beni reali e simbolici dell’avversario. Sembra inoltre ragionevole applicare il termine damnatio memoriae non solo a personaggi come imperatori, papi e altri dignitari, ma anche agli usurpatori, alle dinastie ed alle istituzioni come i monasteri, le corporazioni ed anzitutto alle città. Indispensabile per una condanna di cancellazione dalla memoria è, tuttavia, che gli avversari possano essere accusati di eresia o di una colpa tale senza precedenti. Comuni assassini venivano puniti con una condanna comune. Inoltre senza l’esistenza di un certo grado di istituzionalizzazione non si può parlare di damnatio memoriae. Anche se i casi medievali non sono paragonabili al fenomeno di alto tradimento dell’antichità, entrambi richiedono un livello minimo di organizzazione. L’impiego della damnatio memoriae incide sui problemi fondamentali della storiografia. Esempi per la distruzione della memoria sono gli incidenti, in cui pretese e diritti vengono estinti per formare una base legittima e senza ambiguità, dato che l’opposizione trova una forte legittimazione in un argomento storico. Così si spiega la necessità della cancellazione della “contre-mémoire”. In più la damnatio memoriae costituisce parte significativa della legittimazione del potere. Il furto delle memorie alternative toglie stimoli e punti di riferimento alla storia e al sistema alternativo. La dannazione della memoria impedisce una “contro”-storia. Inoltre è importante che la storiografia cerchi di identificare i rapporti di una società con il proprio ricordo. Così la questione centrale, “Perché ricordarsi?” può dare un importante impulso alle ricerche in un ambito in cui poche fonti sono chiare. Spero che, grazie a questo volume sul tema, lo sguardo sulla storia sarà diverso e che l’attenzione per il vuoto che risulta dalla deliberata distruzione delle fonti aumenterà un po’. Inoltre spero che attraverso le mie rifles-
44 D. Ambaglio, Memoria e oblio delle leggi: un possibile strumento di lotta politica, in Poleis e politeiai. Esperienze politiche, tradizioni letterarie, progetti costituzionali. Atti del convegno internazionale di storia greca, Torino, 29 maggio - 31 maggio 2002, cur. S. Cataldi, Alessandria 2004, pp. 355-360; M. Bettini, Sul perdono storico. Dono, identità, memoria e oblio, in Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, cur. M. Flores, Milano 2001, pp. 20-43.
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sioni si sia dimostrata l’importanza della considerazione dovuta non solo al ruolo dei reperti trovati, ma soprattutto al ruolo di quelli che si sarebbero dovuti trovare, di quelli che sono stati deliberatamente cancellati. Per concludere ci resta il dictum filosofico di Paul Ricoeur riferito a Martin Heidegger e che noi, come storici, dovremmo prendere in grande considerazione: «Nessuno può fare in modo, che ciò che non è più, non sia mai stato»45. Spetta a noi, vigili storici, riconfigurare l’immagine distorta dalla damnatio memoriae.
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Ricoeur, La mémoire cit., p. 573: «Nul ne peut faire que ce qui n’est plus n’ait été».
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Damnatio memoriae o selezione storiografica? I grandi assenti nel Chronicon di Romualdo Salernitano (Periodo normanno)
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1. Premessa
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Anche la lettura delle sole pagine dedicate alle vicende dei normanni nell’Italia meridionale ed in Sicilia mette bene in risalto la natura composita che caratterizza il Chronicon universale di Romualdo Salernitano1. Già al primo sguardo, infatti, è evidente una frattura nella struttura dell’opera dopo l’anno 1125, quando l’andamento annalistico, che segna il testo dall’anno 893, lascia il posto ad una narrazione più distesa che giunge sino al 1169. Poi l’attenzione del cronista abbandona i fatti del Mezzogiorno d’Italia e – con l’esclusione di poche note – si concentra sulla lotta tra Federico Barbarossa ed il papa Alessandro III alleato dei Comuni, dando notizia sulla pace di Venezia del 1177 con una quantità di dettagli mai proposta nelle pagine precedenti2. Poco dopo il racconto s’interrompe bruscamente nel 1178, alternando alcune note che hanno l’aspetto di aggiunte poco omogenee ed in cui si informa di tumulti contadini nel Salernitano e della ricomposizione dello scisma della Chiesa romana.
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Questo contributo si concentra solo sulla parte del Chronicon che dall’anno 997 giunge al 1169: cfr. Romualdus archiepiscopus Salernitanus, Chronicon, ed. C. A. Garufi, in R.I.S.2, VII/1, Città di Castello - Bologna 1909-1935 (da ora solo Chronicon), pp. 171, 12-258, 19. 2 Le pagine del Chronicon dedicate a quest’evento, cui Romualdo prese parte in qualità di ambasciatore del re normanno, piuttosto che nell’edizione curata dal Garufi si possono leggere nella più affidabile versione pubblicata in Italienische Quellen über die Taten Kaiser Friedrichs I. in Italien und der Brief über den Kreuzzug Kaiser Friedrichs I., ed. F.J. Schmale, Darmstadt 1986, pp. 308-371. Le ha accuratamente analizzate G.M. Cantarella, La cultura di corte, in Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno (1130-1194). Atti delle diciassettesime giornate normanno-sveve. Bari, 10-13 ottobre 2006, cur. R. Licinio - F. Violante, Bari 2008, pp. 295-330: 307-329.
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La ragione di questa disomogeneità stilistica, che ha spinto alcuni studiosi a mettere in dubbio l’attribuzione dell’opera a Romualdo3, dipende innanzi tutto dal modo di lavoro con cui l’arcivescovo di Salerno (aiutato da alcuni segretari) procedette, con grande rapidità, alla compilazione di buona parte del testo, intrecciando, senza rielaborarle, notizie tratte da numerose fonti4. Questa prassi emerge con chiarezza nelle pagine dedicate alle vicende di Roma imperiale, dove la cronaca replica talvolta i medesimi dati traendoli alla lettera sia dalle Historiae di Orosio sia dai Chronica maiora di Beda il Venerabile, ma si può cogliere con facilità anche nella lunga sezione annalistica posteriore all’anno 8935. Tuttavia non sarebbe corretto associare al metodo di lavoro rapido e francamente non troppo accurato di Romualdo la mancanza di una regia, che invece è possibile riconoscere lungo tutto il corso dell’opera (ad esempio nella costante attenzione alla storia del papato6) e che si rivela anche in alcuni interventi d’autore, più frequenti proprio nelle pagine dedicate al periodo norman-
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3 Contro la paternità romualdiana si è espresso per primo D. J. A. Matthew, The Chronicle of Romuald of Salerno, in The Writing of History in the Middle Ages. Essays Presented to R. W. Southern, cur. R.H.C. Davis - J.M. Wallace-Hadrill, Oxford 1981, pp. 239-274, secondo cui il Chronicon sino al 1125 sarebbe stato composto a Troia, in Puglia, poi continuato a Salerno da un anonimo, mentre solo la relazione sulla Pace di Venezia del 1177 si dovrebbe a Romualdo. Invece M. Oldoni, Un mondo di intendere la storia, in Romualdo II Guarna, Chronicon, cur. C. Bonetti, Cava de’ Tirreni (SA) 2001 (Schola Salernitana. Studi e Testi, 6), pp. 49-55 – ripreso in Oldoni, Guarna, Romualdo, in Dizionario biografico degli italiani, 60, Roma 2003, pp. 400-403 – ritiene che la compilazione sino al 1125 sarebbe stata realizzata a cura di Romualdo o almeno da lui commissionata; all’arcivescovo andrebbe attribuita anche la relazione sulla Pace di Venezia, ma non la parte di testo che dal 1127 giunge al 1173. La proposta del Matthew, infine, è stata ripresa da G. Vitolo, La scuola medica salernitana come metafora della storia del Mezzogiorno, in La Scuola Medica Salernitana. Gli autori e i testi. Atti del Convegno internazionale, Salerno 35 novembre 2004, cur. D. Jacquart - A. Paravicini Bagliani, Firenze 2007, pp. 535-559: 549551, il quale pone l’accento sulla scarsa attenzione che l’opera riserva a Salerno in generale ed alla scuola medica salernitana in particolare. Gli argomenti a favore del riconoscimento di Romualdo come compilatore dell’intera opera sono esposti in M. Zabbia, Romualdo Guarna arcivescovo di Salerno e la sua Cronaca, in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura. Atti del convegno internazionale, Raito di Vietri sul Mare, 16-20 giugno 1999, cur. P. Delogu - P. Peduto, Salerno 2004, pp. 380-398: 383-387. 4 Sulle sviste del compilatore – che a suo parere è da identificare con Romualdo – si sofferma D. Zimpel, Die Weltchronik Bischof Romualds von Salerno. Überlegungen zur Verfasserschaft und zum Anlass der Abfassung, in Quellen, Kritik, Interpretation. Festgabe zum 60. Geburtstag von H. Mordek, cur. Th. M. Buck, Frankfurt 1999, pp. 183-193: 86-187. 5 Cfr., per un esempio, Chronicon, p. 49, 10-11, e p. 50, 5-6, dove si ripete la notizia del martirio degli apostoli Pietro e Paolo. 6 Cfr. M. Zabbia, Un cronista medievale e le sue fonti. La storia del papato nel “Chronicon” di Romualdo Salernitano, «Filologia mediolatina. Studies in Medieval Latin Texts and their Transmission», 9 (2002), pp. 229-250.
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no. Sono in particolare i ritratti che Romualdo ha tracciato dei duchi di Puglia e dei principi di Capua prima, e poi di Ruggero II e di Guglielmo I, a svelare come l’intera ricostruzione del periodo normanno proposta nel Chronicon sia stata compilata dal medesimo autore7. La presenza di numerose e spesso puntuali notizie sulla storia dei Comuni italiani che compaiono sin dai primi anni del Barbarossa, e qualche informazione sulla vicenda dell’episcopato tedesco al tempo dello scisma della Chiesa appaiono poi tutte spie che rivelano come anche la sezione anteriore all’anno 1173 sia stata scritta dallo stesso Romualdo, il quale a Venezia ebbe modo di entrare con facilità in possesso di quelle informazioni8. Se, dunque, come io credo, l’intero Chronicon è stato compilato sotto la supervisione di Romualdo, le sue pagine contengono la prima ricostruzione (quasi) integrale della storia dei normanni nel Mezzogiorno d’Italia ed in Sicilia. Così almeno intesero l’opera gli eruditi che dall’inizio dell’età moderna si limitarono a copiare solo la parte finale – quella normanna appunto – della lunga cronaca9. L’ottica dell’autore, però, era stata differente: verso l’anno 1178, quando Romualdo dettava la sua cronaca, nulla lasciava presagire l’imminente fine del Regno normanno, che anzi – dopo il tumultuoso periodo della reggenza – sembrava avviato verso una stagione prospera10. Fu, quindi, il precipitare delle vicende seguite alla morte inattesa e senza eredi diretti di Guglielmo II nell’anno 1189 a trasformare il Chronicon di Romualdo, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, nel primo profilo di storia dei normanni in Italia. Composto per mettere ordine nel patrimonio di memorie della chiesa salernitana – Romualdo aveva già risposto ad un’esigenza simile coordinando la compilazione del
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7 Su questi ritratti si è soffermato H. Houben, “Amator pacis et cultor iustitie”: il re di Sicilia secondo Romualdo di Salerno, in Romualdo II Guarna, Chronicon cit., pp. 41-48: 4447, secondo cui l’attenzione alla fisionomia dei sovrani dipende forse dalla cultura medica di Romualdo. 8 Cfr. G. Andenna, Romualdo Salernitano fonte per la storia politica delle città di Lombardia, in Romualdo II Guarna, Chronicon cit., pp. 9-39. Interessante anche la nota (Chronicon, p. 250, 20-25) relativa a Corrado, vescovo eletto di Magonza, che verso il 1163 non volle aderire allo scisma e si rifugiò presso Alessandro III, ripresa ampiamente nel 1177 (Chronicon, pp. 288, 4-289, 18), quando Corrado rimproverò al pontefice di non avere premiato la fedeltà favorendo il ritorno nella sua diocesi. 9 Di questo parere era anche Ludovico Antonio Muratori che aveva previsto di pubblicare nei suoi Rerum Italicarum Scriptores il Chronicon di Romualdo dall’anno 926: cfr. S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli 1960 (Istituto italiano per gli studi storici, 12), p. 293. 10 Sul regno di Guglielmo II si veda la messa a punto di A. Schlichte, Der “gute” König: Wilhelm II. von Sizilien (1166-1189), Tübingen 2005 (Bibliothek des Deutschen historischen Instituts in Rom, 110).
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Breviarium officii ecclesiastici secundum usum sancte Salernitane Ecclesie11 – e seguendo l’urgenza dell’attualità che poneva la monarchia normanna tra le principali forze politiche del tempo, il testo dell’arcivescovo non ha in alcun modo (né avrebbe potuto avere) il sapore di un bilancio conclusivo: di quest’aspetto bisogna tenere conto quando si esamina l’opera da un punto di vista contenutistico, come in questa relazione in cui l’attenzione sarà rivolta a valutare le ricadute di un fenomeno politico, la damnatio memoriae, sulla formazione della memoria storiografica12.
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La struttura dell’opera e i modi della sua compilazione invitano ad analizzare le pagine dedicate alla vicenda dei normanni nel Sud in due momenti diversi: il primo copre il periodo che dall’inizio della presenza normanna giunge al 1127, ed è incentrato sui duchi normanni e su Salerno, loro capitale; il secondo va dalla nomina di Ruggero II a duca di Puglia ai fatti che seguirono la cacciata di Stefano di Perche nel 1168, e – dopo alcune pagine in cui l’autore stenta a mettere a fuoco la mutata situazione – trova il centro prevalente dell’orizzonte narrativo nella corte palermitana. Ma prima di passare all’esame del Chronicon è opportuno richiamare almeno per brevi cenni alcuni aspetti della sua storia testuale. Dell’opera di Romualdo esistono due versioni: la prima è contenuta nel codice Vaticano latino 3973 (il codice A dell’edizione curata dal Garufi), cui sono cadute due carte relative proprio al periodo normanno dall’anno 1047 al 106013; la seconda è tramandata dagli altri due manoscritti medievali dell’opera giunti sino a noi (Parigi, Bibliothèque nationale, lat. 4933, e Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio di San Pietro, E 22, rispettivamen-
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11 Cfr. A. Galdi, Il calendario salernitano del 1434, «Rassegna storica salernitana», 17/1 (2000), pp. 95-185. Th. F. Kelly, La musica, la liturgia e la tradizione nella Salerno del XII secolo, in Salerno nel XII secolo cit., pp. 188-212, illustra la riforma liturgica realizzata sotto la guida di Romualdo. Un altro aspetto dell’attività di riordino intrapresa dall’arcivescovo è costituito dalla stesura dell’inventario dei beni immobili della chiesa salernitana edito in L. E. Pennacchini, Pergamene salernitane (1008-1784), Salerno 1941 (R. Archivio di Stato. Sezione di Salerno, 1), pp. 72-110. Sui libri di cui Romualdo dispose per condurre a Salerno la sua compilazione cfr. M. Zabbia, La cultura storiografica dell’Italia normanna riflessa nel “Chronicon” di Romualdo Salernitano, relazione presentata alla Quarta settimana di studi medievali. Roma, 28-30 maggio 2009, pubblicata sul sito dell’Istituto storico italiano per il medio evo (http://www.isime.it/redazione08/zabbia09.pdf). 12 Il tema dell’oblio nella cronachistica normanna non è inedito: muovendo dalla lettura della cronaca di Goffredo Malaterra e degli anonimi Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum lo ha affrontato L. Russo, Oblio e memoria di Boemondo d’Altavilla nella storiografia normanna, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 106/1 (2004), pp. 139-165. 13 Sono relative al testo edito in Chronicon, pp. 180, 11-184, 12.
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te codice C e B dell’edizione Garufi) che interrompono entrambi bruscamente il racconto nel mezzo della stessa frase, prima di narrare le vicende accadute a Venezia nel 117714. Le due versioni si distinguono solo per la presenza nei codici C e B di alcune note inserite nel testo soprattutto per il periodo relativo agli anni dal 1044 al 1132: si tratta di aggiunte che si riferiscono a fatti pertinenti alla storia dei normanni in Italia, e che sembrano incluse in tutta fretta ad opera già ultimata15. Poiché il manoscritto C risale agli anni a cavallo tra fine del XII secolo e l’inizio del XIII (il codice B è del Trecento) non si può asserire pacificamente che queste aggiunte sono state introdotte sotto la supervisione di Romualdo. Dobbiamo però osservare che chi mise mano al testo del Chronicon si comportò secondo la prassi in uso nelle parti del testo compilate sotto la direzione dell’arcivescovo e, quindi, forse fu uno dei suoi collaboratori16.
Le modalità di composizione del Chronicon di Romualdo permettono
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I manoscritti C e B conservano il testo sino a Chronicon, p. 271, 11 (l’opera termina a p. 297, 21). Senza tenere conto del fascicolo caduto nel codice Vaticano latino, rispetto alla versione tramandata da A, i testimoni B e C riportano anche i seguenti passi: Chronicon, p. 3, 7-16; p. 10, in apparato; p. 30, in apparato; p. 186, 6-11; p. 187, 5-8; pp. 187, 11-188, 1; p. 188, 5-7; p. 189, 1; p. 191, 3-5; pp. 191, 15-192, 3; p. 195, 6-8; p. 198, 4-5; 198, 12-13; p. 198, 16-17; p. 199, 5-8; p. 199, 12-14; p. 200, 17-21; p. 202, 7-10; p. 203, 6; p. 205, 1-2; p. 206, in apparato presente solo in C; p. 206, 13-17; p. 208, 1-10; p. 210, 23-24; p. 211, 1517; p. 212, 5-13; p. 214, 12-14, pp. 214-219, in apparato; pp. 234-236, in apparato. 15 Come rivelano due sviste in cui incorse il copista riproponendo note tratte dagli annali di Lupo Protospata. Cfr. Chronicon, p. 186, 9-11: «Hoc anno Robbertus dux intravit Siciliam et interfecit Agarenorum multitudinem et tulit obsides civitate Panormo», la parola in corsivo, che manca nell’opera di Romualdo, è tratta da Annales Barenses, ed. G. H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, 5, Hannoverae 1844, pp. 52-63: 59, 36-37; e, più evidente, Chronicon, p. 195, 6-8: «Hoc anno complentur 517 anni ex quo intraverunt Langobardi Italiam et dux in mense maio posuit ante Cannas civitatem Apulie obsidionem et mense iulio comprehendit eam», anche in questo caso le parole in corsivo sono tratte da Annales Barenses cit., p. 61, 21. 16 Cfr. M. Zabbia, Per la nuova edizione della cronaca di Romualdo Salernitano, «Napoli nobilissima. Rivista di arti, filologia e storia», ser. V, 7/I-II (2006), pp. 59-65: 59-61. Nella sua edizione il Garufi ha inserito alcune di queste note nel corpo del testo mettendole tra virgolette, ha relegato altre nell’apparato critico. La confusione creata da questa scelta (che si è rivelata una trappola per i più frettolosi lettori del Chronicon) è stata in parte aumentata da un’iniziativa di Dione Clementi, la quale di tutte le aggiunte ha ripubblicato solo quelle relative a Ruggero II senza sottolineare con il dovuto risalto che quei brani sono collegati alle altre addizioni – cfr. Alessandro di Telese, Ystoria Rogerii regis Siciliae, Calabriae atque Apuliae, cur. L. De Nava, commento storico di D. Clementi, Roma 1991 (Fonti per la storia d’Italia, 112), pp. 337-344.
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di individuare i testi a disposizione del compilatore: le notizie raccolte nelle varie fonti, infatti, sono riportate alla lettera e intrecciate tra loro nella nuova opera. Il compilatore non ha sentito l’esigenza di uniformare il testo, nemmeno a livello di pura forma (ad esempio unificando le formule di datazione) e, del resto, la natura della struttura annalistica si presta ad accogliere senza difficoltà note dall’aspetto difforme. Pertanto un’attenta lettura del Chronicon lascia intravedere come per il periodo che va dall’arrivo dei normanni nel Mezzogiorno al tempo del duca Guglielmo (il figlio di Ruggero Borsa) l’ossatura dell’opera di Romualdo – tanto nella stesura conservata nel manoscritto A, quanto in quella più ampia tramandata dai codici C e B – sia costituita da una cronaca composta molto probabilmente a Salerno intorno al 1125. Il testo di questa breve opera non si è conservato in forma indipendente, ma ci giunge attraverso le pagine del Chronicon di Romualdo e, in parte soltanto, tramite quelle del Chronicon Amalphitanum: il puntuale confronto tra questi due scritti, che già ha fatto escludere a chi ha studiato la questione una dipendenza diretta tra l’opera di Romualdo e la cronaca amalfitana, mette in luce il profilo di una breve cronaca perduta17. Il legame tra l’opera di Romualdo e l’intricato testo cronachistico amalfitano era già noto ad Alessandro Di Meo alla fine del Settecento, ma gli studiosi che hanno affrontato la questione si sono concentrati sulla complessa vicenda testuale del Chronicon Amalphitanum e non hanno presta-
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17 La presenza di una fonte comune a Romualdo e al Chronicon Amalphitanum è dimostrata da F. Hirsch, De Italiae inferioris annalibus seculi decimi et undecimi, Berolini 1864 (in particolare alle pp. 60-72 per le fonti di Romualdo relative ai secoli X e XI), secondo il quale quest’opera perduta si sarebbe arrestata al 1085. Anche M. Schipa, La cronaca amalfitana, Salerno 1881, pp. 16-22, esclude un rapporto diretto tra l’opera di Romualdo e quella amalfitana e opta per un testo perduto che dal 997 arrivasse al 1080 circa. La questione è stata ripresa da H. Hoffmann, Die Anfänge der Normannen in Süditalien, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 49 (1969), pp. 95-144: 105114, che data la stesura dell’opera a Salerno intorno al 1100. In anni più recenti è tornato sulla questione U. Schwarz, Amalfi in früher Mittelalter, Tübingen 1978 (Bibliothek des Deutschen historischen Institut in Rom, 49), pp. 135-142, affermando che la cronachetta sarebbe stata composta dopo il 1140, perché ospita (cfr. ibid., p. 211) una nota su Riccardo, principe di Capua, ed i suoi discendenti, in cui si ricorda la morte di Rainolfo d’Alife, avvenuta nel 1139. Ma, contrariamente a quanto afferma lo Schwarz, questa nota ha tutto l’aspetto di una tarda aggiunta inserita sulla scia di un passo in cui vengono menzionati Tancredi d’Altavilla ed i suoi figli. Si osservi, infatti, che la genealogia dei principi di Capua costituisce l’unico excursus della cronachetta, che non trova raffronto nel Chronicon di Romualdo, che utilizza un lessico diverso da quella precedente dedicata agli Altavilla (nella prima si ha: habuit filios; nella seconda genuit), ed infine che la nota si conclude con un errore poiché afferma che Rainolfo non ebbe figli.
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to attenzione al fatto che, venuto meno il legame tra le due opere, mentre la cronaca amalfitana muta bruscamente registro e – interrotto nel mezzo di una frase il dettagliato racconto dei fatti che portarono Alessio Comneno sul trono di Bisanzio18 – prende la forma dell’elenco dei vescovi amalfitani, la cronaca di Romualdo continua omogenea sino all’anno 1125. Una volta assodato che le due opere dipendono da una fonte comune dall’anno 999 al 1081, visto l’aspetto del Chronicon di Romualdo, pare lecito prendere in considerazione l’ipotesi che tale cronaca non si sia interrotta prima del 1125. Se così fosse, per una larga spanna della vicenda dei normanni nell’Italia meridionale l’opera di Romualdo avrebbe utilizzato come ossatura e riproposto alla lettera un testo composto prima dell’incoronazione di Ruggero II. Almeno due note ospitate nel testo di Romualdo mettono in evidenza come le pagine relative alle vicende di Roberto il Guiscardo e di Ruggero Borsa siano state scritte al tempo di Guglielmo, probabilmente dopo il 1121, quando quel duca ristabilì la pace nei suoi domini. Si tratta di brani – uno dedicato a Ruggero Borsa, l’altro a Boemondo di Taranto – composti dallo stesso autore perché costruiti secondo il medesimo schema che prevede l’indicazione del matrimonio e dei figli nati dall’unione con la specificazione di quale tra loro avrebbe ereditato il titolo: la prima nota risale all’anno 1092 e anticipa l’informazione che Guglielmo sarebbe succeduto al padre «in honore ducatus»; la seconda riguarda l’anno 1105 e puntualizza che a Boemondo sarebbe successo il figlio di nome Boemondo19. Queste due note – stese entrambe dopo l’anno 1111, nel quale morirono Ruggero e Boemondo – non sembrano dovute ad un intervento posteriore con cui Romualdo intese porre delle aggiunte alla sua fonte, perché le stesse informazioni sono contenute in chiusura ai ritratti dei figli del 18 Schwarz, Amalfi cit., p. 221 (cap. 41). Il testo di Romualdo continua il racconto della congiura di Alessio: il lungo episodio occupa Chronicon, pp. 192, 4-194, 5; la parte in comune con il Chronicon Amalphitanum si interrompe a Chronicon, p. 193, 1. 19 Queste note sono presenti anche nel manoscritto Vaticano latino 3973, il testimone del Chronicon privo delle aggiunte riportate ne codici B e C. Cfr. Chronicon, p. 200, 1-5: «Anno dominice incarnationis MLXXXXII indictione XV. Roggerius dux duxit uxorem reginam Danorum nomine Alam, filiam Robberti Frisonis comitis Flandrensium et ex ea dux habuit filios Ludovicum et Guiscardum, qui in puerilibus annis mundo mortui Deo vixerunt. Habuitque ex ea alium filium nomine Wilielmum, qui postea eidem duci in honore ducatus successit»; con Chronicon, p. 203, 8-13: «Mense vero decembris Boamundus a civitate Antiochia in Apuliam rediit profectusque in Galliam, anno sequenti duxit uxorem filiam Philippi Francorum regis nomine Constantiam, ex qua Boamandus ipse duos filios habuit; quorum quidem unus nominatus est Iohannes, qui puer mortuus est, alter vero dictus est Boamundus, qui patri suo successit».
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Guiscardo dettati dall’arcivescovo20. Esse, tuttavia, da sole non bastano a dimostrare che l’intera ricostruzione della storia del Mezzogiorno dall’anno 999 sia stata composta a Salerno durante il ducato di Guglielmo21. Pertanto bisogna procedere ad un puntuale raffronto tra la parte della cronachetta perduta presente sia nella cronaca amalfitana sia in quella di Romualdo e il testo tramandato solo dall’arcivescovo. Il confronto tra la cronaca amalfitana e quella di Romualdo mette in luce come l’opera perduta iniziasse proprio con il racconto dell’arrivo dei normanni nel Mezzogiorno d’Italia. Nel Chronicon Amalphitanum la frattura è netta: l’autore interrompe l’andamento annalistico centrato sulla successione dei duchi amalfitani per annotare l’intervento di Roberto il Guiscardo nelle vicende cittadine nel 1074. Poi scrive: «Hic admonet locus
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20 Mentre è da considerare un’anticipazione da attribuire a Romualdo la nota posta in chiusura del ritratto di Ruggero I in cui si specifica che gli successe Simone, alla cui morte divenne conte Ruggero II: cfr. Chronicon, pp. 202, 16-203, 1. 21 Invita alla cautela anche la presenza di due note costruite con il medesimo formulario in cui si ricordano i matrimoni di Ruggero II e Guglielmo I, dove non compare l’indicazione dell’erede, ma vengono utilizzate espressioni non troppo diverse da quelle dedicate alle nozze di Ruggero Borsa e Boemondo. Nel primo passo la nota compare non quando si dà notizia del matrimonio, ma nel momento in cui i figli di Ruggero II ricevono l’investitura: cfr. Chronicon, p. 222, 1-4: «Hic autem cum esset comes et iuvenis Albyriam filiam regis Hispanie duxit uxorem ex qua plures liberos habuit, Roggerium quem Apulie ducem instituit, Tancredum quem Tarenti principem fecit, Anfusium quem Capue principem ordinavit, Willelmum et Henricum. Habuit etiam de predicta uxore filiam unam». La nota è inserita tra fatti accaduti nel 1135, anno in cui morì la regina Elvira (il matrimonio risaliva al 1117) e Ruggero, Tancredi ed Alfonso ottennero i loro principati. Il secondo passo si legge in Chronicon, p. 242, 11-15: «Rex autem Willelmus, adhuc vivente patre cum esset princeps Capuanorurn, Margaritam filiam Garsie regis Navarre duxit uxorem, de qua plures liberos habuit: Rogerium quem ducem Apulie constituit, Robbertum quem Capuanorum principem ordinavit, Willelmum et Henricum». Questa nota è ospitata tra fatti accaduti nel 1158; il matrimonio di Guglielmo con Margherita risale al 1150 circa; Ruggero, duca di Puglia, morì giovanissimo nel 1161, durante il tentativo di rovesciare Guglielmo I; di Roberto non si hanno altre notizie, egli certo morì prima del padre perché nel 1166 era principe di Capua Enrico, l’ultimogenito di Guglielmo. E. M. Jamison, The Norman Administration of Apulia and Capua. More especially under Roger II. and William I (1127-1166), «Papers of the British School at Rome», 6 (1913), pp. 211-481 (ristampato con la stessa paginazione, cur. D. Clementi - T. Kölzer, Aalen 1987): a p. 281 osserva che Guglielmo I concesse il ducato di Puglia a Ruggero nel 1156 e a Roberto il principato di Capua nel 1158, quando i due erano bambini di circa cinque anni. Ruggero II invece si comportò diversamente ed aspettò che i suoi figli giungessero alla maggiore età prima di investirli delle stesse cariche: ci troveremmo, quindi, davanti ad un’altra prova della politica accentratrice attuata da Guglielmo sulla quale anche di recente gli studiosi hanno posto l’accento [cfr. B. Pio, Guglielmo I d’Altavilla. Gestione del potere e lotta politica nell’Italia normanna (1154-1169), Bologna 1996 (Il mondo medievale. Sezione di storia delle istituzioni della spiritualità e delle idee, 24), che però non ha tenuto conto di quest’episodio].
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ut aliquid ex gentibus ducis Roberti Guiscardi et prosapia generis sui interponatur nec non quando Normanni primum in Apulia venerunt»22. Dopo questa nota, in cui sembra di sentire rielaborato l’incipit della breve cronaca perduta, il racconto riprende risalendo nel tempo sino all’arrivo dei normanni in Italia, al servizio di Melo di Bari23. Nel Chronicon di Romualdo la frattura non si presenta con la medesima evidenza perché l’arcivescovo non si limitò a ricopiare la sua fonte, ma la interpolò con notizie tratte da altri testi e, poiché disponeva di ricche fonti per il periodo intorno all’anno Mille che lo invitavano a parlare del Regno di Francia, del Papato e dell’Impero, si limitò ad affidare ad una breve nota la comparsa dei normanni sulla scena del Mezzogiorno: egli ha menzionato Melo (qualificandolo con il titolo bizantino di catipanus), ma non ha riportato i nomi dei cavalieri normanni che si misero al suo servizio24. Per comprendere le motivazioni che indussero Romualdo a riservare così scarso peso alle più antiche attestazioni della presenza normanna nel Mezzogiorno d’Italia, oltre a ricordare che il Chronicon non si propone quale sintesi della vicenda normanna, bisogna necessariamente legare questo aspetto alle caratteristiche della sua fonte di riferimento. Da quanto ci è dato capire la prima nota dell’opera perduta faceva iniziare la presenza normanna in Italia da episodi pugliesi senza riportare la notizia del precedente arrivo di alcuni cavalieri normanni alla corte del principe Guaimario III, mentre Salerno era minacciata dai saraceni, come sappiamo grazie alla Storia di Amato di Montecassino25. Romualdo, che pure ha fatto menzione 22 23
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Schwarz, Amalfi cit., p. 204 (cap. 23). Secondo Hoffmann, Die Anfänge cit., pp. 99-100, anche la cronaca di Amato di Montecassino avrebbe avuto inizio nel 999, mentre l’anno 1001 è un errore del traduttore male interpretato dall’editore Vincenzo De Bartholomaeis. 24 Chronicon, p. 171, 11-13; cfr. anche ibid., p. 173, 12-13. 25 Amato di Monte Cassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese [Ystorie de li Normant], ed. V. De Bartholomeis, Roma 1935 (Fonti per la storia d’Italia, 76), I, XVII, pp. 21-22, ricorda come alcuni pellegrini normanni liberassero Salerno dal tributo dovuto ai saraceni intorno al 1000, al tempo del principe Guaimario; subito dopo menziona un gruppo di cavalieri che si posero al servizio del principe di Salerno; ed infine narra delle loro imprese in Puglia, al seguito di Melo di Bari. Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard, ed. M. Mathieu, Palermo 1961 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici. Testi, 4), I, 11-17 (pp. 98-100), ricorda come primo episodio della storia dei normanni in Italia l’incontro di alcuni pellegrini con Melo al santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano nell’anno 1016; al pari di Amato anche Guglielmo dà notizia di un gruppo di cavalieri normanni che giunti in Campania si misero poi a servizio di Melo [I, 4146 (p. 100)]. Fa il punto sulla questione dell’arrivo dei normanni in Italia L. Russo, Convergenze e scontri: per una riconsiderazione dei rapporti greco-normanni nei secoli XI-XII, in Fedi a confronto. Ebrei, cristiani e musulmani fra X e XII secolo, cur. S. Gensini, Montaione (FI) 2006, (La Gerusalemme in Occidente, 2), pp. 263-278: 264-269. Sulla
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di alcune scorrerie di saraceni nel Mezzogiorno proprio negli anni delle prime presenze normanne nella regione26, ignorava l’episodio salernitano narrato da Amato e si è uniformato alla versione della cronachetta perduta. Il silenzio sulla scorreria nella zona di Salerno invita ad accostare la breve cronaca normanna ai Gesta di Guglielmo Appulo – un testo composto alle soglie del XII secolo che ancora circolava nel Mezzogiorno verso il 114027 – anche perché non è questo il solo elemento che accomuna le due opere: entrambe, infatti, senza giungere alla posizione estrema di Goffredo Malaterra che ha fatto iniziare la storia dei normanni in Italia con l’arrivo degli Altavilla, dedicano poca attenzione alle loro prime mosse nel Mezzogiorno e – archiviati presto i principi di Capua, vassalli dei duchi di Salerno al tempo in cui scriveva Guglielmo Appulo28 – cominciano a diventare ricchi di notizie dalla comparsa sulla scena dei figli di Tancredi, quando menzionano Guglielmo Bracciodiferro (ma solo il poema e di sfuggita, alla fine del primo libro29), Drogone (siamo già nell’anno 1039) e poi
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prima cronachistica normanna cfr. S. Tramontana, I luoghi della produzione storiografica, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve. Bari, 17-20 ottobre 1995, cur. G. Musca, Bari 1997, pp. 21-40 (che dedica l’attenzione maggiore a Goffredo Malaterra); ed il completo profilo di P. Toubert, La première historiographie de la conquête normande de l’Italie méridionale (XIe siècle), in I caratteri originari della conquista normanna. Diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130). Atti delle sedicesime giornate normanno-sveve. Bari, 5-8 ottobre 2004, cur. R. Licinio e F. Violante, Bari 2006, pp. 15-49. 26 Chronicon, p. 170, 15-16, anno 997: i saraceni fanno razzie in Calabria e l’anno seguente distruggono Cosenza; Chronicon, p. 171, 7-8, anno 998: i saraceni distruggono Matera in Apulia; Chronicon, p. 173, 10-11, anno 1002: i saraceni, Campaniam ingressi, assediano Capua. Gli Annales Barenses cit. p. 57, 11, riportano anche una nota sull’attacco che i saraceni condussero contro Salerno nel 1016, ma Romualdo, che pure ha preso alcune informazioni da quel testo, non ha riportato questa notizia, probabile segno della rapidità con cui i passi tratti dalla cronachistica pugliese sono stati inseriti nel Chronicon. 27 Guglielmo era noto ad Alessandro di Telese come mostra M. Oldoni, Mentalità ed evoluzione della storiografia normanna fra XI e XII secolo in Italia, in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello Stato normanno. Relazioni e comunicazioni nelle Seconde giornate normanno sveve (Bari, maggio 1975), Roma 1977 (Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum, 12), pp. 139-174: 154-155. 28 Che Guglielmo desiderasse affidare al suo poema l’immagine dei Drengot come vassalli degli Altavilla è dimostrato da un passo dei Gesta dove, quasi ad inizio opera, è contenuta una rapida nota genealogica dei principi di Capua che giunge sino a Riccardo III (Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard cit., I, 175-179). Conviene, infatti, sottolineare che, nell’anno 1098, proprio Riccardo III aveva potuto riprendere il controllo di Capua, da dove era stato espulso nel 1091, grazie all’aiuto di Ruggero Borsa, di cui in quella circostanza aveva riconosciuto la signoria, e di Ruggero I a cui vantaggio aveva rinunciato ai suoi diritti su Napoli. Cfr. E. Cuozzo, La famiglia normanna Drengot. Profili biografici, in Cuozzo, Normanni. Feudi e feudatari, Salerno 1996, pp. 449-496: 476. 29 Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard cit., I, 524-528, specificando
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gli altri loro fratelli, riservando – com’è naturale – il massimo risalto a Roberto il Guiscardo30. Se il lungo racconto dei Gesta offre la possibilità di ricordare molti nomi, nel breve profilo della cronachetta perduta gli Altavilla, a quanto pare, monopolizzano da subito l’attenzione dello scrittore, e solo i principi di Capua tra i capi normanni della prima ora si vedono riservato un breve cenno: la prospettiva in cui verso il 1080 si era mosso Amato di Montecassino, che aveva affiancato al Guiscardo Riccardo Quarrel conte di Aversa e poi principe di Capua, solo pochi anni dopo appare del tutto superata nell’evoluzione della codificazione della memoria storica dei normanni31. Una nota dedicata ai figli di Tancredi d’Altavilla che giunsero in Italia – analoga nella forma a quella che si legge nella cronaca di Goffredo Malaterra – introduce il racconto delle vicende legate all’azione di Roberto il Guiscardo e segna l’inizio vero e proprio della sezione normanna della cronaca di Romualdo32. Pare, quindi, che la cronachetta perduta sia ricollegabile ad un'interpretazione delle vicende normanne maturata alla corte di Roberto il Guiscardo, che prese forma nella scrittura storiografica pro-
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subito «Huius Robertus frater fuit ille, ducatum / qui post optinuit, Guiscardus ad omnia prudens». La storia degli Altavilla nel Mezzogiorno segna i Gesta dai primi versi del secondo libro, quando si narra di come «Curru fortuna rotato / Tancredi natos sublimes reddere coepit» (II, 36-37). Romualdo ha una nota sul conte Guglielmo, figlio di Tancredi, posta nell’anno 1044, ma si tratta di un’aggiunta ricavata dagli Annali di Lupo Protospata: cfr. Chronicon, p. 179, 10-11. 30 Sulle fonti di Guglielmo è ancora utile il saggio di M. Fuiano, Guglielmo di Puglia storico di Roberto il Guiscardo, in Fuiano, Studi di storiografia medievale, Napoli 1960, pp. 13-102. 31 Sulle caratteristiche dell’opera di Amato e sulla sua fortuna cfr. M. Oldoni, Intellettuali cassinesi di fronte ai normanni (secoli XI-XII), in Miscellanea di storia italiana e mediterranea per Nino Lamboglia, Genova 1978 (Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 23), pp. 93-153: 104-133. 32 Subito dopo la notizia della successione di Roberto a Unfredo nel Chronicon Amalphitanum ed in quello di Romualdo si legge la lunga nota dove viene ricordato Tancredi d’Altavilla con i suoi dodici figli, dei quali si menziona il nome talvolta accompagnato da qualche informazione (ad esempio: «Decimus Willelmus comes de Sancto Nicandro, pater Robberti comitis de Principatu. Fuit ipse Willelmus acer ingenio, inconstans animo, sevusque natura»), e con le sue tre figlie sulle quali l’autore non dà alcuna informazione: vedi. Chronicon, pp. 183, 5-184, 6. Questo brano è da confrontare con il passo del De rebus gestis Rogerii Calabrie et Siciliae comitis auctore Gaufredo Malaterra, ed. E. Pontieri in R.I.S.2, 5/1, Bologna 1928, p. 9, 7-29, nel quale compare un elenco dei figli di Tancredi che in comune con quello citato ha solamente il numero complessivo dei figli (dodici in entrambi i casi) e il posto nella lista occupato da Ruggero (sempre l’ultimogenito), mentre presenta vistose differenze sia per i nomi registrati (alcuni compaiono in uno solo dei due elenchi), sia per l’ordine di nascita dei figli (Roberto il Guiscardo, ad esempio, è settimo nella cronaca di Romualdo, sesto in quella del Malaterra).
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prio a ridosso della morte del duca, quando i suoi parenti ed eredi – i figli Boemondo e Ruggero Borsa, ma anche il fratello Ruggero I – dovettero gestire la complessa successione33. Il rilievo attribuito alla famiglia Altavilla ed alla sua storia è, infatti, già presente in alcune iniziative degli esponenti della prima generazione italiana: oltre che nella citata nota del Malaterra, compare con ben maggiore risalto nella fondazione del monastero di Venosa, che Roberto scelse come luogo di sepoltura della sua famiglia34. Infine proprio il legame degli Altavilla con la Puglia durante i primi anni della loro presenza in Italia chiarisce anche l’attenzione riservata a questa regione piuttosto che alla Campania nel racconto dei fatti avvenuti nel Mezzogiorno durante il secolo XI che si legge sia nel poema di Guglielmo sia nel Chronicon Amalphitanum e in quello di Romualdo, i quali dipendono entrambi dalla cronachetta perduta. La centralità pugliese nella ricostruzione della vicenda normanna che caratterizza la breve cronaca perduta non si deve, quindi, mettere in collegamento con l’origine pugliese dell’autore, ma dipende dalla ricostruzione della vicenda normanna com’era maturata alla corte degli Altavilla sin dai tempi di Roberto il Guiscardo35. Lo spostamento della capitale dei duchi 33
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Fa il punto sulla situazione del Mezzogiorno alla morte del Guiscardo J. Becker, Graf Roger I. von Sizilien. Wegbereiter des normannischen Königreichs, Tübingen 2008 (Bibliothek des Deutschen historischen Instituts in Rom, 117), pp. 67-73. 34 Cfr. P. Delogu, La committenza degli Altavilla: produzione monumentale e propaganda politica, in I normanni popolo d’Europa 1030-1200, cur. di M. D’Onofrio, Venezia 1994, pp. 188-192; da aggiornare con H. Houben, Da Venosa a Montereale. I luoghi della memoria dei Normanni del Sud, in Memoria. Ricordare e dimenticare nella cultura del medioevo. Memoria. Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte - C.D. Fonseca - H. Houben, Bologna 2005, pp. 51-60; e con E. D’Angelo, La letteratura, in Basilicata medievale. La cultura, cur. di E. D’Angelo, introduzione di C.D. Fonseca, Napoli 2009 (Nuovo Medioevo, 79), pp. 71-99: 86-88, per una messa a punto sulla cronaca compilata nel monastero di Venosa. 35 Questa conclusione vale per Guglielmo Appulo come per l’anonimo autore della breve cronaca perduta. A questo proposito credo sia utile aggiungere qualche osservazione sui rapporti tra il Chronicon di Romualdo e le tradizioni di memorie di Troia che hanno indotto prima Donald Matthew e poi Giovanni Vitolo a ritenere che parte almeno dell’opera sia stata compilata nella città pugliese. Un confronto tra il Chronicon ed il Chronici Troiani fragmentum (edito in Raccolta di varie croniche, diari ed altri opuscoli così italiani, come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, V, Napoli 1782, pp. 128-140) non mette in risalto alcun rapporto tra le due opere. Invece passi analoghi a quelli del testo di Romualdo compaiono nella cronaca cinquecentesca di P. Rosso, Ristretto dell’istoria della città di Troja e sua diocesi, ed. N. Beccia, Trani 1907. Queste corrispondenze, però, non derivano da una cronaca di Troia nota a Pietrantonio Rosso ed ora perduta e che magari funse da fonte al Chronicon di Romualdo, ma dalle pagine del Guarna. È lo stesso Rosso, Ristretto cit., p. 21, infatti, a specificare che sta riprendendo l’opera di un certo Cosentino, che noi sappiamo essere un testo oggi perduto costituito dal Chronicon di Romualdo e da
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normanni da Melfi a Salerno non ha implicato una rilettura in chiave campana della storia normanna. Al contrario la versione campana della prima stagione normanna, che aveva trovato in Amato di Montecassino un eccellente storico, venne presto messa da parte forse perché riservava troppo risalto ai principi di Capua, vicini assai scomodi per Ruggero Borsa e più ancora per suo figlio Guglielmo. Alla fine del secolo XI e per invito del conte Ruggero I, il normanno Goffredo Malaterra ripercorse le fasi della conquista della Sicilia e del Mezzogiorno; nello stesso giro di anni alla corte salernitana di Ruggero Borsa, un certo Guglielmo narrò le medesime vicende dedicando la sua opera al duca ed al pontefice Urbano II: nulla autorizza a credere che almeno uno dei due autori sapesse dell’altro36. Sul Malaterra, che forse fu anche monaco a Venosa, si hanno alcune informazioni37; di Guglielmo, invece, non si conosce che il nome e si è soliti definirlo Appulo soltanto perché nella sua opera si parla molto della Puglia38. Una lettura attenta dei Gesta mette, però, in risalto alcune tracce che mostrano i legami del poema con la tradizione di memorie note anche ad Amato di Montecassino ed invita a riconoscere proprio a Salerno, la nuova residenza degli Altavilla, il luogo in cui quel testo venne composto. Si tratta di episodi marginali rispetto alle vicende della conquista normanna, che già hanno attratto l’attenzione degli studiosi di storia della mentalità e che sembrano derivare entrambi dalla stessa tradizione di memorie dei tempi della conquista trasmesse oralmente, visto che toccano il medesimo argomento: la poca disponibilità di pane durante le guerre. Il primo episodio si svolge durante i preliminari della battaglia di Civitate (una città distrutta nel XV secolo che si trovava poco a nord di Foggia) e riguarda i normanni che, privi di pane, per cibarsi abbrustolivano il grano acerbo. Il secondo, che sembra un exemplum, racconta di come un cane portasse il pane al suo padrone che si trovava nella Salerno assediata dal Guiscardo39.
una continuazione che giungeva almeno sino al 1264 (cfr. Zabbia, Per la nuova edizione cit., p. 61). 36 La reciproca indipendenza dei testi è stata dimostrata da Ernesto Pontieri nell’introduzione al De rebus gestis Rogerii Calabrie et Siciliae comitis auctore Gaufredo Malaterra cit., pp. XV-XIX. 37 F. Panarelli, Goffredo Malaterra, in Dizionario biografico degli italiani, 57, Roma 2001, pp. 541-545. 38 Cfr. F. Panarelli, Guglielmo Appulo, in ibid., 60, Roma 2003, pp. 794-797. 39 Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard cit., II, 115-121; Amato di Monte Cassino, Storia de’ Normanni cit., III, 40 (p. 150). Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard cit., III, 431-441; Amato di Monte Cassino, Storia de’ Normanni cit., VIII, 20 (pp. 359-360). S. Tramontana, Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, Torino 1999, pp. 61 e 163 (nota 151) ha analizzato brevemente i due episodi, senza però dare peso al fatto che fossero riportati sia da Amato sia da Guglielmo.
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Entro il primo quarto del XII secolo, a Salerno, l’anonimo autore della cronachetta perduta – forse un chierico della cattedrale di San Matteo che i duchi avevano scelto come nuovo luogo della loro memoria – stese un rapido profilo che riassume gli avvenimenti narrati da Guglielmo e dal Malaterra: nessun preciso riscontro testuale ci autorizza a ritenere che egli conoscesse una almeno di quelle due opere. Tuttavia l’anonimo ripropose la medesima interpretazione storiografica rivolta a mettere in ombra i fatti accaduti prima dell’arrivo in Italia degli Altavilla: segno di come questa impostazione, invece di essere il risultato dell’originale riflessione di un autore, sia piuttosto l’eco di un messaggio politico maturato in ambiente ducale che cronache ufficiose hanno in seguito recepito e contribuito a diffondere. La centralità riservata ai duchi di Puglia mette in ombra tutti gli altri baroni normanni compresi gli Altavilla conti di Sicilia e pertanto anche la conquista dell’Isola viene fatta dipendere in primo luogo dalle azioni del Guiscardo. Ma questo argomento non costituisce l’unico tema trattato nella cronachetta perduta: la fonte di Romualdo, infatti, mostra interesse per la storia del papato e per quella di Bisanzio. L’attenzione alla storia dei papi è una costante nell’opera dell’arcivescovo salernitano, il quale utilizzò il Liber pontificalis romano ed il Liber ad amicum di Bonizone da Sutri: ma a differenza di queste opere la breve cronaca normanna era talvolta connotata da un tono decisamente anti-papale che contrasta con l’impostazione generale dello scritto di Romualdo. Conosciamo ancora troppo poco i rapporti tra il papato ed il ducato di Puglia ai tempi di Guglielmo per trovare su quel terreno sicure informazioni, capaci di giustificare queste note avverse ai pontefici. In esse, comunque, si avverte l’eco della tradizione di scontri tra i papi ed i normanni, rafforzata dalla ricezione di argomenti elaborati durante le dure lotte che segnarono i vertici della Chiesa romana nel primo quarto del XII secolo40.
40 In quella che rimane la più dettagliata ricostruzione del periodo di Ruggero Borsa e di Guglielmo, F. Chalandon, Storia della dominazione normanna in Italia ed in Sicilia (ed. or. 1907), I, Alife (CE) 1999, pp. 285-326, si sostiene che il papato abbia favorito l’indebolimento del duca a vantaggio dei suoi baroni per rendere più forte la sovranità pontificia nel Mezzogiorno. Va comunque sottolineato come gli studi che hanno ricostruito la storia dei rapporti tra papato e normanni trascurino il duca Guglielmo per concentrarsi sul suo coetaneo Ruggero II: cfr., ad esempio, V. D’Alessandro, “Fidelitas Normannorum”. Note sulla fondazione dello Stato normanno e sui rapporti con il papato, in D’Alessandro, Storiografia e politica nell’Italia normanna, Napoli 1978 (Nuovo medioevo, 3), pp. 99-220, un contributo ampio e molto documentato in cui solo quindici pagine (pp. 160-174) sono dedicate a Ruggero Borsa ed a Guglielmo. Un tentativo di rivalutare la figura del duca Guglielmo si legge in D. Matthew, I normanni in Italia, Traduzione e aggiornamento bibliografico di E. I. Mineo, Roma-Bari 1997, pp. 21-22, che si fonda anche su un passo della cronaca di Falcone
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Il primo passo, ospitato con le medesime parole nel Chronicon Amalphitanum ed in quello di Romualdo, riguarda il pontificato di Leone IX, al quale si rimprovera esplicitamente di avere contravvenuto all’insegnamento di san Pietro quando, primo papa a comportarsi in quel modo, guidò in armi un esercito in occasione della battaglia di Civitate41. Interessante è anche la nota dedicata a Gregorio VII in cui ad una prima frase costruita secondo il modello consueto del Liber pontificalis segue una breve nota presente anche nel Chronicon Amalphitanum, e quindi tratta dalla cronachetta perduta, in cui si osserva che «Hic autem pontifex amministrationem regni sibi primus ut rex assumpsit»42. Dopo l’anno 1080 termina la possibilità di confrontare l’opera di Romualdo con la cronaca amalfitana e di conseguenza si impone cautela nel riconoscere quali passi del Chronicon dell’arcivescovo dipendono dalla breve cronaca perduta, tuttavia – alla luce dei due esempi appena citati – sembra lecito ritenere che dalla cronachetta derivino anche le accuse di simonia rivolte a Pasquale II. Il primo caso riguarda una breve nota dedicata all’arcivescovo di Benevento, Landolfo, che, dopo essere stato allontanato dalla sua cattedra, «largito munere in sede sua ab eodem papa restitutus est». Il secondo episodio ha maggiore rilievo nell’economia dell’opera poiché concerne notizie relative a Maurizio Burdino (l’anti-papa Gregorio VIII) che non trovano riscontro in altri testi: secondo Romualdo, quando desiderava divenire arcivescovo di Toledo, il Burdino fece generosi donativi al pontefice («largita thesauri copia»: si noti l’analogia testuale con la citazione precedente), ma Pasquale, pur accettando i doni, non concesse a Maurizio la cattedra arcivescovile, spingendolo così verso il fronte imperiale43.
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Beneventano da dove si coglie il consenso di cui godette Guglielmo [se ne veda l’analisi puntuale in C. Lavarra, Manifestazioni rituali della morte e del potere nel Mezzogiorno normanno, in Lavarra, Mezzogiorno normanno. Potere, spazio urbano, ritualità, Presentazione di C. D. Fonseca, Galatina (LE) 2005 (Scienze storiche e sociali. Nuova serie. Europa mediterranea, 1), pp. 51-93: 55-62]. Non raccoglie la proposta del Matthew H. Houben, Guglielmo d’Altavilla, in Dizionario biografico degli italiani, 60, Roma 2003, pp. 775-778. 41 Chronicon, p. 182, 1-4. Il testo sembra raccogliere una condanna del comportamento di Leone in occasione della battaglia di Civitate condivisa anche dai sostenitori di quel papa: cfr. C. Erdmann, Alle origini dell’idea di crociata, traduzione a cura di R. Lambertini, Spoleto 1996 (Medioevo-Traduzioni, 4), pp. 124-125. 42 Chronicon, p. 188, 10-11. 43 Ibid., p. 207, 9-12, per l’episodio beneventano; e ibid., p. 209, 12-15, per la notizia su Burdino. Di accuse di simonia rivolte a Pasquale II dai suoi avversari anche a proposito di un episodio accaduto quand’era abate di San Lorenzo parla G.M. Cantarella, Pasquale II, in Enciclopedia dei papi, Roma 2000, II, pp. 228-236: 228. Rileva come le notizie portate da Romualdo non trovino riscontro in altra fonte e le ritiene prive di fondamento C. Colotto, Gregorio VIII, antipapa [Maurizio Burdino], in Enciclopedia dei papi cit., pp. 245-
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Sempre per quanto riguarda i rapporti tra papato e normanni, continuando a procedere per prudenti analogie, è plausibile ritenere che si debbano alla cronachetta perduta anche i passi in cui si racconta di come i duchi di Puglia ricevessero dai pontefici in feudo il loro ducato. Nel Chronicon di Romualdo sono ricordate le seguenti investiture: Roberto il Guiscardo prestò l’homagium a Nicolò II, Alessandro II e Gregorio VII; Ruggero Borsa a Urbano II; Guglielmo a Pasquale II, Gelasio II, Callisto II ed Onorio II; Ruggero II a Onorio II44. In seguito si racconta della singolare cerimonia in cui Rainolfo d’Alife ricevette il vessillo da papa Innocenzo II e dall’imperatore Lotario II; si dà infine notizia di come Ruggero II ebbe il regno di Sicilia ed il ducato di Puglia da Innocenzo II, e Guglielmo I da Adriano IV45. Il Chronicon Amalphitanum, naturalmente, riporta le sole infeudazioni relative al Guiscardo: soltanto quella operata da Gregorio VII ritorna con le stesse parole tramandate dall’arcivescovo salernitano; per l’omaggio ad Alessandro II il testo amalfitano è corrotto in modo irrimediabile; per quello a Nicolò II il passo amalfitano sembra riassumere quanto Romualdo ha riportato per esteso46. Un confronto puntuale tra il brano della cronaca amalfitana e la corrispondente nota della compilazione salernitana evidenzia, però, come i due scritti abbiano sicuri elementi formali in comune ed invita a riconoscere nella più ordinata versione di Romualdo l’originale stesura della cronachetta normanna47.
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248: 245, che però non prende in considerazione l’ipotesi di una tradizione salernitana legata al ricordo del Burdino, morto nel 1122 nel monastero di Cava dei Tirreni. 44 Chronicon, p. 185, 4-7; p. 186, 2-5; p. 191, 11-12; p. 199, 1-4; p. 207, 3-9; pp. 209, 19-210, 5; p. 211, 2-11; p. 213, 3-5; 217, 6-9. Cfr. M. Caravale, Il Regno normanno di Sicilia (ed. or. 1966), Milano 1991 (Ius nostrum, 10), pp. 14-15, che mostra la completezza delle informazioni di cui disponeva Romualdo: nel Chronicon, infatti, compaiono tutte le investiture con la parziale eccezione di quella concessa a Ruggero Borsa che non ha una nota autonoma, ma viene menzionata nelle notizie relative a suo figlio Guglielmo. 45 Chronicon, p. 223, 16-224, 8; p. 225, 20-24; pp. 240, 14-241, 2. In una delle aggiunte presenti nei codici B e C si afferma anche che Ruggero sia stato incoronato «iussione Calixti pape», cfr. più avanti testo corrispondente a nota 77. Sui resoconti dell’incoronazione di Ruggero II offerti dalle cronache vedi F. Delle Donne, Liturgie del potere: le testimonianze letterarie, in Nascita di un regno cit., pp. 331-366. 46 Schwarz, Amalfi cit., pp. 212 (cap. 30); 213 (cap. 31); 218 (cap. 41). 47 Ecco il passo del Chronicon Amalphitanum nel quale compare un more solito piuttosto singolare visto che si tratta della prima investitura: «Sed idem dux Nicolaum papam regnare fecit et fidem Romanae ecclesiae servavit. Et more solito statim eundem papa in canonicam potestatem investivit per vexillum cum tota terra» (Schwarz, Amalfi cit., p. 212, cap. 30). Questo è il testo corrispondente in Romualdo: «Interea Robbertus dux ad Nicolaum papam perrexit eiusque liggius homo effectus est, promittens se iureiurando fidem servaturum Romane ecclesie et eidem pape eiusque successoribus canonice intrantibus. Ipse autem papa Nicolaus statim investivit eundem Robbertum Guiscardum per vexillum de honore ducatus sui cum tota terra» ( Chronicon, p. 185, 4-7).
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Un’altra comparazione, che accosti la già citata nota dedicata all’investitura per vexillum con cui Nicolo II concesse il ducato a Roberto il Guiscardo, prima a una di quelle molto più ampie e dettagliate relative al duca Guglielmo, poi a quella che narra di come Ruggero II abbia ricevuto il vessillo da Onorio II, mostra come il medesimo argomento venga trattato con forme differenti nella parte della cronaca relativa agli anni posteriori al 112548. I primi due passi, infatti, presentano soluzioni analoghe – pur nella diversa estensione della nota, forte appare il richiamo al lessico giuridico – mentre il brano dedicato a Ruggero II si differenzia per la prevalenza dell’andamento narrativo. Inoltre la maggiore ampiezza dei passi dedicati alle investiture di Guglielmo rispetto alla notizia di maggiore rilievo relativa alla nomina ducale del Guiscardo credo confermi l’ipotesi che la breve cronaca sia stata scritta proprio al tempo di quel duca per ribadire la legittimità del suo ruolo: conforta tale interpretazione uno sguardo alla rapida annotazione sull’ultima investitura ricevuta da Guglielmo, con cui si apre il ritratto del duca dovuto a Romualdo, che segna un’evidente mutamento di registro rispetto alle analoghe note precedenti, ed introduce la sezione indipendente dalla cronachetta perduta49. Altro argomento trattato con ricchezza di particolari nei passi che ricompaiono nel Chronicon Amalphitanum ed in quello di Romualdo, e che contribuisce ad evidenziare le affinità tra la breve cronaca perduta ed i Gesta di Guglielmo di Puglia, riguarda le numerose informazioni di storia bizantina. Il punto di partenza per affrontare quel tema è costituito dalle campagne balcaniche che Roberto il Guiscardo condusse negli ultimi
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48 Le notizie delle investiture di Guglielmo ripetono parole simili; per brevità riporto solo quella concessa da Callisto II: Chronicon, p. 211, 2-11: «Mense octubris indictione XIIII, in Beneventi palatio Willelmus dux devenit liggius homo pape Calixti per directum contra omnes homines. Et ipse papa statim eidem duci donavit et concessit ac per vexillum tradidit omnem terram ipsius ducis cum toto honore ducatus ipsius dicens: ad honorem Dei et beati Petri apostolorum princips nec non et Pauli, fidelitatem quoque Romani pontificatus et nostram nostrorumque successorum canonice intrantium, donamus et concedimus tibi terram et omnem honorem, quemcunque nostri predecessores, videlicet papa Nicolaus et Alexander atque Gregorius, donaverunt olim Robberto Guiscardo avo tuo ac deinde Urbanus papa et Paschalis eius successor donaverunt duci Roggerio patri tuo, idemque Paschalis postea atque Gelasius papa donaverunt tibi». Ruggero II: Chronicon, p. 217, 6-9: «Papa [Onorio II] vero videns se a baronibus derelictum, Beneventum rediit, quem dux Roggerius e vestigio prosecutus est, et missis nuntiis cum eo concordatus est, cui liggium hominium fecit, et iuramentum prestitit, et ab eo in ponte qui est super Sabbatum, per vexillum de ducatu Apulie investitus est». 49 Chronicon, p. 213, 3-5: «Hic [Onorio II] ducem Willhelmum, secundum statuta predecessorum suorum, per vexillum de ducatu Apulie investivit, et ab eo liggium hominium et iuramentum accepit».
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anni della sua vita, e dalla presenza alla corte ducale di un personaggio che asseriva di essere il deposto imperatore Michele VII50. Ma la disponibilità di numerose informazioni sulle vicende bizantine ha spinto l’anonimo autore a dilatare assai il suo racconto, redigendo un resoconto che per ricchezza di informazioni, presenza di particolari (si ricorda, ad esempio, Arnone, il capo dei mercenari tedeschi che consegnò Bisanzio ad Alessio51) e carattere del contenuto non ha riscontri nella cronachistica normanna – si veda, ad esempio, quanto ha scritto Guglielmo Appulo, pure bene informato sulla storia di Bisanzio – e neppure più in generale in quella occidentale52. Nel Chronicon Amalphitanum l’episodio bizantino si interrompe nel mezzo di una frase della cui ultima parola sono state copiate solo le prime due lettere53: visto il brusco mutamento d’argomento che segna la continuazione del Chronicon è più probabile supporre che il compilatore disponesse di una copia mutila della cronachetta normanna piuttosto che immaginare la perdita definitiva di una parte dell’opera amalfitana. Non credo però si possa escludere del tutto l’ipotesi che proprio la lunghezza di questa sezione e l’argomento così poco pertinente alla storia amalfitana indussero l’anonimo compilatore del Chronicon Amalphitanum a interrompere la trascrizione dalla cronachetta normanna nel bel mezzo del racconto della congiura che portò al trono imperiale Alessio. Romualdo, invece, che certo non scriveva di sua mano, pur ritenendolo troppo lungo ha riproposto l’intero episodio, dalla lettura del quale si evince un marcato spirito anti-bizantino che induce ad escludere la dipendenza di queste pagine da una fonte greca54. L’avversione per i greci è frequente nella cronachistica latina del XII secolo, ma non compare nelle precedenti pagine del
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50 Sulla propaganda promossa dal Guiscardo in occasione delle campagne balcaniche ha posto l’accento H. Taviani - Carozzi, “La terreur du monde”. Robert Guiscard et la conquête normande en Italie. Mythe et histoire, Paris 1996, pp. 424-439, che analizza le cronache di Guglielmo Appulo e del Malaterra, ma non dedica alcun cenno al più informato Chronicon di Romualdo. 51 J.-C. Chenyet, Pouvoir et contestations à Byzance (963-1210), Paris 1990 (Byzantina Sorbonensia, 9), p. 356, sulla sola scorta di Anna Comnena conferma che ad aprire le porte della città alle truppe di Alessio fu il capo dei mercenari tedeschi, ma lo chiama Gilpract. 52 Ed a quanto ho potuto vedere neanche in quella bizantina: cfr. l’esposizione delle er testimonianze proposta da F. Chalandon, Les Comnène. I. Essai sur le règne d’Alexis I , Paris 1900, pp. V-XL. Il colpo di stato di Alessio è ricordato in Guillaume de Pouille, La Geste de Robert Guiscard cit., IV, 142-152 (p. 212), dove si legge anche di come Bisanzio sia stata saccheggiata per tre giorni dagli uomini del neo-imperatore. 53 Si tratta dell’incipit di un discorso di Alessio: cfr. Schwarz, Amalfi cit., 221 (cap. 41): «Imperator pro eo, quod vestra sibi do». 54 Che pure Romualdo cogliesse l’eccessiva ampiezza dell’episodio è forse indicato da quel «Quid multa?» che leggiamo verso la fine del racconto (cfr. Chronicon, p. 193, 26).
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Chronicon di Romualdo, dove pure sono assai numerose le informazioni su Bisanzio. La si trova, invece, nelle annotazioni immediatamente seguenti, quando viene narrata la continuazione della guerra tra il Guiscardo ed Alessio in pagine che ripropongono toni anti-bizantini tipici della cronachistica delle crociate e presenti anche negli interventi di Boemondo d’Altavilla durante il suo viaggio in Francia55. Tuttavia niente autorizza a credere che questa lunga pagina di storia bizantina dovesse fungere da premessa ad una storia della prima crociata: intanto le cronache della prima crociata che ancora possediamo non si aprono con lunghe introduzioni che illustrano la situazione degli anni precedenti, e poi non bisogna farsi trarre in inganno dalle note dedicate a Boemondo in Oriente contenute nel Chronicon56. Nella parte dell’opera di Romualdo che dipende dalla breve cronaca, si riportano solo notizie sulla rappacificazione tra Ruggero Borsa e Boemondo dopo la morte del Guiscardo57, mentre tutte le informazioni relative a Boemondo crociato ed ai fatti pertinenti ai suoi eredi sono contenute nelle aggiunte che si leggono solo nella versione del Chronicon arricchita con note di provenienza pugliese e conservata dai manoscritti B e C. Giunta all’anno 1125 la cronaca di Romualdo mostra un’evidente frattura nell’andamento: non solo viene meno la struttura annalistica, ma il racconto tace per un paio d’anni, poi dà notizia della morte del duca Guglielmo e quindi fa entrare in scena Ruggero II. Nell’autorevole codice C tale spezzatura è evidenziata da una nota eloquente: «Ab hoc loco adiunctum est huic chronice per Romualdum secundum Salernitanum archiepiscopum»58. Dopo quanto esposto nelle pagine precedenti credo sia lecito interpretare questa affermazione non solo come l’indicazione del fatto che da questo momento inizia l’opera originale di Romualdo, ma anche come 55
Cfr. L. Russo, Il viaggio di Boemondo d’Altavilla in Francia (1106), «Archivio storico italiano», 163 (2005), pp. 3-42: 26-34. 56 Per una panoramica dei temi della cronachistica prodotta al tempo della prima crociata vedi L. Russo, Le fonti della “prima crociata”, in Mediterraneo medievale. Cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oltremare (secoli IX-XIII), cur. M. Meschini, Milano 2001 (Scienze storiche, 74), pp. 51-65. 57 Rende il tono del racconto un passo come il seguente: Chronicon, p. 198, 9-10: «Postea vero ipse dux, amore fraterno ductus, dedit eidem Boamundo quandam partem terre sue in Apulie regionibus, cum pater eius nil sibi reliquit». Si veda anche il ritratto misto di critiche e lodi di Boemondo dettato da Romualdo in Chronicon, p. 206, 9-11: «Fuit autem Boamundus miles strenuus, corpore deducto, honorabili animo constans, cautus eloquio, ingenio astutus, bellicosus, inquietus, semper inpossibilia appetens, peritia atque virtute in bello prevalidus». 58 La nota si legge subito dopo il passo in cui si ricorda che Onorio II ha investito Guglielmo del ducato di Puglia: Chronicon, p. 213, 5.
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il segnale che con il 1125 si interrompe la cronaca salernitana che aveva fatto da ossatura per il racconto di oltre un secolo di fatti narrati nel Chronicon59. Quando Romualdo procedette alla ricostruzione di una larga spanna
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59 La ricostruzione del profilo della perduta cronaca salernitana utilizzata da Romualdo permette di rispondere alle osservazioni di Vitolo, La scuola medica salernitana, cit., pp. 549-551, volte a negare la paternità romualdiana del Chronicon. Lo studioso prima si è soffermato su un passo contenuto sia in Chronicon, p. 189, 2-3, sia nel Chronicon Amalphitanum (ed. cit. p. 215) e quindi proveniente dalla breve cronaca normanna perduta, dove, dando notizia dell’assedio con il quale il Guiscardo strinse Salerno nel 1076, si specifica che quella città era «medicine utique artis diu famosam atque precipuam». Poi ha osservato come questo sia l’unico rimando all’ars medicine salernitana che compare nell’opera, mentre all’insegnamento della medicina non si dedica alcun cenno. E, quindi, ha concluso che probabilmente il Chronicon, almeno per la sezione che si conclude nel 1125, non è stato composto a Salerno, altrimenti ad un aspetto così importante della vita cittadina sarebbe stato dedicato il giusto rilievo. In effetti il brano citato dal Vitolo non è stato composto da Romualdo, ma appartiene ad una cronaca che l’arcivescovo ha utilizzato come fonte senza avvertire la necessità di modificarne il testo. Quest’opera però non era – come riteneva Matthew ed ancora crede Vitolo – una storia universale compilata a Troia, ma, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, si trattava di una breve sintesi della storia dei normanni nel Mezzogiorno, che secondo Hirsch, Schipa e Hoffmann è stata compilata a Salerno alla fine del secolo XI (cfr. la bibliografia riportata sopra, a nota 17), mentre io credo che la sua stesura risalga al 1125 circa. Detto questo non mi resta da aggiungere che un cronista impegnato a ribadire la legittimità del ruolo degli Altavilla ai tempi del duca Guglielmo (o, se non si accetta la mia proposta di datazione, durante il ducato di Ruggero Borsa) aveva poco interesse a soffermarsi su episodi di vita cittadina, compreso l’insegnamento e la pratica della medicina nella sua città. Eppure in una pagina della sua opera dedicata a ripercorrere velocemente le conquiste di Roberto il Guiscardo, nella quale una dopo l’altra compaiono in poche righe Bari, Napoli e Palermo, le principali città del Mezzogiorno, l’anonimo autore ha inserito una sola osservazione estemporanea per indicare proprio una gloria di Salerno, evidentemente la sua città. Per dare il giusto peso a questa nota, si osservi, infine, che l’ars medicine sembra un tema genericamente trascurato dagli scrittori salernitani: questa è l’opinione sia di M. Oldoni, La “hyppocratica civitas” e le relazioni culturali fra Napoli, Salerno e il Mediterraneo, in Luoghi e metodi di insegnamento nell’Italia medioevale (secoli XII-XIV). Atti del Convegno internazionale di studi, Lecce Otranto, 6-8 ottobre 1986, cur. L. Gargan - O. Limone, Galatina (LE) 1989, pp. 37-56: 54, che sottolinea l’assenza di riferimenti alla scuola medica nel Chronicon Salernitanum pur «punteggiato da un costante prevalere del malanno»; sia di A. Galdi, Il santo e la città: il culto di san Matteo a Salerno tra X e XVI secolo, «Rassegna storica salernitana», 13/1 (1996), pp. 21-92: 50-51, che osserva come nell’agiografia salernitana manchi il richiamo all’arte medica e più in generale ai medici di Salerno, magari destinati al ruolo topico di depositari di un sapere insufficiente e quindi destinato ad essere surrogato dai miracoli taumaturgici dei santi, parte che pure fu riservata all’archiatra salernitano Gerolamo nella Historia di santa Trofimena, un testo agiografico composto probabilmente tra X e XII secolo, forse ad Amalfi oppure a Napoli [per i luoghi e i momenti di composizione della Historia cfr. M. Oldoni, Agiografia longobarda tra secolo IX e X: la leggenda di Trofimena, «Studi medievali», ser. III, 12 (1971), pp. 583-636, con cui è in pieno disaccordo R. Avallone, La “Historia s. Trophimenae” e il “Chronicon Salernitanum”, «Critica letteraria», 18 (1990), pp. 757-774].
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della vicenda dei normanni in Italia si trovò a disporre di una sintesi redatta circa cinquant’anni prima. Egli non si limitò a ricopiare la sua fonte, ma – seguendo la prassi che segna l’intero Chronicon – la integrò con notizie provenienti da altri testi: possiamo seguire il lavoro dell’arcivescovo con una certa tranquillità sino all’anno 1080, poi – da quando viene meno la possibilità di ricorrere al confronto con il Chronicon Amalphitanum – è necessaria maggiore prudenza. Sin dalla prima lettura emerge con forza l’attenzione che Romualdo riservava al papato: numerose note del Chronicon anche per il periodo dall’anno 997 al 1080 e poi sino al 1125 sono dedicate ai pontefici, cui sono riservati sempre brevi profili costruiti secondo il modello del Liber pontificalis, cui spesso si aggiungono annotazioni con ulteriori informazioni. Sino all’anno 1079, con l’incoronazione di Niceforo Botaniate, continuano le brevi note dedicate alla successione degli imperatori bizantini prive del tono anti-greco che caratterizza le pagine seguenti. Ancora più sintetiche sono le annotazioni riservate agli imperatori d’Occidente, tra i quali solo Enrico V riceve attenzione ed esclusivamente per il suo scontro con papa Pasquale II (potrebbe quindi trattarsi di un brano tratto dalla cronachetta perduta). Sul testo di questa sua fonte Romualdo intervenne piuttosto poco: nei passi in cui è possibile il confronto con il Chronicon Amalphitanum si trovano una breve, ma significativa aggiunta in favore di Sichelgaita60, e soprattutto alcune note dedicate all’elogio degli Altavilla. Il primo a ricevere quest’attenzione è Drogone: si tratta dell’avvio di una serie di ritratti, tutti omogenei nella forma, che Romualdo ha riservato ai personaggi di vertice del mondo normanno – dal conte Drogone al re Guglielmo I – ponendoli sempre accanto alla notizia della loro morte61. Non sembra, invece, che l’arcivescovo abbia censurato la sua fonte, nemmeno quando la cronachetta si mostrava critica nei confronti del papato. E, quel che più conta, Romualdo neppure intervenne per mutare la prospettiva in cui l’anonimo autore si era posto: il centro del racconto dalla Puglia si sposta a Salerno e comprende il Mezzogiorno continentale in cui erano più forti gli interessi dei duchi di Puglia; alla conquista della Sicilia la breve cronaca normanna dedicava poca attenzione, cui le brevi integrazioni tratte dall’annalistica pugliese non pongono certo rimedio. Dalla lettura del Chronicon si evince, insomma, che Romualdo, 60 Chronicon, pp. 184, 15-185,1: «que sexu quidem mulier pudica fuit atque honesta animam vero virilem et consilium providum gerebat». 61 Nella breve cronaca perduta si leggeva la notizia della data in cui Drogone morì e della successione di Unfredo; tra le due informazioni Romualdo aggiunse un generico elogio del conte: «Fuitque vir egregius, pius, strenuus atque famosus, qui propter animi mansuetudinem et iusticie servatam equitatem a cunctis est dilectus» (Chronicon, p. 181, 7-8).
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pur continuando a raccogliere ed ordinare informazioni, non intendeva rivisitare il modello storiografico ereditato dalla tradizione ducale salernitana alla luce dei fatti che si erano svolti dopo il 1127 con l’ascesa di Ruggero II. La codificazione della memoria storica dei normanni in Italia, che aveva avuto luogo già ai tempi di Roberto il Guiscardo, probabilmente in ambienti monastici pugliesi, si sovrappose ad altre tradizioni, magari più ricche di fatti e più vere nella sostanza, in maniera definitiva durante il ducato di Ruggero Borsa e, perduta l’originale valenza politica, entrò a far parte della memoria culturale degli abitanti del Regno normanno. Un’interpretazione della storia nata per legittimare il ruolo della famiglia Altavilla mantenne intatta la sua utilità durante i tormentati anni di governo di Ruggero Borsa e di suo figlio Guglielmo che non ebbero il vigore del Guiscardo, fece quindi in tempo a consolidarsi nella memoria storiografica del Mezzogiorno: ne cogliamo l’eco nelle vaghe note in cui Alessandro di Telese ha confuso Aversa con Melfi62 e la ritroviamo riproposta a distanza di decenni non solo nella cronaca di Romualdo, ma anche in quella di poco posteriore del monaco Andrea di San Bartolomeo63. Di più: il silenzio delle cronache normanne sulle gesta di Osmondo Drengot, di suo fratello Gilberto Bautère e di tanti altri cavalieri giunti nel Mezzogiorno all’inizio del secolo XI ha condizionato tutta la produzione storiografica successiva, non escluse le più recenti sintesi sulla storia dei normanni in Italia. 3. Il periodo palermitano
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L’analisi condotta nelle pagine precedenti ha mostrato come Romualdo non abbia avvertito la necessità di riscrivere la storia dei normanni in Italia secondo una prospettiva diversa da quella ormai stabilmente accolta al suo tempo. La ricostruzione del primo secolo della presenza normanna nel Sud che il Guarna trovò in una cronaca conservata probabilmente tra i codici della sua cattedrale, era incentrata esclusivamente sugli Altavilla e riservava attenzione solo ad episodi che in qualche maniera li toccassero, lascian62 63
Alessandro di Telese, Ystoria Rogerii regis Siciliae cit., p. 61, 7-9 (= lib. III, cap. 4). Alexandri monachi Chronicorum liber monasterii Sancti Bartholomei de Carpineto, ed. B. Pio, Roma 2001 (Fonti per la storia dell’Italia medievale. Rerum italicarum scriptores, 5), p. 41, fa iniziare la presenza normanna in Italia dall’incontro di alcuni pellegrini con Melo a San Michele, ma comincia a ricordare i nomi dei personaggi solo dal tempo dell’arrivo dei figli di Tancredi (ibid., p. 45). A differenza di Romualdo, Alessandro ha riscritto le sue fonti ed ha avuto cura di specificare (p. 47) che con la morte del duca Guglielmo termina la stirpe del Guiscardo.
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do quindi in ombra anche la vicenda della chiesa cittadina salernitana e dei suoi vescovi64. In questa parte del Chronicon, quindi, assenze e presenze non dipendono tanto dalla volontà del compilatore – sia essa guidata dalla selezione storiografica o mossa dalla damnatio memoriae – quanto dalla scelta operata a monte dall’anonimo autore della sua fonte di riferimento: alcuni protagonisti della stagione normanna nel Mezzogiorno erano ormai dimenticati, esclusi dalle cronache, quando l’arcivescovo di Salerno sovrintendeva alla sua opera; di altri personaggi, invece, non si faceva menzione perché il racconto delle loro vicende esulava dagli interessi dell’anonimo autore della breve cronaca normanna perduta, il quale aveva optato per la medesima linea narrativa seguita da Goffredo Malaterra e Guglielmo Appulo. Le condizioni di lavoro di Romualdo mutarono radicalmente quando, estintasi la linea diretta della famiglia ducale, il centro della scena venne occupato da Ruggero II, nel momento in cui da conte di Sicilia mirava a divenire duca di Puglia. A quest’altezza cronologica – siamo attorno all’anno 1127 – il Guarna non aveva più fonti salernitane cui appoggiarsi e, a quanto pare, i suoi pur lunghi e frequenti soggiorni alla corte palermitana non gli avevano fornito qualche testo da cui ricavare informazioni utili per integrare il suo racconto e meno che mai un’opera che proponesse l’interpretazione ufficiale dei fatti che avevano portato alla fondazione della monarchia. Nella complessa vicenda della costruzione del testo del Chronicon a questo punto si inserisce una nuova difficoltà, sollevata dalle aggiunte, con cui due autorevoli codici (i manoscritti che Garufi ha chiamato C e B) 64
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Resta da sottolineare il carattere verticistico dell’opera, che si concentra sulle vicende politiche e militari dei duchi, presta grande attenzione alla storia del papato e trascura quasi completamente le istituzioni ecclesiastiche del Mezzogiorno. Anche la notizia dell’edificazione della nuova cattedrale di Salerno, che pure è ricordata, viene inserita tra altre informazioni relative alle chiese costruite per volere del Guiscardo nelle città da lui conquistate, mentre non si riporta il ruolo svolto in quell’occasione dall’arcivescovo salernitano Alfano I (cfr. Chronicon, p. 189, 7-10: «In eadem vero civitate ipse dux construxit ecclesiam in honore beati Mathei apostoli et evangeliste. In Panormo quoque fecit ecclesiam in honore Dei genitricis semperque virginis Marie, anno primo postquam cepit Salernum»). In questo modo l’anonimo cronista ha taciuto la stretta collaborazione tra l’arcivescovo Alfano ed il duca Roberto nel periodo immediatamente seguente la presa della città che portò alla costruzione della cattedrale di San Matteo. Cfr. R. Sangermano, Poteri vescovili e signorie politiche nel Mezzogiorno d’Italia postgregoriano: le origini delle dignità primaziali nella Chiesa salernitana, in Studi in onore di Giosué Musca, cur. C. D. Fonseca - V. Sivo, Bari 2000, pp. 456-471; e Sangermano, La cattedrale e la città, in Salerno nel XII secolo cit., pp. 149-169. Entrambi i saggi sono ristampati in Sangermano, Poteri vescovili e signorie politiche nella Campania medievale, Galatina (LE) 2000 (Saggi e testi, 10), rispettivamente alle pp. 77-94 e alle pp. 53-76.
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arricchiscono l’opera, e che si concentrano principalmente nel periodo che dall’anno 1044 giunge al 113265. Delle prime annotazioni (quelle che dall’anno 1044 arrivano al 1097) è facile riconoscere l’origine: derivano, infatti, tutte dagli Annali Baresi attribuiti a Lupo Protospata. Dato l’orizzonte geografico delle aggiunte relative al periodo seguente, è poi anche probabile che dall’ambito pugliese provengano pure le altre note, che possiamo dividere in due gruppi: del primo fanno parte notizie relative a Boemondo d’Altavilla ed ai suoi eredi; nel secondo gruppo di note si parla di Ruggero II, raccontando vicende militari che si svolsero soprattutto in Puglia dal 1127 al 1132. Dal confronto tra le notizie riportate in questi due mazzetti di aggiunte si può avanzare la ragionevole ipotesi che il compilatore non le abbia tratte da unico testo: non solo differente risulta, infatti, il taglio stilistico delle note (più curato in quelle recenti che in quelle anteriori), ma anche si incontrano ben due ripetizioni nel complesso di poche informazioni66. Chiunque abbia inserito queste note nel testo del Chronicon era mosso dal chiaro intento di rimpolpare un racconto che doveva sembrare troppo sintetico e non certo dalla pretesa di mutare l’impostazione dell’opera. Se, infatti, le notizie (sette in tutto) relative all’azione di Ruggero nel Mezzogiorno danno l’impressione di riconoscere il giusto rilievo alla mutata situazione istituzionale, le più numerose note tratte dagli Annali di
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65 Ha carattere estemporaneo solo l’ultima di queste aggiunte, quella dedicata alla condanna a morte dell’eunuco Filippo di Mahdia, avvenuta nel 1153. L’ampia nota si legge in Chronicon, pp. 234-236, in apparato, e nei codici che la conservano trova posto nella pagina in cui si ricorda la morte di Ruggero II, dopo la notizia dell’edificazione della chiesa di San Salvatore a Cefalonia e prima del passo in cui si riferisce come il sovrano negli ultimi anni di vita sia divenuto pio ed abbia indotto molti ebrei e saraceni alla conversione (la si inserirà quindi dopo Chronicon, p. 235, 5). Il lungo brano è tradotto e commentato in H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Roma-Bari 1999 (Centro europeo di studi normanni. Fonti e studi, 8), pp. 142-145, che lo ritiene composto tra il 1177 ed i primi decenni del Duecento perché in quel periodo era in uso il termine ammiratus stoli, con il quale nel testo è definito l’incarico ricoperto da Filippo. 66 Entrambe riguardano Boemondo II, il figlio di Boemondo d’Altavilla: si tratta di note analoghe con anche significative somiglianze letterali, ma con estensione diversa. La prima informazione concerne la partenza di Boemondo per Antiochia nel 1127 e si legge nella forma breve in Chronicon, p. 214, 12-14; e in quella più estesa a p. 215, righi 1-5 dell’apparato. La seconda narra della morte di Boemondo, avvenuta nel febbraio del 1130; ne riporto il testo per mostrare come lo stile del racconto si differenzia: Chronicon, p. 219, 34: «Hoc tempore [1130] Boamundus, filius principis Boamundi, in bello iusta Damascum occubuit, cuius corpus sine capite fertur esse sepultum»; p. 218, righi 21-23 dell’apparato: «Hoc tempore [1131] Boamundus filius principis Boamundi in bello iuxta Damascum occubuit cuius corpus sine capite inventum est, et sepultum in monasterio Sancte Marie quod est iuxta sepulcrum nostri redemptoris, in dextera parte eiusdem sepulcri, mense februarii».
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Lupo e dalla cronaca pugliese imperniata sulla famiglia di Boemondo portano al risultato, diametralmente opposto, di concentrare l’attenzione del lettore su fatti particolari del Mezzogiorno oppure sulle vicende del ramo crociato degli Altavilla67. Il cronista si muoveva, dunque, con difficoltà: sentiva ormai inadeguato l’orizzonte salernitano alla cui tradizione di memorie orali poteva ricorrere68, ma non aveva facile accesso a fonti adeguate per parlare della Sicilia. Anche a prescindere dalla complicazione causata dalla presenza di aggiunte, di cui forse Romualdo non è stato responsabile, il risultato di questo disagio si coglie assai bene nelle prime pagine del Chronicon dedicate a Ruggero II: dopo avere riservato il massimo rilievo all’azione di Roberto il Guiscardo nelle fasi che portarono alla conquista dell’isola, quasi nulla si racconta di quanto era accaduto in Sicilia durante il governo di Ruggero I, e niente si dice del tempo della reggenza di Adelaide e dei primi anni in cui, dopo il 1112, il potere giunse nelle mani di Ruggero II. Anche per il periodo posteriore al 1127, quando ormai Ruggero II è il protagonista del 67
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Il carattere di queste aggiunte si coglie dalla lettura del seguente passo di Chronicon, p. 200, 17-21: «Anno Domini MLXXXXVI, Rogerius comes Sicilie cum viginti milibus Agarenorum et cum innumera multitudine aliarum gencium et universis comitibus Apulie obsedit Amalfim, ibique subito inspiratione Dei Boamundus cum aliis comitibus et militibus Rogerii comitis sumpserunt signum Sancte crucis in umeribus suis et in frontibus et sic reliquerunt obsidionem. Videns hec comes Rogerius cum dedecore reversus est in Siciliam». Il brano corrisponde ad Annales Barenses cit., p. 62, 39-45, con la variante Sarracenorum per Agarenorum, ma soprattutto con l’aggiunta dell’ultimo periodo in cui si commenta il vergognoso ritorno di Ruggero in Sicilia. Queste ultime sarebbero parole sorprendenti se dettate da Romualdo, ma appaiono plausibili se scritte in un ambiente avverso al Gran Conte, quale poteva essere la Puglia ai tempi di Boemondo. Ecco come la reazione di Ruggero è narrata in una fonte composta in ambienti vicini a Boemondo: Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum, ed. R. Hill, London - Edinburgh - Paris Melburne - Toronto - New York 1962, I, IV, p. 7: «Cepit tunc ad eum vehementer concurrere maxima pars militum qui erant in obsidione illa, adeo ut Rogerius comes pene solus remanserit, reversusque Siciliam dolebat et merebat quandoque gentem amittere suam». Infine nel Chronicon tutto l’episodio amalfitano è segnato dalla contrapposizione tra Ruggero che comanda un esercito composto anche da saraceni, e Boemondo che si accinge a guidare i normanni a combattere in Terrasanta. Il passo di Romualdo in questione è esaminato in G.M. Cantarella, La frontiera della crociata: i normanni del Sud, in Il Concilio di Piacenza e le Crociate, Piacenza 1996, pp. 225-246: 227; sull’episodio della partenza di Boemondo per la crociata vedi E. Cuozzo, La partenza del crociato Boemondo, tra l’assedio di Amalfi e l’appello alla crociata, in Boemondo. Storia di un principe normanno, cur. F. Cardini - N. Lozito - B. Vetere, Galatina (LE) 2003, pp. 9-27: 14-16. 68 È interessante notare come solo in questa fase di transizione nella vicenda compositiva del testo trova posto nel Chronicon una nota sulla chiesa salernitana, poiché Romualdo ha ricordato l’elezione del suo predecessore Guglielmo da Ravenna nel 1138, tacendo tuttavia gli scontri che avevano preceduto quella nomina, imposta da Ruggero II: cfr. Chronicon, p. 225, 9-10.
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Chronicon, lo scenario delle azioni è esclusivamente il Mezzogiorno continentale, mentre la Sicilia rimane un luogo enigmatico dal quale periodicamente il re giungeva con il suo esercito e dove sparivano alcuni nemici del sovrano69. Il Chronicon, quindi, si riduce al racconto delle continue lotte che contrapposero Ruggero II ai baroni normanni e alle città che – cercando l’aiuto di Innocenzo II e Lotario II – tentavano di sottrarsi alla sua influenza. La sezione del Chronicon dedicata alle imprese di Ruggero si conclude con un errore di distrazione: al momento di ricordare la morte del sovrano – di cui ha tracciato un ritratto dalle interessanti sfumature realistiche – l’arcivescovo ha sbagliato l’indicazione del suo anno di morte70. Secondo Romualdo, Ruggero sarebbe morto il 27 febbraio 1152, nel suo cinquantottesimo anno di vita e dopo ventiquattro anni di regno71. Ma in realtà il re, nato il 22 dicembre 1095, ed incoronato il giorno di Natale nel 1130, morì nel 1154 – come giustamente è riportato anche nel necrologio del Liber confratrum di San Matteo di Salerno72 – appunto dopo cinquantotto anni di vita e ventiquattro di regno. Questa svista è spia del fatto che la stesura delle pagine del Chronicon in cui si parla di Ruggero II risale a qualche anno dopo la morte del sovrano. Altri indizi sorreggono questa conclusione: sempre nelle ultime battute della sezione dedicata a Ruggero II, ad esempio, il cronista si è soffermato sui problemi della successione al sovrano ed ha ricordato che Guglielmo I fu incoronato due anni prima della morte del padre73; anche nella ricostruzione delle vicende di uno dei più grandi nemici di Ruggero, Rainolfo d’Alife, Romualdo ha commesso una piccola imprecisione invertendo l’ordine cronologico di due eventi
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69 La prospettiva in cui sono scritte queste pagine del Chronicon non si differenzia da quella che regola l’orizzonte tutto continentale del racconto di Alessandro di Telese e di Falcone Beneventano, autori appartenenti alla generazione precedente a quella di Romualdo, sui quali vedi M. Oldoni, Difesa della libertà ed esegesi del potere nella storiografia su Ruggero II, «Vichiana. Rassegna di studi filosofici e storici», 8 (1979), pp. 94-127. 70 Chronicon, pp. 236, 7-237, 5. Nel ritratto colpiscono i particolari realistici («statura grandis, corpulentus, facie leonina, voce subrauca»: Romualdo aveva veduto ed evidentemente anche sentito parlare il re) e la franchezza del giudizio («erat suis subditis plus terribilis quam dilectus»). 71 La data 1152 compare nel codice A ed anche nei manoscritti B e C, segno che si tratta di un errore d’autore e non della svista del copista. 72 Cfr. Necrologio del “Liber confratrum” di San Matteo di Salerno, ed. C. A. Garufi, Roma 1922 (Fonti per la storia d’Italia, 56), p. 30, che come il Chronicon data la morte al 27 febbraio. 73 Chronicon, p. 231, 13-15, dove si dice che Ruggero associò Guglielmo al trono «biennio autem antequam moreretur».
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importanti: la morte di Rainolfo e l’accordo raggiunto dal re con il papa Innocenzo II74. Tuttavia l’argomento che meglio rivela come queste pagine siano state scritte a distanza di qualche anno dallo svolgimento dei fatti narrati è costituito dal tema dei rapporti tra papato e regno normanno durante il periodo dello scisma che contrappose Anacleto II ad Innocenzo II. Nel racconto di Romualdo, dove si sostengono sempre le parti di Innocenzo, non solo gli stretti legami tra Anacleto e Ruggero II vengono lasciati cadere e si tace dell’investitura che quel pontefice per primo concesse al sovrano, ma persino si nega che i due si fossero mai incontrati nonostante il desiderio del papa di ricevere l’omaggio del re75. La presenza in queste pagine di numerose aggiunte che rimpinguano il testo originale mette in ombra il filo del racconto di Romualdo, che prima ha specificato come Ruggero sia stato incoronato a Palermo «baronum et populi consilio», poi – subito dopo – ha dato notizia dello scisma che divise la Chiesa dopo la morte di papa Onorio II: la cronologia risulta così capovolta e l’incoronazione, che risale al Natale del 1130, è registrata prima della morte di Onorio che avvenne nel febbraio precedente. Di conseguenza, quando si racconta dello scisma che contrappose Anacleto ad Innocenzo e del viaggio di Anacleto nel Regno, Ruggero, che sino a poco prima era ricordato con il titolo di duca, compare già da qualche riga con l’appellativo regale76. In questo modo la versione dei fatti che portarono all’incoronazione di Ruggero nel Chronicon risulta revisionata a danno di Anacleto: non si potrà parlare di damnatio memoriae, ma certo di rivisitazione della storia. Indizi rilevanti invitano a ritenere che questa versione dei fatti sia stata elaborata da Romualdo stesso e, quindi, ad escludere che – come era accaduto in precedenza – l’autore abbia inserito senza modifiche nel suo testo un passo tratto da qualche altra cronaca. Il confronto tra le pagine del Chronicon del Guarna e la Ystoria di Alessandro di Telese, l’unica opera storiografica prodotta nel Regno normanno ai tempi di Ruggero II e giunta sino a noi, rivela come in queste pagine l’arcivescovo abbia accolto l’interpretazione dei fatti più gradita alla corona77. Ma alcuni elementi indu74 La morte di Rainolfo, avvenuta occasione flebothomie nell’aprile del 1139, è ricordata in Chronicon, p. 226, 1. Per l’accordo tra Ruggero ed Innocenzo (all’epoca prigioniero del re) del luglio 1139 vedi p. 225, 13-24. Resta da segnalare che nei tre principali codici che tramandano il Chronicon il conte di Alife è sempre chiamato Raidulfus. 75 Chronicon, p. 220, 12-15. Cfr. anche Houben, Ruggero II di Sicilia cit., pp. 67-71. 76 La morte di Onorio è ricordata in Chronicon, p. 219, 7-8; per l’incoronazione di Ruggero vedi ibid., p. 218, 1-2. 77 Nemmeno un cenno ad Anacleto ha riservato Alessandro nella sua opera che racco-
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cono a ritenere che sia stato Romualdo a scegliere in quale modo mettere sotto silenzio il ruolo di Anacleto nella fondazione del Regno normanno. In primo luogo durante tutto il Chronicon l’arcivescovo ha sempre dimostrato di conoscere bene la storia del papato e quindi non avrebbe avuto difficoltà a collocare due avvenimenti così importanti nel loro giusto ordine cronologico. Non bisogna, poi, sottovalutare il mutamento di registro che si avverte nel passaggio dall’anonima cronachetta salernitana alla sezione posteriore proprio per quanto riguarda le note dedicate alle infeudazioni pontificie: il tono giuridico dei passi in cui si riferisce l’omaggio dei duchi salernitani ai papi è sostituito da un’impostazione più narrativa e meno formale, quando si passa a raccontare dei rapporti tra i pontefici ed i sovrani. Così, quando Romualdo ha dato notizia dell’omaggio prestato da Ruggero II ad Innocenzo II, si è limitato a stendere una breve nota e lo stesso ha fatto qualche pagina dopo, quando ha menzionato l’investitura di Guglielmo I a Benevento nel 1156, anche se a quell’episodio egli era stato presente. Inoltre colpisce una netta dissonanza tra la versione con cui l’incoronazione di Ruggero è ricordata nella versione del Chronicon tramandata dal manoscritto A e quella offerta da una delle note presenti solo nei codici C e B. Nell’aggiunta la cerimonia è descritta con maggiori dettagli ed inoltre vi si legge che Ruggero fu incoronato «iussione Calixti pape», mentre nel 1130 il papa Callisto II era già morto da sei anni. Non credo si tratti solo di una semplice svista, scivolata inavvertitamente nel Chronicon, ma di una notizia falsa che circolava alla fine del XII secolo accolta nell’opera che funse da fonte a Romualdo, dato che nello stesso singolare errore è incorso Pietro da Eboli, il quale – nel Liber ad honorem Augusti composto verso il 1195 – ha scritto lui pure che Ruggero fu unto re «delegante Calisto»78. I rapporti tra il primo re normanno ed il papa scismatico erano così posti
glie la versione fatta circolare dagli ambienti di corte. In precedenza il Telesino aveva ricordato l’omaggio prestato da Ruggero ad Onorio II, quando nel 1128 era divenuto duca (Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., p. 14, 24-26), e, se nell’Ystoria neppure si nomina l’omaggio di Ruggero ad Innocenzo II, questo silenzio dipende dal fatto che Alessandro condusse il racconto sino agli eventi del 1136 e probabilmente terminò la stesura della sua cronaca prima del 1139, poiché in quell’anno morì Rainolfo d’Alife, uno dei protagonisti dell’opera, cui nel testo ci si rivolge sempre come se fosse ancora in vita. 78 Cfr. Chronicon, p. 218, in apparato, righi 19-20; e Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, ed. G. B. Siragusa, Roma 1906 (Fonti per la storia d’Italia, 39), p. 3, 3-4 (e nota 2). Vedi inoltre Petri Ansolini de Ebulo De rebus Siculis carmen, ed. E. Rota, in R.I.S.2, XXXI/1, Città di Castello 1904-1910, dove – a p. 7, 5-6 e commento corrispondente – l’editore avanza con molta cautela l’ipotesi che Pietro abbia tratto questa informazione dal Chronicon di Romualdo: non credo sia andata così, tuttavia bisogna ricordare che la circolazione dell’opera del Guarna è attestata solo per la versione tramandata dai codici C e B (quindi con le aggiunte, ma senza il resoconto della Pace di Venezia).
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in ombra con una versione dei fatti diversa e meno raffinata, ma anche più efficace rispetto a quella elaborata da Romualdo. Tuttavia le voci messe in circolazione da ambienti vicini a Ruggero e lo sforzo dei cronisti coevi non riuscirono a cancellare il ricordo dei rapporti tra Anacleto II ed il re: ancora alle soglie del XV secolo, infatti, un anonimo cronista napoletano – che pure conosceva il Chronicon di Romualdo – scrisse che era stato l’antipapa ad incoronare l’Altavilla79. Per gli anni di regno di Ruggero II sono rimaste solo poche testimonianze cronachistiche e documentarie che permettano di individuare almeno gli echi di messaggi politici messi in circolazione da ambienti regi80. Inoltre la lettura di queste fonti lascia supporre che quel sovrano – anche negli anni in cui era oggetto di una dura campagna condotta da Bernardo di Chiaravalle81 – avesse preferito ricorrere a cerimonie pubbliche – comprese le terribili esecuzioni capitali dei suoi nemici – piuttosto che ad altre forme di comunicazione politica per ribadire la sua autorità82. In particolare tra i testi narrativi giunti sino a noi spiccano due opere: una, già più volte citata, favorevole al sovrano e scritta da Alessandro, abate del monastero di San Salvatore di Telese, oggi in provincia di Benevento; l’altra
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Cfr. Chronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396 in forma diary ex inedito codice Ottoboniano Vaticano, ed. G. De Blasiis, Napoli 1887 (Società napoletana di storia patria. Monumenti storici. Serie I. Cronache), p. 3: «Anacletus coronavit predictum Rogerium ducem Apulie in regem Sicilie». Subito dopo questa breve nota nel Chronicon Siculum viene riproposto il ritratto di Ruggero II tracciato dal Guarna. 80 Inoltre, com’è noto, la genuinità di quello che è stato definito il manifesto ideologico di Ruggero II – il prologo delle Assise di Ariano – è stata messa in dubbio: sulla questione cfr. le messe a punto di A. L. Trombetti Budriesi, Sulle “Assise” di Ruggero II, in Unità politica e differenze regionali nel Regno di Sicilia, cur. C.D. Fonseca - H. Houben - B. Vetere, Galatina (LE) 1992 (Saggi e ricerche, 17), pp. 63-83; di G. Santini, Problemi relativi alle Assise di Ariano: gli uomini di legge, in Alle origini del costituzionalismo europeo. Le Assise di Ariano. 1140-1990, cur. O. Zecchino, Roma-Bari 1996 (Centro europeo di studi normanni. Fonti e studi, 1), pp. 81-113; e di S. Fodale, Le prime codificazioni, in Nascita di un regno cit., pp. 99-114. Il testo del prologo delle Assise, tramandato solo dal codice Vaticano latino 8782, è pubblicato e tradotto in O. Zecchino, Le Assise di Ruggiero II. I testi, Napoli 1984 (Pubblicazioni della Facoltà giuridica dell’Università di Napoli, 209), pp. 25-27. 81 Tra il 1134 ed il 1136 Bernardo condusse il suo affondo contro Ruggero II, il principale sostenitore di Anacleto II: cfr. il classico saggio di H. Wieruszowski, Roger II of Sicily, “Rex-Tyrannus”, in Twelfth-Century Political Thought, ristampato in Wieruszowski, Politics and Culture in Medieval Spain and Italy, Roma 1971 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 121), pp. 51-97: 67-70. 82 Anche il celebre mosaico della Martorana a Palermo dove Ruggero, vestito come un basileus, viene incoronato da un Gesù Cristo il cui volto somiglia a quello del sovrano, non fu commissionato dal re, ma dovuto all’iniziativa dell’ammiraglio Giorgio di Antiochia per ornare una chiesa di rito greco da lui fondata. Cfr. Houben, Ruggero II cit., pp. 146-148.
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83 Falcone di Benevento, “Chronicon Beneventanum”. Città e feudi nell’Italia dei Normanni, ed. E. D’Angelo, Firenze 1998 (Per verba, 9). Su quest’opera vedi M. Zabbia, Écriture historique et culture documentaire. La chronique de Falcone Beneventano (première moitié du XIIe siècle), «Bibliothèque de l’École des chartes», 159 (2002), pp. 369-388. 84 Una lettura che ripercorre con ordine i contenuti della Ystoria (in cui il racconto si interrompe bruscamente nel 1135) è proposta da C. Lavarra, Spazio, tempi e gesti nella “Ystoria Rogerii” di Alessandro di Telese, «Quaderni medievali», 35 (1993), pp. 79-100. 85 Oldoni, Difesa della libertà ed esegesi del potere cit., pp. 109-127, dove (a p. 121) si afferma che «Alessandro scrive una storia redatta per essere recitata o comunque letta in presenza del re». Cfr. anche Oldoni, “Quel” latino delle Assise..., in Alle origini del costituzionalismo europeo cit., pp. 291-299: 297, dove si afferma che l’opera di Alessandro fu «fondamentale premessa» per le Assise. 86 P. Delogu, Idee sulla regalità: l’eredità normanna, in Potere, società e popolo tra età normanna ed età sveva (1189-1210). Atti delle quinte giornate normanno-sveve. BariConversano, 26-28 ottobre 1981, cur. G. Musca, Bari 1983, pp. 185-214: 186-192. 87 H. Taviani-Carozzi, De Robert Guiscard au roi Roger de Sicilie: la mémoire de l’historien Alexandre de Telese, in Faire mémoire. Souvenir et commémoration au Moyen Âge, cur. C. Carozzi - H. Taviani-Carozzi, Aix-en-Provence 1999, pp. 317-345. La Taviani-Carozzi
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Per spiegare la ragione di interpretazioni così lontane basta andare al testo del Telesino, poco limpido già nelle prime battute. Nel prologo, infatti, l’abate ha affermato che il primo impulso a scrivere il suo libellum gli era venuto da Matilde, sorella di Ruggero II e moglie del conte Rainolfo d’Alife. Ma lo scrittore non ha specificato in quale occasione gli fosse giunta questa esortazione, ed inoltre ha riconosciuto di non essersi subito posto all’opera. L’opusculum, quindi, non è stato composto su commissione di Matilde, ma per esplicita ammissione del suo autore a distanza di qualche tempo e, di fatto, per iniziativa del Telesino stesso: l’Oldoni ha ragione, credo, quando ipotizza che ad indurre il cronista a scrivere siano stati gli importanti donativi che il sovrano aveva concesso al monastero del San Salvatore nel 113588. Tuttavia non ritengo che la richiesta di Matilde sia necessariamente un’invenzione di Alessandro anche perché il periodo su cui si concentra l’Ystoria va dal 1131 al 1135, proprio gli anni in cui infuriò lo scontro che contrappose Ruggero II a Riccardo principe di Capua ed al suo parente Rainolfo, marito di Matilde. Mi sembra quindi lecito supporre che, nel 1134, quando sembrava che il conflitto tra Ruggero e Rainolfo fosse destinato a ricomporsi, Matilde, che era molto legata al fratello, si sia rivolta ad un importante uomo di chiesa che risiedeva nei domini di suo marito, ma parteggiava per il re, chiedendogli di scrivere una storia che ripercorresse il periodo appena concluso e presentasse Ruggero ai suoi nuovi sudditi89. Si spiegherebbe in questo modo anche l’intenzione –
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ritiene che Alessandro abbia preso spunto dall’opera di Amato di Montecassino e vede nella presenza di sogni profetici proposti in entrambe le opere la traccia più evidente di questa dipendenza. Tuttavia l’argomentazione non pare convincente sia perché l’espediente del sogno profetico è assai diffuso, sia e soprattutto perché nessuna tematica cara ad Amato ricompare nell’Ystoria, dove per altro, pur facendo cenno alla parentela di Ruggero II con il Guiscardo, si richiamano altri e ben più autorevoli fondamenti alla monarchia (cfr. per un esempio Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., p. 87, 1-15, dove si afferma che Ruggero II è re per volontà di Dio). 88 Oldoni, Difesa della libertà ed esegesi del potere cit., p. 123-124. Cfr. Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., pp. 78, 20-79: 20, dove l’abate ricorda i benefici largiti da Ruggero II al suo monastero: si tratta del capitolo che chiude il terzo libro della Ystoria e contiene l’ultima informazione affidata all’opera. 89 Tutti gli studiosi che si sono occupati del Telesino hanno fatto cenno all’invito che gli era stato rivolto da Matilde, ma la questione è stata affrontata in dettaglio solo da D. Clementi, Historical Commentary on the “Libellus” of Alessandro di Telese, previously known as “De rebus gestis Rogerii Siciliae Regis” or as “Ystoria Rogerii regis Siciliae, Calabriae atque Apulie”, in Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., pp. 175-364: 224-229. Tuttavia non condivido l’opinione della studiosa, secondo la quale è più probabile che Matilde si fosse rivolta ad Alessandro prima del 1131, anno in cui abbandonò il marito e si rifugiò alla corte del fratello. A mio avviso è invece più logico ritenere che l’invito risalga al 1134, quando Matilde ritornò ad Alife e si ricongiunse al marito momentaneamente rappa-
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enunciata, ma di fatto ben presto abbandonata – di scrivere una biografia dell’ancor giovane sovrano. I destinatari dell’opera, in conclusione, mi sembrano in primo luogo gli esponenti di vertice del Mezzogiorno, sia i baroni normanni – compreso il conte Rainolfo – sia i membri delle élites cittadine ed i vertici della chiesa locale90. Raccontando alcuni episodi soltanto delle vicende di Ruggero II, Alessandro ha rivolto loro due messaggi principali: intanto Ruggero è un sovrano consacrato e pertanto invincibile, di conseguenza chi gli si oppone non può sperare nella vittoria91; e in seconda battuta egli è un re giusto, un principe capace di assicurare ai suoi sudditi la pace, che per l’abate coincideva in primo luogo con il mantenimento dell’ordine pubblico92. I capitoli del breve quarto libro che conclude l’opera confermano quest’approccio: scritti quando le resistenze a Ruggero erano ancora forti, essi ripropongono, attraverso l’espediente narrativo del sogno profetico, l’ineluttabile trionfo cui è destinato il sovrano. Non ci si deve poi far trarre in inganno dall’Alloquium ad regem Rogerium con cui termina il testo, perché non si tratta tanto di una lettera dedicatoria, quanto di un esplicito invito a non cadere nel peccato di superbia rivolto al sovrano, ma forse destinato tanto ai suoi sostenitori quanto a chi gli si opponeva. Vi si scrive, infatti, che solo incorrendo in questo peccato Ruggero avrebbe potuto perdere la sua invincibilità come i fatti narrati nell’Ystoria avevano già mostrato. Tanto è vero che in precedenza Alessandro non aveva esitato a collegare la sconfitta in cui il re era incorso nel luglio del 1132 presso Nocera, al volere di Dio che aveva punito in quel modo l’orgoglio del sovrano93. Il legame tra il peccato di super-
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cificato con il sovrano: se così fosse, Alessandro si sarebbe messo al lavoro dopo pochi mesi ed avrebbe poi interrotto bruscamente il suo racconto nel 1135, al tempo in cui i rapporti tra Ruggero II e Rainolfo si erano definitivamente deteriorati. 90 Che lo scopo del Telesino fosse di «creare un clima di consenso» intorno alla figura di Ruggero II ha rilevato N. Cilento, La “coscienza del Regno” nei cronisti meridionali, in Potere, società e popolo cit., pp. 165-184: 172. Simile è il parere di S. Tramontana, Il senso della storia e del quotidiano nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Quattordicesimo convegno di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia, 14-17 maggio 1993, Pistoia 1995, pp. 189-203: 192-196, che sottolinea come l’opera «probabilmente destinata ad essere letta e recepita anche fuori dagli ambienti della corte» trasmette l’immagine di un potere sacro che sarebbe stato peccaminoso non riconoscere. 91 Il messaggio è ribadito con la massima chiarezza in Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., p. 87, 1-15 (= lib. IV, cap. 9). 92 È questo uno dei temi che ricorrono con maggior frequenza nell’opera. Per un esempio si veda Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., p. 8, 14-16 (= lib. I, cap. 4): «adeo ut non fur, non latro aut raptor, sive quislibet malefactorum ex latebris suis prodiens, apparere auderet». 93 Ibid., p. 38, 1-16 (= lib. II, cap. 32), dove prima si invita il lettore a chiedersi come
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bia e la sconfitta di Ruggero non credo sia un’interpretazione dei fatti uscita dalla penna dell’abate, ma la ripresa di una voce che circolava in quel tempo nel Mezzogiorno d’Italia e che Alessandro ha raccolto nella sua opera94. A questo proposito è rivelatore il confronto con la cronaca di Falcone Beneventano nella quale è riportata la stessa versione dell’avvenimento: a colpire entrambi i cronisti – ed anche i loro contemporanei – fu l’improvviso cambiamento delle sorti dello scontro che, quando ormai sembrava già vinto da Ruggero, si trasformò in un’incredibile disfatta per l’esercito regio. Anche Falcone, come Alessandro, ha visto in quel rovesciamento l’intervento della provvidenza divina, che secondo la pagina del cronista beneventano non mirava ad ammonire il sovrano, bensì a dare la vittoria a chi era nel giusto95. È abbastanza agevole a questo punto cogliere gli echi dell’opinione pubblica del Mezzogiorno: tutti sembrano concordi nel ritenere che solo l’intervento della provvidenza poteva portare alla sconfitta un re potente come Ruggero; per i nemici del sovrano tale intervento mirava a riportare la giustizia; per i suoi sostenitori andava letto solo come un richiamo che invitava Ruggero a non montare in superbia. Il ricorso al Chronicon di Romualdo rivela come questa interpretazione si fosse affermata in profondità. L’arcivescovo di Salerno – che scriveva oltre quarant’anni dopo quell’episodio – ha dedicato alla battaglia di Scafati una nota secca, ma bene informata, dove non si fa alcun cenno all’intervento di Dio che voleva punire la superbia del re96. Tuttavia l’argomentazione propagandistica elaborata tanto tempo prima si rivelava ancora utile al cronista che la ripropose quando, al momento di redigere il bilancio conclusivo del regno di Ruggero, dovette registrare i molti lutti che colpirono il sovrano negli anni conclusivi della sua vita. I passi presenti nelle due opere sono costruiti secondo il medesimo formulario: si fa puntuale cenno alle avversità; si specifica, con l’aiuto di una citazione dal Nuovo Testamento, che si mai il giudizio di Dio abbia voluto la sconfitta di Ruggero «qui ante in omnibus victor extiterat», poi si osserva che il sovrano si era inorgoglito per le molte vittorie e, infine, si invita il re all’umiltà. 94 Che non si tratti di un topos letterario si dimostra ricorrendo all’ampia trattazione offerta da C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000, pp. 3-35, dove si afferma che nel XII secolo la superbia era considerata un peccato tipico dei chierici e solo in seguito anche dei re. Interessante però il fatto che nel XIV secolo l’immagine del re superbo fosse collegata a Nabucodonosor, proprio come nell’Ystoria del Telesino (cfr. ibid., p. 239). 95 Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum cit., pp. 136-138 (= 1132.10.21): «Sed divina providentia gubernante, in cuius dispositione non fallitur, iustitiae partem, sicut nostre fragilitati apparuit, ex alto prospexit». 96 Chronicon, p. 220, 17-20.
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tratta di un correttivo volto ad impedire che il sovrano incorresse nel peccato di superbia; e si conclude osservando come Ruggero fosse capace di dissimulare il dolore, vultu ilari nel 1132, con espressione serena – come conviene ad un uomo maturo – nel 115297. Non credo che tali analogie dipendano dal fatto che Romualdo e Alessandro siano stati dei chierici e quindi propensi a spiegare i rovesci di Ruggero con l’intervento della provvidenza, perché in nessun altro luogo del lungo Chronicon dell’arcivescovo di Salerno si fa uso di soluzioni analoghe. La spiegazione più plausibile è, pertanto, quella che induce a riconoscere nelle soluzioni adottate dai cronisti l’eco di voci messe in circolazione attraverso altri canali98. Quello appena analizzato non è l’unico caso di riproposizione di opinioni analoghe nell’Ystoria e nel Chronicon; inoltre l’impressione di vedere ricomparire nelle narrazioni storiografiche messaggi elaborati in altre sedi accanto alle opinioni dell’autore trova conferma dal confronto tra l’opera di Romualdo e la Historia composta dal suo contemporaneo Ugo Falcando: sia Alessandro, sia Romualdo ed il Falcando sostenevano, ad esempio, che Ruggero II fosse stato capace di riconoscere e valorizzare al meglio le qualità dei suoi sudditi più fedeli riservando loro importanti uffici99. Ma ancora più numerose ed evidenti appaiono le analogie tra il Chronicon di Romualdo e la Historia del Falcando per gli anni di Guglielmo I, al punto che Detlev Zimpel è giunto persino ad ipotizzare che il Guarna sia divenuto cronista in risposta alla storia di Falcando100. In effetti alcune somiglianze tra le due opere sono a prima vista sorprendenti: basti pensare che la Historia di Falcando si chiude nel 1169 con la morte di Stefano di Perche e con una nota sul terribile terremoto che in quell’anno distrusse Catania, proprio le stesse notizie che pongono fine alla sezione palermitana del Chronicon. Tuttavia a ben vedere il carattere periodiz97 98
Chronicon, pp. 230, 11-231, 9. Un’eco delle quali mi sembra si possa cogliere anche in una lettera inviata da Bernardo di Chiaravalle ad Innocenzo II nel 1141: cfr. Bernardi Claravallensis Epistula 348, in Sancti Bernardi Opera, cur. J. Leclercq - H. Rochais, VIII, Roma 1977, p. 292, dove si legge: «Tyrannus Sicilie extulerat in altum cornu suum, sed iam humiliatur sub potenti manu Dei». 99 Cfr. Alexandri Telesini abbatis Ystoria cit., p. 82, 1-4 (= lib. IV, cap. 2); e Chronicon, p. 234, 1-3. Tale opinione compare anche nella Historia del Falcando, nell’elogio di Ruggero II che apre l’opera: cfr. La Historia o Liber de regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie thesaurarium di Ugo Falcando, ed. G. B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la storia d’Italia, 22), p. 6, 1-5. 100 Zimpel, Die Weltchronik Bischof Romualds von Salerno cit., pp. 188-193, in particolare pp. 191-192, per un elenco di passi analoghi nelle due opere. L’ipotesi, assai azzardata, non ha trovato altri sostenitori: cfr. l’equilibrato giudizio di E. D’Angelo, Storiografi e cronografi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003 (Nuovo Medioevo, 69), p. 40.
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zante di questo dato ha natura differente nelle due opere: per Falcando segna la fine di un periodo e coincide con la consacrazione del nuovo arcivescovo di Palermo, Gualtiero, e con un nuovo assetto alla corte regia destinato a durare sino alla morte di Guglielmo II101; del riassetto della familia regis Romualdo risentì in prima persona poiché la consacrazione di Gualtiero significò la fine delle sue speranze di salire sulla cattedra palermitana e l’uscita dal circolo dei familiari che attorniava il sovrano, cui seguirono il ritorno a Salerno e un ruolo più modesto sulla scena pubblica sino a quando, nel 1177, l’ambasceria a Venezia offrì al Guarna l’opportunità di riguadagnare il favore del sovrano mettendo a frutto la sua esperienza di politico102. Pur dando il giusto peso alle diverse prospettive in cui gli autori si posero, si deve comunque riconoscere che le poche opere composte nel Mezzogiorno e nella Sicilia dopo il periodo della conquista normanna e giunte sino a noi sono caratterizzate da scelte compositive analoghe, che a mio avviso dipendono dall’incapacità degli autori di organizzare in un discorso lineare le informazioni in loro possesso. Come Alessandro di Telese, anche Romualdo – quando registrava i fatti accaduti nei decenni a lui più prossimi – e Falcando hanno costruito una storia per episodi. Nel caso del Chronicon del Guarna questo esito è particolarmente evidente nelle pagine relative al periodo posteriore alla morte di Ruggero II: Romualdo, che dopo il 1156 ebbe una parte sempre più rilevante nelle vicende politiche del Regno, trascorse lunghi soggiorni a Palermo e svolse importanti ambascerie, non ha ripercorso in maniera ordinata gli ultimi vent’anni di storia, ma si è limitato ad esporre (magari con molti dettagli) soltanto alcuni avvenimenti103. Non diversamente dal Falcando, dei fatti 101 Cfr. E. D’Angelo, Intellettuali tra Normandia e Sicilia (per un identikit letterario del cosiddetto Ugo Falcando), in Cultura cittadina e documentazione. Formazione e circolazione di modelli, cur. A. L. Trombetti Budriesi, Bologna 2009 (dpm quaderni. Convegni, 3), pp. 325349: 329-330. Lo studioso, secondo cui la Historia sarebbe opera di Guglielmo di Blois, ritiene che il racconto si interrompe al 1169 perché in quell’anno il presunto autore ha lasciato la Sicilia, tuttavia con grande onestà rileva anche un dato che indebolisce la sua tesi, ammettendo che quello stesso anno ha valore periodizzante nella vicenda della corte palermitana. 102 Cfr. N. Kamp, I vescovi siciliani nel periodo normanno: origine sociale e formazione spirituale, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, cur. G. Zito, Torino 1995, pp. 63-89, dove – a p. 73 – si afferma che Romualdo mirava alla cattedra arcivescovile palermitana. 103 Per un rapido, ma efficace, quadro della situazione alla corte di Palermo durante gli anni di Guglielmo I e della minorità di Guglielmo II cfr. J.-M. Martin, La vita quotidiana nell’Italia meridionale al tempo dei normanni, Milano 1997, pp. 329-346. Alla ricostruzione di quell’ambiente sono dedicati numerosi contributi di Glauco Cantarella, che ha privilegiato l’analisi della Historia del Falcando: cfr., per un momento di sintesi, G.M. Cantarella, Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Torino 1997, con citati nelle note i pre-
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accaduti nei dodici anni di regno di Guglielmo I (1154-1166) l’arcivescovo ha ricordato le guerre con i baroni che caratterizzarono le prime fasi del periodo, poi si è soffermato sulla congiura che portò all’assassinio di Maione di Bari e alla ribellione contro il sovrano del 1160-1162, infine ha dedicato qualche nota alla morte del re104. A quell’altezza cronologica l’attenzione del cronista era ormai attratta piuttosto dallo scontro tra papato ed impero e dalla politica italiana del Barbarossa, evidentemente perché, quando scriveva queste pagine, Romualdo pensava ai fatti che si sarebbero svolti a Venezia nel 1177. La doppia polarità per cui la cronaca si trova ad avere un centro nella corte palermitana ed uno fuori dal Regno, imperniato sulle vicende di Federico Barbarossa ed Alessandro III, appare ancora più evidente per gli anni della minorità di Guglielmo II, sino a quando – nel 1169 – Romualdo lasciò Palermo per rientrare a Salerno: da quel momento ai fatti della corte e del Regno si dedicano sporadiche note, mentre il racconto si concentra sullo scontro tra papa ed imperatore prima di relazionare minuziosamente sulla pace di Venezia. In conclusione, proprio per il periodo su cui aveva maggiori informazioni, Romualdo è stato assai selettivo ed ha lasciato in ombra numerosi avvenimenti. Si tratta ora di vedere se questi silenzi – su cui alcuni studiosi hanno richiamato a più riprese l’attenzione – dipendono da una deliberata scelta dell’autore o se invece sono dovuti alla veloce stesura dell’opera ed alla mancanza di fonti scritte che lo hanno indotto a polarizzare l’attenzione solo su qualche vicenda di straordinario rilievo che aveva destato maggiori echi nella corte105. In un libro dedicato a ricostruire la biografia di Guglielmo I, Berardo Pio ha proposto una lettura parallela del Chronicon di Romualdo e della Historia di Falcando106. La puntuale analisi di questo studioso ha messo in luce alcuni silenzi di Romualdo, le cui cause andrebbero trovate in ragioni di opportunità politica: l’arcivescovo di Salerno, che prima di essere storico e testimone fu protagonista della vita politica del Regno, secondo il Pio avrebbe preferito tacere alcuni episodi o almeno parte di essi. Così, al momento di raccontare come si era giunti alla decisione di assassinare cedenti saggi dello studioso, ed il più recente Cantarella, Il pallottoliere della regalità: il perfetto re della Sicilia normanna, in Dentro e fuori la Sicilia. Studi di storia per Vincenzo d’Alessandro, cur. P. Corrao, Roma 2009, pp. 29-44. 104 Morto di dissenteria perché non aveva seguito la terapia che gli aveva proposto Romualdo «qui in arte erat medicine valde peritus» (Chronicon, p. 253, 14). 105 D’Angelo, Storiografi e cronografi latini cit., p. 39, non ha dubbi: «sono soprattutto i silenzi [di Romualdo] ad essere spia di atteggiamenti faziosi». 106 Pio, Guglielmo I d’Altavilla cit., volume che copre il medesimo arco cronologico dell’Historia del Falcando, quindi ricostruisce le vicende della monarchia normanna dalla morte di Ruggero II nel 1154 al termine della minorità di Guglielmo II nel 1169.
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Maione, il Guarna avrebbe deliberatamente taciuto sia il ruolo svolto da Roberto Bassunvilla, conte di Conversano e di Loritello e cugino del re – forse perché al tempo in cui Romualdo scriveva quel personaggio era rientrato nella grazia del sovrano107– sia quello ricoperto dall’arcivescovo di Palermo Ugo, probabilmente per rispetto verso un esponente prestigioso della gerarchia ecclesiastica108. Nel racconto di questo episodio la pagina di Falcando si differenzia da quella di Romualdo in quanto nella Historia all’arcivescovo Ugo non sono risparmiate critiche e si insiste sul suo ruolo nella congiura di Matteo Bonello109. In compenso, però, entrambi gli autori riservano grande attenzione in diversi luoghi delle loro opere a Roberto di Bassunvilla, anche se questo personaggio rimase per molti anni lontano dalla corte di Palermo, centro di ambedue le narrazioni, e furono concordi nel raccogliere le voci (false secondo il Pio110) che attribuivano all’ostilità nutrita da Maione per il conte la prima causa della sua ribellione a Guglielmo I, ed anche nel sottolineare l’importanza riconosciuta al ritorno del conte nelle grazie del sovrano ai tempi di Guglielmo II111. Che Romualdo non fosse alieno dal ricorrere ad opportuni silenzi crede anche Errico Cuozzo, il quale, mettendo a confronto il racconto dell’arcivescovo con quello di Falcando e con quanto risulta dal Catalogus baronum, ha mostrato come i due cronisti abbiano entrambi deliberatamente taciuto il ruolo della feudalità salernitana di origine longobarda (l’ambiente da cui l’arcivescovo proveniva) durante la rivolta seguita all’assassinio di Maione112. In pagine precedenti del suo Chronicon Romualdo 107 108
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Ibid., p. 35. Ibid., p. 74. È da osservare come Romualdo menzioni Ugo solo in occasione del concordato di Benevento del 1156 (Chronicon, p. 241, 2-5) e mai, invece, nella ricostruzione delle vicende palermitane degli anni Sessanta. 109 La Historia o Liber de regno Sicilie cit., p. 9, 13-28; e p. 19, 9-14. 110 Pio, Guglielmo I d’Altavilla cit., p. 33-34. 111 Sulle trame di Maione contro Roberto vedi Chronicon, p. 238, 9-10, e più ampiamente La Historia o Liber de regno Sicilie cit., p. 10, 12-17; e soprattutto p. 13, 2-10. Sull’importanza riconosciuta al ritorno del conte nel Regno ai tempi di Guglielmo II – avvenuto solo nel 1169 e non come per molti altri esuli già nel 1166 – cfr. Chronicon, p. 258, 713, e La Historia o Liber de regno Sicilie cit., p. 142, 20-25. A proposito della ricostruzione delle ragioni del tradimento di Roberto che si legge nelle cronache coeve ha scritto P. Lamma, Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel secolo XII, I, Roma 1955 (Studi storici, 14-18), p. 164: «È molto raro che ci sia una simile consonanza di testimonianze e questo sta a dimostrare quanto fosse vivo l’interesse per questi avvenimenti nei contemporanei e come nella difficoltà di interpretarli fosse comune in tutti il desiderio di trovare un motivo determinante per i loro sviluppi nella vicenda e negli interessi di una personalità eminente come il conte di Loritello». 112 Cfr. E. Cuozzo, Salerno e la ribellione contro re Guglielmo d’Altavilla nel 1160/62. La versione delle fonti narrative e la testimonianza di quelle documentarie, in Civiltà del
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aveva apertamente difeso l’operato dei cives salernitani che ai tempi di Ruggero II, nel 1137, avevano dovuto arrendersi ai nemici del re. Nell’ampio racconto di quell’episodio l’arcivescovo ha avuto cura di ribadire la tradizionale fidelitas dei suoi concittadini al sovrano e ha giustificato le ragioni della momentanea defezione affermando che fu solo per seguire il prudente ordine di Riccardo di Shelby – il cancelliere di Ruggero – che i salernitani (di cui Romualdo non ricorda alcun nome) decisero di aprire le porte all’esercito dell’imperatore Lotario II, alleato di Roberto di Capua e Rainolfo d’Alife113. Continuando il confronto tra l’opera di Romualdo e quella di Falcando, si viene colpiti anche dall’assenza di riferimenti alla presenza nel Regno di Pietro di Blois, che tra il 1167 ed il 1168, mentre Stefano di Perche era cancelliere, ricopriva un ruolo di primo piano alla corte palermitana114. Sempre a proposito dei silenzi dell’arcivescovo, il Pio ha individuato tracce di una sorta di damnatio memoriae nell’opera115: vittima dello storico sarebbe stato il gaito Pietro, un eunuco in cui Guglielmo I aveva posto così grande fiducia da inserirlo tra i familiari che dovevano affiancare la regina Margherita durante la minorità di Guglielmo II. Romualdo, che in quel periodo era a Palermo e partecipava alla vita della corte, conosceva bene il prestigioso ruolo del musulmano convertito, ma lo passò sotto silenzio in ben due occasioni: prima quando ricordò i nomi dei membri del consiglio di reggenza; poi quando dedicò una breve nota alla fuga di Pietro, costretto da trame di palazzo ad abbandonare la corte e il Regno116. Nelle pagine precedenti Pietro era già stato menzionato e sempre posto sotto una luce negativa: Romualdo, infatti, lo ha ricordato sconfitto in una battaglia navale mentre comandava la flotta inviata in soccorso
Mezzogiorno d’Italia. Libro scrittura documento in età normanno-sveva. Atti del Convegno dell’Associazione italiana dei paleografi e diplomatisti (Napoli - Badia di Cava dei Tirreni, 14-18 ottobre 1991), cur. F. D’Oria, Salerno 1994, pp. 29-40. 113 Chronicon, pp. 222, 17-223, 19. Cfr. D. Matthew, “Semper fideles”. The Citizens of Salerno in the Norman Kingdom, in Salerno nel XII secolo cit., pp. 27-45: 32-34. 114 D’Angelo, Intellettuali tra Normandia e Sicilia cit., p. 342, definisce inspiegabile questo silenzio nell’opera del Falcando; ma Th. Kölzer, Cancelleria e cultura nel Regno di Sicilia, in Cancelleria e cultura nel medioevo, cur. G. Gualdo, Città del Vaticano 1990, pp. 97-118, afferma (a p. 109) che «Pietro di Blois sia mai stato effettivamente sigillarius rimane incerto». 115 Pio, Guglielmo I d’Altavilla cit., p. 86 e p. 94. 116 Cfr. Chronicon, p. 254, 20-22. Romualdo non ha fatto cenno alla congiura contro Pietro – che conosciamo grazie al Falcando – ed in più, quasi a sottolineare il tono malevolo nei confronti del gaito, ha registrato la sua fuga subito dopo avere raccontato di come, dopo la morte di Guglielmo I, la regina Margherita avesse saputo riconquistare l’amore dei sudditi alla corona.
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dei normanni assediati ad al-Mahdiyya nel 1159117. Il Guarna, insomma, sembra abbia voluto prendere le distanze da questo personaggio con il quale – se prestiamo fede al racconto del Falcando – egli, gli altri vescovi presenti alla corte di Palermo ed il vicecancelliere Matteo di Salerno avevano tramato per cacciare dal Regno Riccardo Palmer, vescovo eletto di Siracusa ed influente membro del consiglio di reggenza118. Ma piuttosto che porre l’accento sui silenzi che accomunano il Chronicon e la Historia credo convenga prestare attenzione alla presenza in entrambe le opere di voci analoghe che rivelano notevoli assonanze nella ricostruzione del periodo di regno di Guglielmo I. Infatti anche il giudizio complessivo che l’arcivescovo ha emesso sugli anni in cui quel sovrano aveva regnato non è privo di ombre: Guglielmo – che solo nelle cronache di fine Trecento sarebbe diventato “il Malo”119 – fu, secondo Romualdo, un grande benefattore della chiesa, ma «regno suo odibilis et plus formidini quam amori». Il peso di elementi negativi nella valutazione del regno di Guglielmo I proposta dal Chronicon aumenta quando si porta l’attenzione alle parole con cui sono narrate le prime azioni del nuovo re e di sua madre la quale, seguendo un salutare consilium, aveva fatto riavvicinare il popolo, le chiese ed i baroni alla monarchia concedendo a tutti larghi benefici120. Alle vicende del tempo in cui Stefano di Perche aveva avuto un ruolo di primo piano nella vita del Regno, Romualdo ha dedicato una rapida pagina in cui non manca una valutazione negativa del cancelliere. Questi fatti, che nell’opera del Falcando hanno il massimo risalto, nella cronaca dell’arcivescovo costituiscono solo una parentesi. La struttura del racconto è rivelatrice: prima il Guarna ha osservato come il nuovo re cominciava ad essere amato da tutti i suoi sudditi; quindi ha registrato brevemente, quasi fossero stati solo un intermezzo sconveniente, i tumulti accaduti al tempo di Stefano; ed infine ha sottolineato come, partito costui, il sovrano avesse corretto le sue ingiustizie ed il Regno «in pacem et tranquillitatem remansit»121. L’osservazione di corrispondenze e dissonanze tra l’opera del Falcando e la cronaca di Romualdo permette di scorgere una sorta di interpretazione condivisa dei fatti e dei personaggi legati al tempo di Guglielmo I, quasi 117 Chronicon, p. 242, 5-12. L’episodio è ricordato anche in La Historia o Liber de regno Sicilie cit., pp. 25, 11-26, 6, dove Pietro è esplicitamente accusato di tradimento. 118 La Historia o Liber de regno Sicilie cit., pp. 90-102. 119 Sulla formazione del mito del buon re Guglielmo II e di Guglielmo I “il Malo” cfr. M. Zabbia, Dalla propaganda alla periodizzazione. L’invenzione del “buon tempo antico”, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 107 (2005), pp. 247-282: 264-273. 120 Chronicon, p. 254, 6-20. 121 Romualdo ha riassunto il biennio che Stefano di Perche ha trascorso in Sicilia in pochi passi: cfr. Chronicon, pp. 256, 12-258, 13.
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che i due scrittori – i quali pure hanno proposto spesso interpretazioni distanti e talvolta anche radicalmente diverse – abbiano avuto in comune un bagaglio di valutazioni e di memorie condivise sul tempo di Guglielmo I che aveva preso forma alla corte palermitana già durante la minorità di Guglielmo II122. Se come alcuni studiosi ritengono, Falcando fosse giunto in Sicilia solo dopo il 1166 al seguito di Stefano di Perche, sarebbe stato veramente molto abile ed attento a raccogliere ed a trasporre con tanta efficacia nella sua opera le voci che circolavano nell’ambiente palermitano123. Se invece – come ritengo più probabile124 – l’autore della Historia si era formato a Palermo durante gli anni di Ruggero II, egli ripropose nelle sue pagine non solo parole dettate dall’interpretazione dei fatti che voleva proporre, ma anche opinioni diffuse largamente e condivise pure dal più moderato Romualdo125.
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122 Diversa e ben più favorevole a Guglielmo I sembra la valutazione diffusa lontano dalla corte palermitana almeno a quanto scrive Alexandri monachi Chronicorum liber monasterii Sancti Bartholomei de Carpineto cit., che verso il 1195 era solito associare solo al nome di quel sovrano aggettivi quali magnificus (p. 79), famosissimus (pp. 80 e 88), invictissimus (p. 84) ed eccellentissimus (p. 87), mentre non accompagnava quello di Guglielmo II con alcun qualificativo (neppure il formosus che negli stessi anni gli riservava Pietro da Eboli nel suo Liber ad honorem Augusti). 123 D’Angelo, Intellettuali tra Normandia e Sicilia cit., pp. 325-327, fa il punto sulle varie proposte di identificazione. Nel medesimo saggio, dopo un’accuratissima analisi testuale, lo studioso propone di identificare Falcando con Guglielmo di Blois, fratello di Pietro. Mentre il saggio di D’Angelo era in stampa, è apparso l’articolo di A. Franke, Zur Identität des “Hugo Falcandus”, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 64/1 (2008), pp. 1-13, che muovendo da presupposti metodologici analoghi giunge alla conclusione che Falcando andrebbe identificato con Pietro di Blois. 124 Tra le varie proposte la più convincente mi sembra quella avanzata da G.M. Cantarella, Falcando, Ugo, in Dizionario biografico degli italiani, 44, Roma 1994, pp. 240247: 245, che rinuncia a dare un nome al Falcando, ma lo ritrae come un chierico della capella regia, nato tra il 1120 ed il 1130, e forse vicino ad Enrico Aristippo attestato nel Regno per gli anni dal 1156 al 1160 (sul quale si veda il bel profilo di E. Franceschini, Aristippo, Enrico, in ibid., 4, Roma 1962, pp. 201-206, dove si dimostra che l’Aristippo non era di origine greca). 125 Gli studi, anche recenti, dedicati a Ruggero II ed alla cultura latina nella Sicilia del suo tempo, non mi pare abbiano dato il giusto rilievo al fatto che in quegli anni e soprattutto a Palermo si sia formata una generazione di chierici e laici destinata a ricoprire ruoli di primo piano nelle istituzioni del Regno per tutto il resto del XII secolo. Nella curia, già durante il regno di Ruggero, si erano formati il barese Maione (sul quale vedi B. Pio, Maione di Bari, in Dizionario biografico degli italiani, 67, Roma 2006, 632-635) ed il salernitano Matteo d’Aiello (cfr. F. Panarelli, Matteo d’Aiello, in ibid., 72, Roma 2009, pp. 212216); loro coetaneo era Gualtiero Offamil, arcivescovo di Palermo dal 1168 ed attestato nel 1156 come arcidiacono di Cefalù (vedi F. Delle Donne, Gualtiero, in ibid., 60, Roma 2003, pp. 224-227). Kölzer, Cancelleria e cultura cit., passim, ha rilevato come dopo il 1130 nella cancelleria di Ruggero II si sia affermato l’elemento latino (a danno di quello greco), grazie soprattutto alla presenza di notai provenienti dalla Puglia e dalla Campania.
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4. Conclusione. “Damnatio memoriae” o selezione storiografica?
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Nei profili di storia politica dell’Italia normanna gli anni di Guglielmo I sono caratterizzati da grande attenzione per le vicende interne del Regno, mentre per il tempo di Guglielmo II l’accento cade in primo luogo sulla politica estera promossa dal sovrano126. In buona misura questa scelta che accomuna studiosi contemporanei e medievisti dell’Ottocento, è dovuta alla natura delle fonti a nostra disposizione: non si è conservato, infatti, alcun testo paragonabile alla Historia del Falcando (ma neppure al Chronicon di Romualdo) che narri i fatti svoltisi alla corte di Palermo per gli anni che vanno dal 1168 al 1189. Guglielmo II non avvertì la necessità di commissionare opere storiografiche per propagandare messaggi politici, per offrire l’interpretazione ufficiale dei fatti che si stavano svolgendo oppure per colpire con la damnatio memoriae i suoi nemici. Allo stesso modo si era comportato anche Guglielmo I: e fu una scelta improvvida perché il caso ha voluto che la sua memoria fosse affidata all’opera del Falcando, un testo fortemente ostile a quel re127. Neppure Ruggero II, io credo, fece ricorso alla storiografia per legittimare il suo potere, poiché l’opera di Alessandro di Telese sembra più partigiana che ufficiale128. Durante i settant’anni della monarchia normanna, quindi, la storiografia fu coltivata, sempre in contesti diversi, dalla curia e dalla cancelleria: il modesto numero delle opere conservate e la tenue tradizione manoscritta che le veicola devono indurre alla prudenza; resta comunque innegabile che Alessandro di Telese scrisse molto lontano dalla corte e che Romualdo divenne cronista solo quando, dopo alcuni anni trascorsi a Palermo, rientrò nella sua diocesi. Solo la Historia di Falcando uscì dall’ambiente di curia, ma si tratta di un testo cui era stata affidata l’interpretazione dei fatti proposta dai nemici di Guglielmo I. Diversa appare la situazione per il periodo precedente quando, al tempo di Ruggero Borsa e di Ruggero I, la produzione storiografica svolse 126
Si veda, ad esempio, l’ottima sintesi di S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Torino 1986, edita anche nel terzo volume della Storia d’Italia diretta da G. Galasso, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 435-810. 127 La tradizione manoscritta delle cronache normanne dell’Italia meridionale e della Sicilia è in generale assai esile e la Historia del Falcando fa in parte eccezione perché tramandata da quattro codici medievali, tutti però di molto posteriori alla stesura dell’opera: cfr. S. Tramontana, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva di Sicilia, Palermo 1988, pp. 80-114. 128 Non sembra abbia avuto ricadute in ambito storiografico una norma contenuta nelle Assise di Ariano che prevedeva nel caso del delitto di lesa maestà la condanna della memoria del colpevole (Zecchino, Le Assise di Ruggero II. I testi cit., p. 46 «rei memoria condempnatur»).
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un ruolo ausiliario, ma importante, per consolidare il ruolo degli Altavilla nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia. L’affermazione al vertice della società di una nuova famiglia che si sostituiva a precedenti stirpi locali e le difficoltà di imporre la propria autorità agli altri capi normanni – giunti magari in Italia prima dei figli di Tancredi – spinsero, negli stessi anni, il duca di Puglia ed il conte di Sicilia a ricorrere anche alla ricostruzione della memoria per avallare la loro posizione egemone ripercorrendo le vicende che avevano portato i normanni in Italia e gli Altavilla al potere129. Tale ricostruzione ha messo in ombra gli esponenti di altre famiglie eminenti normanne emigrate nel Mezzogiorno condannandoli di fatto ad una damnatio memoriae, cui solo minuziosi studi recenti hanno in parte posto rimedio. La disomogenea tradizione di memorie storiografiche propria dell’Italia normanna si riflette nella cronaca di Romualdo Salernitano: per la prima stagione normanna l’arcivescovo disponeva di una versione dei fatti comunemente accolta, che si limitò a riproporre senza modificazioni di rilievo; per gli anni della monarchia, invece, egli non aveva a disposizione un filo rosso da seguire. Fece, allora, un notevole sforzo per organizzare le molte informazioni in suo possesso, stendendo un racconto ordinato, nel quale colpisce in primo luogo l’intenzione di porre in risalto la continuità al vertice tra i duchi di Puglia ed i sovrani di Palermo a tutto svantaggio di ogni apertura alla storia locale di Salerno e della sua chiesa. Una volta decisa la sua strategia espositiva, Romualdo procedette con coerenza redigendo prima le pagine dedicate a Ruggero II, per le quali poteva fondarsi su una tradizione di memorie locali, solo in un secondo momento rimpinguata da note di cronache di provenienza diversa. Poi stese la sezione di Guglielmo I, con maggiore facilità perché poteva narrare quei fatti sensazionali – le ribellioni dei feudatari, l’assassinio di Maione, la cattura di Guglielmo I – riproponendo una versione ormai acquisita al tempo in cui scriveva e che, probabilmente, era stata elaborata per favorire la riconciliazione dei baroni con la monarchia durante la minorità di Guglielmo II. Invece, proprio alle vicende accadute, mentre era intento a redigere la propria opera e negli anni immediatamente precedenti, il cronista ha riservato poco spazio130. Comprendere le ragioni dei silenzi che caratterizzano
129 La prima stagione della cronachistica normanna mostra, quindi, alcune analogie con il quadro d’insieme tracciato in P. J. Geary, La mémoire et l’oubli à la fin du premier millénaire, Paris 1996, e viene da chiedersi quanto sia stata per essa rilevante l’influenza di modelli elaborati nella Francia settentrionale durante l’XI secolo. 130 Per le vicende siciliane seguite alla morte di Guglielmo I cfr. Chronicon, pp. 254, 6258, 20: se non si considera l’ampio apparato, sono in tutto 104 righe di testo.
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l’ultima parte dell’opera è difficile: certo molto ha pesato la grande attenzione riservata nel Chronicon agli scontri tra papato ed impero e alle giornate veneziane del 1177; tuttavia se per giustificare l’assenza di informazioni sulla corte palermitana dopo il 1168 possiamo chiamare in causa il ritorno di Romualdo a Salerno (ma è un argomento debole: l’arcivescovo era certo informato di quanto stava avvenendo a corte), bisogna spiegare diversamente la scarsa attenzione riservata al biennio seguente la morte di Guglielmo I, che l’arcivescovo trascorse a Palermo, ricoprendo un ruolo di primo piano nelle vicende della corte. Il Guarna, che nella relazione della missione veneziana ebbe cura di illustrare l’efficacia con cui aveva svolto l’importante ruolo che gli era stato affidato dal re, preferì non insistere sul suo operato durante i convulsi anni della minorità di Guglielmo II: che non fosse entusiasta di raccontare i dettagli degli intrighi di corte in cui era stato coinvolto è facile da capire; non ci resta, quindi, che constatare come egli non abbia voluto proporre la propria versione dettagliata dei fatti, ma si sia limitato a riportare qualche episodio, che probabilmente aveva avuto larga eco – ad esempio l’uccisione di Oddone Quarrel131 –, e ad esprimere un generico giudizio negativo sull’operato di Stefano di Perche, partito il quale nella ricostruzione proposta da Romualdo termina lo scontro che da molti anni andava opponendo la monarchia alla nobiltà e alle città. Il racconto delle vicende normanne, che nel Chronicon è coinciso in larga misura con la narrazione delle guerre di conquista e degli scontri che opposero prima i duchi e poi i re ai loro baroni ed alle città, si interrompe alle soglie del pacifico regno di Guglielmo II, l’unico sovrano normanno di cui l’arcivescovo non abbia delineato il ritratto. Le molte informazioni sulla storia dei normanni nel Mezzogiorno d’Italia ed in Sicilia che il Chronicon di Romualdo ha conservato derivano, quindi, solo in parte da scelte dirette del compilatore: certo egli intervenne pesantemente sulla decisione degli argomenti da trattare e di quelli da escludere dal suo racconto. Tuttavia non tutti i silenzi del Chronicon dipendono dalla selezione storiografica operata dal Guarna; spetta, invece, a noi lettori individuare quali affermazioni dell’arcivescovo riflettono il suo pensiero e quali altre, invece, pur presenti nella sua opera, sono di fatto scivolate nel testo, mentre velocemente lo si componeva senza che l’autore potesse o ritenesse opportuno rielaborarle. L’opera di Romualdo Salernitano, se esaminata secondo questi parametri, si rivela come una straordinaria testimonianza delle vicende che si svolsero nel Mezzogiorno 131
Chronicon, p. 257, 10-11.
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durante i secoli XI e XII, poiché in un solo testo convivono voci diverse che avevano preso forma a distanza anche di decenni le une dalle altre132. Il Chronicon appare così pure come un collettore di messaggi politici elaborati in momenti distanti e di cui possiamo trovare solo poche altre tracce133. Lo si potrà allora utilizzare compiutamente come preziosa fonte per la storia politica non limitandosi ad estrarvi puntuali notizie, quasi fosse un serbatoio di dati, e neppure destinando l’indagine a ricostruire solo il quadro delle vicende che l’autore aveva elaborato, ma andando ancora più in profondità per cercare con pazienza anche le tracce di fatti ed opinioni che la narrazione ha accolto da un coro di fonti scritte ed anche orali senza che lo scrittore sia intervenuto per modificarle134.
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132 Allo stesso tempo l’opera del Guarna conserva brani di messaggi politici elaborati fuori dal Regno normanno quando, nella sezione dedicata alla Pace di Venezia, riporta ampi interventi di esponenti del mondo comunale: cfr. M. Zabbia, Tra modelli letterari e autopsia. La città comunale nell’opera di Ottone di Frisinga e nella cultura storiografica del XII secolo, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 106/2 (2004), pp. 105138: 127-138. 133 Ad esempio, O. Zecchino, Le Assise di Ruggiero II. Problemi di storia delle fonti e di diritto penale, Napoli 1980 (Pubblicazioni della Facoltà giuridica dell’Università di Napoli, 185), pp. 95-100, ripreso in Zecchino, I “parlamenti” nel regno di Ruggero II, in Alle origini del costituzionalismo europeo cit., pp. 55-80: 64-65, riconosce delle affinità lessicali tra il Chronicon di Romualdo e il testo delle Assise di Ariano conservato nel codice Vaticano latino 8872, a proposito di Ruggero che con le sue leggi riporta la pace nel Regno. Considerando il modo di lavorare di Romualdo, non credo che queste affinità dipendano da una diretta conoscenza del testo delle Assise, quanto da una più generale ricezione dell’immagine che il sovrano aveva voluto dare di sé tramite la documentazione cancelleresca. 134 Cfr. le importanti osservazioni metodologiche che aprono il saggio di O. Capitani, Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica normanna dell’Italia meridionale: secoli XI-XII, «Atti della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna», Classe di scienze morali, Rendiconti, 65 (1976-77), pp. 59-91.
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Le ricerche sulla memoria medievale – sia la memoria liturgica, sia la memoria culturale nei suoi aspetti diversi – ormai hanno raggiunto un livello molto alto1. Detto ciò è da meravigliarsi che la forma negativa della memoria, cioè la cosiddetta “damnatio memoriae”, finora non abbia trovato una ripercussione analoga nella medievistica. Ma è ovvio che almeno il fenomeno, cioè la distruzione della memoria, lo sterminio deliberato di tutte le tracce oppure generalmente la deformazione della memoria di una persona esisteva anche durante tutto il medioevo cristiano, anche se non lo troviamo nelle fonti medievali sotto il nome di “damnatio memoriae” ed anche se le singole azioni che i medievisti qualificano, in contesti però molto diversi, come “damnatio memoriae” non sono del tutto paragonabili oppure coerenti con le stesse misure giuridiche riportate per la “damnatio memoriae” antica.
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1 Cfr. le varie pubblicazioni sul argomento dal Sonderforschungsbereich “Memoria” all’università di Münster, Memoria. Der geschichtliche Zeugniswert des liturgischen Gedenkens im Mittelalter, cur. K. Schmid - J. Wollasch, München 1984 (Münstersche Mittelalter-Schriften,48). Inoltre le pubblicazioni del Max Planck Institut für Geschichte in Göttingen, per esempio Memoria als Kultur, cur. O.G. Oexle, Göttingen 1995 (Veröffentlichungen des Max Planck Instituts für Geschichte, 121); Memoria in der Gesellschaft des Mittelalters, cur. D. Geuenich - O.G. Oexle, Göttingen 1994 (Veröffentlichungen des Max Planck Instituts für Geschichte, 121). Inoltre M. J Carruthers, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990. Per il concetto della memoria culturale è fondamentale J. Assmann, Das Kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München 1992; A. Erll, Kollektives Gedächtnis und Erinnerungskulturen, Stuttgart 2005; La mémoire du temps au moyen âge, cur. A. Paravicini Bagliani, Firenze 2005 (Micrologus’ library, 12); Memoria. Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters / Ricordare e dimenticare nella cultura del medioevo, cur. M. Borgolte - C.D. Fonseca - H. Houben, Berlin 2005 (Jahrbuch des italienisch-deutschen historischen Instituts in Trient, 15); un approccio metodicamente nuovo presenta J. Fried, Der Schleier der Erinnerung. Grundzüge einer historischen Memorik, München 2004.
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La “damnatio memoriae” antica è studiata a fondo ed ormai abbiamo conoscenza precisa dei dettagli dei suoi diversi aspetti come strumento del diritto romano e pena post-mortem2. Sulla “damnatio memoriae” per il Medioevo invece mancano ancora ricerche sistematiche ed è solo da pochi anni che l’argomento ha trovato più attenzione3. Dato questo, si capisce anche perché la medievistica non ha ancora formulato risposte ad alcune questioni fondamentali sull’argomento, per esempio fino a quale punto il concetto della “damnatio memoriae” antica sia anche terminologicamente del tutto adattabile e trasferibile al mondo medievale. Il presente articolo tenta di avvicinarsi a quel fenomeno, concentrandosi specialmente su alcuni esempi di damnationes memoriae dei cosiddetti antipapi: quindi nel contesto del papato come istituzione medievale che con la sua ricca tradizione scritta forse apre un campo adatto a differenziare meglio le diverse forme di quel fenomeno, che presenta molte più sfumature di quante la terminologia “damnatio memoriae”, cioè la distruzione della memoria, suggerisca. In seguito vorrei poi discutere le difficoltà metodologiche che risultano per la medievistica dalla “damnatio memoriae” come strumento del superamento del passato
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2 Ancora fondamentale è F. Vittinghoff, Der Staatsfeind in der römischen Kaiserzeit, Untersuchungen zur Damnatio Memoriae, Berlin 1936. Più recenti gli studi sull’argomento di H.I. Flower, The art of forgetting: disgrace & oblivion in Roman political culture, Studies in the history of Greece and Rome, Chapel Hill 2006; E. R. Varner, Mutilation and transformation. Damnatio Memoriae and Roman imperial portraiture, Leiden 2004 (Monumenta Graeca et Romana,10). 3 Per le varie forme della cosiddetta “damnatio memoriae” nel Medioevo cfr. L. Ripart, Besançon, 1016: Genèse de la ‘damnatio memoriæ’ du roi Rodolphe III de Bourgogne, in La mémoire du temps au moyen âge, cit., pp. 17-36; M. Falla Castelfranchi, La chiesa di Sant’Ambrogio di Montecorvino Rovella: la seconda stagione pittorica; una “damnatio memoriae” alla fine del X secolo, in Ottant’anni di un Maestro: omaggio a Ferdinando Bologna, cur. F. Abbate, 2 voll., Napoli 2006, pp. 27-35; B. Saint-Sorny, La fin du roi Alaric II: le roi arien, objet d’une damnatio memoriae sous les Merovingiens? in Auctoritas: Mélanges offerts à Olivier Guillot, cur. G. Constable - M. Rouche, Paris 2006, pp. 193-204; A. Urbano, Donation, dedication, and “damnatio memoriae”: the Catholic reconciliation of Ravenna and the church of Sant’ Apollinare Nuovo, «Journal of early Christian studies», 13 (2005), pp. 71-110; Í. Fiskovic, “Damnatio memoriae” in the medieval sculpture of sourthern Croatia, in Memory and oblivion, cur. A. Wessel Reinink - J. Stumpel, Proceedings of the XXIXth International Congresso of the History held in Amsterdam, 1-7 September 1996, Amsterdam 1999, pp. 753-757; E. Simi Varanelli, L’immagine e la storia: la damnatio memoriae della figura di Federico II nei cicli pittorici di Anagni, SS. Quattro Coronati, Grottaferrata, Parma, «Arte medievale», ser. 2, 10/2 (1996), pp. 83-97; S. Foschi, S. Vitale in Ravenna: censura e “damnatio memoriae”, «Ravenna studi e ricerche», 2 (1995), pp. 5784. Per una forma specifica di una memoria intenzionalmente peggiorativa nel tardomedioevo cfr. G. Ortalli, “... pingatur in Palatio ...”: La pittura infamante nei secoli 13-16, Roma 1979 (Storia. Jouvence, 1).
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(“Vergangenheitsbewältigung”), indagando con quali strumenti metodologici noi potremmo forse superare queste difficoltà per ricostruire la percezione e le varie opzioni dei contemporanei nel prendere posizione a fronte ad uno scisma quale situazione di crisi del papato, illustrando questa mia ricerca alla fine con alcuni esempi, tra cui uno di Ascoli Piceno. La medievista tedesca Renate Neumüller Klauser per esempio ha decisamente respinto quest’ipotesi, fuorviante come dice lei, in un suo articolo sull’ erasio et deletio nominis nelle iscrizioni4. Secondo lei non esistono paralleli medievali all’uso antico della “damnatio memoriae”, che, oltre a ciò, non è neppure un termine antico, ma una creazione artificiale dagli antichisti5. Ma questo forse non si può affermare così radicalmente. Anzi: guardando al linguaggio della cancelleria della curia medievale dalla seconda metà del XII secolo in poi si vede facilmente che esisteva, almeno terminologicamente, un certo concetto di memoria damnata, che veniva applicata in particolare agli scismatici, ai cosiddetti antipapi ed ad altri avversari della Chiesa. Nel giugno 1168 per esempio papa Alessandro III ricorda il suo, nel frattempo deceduto, rivale Vittore IV come «Octavianus heresiarcha damnatae memoriae» e quindi applica già prima della fine dello scisma alessandrino all’ex-cardinale Ottaviano di Monticelli (alias Vittore IV) la “damnatio memoriae”, che con la pace di Venezia venne pronunciata per tutti e tre gli avversari di Alessandro III, cioè Vittore IV, Pasquale III e Calisto III6. Un simile uso terminologico della memoria damnata veniva applicata anche agli avversari laici della chiesa siano eretici oppure addirittura re ed imperatori – per esempio da papa Innocenzo III a Marcovaldo di Annweiler7 oppure, ben duecento anni più tardi, da papa Gregorio XI,
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R. Neumüller-Klauser, Zum Phänomen der Erasio nominis im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, «Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins», 147 (1999), pp. 255-272. 5 Ibid., p. 259. 6 Cfr. P.F. Kehr, Italia Pontificia sive Repertorium privilegiorum et litterarum ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personis concessorum, Berlin 1911, pp. 380-381, n. 7; un’edizione del documento si trova in J.P. Migne, Patrologiae cursus completus. Series latina, 220, Paris 1855, col. 495: «…quod prius damnatae memoriae Octaviano heresiarchae ... illud nefandissimum praestitit juramentum». 7 A. Potthast, Regesta pontificum Romanorum, I: 1198-1243, Berlin 1874, p. 154, n. 1767 del 20 novembre 1202: «Sane nosse te volumus, quod damnate memorie Marcvaldus, qui nos magis fraudibus quam viribus molestabat, ...», ed. J.L.A. HuillardBréholles in Historia Diplomatica Friderici secundi, I, 1, Paris 1852, pp. 97-99. Per la persona di Marcovaldo di Annweiler si veda A. Thon, Markward von Annweiler (um 1140–1202). Reichsministeriale, Reichstruchsess, Herzog, Markgraf und Graf, in Pfälzische Geschichte, I, cur. K-H. Rothenberger, Kaiserslautern 20022, pp. 204-206.
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che ancora nell’anno 1377 ricorda i conflitti fra il papato e l’imperatore Ottone IV all’inizio del Duecento come «tempore damnate memorie Octonis, ecclesie persecutoris et hostis»8. Fondamentale è l’osservazione che il concetto della memoria damnata veniva applicata di solito dai papi contro i loro ex-avversari già morti, quando le loro attività erano nel passato – sia di fatto, sia potenzialmente – oppure nel futuro sarebbero state in grado di mettere in pericolo ed in dubbio l’esclusiva autorità della Santa Romana Ecclesia e dei suoi papi legittimi. Così si spiega anche, perché nelle fonti papali incontriamo gli antipapi «damnatae memoriae» soprattutto nel contesto delle controversie legate a benefici oppure proprietà, in particolare quando, con la chiusura di uno scisma, tutti gli atti degli ormai cosi detti antipapi vengono dichiarati nulli, come per esempio è stato espressamente formulato nelle decisioni e nei canoni del II e del III Concilio Laterano9. Ma l’esecuzione di tali decreti certamente richiedeva a lungo pazienza e forza da parte dei giudici delegati dalla curia, soprattutto perché le forze locali non di rado si opponevano con veemenza all’annullamento con valore retroattivo dei trasferimenti proprietari e delle benedizioni che loro
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8 Citato da G. Mazzatinti, Gli Archivi della storia d’Italia, Rocca S. Casciano 18971915, rist. Hildesheim 1988, 9 voll., IV, p. 255 con riferimento ad una copia autenticata di un privilegio di papa Gregorio XI per la città di Rieti del 23 giugno 1377: Gregorio XI riafferma la propria protezione alla città in premio di sua fedeltà, dimostrata «precipue tempore damnate memorie Octonis ecclesie persecutoris et hostis, datum Anagnie Viiij (sic?) kal. Iulii, pontificatus anno septimo». 9 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. H. Jedin, Bologna 19733, pp. 195ss.: per il II concilio Lateranense, p. 203, can. 30: «Ad haec ordinationes factas a Petro Leonis et aliis schismaticis et haereticis evacuamus et irritas esse censemus …» e per il III concilio Lateranense, can. 2, pp. 211s.: «Quod a praedecessore nostro felicis memorie Innocentio factum est innovantes, ordinationes ab Octaviano et Guidone haeresiarchis necnon et Iohanne Strumensi, qui eos secutus est, factas, et ab ordinatis ab eis, irritas esse censemus, adicientes etiam ut, si qui dignitates ecclesiasticas seu beneficia per praedictos schismaticos receperunt, careant impetratis. Alienationes quoque seu invasiones, quae per eosdem schismaticos sive per laicos factae sunt de rebus ecclesiasticis, omni careant firmitate et ad ecclesiam sine omni eius onere revertantur. Si quis contraire praesumpserit, excommunicationi se noverit subiacere. Illos autem, qui sponte iuramentum de tenendo schismate praestiterint, a sacris ordinibus et dignitatibus decrevimus manere suspensos». Questi provvedimenti erano stati negoziati già nel 1177 fra l’imperatore e il papa Alessandro III a Venezia, cfr. Acta Pontificum Romanorum inedita. Urkunden der Päpste, 3 voll., (590-1197), cur. J.v. Pflugk-Harttung, Stuttgart 1886, rist. Graz 1958, III, p. 281, n. 304: «Quia igitur, dum essem Venetiis, venditiones, infeudationes nec non etiam alienationes alias de possessionibus ecclesiarum a scismaticis factis, ... et assensu carissimi ... illustris Romani imperatoris, apostolica auctoritate cassavimus».
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prima avevano ottenuto dalle mani degli antipapi, cui in cambio avevano promesso l’obbedienza10. Per fare un esempio: nell’anno 1256, quasi con cento anni di ritardo, papa Alessandro IV annulla per mandato una precedente disposizione colla quale l’antipapa Pasquale III – qui logicamente ricordato come «Guido Cremensis damnatae memoriae» – aveva privilegiato il convento di San Paolo fuori le mura, ma solo dopo che mandati simili dei papi Alessandro III, Lucio III e Celestino II erano rimasti apparentemente senza nessun effetto e ovviamente non avevano impressionato i loro prestigiosi destinatari romani11. Sulla base di questo caso si capisce meglio il motivo, anzi la necessità della Curia di ricordare gli antipapi generalmente con connotazione decisamente negativa, cioè come persone dalla “memoria damnata”, sottolineando così la loro illegittimità che generalmente spettava pure alle loro azioni, anche 100 anni dopo. Le forme e i metodi della “damnatio memoriae” per stigmatizzare gli antipapi di uno scisma sono diverse e moltiplici. In primo luogo, si riferiscono agli avversari candidati per la cathedra Petri, che solo in un momento più tardo della storia diventano permanentemente antipapi, quando uno dei partiti in conflitto finalmente riesce a far rispettare la sua posizione oppure obbedienza – sia a livello locale o ad un livello più alto come nella pace di Venezia. Dopo questa svolta viene negata loro quasi retroattivamente ogni legittimità e di conseguenza nessuno nel futuro avrà più il diritto di ricordarli come papi legittimi12.
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10 Per il caso dell’abbate scismatico Giovanni di Villarasca del monastero S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia cfr. K.-M. Sprenger, Die Klöster von Pavia zwischen Friedrich I. und Alexander III. Zu einem verlorenen Friedrich Barbarossas und den Auswirkungen des Schismas in Pavia, «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», 77 (1997), pp. 18-50: 24-38. 11 Cfr. M. Gabriel, L’abbaye des Trois-Fontaines située aux Eaux-Salviennes, près de Rome et dédiée aux saints martyrs Vincent & Anastase, Landerneau 18792, pp. 114-120: 118: «Quia vero, quae a scismaticis acta sunt, nullius debent esse momenti, compositionem, quam olim fervente schismate, quidam ex vestris sine communi consilio ad reducendum tempus cum schismaticis, qui erant ex Ecclesia S. Pauli, fecerunt, sicut praedicti Alexander, Lucius et Coelestinus praedecessores nostri irritasse noscuntur. Ita et nos irritam esse sancimus et quaecumque infrascripta ad damnatae memoriae Cremensem aut etiam ab Imperatore tempore schismatis, vel ab aliquo de parte illa contra monasterium, unum licet per manum publicam videatur inscriptis objecta, sicut contra libertatem monasterii vestri, ad exemplar eorundem praedecessorum nostrorum, sicut in scriptis authenticis continetur, decernimus nullo vestrique tempore valitura ... ». 12 Per la terminologia dell’”antipapa” cfr. M.E. Stoller, The emergence of the term ‘antipapa’ in medieval usage, «Archivum Historiae Pontificiae», 23 (1985), pp. 43-61.
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Per motivi di spazio vorrei richiamare l’attenzione solo su alcuni esempi di damnationes memoriae personali, più o meno conosciuti. Famoso è il sinodo del cadavere tenuto a Roma nell’anno 897, in cui per puro calcolo politico il papa Formoso, già defunto da nove mesi, fu accusato da papa Stefano VI di ambizione smodata per l’ufficio di pontefice. Tutti i suoi atti vennero annullati e i benefici da lui conferiti vennero dichiarati non validi. Con un atto di grande forza simbolica le vesti papali gli vennero strappate dal corpo morto, le tre dita della mano destra, usate dal papa per le consacrazioni, vennero tagliate e il cadavere dello pseudopapa fu poi trascinato per le vie di Roma e gettato nel Tevere13. Anche se Formoso poi è stato riabilitato nella cronologia dei papi14, il modo di trattare il suo cadavere si riferisce ad una forma specifica di “damnatio memoriae” cioè la “deletio memoriae”, l’efficace distruzione di ogni traccia degli ex-avversari e dei cosiddetti pseudopapi, che secondo la cronaca ufficiale della Chiesa non appartenevano al prestigioso gruppo dei legittimi successori di San Pietro. Quindi non esisteva nessun motivo per incorporarli nella cultura della memoria della Sancta Apostolica Ecclesia oppure di trasmettere ai posteri la memoria dei luoghi delle loro tombe15. Chi oggi entra in San Pietro a Roma dall’ingresso sul lato sinistro, può vedere il lungo elenco epigrafico dei papi là sepolti, ma cercherà invano i nomi degli antipapi che pure riposano nel centro della Cristianità, come per esempio Pasquale III, morto a Roma nell’anno 116816. Comunque sia, di solito gli antipapi morti non creavano mai gravi problemi. Tuttavia, conosciamo casi in cui le loro tombe vennero distrut-
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13 Cfr. in particolare H. Zimmermann, Papstabsetzungen des Mittelalters, Graz u.a. 1968, pp. 49-73; N. Gussone, Thron und Inthronisation des Papstes von den Anfängen bis zum 12. Jahrhundert. Zur Beziehung zwischen Herrschaftszeichen und bildhaften Begriffen, Recht und Liturgie im christlichen Verständnis von Wort und Wirklichkeit, Bonn 1978 (Bonner historische Forschungen, 41), pp. 200-213; S. Scholz, Transmigration und Translation. Studien zum Bistumswechsel der Bischöfe von der Spätantike bis zum Hohen Mittelalter, Köln 1992 (Kölner historische Abhandlungen, 37), pp. 220-242. 14 K. Herbers, Formosus, in Lexikon des Mittelalters, IV, Zürich 1989, coll. 655s. 15 Solo di pochi cosiddetti “antipapi” sappiamo il luogo esatto della tomba, cfr. M. Borgolte, Petrusnachfolge und Kaiserimitation. Die Grablegen der Päpste, ihre Genese und Traditionsbildung, Göttingen 1989 (Veröffentlichung des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 95), pp. 343ss.; per singoli “antipapi”: ibid., pp. 147 nota 143, 151 nota 5 e 175. 16 Da una notizia nella Appendix B di Rahewini Gesta Friderici, I. Imperatoris, edd. G. Waitz - B. Simson, Hannover 19123 (Monumenta Germania Historica, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 46) p. 350: «Gwido, qui et Paschalis, moritur et in basilica beati Petri Romae sepelitur». Per le varie tradizioni del testo cfr. R. Deutinger, Rahewin. Ein Gelehrter des 12. Jahrhunderts, Hannover 1999 (Monumenta Germaniae Historica. Schriften, 47), pp. 211ss.
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te deliberatamente, anche se la profanazione di una tomba nel medioevo cristiano veniva considerata come un sacrilegio che non si applicava neanche ai nemici ed ex-avversari politici. Un bell’esempio di questo atteggiamento è la visita dell’imperatore Enrico IV nel Duomo di Merseburg alla tomba del suo ex-avversario Rodolfo di Svevia (Rudolf von Rheinfelden) – duca di Svevia ed anti-re in opposizione a Enrico IV dal 1077 fino al 1080. Anche se l’epitaffio di Rodolfo lo ricordava come «rex», l’imperatore Enrico non vide nessun motivo per far correggere quell’intitulatio presuntuosa oppure distruggere l’intera iscrizione come prima glielo avevano proposto i suoi consiglieri ai quali – secondo una notizia di Ottone di Frisinga – l’imperatore Enrico in maniera molto saggia avrebbe risposto: «Magari se tutti i miei nemici fossero seppelliti così onorevolmente17». Solo nei casi in cui i precedenti sostenitori degli antipapi rendevano funzionale la loro tomba iniziando a stabilire là un culto locale per la venerazione del loro papa come santo, solo allora tali misure radicali hanno raggiunto un particolare grado di urgenza tanto da radere al suolo le loro tombe. Essere un antipapa morto e santo aveva quindi un esito molto pericoloso. Questo paradosso è ben illustrato dagli esempi di Wibert di Ravenna e di Ottaviano de’ Monticelli (alias papa Clemente III e papa Vittore IV): tutti e due – grazie ai miracoli avvenuti sulla loro tomba – hanno sviluppato una sorprendente potenza al di là della morte, diventando un pericolo per i loro avversari cosiddetti legittimi. Quando i seguaci di Wibert di Ravenna (papa Clemente III) cominciarono a diffondere la voce che alla tomba del defunto a Civitacastellana accadevano persino miracoli, Pasquale II, il vincitore dello scisma Wibertino, capì subito la minaccia che proveniva per il suo pontificato da questi miracoli. Immediatamente lasciò Roma per conquistare con uno sforzo militare la città di Civitacastellana al solo scopo di far esumare il suo ex-avversario morto, ma ancora pericoloso e gettarne il cadavere nel Tevere, sperando che assieme alle correnti del fiume si sciogliessero anche 17 Rahewini Gesta Friderici I. Imperatoris cit., p. 23: «Fertur de imperatore, quod, cum pacatis paulisper his seditionum motibus ad predictam aecclesiam Merseburch venisset ibique prefatum Rudolfum velut regem humatum vidisset, cuidam dicenti, cur eum, qui rex non fuerat, velut regali honore sepultum iacere permitteret, dixerit: ‘Utinam omnes inimici mei tam honorifice iacerent’». Un’analisi recente del testo presenta G. Schwedler, Purifying Memory in the Middle Ages. Cleansing soul, deleting remembrances and the example of the attempted purge of Rudolf of Rheinfelden, in How Purity is made - Persistence and Dynamics of the Purity Mindframe, cur. P. Rösch - U. Simon, Frankfurt 2010 (in corso di stampa).
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i miracoli di Wibert che, come un segno, anzi un giudizio di Dio, avrebbero messo in dubbio la legittimità pontificale di Pasquale stesso18. Un destino simile ha colpito papa Vittore IV, l’avversario di Alessandro III, che morì a Lucca nel 1164, dove fu sepolto nella cattedrale19. Ancora nel dicembre 1187, vale a dire dieci anni dopo la fine dello scisma, riuscì quasi a provocare dalla tomba papa Gregorio VIII, che, secondo una notizia riportata nella Continuatio Aquicinctina della cronaca di Sigeberto di Gembloux, passando Lucca durante il suo cammino da Ferrara a Roma avrebbe scassinato personalmente la tomba di Ottaviano e buttato fuori le sue ossa dalla chiesa20. Sappiamo da altre fonti che anche in questo caso sono stati soprattutto i miracoli assieme all’ iscrizione dell’epitaffio, che ricordava l’ex cardinale Ottaviano di Monticelli addirittura come «Sanctus Papa Victor», che hanno provocato l’intervento personale sorprendente di papa Gregorio VIII21. Già una tomba onorevole per i papi Clemente III e Vittore IV doveva apparire come una pietra dello scandalo, dato che nella memoria della Chiesa Romana non sono mai esistiti Clemente e Vittore come papi legittimi. Ma venerare come santi Clemente III e Vittore IV – ciò non poteva assolutamente accadere. La venerazione nei loro riguardi come santi miracolosi avrebbe legittimato, quasi a posteriori, le loro elezioni ed i loro pontificati, ma avrebbe allo stesso tempo degradato i papi vittoriosi, Pasquale
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18 Annales S. Disibodi, ed. G. Waitz, Hannover 1861 (Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, 17), pp. 4-30: 17, ad ann. 1099: «Wigbertus Romanae et apostolicae sedis invasor, moritur; […] Quidam autem de fautoribus eius rumorem sparserunt in populum, ad sepulcrum eius vidisse divina micuisse luminaria. Quapropter dominus apostolicus Paschalis zelo Dei inflammatus iussit ut effoderetur et in Tyberim iacteretur. Quod et factum est». Per il contesto politico cfr. J. Ziese, Wibert von Ravenna. Der Gegenpapst Clemens III. (1084-1100), Stuttgart 1982 (Päpste und Papsttum, 20), p. 273; per il contesto agiografico in particolare cfr. M.G. Bertolini, Istituzioni, miracoli e promozione del culto dei santi: il caso di Clemente III antipapa (1080-1100), in Culto dei santi. Istituzioni e classi sociali in età preindustriale, cur. S. Boesch Gajano - L. Sebastiani, Roma 1984 (Collana di studi storici, 1), pp. 69-104. 19 J.F. Böhmer, Regesta Imperii, IV/2. Die Regesten des Kaiserreiches unter Friedrich I. 1152 (1122)-1190. 2. Lieferung: 1158-1168, ed. F. Opll, Wien 1991, n. 1347. 20 Sigebertus Gemblacensis Chronica, Continuatio Aquicinctina et Auctarium Nicolai Ambienensis, ed. K. Bethmann, Hannover 1844 (Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, 6), pp. 405-438 e 473-474: 474, ad annum 1187: «Lucam inveniens ibi confracto sepulcro Octaviani ossa deiecit extra ecclesiam». 21 Una copia dell’epitaffio si trova nel codex 618, f. 1r della Biblioteca Capitolare di Lucca. Per il contesto politico e la tradizione agiografica cfr. in particolare K.-M. Sprenger, Wahrnehmung und Bewältigung des Alexandrinischen Schismas in Reichsitalien (11591177), Tesi di dottorato, Mainz 2007, pp. 338-377.
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II ed Alessandro III, a veri scismatici e pseudopapi22. Per rendere una “damnatio memoriae” efficace nei riguardi di questi antipapi santi era pertanto necessario eliminare il sepolcro, l’epitaffio e le ossa come future reliquie potenziali e così radere al suolo ogni fondamento materiale di qualsiasi atto di memoria, preghiera e venerazione agiografica. Ma la “damnatio” oppure “deletio memoriae” dei cosiddetti antipapi non era riferita alla sola persona, ma poteva generalmente esser applicata a tutto quello che serviva a trasmetterne la memoria. L’intenzionale demolizione e la seguente ricostruzione di S. Maria di Trastevere messa in opera da papa Innocenzo II (dal 1137/39 in poi) è un esempio abbastanza famoso per una strategia, che mirava a cancellare ogni memoria positiva del suo avversario Anacleto. Ricordiamo: S. Maria di Trastevere era stata la chiesa titolare del precedente cardinale ed allo stesso tempo il centro spirituale della famiglia dei Pierleoni, cui Anacleto originariamente apparteneva. Con quell’atto simbolico di demolizione e ricostruzione Innocenzo II è riuscito a far vedere a tutti, a Roma e altrove, chi aveva vinto lo scisma e a mostrare che lo splendore dell’ormai antipapa Anacleto era scomparso assieme alle mura della sua vecchia chiesa titolare e familiare23. Meno nota è una notizia riportata nella Continuatio Aquicinctina della cronaca di Sigeberto di Gembloux, secondo la quale nell’anno 1165, papa Pasquale III avrebbe distrutto la Cisterna Neronis a sud-est di Roma, dove cinque anni prima papa Alessandro III era stato consacrato dopo la sua elezione scismatica del 1159. Ovviamente la memoria di quest’atto di legittimazione del suo rivale era ancora associata con il luogo specifico nella mente dei contemporanei e quindi doveva scomparire, a parere di Pasquale III24. In altri casi, l’intenzionale distruzione di oggetti di memoria degli antipapi viene pubblicamente messa in scena come nel caso dell’arcivescovo Cristiano ex scismatico di Magonza. Ancora nell’ambito dei negoziati della pace di Venezia, Cristiano di Magonza bruciò in piazza San Marco quel pallio che aveva prima ricevuto dalle mani dell’antipapa Pasquale III
22 Per l’idea della santità del papa legittimo cfr. W. Ullmann, Romanus Pontifex indubitanter efficitur sanctus: Dictatus Papae 23 in retrospect and prospect, «Studi gregoriani per la storia di Gregorio VII e della riforma gregoriana», 6 (1959-61), pp. 220-264. 23 K. C. Schüppel, Santa Maria in Trastevere, in Rom: Meisterwerke der Baukunst von der Antike bis heute, Festschrift für Elisabeth Kieven, cur. C. Strunck, Petersberg 2007, pp. 147-151. Per il contesto politico si veda W. Maleczek, Das Kardinalskollegium unter Innocenz II. und Anaklet II., «Archivum Historiae Pontificiae», 19 (1981), pp. 27-78. 24 Sigeberti Gemblacensis Continuatio Aquicinctina cit., p. 411, ad ann. 1165: «Paschalis Cisternam Neronis, ubi Alexander papa fuerat consecratus, totam terrae coaequavit».
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dimostrandosi così, davanti agli occhi del mondo, pentito del suo precedente errore, cioè dell’obbedienza scismatica, affermando chiaramente e platealmente al mondo cristiano che lui ormai aveva ritrovato la via giusta al legittimo papa Alessandro III25. Oltre a queste singole azioni eclatanti, che conosciamo per la maggior parte dalle fonti narrative, la “damnatio memoriae” degli antipapi si è svolta su una base molto più vasta quasi in silenzio. Una delle costanti storiche nel contesto di una risoluzione di uno scisma è costituita dal fatto che tutti gli atti e regolamenti dei cosiddetti antipapi e della loro curia «in spiritualibus et temporalibus» retroattivamente vengono dichiarati nulli. Da quel momento in poi non vi era più alcun motivo per conservare negli archivi privilegi rilasciati da loro o dai loro funzionari, dato che non valevano più e non valeva neanche la pergamena sulla quale erano stati scritti una volta. Oggi siamo convinti che la documentazione così frammentaria delle curie antipapali, sia in originale sia in copia, costituisca l’effetto più duraturo di quella “damnatio memoriae”26. Per renderlo concreto, basta l’esempio dello scisma alessandrino: non è un caso se per gli anni 11591177 esistano solo due privilegi originali dei cosiddetti antipapi a destinatari italiani in aggiunta ad un documento di un giudice di papa Vittore IV27. E in contrasto con la situazione del Nord delle Alpi per il Regnum Italiae, manca del tutto una tradizione in copia dei documenti antipapali per questi anni28.
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25 Germania Pontificia, IV: Provincia Maguntinensis. 4: S. Bonifatius, Archidioecesis Maguntinensis, Abbatia Fuldensis, cur. H. Jakobs, Göttingen 1978, p. 180, n. 430; per le relazioni di Cristiano di Magonza con papa Pasquale III cfr. K.-M. Sprenger, Ein Deperditum Paschalis III. für den gegenpäpstlichen Legaten Christian von Buch? Überlegungen zu einem archäologischen Fund aus Mainz, «Historisches Jahrbuch», 118 (1998), pp. 261-276. 26 Poche sono le eccezioni a questa regola in una documentazione frammentaria degli antipapi, v. per esempio G. Battelli, Il rotolo di suppliche dello Studio di Roma a Clemente VII antipapa (1378), «Archivio della Società Romana di storia patria», 114 (1991), pp. 2756 e E. Mongiano, La Cancelleria di un Antipapa. Il Bollario di Felice V (Amedeo VIII di Savoia), Torino 1988. 27 Kehr, Italia Pontificia cit., VI/1, p. 372, n. 33 (Vittore IV per i canonici di S. Vincenzo a Bergamo, 29 dicembre 1169); p. 294, n. 1 (Vittore IV per l’ospedale di S. Leonardo de Bangia di Cremona, maggio giugno 1161); per la sententia di un giudice delegato di papa Vittore IV cfr. L. Mazzucchi, Di una lite sorta nel 12° secolo tra i Benedettini di S. Carpoforo di Como e l’arciprete di Dongo per il capellano di S. Martino in Musso portata davanti all’antipapa Vittore 4°, «Periodico della Società Storica della Provincia e antica Diocesi di Como», 22 (1915), pp. 193-198 in particolare l’edizione a pp. 196-198. 28 Germania Pontificia, III: Provincia Maguntinensis. 3: Dioeceses Strassburgensis, Spirensis, Wormatiensis, Wirciburgensis, Bambergensis , cur. A. Brackmann, Berlin 1935, pp. 19s., n. 6, papa Pasquale III per il capitolo del Duomo di Strasburgo, del 31 luglio 1167.
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Ma non basta: il radicalismo di queste epurazioni va oltre, sviluppando ulteriori attacchi concernenti anche contesti relativi alla tradizione e alla documentazione scritta, non necessariamente originati da iniziative degli antipapi, ma solo perchè per la loro presenza scritta, cioè pubblica, veniva alla ribalta delle correzioni politiche. Penso alle datazioni politiche nelle iscrizioni, per esempio dopo gli anni del pontificato. Nonostante il gran numero d’iscrizioni altomedievali dell’XI e XII secolo, solo due esemplari datati con il nome di un “anti”papa sono rimasti – per quanto io possa ricordare. L’uno per Clemente III (Wibert di Ravenna) per l’Abbazia di S. Quirico Giulitta nella diocesi di Rieti29, e l’altro per papa Anacleto II nel portico della chiesa episcopale di Nepi30. Questo fatto colpisce soprattutto nel panorama delle iscrizioni concernenti vari eventi per il periodo 1080-1177, tra le quali si trovano regolarmente datazioni riferentisi ai papi legittimi31. Quest’osservazione sembra significativa nella misura in cui troviamo
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29 P. Fortini - O. Orfei, Abbazia di S. Quirico e Giulitta nella diocesi Reatina. Note e documentazioni preliminari, Roma 1995, p. 34, n. 10 del 16 luglio 1094: «+ ANNO DOMINICI INCARNATIONI [---] / LESIMO NONAGESIMO IIII INDICIONE / II REGNANTE ENRICO IMPERATORE IN SEDE / APOSTOLICA URB(E) ROME P(R)ESIDENTE PAPA / CLEMENTE IN CIVITATE AUT(EM) REATINA P(RE)E/RAT EP(ISCO)PUS RAINERIUS IN MONASTERIO S(AN)C(T)I QUIRICII QUI XITU(M) E(ST) IN TORINA / VALLIS P(RE)ERAT ABB(A)S TAIBRANDUS / QUIBUS TE(M)PORIBUS DEDICA/TA E(ST) ISTA ECCL(ESI)A MICHAELIS AR/CHANGELIS SETTIMO DECI/MO KALENDAS AUGUSTAS.» 30 P. Rajna, Un’iscrizione nepesina del 1131, «Archivio Storico Italiano», 18 (1886), pp. 329-354 e 19 (1887), pp. 23-53, in particolare p. 332 con una trascrizione dell’iscrizione: «Anni Domini millesimi CXXXI temporibus Anacleti II pape, mensis iulii, indicione VIIII, Nepesini milites, nec non et consules firmaverunt sacramento, ut si quis heorum nostram vu[l]t frangere societatem, de omni honore atque dignitate, Deo volente, cum suis sequacibus sit eiectus, et insuper cum Iuda et Caypha atque Pylato habeat portionem, item, turpissimam sustineat mortem, ut Galelonem qui suos tradidit socios; et non eius sit memoria, sed in asella retrorsum sedeat et caudam in m[a]nu tene[at].» 31 Per dare solo alcuni esempi: M.F. Pulignani, Del Chiostro di Sassovivo presso Foligno memorie epigrafiche, Foligno 1879, p. 34 (1119, datazione dopo papa Calisto II); O. Banti, Monumenta Epigraphica Pisana Saeculi XV Antiquiora, Pisa 2000, pp. 20s., n. 7 (Pisa, 1111, datazione dopo papa Pasquale II); M.L. Ceccarelli Lemut, Cronotassi dei vescovi di Volterra dalle origini all’inizio del XIII secolo, in Pisa e la Toscana occidentale nel Medioevo. Studi in onore di Cinzio Violante, cur. G. Rossetti, I, Pisa 1991, pp. 23-50: 48s. (S. Maria a Casole d’Elsa, 1161, datazione dopo Papa Alessandro III.); Monumenta Epigraphica Christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus adhuc exstant, cur. A. Silvagni, Roma 1943, III/I, tab. IV, n. 2, (Lucca, 1175, datazione dopo papa Alessandro III.); A. Franceschini, I frammenti epigrafici degli statuti di Ferrara del 1173 venuti in luce nella cattedrale, Ferrara 1969, passim (Ferrara, 1173, datazione dopo papa Alessandro III). Per altri esempi del sec. XII cfr. Sprenger, Wahrnehmung und Bewältigung cit., pp. 218-295.
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spesso datazioni politiche secondo diversi antipapi nelle carte private e notarili conservate negli archivi locali. Esse, a differenza delle iscrizioni, non manifestavano in modo così pubblico il fatto che si apparteneva al partito “sbagliato” e all’obbedienza “erronea” durante lo scisma32. Detto ciò, è chiaro che queste conseguenze documentarie rispecchiano non solo il livello politico della cancelleria ormai diventata antipapale, ma anche la documentazione concernente i dignitari ecclesiastici, precedenti sostenitori dell’obbedienza all’antipapa, i quali solo grazie allo scisma erano stati promossi ad onori e dignità. Dopo lo scisma anche tutti i loro atti e privilegi, con un colpo della storia, non ebbero più nessun valore33. Forse con l’eccezione dei privilegi imperiali per destinatari scismatici che, essendo un caso speciale, non possono essere trattati qui. Di molti vescovi cosiddetti scismatici spesso conosciamo solo i nomi, mentre la documentazione dei loro atti ufficiali è sopravvissuta, in stridente contrasto, in pochi, quasi singoli casi34. Questa cancellazione sistematica della maggior parte della tradizione documentaria dell’obbedienza antipapale post scisma ci mette a confronto con un problema metodologico significativo. Come riusciremo a ricostruire, anche solo approssimativamente, l’attività degli antipapi, se possiamo basare le nostre indagini esclusivamente su una documentazione così frammentaria e deformata? Che cosa possiamo davvero sapere delle loro idee e programmi politici, delle loro relazioni personali, dei loro metodi contro i loro “antipapi”, se le fonti narrative rispecchiano quei conflitti scismatici per lo più dalla prospettiva tendenziosa dei vincitori, cioè da una sorta di monopolio del ricordo? E – per cambiare metodologicamente la prospettiva dal livello imperial-papale alla percezione locale – potremo mai individuare come i cosiddetti antipapi siano stati veramente accettati a livello locale-regionale, se quasi tutte le tracce della loro obbedienza sono diventate in gran parte vittime della “damnatio memoriae”? L’apparente difficoltà nel poter rispondere a queste domande ha avuto purtroppo almeno due effetti: prima di tutto un approfondimento molto scarso dell’argomento degli antipapi in sé. Esistono solo poche monografie dedicate specificamente al gruppo degli antipapi come la Storia degli antipapi scritta dallo Zigarelli nel 1859 e quella di Lodovico
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Per esempi da Ravenna, Faenza, Fano, Viterbo, Roma ed altre città ibid., passim. Anche la scarsa tradizione documentaria per i vescovi di Bologna tra gli anni 10801122 potrebbe essere dovuta a queste epurazioni, cfr. A.I. Pini, Città, Chiesa e culti civici in Bologna medievale, Bologna 1999, (Biblioteca di Storia Urbana Medievale, 12), p. 9. 34 Per il vescovo scismatico Siro di Pavia cfr. Sprenger, Die Klöster von Pavia zwischen Friedrich I. und Alexander III cit., p. 21.
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Silvani del 197135; ma tutte e due non corrispondono assolutamente ai criteri della medievistica moderna. Precedenti tentativi di avvicinarsi al fenomeno – come per esempio un anonimo manoscritto del XVII/XVIII secolo conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana – sono ancora in attesa di un’edizione e valutazione scientifica36. È solo da poco tempo che l’argomento degli antipapi ha trovato una nuova attenzione e viene studiato in un contesto più ampio per capire meglio le continuità e discontinuità dell’autorità papale fra XI e XV secolo37. Esiste, per fortuna, un’eccezione grazie ai pochi studi prosopografici moderni su singoli antipapi, come quelli di Ziese e Heidrich su Wibert da Ravenna, pubblicati all’inizio degli anni 8038. Soprattutto il lavoro di Heidrich cerca di capire le attività di Wibert, ovvero di Clemente III, da una prospettiva locale quasi ravennatense. Il vantaggio metodologico di un simile accesso è che Heidrich almeno sta facendo un tentativo di capire come sia stato accettato Wibert nel contesto delle sue reti personali nella società, non descrivendolo con il risultato dello scisma già in mente, quasi in retrospettiva, come antipapa che a priori aveva perso la partita. Così Ziese e Heidrich almeno s’impegnano a superare metodologicamente la scarsità della documentazione ufficiale del papa Clemente che, per quanto riguarda la possibilità di ricerca, rende purtroppo noi stessi vittime della “damnatio” oppure della “deletio memoriae”. Il secondo effetto della “damnatio”, è la deformazione della prospettiva, a causa della quale i candidati vinti vengono da noi a priori connotati negativamente come i cattivi, cioè come gli antipapi. Metodologicamente ancora oggi ci troviamo in una trappola manichea: noi, conoscendo la fine dello scisma, difficilmente possiamo lasciarla da parte e la riportiamo all’indietro sulle tappe dello scisma, che i contemporanei invece non potevano prevedere. Ma noi stessi sappiamo bene che i risultati sono casuali e per nulla diretti chiaramente ad una buona fine, e che nella storia il bene non vince sempre sul male. Anche se non mettiamo in dubbio le attività di papa Alessandro III: da dove ricaviamo che il papa Vittore IV non avreb-
35 D.M. Zigarelli, Storia degli antipapi e di taluni memorabili avvenimenti delle epoche rispettive dello schisma, Napoli 1859; L. Silvani, Storia degli Antipapi, Milano 1971. 36 Bibliotheca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1656 (sec. XVII/III), Anon., Diarii e fatti, gesti e giusticie et altro di Antipapi [...]. 37 Sotto la direzione del Prof. Dr. Johannes Helmrath di Berlin, e del Prof. Dr. Harald Müller di Aachen, cfr. http://www2.hu-berlin.de/forschung/fdb/deutsch/PJ/PJ8861.html 38 J. Ziese, Wibert von Ravenna. Der Gegenpapst Clemens III. (1084-1100), Stuttgart 1982 (Päpste und Papsttum, 20); I. Heidrich, Ravenna unter Erzbischof Wibert (10731100), Sigmaringen 1984 (Vorträge und Forschungen, Sonderband 32).
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be indirizzato meglio la Chiesa? Non sarebbe potuto diventare «Sanctus Papa Victor», come è stato venerato a Lucca dopo la sua morte? Con questa domanda retorica vorrei solo ricordare che noi spesso ci orientiamo verso l’oggetto delle nostre ricerche con grande emozione. La questione invece è: in che modo i contemporanei hanno registrato gli scismi e come hanno superato quella situazione? Io stesso ho dovuto fare quest’esperienza quando una collega inglese mi ha criticato un po’ emotivamente poichè durante un convegno avevo chiamato Alessandro III “antipapa”. Concedo che ho un po’ esagerato, ma volevo, come variante metodologica, solo puntare l’attenzione su un cambio di prospettiva e sulla percezione dei contemporanei durante lo scisma. Ma noi stessi siamo diventati vittime della “damnatio memoriae” anche sotto un altro aspetto. Si è provato e si prova ancora oggi a ricostruire la divisione delle obbedienze durante uno scisma sulla base della distribuzione documentata dei privilegi papali ai beneficiati. Specialmente riguardo allo scisma alessandrino si pensava finora che il grande numero dei privilegi di Alessandro III per il clero nelle regioni imperiali potesse far concludere che c’era un predominio sicuro dell’obbedienza ad Alessandro III e che da ciò si poteva concludere che i papi promossi dal Barbarossa – eccetto in pochissimi luoghi e regioni – non erano stati accettati in modo significativo39. Metodologicamente vengono ignorati in questo contesto due aspetti essenziali: il primo è il fatto che il numero reale dei privilegi concessi dal cosiddetto “partito antipapale” doveva essere stato molto più alto, ma è stato cancellato dopo lo scisma a causa della “damnatio memoriae”. Il secondo è un problema: era possibile rimanere neutrali rispetto alle obbedienze, in quella situazione ecclesio-politica, anche se quella terza via naturalmente non era prevista dai partiti litiganti? La posizione dei contemporanei almeno durante lo scisma alessandrino fu in verità influenzata da questa neutralità molto più di quello che si pensava finora40. Ma come possiamo riconoscere queste differenti percezioni dello scisma? Quali percorsi si offrono per uscire dalla trappola manichea? Sia permesso, per concludere, di tracciare almeno una direzione di marcia per 39 Così W. Goez, Zur Geschichte des Alexander-Schismas im nordöstlichen Mittelitalien,
in Von Sacerdotium und Regnum. Geistliche und weltliche Gewalt im frühen und hohen Mittelalter. Festschrift für Egon Boshof zum 65. Geburtstag, Köln u. a. 2002 (Passauer Historische Forschungen, 12), pp. 519-540: 540. Più esatto invece J. Johrendt, “Cum universo clero ac populo eis subiecto, id ipsum eodem modo fecerunt.” Die Anerkennung Alexanders III. in Italien aus der Perspektive der Papsturkundenempfänger, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 84 (2004), pp. 38-68. 40 In particolare Sprenger, Wahrnehmung und Bewältigung cit., pp. 383s.
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mezzo di alcuni esempi tratti dal contesto dello scisma alessandrino. Per mancanza di tempo mi limito ad alcuni accenni. Una possibilità di conoscere come lo percepissero i contemporanei dello scisma – senza ricorrere a scritti polemici, libelli, cronache e documenti delle cancellerie di papa e “antipapa” – sta nell’osservare le datazioni politiche nei documenti privati e in fonti analoghe, per esempio le iscrizioni datate. Qui si possono riconoscere, in mille sfaccettature, percezioni e reazioni allo scisma di persone singole e anche di gruppi, cosa che sarebbe quasi impossibile nelle fonti documentarie delle cancellerie del papa e dell’“antipapa”. Possiamo vedere come i notai – persone autorizzate dai più diversi committenti della vita pubblica –, essendo osservatori attenti di quelle vicissitudini politiche, anche nelle zone più isolate, reagiscono velocemente alla doppia elezione scismatica e creano individualmente soluzioni formali per la datazione durante il periodo altamente esplosivo dello scisma. Datazione con due papi («in tempore paparum»)41, insicurezza («de papa incerti sumus»)42 fino alla lacuna sulla pergamena dove dovrebbe leggersi il nome del papa («in tempore … papae»)43 oppure cambiamenti voluti della solita formulazione evitando di parlare di un papa fino al 1177, fino a datazioni decise con il nome di papa Alessandro III44 o con quello dei papi del Barbarossa45 – tante sono le diverse possibilità di reazione allo scisma. Come esempio significativo vorrei riportare le datazioni del notaio Crescentius di Foligno che rispecchia l’andamento movimentato dello scisma alessandrino: nel luglio 1163 egli data un contratto di vendita «temporibus Frederici imperatoris et in errore Alexandri et Victoris»46. Nel marzo
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41 Le Carte di Fonte Avellana, edd. C. Pierucci - A. Polverari, II (1140-1202), Roma 1977 (Thesaurus Ecclesie Italiae, 9,2), p. 138, n. 262: «anno millesimo centesimo sexagesimo secundo, Victoris et Alexandri paparum anno tercio …». 42 Ravenna, Archivio di Stato, Fondo Canonica di S. Maria in Porto, pergamena n. 0428 (segnatura vecchia 199 A), carta donationis del. 3 e 5 agosto 1162: «In nomine domini nostri Ihesu Christi MCLXII tempore magnissimo atque sanctissimo (sic) imperatoris Frederici, de papa incerti sumus […]». 43 Cfr. le datazioni dei diversi documenti per gli anni 1159-1167/77 nel Chartularium Imolense. I. Archivium S. Cassiani (964-1200), edd. S. Gadoni - G. Zaccherini, Imola 1912 e II. Archivia Minora (1033-1200), edd. S. Gadoni - G. Zaccherini, Imola 1912, passim. 44 Per esempio a Veroli, cfr. in particolare Sprenger, Wahrnehmung und Bewältigung cit., pp. 160-163. 45 Per esempio le datazioni politiche dopo Papa Callisto III a Fano per gli anni 11681177, cfr. ibid., pp. 203-217. 46 Le Carte dell’Abbazia di S. Croce di Sassovivo, II. 1116-1165, ed. V. De Donato, Firenze 1975, pp. 243-254: 244, n. 212, luglio 1163: «Anno Domini MCLXIIJ temporibus Frederici Romanorum imperatoris et in errore Alexandri et Victoris, mense iulii, indictione xj [...]».
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1168 compare, sulla riga della datazione accanto al papa Alessandro anche Pasquale III47; e per un certo periodo addirittura il nome del terzo papa, protetto da Barbarossa, Callisto III viene apposto accanto a quello di Alessandro in alcuni documenti del nostro notaio48. Con quanta cura Crescentius scrivesse le sue datazioni, risulta dal fatto che, mentre il nome di Federico imperatore è usato con sicurezza, i nomi dei diversi papi vengono apposti senza titoli papali poichè si trovano entrambi in errore, cioè in una situazione non ancora decisa e quindi in “errore”. Solo dopo la fine dichiarata dello scisma grazie alla pace di Venezia nel 1177 ritorna il titolo papale ed Alessandro è l’unico papa nelle annotazioni del nostro notaio. Egli descrive addirittura con entusiasmo l’anno 1178 con la formula «temporibus Alexandri summi pontificis et universalis III. pape et in sacratissima Sede beati Petri […] tempore domno Frederico Romanorum imperatore sempre augusto regnante»49. A Rimini abbiamo un’epigrafe del 1160, che rispecchia pubblicamente uno sforzo analogo di rimanere neutrali nella questione dell’obbedienza. «A(nno) I(ncarnationis) D(omini) M[C]LX TE(m)PO RIB(bus); DISCORDIE / I(n)TER V[ICTO]RE(m) ET / ALEXA[N]DRU(m) REGNA(n)/ TE FREDE[R]ICO INP(e)R(a)TORE»50
Qui lo scisma viene chiamato “discordia” tra i concorrenti, entrambi vengono incisi nella pietra con il loro nome da papa, ma senza il titolo di papa. Il fatto che la lapide originariamente era posta sul muro esterno della
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47 Le Carte dell’Abbazia di S. Croce di Sassovivo, III. 1166-1200, ed. R. Capasso, Firenze
1983, pp. 8-10: 9, n. 6, 6 marzo 1168: «Anno eiusdem incarnationis MCLXVIII, regnante Frederico Romanorum imperatore et semper augusto et in herrore Pascalis et Alixandri mense martii [...]». 48 Ibid., p. 13, n. 9, gennaio 1169,: «Anno eiusdem incarnationis MCLXVIIII, regnante Frederico Romanorum imperatore et semper augusto et in herrore Calisti et Alexandri […]»; p. 29, n. 20, dicembre 1170: «Anno eiusdem incarnationis MCLXX, regnante Frederico Romanorum imperatore et semper augusto et in herrore Alexandri et Calisti [...]»; p. 30, n. 21, febbraio 1171: «Anno eiusdem incarnationis MCLXXI, regnante Frederico Romanorum imperatore et semper augusto et in herrore Alixandri et Calisti...»; p. 41, n. 27, aprile 1173: «Anno eiusdem incarnationis MCLXXIII, regnante Frederico Romanorum imperatore et semper augusto et in herrore Alexandri et Calisti […]». 49 Ibid., novembre 1178, p. 59, n. 41. 50 Cfr. L. Tonini, Rimini avanti il principio dell’era volgare all’anno MCC ossia della storia civile e sacra Riminese, II, Rimini 1856, p. 358; un’edizione più recente con una foto si trova in Rimini Medievale. Contributi per la storia della città, cur. L. Turchini, Rimini 1992, pp. 363s.
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chiesa di San Cataldo a Rimini mostra che questa formulazione era accettata e condivisa dalle persone del luogo. Queste datazioni neutrali si trovano soprattutto a Rimini, Imola, Forlì, Rieti ed altri paesi51. Invece dell’obbedienza assoluta richiesta dall’imperatore e dai papi contendenti qui si mostra al contrario neutralità o per lo meno un ritegno formale nel professare l’obbedienza che non è per niente un fenomeno marginale, bensì è il programma formale in certe regioni dell’Italia appartenenti all’impero. Vorrei concludere con un ultimo esempio che serva a render chiare le difficoltà interpretative di questo metodo: l’iscrizione del 1165, che si trova nella Galleria lapidaria del Palazzo Comunale ad Ascoli Piceno. Questa lapide che, secondo le recenti ricerche di Capelli, apparteneva originariamente alla chiesa dell’Ospedale di Sant’Ilario, è stata pubblicata più volte, ultimamente da Antonio Salvi nel suo volume sulle Iscrizioni Medievali di Ascoli52. Decisiva per la nostra specifica inchiesta è la datazione dell’epigrafe.
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«[HAEC EST CEPTA DOMUS] POST PARTVM VIRGINIS ANNO [MILLENO, CENTEN]O, QVINTO BISQVe TRICENO. [HERESE ROMA DO]LET; FRIDERICVS ET IMPERAT ORBI. [HVIC VT STELLA P]RAEEST LVX PRAESVL. PRESBITER VRBI. […]»
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Traduzione: “Questa casa è stata cominciata dopo il parto della Vergine nell’anno millecento cinque e due volte trenta (1165). Roma si duole per l’eresia (o: “l’eretico”), Federico regna sul mondo. Il vescovo Presbiter guida come una stella fulgida questa città (…)”. Primo, per indicare la data si usa la nascita di Cristo, qui elegantemente definita come “parto della Vergine”. Le ultime righe segnalano, come posizione politica di quel lasso di tempo, le due potenze universali: l’imperatore è in contrapposizione complementare con il papato, definito con un accenno a Roma, senza però nominare il papa. Viene invece tematizzata la singolare situazione critica del papato angustiato da un’eresia o da un eretico («Haeretae/Haeresae»), senza altre spiegazioni. Da notare che la personificazione di Roma come sede del Papato è angustiata, mentre invece in contrasto viene presentata l’intatta autorità dell’imperatore come anche del vescovo Presbiter nell’ultima riga. Ma a quale eresia, a quale eretico si riferiva lo scrivente, quando nel 1165 51 52
In particolare Sprenger, Wahrnehmung und Bewältigung cit., pp. 89-158. Edizione più recente in A. Salvi, Iscrizioni Medievali di Ascoli, Ascoli 1999 (Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco Ascoli”. Collana Testi e Documenti, diretta da A. Anselmi, 5), pp. 192s, n. 158.
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scrisse quelle righe? Gli studiosi di Ascoli Piceno hanno sempre riconosciuto nella datazione dell’iscrizione un’allusione all’eresia di Arnaldo da Brescia. Già nel 1922 Tucci e Mariotti hanno formulato questa ipotesi nel loro commento all’edizione dell’epigrafe, ipotesi ripresa da Salvi anche nella sua recente pubblicazione53. Però, se si pensa che Arnaldo da Brescia era già stato giustiziato nel 1155, si possono avere dubbi sul fatto che nel 1165 ad Ascoli Piceno si vedesse un nesso specifico tra l’accennato «erese» (o «erete») che arreca angustia e l’eresia di Arnaldo da Brescia di 10 anni prima. Un ulteriore argomento contro il riferimento dell’epigrafe ad Arnaldo da Brescia sta nel fatto che quando, come è usuale nelle datazioni politiche, si aggiungono commenti insoliti – completamente al di fuori delle usuali formulazioni per le datazioni –, queste aggiunte riflettono normalmente avvenimenti politici del giorno, di grande attualità. Anche per questa epigrafe dovrebbe valere la stessa cosa. In più, considerando i tempi di allora, («1165 … dolet …imperat») dobbiamo escludere una tale discrepanza di tempo nei singoli contenuti dell’iscrizione. Il redattore dell’epigrafe deve aver pensato ad un’altra eresia, più vicina nel tempo, che nel 1165 a Roma aveva avuto un tale effetto da farne arrivare l’eco fino ad Ascoli Piceno, così che un accenno ad essa poteva benissimo essere compreso dai lettori dell’epigrafe. Necessariamente si arriva alla conclusione che nell’epigrafe – con il concetto di eresia – si intendeva il contemporaneo scisma dei papi, tanto più che in tutte e due le cancellerie papali nemiche venivano usati come sinonimi i concetti: «heresis» e «scisma»54. Se l’autore dell’epigrafe – parlando di un’eresia o di un eretico, si riferisse a papa Pasquale III oppure a papa Alessandro III, che si trovavano entrambi a Roma nel 1165 – non viene palesato, grazie ad una descrizione impersonale dello scisma. Qui si manifesta da una parte la preoccupazione di non esporsi troppo chiaramente nella questione dell’obbedienza, in tempi in cui non era ancora possibile presagire l’esito dello scisma, d’altra parte è evidentissima la presa di coscienza dello scisma come periodo senza papa e di grave conflitto all’interno della Chiesa. 53 54
Ibid. Cfr. Le Liber Censuum de l’église romaine, publié avec une introduction et un commentaire, ed. P. Fabre, 3 voll., Paris 1910-1952: I/2, p. 417: «Ego N. refuto et anathematizo omnem heresim extollentem se adversus Romanam et catholicam Ecclesiam et precipue scisma et heresim Octaviani [...]». Per le varie interpretazioni canonistiche del termine si veda anche O. Hageneder, Der Häresiebegriff bei den Juristen des 12. und 13. Jahrhunderts, in The concept of heresy in the Middle Ages, Proceedings of the 4th International Conference, Louvain (May 13-16, 1973), cur. W. Lourdaux - D. Verhelst, Leuven 1976 (Mediaevalia Lovanensia, I/4), pp. 42-103.
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Il concetto della memoria damnata era per il papato uno strumento per superare i conflitti ed il passato. I papi vincenti lo usarono contro i concorrenti scismatici (ormai “antipapi”), definendo così come ci si doveva ricordare in futuro di chi, durante lo scisma, aveva avuto aspirazioni contrastanti alla cathedra Petri. Il dominio dei ricordi diventa in questo modo uno strumento efficace nelle mani dei vincitori, per la propria legittimazione rappresentata come incontestabile già dall’inizio, retrodatandola nella coscienza dei contemporanei, e fissandola per il futuro. Non raramente questo concetto della memoria damnata viene usato dal papato come propaganda con la rappresentazione della “Ecclesia triumphans” e di un verdetto divino, come per esempio negli affreschi del palazzo Laterano, in cui gli antipapi erano rappresentati come uno sgabello su cui appoggiare i piedi55. Ma soprattutto quell’esempio famoso di una memoria intenzionalmente negativa di grande forza simbolica al centro della rappresentazione curiale costituisce più una damnatio in memoria che una damnatio memoriae senza nessuna traccia e dimostra che il papato legittimo aveva quasi bisogno degli antipapi come antidoto per erigere la base complementare negativa, sulla quale si poteva costruire e mettere in scena agli occhi del mondo la propria legittimazione. Gli effetti di questa cultura della memoria – intaccata dalla propaganda da parte del papa legittimo – alterano le possibilità di conoscere la vera presa di coscienza delle persone che vivevano durante uno scisma, di come lo percepivano genuinamente. Il fatto che manchi una base effettiva di fonti cui attingere per le ricerche sui cosiddetti “antipapi” non aiuta per niente. Però non tutto il male vien per nuocere, perché così, percependo questa carenza, riconosciamo più chiaramente quello che noi con le nostre ricerche vogliamo dimostrare. Una possibilità per risolvere questo problema di metodo è forse l’analisi delle datazioni politiche, attingendo alle fonti del materiale in loco, lontano dal materiale fornitoci dalle cancellerie dei papi e “antipapi”. La ricchezza degli archivi italiani apre senz’altro buone prospettive per studiare le diverse posizioni dei contemporanei su uno scisma rispecchiate nelle datazioni politiche . Cerchiamo quindi di uscire dalla trappola manichea tesa dalla “memoria damnata” già da secoli e perdurante ancora oggi.
55 M. Stroll, Symbols as power: the papacy following the investiture contest, Leiden 1991 (Brill’s Studies in intellectual history, 24), pp. 16ss. e I. Herklotz, Die Beratungsräume Calixtus II. im Lateranpalast und ihre Fresken. Kunst und Propaganda am Ende des Investiturstreits, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 52 (1989), pp. 145-214.
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Vivit et non vivit: memoria e damnatio memoriae di Federico II tra arte e scrittura di storia
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Nel dolce ricordo di Enrico Pispisa
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«[…] Letentur celi et exultet terra, quod fulminis horrendi tempestas, qua mirabilis et metuendus Dominus per prolixa temporum spatia universitatem vestram sustinuit, vehementer affligi […], iam esse conversa videtur […]» Si allietino i celi, esulti la terra…, è passato l’impeto del terribile fulmine: è Innocenzo IV che, a pochi mesi di distanza dalla morte, improvvisa e inattesa, di Federico II, pubblica una littera solemnis ‘indirizzata’ al clero e al popolo di Sicilia1. L’invettiva papale, venata di imprestiti dalla letteratura antica, suggella la vicenda umana e politica dell’imperatore e avvia, per lui, il crepuscolo della memoria. La metafora letteraria addensava di suggestioni antiche anche i versi, di segno opposto, con i quali Pietro da Eboli aveva salutato, oltre mezzo secolo avanti, la nascita del puer ‘provvidenziale’, «sol sine nube, puer numquam passurus eclipsim», come recita la particula XLIII del Liber ad honorem Augusti2. E, nell’unico testimone dell’opera, ai versi fa controcanto nella 1 Ex Innocentii IV Registro, in MGH, Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, ed. C. Rodenberg, III, Berolini 1894, pp. 24-25, n. 32. La propaganda antiimperiale connota fortemente il pontificato di Innocenzo IV, raggiungendo la fase più accesa negli anni immediatamente precedenti al Concilio di Lione del 1245 (cfr. O. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, Milano 2000); è significativo in tal senso il manifesto pubblicato in quell’anno e rivolto ai partecipanti al concilio, che testimonia delle forti pressioni esercitate dal pontefice sugli arcivescovi di area tedesca partecipanti al concilio (in particolare su quelli di parte imperiale), affinché non intervenissero nella contesa che lo opponeva all’imperatore. In proposito W. Maleczek, La propaganda antiimperiale nell’Italia federiciana: l’attività dei legati papali, in Federico II e le città italiane, cur. P. Toubert - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 290-302: 301. Dello stesso si cfr. Da Innocenzo II a Innocenzo IV. Il papato del XII e XIII secolo tra Urbs e Orbis, in Il papato e l’Europa. I percorsi del papato dal mondo mediterraneo all’Europa medievale, Atti del Convegno internazionale (Vicenza 26-28 maggio 1999), cur. G. De Rosa - G. Cracco, Soveria Manelli 2001, pp. 141-158. 2 Sul Carmen de rebus Siculis, che nella seconda parte, dedicata come è noto a Enrico
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pagina affrontata [Fig. 1] l’immagine del fanciullo imperiale consegnato alla duchessa di Spoleto3, pronta a riceverlo con le mani velate: «imperatrix, Siciliam repetens, benedictum filium suum ducisse dimisit», precisa il titulus. Nel registro superiore la rappresentazione compendiaria delle tre palme richiama invece la ‘metafora botanica’ proposta dal poeta per Costanza e Federico4 ed evoca le forze della natura che, tutte, all’unisono (per silvas, per humum, per mare)5, esultano per la nascita del divino fanciullo. Egualmente, all’inizio del terzo libro, Pietro da Eboli, prelevando a piene mani da Virgilio e da Ovidio, ma anche da Lucano6, celebrava, a ricalco della IV egloga virgiliana, l’avvento della mitica età dell’oro, inaugurata da Enrico VI e che Federico avrebbe portato a compimento; e la celebrava con i versi, – «Fortunata dies, felix post tempora tempus»7– e, nell’illustrazione [Fig. 2], con una doppia metafora paradisiaca, con l’immagine8, ancora una volta espressa con un linguaggio figurativo asciutto ed essenziale, del biblico recinto dell’Eden e, in basso, della fons Aretusa9 , dei
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VI di Svevia, viene titolato Liber ad honorem Augusti, la discussione critica si articola su due momenti significativi. Da un lato gli Studi su Pietro da Eboli, cur. R. Manselli, Roma 1978 (Studi storici, 103-105), ai cui singoli interventi si farà riferimento nel corso di questo saggio (da ora in avanti Studi); dall’altro il commentario all’edizione facsimilare dell’unico testimone dell’opera, oggi alla Burgerbibliotek di Berna, Codex 120 II: Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis. Codex 120 II der Burgerbibliothek Bern. Eine Bilderchronik der Stauferzeit, cur. T. Kölzer - M. Stähli, Sigmaringen 1994 (da ora in avanti Liber ad honorem Augusti). La particula XLIII (testo e immagine) alle pp. 204-207. Del Carmen (o Liber ad honorem Augusti) sono da consultare anche altre due edizioni critiche: Petrus Ansolinus de Ebulo, De rebus Siculis carmen, ed. E. Rota, in RIS2, XXXI/1, Città di Castello 1904; G.B. Siragusa, Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, Roma 1906 (Fonti per la storia d’Italia, 39). 3 Federico fu lasciato a Foligno alla duchessa di Spoleto, vedova di Corrado di Urslingen, fedele di Enrico VI, perché a Costanza fosse consentito di raggiungere Enrico VI a Palermo; P. Racine, Federico II di Svevia. Un monarca medievale alle prese con la sorte, con prefazione di A. Romano (Università degli Studi di Messina - Facoltà di Scienze Politiche, Studi storico giuridici, 5), Milano 1998, p. 6. 4 F. Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione. Letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005 (Testis Temporum, 2), pp. 34-35. 5 Liber ad honorem Augusti, XLIII, 1392, p. 205. 6 Sulla cultura letteraria, dalle forti connotazioni antichiste, di Pietro da Eboli si cfr. T. Sampieri, La cultura letteraria di Pietro da Eboli, in Studi, pp. 66-87. 7 Liber ad honorem Augusti, XLVIII, 1505, p. 225. 8 Codex 120 II della Burgerbibliothek di Berna, f. 141r, Liber ad honorem Augusti, p. 227. 9 Raffigurata con altre valenze nella particola XLIX del Liber. Cfr. il codice di Berna, f. 142r (Liber ad honorem Augusti, p. 231). Sulle valenze simboliche della fons Aretusa in connessione con le problematiche legate al giardino medievale, particolarmente stimolante può essere la lettura di F. Cardini - M. Miglio, Nostalgia del Paradiso. Il giardino medievale, Roma-Bari 2002.
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VIVIT ET NON VIVIT: MEMORIA E DAMNATIO MEMORIAE DI FEDERICO II
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fiumi del Paradiso ai quali, poiché «tanta pax est tempore Augusti», tanto grande è la pace al tempo di Augusto [e dell’Augusto], «bibunt omnia animalia». Ed è ancora il titulus rubricato a fare da tramite tra il testo della particola e l’immagine affrontata 10. La peculiarità della vicenda federiciana, vicenda che si dipana lungo tutta la prima metà del secolo XIII, sta proprio nel fatto che la costruzione della poderosa impalcatura propagandistica, a connotazione fortemente celebrativa, di parte imperiale e da parte imperiale, si fonda a un tempo sulla parola e sull’immagine e si sostanzia di letteratura encomiastica, componimenti poetici, epistolografia, dottrina e ius, da un lato11, dall’altro di scultura, di glittica e di oreficeria, di coni di pregevole fattura, di libri miniati, di architettura trionfale e di rappresentanza (poca la pittura monumentale), in una parola di documenti figurativi12. Parimenti, ma lo vedremo tra breve, anche il declino della fortuna di Federico e poi il tramonto, talora lo stravolgimento della sua memoria, trovano testimonianza nelle fonti scritte, ma si caricano forse di maggiore evidenza nell’obliterazione e nell’annullamento, in una parola nella damnatio, talora anche nella dispersione e nella perdita del contesto di riferimento, delle opere d’arte a lui legate, quelle realizzate sotto la sua committenza o volute per celebrarlo, tutte caratterizzate dall’eccellenza qualitativa, molte connotate da forti tensioni ideologiche. Questo intreccio tra fonte scritta e fonte figurativa si verifica, non soltanto, come nel caso del Carmen, composto, e in parte vergato personal10 11
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Codex 120 II di Berna, ff. 140v-141r. Per una sintesi sulla cultura legata a Federico II e finalizzata all’esaltazione dell’imperatore, si possono prendere le mosse, all’interno di una bibliografia infinita e inesauribile, dalle due monografie ormai classiche di E. Kantorowicz, Federico II Imperatore, Milano 1976 (ed. or. Berlin 1927-1930) e di D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, trad. it. Torino 1980; fino alla recentissima breve sintesi di H. Houben, Federico II. Imperatore, uomo, mito, Bologna 2009, passando per E. Pispisa, La cultura alla corte di Federico II e nel regno di Sicilia, in S. Maddalo - E. Pispisa, Federico II re di Sicilia, Palermo 2005. 12 Sono ancora fondamentali, in proposito: Intellectual Life at the Court of Frederich II Hoenstaufen, Proceedings of the Symposium (Washington 1990), cur. W. Tronzo, Washington 1994; Federico II. Immagine e potere, Catalogo della mostra, (Bari, Castello Svevo, 4 febbraio - 17 aprile 1995), cur. M.S. Calò Mariani - R. Cassano, Bari 1995; Federico e la Sicilia dalla terra alla corona. Arti figurative e arti suntuarie. Catalogo della mostra (Palermo 16 dicembre 1994-30 maggio 1995), cur. M. Andaloro; Federico II e le nuove culture. Atti del XXXI Convegno storico internazionale (Todi, 1994), cur. E. Menestò, Todi 1995; Federico II e l’Italia. Percorsi, Luoghi, Segni e Strumenti (Roma 22 dicembre 1995-30 aprile 1996), Roma 1995; Federico II e il mondo mediterraneo, cur. A. Paravicini Bagliani P. Toubert, Palermo 1995. Ma si veda, da ultimo, quanto propongo in S. Maddalo, Federico II e le arti, in Maddalo - Pispisa, Federico II re di Sicilia cit.
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mente da Pietro da Eboli, comunque illustrato sotto la sua direzione, dove la compenetrazione tra testo e immagine ha immediata e piena realizzazione, ma anche nei casi in cui, secondo quanto cercherò di proporre sulla base di pochi esempi, la trama dei rimandi si individua e prende valore solo nella fitta tessitura delle interconnessioni storiche. Tra i motivi ricorrenti della propaganda imperiale e filoimperiale, quello della celebrazione dinastica è certo uno dei più antichi. Lo inaugura lo stesso Pietro da Eboli che, muovendo da Goffredo da Viterbo (che era stato il primo cantore della imperialis prosapia)13, esalta la nobile stirpe imperiale. Non solo nel Carmen de rebus Siculis, dove i primi due libri hanno per tema l’epopea della dinastia normanna e il terzo (il Liber ad honorem Augusti) l’esaltazione di Enrico VI [Fig. 3], con il quale si inaugura l’età dell’oro, nel segno della continuità con il felice e prospero regno di Guglielmo II14; ma anche nella postfazione dedicatoria del De balneis Puteolanis [Figg. 4a e 4b]. Nel De balneis l’ebolitano, che con il ruolo di poeta di corte attraversa quattro generazioni (da Federico I ad Enrico VII, primo nato di Federico II, passando attraverso Enrico VI e Federico stesso), declina nei toni dell’autobiografia una peculiarissima genealogia sveva15. Ed è significativo che il tema, uno dei più cari alla produzione encomiastica16, si trovi trattato anche in opere estranee alla propaganda imperiale, per esempio nella ‘predica’ di quel Nicola da Bari che è forse da
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13 Gotifredus Viterbiensis, Pantheon, ed. G. Waitz, in MGH, SS., XXII, Hannoverae 1872, pp. 334-338; e dello stesso Speculum regum, ed. G. Waitz, ibid., pp. 21-93. 14 Significativi appaiono, in proposito, i documenti emanati dalla cancelleria imperiale, nei quali, proprio nella fase iniziale del governo di Enrico si fa uso di formule come «Ad imitationem autem Rogerii et Willelmi felicis memorie illustrium regum Sicilie […]»: L. Pandimiglio, La ideologia politica di Pietro da Eboli, in Studi, pp. 17-37: 20 nota 10. Ma cfr. anche Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 41 e passim. 15 Per il De balneis Puteolanis cfr. S. Maddalo, Il De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli. Realtà e simbolo nella tradizione figurata, Città del Vaticano 1993 (Studi e testi, 414). Nella bibliografia di cui mi avvalgo, si segnalano in part.: Petrus de Ebulo, Nomina et virtutes balneorum seu De balneis Puteolorum et Baiarum. Codice Angelicano 1474, ed. A. Daneu Lattanzi, Roma 1964; S. Maddalo, Commentario al facsimile del ms. 1474 della Biblioteca Angelica di Roma, Nomina et virtutes balneorum seu De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli, Roma 1998; J. M. D’Amato, Prolegomena to a Critical Edition of the Illustrated Medieval Poem “De balneis Terre Laboris” by Peter of Eboli (Petrus de Ebulo), The John Hopkins University Ph. D. 1975. Infine la monografia, risalente ma sempre di grande utilità, di C.M. Kauffmann, The Baths of Pozzuoli. A Study of the Medieval Illuminations of Peter of Eboli’s Poem, Oxford 1959. 16 La letteratura encomiastica in onore di Federico è stata indagata in studi recenti: cfr. in proposito M. Macconi, Federico II. Sacralità e potere, Genova 1994 (Profili); Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., in part. pp. 7-28.
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identificare con l’abbas Barensis ecclesie diaconus, autore anche di un testo dal forte sapore encomiastico in onore di Pier della Vigna17. Per ciò che concerne la produzione artistica, la celebrazione dinastica trova compiuta espressione, anzitutto nella riorganizzazione, con il trasferimento da Cefalù, intorno al 1215, dei due sarcofagi di porfido di Ruggero II (destinati uno a contenerne le spoglie, l’altro a celebrare «insignem memoriam sui nominis»)18, di quello straordinario sepolcreto, all’interno della cattedrale di Palermo, che sarebbe stato poi nominato “Cimitero reale”19, ma anche in due opere che si ascrivono entrambe alla fase ascendente della parabola federiciana. Nella prima, consistente in una serie di pannelli (purtroppo perduti, ma noti da una fonte di poco più tarda)20 fatti dipingere da Federico II sulla facciata della cattedrale di Cefalù, in un giro d’anni, tra il 1215 e il 1224, che rappresenta il periodo di maggior tensione all’autolegittimazione dinastica, viene celebrata l’intera genealogia normanna, da Ruggero I a Federico, passando attraverso i due Guglielmi e Costanza. Né meno intrigante è la galleria, questa volta eminentemente sveva, di ‘ritratti’ imperiali: Federico I, Enrico VI, Federico II e per finire Corrado, ognuno raffigurato con attributi e atteggiamenti diversi, scolpita sulla scala di accesso al pulpito di Bitonto [Fig. 5], «anno millesimo ducentesimo, vicesimo nono», per volontà «Nicola(i) sacerdo(tis) et magist(ri)»21 [Fig. 6-7]. Di Nicola, sacerdote e magister, che nella realizzazione del pulpito dovette avere il ruolo di committente e forse anche quello di artefice, si può proporre l’identificazione con l’autore della ‘predica’, cui sopra si faceva riferimento e che si suppone tenuta nella cattedrale di Bitonto al ritorno di Federico dalla crociata in Terra Santa; senza dimenticare che in tale occasione l’imperatore si era autoproclamato re di Gerusalemme. I contenuti della predica, infatti, appaiono sottesi al peculiare programma iconografico dell’ambone22, in cui, tra l’altro [Fig. 5], la decorazione a tral17 18 19
Ibid., in part. p. 99. E. Bassan, I sarcofagi di porfido della cattedrale, in Federico e la Sicilia cit., pp. 33-34. M. Andaloro, Federico e la Sicilia fra continuità e discontinuità, in Federico e la Sicilia cit., pp. 3-30: 14. 20 Ibid., p. 20. 21 Controversa è la datazione dell’ambone e sul problema si è acceso un vivace dibattito critico. Si veda H.M. Schaller, L’ambone della cattedrale di Bitonto e l’idea imperiale di Federico II, «Archivio storico pugliese», 13 (1960), pp. 40-60, ristampato in Stupor mundi. Zur Geschichte Friedrichs von Hoenstaufen, cur. G. Wolf, Darmstadt 19822 (ed. or. 1966), pp. 299-324. Ma cfr. anche M.S. Calò Mariani, L’ornato e l’arredo, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 385-391. 22 Cfr. in particolare E. Paratore, Traduzione della predica di Nicola di Bari in onore di Federico II, «Quaderni Bitontini», 1 (1970), pp. 57-65.
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ci vegetali desinenti in fiori e grossi frutti scolpita sul fondo del rilievo, alle spalle della genealogia sveva, alluderebbe, in una fitta trama simbolica che giustifica l’assimilazione di Federico con il Figlio di Dio, al biblico albero di Jesse, allegoria della genealogia di Davide23. Ancora dal barese Nicola, Federico è celebrato come «sol in firmamento mundi»24; e la tematica solare è un’altra costante della mitizzazione del sovrano svevo. Un lunghissimo e assai saldo filo rosso unisce, nell’adesione a questa tematica, scrittori anche geograficamente e cronologicamente distanti: per Pietro da Eboli Federico è sol mundi («Suscipe sol mundi», recita il componimento di dedica del De balneis)25 e come Sol Augustorum lo stesso poeta lucano aveva celebrato Enrico VI26; come «stupor mundi… sol novus… lux, splendor / Sol de sole» Federico II è cantato, in una climax di straordinaria efficacia da Orofino da Lodi27; nel rhythmus di Terrisio di Atina, poeta di corte, Federico è «Cesar, Augustus, multus mirabilis» e «[…] Nullus in mundo Cesare grandior / Nullus sub sole Cesare fortior…»28. La metafora solare si riverbera e si articola, in chiave di ideologia teocratica, nella particola, ancora nel De balneis Puteolanis, intitolata al balneum Imperatoris [Fig. 8], «l’antiquum lavacrum regale», dedicato, come recita il componimento, allo stesso Federico: in essa lo Svevo è proposto, nei versi di Pietro da Eboli e nella trasposizione allegorica che ne offre l’immagine affrontata con la raffigurazione dei due astri, simboli della signoria sul mondo, come «ultimo imperatore dell’impero romano antico»29, e, nel contempo, è assimilato, come fonte di salvezza, a
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23 Is., 11,1: «Et egreditur virga de radice Iesse»; da cfr. con il testo della Predica: «Hec est virga de radice Iesse; id est de avo flos, qui de radice eius ascendit, est nepos eius dominus imperator, flos campi et lilium convallium »; cit. in Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 102. 24 Ibid., p. 103. 25 De balneis Puteolanis, ms. 1474, Biblioteca Angelica, f. 19v, per il quale si veda da ultimo Maddalo, Il De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli cit. 26 Liber ad honorem Augusti, XLVI, 1445. 27 Orofino da Lodi, Poema de regimine et sapientia potestatis, ed. A. Ceruti, in Miscellanea di storia italiana, edita per cura della Regia Deputazione di Storia Patria per il Piemonte, VII, Torino 1869, pp. 32-94: 38. 28 Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., pp. 133-136 per Terrisio di Atina. Il testo del rhythmus (tràdito, come avverte Delle Donne, da due soli manoscritti, Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. V B 37, ff. 87r-88v; Palermo, Biblioteca della Società Siciliana per la Storia Patria, I B 25, ff. 82r-83r) è pubblicato alle pp. 134-137; le citazioni alle pp.134135. 29 E. Kantorowicz, Federico II imperatore cit., p. 446. Per l’ideologia imperiale di Federico si veda anche H.M. Schaller, Die Kaiseridee Friedrichs II., in Stupor mundi. Zur Geschichte cit., pp. 494-526; e da ultimo E. Pispisa, L’idea imperiale di Federico II. Proposte di ricerca, in Pispisa, Medioevo Fridericiano e altri scritti, Messina 1999, pp. 99-111: p. 101.
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Cristo salvatore. All’ideologia teocratica, che Federico andava maturando proprio negli anni nei quali veniva concepito il De balneis (intorno alla fine del secondo decennio del Duecento), e che avrebbe marchiato gli ultimi anni del regno, sembra fare riferimento, peraltro, con un significativo capovolgimento delle teorie gregoriane sul Sole e la Luna quali simboli rispettivamente di Chiesa e Impero30, la posizione del sole che, nella miniatura proposta dal codice Angelicano, sovrasta il crescente lunare, tracciato in basso e per di più rovesciato, secondo uno schema iconografico assolutamente peculiare e, credo, privo di precedenti. E in tale prospettiva, non è certo casuale che un’emissione, se pure rarissima, degli augustali (che è stata definita a ragione la più bella moneta d’oro del medioevo europeo e che riprendeva, con il ritratto imperiale sul dritto e l’aquila impressa sul rovescio, modelli augustei)31 enfatizzasse, con la testa raggiata che si ispirava ai nummi del tipo sol invictus, coniati dall’imperatore Costantino a partire dal 31132, la discendenza apollinea dello Svevo33. Allo Svevo Giorgio Cartofilace, archivista della chiesa greca di Gallipoli, aveva offerto due brevi componimenti, di non comune reminiscenza classica e densi di imprestiti dalla cultura orientale, dove lo rappresentava come Apollo-
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In relazione soprattutto alle committenze artistiche, offre un’interessante prospettiva M. Bussagli, «Ars Instrumentum Regni». L’idea imperiale e l’arte di Federico II, in Federico II di Svevia stupor mundi, cur. F. Cardini, Roma 1999, pp. 173-200. 30 Per il simbolismo di sole-luna in rapporto alla contrapposizione ideologico-politica tra papato e impero cfr. in primo luogo E. Kantorowicz, Dante “Two Suns”, in Kantorowicz, Selected Studies, New York 1965, pp. 325-338; e anche K. Burdach, Briefwechsel des Cola di Rienzo, I,1: Rienzo und geistige Wandlung seiner Zeit, Berlin 1913 (Vom Mittelalter zur Reformation. Forschungen zur Geschichte der Deutschen Bildung, 2), in particolare il II capitolo (pp. 34-94); e P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio. Studien und Texte zur Geschichte des römischen Investiturstzeit, Leipzig-Berlin 1929 (Studien der Bibliothek Warburg, 17). 31 Sull’augustale, in particolare per la sua funzione – che è pari a quella dei sigilli – come arma di propaganda, si cfr. da ultimo G. Ortalli, Comunicare con le figure, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo - G. Sergi, III. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino 2004, pp. 477-518: 477-481. 32 Per la monetazione costantiniana è significativa la raccolta di saggi di P. Bruun, Studies in Constantinian Numismatic. Papers from 1954 to 1988, Roma 1991(Acta Instituti Romani Finlandiae, 12): in part. le pp. 107, 128 e la tav. III. Ma si veda anche, per il rapporto tra gli augustali e le monete di Costantino e dei suoi immediati successori: K. Bering, Kunst und Staatsmetaphisik des Hochmittelalters in Italien: Zentren der Bau -und Bildpropaganda in der Zeit Friedrichs II., Essen 1986, pp. 46-47; da ultimo R. QuiriniPoplawski, Ancora una glossa sul cosidetto Torso di Barletta, in Medioevo: i modelli. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma 27 settembre - 1° ottobre 1999), cur. A.C. Quintavalle, Parma 2002 (I convegni di Parma, 2), pp. 381-391: 388. 33 Sugli augustali cfr. M. Pannuti, La monetazione di Federico II di Svevia nell’Italia meridionale e in Sicilia, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 58-61.
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Helios34; nella lettera, infine, che Manfredi inviò a Corrado, all’indomani della morte di Federico, questi veniva rimpianto, con toni ancora di sorgente virgiliana: «[…] Cecidit… sol mundi…, cecidit sol iustitie, auctor pacis…»35. Sol iustitiae e sol salutis sono gli attributi con i quali viene annunciato l’avvento di Cristo nella profezia di Malachia (4, 2): «Et orietur vobis timentibus nomen meum sol iustitiae, et sanitas in pennis eius», e attengono dunque alla cristomimesi dell’imperatore, la cui definizione – e ne è specchio un documento del 1239 (la lettera, ben nota, in cui la città di Iesi è detta Bethleem nostra)36 – aveva impegnato la curia federiciana e la stessa cancelleria imperiale soprattutto a partire dal 1229 e dall’assunzione da parte di Federico del titolo di re di Gerusalemme37. Rex iustus, dunque, pater et filius Iustitiae: nel proemio delle Constitutiones melfitane (il così detto Liber Augustalis), che identificano la linea ufficiale della politica federiciana38, ma anche, all’interno della stessa magna curia, in un componimento, accattivante e fazioso a un tempo, assegnato per tradizione a Pier della Vigna39, Federico è a un tempo pater et filius Iustitiae40. Ancora nel preconium del logoteta imperiale, lo Svevo è esaltato come iuris conditor, iusticie conservator41.
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34 Macconi, Federico II cit., p. 37; Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 35. Su Giorgio di Gallipoli, poeta di Terra d’Otranto e sostenitore dell’imperatore, e per i suoi carmi in onore di Federico, cfr. M. Gigante, Poeti bizantini di Terra d’Otranto nel secolo XIII, Napoli 19792, pp. 176, 180; Gigante, Roma e Federico imperatore secondo Giorgio di Gallipoli, Roma 1995, p. 38. 35 Macconi, Federico II cit., p. 39; e cfr. J.F Böhmer, Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII), Conrad I., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard. 1198-1272, Innsbruck 1882 (Regesta Imperii, V. 2), p. 852. 36 Macconi, Federico II cit., p. 13. 37 Che fece seguito al matrimonio con Isabella di Brienne, avvenuto a Brindisi nel novembre del 1225. A riprova dell’importanza che l’acquisizione della corona di Terrasanta veniva a rappresentare nello scacchiere politico del Mediterraneo, Federico intervenne sull’iconografia del sigillo imperiale (che portava lungo il diametro il motto Fridericus Dei gratia Imperator Romanorum semper Augustus), così come su quella dei tarì aurei, dove aggiunge ai lati del trono il titolo di Rex Ier(osol)im(i); per la monetazione di età federiciana si cfr. anche L. Travaini, Zecche e monete nello stato federiciano, in Federico II e il mondo mediterraneo cit., pp. 146-164; F. Panvini Rosati, Federico II “mutator monetae”, in Federico II e l’Italia cit., pp. 75-77. 38 Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 92. 39 E.H. Kantorowitz, I due corpi del re. L’dea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989, p. 86. Ne tratta diffusamente anche Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., pp. 59 ss. 40 Ibid., p. 93. Titolo I.31 delle Constitutiones: cfr. J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, IV,1, Parisiis 1854; e inoltre J.M. Powell, The Liber Augustalis or Constitutions of Melfi Promulgated by the Emperor Frederick II for the Kingdom of Sicily in 1231, Syracuse 1971. 41 Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 73.
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La metafora letteraria e politica di Federico II, divinità solare e amministratore della giustizia, ma anche rex iustus, si traduce in forma monumentale nella porta di Capua42, con il suo multiforme corredo plastico [Fig. 9]: sull’arco di ingresso, in posizione eminente, Federico si fece ritrarre in trono [Fig. 10] la testa raggiata, i simboli del potere sovrano, ai lati i clipei con i busti dei giudici, Pier della Vigna e Taddeo da Sessa [Fig. 11], al di sotto il simulacro monumentale della Iustitia [Fig. 12], che per i capuani poteva anche identificare la Capua fidelis. La struttura stessa della porta, eretta, tra il 1234 e il 1239, a baluardo difensivo, aperto tra due possenti torrioni a pianta poligonale, e maestoso arco di trionfo, si sostanziava di un richiamo a Roma, alla Roma imperiale, alla Roma dei papi e dei Romani, che rappresentò sempre per Federico un mito evocato e irraggiungibile. Da questo momento, con una coincidenza cronologica veramente singolare, sembra prendere avvio la parabola discendente delle fortune imperiali. È l’anno, il 1239, in cui – a breve distanza dalla vittoria di Cortenuova e dalla marcia verso Roma delle spoglie trionfali del carroccio43 – l’imperatore viene colpito dalla seconda scomunica papale. La bolla, che Gregorio
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42 Nell’ampia letteratura critica relativa alla Porta di Capua, prendendo le mosse dallo studio imprescindibile di C.A. Willemsen, Kaiser Friedrichs II. Triumphator zu Capua. Ein Denkmal Hohenstaufischer Kunst in Süditalien, Weisbaden 1953, si vedano in particolare C. Shearer, The Renaissance of Architecture in Southern Italy: a Study of Frederick II of Hoenstaufen and Capua Triumphator Archway and Towers, Cambridge 1935; M. Cordaro, La porta di Capua, «Annuario dell’Istituto di Storia dell’arte. Università degli Studi di Roma» anno acc. 1974/1975 - 1975/1976, pp. 41-63; G. Scaglia, La “Porta delle torri” di Federico II a Capua in un disegno di Francesco di Giorgio, «Napoli Nobilissima», 20 (1981), pp. 203-221; 21 (1982), pp. 123-134; B. Brenk, Antikenverständnis und weltliches Rechtsdenken im Skulpturenprogramm Friedrichs II. in Capua, in Musagetes. Festschrift für W. Prinz, cur. R.G. Kecks, Berlin 1991, pp. 93-103; F. Bologna, “Cesaris imperio regni custodia fio”. La Porta di Capua e la “interpretatio imperialis” del classicismo, in Nel segno di Federico II. Unità politica e pluralità culturale del Mezzogiorno. Atti del IV Congresso Internazionale di Studi della Fondazione Napoli Novantanove (Napoli 30 settembre - 1 ottobre 1988), Napoli 1989, pp. 159-189; P.C. Claussen, Die Statue Friedrichs II. vom Brueckentor in Capua (1234-1239). Der Befund, die Quellen und eine Zeichnung aus dem Nachlass von Séroux d’Agincourt, in Festschrift für Hartmunt Biermann, cur. Chr. Andreas M. Bückling - R. Dorn, Weinheim 1990, pp. 19-39; J. Meredith, The Arch of Capua: the Stategic Use of Spolia and References to the Antique, in Intellectual Life at the Court of Frederick II cit, pp. 108-126; da ultimo M. D’Onofrio, La Porta di Capua, in Federico e l’Italia cit., pp. 230-240; Bologna, Divi Iulii Caesaris: un nuovo busto federiciano e gli interessi dei circoli umanistici del Regno per Federico II, «Dialoghi di Storia dell’Arte», 2 (1996), pp. 4-31; Maddalo, Il De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli cit., pp. 131 ss. 43 M. Miglio, Il senato in Roma medievale, in Il senato nella storia. Il senato nel Medioevo e nella prima età moderna, Roma 1997, pp. 117-172: 132-137; Miglio, Federico II e Roma, in Federico II e l’Italia cit., pp. 57-62; ma anche E. La Rocca - S. Guarino, Roma e il Carroccio, ibid., pp. 335-338.
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IX indirizza all’arcivescovo di Reims e al re di Francia, «[…] universis regibus… universis archiepiscopis et episcopis…»44, e che condanna l’imperatore per l’‘eresia della disobbedienza’45, è una pagina dalle intense movenze figurative: Federico vi è descritto come bestia «[…] blasphemie plena nominibus, que pedibus ursi et leonis ore deseviens, ac membris formata ceteris sicut pardus...» – una bestia con le zampe di orso, il muso da leone e il corpo da leopardo (e la metafora letteraria riverbera l’immagine di una drôlerie medievale) – e ancora come «[…] figulus falsitatis, modestie nescius et pudoris ignarus…», che gode nell’essere definito precursore dell’Anticristo: «[…] et gaudet se nominari preambulum Antichristi»46. Sono gli anni, quelli che seguono, degli scontri sempre più duri con la Lega lombarda, della perdita di Gerusalemme (1244), della nuova scomunica, e della deposizione da parte di Innocenzo IV (1245), della congiura del 1246 che coinvolge alcuni dei suoi alleati più fedeli, della sconfitta di Vittoria (1248), della cattura di re Enzo e della morte di Pier della Vigna (1249), gli anni nei quali i cronisti, anche quelli di parte ghibellina (e penso a Francesco Pipino, che scrive all’indomani della morte dell’imperatore)47, registrano la solitudine dello Svevo e il declino del potere imperiale; gli anni che si concludono con la fine improvvisa, in Puglia, a Castel Fiorentino. Nel contempo si va sgretolando, con l’amplificarsi dei toni della propaganda mediatica di parte guelfa48, il mito positivo di Federico:
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44 Ex Gregorio IX Registro, in MGH, Epistolae saeculi XIII regestis pontificum Romanorum selectae, ed. C. Rodenberg, I, Berolini 1883, n. 750, pp. 646-654: 654. 45 Formulata sul piano canonistico in una decretale di Onorio III del 1217, l’eresia della disobbedienza veniva imputata a coloro che avessero mostrato disprezzo per il potere di legare e di sciogliere concesso da Dio al principe degli Apostoli e di conseguenza ai pontefici, successori ideali di Pietro: cfr. in proposito O. Hageneder, Die Häresie des Hungehorsams und das Entstehen des hierokratischen Papsttums, «Römische Historische Mitteilungen», 20 (1978), pp. 29-47, 91, di nuovo edito in Hageneder, Il sole e la luna cit., pp. 213-234; da ultimo S. Maddalo, Immagini e ideologia tra gli Actus Sylvestri e il Constitutum Constantini, in Medioevo: arte e storia. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma 18-22 settembre 2007), a cura di A.C. Quintavalle (I Convegni di Parma, 10), Parma 2008, pp. 481-495. 46 Ex Gregorio IX Registro cit., p. 346. 47 Franciscus Pipinus, Chronicon, in RIS, IX, Mediolani 1726, coll. 583-752: 660. 48 Un ruolo significativo nella definizione della propaganda anti imperiale ebbe Raniero Capocci (assai vicino peraltro ai circoli gioachimiti), che ispirò alcuni dei più accesi manifesti papali contro Federico; a tal proposito cfr. H.M. Schaller, Endzeit-Erwartung und Antichrist-Vorstellungen in der Politik des 13. Jahrhundert, in Festschrift für Hermann Heimpel zum 70. Geburtstag, Göttingen 1972, pp. 924-947; di nuovo edito in Stupor mundi. Zur Geschichte cit., pp. 418-448; cit. in Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione cit., p. 162.
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scrittori come Salimbene de Adam e Niccolò da Calvi – nella sua Vita di Innocenzo IV, Federico è descritto come corrotto, empio, fautore degli eretici, sodomita49 - si collegano a una linea che origina nella storiografia laica e cittadina, ben rappresentata ad esempio da Giovanni Codagnello (che scrive tra il 1199 e il 1230)50 o dal Chronicon Faventinum51. Mentre la propaganda, a carattere partitamente escatologico e millenaristico, di sorgente gioachimita – che abbiamo visto si riverberava nella bolla gregoriana del 1239 -, identifica Federico con l’Anticristo, con la bestia immonda dell’Apocalisse giovannea. Tuttavia, poiché, come è stato giustamente sottolineato, «[…] le variabili non si esauriscono affatto […] nell’alternativa fra esaltazione e condanna»52, ma si articolano su una pluralità di registri – e l’ambiguità connoterà la rievocazione letteraria di Federico anche nei secoli a venire53 –, Salimbene propone, all’indomani della morte dell’imperatore, un ritratto bifido di Federico: solatiosus, iocundus, delitiosus, perfino pulcher homo et bene formatus, eppure luxuriosus, malitiosus, callidus, iracundus54; e insieme ne registra, ancora in vita, l’ingresso nel mito: Federico è immortale, come profetizzava l’oracolo sibillino: «[…] quod in Sibilla legitur: Sonabit et in populis: Vivit et non vivit […]», e il cronista riconosce che egli stesso «[…] usque ad multos dies, vix potui[t] credere quod mortuus esset»55. Resta, dunque, alla morte dell’imperatore, la persistenza del mito, che si fonda e si sostanzia anche delle opere d’arte, che egli commissionò personalmente, copiose e intriganti, in qualche caso capolavori indiscussi, o di
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49 Nicolaus de Carbio, Vita Innocentii IV, in F. Pagnotti, Niccolò da Calvi e la sua Vita d’Innocenzo IV, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 21 (1898), pp.7-120: 76120 (la citazione alle pp. 102-103). 50 Iohannes Codagnellus, Annales Placentini, ed. O. Holder-Egger, in MGH, Scriptores Rerum Germanicarum, Hannoverae et Lipsiae 1901, pp. 86-87. 51 Magister Tolosanus, Chronicon Faventinum, cur. G. Rossini, in RIS2, XXVIII/1, Bologna 1936-1939; cfr. G. Ortalli, Aspetti e motivi di cronachistica romagnola, «Studi romagnoli», 24 (1973), pp. 349-363; Ortalli, Federico II e la cronachistica cittadina: dalla coscienza al mito, in Federico II e le città italiane cit., pp. 249-263: 258. 52 Ortalli, Federico II cit., p. 252. 53 F. Tateo, Reperti e ricordi di Federico II nella letteratura italiana, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 447-452. 54 Salimbene de Adam, Chronica, ed. G. Scalia, Bari 1966 (Scrittori d’Italia, 232-233), pp. 507-508); ma si può consultare oggi anche Salimbene de Adam, Chronica, ed. G. Scalia, Tournholti 1998-1999 (Corpus Christianorum, Continuatio Medievalis), pp. 348-349. 55 Salimbene de Adam, Chronica, ed. cit., Bari 1966, p. 251. Sul significato delle ‘profezie’ che segnano la nascita e la morte di Federico II e marcano il suo mito si veda anche R. Orioli, Gli oracoli sibillini, in Federico II e l’Italia cit.,
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quelle a lui dedicate. Comunque pertinenti ai suoi anni. Ma è proprio su questo versante che si registra, se pure modulata su una molteplicità di registri, la più eclatante forma di damnatio memoriae della lunga vicenda artistica medievale. Proporrò solo pochi esempi, raggruppati in rapporto alle tipologie figurative. Tra le sculture d’ambito federiciano, la statuaria, in particolare quella onoraria, sostiene un ruolo primario: statue e busti, alcune teste, in bilico tra riuso, ripresa e riproposta di modelli classici, sono dei veri e propri marcatori dell’adesione all’antico degli artefici, ma soprattutto del committente. Un breve inventario di questi ritratti o pseudo ritratti imperiali appare particolarmente significativo nel contesto di questa riflessione. Lo straordinario busto di Barletta [Fig. 13], in cui la connotazione antichista si palesa filtrata attraverso suggestioni del gotico d’Oltralpe, delle quali appare partecipe la leggera ed elegante torsione del busto (ma a ben vedere il gotico è solo una citazione che non modifica la sostanza classica dell’opera)56, fu ritrovato agli inizi del Novecento, murato sull’ingresso di una masseria tra Canosa e Barletta57; allo stesso torno d’anni risale il ritrovamento [Fig. 14], ancora più fortuito, tra le rovine di un edificio trecentesco, a Bitonto, nei pressi di San Leucio Vecchio, del frammento di testa laureata, che si è supposto provenire da un edificio pubblico della città pugliese che si era dimostrata particolarmente fedele allo Svevo; ancora un frammento [Fig. 15], di straordinaria qualità, fu rinvenuto nel 1928 da Bruno Molajoli ai piedi di uno dei torrioni poligonali di Castel del Monte e si è ipotizzato appartenesse a un gruppo scultoreo che doveva celebrare, ben visibile sul monumentale portale principale, l’imperatore, tra i figli Corrado e Manfredi e i logoteti Pier della Vigna e Taddeo da Sessa58. Castel del Monte [Fig. 16] rappresenta, credo, la più singolare e straordinaria delle committenze architettoniche collegate direttamente alla
56 Una riflessione in P. Claussen, Antike und gotische Skulptur in Frankreich um 1200, «Wallraf-Richartz Jahrbuch», 25 (1973), pp. 83-108. 57 P. Claussen, Creazione e distruzione dell’immagine di Federico II nella storia dell’arte. Che cosa rimane?, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 68-81; dello stesso Claussen, Bitonto und Capua. Unterschiedliche Paradigmen in der Darstellung Friederich II, in Staufisches Apulien, Göttingen 1993 (Schriften zur staufischen Geschichte und Kunst, 13), pp. 77-124. Per il busto di Barletta si veda anche L. Todisco, Il busto del museo di Barletta e le epigrafi CL IX 101-102, «Xenia Antiqua», 1 (1992), pp. 195-200. 58 P. Mathis, Frammento “Molajoli”, in Federico II e l’Italia cit., p. 242, n VI.1; ma anche Claussen, Creazione e distruzione cit.; V. Pace, Il “ritratto” e i “ritratti” di Federico II, in Federico II e l’Italia cit., pp. 5-14: 7.
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volontà di Federico II, certo la più famosa e più citata. A proposito dell’edificio, ultimo delle fondazioni castellane volute dallo svevo in quella parte dell’Impero che si identificava con il meridione d’Italia, e da lui fatto erigere, nei primi anni Quaranta, apud Sanctam Mariam de Monte, nel territorio di Andria, vorrei ricordare, oggi, solo il carattere di alta rappresentatività, che ha un corrispettivo soltanto in Castel Maniace in Sicilia59, ma anche il fascino straordinario e, non ultimo, le rilevanti valenze simboliche. Ebbene, Castel del Monte, dopo un breve periodo di fortuna tra Federico e Manfredi, visse vicende alterne, mai tuttavia commisurabili al ruolo che l’imperatore gli aveva assegnato: alla caduta degli Svevi, nel 1266, il castello venne adibito a carcere (Carlo I d’Angiò vi avrebbe imprigionato i figli di Manfredi, Federico, Enrico ed Enzo); con tali funzioni passò agli Aragona di Napoli nella prima metà del Quattrocento; nel 1495 Ferdinando d’Aragona vi soggiornò prima di essere incoronato a Barletta, quasi a richiamo al mito dello Svevo che Castel del Monte continuava a rispecchiare; fu proprietà, nei secoli successivi, di nobili famiglie pugliesi che lo usarono come rifugio, in occasione di pestilenze e turbolenze politiche; infine, abbandonato già nel secolo XVIII, divenne oggetto di spogli e devastazione. Il resto è storia dei nostri giorni60. Destino peggiore ebbero due fondazioni federiciane di pari rilievo: il palazzo di Foggia61; la porta-arco di trionfo di Capua. Della residenza imperiale, fondata, intorno al 1223, all’indomani del trasferimento in Capitanata della capitale del Regno e di cui le cronache (se pure in riferimento ad anni successivi)62 narrano l’imponenza della costru59
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S. A. Alberti, Siracusa. Il Castello Maniace, in Federico e la Sicilia dalla terra alla corona. Archeologia e architettura. Catalogo della mostra (Palermo 16 dicembre 1994-30 maggio 1995), cur. C.A De Stefano - A Cadei, Palermo 1995, pp. 377-408. 60 Della bibliografia relativa a Castel del Monte, ampia ma non sempre significativa, si può proporre solo una selezione. Per un’inquadratura a carattere generale, in rapporto all’architettura del periodo federiciano, A. Cadei, s.v. Federico II, Imperatore. Architettura e scultura, in Enciclopedia dell’arte medievale, VI, Roma 1995, pp. 104-125. Prendendo le mosse dagli studi promossi in occasione dell’ottavo centenario della nascita di Federico, si può citare R. Licinio, Federico II e gli impianti castellari, in Federico II e l’Italia cit., pp. 6368; Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II, cur. R. Licinio, Modugno (Bari) 2001; Castel del Monte. Un castello medievale, cur. R. Licinio, Bari 2002. Da ultimo cfr. lo studio monografico di M. Losito, Castel del Monte e la cultura arabo-normanna in Frederico II, Bari 2003 (Acta et monumenta); e ancora G. Musca, Castel del Monte. Il reale e l’immaginario, Bari 2006 (Quaderni del Centro di Studi Normanno Svevi, 1). 61 F. Resta, Il portale del Palazzo di Foggia, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 234-237. 62 Cfr. in proposito A. Haseloff, Architettura sveva nell’Italia meridionale, Bari 1992, pp. 68-73 (ed. originale Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920).
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zione e la preziosità dell’arredo, non rimangono oggi che i resti del portale [Fig. 17]. Sopravvive forse l’arco, scolpito con un raffinato motivo a foglie di acanto e sorretto ai lati da aquile stanti (ma la struttura a pieno sesto contrasta con la geometria archiacuta e lunata dei portali federiciani: penso a Castel Del Monte, al castello di Bari o a quello di Gioia del Colle); con certezza soltanto la lastra marmorea incisa con un’epigrafe in versi che celebra Federico, Caesar et imperator - e insieme la città di Foggia, regalis sedes, inclita, imperialis -, che ricorda la data di fondazione (anno ab incarnatione MCCXXIII[…]) e riporta il nome del protomagister Bartholomeus al quale si deve la direzione dei lavori63. Della porta capuana, vero e proprio testamento ‘in pietra e in marmo’ dell’ideologia federiciana, si è già detto: vorrei solo aggiungere che, ormai fatiscente per l’abbandono seguito alla caduta della dinastia sveva, fu vittima della furia iconoclasta delle truppe del vicerè spagnolo di Napoli nel 155764. Della struttura architettonica, demolita quasi a fundamentis, restano in piedi solo i basamenti dei due torrioni laterali [Fig. 18]; mentre sono sopravvissuti, salvati dalla rovina e conservati oggi nel Museo Nazionale campano di Capua, alcuni dei pezzi più significativi di quella mirabile popolazione di statue che ne animava, insieme alla scrittura esposta e in una totale identificazione con l’antico, la facciata settentrionale, rivolta verso i territori del Patrimonium Sancti Petri, quasi a ostentare la sfida nei confronti del potere papale. Sopravvivono il già citato ritratto acefalo di Federico in trono [Fig. 19], i busti dei due logoteti imperiali [Fig. 11], la testa monumentale della Iustitia [Fig. 12], alcune delle antefisse che animavano le basi ottagonali marmoree dei torrioni laterali [Fig. 20]; e ancora numerosi e notevoli frammenti erratici che richiamano esplicitamente la scultura architettonica di altri monumenti federiciani, come il castello di Lagopesole o Castel del Monte65 [Figg. 21 e 22]. Meno significative e certo più rarefatte le testimonianze pittoriche di età federiciana. Solo una - i pannelli dipinti sulla facciata del duomo di Cefalù66 -, come si è detto perduta, è ricollegabile alla volontà dello Svevo; altre due, opere con tutta probabilità coincidenti cronologicamente, gli furono offerte, come prezioso atto d’omaggio, da committenti di parte ghi-
63 Il testo dell’epigrafe (che andrebbe riletto e integrato) in Resta, Il portale cit., p. 234. 64 Cfr. supra, nota 42. 65 Per i quali cfr. M.S. Calò Mariani, Castel del Monte. La veste ornamentale, in
Federico II. Immagine e potere cit., pp. 305-311; Claussen, Scultura figurativa federiciana, in Federico II e l’Italia cit., pp. 93-102 66 Cfr. supra, nota 20.
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bellina. La prima [Fig. 23] è un frammento, ambiguo e intrigante, sopravvissuto sotto vari strati di intonaco su una delle pareti di palazzo Finco a Bassano del Grappa, e parte di un ampio programma figurativo voluto molto probabilmente da Ezzelino da Romano, in previsione del passaggio in città di Federico II accompagnato dalla terza moglie, Isabella d’Inghilterra67; dell’altra [Fig. 24], il tempo, ma anche una forma estrema di damnatio memoriae, avevano innescato il rinvio a nuovi significati, obliterando quello originario, che solo di recente è stato recuperato e riproposto68. La parete meridionale di un grande loggiato addossato oggi sul lato nord del palazzo abbaziale di San Zeno, a Verona – dove Federico fu accolto con tutti gli onori in numerose occasioni tra il 1236 e il 123969 – propone un corteo multietnico [Figg. 25-26], e, in questo senso, straordinario; solenne e al tempo animato, esso è composto da ventotto personaggi, tutti sufficientemente caratterizzati per l’abbigliamento e la fisionomia, che convergono verso l’immagine imperiale in trono [Fig. 27]. La composizione è dominata da una straordinaria decorazione [Fig. 28] a intrecci di girali all’antica abitati, come nei fregi dei manoscritti miniati dalla fantasia degli artisti gotici, da presenze antropozoomorfe; in basso una fascia con scene di caccia [Fig. 29] richiama la passione venatoria dello Svevo e insieme identifica, forse, il significato riposto dell’intero affresco nella eterna lotta tra il Bene e il Male, di cui l’imperatore rappresenta il supremo giudice. Occultato nel corso dei rifacimenti dei quali è stata fatta oggetto la torre abbaziale, riemerso in seguito a restauri novecenteschi, fu variamente interpretato: come il generico omaggio dei popoli della terra a un imperatore70, oppure, più di recente, come l’omaggio a Salomone della regina di Saba71 (ma la figura inginocchiata, che dovrebbe raffigurare la regina di Saba indossa ad evidenza un abbigliamento maschile). Una tesi, infine, ampiamente documentata72, collega oggi l’affresco a Federico, imperatore 67
M.E. Avagnina, Un inedito affresco di soggetto cortese a Bassano del Grappa: Federico II e la corte dei Da Romano, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 104-111. 68 F. Zuliani, Gli affreschi duecenteschi del palazzo abbaziale di San Zeno: un allestimento cerimoniale per Federico II, in La torre e il palazzo abbaziale di San Zeno, Verona 1992, pp. 58-65; G.P. Marchi, Storie di Davide e di Salomone in affreschi del canonicato e della torre di San Zeno di Verona, «Arte Cristiana», 82 (1994), pp. 169-176; Zuliani, Gli affreschi del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona, in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 112115. 69 Ibid., p. 114. 70 G. Gerola, L’affresco della torre di San Zeno a Verona, «Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione», 7 (1927), pp. 241-259. 71 Marchi, Storie di Davide e di Salomone cit.. 72 Da ultimo Zuliani, Gli affreschi del palazzo abbaziale cit.
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del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme, al quale rendono onore le popolazioni del vicino Oriente, antico e medievale. La damnatio, dunque, in molti casi, determina per le opere lo status di rovina; frutto talora di un’abile regia, ne determina anche la perdita di significato o lo straniamento dal senso originario. Nel caso di manufatti, come quelli, di mirabile fattura e preziosi per i materiali (dall’oreficeria alle stoffe agli smalti, agli oggetti di arte suntuaria in generale), riconducibili alle nobiles officinae imperiali73 oppure importati da contesti diversi, in Italia e in Europa, in qualche caso recuperati dal passato antico e medievale, la damnatio significò la dispersione, a non molta distanza dalla morte dell’imperatore; spesso la riutilizzazione, da parte di collezionisti di prestigio, anche in rapporto al loro alto valore simbolico, in contesti nuovi e originali. Due esempi potranno bastare. Il primo è un cammeo, in sardonica a due strati, raffigurante Federico II74 in trono, fregiato degli attribuiti regali secondo l’iconografia che connota i sigilli imperiali [Fig. 30]: disperso in seguito all’alienazione del tesoro degli Svevi, fu inserito nel braccio inferiore di una croce reliquiario, fatta realizzare e offerta da Carlo IV al duomo di Praga, a una data appena posteriore al 135475. Il secondo [Fig. 31] è una sardonica, raffigurante una singolare scena di incoronazione, di sorgente classica76. Anch’essa dispersa, dopo la caduta degli Svevi, venne riutilizzata, secondo la testimonianza di un inventario del 1564, come gemma centrale della Croix aux camées, donata da Jean de Berry alla Sainte-Chapelle di Bourges, anteriormente al 1416. Ma facciamo un passo indietro e avviamoci alla conclusione. A Vittoria, ancora vivo Federico, era iniziata la prima ‘dispersione’ del tesoro imperiale. Tra gli spolia dei vincitori, era la corona imperiale, ma anche il manoscritto in due volumi del De arte venandi cum avibus, il libro di caccia che l’imperatore aveva composto personalmente e fatto scrivere
73 Nobiles Officinae. Perle, filigrane e trame di seta dal Palazzo Reale di Palermo. Catalogo della mostra (Palermo, Palazzo dei Normanni, 17 dicembre 2003 - 10 marzo 2004), cur. M. Andaloro, Catania 2003. 74 Praga, Tesoro del duomo. 75 P.E. Schramm - F. Mütherich, Denkmale der Deutschen Könige und Kaiser. Ein Beitrag zur Herrschergeschichte von Karl den Grossen bis Friedrich II. 768-1250, in Veröffentlichungen des Zentral-instituts für Kunstgeschichte in München, II, München 1962, p. 191, n. 202; da ultimo E. Bassan, Cammeo con Federico II in trono, in Federico e l’Italia cit., pp. 185-186. 76 Parigi, Musée du Louvre, Département des Objets d’art, MR 80; E. Bassan, Scena di incoronazione, forse di Federico, in Federico e l’Italia cit., pp. 252-253 (con bibliografia).
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e miniare per il figlio Manfredi [Fig. 32], in cui si realizza ai massimi livelli l’identificazione intrinsecamente umanistica tra bellezza e utilità che l’imperatore aveva esplicitamente teorizzato77 [Fig. 33]. Una testimonianza dell’epoca offre notazioni preziose su quello che doveva essere l’aspetto dello straordinario libro di caccia dello svevo. Si tratta della lettera con cui il mercante milanese Guglielmo Bottazio (o Bottiato), accompagna un codice inviato in dono a Carlo d’Angiò: un prezioso libro in due volumi che era stato di proprietà di Federico imperatore, scrive il Bottazio al sovrano angioino, tanto splendido che egli non riesce a trovare parole adeguate a descriverne la bellezza78. Impreziosito, com’era, da immagini miniate in argento e in oro e da fregi che scandivano la divisione in capitoli, nobilitato dal ritratto dell’imperatore in maestà, era destinato ad ammaestrare il lettore alla conoscenza del mondo degli uccelli e dell’arte venatoria, attraverso un ricco corredo figurativo, che correva sui margini delle pagine raffigurando volatili e cani da caccia. Lo splendido esemplare, rimasto dunque in circolazione nei decenni immediatamente successivi alla morte dell’imperatore e forse ancora, in area francese, fino alla prima metà del Trecento, scompare poi definitivamente, lasciando dietro di sé la scia luminosa, come mitica cometa di Halley, di una tradizione preziosa ma limitata, in cui il testimone conservato in Vaticano, nel fondo Palatino, rappresenta l’apografo79.
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77 L’Encyclica Friderici Romanorum imperatoris qua magistris in philosophia docentibus libros quosdam sermoniales et mathematicos, ab Aristotele aliisque philosophis sub graecis et arabicis vocabulis conscriptos, nunc in latinum ipso curante translatos, mittit, è pubblicata da Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi cit., pp. 383-385 (la citazione a p. 384). Si cfr. anche C.H. Haskins, Studies in the History of Mediaeval Science, New York 19603, p. 270; F. Mütherich, Handschriften im Umkreis Friedrichs II., in Probleme um Friedrich II., cur. J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974 (Vorträge und Forschungen. Konstanzer Arbeitskreis für Mittelalterliche Geschichte, 16 - Studien und Quellen zur Welt Kaiser Friedrichs II., 4), pp. 9-21: 9. 78 È molto probabile che l’esemplare depredato a Vittoria si possa identificare con lo splendido «librum de avibus et canibus bone recordationis olim domini FR. [Fridericus] gloriosi Romanorum imperatoris [...] cuius pulcritudinis et valoris admirationem lingua prorsus non sufficeret enarrare; auri enim et argentis decore artificiose politus et imperatorie maiestatis effigie decoratus», donato dal milanese Guglielmo Bottasio a Carlo d’Angiò, nel 1264-1265 (la lettera di accompagnamento è riportata da Haskins, Studies cit., pp. 308-309). Si cfr. anche G. Orofino, Il rapporto con l’antico e l’osservazione della natura nell’illustrazione scientifica di età sveva in Italia meridionale, in Intellectual Life cit., pp. 129-149: 131. 79 Per il quale si veda Fredericus II De arte venandi cum avibus. Ms. Pal. lat. 1071, Biblioteca Apostolica Vaticana, ed. in facsimile e commentario di C.A. Willemsen, Graz 1969 (Codices e Vaticanis selecti, 31). Il codice Palatino 1071 della Biblioteca Apostolica Vaticana rappresenta, come è noto, una copia fedele dei primi due libri dell’originale dell’opera redatta dallo stesso Federico, originale scomparso nel saccheggio di Vittoria nel
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A Federico fu riconosciuta nei secoli una reputazione di grande falconiere e di conoscitore profondo delle scienze naturali, e il suo nome, citato talvolta come referente autorevole, si incontra nei trattati di falconeria80; il De arte venandi cum avibus, invece, restò inspiegabilmente senza eco nella trattatistica cigenetica, che pure risentì della modernità della sua lezione, in cui, con un forte richiamo alla tradizione aristotelica, veniva esaltato il valore dell’esperienza e dell’osservazione. Ed è anche questo, credo, un paradigma, estremo, dell’oblio.
1248, mentre Federico era a caccia nella valle acquitrinosa del Taro. Più in generale, sul carattere empirico dello studio delle specie animali da parte dell’imperatore svevo quale emerge dal De arte venandi, cfr. Haskins, La rinascita del XII secolo, Bologna 1972 (Saggi, 117) (ed. orig. Harvard 1927), pp. 281-283. 80 Approfondisce il problema B. Van den Abeele, Federico II falconiere: il destino del «De arte venandi cum avibus», in Federico II. Immagine e potere cit., pp. 376-383.
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Fig. 2. - Bern, Burgerbibliothek, codex 120 II, Pietro da Eboli, Carmen de rebus Siculis, f. 141r
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Fig. 3. - Bern, Burgerbibliothek, codex 120 II, Pietro da Eboli, Carmen de rebus Siculis, f. 139r
Fig. 4b. - Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Ross. 379, Pietro da Eboli, De balneis Puteolanis, f. 48r
Fig. 4a. - Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1474, Pietro da Eboli, De balneis Puteolanis, f. 19v
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Fig. 5. - Bitonto, cattedrale, pulpito
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Fig. 6. - Bitonto, cattedrale, pulpito, iscrizione
Fig. 7. cattedrale, particolare
Bitonto, pulpito,
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Fig. 8. - Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1474, Pietro da Eboli, De balneis Puteolanis, ff. 16v-17r, balneum Imperatoris
Fig. 9. - Capua, Museo Provinciale Campano, disegno a penna e lapis, Andrea Mariano, proposta ricostruttiva della Porta di Capua
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Fig. 10. - Biblioteca Apostolica Vaticana, Album di Seroux d’Agincourt, Federico II in trono
Fig. 11. - Capua, Museo Provinciale Campano, busti di Taddeo da Sessa e Pier della Vigna
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Fig. 13. - Barletta, Museo civico, busto di Federico II
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Fig. 12. - Capua, Museo Provinciale Campano, testa marmorea monumentale, la Giustizia o la Capua fidelis
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Fig. 14. - Bitonto, collezione privata, frammento di testa laureata
Fig. 15. - Bari, Pinacoteca Provinciale, frammento Molajoli
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Fig. 16. - Castel del Monte
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Fig. 17. - Foggia, Museo Provinciale, frammenti Fig. 18. - Restituzione dell’alzato e della del portale del Palazzo imperiale pianta della Porta di Capua
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Fig. 19. - Capua, Museo Provinciale Campano, frammento di statua, Federico II in trono
Fig. 20. - Capua, Museo Provinciale Campano, antefisse (dalla Porta di Capua)
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Fig. 22. - Capua, Museo Provinciale Campano, mensola con figura di adolescente (dalla Porta di Capua)
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Fig. 21. - Capua, Museo Provinciale Campano, mensola con aquila (dalla Porta di Capua)
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Fig. 23. - Bassano del Grappa, Palazzo Finco, Scena cortese
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Fig. 24. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore
Fig. 25. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore (part.)
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Fig. 26. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore (part.)
Fig. 27. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore (part. del ritratto imperiale)
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Fig. 28. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore (part. con decorazione)
Fig. 29. - Verona, Palazzo abbaziale di San Zeno, loggiato, Omaggio all’imperatore (part. con decorazione)
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Fig. 30. - Praha, Tesoro della cattedrale, cammeo con Federico II in trono - Archivio Segreto Vaticano, bolla d’oro di Federico II, dritto
Fig. 31. - Paris, Musée du Louvre, cammeo con scena d’incoronazione
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Fig. 32. - Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Pal. lat. 1071, f. 1v
Fig. 33. - Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Pal. lat. 1071, ff. 15r e 69r
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Josef Deér in memoriam*
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Gli anni 2008-2010 offrono occasione di riflessione sulla ‘memoria’ storica di papato e concili – nella breve e lunga durata1. Esattamente cinquant’anni fa venne eletto papa Angelo Roncalli, che prese il nome di Giovanni XXIII e convocò il Concilio Vaticano II. Scelta del nome e convocazione del Concilio sollecitano il ricordo del suo omonimo predecessore: seicento anni fa, nel 1408, i cardinali dell’obbedienza romana e di quella avignonese, costituitesi trent’anni prima con l’elezione di Clemente VII contro Urbano VI, convocarono un “concilio di unione”. Tale concilio poté riunirsi a Pisa nel 14092, depose i due “pretendenti”, Gregorio XII e Benedetto XIII, dopodiché il collegio cardinalizio ‘unificato’ elesse un nuovo papa,
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* Precisamente cinquant’anni fa veniva pubblicato: J. Deér, The dynastic porphyry tombs of the Norman period in Sicily, transl. from the German by G. A. Gillhoff, Cambridge, Mass. 1959. 1 Si pubblica con leggere varianti il testo della relazione letta ad Ascoli. Per questo ho rinunciato a un apparato bibliografico dettagliato, per indicare solo la bibliografia più recente, nella quale si può comodamente ritrovare la letteratura precedente. Altrettanto vale per la riproduzione delle immagini dal Battistero di Firenze, facilmente recuperabili in due lavori fondamentali: R.W. Lightbown, Donatello & Michelozzo: an artistic partnership and its patrons in the early Renaissance, 2 voll., London 1980, prima del restauro, con espressive fotografie in B/N; e Il battistero di San Giovanni a Firenze, cur. A. Paolucci, Modena 1994 (Mirabilia Italiae, 2), dopo il restauro e a colori. Per la tematica nel suo complesso, resta imprescindibile: J. Pope-Hennessy, An Introduction to Italian Sculpture, 3 voll., London 19964 (per il Cossa in particolare: II. Italian Renaissance Sculpture). Nonostante l’understatement tipicamente inglese che ispira il titolo, l’opera, frutto di una revisione quarantennale nel corso di quattro edizioni (dal 1955), offre le coordinate storico-artistiche in cui collocare il monumento sepolcrale del Cossa ed è indispensabile per una sua valutazione ponderata. Dopo la morte dell’autore nel 1994 ne è uscita un’edizione paperback: New York 2000-2002. 2 Una sorta di anticipazione del centenario è costituita dal volume: Die Konzilien von Pisa (1409), Konstanz (1414-1418) und Basel (1431-1449). Institutionen und Personen, cur. J. Helmrath - H. Müller, Sigmaringen 2007 (Vorträge und Forschungen, 67).
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Alessandro V, e quindi, alla sua morte, nel 1410, il legato a Bologna, Baldassare Cossa. Questi prese il nome di Giovanni XXIII; per risolvere lo scisma perdurante, egli convocò in accordo con il re dei Romani, Sigismondo, un concilio a Costanza, che però giunse a deporre anche lui. Prima di trattare della sua damnatio nel contesto eccezionale dell’età conciliare, un piccolo omaggio al genius loci. Nell’ entourage del Cossa si possono individuare alcuni Ascolani3; uno di essi, Pietro Vanni, fu attivo fra l’altro a Roma già negli anni Ottanta del Trecento come chierico camerario – Francesco Novati gli dedica uno svelto, pungente ritratto come “corrispondente” del Salutati. Giovanni degli Innamorati fu promosso nel 1389 in diritto canonico a Bologna, all’epoca degli studi universitari del Cossa: un suo trattato conservato in una miscellanea vaticana ne confermerebbe l’insegnamento all’università di Perugia. Al pari di Cesare Guasti nel commento a una delle “Commissioni di Rinaldo degli Albizzi”, Novati riteneva di poterlo individuare durante la legazione del Cossa a Bologna; ma si tratta probabilmente di una confusione con un altro Giovanni, il de Trivianis, anch’egli citato nelle fonti come “Giovanni da Ascoli”: costui fu con sicurezza uno dei notai redattori dei Capitoli della lega fra Firenze, Siena, Cossa e Louis II d’Anjou nell’estate del 14094, e divenne uno dei segretari del Cossa pontefice, accanto a Leonardo Bruni; di suo pugno si conservano due brevi papali in originale, da lui integralmente redatti – altrettanti sono quelli del più famoso collega Bruni5. Ascoli figura anche nella convenzione del 1412 fra Ladislao di Napoli e Giovanni XXIII: questi sottrasse la città alla legazione delle Marche, cedendola a Ladislao, il quale poi la conferì al suo condottiero Conte da Carrara6. Ad un legame ancora più interessante con la città picena accennerò parlando del monumento funebre del Cossa. Per presentare la damnatio che riguarda quest’ultimo ho preparato due tabelle: la prima mostra nella parte superiore tutti i papi del Grande 3 Bernardo Carfagna ne ha individuato e riprodotto gli stemmi: Il lambello, il monte e il leone: storia e araldica della città di Ascoli e della Marchia meridionale tra Medioevo e fine dell'Ancien Régime, Ascoli Piceno 2004. 4 Le varie Leghe degli anni 1408-1409 e le varianti presenti nella tradizione manoscritta, non solo d’importanza filologica, ma dotate di precisa valenza politica, verranno discusse nel loro insieme nella monografia sul Cossa che ho in preparazione: nel 1408 rappresentante del Cossa a Firenze fu un altro Giovanni, questa volta da Montepulciano: Giovanni di Piendibene, suo segretario, il quale va distinto dall’omonimo e contemporaneo Giovanni (Bindotii) da Montepulciano, segretario di Gregorio XII. 5 K.A. Fink, Untersuchungen über die päpstlichen Breven des 15. Jahrhunderts, «Römische Quartalschrift», 43 (1935), p. 62. 6 Su Conte da Carrara, v. la monografia di Antonio Rigon, in preparazione.
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Tabella 1: Papi del “Grande Scisma d’Occidente” e successori con il medesimo nome Urbano VI
8 apr. 1378-1389
Clemente VII
20 set. 1378-1394
Bonifacio IX
1389-1404
Benedetto XIII
1394 †1423 1404-1406
Innocenzo VII Gregorio XII
1406 †1417 1409-1410
Alessandro V Giovanni XXIII
1410 1417
†1419
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Martino V …
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Innocenzo VIII
1484
Alessandro VI
1492
Clemente VII
1523
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Gregorio XIII
…
1572
…
Urbano VII
1590
Benedetto XIII
1724
Giovanni XXIII
1958
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…
…
…
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Scisma d’Occidente in ordine strettamente cronologico, da Urbano VI fino a Martino V, e fino a Clemente VIII/Benedetto XIV7. Ho espressamente evitato la collocazione in serie parallele: la distinzione dell’obbedienza è 7
Per tutti questi papi, v. il Dizionario Biografico degli Italiani e l'Enciclopedia dei papi, sub voce. Per i presunti “antipapi” assenti da tali opere, si v. il Lexikon für Theologie und Kirche, nella nuova edizione. Su Baldassarre Cossa/Giovanni XXIII, alla cui biografia attendo, si v. intanto: F.-Ch. Uginet, Giovanni XXIII antipapa (!), in Dizionario Biografico degli Italiani, 55, Roma 2000, pp. 621-627, voce seguita immediatamente da quella dedicata a Giovanni XXIII papa (cioè Angelo Roncalli). Cfr. il profilo quasi identico, dello stesso autore, nell’Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 614-619, nella traduzione di H. Angiolini e con belle illustrazioni, compresa una riproduzione del monumento sepolcrale (p. 616). Un tentativo meno convenzionale di ricostruzione biografica da parte di H. Millet nel Dizionario storico del papato, diretto da Ph. Levillain, trad. di F. Saba Sardi, Milano 1996, pp. 661-663. Pur non condividendo alcuni giudizi dell’autrice (ad es. sul ruolo di Firenze, di Louis II d’Anjou e di Sigismondo), ritengo che la sua voce sia la più stimolante per il lettore come fonte d’informazione di base.
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segnalata solo da un piccolo rientro, perché anche le serie parallele suggeriscono un giudizio di legittimità. Per lo stesso motivo, per alcuni papi si è indicata non la fine del pontificato, la deposizione o la rinuncia, ma solo la morte, in quanto non ci interessa immediatamente la questione della legittimità – un problema di punti di vista che né i contemporanei né gli studiosi possono risolvere con il solo ricorso alle fonti storiche: anche dopo l’elezione di Martino V a Costanza lo scisma continuò nella penisola iberica, tacitamente sostenuto da Alfonso V, interessato alla successione nel regno di Napoli. Una soluzione provvisoria fu raggiunta tramite il legato di Martino V, Pierre de Foix, con il successore di Benedetto XIII, Clemente VIII (al secolo Gil Sanchez Muños), il quale rinunciò solo nel 1429, due anni prima della morte di Martino V, dopo aver ottenuto la cattedra di Maiorca. Anch’egli ebbe un successore in Bernard Garnier, che prese il nome di Benedetto XIV. Ciò mostra quanto a lungo la tradizione di “papa Luna” fu viva in Aragona, si può dire addirittura fino agli anni Venti del Ventesimo secolo, con la grande biografia di Puig y Puig8. Nella parte inferiore della tabella sono elencati i pontefici che nel corso del tempo adottarono il nome dei papi dello Scisma, con il numero ordinale e l’anno di elezione. I risultati parlano da soli. Il primo che riprende un nome dell’obbedienza romana è Innocenzo VIII, a ottant’anni dalla morte del VII. E immediatamente dopo, il famoso papa Borgia, Alessandro VI, recupera il nome del pio Pietro de Candi(d)a, frate minore, che era stato il primo papa cosiddetto “pisano”. A distanza di trent’anni Giuliano de Medici assume il nome di Clemente VII e così elimina il precedente omonimo, Roberto di Ginevra (appunto Clemente VII), primo papa di obbedienza avignonese. Si realizza così, dopo un secolo e mezzo, la prima “damnatio memoriae”: cancellato il nome, si cancella il papa. Nel 1572 Gregorio XIII si collega al “romano” Gregorio XII, così come, vent’anni dopo, Urbano VII al VI, anche questi dell’obbedienza “romana” – siamo all’epoca del concilio di Trento. Poco più di un secolo dopo si realizza la seconda “damnatio” di un papa avignonese: nel 1724 un 8
S. Puig y Puig, Pedro de Luna. Último papa de Aviñon (1387-1430), Barcelona 1920, studio ponderoso e dotato di una ricca appendice documentaria. Dopo A. Glasfurd, The Antipope (Peter de Luna, 1342-1423). A Study in Obstinacy, London 1965, che purtroppo ha avuto una ricezione limitata, un breve ritratto con bibliografia aggiornata offre W. Brandmüller, Benedikt XIII., in Lexikon des Mittelalters, I, München 1980, coll. 1862-1864 e Brandmüller, Das Konzil von Konstanz 1414-1418, 2 voll., Paderborn-München-WienZürich 1991 e 1997 (2a ed. del I vol. nel 1999). Su Benedetto XIII dopo il concilio di Costanza cfr. anche, dalla “scuola” di Brandmüller, J. Grohe, Die Synoden im Bereich der Krone Aragón von 1418 bis 1429, Paderborn-München-Wien-Zürich 1991.
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Orsini di Gravina riprende il nome e l’ordinale del Luna, cioè Benedetto XIII - suo braccio destro fu il cardinale Niccolò Cossa, un tardo parente del pontefice di cui tratteremo. Ed eccoci a Baldassarre Cossa/Giovanni XXIII: la sua “damnatio”, ultima della serie, avviene nel 1958, quasi cinque secoli e mezzo dalla sua morte, con l’adozione del suo nome da parte del citato Angelo Roncalli. Negli anni Sessanta, negli ambienti dell’Istituto storico germanico di Roma si raccontava il seguente aneddoto: quando nella loggia di S. Pietro fu proclamato il nome del nuovo papa, tra la folla in piazza S. Pietro c’era anche un gruppetto di studiosi tedeschi, e quando fu annunciato il nome del neoeletto, Karl August Fink gridò: «Falsch, falsch, Johannes der XXIV.!»9. Fink lo sapeva bene, visto che dagli anni Trenta operava a Roma come redattore del Repertorium Germanicum di Martino V e sarebbe poi stato autore del capitolo sullo Scisma e sui “Reformkonzilien” nella grande Storia della Chiesa edita da Hubert Jedin, al tempo del Concilio Vaticano II. Appunto il Vaticano II avrebbe reso attuale la problematica conciliare – si pensi a Y. Congar, P. De Vooght10, G. Alberigo e alle due grandi Festschriften del 1964, nel 550° anniversario dell’apertura del concilio di Costanza11. In Francia si pubblicava allora la Storia della Chiesa di FlicheMartin, in Germania Hubert Jedin realizzava il progetto citato e delineava una nuova collana di “Storia dei concili”, affidata a specialisti delle diverse epoche, appartenenti a diverse confessioni e legati a diversi Istituti di ricerca, da impegnare nella raccolta delle fonti archivistiche anche locali. Il piano di Jedin fu concretizzato dopo la sua morte da Walter Brandmüller, oggi presidente della Commissione pontificia per le scienze storiche e autore, nella collana, dei volumi sui concili di Pavia-Siena e di Costanza, anche con un nuovo approccio alla figura di papa Cossa. Non era stato questo il primo tentativo. Già all’epoca del concilio Vaticano I, novant’anni prima, un altro prelato, Karl Joseph Hefele, vescovo di Stuttgart/Rottenburg e docente di Storia della Chiesa a Tubinga, aveva scritto una monumentale storia dei concili, tradotta in francese e 9 Comunicazione di Erich 10 A Congar e De Vooght
Meuthen. si aggiungono fra gli altri J. Gill, G. Fransen, R. Aubert: Le Concile et les conciles. Contribution à l’histoire de la vie conciliaire de l’Église, Chevetogne 1960. 11 Das Konzil von Konstanz. Beiträge zu seiner Geschichte und Theologie. Festschrift unter dem Protektorat seiner Exzellenz des Hochwürdigsten Herrn Erzbischofs Dr. Hermann Schäufele im Auftrage der theologischen Fakultät der Universität Freiburg im Breisgau, cur. A. Franzen - W. Müller, Freiburg-Basel-Wien 1964. Die Welt zur Zeit des Konstanzer Konzils. Reichenau-Vorträge im Herbst 1964, hrsg. vom Konstanzer Arbeitskreis für mittelalterliche Geschichte Konstanz, Stuttgart 1965.
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aggiornata negli anni Venti da Dom Leclercq. All’università di Tubinga aveva conseguito il titolo di dottore nel 1888 pure il grande storico del concilio di Costanza Heinrich Finke, con una dissertazione sulla politica dell’imperatore Sigismondo. Durante le sue ricerche in Spagna per gli Acta Aragonensia12, egli aveva trovato anche fonti spagnole fino ad allora ignote sul concilio di Costanza, sicché tra gli anni 1896-1928 poté pubblicare in quattro grossi tomi i documenti del concilio (Acta concilii Constantiensis), compresi i protocolli del processo al Cossa, il cosiddetto diario di uno dei protagonisti degli avvenimenti, il cardinale Guillaume Fillastre le vieux13, e importante materiale sia per le premesse e i preparativi, risalenti fino al concilio di Pisa, sia per l’epoca successiva alla deposizione del Cossa. Al quarto e ultimo volume dell’opera avrebbe collaborato fra gli altri Hermann Heimpel14, autore di una biografia su Dietrich von Nieheim, che era stato testimone oculare e il primo a scrivere sulla vita del Cossa. Più tardi, a Göttingen, Heimpel avrebbe concluso anche un ampio studio su Job Vener von Gmünd15, consigliere di Roberto re dei Romani (Ruprecht von der Pfalz), il sostenitore di Gregorio XII che aveva contribuito, insieme con Carlo Malatesta, alle discussioni sulla procedura di rinuncia al pontificato all’epoca dei concili di Pisa-Costanza. Sulla scia di Heimpel a Göttingen si sono mossi Arnold Esch, biografo di Bonifacio IX16, e Dieter Girgensohn, che ora ha pubblicato nella collana fondata da Heimpel due volumi su Gregorio XII e Venezia17 e ha in preparazione studi sui concili di Perpignan, Cividale e Pisa nella collana di Brandmüller.
12 Meno noti in Italia: H. Finke, Nachträge und Ergänzungen zu den Acta Aragonensia (I-
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III), Gesammelte Aufsätze zur Kulturgeschichte Spaniens, voll. IV, VII, Münster 1933, 1938. 13 Sul Fillastre cfr. Humanisme et culture géographique à l'époque du Concile de Constance autour de Guillaume Fillastre. Actes du colloque de l'Université de Reims, 18 19 novembre 1999, cur. D. Marcotte, Turnhout 2002. Su suo figlio, Guillaume Fillastre le jeune, M. Prietzel, Guillaume Fillastre der Jüngere (1400/07-1473). Kirchenfürst und herzoglich-burgundischer Rat, Stuttgart 2001 (Beihefte der Francia, 51). 14 Sull’opera di Finke e sulla sua collaborazione con Heimpel, cfr. A. Frenken, Die Erforschung des Konstanzer Konzils 1414-1418 in den letzten hundert Jahren, «Annuarium historiae conciliorum», 25 (1993) (= Dissertation Köln 1994). 15 H. Heimpel, Dietrich von Niem. c. 1340-1418, Münster Westf. 1932 (Westfälische Biographien, 2); Heimpel, Die Vener von Gmünd und Strassburg 1162-1447. Studien und Texte zur Geschichte einer Familie sowie des gelehrten Beamtentums in der Zeit der abendländischen Kirchenspaltung und der Konzilien von Pisa, Konstanz und Basel, Göttingen 1982, (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 52). 16 A. Esch, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 29). 17 D. Girgensohn, Kirche, Politik und adlige Regierung in der Republik Venedig zu Beginn des 15. Jahrhunderts, Göttingen 1996 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts
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Su questo sfondo storiografico, la seconda tabella ci avvicina al personaggio. Giovanni XXIII non ha trovato finora un biografo moderno. A tutta prima ciò può destare sorpresa, giacché si dispone di un’ampia Vita contemporanea scritta dal citato Dietrich von Nieheim: De vita et fatis pape Johannis, disponibile nell’edizione settecentesca di Hermann von der Hardt18; Dietrich fu autore anche dei De scismate libri tres, editi da Gustav Erler nel secolo scorso19. La circostanza è tanto più sorprendente in quanto, rispetto a prelati/condottieri del Tre-Quattrocento come l’Albornoz, a prima vista e considerata dall’esterno la sua esistenza appare davvero singolare.
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Tabella 2: Baldassarre Cossa / Giovanni XXIII. Politica e “memoria”
† Giangaleazzo Visconti Card. S. Eustachio, Legato Bologna: Gozzadini, Barbiano/Cunio, Este, Manfredi, Malatesta, Ordelaffi, Polenta
1402 1403
Marseille Livorno; Concili di Perpignan, Cividale, Pisa (lega Firenze, Siena, Cossa, Louis II d’Anjou) Giovanni XXIII Bologna Roma (Roccasecca) “pace” Ladislao d’Angiò/Durazzo; Concilio di Roma; Como/Lodi Sigismund v. Luxemburg Konstanz “Haec sancta”, Hus, Gregorio XII, Benedetto XIII (Narbonne), “Frequens” Martino V (Pavia-Siena) Firenze: card. Tuscul., testamento
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… 1407 1408-9 1410 1411 1412-13 1414 1415-16 1417-18 1419 … 1422 … 1425 … 1427
“capella”
400 fiorini in deposito presso l’Opera di S. Giovanni
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Michelozzo/Donatello (catasto): Cossa Brancaccio Aragazzi
… 1431
800 fiorini/600 spesi 800 fiorini/300 ricevuti ? fiorini/100 ricevuti
† Martino V
für Geschichte, 118). Nella ricca bibliografia anche i numerosi saggi dell’autore sull’insieme dei tre concili di Pisa, Cividale e Perpignan. 18 H. von der Hardt, Magnum Constanciense Concilium, I-VII, Francofurti-Lipsiae 1696-1742, II, p. 336-460. 19 E. Erler, Theoderici de Nyem de Schismate libri tres, Lipsiae 1890. Le ricerche di Erler sull’epoca del concilio di Pisa rimasero incompiute, ma il suo materiale passò a Johannes Vincke, l’autore delle tre raccolte di fonti che costituiscono tuttora la base documentaria per il concilio pisano: J. Vincke, Acta concilii Pisani, «Römische Quartalschrift», 46 (1938), pp. 81-331; Vincke, Briefe zum Pisaner Konzil, Bonn 1940 (Beiträge zur
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Nato alla metà del Trecento nel regno di Napoli, da una famiglia di navigatori e armatori stabilitasi sull’isola d’Ischia, Cossa andò a studiare diritto in quell’università ricca di tradizione che era Bologna. Alla curia del conterraneo Bonifacio IX – dal 1378 vi era un papa a Roma e uno ad Avignone – divenne cubiculario, arcidiacono bolognese e poi cardinale nel 1402. L’anno dopo la morte di Giangaleazzo Visconti, gli fu affidata la legazione della Romagna, con sede a Bologna, incarico che richiedeva non solo capacità organizzative, ma anche fini doti politiche. In quella regione difatti s’intrecciavano gli interessi di Milano, Venezia e Firenze, cui si aggiungeva l’influenza della Francia, presente a Genova nella persona di Jean Le Maingre detto Boucicaut20. In tale costellazione Cossa s’avvicinò a Firenze, dal 1396 alleata di Carlo VI, le roi fou, sposato a Isabella di Baviera /Wittelsbach. La reggenza francese però da due anni, cioè dal passaggio di pontificato da Clemente VII a Benedetto XIII in Avignone, stava preparando una svolta nella sua politica ecclesiastica sotto la guida di Simon de Cramaud, patriarca d’Alessandria21, al fine di ottenere la rinuncia dei due pretendenti. Poiché Benedetto XIII e il suo oppositore romano, Gregorio XII, non intendevano rinunciare alla loro carica, alcuni cardinali delle due obbedienze, attraverso la diplomazia francese, grazie a un patto coi fiorentini riguardo al luogo di convocazione e col sostegno finanziario del Cossa si accordarono nel 1408 per un concilio, da tenere l’anno successivo a Pisa: qui vennero deposti entrambi i ‘pretendenti’ e fu eletto un nuovo papa, Alessandro V; dopo la morte precoce del quale, si aprì la strada al papato per il Cossa, che assunse il nome di Giovanni XXIII (1410). Optando per l’alleanza con Firenze e la Francia, Giovanni aveva preso una decisione gravida di conseguenze per il suo stesso futuro. Il ‘suo’ re, Ladislao d’Angiò-Durazzo, si vide minacciato, in quanto Louis II d’Anjou, di un ramo collaterale della dinastia dei re di Francia, gli contendeva il regno22.
Kirchen- und Rechtsgeschichte, 1); Vincke, Schriftstücke zum Pisaner Konzil: ein Kampf um die öffentliche Meinung, Bonn 1942 (Beiträge zur Kirchen- und Rechtsgeschichte, 3). 20 Il classico E. Jarry, Les origines de la domination française a Gênes (1392-1402), Paris 1896 non ha trovato, purtroppo, continuazione adeguata riguardo all’attività di Boucicaut a Genova dal 1402 al 1410; Boucicaut ebbe fra l’altro un peso decisivo nell’acquisizione di Pisa da parte di Firenze nel 1406. La ricerca sul personaggio è resa complicata dalla massa e dall’eterogeneità delle fonti relative. 21 De substraccione obediencie, ed. H. Kaminsky, Cambridge Mass. 1984 (Medieval Academy Books, 92); Kaminsky, Simon de Cramaud and the Great Schism, New Brunswick 1983 (cfr. in particolare il Preface, con forte accento sul ruolo della Realpolitik nella soluzione dello scisma). 22 Sul contesto, cfr. le recenti voci nel Dizionario Biografico degli Italiani, Ladislao e Luigi II (non inserite sotto d’Angiò come gli altri re!). Comunque indispensabile il classico
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La morte di Ladislao nell’estate del 1414 evitò la conquista dello Stato della Chiesa, base territoriale del papato “pisano” del Cossa, che, per contrastare Ladislao, aveva cercato contatti non solo con Louis II d’Anjou, ma anche in Ungheria con Sigismondo di Lussemburgo, antagonista di Venezia per la sua espansione in Dalmazia. Con quest’ultimo si accordò per la convocazione di un nuovo concilio al di là delle Alpi nell’ambito dell’Impero, a Costanza: già la scelta del luogo mostrerebbe il ruolo giocato da Sigismondo. Dal momento del suo arrivo a Costanza nel Natale del 1414, la posizione del Cossa si deteriorò in modo drammatico: dopo l’inizio del concilio si aprì una discussione sulla legittimità dei papi esistenti, che si concluse con la richiesta della rinuncia anche da parte del Cossa. Questi ritenne di potersi sottrarre a quel passo solo con la fuga in direzione della ‘Borgogna’. Ma le sue possibilità d’azione vennero limitate dagli avvenimenti di politica interna francese a seguito dell’assassinio del duca d’Orléans: si era nel pieno delle lotte intestine in conseguenza della guerra dei Cent’anni. Così Giovanni venne deposto e tenuto in custodia nella Germania meridionale, ritornando libero dopo le trattative del 1418 e l’impegno finanziario da parte di mercanti fiorentini. Appunto a Firenze il nuovo papa Martino V, che vi soggiornava di ritorno da Costanza a Roma, lo accolse fra i suoi cardinali nel 1419, e lì nel battistero di S. Giovanni, Cossa venne sepolto dopo la morte, avvenuta alla fine di quell’anno23. Già questa rapida sintesi mostra gli aspetti non convenzionali della vita del Cossa, legati alle straordinarie circostanze del grande scisma. I pontificati dal 1378 al 1417 hanno nella storia del papato una collocazione particolare. La ricerca ha prestato attenzione differenziata agli otto ‘pretendenti’. I due papi dell’inizio dello scisma, Urbano VI e Clemente VII, sono visti appunto in relazione con lo scoppio, mentre gli ultimi tre alla fine, Benedetto XIII, Gregorio XII e Giovanni XXIII in relazione con il suo superamento. Benedetto XIII costituisce comunque un’eccezione, giacché il suo pontificato di quasi trent’anni fu di gran lunga il più esteso e il De Luna fu anche l’unico ad aver preso parte ai due conclavi del 1378: nella sua persona si sfiorano inizio e fine dello scisma. Dei tre papi il cui pontificato non tocca né l’inizio né la fine dello scisma – Bonifacio IX, Innocenzo VII e Alessandro V –, solo il primo è stato trattato in modo esauriente; con 15 anni è anche il papa dal pontificato più lungo.
A. Cutolo, Re Ladislao d'Angiò Durazzo, Napoli 19692. Per il periodo immediatamente precedente e successivo si v. anche le voci su Giovanna I e Giovanna II nel Dizionario citato. 23 La morte avvenne, secondo la data riportata sul monumento funebre, il 22 dicembre. Per l’indicazione del 27 dicembre, presente in un manuale della Camera cardinalizia coevo, cfr. A. Esch, Das Papsttum unter der Herrschaft der Neapolitaner. Festschrift für
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A tali questioni di cronologia e di esame sistematico dei papi dello scisma se ne aggiunge una terza: il giudizio. Sulla “fama” di Urbano VI e Clemente VII grava, accanto ai limiti personali, soprattutto la “colpa” storica dello scoppio dello scisma. I tre papi al centro della serie ne sono immuni: Innocenzo VII e Alessandro V sono considerati personalità sostanzialmente integre, mentre Bonifacio IX non può liberarsi dalla fama di simoniaco per eccellenza, nonostante si riconosca la sua situazione di assoluta necessità finanziaria. Il giudizio su Benedetto XIII, Gregorio XII e Giovanni XXIII è fortemente condizionato dall’esito dello scisma. Mentre per Benedetto si bilanciano, a seconda dei punti di vista, ammirazione per la sua ‘fermezza’ o condanna per la sua ‘ostinazione’ di fronte ai tentativi di soluzione ai concili di Pisa e di Costanza, riguardo a Gregorio domina la fama della sua disponibilità all’intesa e la sua rinuncia ‘spontanea’ (a lungo contrattata!). Quanto a Giovanni, il giudizio è esattamente contrario. Le infelici tergiversazioni all’inizio del concilio a Costanza, la fuga senza successo, il processo con pesanti accuse sulla sua condotta prima dell’elevazione al papato, infine la deposizione e la custodia, in una parola, il fallimento: è chiaro che un fallito, non un semplice sconfitto, ha difficoltà a trovare un giudizio equilibrato. Non si vuole qui tentare una riabilitazione, ma neppure ripetere la sequela delle accuse rivolte al Cossa – dallo stupro di monache a Bologna alla simonia e all’incesto con la cognata, con momenti di sceneggiata napoletana, fino all’accusa di essere maomettano e di non credere alla resurrezione, come sostenne per esempio l’umanista Bartolomeo della Capra davanti alla commissione conciliare. Le accuse costituirono il nucleo della fama negativa del Cossa, alimentata dai successivi giudizi negativi degli umanisti italiani. Tali giudizi sono stati raccolti e presentati da Walter Brandmüller in una conferenza tenuta a Lipsia nel 199424. Brandmüller, però, ha sottovalutato secondo me il momento storico e gli interessi personali dei diversi autori: al contrario io ritengo significativo che tutte le affermazioni degli umanisti italiani, ad esempio di Poggio, Bruni, Biondo e altri, non risalgano all’età di Cossa e di Martino V, ma di Eugenio IV e Niccolò V, cioè siano successivi al 1431 e risalgano all’epoca del nuovo conflitto con il concilio di Basilea, della deposizione del Condulmer e dell’elezione di Amedeo di Savoia /Felice V.
Hermann Heimpel zum 70. Geburtstag am 19. September 1971, hrsg. von den Mitarbeitern des Max-Planck-Instituts für Geschichte, II, Göttingen 1972, p. 778 nota 235, su segnalazione di D. Girgensohn. 24 La conferenza è stata poi pubblicata nel 2000: W. Brandmüller, Johannes XXIII. im Urteil der Geschichte oder die Macht des Klischees, «Annuarium Historiae Conciliorum», 32 (2000), pp. 106-145.
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Per altro verso, non si poteva disconoscere al Cossa il merito della convocazione del concilio né ignorare la sua decisione di andare a Costanza, fatti dai quali dipendeva anche la legittimità di Martino V e dei suoi successori romani: nella concezione curiale, e già dal ritorno di Martino V a Roma, l’ambivalenza del concilio di Costanza, coi famosi decreti Haec Sancta e Frequens, e l’ambivalenza della figura di Cossa sono strettamente interrelate. Ecco che quest’ultimo si ritenne fosse stato ‘costretto’ o ‘ingannato’ da Sigismondo – così Poggio e Sisto IV –, un giudizio sostenuto dall’immagine negativa del “re dei Romani” propagandata da Venezia - la storiografia ungherese, e in generale europea dopo il 1989, ha invece contribuito a restituire a quest’ultimo la sua statura di sovrano, con quattro corpose biografie e due monumentali cataloghi di mostre, una intitolata “Sigismund Kaiser in Europa”25. Fra l’anno della morte e i giudizi dei citati umanisti, dal 1419 al 1431, una fonte di prim’ordine sulla ‘memoria’ del Cossa, da valorizzare storicamente, è il suo monumento sepolcrale26, opera di Donatello e Michelozzo,
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25 E. Mályusz, Die Herrschaft König Sigmunds von Ungarn, Budapest 1984; Mályusz, König Sigmund in Ungarn, 1387-1437, Budapest 1990; S. Wefers, Das politische System Kaiser Sigismunds, Stuttgart 1989 (Beiträge zur Sozial-und Verfassungsgeschichte des alten Reiches, 10); J. Hoensch, Kaiser Sigismund. Herrscher an der Schwelle zur Neuzeit, 13681437, München 1996. Lo stesso autore ha dedicato un volume all’intera dinastia: Die Luxemburger. Eine spätmittelalterliche Dynastie gesamteuropäischer Bedeutung, 1308-1437, Stuttgart 2000. I cataloghi citati sono: Sigismund von Luxemburg. Ein Kaiser in Europa. Tagungsband des internationalen historischen und kunsthistorischen Kongresses in Luxemburg, 8.-10. Juni 2005, cur. M. Pauly - F. Reinert, Mainz 2006; Sigismundus “rex et imperator”. Kunst und Kultur zur Zeit Sigismunds von Luxemburg, 1337-1437, cur. I. Takácz, Budapest 2006. Da vedere anche, per il periodo precedente: Karl IV. Kaiser von Gottes Gnaden. Kunst und Repräsentation des Hauses Luxemburg 1310-1437, cur. J. Fajt, MünchenBerlin 2006. Per quello successivo: Matthias Corvinus, the King. Tradition and Renewal in the Hungarian Royal Court, 1458-1490, cur. P. Farbaky - E. Speckner, Budapest 2008. 26 Cfr. il progetto di ricerca berlinese: REQUIEM, Die römischen Papst-und Kardinalsgrabmäler der frühen Neuzeit, i cui primi risultati sono pubblicati in H. Bredekamp - V. Reinhardt, Totenkult und Wille zur Macht. Die unruhigen Ruhestätten der Päpste in St. Peter, Darmstadt 2004, che muove da Sisto IV. Con un arco cronologico più ampio e baricentro geografico in Francia, Roma, Impero e Spagna, il recente convegno dell’8-9 maggio 2009 a Berlino sul tema Das Grabmal des Günstlings, organizzato dallo stesso gruppo di ricerca. Un progetto parallelo per i Landesherren protestanti ha già portato a un primo volume: O. Meys, Memoria und Bekenntnis. Die Grabdenkmäler evangelischer Landesherren im Heiligen Römischen Reich Deutscher Nation im Zeitalter der Konfessionalisierung, Regensburg 2009. Per l’intera problematica, punto di riferimento: Memoria als Kultur, cur. O.G. Oexle, Göttingen 1995 (Veröffentlichungen des MaxPlanck-Instituts für Geschichte, 121) e, riguardo ai papi: M. Borgolte, Petrusnachfolge und Kaiserimitation: Die Grablegen der Päpste, ihre Genese und Traditionsbildung, Göttingen 1989 (Veröffentlichung des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 95): (si v. in particolare
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restaurato in occasione del sesto centenario della nascita di Donatello nel 198627. Nel testamento il Cossa aveva chiesto sepoltura in una cappella del Fiorentino e tre anni dopo i suoi esecutori testamentari chiesero all’Arte di Calimala l’autorizzazione a costruire una cappella nel battistero cittadino di San Giovanni – in S. Petronio a Bologna era stata già eretta una cappella affrescata da Giovanni da Modena per un amico del Cossa, Bartolomeo Bolognini, ora splendidamente restaurata28. Dopo una breve discussione l’autorizzazione fu concessa, ma per un monumento e non per una cappella, invocando ragioni pratiche di libertà di movimento nella chiesa. Tre anni dopo, nel 1425, furono depositati ben 400 fiorini per la costruzione, che venne successivamente iniziata, come testimonia una notizia del catasto del 1427. Questa notizia attesta anzitutto la collaborazione di Michelozzo con Donatello: attualmente si ritiene che a quest’ultimo risalga solo la figura del gisant e che l’insieme sia dovuto alla fabbrica di Michelozzo, il quale aveva una dipendenza in Pisa per la lavorazione del marmo di Carrara29. Il
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l’Appendice, pp. 343-360 e, per i papi dello Scisma, 357-359). Sulla dinastia angioina L. Enderlein, Die Grablegen des Hauses Anjou in Unteritalien. Totenkult und Monumente 1266-1343, Worms 1998 (Römische Studien der Bibliothek Hertziana, 12); T. Michalsky, Memoria und Repräsentation: Die Grabmäler des Königshauses Anjou in Italien, Göttingen 2000 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 157). Cfr. da ultimo i diversi saggi sui singoli monumenti sepolcrali e in particolare gli interventi di Nikolaus Bock, con bibliografia specifica, nel volume: L’Europe des Anjou: Aventure des princes angevins du XIIe au XVe siècle. Exposition présentée à l’Abbaye royale de Fontevraud du 15 juin au 16 septembre 2001, Paris 2001. 27 Fondamentale per la ricerca su Donatello dopo la II guerra mondiale: H.V. Janson, The sculpture of Donatello, Princeton 1957, che sette anni dopo ha scritto la voce relativa (Bardi) nel Dizionario Biografico degli Italiani, 6, Roma 1964, spec. pp. 289-291, con bibliografia completa e analisi dell’opera. Per gli studi moderni su Donatello rimane indispensabile: V. Herzner, Regesti donatelliani, «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte», ser. III, 2 (1979), p. 169-228. La raccolta dei regesti rinvia a una prima iniziativa di U. Middeldorf. La morte di quest’ultimo nel 1983 e di Janson un anno prima furono l’occasione per la pubblicazione di Donatello e i suoi. Scultura fiorentina del primo Rinascimento, cur. A. Phipps Darr - G. Bonsanti, Firenze 1986. Si v. pure Donatello Studien, München 1989 (Italienische Forschungen des Kunsthistorischen Instituts Florenz, 16); C. Avery, Donatello (catalogo completo), Firenze 1991. Punto di riferimento per l’indagine successiva: A. Rosenauer, Donatello, Milano 1993; le informazioni più aggiornate ora in U. Pfisterer, Donatello und die Entdeckung der Stile. 1430-1445, München 2002 (Römische Studien der Bibliothek Hertziana,17), cfr. in particolare l’Apparat, pp. 488 ss. 28 I. Kloten, Giovanni da Modena, in K.G. Saur, Allgemeines Künstler-Lexikon, 55, München-Leipzig 2007, pp. 45-46. L’accurata voce si fonda sulla fondamentale dissertazione dell’autrice discussa a Heidelberg nel 1986, e presenta un’ampia bibliografia aggiornata fino al 2006. 29 Su Michelozzo, fondamentale: H. McNeal Caplow, Michelozzo, New York-London 1977. Si v. anche, di poco posteriore, M. Ferrara - F. Quinterio, Michelozzo di Bartolomeo,
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catasto ci informa inoltre del fatto che fino ad allora per il monumento del Cossa erano a disposizione 800 fiorini, di cui 600 già spesi, e che contemporaneamente Donatello e Michelozzo lavoravano per la stessa somma sia al monumento sepolcrale del cardinale Rinaldo Brancaccio, cognato del Cossa, nella chiesa napoletana di S. Angelo in Nilo, sia a Montepulciano al monumento ora distrutto di Bartolomeo Aragazzi, segretario di Martino V, per il quale avevano già ricevuto 100 fiorini. Dal punto di vista storico-artistico è importante tener presenti tutti e tre i monumenti sepolcrali per la loro concezione d’insieme. Secondo lo stato attuale delle ricerche, gli elementi innovativi, visibili in particolare nel monumento del Cossa, il più precoce, sono nella tendenza alla rappresentazione realistica - il gisant del Cossa prelude al ritratto30 - e nelle interconnessioni dell’ambiente artistico fiorentino, che vedeva contemporaneamente attivi Ghiberti, Brunelleschi, Donatello, Masolino, Gentile e soprattutto Masaccio. Dopo il restauro della SS.ma Trinità in S. Maria Novella31, sono diventati evidenti i legami con i primi tentativi di elaborazione della prospettiva: il gisant del Cossa è formulato in funzione della profondità della visione, e anche l’insieme della Madonna con il bambino, fin al tessuto operato nella faccia interna del drappo di coronamento32, mostra l’illu-
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Firenze 1984. Nel 600° anniversario della nascita: Michelozzo scultore e architetto, 13961472. Atti del convegno internazionale, Firenze 1996, cur. G. Morolli, Firenze 1998. Sempre in occasione dell’anniversario è stata pubblicata una eccezionale serie fotografica: A. Natali, L’umanesimo di Michelozzo. Immagini di M. Bertoni, Firenze-Siena 1996. Simile nella concezione, ma in relazione a Donatello: M. Trudzinski, Beobachtungen zur Donatellos Antikenrezeption, Berlin 1986, in Italia poco conosciuto. 30 Cfr. i tratti del volto che risaltano in modo significativo dalla riproduzione effettuata dopo il restauro: F . Petrucci, La scultura di Donatello. Tecniche e linguaggio. Fotografie di L. Perugi, Roma-Firenze 2003, p. 380, n. 50. 31 La Trinità di Masaccio. Il restauro dell’anno Duemila, cur. C. Danti, Firenze 2002, con CD. Sull’autore, A. Tartuferi, Masaccio (Tommaso di ser Giovanni di Mone di Andreuccio), in Dizionario biografico degli Italiani, 71, Roma 2008, pp. 496-509. E v. ora anche I. Nagel, Gemälde und Drama: Giotto - Masaccio - Leonardo, Frankfurt am Main 2009, prossimamente in: Gesammelte Schriften, Suhrkamp. 32 Cfr. al riguardo le fini osservazioni di L. Monnas, Merchants, Princes, and Painters. Silk fabrics in Italian and Northern Paintings, 1300-1500, New Haven-London 2008, sub voce Cossa, p. 395. Secondo l’autrice, il tessuto all’interno del baldacchino è uno dei primi esempi del passaggio da motivi animali a motivi vegetali. Le sue osservazioni circa la datazione «to the 1420s» trova conferma nella relazione tenuta a Berlino il 16 aprile 2009 dal Dr. Michael Peter, conservatore della Abegg-Stiftung, Riggisberg, Berna, Svizzera, in occasione della mostra: Der Meister von Flémalle und Rogier van der Weyden, Gemäldegalerie, Kulturforum, Postdamer Platz Berlin, 20. März-21 - Juni 2009. Il Dr. Peter ha individuato un motivo simile nel ritratto di Louis II d’Anjou a Parigi e nell’Incoronazione di Maria di Gentile da Fabriano alla Fondazione Getty di Los Angeles (cfr. F. Marcelli, Gentile da
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sione ottica che Donatello e Michelozzo intendevano comunicare. Nella parte inferiore del monumento, le tre virtù teologali inserite in tre nicchie hanno caratteri ‘prerinascimentali’, come le ghirlande dello zoccolo e i putti del sarcofago; antichizzante è anche il letto sul quale giace il gisant, con cuscino e protomi leonine. Vi corrisponde l’iscrizione in elegante capitale umanistica, che qui interessa in modo particolare: Ioannes quondam papa XXIIIus, con il luogo e la data ufficiale della morte. L’autore dell’iscrizione è ignoto; l’irritazione di Martino V, spinto a farla cancellare, è di fonte tarda, ma è indizio significativo dell’ambiguità del personaggio e della difficoltà di renderne memoria adeguata. Lo stesso problema si pone con gli stemmi raffigurati sotto il sarcofago, in tre spazi distinti, un elemento trinitario che ripete le tre virtù teologali. Il primo stemma è quello familiare – uno stemma troncato “pseudo parlante”, con una coscia nella parte superiore, sormontato dalla tiara papale – al centro vi è uno stemma pontificio, di nuovo con la tiara e le chiavi incrociate, convenzionale; a destra lo stemma dei Cossa, uguale al primo, ma sormontato dal cappello cardinalizio. Questa triade è del tutto singolare: il primo stemma rende manifesta la dignità papale del Cossa; lo stemma centrale ribadisce la dimensione pontificia; l’ultimo ricorda il grado di cardinale-diacono raggiunto dal Cossa prima dell’elezione papale – non quello di cardinale-vescovo conferitogli da Martino V prima della morte. In conclusione: il monumento sepolcrale presenta gli elementi ambigui della memoria di un ‘ex-papa’. Lo scisma con l’interludio pisano; le peripezie personali con la fuga, il processo, la deposizione e la presa in custodia; le difficoltà a valutare il contesto del concilio di Costanza, sia per i suoi decreti Haec sancta e Frequens sia anche per l’elezione di Martino V, realizzata da un corpo elettorale che, accanto al collegio dei cardinali33, aveva visto attivi i rappresentanti del Concilio eletti dalle singole nazioni: tutto ciò rese la persona del Cossa difficile da inserire, per la sua ambivalenza,
Fabriano, Milano 2005, p. 110, dettaglio). Nella seconda metà del Quattrocento il motivo ricompare in modo raffinato nella Madonna col Bambino e nel Sant’Eumedio di Carlo Crivelli, conservati nella cattedrale di Ascoli, nella cappella del Ss. Sacramento. 33 I cardinali di Benedetto XIII non avevano ancora raggiunto Costanza (ma si unirono alla curia a Firenze). Erano invece presenti i cardinali di Giovanni XXIII insieme con quelli di Gregorio XII (compreso Gabriele Condulmer, poi papa Eugenio IV), per la partecipazione dei quali Sigismondo si era adoperato in modo particolare, cfr. J. Hollerbach, Die gregorianische Partei, Sigismund und das Konstanzer Konzil, «Römische Quartalschrift», 23/2 (1909), pp. 129-165; 24/2 (1910), pp. 121-140; W. Decker, Die Politik der Kardinäle auf dem Basler Konzil (bis zum Herbst 1434), «Annuarium Historiae Conciliorum», 9 (1977), pp. 12-153.
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in una “serie” di papi e di ‘antipapi’. Il giudizio negativo maturò in vita attraverso il processo e poi dall’epoca del concilio di Basilea, divenuto scismatico per gli eugeniani dal 1437/38. Solo a distanza di secoli si realizzò una vera damnatio memoriae, per semplice oblìo delle tensioni che a quella figura si legavano.
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Per quelli che ho avuto vicino e che capiranno.
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Un poeta al giorno d’oggi forse non più molto apprezzato, Bertolt Brecht, ha scritto nel 1934 una lirica, intitolata “La scritta invincibile”, che riassume con una grande potenza il significato e nel contempo la talora evidente inutilità dello sforzo di damnare memoriam:
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Al tempo della guerra mondiale, in una cella del carcere italiano di San Carlo pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri, un soldato socialista incise sul muro col lapis: ‘Viva Lenin!’, su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile ma scritto in maiuscole enormi. Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce. E quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa. Ma, siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri, ora c’è scritto nella cella, in bianco: ‘Viva Lenin!’. Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello, sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino, quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta: ‘Viva Lenin!’. Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello. E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona. E quand’ebbe finito, c’era nella cella, oramai senza colore ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile: ‘Viva Lenin!’. “E ora levate il muro!”, disse il soldato.
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Nelle parole di Brecht c’è tutto: la volontà di eliminare anche fisicamente il nome e dunque il ricordo di qualcuno, le modalità secondo cui si tenta di realizzare questo obiettivo e nel contempo l’impossibilità spesso di dare effettiva concretezza a questo bisogno, perché il ricordo, nonostante tutti gli sforzi per cancellarlo, può rimanere.
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L’esemplificazione concreta delle parole di Brecht l’ho trovata visitando il suggestivo borgo di Acquaviva Picena, non distante da Ascoli Piceno. Nel nucleo centrale del paese cinto da mura, nella piazza S. Niccolò, svetta la trecentesca torre civica, chiamata anche torre dell’orologio, bella costruzione merlata in mattoni. Sulla sua facciata si legge nitidamente, scritta in lettere maiuscole, una frase che inneggia a Mussolini, dipinta con un largo pennello: «W il Duce fondatore dell’impero». La celebrazione del Duce in realtà sarebbe stata eliminata, ma dico sarebbe perché le lettere sono state scalpellate, ottenendo come unico effetto quello di metterle ancora di più in evidenza. Le scritte declamatorie e celebrative, in prosa e in versi, sono state uno degli strumenti più diffusi e spiccioli della propaganda politica del regime fascista e molte di esse resistono ancora, come credo ciascuno di noi possa facilmente e direttamente verificare. Il tentativo di cancellare queste scritte, di cui era disseminata l’Italia e che urlavano metaforicamente dai muri di tanti edifici, si rivela, come appunto in questo caso, fallito: sotto il bianco della vernice che le copre o dalle scalpellature che le cancellano esse riemergono comunque, più o meno nitide e leggibili. Dunque il tema della deletio delle parole esposte, attraverso cui è realizzata la damnatio memoriae, si concretizza visivamente nelle esperienze e negli occhi di ciascuno, oggi come ieri. Cambiano però le forme di questa concretizzazione ed è su questo appunto che è opportuno interrogarsi. Quando ho accettato l’invito di Antonio Rigon a parlare delle forme in cui si configura la damnatio memoriae nell’ambito delle cosiddette scritture esposte medievali, in particolare nelle iscrizioni lapidarie, non mi rendevo conto allora - ma me ne sono ben resa conto dopo - di essere stata nel contempo ottimista e temeraria. Ottimista perché presumevo che i risultati della mia ricerca sarebbero stati ben altri e soprattutto ben più consistenti. Temeraria perché l’entusiasmo per la proposta mi aveva fatto velo, non consentendomi di vedere le difficoltà di cui pure sono stata sempre consapevole e che inevitabilmente condizionano qualsiasi lavoro si muova nell’ambito dell’epigrafia medievale. Vorrei spiegarmi meglio, proponendo una piccola
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ma necessaria deviazione dal mio discorso, che mi tocca e nel contempo mi preme di fare. Ogni volta che mi occupo di epigrafia medievale, mi sento costretta infatti a richiamare l’attenzione sullo stato di desolazione che ancora oggi, almeno parzialmente, caratterizza questa disciplina in Italia e che non solo si riflette sulla quasi totale assenza di insegnamenti universitari con questa dicitura (circostanza peraltro che, in questi tempi duri, potrebbe essere malintesa come una rivendicazione corporativa per l’attivazione di altri inutili corsi), quanto, più nel concreto, provoca una dispersione degli studi epigrafici e, soprattutto, determina l’assenza di un’impresa sistematica di edizione di tutte le iscrizioni medievali su base nazionale. Manca, infatti, in Italia un corpus delle scritture esposte medievali e l’iniziativa promossa da Spoleto, volta alla raccolta e alla pubblicazione delle Inscriptiones medii aevi Italiae, peraltro cronologicamente limitate entro il XII secolo, è ancora alle faticose battute iniziali1. La difficoltà primaria, e preliminare, dunque, per chi si vuole cimentare con la fonte epigrafica medievale è quella di raccogliere le iscrizioni da dover poi esaminare, iscrizioni che risultano sparse nelle sedi più disparate, edite spesso secondo criteri discutibili, male o per nulla riprodotte. Non solo. Quando si analizzano fonti come le scritture esposte - di cui le iscrizioni lapidarie rappresentano solo una delle tante declinazioni esecutive -, occorre innanzitutto essere ben consapevoli della loro fisionomia originale e dei loro caratteri autonomi, soprattutto qualora si pensi che l’epigrafe è per sua natura un’amplificazione di un messaggio, un mezzo di trasmissione della realtà e un modo di auto-rappresentarsi, ma è anche un luogo fisico del ricordo e lo è tanto di più quando, come nel caso delle iscrizioni funerarie, diventa la memoria della memoria, la traccia materiale del dolore e della commemorazione. Aggiungo come sia opportuno non perdere di vista i caratteri dell’epigrafia medievale sia nei confronti delle analoghe esperienze di età classica, sia per quel che concerne le sue clamorose ed evidenti scansioni interne fra alto e basso medioevo2. Né va dimenticato che l’evoluzione cronologica nel 1
Si tratta di un’impresa tormentata, dal destino difficile e dalla fisionomia – così come dalle norme di edizione – in continuo assestamento, dato che sinora infatti ha visto la pubblicazione di un solo volume, e precisamente Lazio. Viterbo, I, cur. L. Cimarra e altri, Spoleto 2002, mentre sono ancora in quella che ci appare come un’infinita fase di stampa altri volumi, in particolare quello dedicato alle province di Vicenza e Treviso. 2 Ricordo che la civiltà romana è stata una società della comunicazione e ha vissuto una straordinaria espansione della cultura scritta. Soprattutto il mondo dei primi secoli dell’Impero fu un universo in cui dominava la parola esposta, offerta a una pubblica lettu-
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corso del medioevo, contraddistinta appunto da uno scarto forte fra un prima e un dopo, si coglie con altrettanto eclatante evidenza nello specifico microcosmo dell’epigrafia funeraria3. Queste le difficoltà. Cui si aggiunge anche la consapevolezza (e forse il desiderio) di tentare un esperimento difficile, dagli esiti probabilmente scontatamente incerti ed egualmente stimolanti. E devo sottolineare naturalmente che il percorso che ho avviato è stato inevitabilmente iniziale, parziale e indicativo, volutamente limitato alla realtà in special modo del
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ra e finalizzata a raggiungere il più ampio numero possibile di destinatari, cui fornire un messaggio al quale si voleva dare la massima pubblicità. Il Cristianesimo si mise a sua volta nella linea della tradizione classica e incominciò a promuovere un utilizzo copioso e consapevole della parola esposta. A fronte di questa cultura epigrafica, che perdura sino al tardo antico, colpisce, senza tuttavia troppo sorprendere, la crisi che ha segnato l’epigrafia nei secoli dal VI al X. Nell’alto medioevo infatti praticamente quasi non esistette più una scrittura esposta, poiché per il progressivo ridursi dell’alfabetismo essa era di fatto assente negli spazi pubblici, concentrandosi specialmente nel ristretto ambito degli edifici religiosi. Per le esperienze epigrafiche i secoli del tardo medioevo significarono, anzi provocarono una vera e propria rivoluzione rispetto al recente passato. In particolare in Italia l’epigrafia, dagli impieghi in crescente espansione, si poté nuovamente caricare di un forte valore ideologico e propagandistico, soprattutto perché le nuove classi dirigenti delle città comunali italiane, sempre più fortemente persuase del valore della scrittura, ricorsero frequentemente all’uso di iscrizioni per celebrare l’edificazione di pubblici monumenti, per immortalare eventi memorabili ovvero per fissare i testi della nuova legislazione, all’interno di un contesto urbano sempre più affollato di cittadini alfabeti. Sul tema si vedano almeno due indispensabili interventi di A. Petrucci, Potere, spazi urbani, scritture esposte: proposte ed esempi, in Culture et idéologie dans le genèse de l’état moderne. Actes de la table ronde organisée par le Centre national de la recherche scientifique et l’École française de Rome (Rome, 15-17 octobre 1984), Rome 1985, pp. 85-97 e soprattutto La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino 1986. 3 La scrittura della morte cambia infatti radicalmente nel corso del medioevo. Rispetto alla straordinaria ricchezza della produzione epigrafica funeraria del mondo classico-pagano e tardoantico-cristiano, e in linea con le vicende che hanno coinvolto le scritture esposte nel loro complesso, le pratiche della scrittura funeraria nell’alto medioevo si ridussero violentemente e improvvisamente. Questa situazione si modificò radicalmente a partire dall’XI secolo, quando il “diritto alla morte scritta” si estende a fasce sociali sempre più ampie e diverse. Ma cambia molto anche il modo di organizzare la scrittura e di raccordarla con le immagini. La parola infatti entra in due tipologie di monumenti funerari nuovi: la lastra terragna, con l’immagine del defunto giacente, e le tombe a parete, che spesso sono significative opere scultoree. Le caratteristiche dell’epigrafia funeraria medievale, nelle sue evoluzioni cronologiche e nelle sue connessioni con le strutture architettoniche e i monumenti funebri, hanno trovato una definitiva e completa messa a punto grazie ad alcuni importanti interventi ancora una volta di Armando Petrucci, fra i quali va ricordato almeno Le scritture ultime, Torino 1995, che riprende, riassume e amplia studi e ricostruzioni precedenti, in particolare quelle anticipate dal saggio su Scrittura e figura nella memoria funeraria, in Testo e immagine nell’Alto Medioevo, I, Spoleto 1994, pp. 277-296, costituendo per il nostro intervento, ma più in generale per qualunque riflessione sull’epigrafia funeraria, punto di partenza e modello di confronto imprescindibili.
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tardo medioevo italiano, in una sorta di carotaggio ideale in un terreno accidentato e vastissimo, che ho potuto dissodare solo in minima parte. Nella già lamentata mancanza di un repertorio se non completo almeno sufficientemente ampio delle iscrizioni medievali italiane, raggiungere l’esaustività delle fonti è evidentemente pensiero vano e frustrante: ho cercato di vedere materiali già editi e di esaminarne altri invece ancora inediti (relativi ad esempio a città come Padova4, Verona5, Bologna6, Modena7, Pisa8,
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4 Alla frantumazione e alla conseguente dispersione degli studi in una serie infinita di sedi diverse che hanno caratterizzato, nel passato, gli studi sull’epigrafia medievale padovana si sta opponendo, in tempi recenti, una ricerca sistematica e condotta con criteri moderni, che ha già dato prodotti interessanti. Ci si riferisce da un lato al lavoro sulle iscrizioni medievali conservate nella Basilica del Santo condotto da G. Foladore, Il racconto della vita e la memoria della morte nelle iscrizioni del corpus epigrafico della basilica di Sant’Antonio di Padova (secoli XIII-XV), tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova 2009, dall’altro invece all’impresa volta a fornire l’edizione del complesso delle epigrafi medievali della città di Padova, progetto di ricerca che oramai procede da alcuni anni ad opera di Franco Benucci, Donato Gallo e di chi scrive e che ha censito e raccolto, nella sua prima fase, tutte le iscrizioni medievali presenti all’interno del perimetro urbano cittadino. Le schede descrittive delle singole epigrafi, accompagnate da una serie di studi di corredo e da una nutrita serie di immagini realizzate per l’occasione, sono attualmente consultabili sul sito http://maldura.unipd.it/ddlcs/cem/index.html. Un nuovo fronte di indagine, apertosi da poco, riguarda infine le iscrizioni conservate all’interno della raccolta lapidaria dei Civici Musei agli Eremitani, che, in particolare per la sezione medievale, si sta appunto raccogliendo in vista di una sua edizione all’interno del più generale corpus cittadino. 5 Accanto all’oramai datato studio di L. Billo, Le iscrizioni veronesi dell’alto medioevo, «Archivio Veneto», ser. V, 16 (1934), pp. 1-122 e al più circoscritto catalogo di D. Modonesi, Museo di Castelvecchio: il lapidario medievale, [Verona 1996 ], una recente ricerca ha raccolto il peraltro non troppo cospicuo materiale epigrafico veronese duecentesco: si tratta del lavoro di P. Sartori, Dalla romanica alla gotica a Verona. Cronaca di un percorso epigrafico (XIII-XIV secolo), tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona 2008. 6 In particolare si vedano gli interventi di B. Breveglieri, Scritture lapidarie romaniche e gotiche a Bologna. Osservazioni paleografiche in margine alle Iscrizioni Medievali Bolognesi, Bologna 1986 e Scrittura e immagine. Le lastre terragne del Medioevo bolognese, Spoleto 1993, preceduti, nello specifico per alcuni temi, dallo studio di R. Grandi, I monumenti dei dottori e la scultura a Bologna, 1267-1348, Bologna 1982 e dalla raccolta di G. Roversi, Iscrizioni medievali bolognesi, Bologna 1982. 7 Rimandiamo a una serie di interventi sgranati nel tempo come quelli di G. Bertoni, Atlante storico-paleografico del duomo di Modena, Modena 1909, W. Montorsi, Iscrizioni modenesi romaniche e gotiche: Duomo e Palazzo del Comune con un’appendice sulla Torre, Modena 1977 e infine A. Campana, Le testimonianze delle iscrizioni, in Lanfranco e Wiligelmo. Il duomo di Modena, Modena 1984, pp. 363-403. 8 Si guardi, da una parte, un primo lavoro di O. Banti - A. Martelli, Epigrafi medievali pisane del Museo Nazionale di San Matteo, «Bollettino storico pisano», 55 (1986), pp. 201211 (rist. in O. Banti, Scritti di storia, diplomatica ed epigrafia, cur. S. S. Scalfati, Ospedaletto (Pisa) 1995, pp. 181-198), cui ha fatto seguito un ulteriore intervento di O. Banti, Le iscrizioni delle tombe terragne del Campo Santo di Pisa (secoli XIV-XVIII), Pontedera 1998. Dall’altro lato è stato Giuseppe Scalia a soffermarsi in particolare sulle epigrafi del duomo
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Viterbo9, Roma10, la stessa Ascoli11, o a regioni come la Liguria12, il Lazio – di cui si è sopra già detto -, la Puglia13 e la Sicilia14), ma mi rendo conto di aver lavorato meno o comunque non solo su fonti dirette ma anche su testimonianze indirette, così come è stato inevitabile ampliare fortemente il mio orizzonte cronologico, tornando per così dire indietro all’antichità classica e correndo poi in avanti, sino alla piena età moderna, anzi all’epoca napoleonica. Dunque io ho cercato di verificare se e in quali modi nella vasta congerie delle scritture esposte medievali vi fossero le tracce della pratica della damnatio memoriae e della conseguente deletio nominis oltre che memoriae, cioè l’eliminazione dalla pubblica vista del nome e dell’effige scultorea di una persona sottoposta a condanna. Una pratica che ha rappresentato un fatto ricorrente e che dall’antichità sino ad oggi non ha cessato di ripetersi, senza però raggiungere quasi mai lo scopo dichiarato – che è quello di sopprimere il ricordo, appunto la memoria, del condannato15 – e
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pisano, in una lunga serie di interventi; più precisamente, e in ordine cronologico, Epigraphica latina: testi latini sulla spedizione contro le Baleari del 1113-15 e su altre imprese anti saracene del secolo XI, Firenze 1963; Ancora intorno all’epigrafe sulla fondazione del duomo pisano, in A Giuseppe Ermini, II, Spoleto 1970 (= «Studi Medievali», ser. III, 10 [1969]), pp. 483-519; “Romanitas” pisana tra XI e XII secolo. Le iscrizioni romane del duomo e la statua del console Rodolfo, «Studi medievali», ser. III, 13 (1972), pp. 791-843; Tre iscrizioni e una facciata. Ancora sulla cattedrale di Pisa, ibid., 23 (1982), pp. 817-859 e finalmente Il duomo fra secolo XI e XII attraverso le fonti letterarie e documentarie coeve, in Il Duomo e la civiltà pisana del suo tempo, cur. F. Gabrieli, Pisa 1986, pp. 43-60. 9 Cfr. l’esaustivo repertorio proposto da A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo (secc. VI-XV), Viterbo 1986. 10 Utilissimo ma limitato sostanzialmente all’epigrafia funeraria è il corpus raccolto in Die mittelalterlichen Grabmäler in Rom und in Latium vom 13. bis 15. Jahrhundert, I. Die Grabplatten und Tafeln, cur. J. Garms - R. Juffinger - B. Ward-Perkins, Roma-Wien 1981; II. Die Monumentalgräber, cur. J. Garms - A. Sommerlechner - W. Telesko, Roma-Wien 1994. 11 Le cui epigrafi medievali sono state raccolte nel volume di A. Salvi, Iscrizioni medievali di Ascoli, Ascoli Piceno 1999. 12 Del Corpus inscriptionum Medii Aevi Liguriae sono usciti sinora quattro volumi: I. Savona - Vado - Quiliano, cur. C. Varaldo, Genova 1978; II. Genova. Museo di Sant’Agostino, cur. S. Origone - C. Varaldo, Genova 1983; III. Genova. Centro storico, cur. A. Silva, Genova 1987; IV. Albenga, Alassio, Ceriale, Cisano sul Neva, Ortovero, Villanova d’Albenga, cur. B. Schivo, Bordighera 2000. 13 Cfr. F. Magistrale, Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia normanna, «Scrittura e Civiltà», 16 (1992), pp. 5-75. 14 Cfr. G. Cavallo - F. Magistrale, Mezzogiorno normanno e scritture esposte, in Epigrafia medievale greca e latina. Ideologia e funzione. Atti del seminario di Erice (12-18 settembre 1991), cur. G. Cavallo - C. Mango, Spoleto 1994, pp. 293-329. 15 Il brillante saggio di C. W. Hedrick jr., History and Silence. Purge and Rehabilitation of Memory in late Antiquity, Austin 2000, tutto incentrato sulla questione dei silenzi della storia, che cancellano il ricordo e su cui avremo modo di riflettere lungamente, interviene
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riducendosi nei fatti a una sorta di simbolica punizione, spesso postuma e quindi ancor più vana della condanna stessa16. Va da sé che, per capire se esista o meno una linea di continuità fra la damnatio memoriae di epoca classica e quella che si è invece, almeno ipoteticamente, realizzata nel corso del medioevo, è opportuno, riprendendo le fila di un discorso avviato già da qualche altro relatore, soffermarci sul senso di questa sanzione e delle conseguenze che se ne ingeneravano, nel mondo romano. La damnatio memoriae, nella Roma repubblicana generalmente prescritta dal Senato e successivamente anche dall’imperatore, rivolta verso un defunto giudicato come un nemico pubblico, magari un imperatore spodestato o ucciso, prevedeva sostanzialmente la abolitio nominis: in concreto, il praenomen del condannato non si sarebbe potuto tramandare in seno alla famiglia e il suo nome sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni, nel mentre si distruggevano tutte le sue immagini17. Rivolta retrospettivamente verso il passato
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diffusamente anche sul tema della damnatio memoriae, che intende come un involontario invito a ricordarsi di dimenticare le persone. Non possiamo non concordare con quanto Hedrick suggerisce alla p. XII, e cioè che «The Roman damnatio memoriae worked […] to dishonor memory, not to destroy it. The key to the argument is a consideration of the semantic character of the silences and erasures that are produced by the damnatio memoriae. […] Silences and erasures are themselves signs. […] The damnatio memoriae does not work to negate the evidence of the past, but to produce new signs of it. The silences and erasures are themselves significant, and they tell against the professed purpose of the purge. So, paradoxically, the damnatio memoriae works to confirm memory even as it dishonors it». 16 Si tratta di un tema, nello specifico temporale del Medioevo occidentale, assai poco trattato, evidentemente, come avrò modo di dimostrare ampiamente nel prosieguo del mio discorso, soprattutto per l’estrema rarefazione delle fonti disponibili. A mia conoscenza, l’unico specifico studio a riguardo è quello di R. Neumüllers-Klauser, Zum Phänomen der Erasio nominis im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, in Festschrift für Meinrad Schaab zum 70. Geburtstag (= «Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins», n. ser., 108 [1999]), pp. 255-272, che, accanto a una breve introduzione al fenomeno e a qualche esempio cronologicamente più alto, si sofferma in realtà su alcuni presunti casi di damnatio memoriae attestati in epigrafi di area tedesca fra XV e XVII secolo, che, a una analisi più serrata, non si rivelano in realtà sempre perfettamente tali. Nel suo discorso si sottolinea tuttavia ripetutamente la laconicità delle fonti a riguardo e si ribadisce nel contempo un forte scetticismo rispetto all’opportunità di inquadrare i suddetti esempi nell’ambito dei comportamenti che realizzano appunto la damnatio memoriae, tanto da preferire per indicarli l’espressione, che le sembra più circoscritta e pertinente, di erasio nominis. 17 Per una definizione completa e corretta del concetto di damnatio memoriae rimandiamo alle spiegazioni offerte da S. Brassloff, Damnatio memoriae, in Paulys RealEncyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, cur. G. Wissowa, IV/2, Stuttgart 1901, coll. 2059-2062 e da C. Gizewski - A. Mlasowski, Damnatio memoriae, in Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, III, Stuttgart 1997, coll. 299-300, mentre è opportuna anche la citazione del pur datato ma sempre interessante intervento di F. Vittinghoff, Der Staatsfeind in der römischen Kaiserzeit: Untersuchungen zur “Damnatio Memoriae”, Berlin 1936.
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ma anche in prospettiva, verso il futuro, tale condanna comportava dunque, come atti materiali e di grande impatto visivo, oltre che emotivo, in primis la cancellazione del nome del damnatus nelle iscrizioni su tutti i monumenti pubblici, poi anche il danneggiamento, se non l’abbattimento definitivo, di statue e monumenti onorari a lui dedicati e lo sfregio dei suoi ritratti presenti sulle monete. Si tratta però, lo devo sottolineare, non di una procedura giuridica istituzionalizzata e rigidamente formalizzata, quanto piuttosto di un insieme di strategie e dunque di misure che si potevano variamente applicare, che toccano gli spazi pubblici ed entrano in quelli privati e che rimasero in uso sostanzialmente già dall’età repubblicana per tutta l’età imperiale, sino al VI secolo. Un caso davvero emblematico è rappresentato ad esempio dall’imperatore Domiziano, che può assurgere a figura paradigmatica del tiranno colpito dalla damnatio memoriae: come ricorda Svetonio (Vita Domitiani, 23) il Senato stabilì che i suoi tituli fossero eradendi ubique e che la sua memoria fosse abolenda. Così avvenne, almeno parzialmente: il nome di Domiziano è stato eliminato nel 40% circa delle 400 iscrizioni sinora conservate che lo menzionano, ma non, ad esempio, nei geroglifici del cartiglio presente sull’obelisco che è inserito nella berniniana Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona, a Roma, probabilmente perché né, in generale, i Romani erano capaci di leggerlo né, in particolare, coloro che avevano avuto l’incarico di scalpellarlo lo avevano riconosciuto18. Nell’epigrafia lapidaria la damnatio memoriae si traduceva in una scalpellatura più o meno meticolosa, sicché è frequente che si possa comunque identificare il personaggio damnatus e recuperarne la formula onomastica completa: di solito il provvedimento di condanna colpisce gli imperatori oppure i membri della loro famiglia, ma capita pure che tale condanna tocchi a individui di rango inferiore, che comunque avevano ricoperto incarichi di grande rilievo. Sulla rasura si interviene a volte, anche a distanza di
18 Si tratta, com’è ovvio, di una pena, anzi di un complesso di sanzioni, che è più facile comminare che poi effettivamente applicare. Concordiamo pertanto con quanto osserva M. Kajava, Some Remarks on the Erasure of Inscriptions in the Roman World (with Special Reference to the Case of Cn. Piso, cos. 7 B. C.), in Acta colloquii epigraphici latini (Helsinki, 3-6 settembre 1991), cur. H. Solin - O. Salomies - U.-M. Liertz, Helsinki 1995, pp. 201-210, quando afferma che l’abolitio nominis era più un gesto simbolico che un’azione effettivamente poi messa in atto e contava dunque più la condanna ideale che la sua realizzazione concreta. Quanto invece al fenomeno correlato della mutilazione o della trasformazione dei ritratti di coloro che erano colpiti dalla damnatio memoriae è d’obbligo il rinvio al bel saggio di E.R. Varner, Mutilation and Transformation: Damnatio memoriae and Roman Imperial Portraiture, Leiden-Boston 2004, assai sistematico nell’offrire una ricca casistica di esempi ordinata cronologicamente.
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pochi anni, in seguito a una riabilitazione, attraverso una riscrittura della stessa superficie, creando un vero e proprio palinsesto epigrafico, per così dire, in cui la scriptio superior in realtà ripete quanto già detto dalla scriptio inferior, a testimoniare evidentemente una mutata situazione politica, immediatamente recepita anche dalle iscrizioni e anzi proprio attraverso le iscrizioni resa nota al maggior numero possibile di persone19. Faccio un solo ma celebre esempio, riandando all’età dei Severi, quando Settimio Severo, nel 195, riabilitò Commodo, in un primo momento colpito dalla damnatio, così che il nome di quello che era stato un hostis publicus venne sistematicamente riscritto sulle lapidi prima erase. La storia insomma si scrive, si cancella, si riscrive: nessuna condanna è irreversibile, nessuna memoria è imperitura, la riabilitazione personale si esprime anche attraverso una riscrittura materiale, il ricordo si può eliminare ma anche recuperare, restituire appunto, come in una accurata ricostruzione filologica20. La damnatio memoriae, che segue alla più semplice e meno durevole pratica della lutatio, dunque all’azione, quasi istintiva, di ricoprire con il lutum, cioè col fango, un’iscrizione, per renderla temporaneamente illeggibile, rovescia in qualche modo paradossalmente il valore della pena, trasformando inevitabilmente l’epigrafe in una memoria damnationis, rafforzando il ricordo e non imponendo l’oblio, colpendo la rappresentazione della memoria e non la memoria stessa. Si tratta di un processo che però, come abbiamo appena visto, è in qualche modo reversibile, grazie alla restitutio, che è una riabilitazione della persona e dunque un recupero del ricordo21. Può essere forse inutile sottolineare come la forza dell’azione posta in essere sia accentuata dal fatto che il nome per un individuo romano è assai importante, perché ne stabilisce il ruolo anche nel contesto sociale e il 19 Fornire anche solo qualche indicazione sul tema del significato del sistema di comunicazione epigrafica, nel mondo classico così come in epoca medievale, è certamente impresa inane e frustrante. Mi limito perciò a rimandare, come citazione esclusiva e paradossalmente nel contempo esaustiva, agli spunti di cui è ricco il volume di M. Corbier, Donner à voir, donner à lire. Mémoire et communication dans la Rome ancienne, Paris 2006. 20 Inutile forse osservare, per inciso, quante volte, anche nel passato più recente, si siano messe in atto vere e proprie sistematiche campagne, non sempre coronate dal successo, di damnatio memoriae per rimuovere le tracce anche minime dell’esistenza di un personaggio e dunque per eliminarne la possibilità del ricordo. 21 Incisive sulla distinzione fra queste pratiche risultano le pur sintetiche ricostruzioni di A. Donati, Lutatio, damnatio, restitutio: tre momenti della memoria, in Usi e abusi epigrafici. Atti del colloquio internazionale di epigrafia latina (Genova, 20-22 settembre 2001), cur. M.G. Angeli Bertinelli - A. Donati, Roma 2003, pp. 521-524, che identifica dunque chiaramente queste tre fasi successive.
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medium per stabilire o consolidare questo vincolo è proprio l’epigrafia, che serve a definire l’identità pubblica del singolo, in una forma permanente e visibile e in relazione ai ruoli sociali e ai rapporti stabiliti con gli dei e con gli uomini, con l’amministrazione imperiale e con quella urbana. Non solo: l’ossessione del bisogno del ricordo e il timore invece dell’oblio, che sono un atteggiamento mentale assai diffuso nella società romana, rendono ancora più efficace, e dunque temuta, la damnatio memoriae22. Non sia superfluo aggiungere che esiste anche una forma di damnatio che potremmo definire involontaria, nel senso che il ricordo delle persone fissato sulla pietra viene a mancare nel momento in cui le epigrafi, in un continuo e inevitabile riciclo, sono riutilizzate come materiale di spoglio, togliendo loro il fine primario e più nobile e attribuendo loro una funzione e una sede, talora assai meno elevate. Meno elevate anche nel senso letterale del termine, se pensiamo ad esempio alle tante epigrafi funerarie, in particolare paleocristiane, che sono state inserite nel pavimento precosmatesco della bellissima basilica romana dei SS. Quattro Coronati, al momento del suo ridimensionamento: a seguito dei gravi danni prodotti dall’incendio appiccato dalle truppe di Roberto il Guiscardo nel 1084, papa Pasquale II fece infatti ridurre l’edificio alla sola metà occidentale della ex navata centrale carolingia. Mi limito a questo esempio, scelto anche per motivi di affezione personale, perché altrimenti i casi potrebbero essere infiniti. Casi di una perdita della memoria che possono coinvolgere in particolar modo personaggi che nel corso del tempo hanno perso ruolo e importanza e che quindi, anche senza esercitare volontarie censure, si possono condannare appunto all’oblio. In questo caso davvero e ancora una volta possiamo parlare di tempus edax, non tanto e soltanto rerum quanto hominum. Ma sempre in questo caso, peraltro, paradossalmente siamo all’opposto delle cause che portano ad attivare il processo della damnatio memoriae: la memoria non si annulla per un’azione volontaria, posta in essere nella consapevolezza della persistenza (e del rischio della persistenza) del ricordo di una data 22
Facciamo nostre alcune delle considerazioni proposte fra gli altri da G. Woolf, Monumental Writing and the Expansion of Roman Society in the Early Empire, «Journal of Roman Studies», 86 (1996), pp. 22-39. Woolf, osservando quel fenomeno noto e indicato come “epigraphic habit” o “epigraphic impulse”, che ha contraddistinto in particolare l’impero romano fra II e III secolo, ribadisce, a p. 29, l’importanza della parola esposta nella società romana, soprattutto nei monumenti, «because words were the only images precise enough to convey the complex names and relationships that defined the identities of individual Romans», aggiungendo, a p. 32, appunto che «the fear of oblivion is evident in its use as a sanction, for example in the device we term damnatio memoriae».
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persona, ma diventa da sé sempre più rarefatta per la perdita di significato e di importanza del ricordo di una data persona.
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Abbiamo appena illustrato quanto accade nel mondo classico, dove la pratica della damnatio memoriae si definisce, prevedendo una pena legata a un gesto concreto e non espressa attraverso le parole. Una pratica che non vuole intenzionalmente distruggere l’iscrizione o il monumento, ma colpire in modo mirato la persona ricordata in quell’iscrizione o da quel documento, scrivendo idealmente una condanna attraverso altri segni rispetto a quelli alfabetici: in fondo una rasura non è la negazione della scrittura quanto piuttosto un’espressione semantica più forte ed esagerata della scrittura. E nel medioevo? Almeno per quanto ho potuto sinora rilevare, devo anticipare che si ritrovano in qualche caso atteggiamenti analoghi, anche se in una serie di attestazioni troppo rarefatte e frammentarie per essere considerate testimonianze significative di una prassi comportamentale radicata, consapevole, condivisa e soprattutto diacronicamente attestata con regolarità. Si tratta di una circostanza che testimonia come la scelta di comunicare il biasimo e di condannare all’oblio si sia indirizzata verso altri linguaggi comunicativi. Una scelta che si rivela certo originale e peculiare e forse per certi versi sorprendente, considerando in particolare la forte espansione dell’epigrafia pubblica urbana nel tardo medioevo. La coscienza del fatto che l’iscrizione sia fortemente contestualizzata e abbia, specie nelle esperienze comunali, altrettanto forte importanza nella costruzione della memoria civium, avrebbe dovuto infatti, almeno teoricamente, indurre a servirsi, nei confronti di un nemico, della possibilità della negazione della sua memoria e, dunque, della sua eliminazione dal ricordo collettivo e avrebbe dovuto richiedere la messa in atto di precise strategie esecutive. Insomma chi controlla la memoria potrebbe avere anche il potere di cancellarla. E invece si tratta di una tendenza che si rileva sempre raramente e che risulta un fatto eccezionale nell’epigrafia medievale, anche e soprattutto in quella funeraria. La forma più seguita per cancellare il ricordo di un individuo rimane comunque quella di eliminarne visivamente il nome. A Roma, in antiqua aula in palatio senatoris, si conservava un’epigrafe in esametri leonini, ora perduta ma di cui possediamo fortunatamente il testo, che celebrava la costruzione nel 1299, ad opera dei senatori Pietro Stefaneschi e Andrea Normanni, di una loggia di giustizia appunto nel palazzo senatorio sul Campidoglio, in evidente richiamo alla loggia di giustizia bonifaciana al Laterano. All’interno del testo epigrafico si menzionavano, nella datatio, il sanctissimus dominus Bonifacius papa VIII e, nella sua chiusa, Lamberto dei
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Caetani di Pisa, che al tempo era iudex e conservator camerae urbis. Sia il nome del pontefice che quello del giudice sono stati erasi ed è facile supporre che ciò sia avvenuto per ispirazione o per opera degli acerrimi nemici Colonna, che hanno accomunato nella condanna due personaggi omonimi, ma in realtà appartenenti a lignaggi del tutto diversi23. Passiamo a famiglie e a personaggi meno illustri. Sulla parete esterna della chiesa senese di S. Niccolò dei Mantellini al Carmine è murata la lapide sepolcrale dei fratelli Leonardo e Giacomo di Simone, della fine del XIV secolo. La lapide è perfettamente bipartita: la sua metà inferiore è occupata da uno scudo con l’arma della famiglia, quella superiore da una secca iscrizione, che ricorda appunto come si tratti del Sepulchrum Lonardo et Iacomo di Simone, parole cui segue, cancellata, secondo molte ricostruzioni, un’altra parola, fabri, che può essere intesa o come il cognome dei fratelli o come l’indicazione del loro mestiere, essendo i due appartenenti appunto all’Arte dei “Fabbri grossi”24. Membri del Monte dei Riformatori nel 1384, in seguito alla caduta del regime, furono perseguitati e forse uccisi ed ecco perché, con quello che ci appare un vero e proprio atto di damnatio memoriae, si provvide anche ad eliminarne il cognome o l’”etichetta civica”. Non si fece invece altrettanto con lo stemma famigliare, ancora ben leggibile. Dal nome del singolo passiamo inevitabilmente allo stemma familiare, segno di riconoscimento, che diventa uno scontato e pertanto facile bersaglio. Come si affermano il proprio ruolo e il proprio prestigio apponendo sui luoghi del potere il proprio stemma, così questo viene rimosso o scalpellato, quando quel ruolo e quel prestigio vengono a mancare, come ci mostrano i tanti stemmi dei podestà e dei capitani del popolo ancora visibili sulle facciate dei palazzi comunali italiani che assai spesso, se non sono stati eliminati, sono stati comunque danneggiati sino a renderli irriconoscibili25. Ricordo poi che in particolare nelle epigrafi e nei monumenti fune-
23 Il caso è interessante quanto raro, e ne tratta diffusamente il saggio di G. B. de Rossi, La loggia del Comune di Roma compiuta nel Campidoglio dai senatori dell’a. 1299, «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», ser. II, 10 (1882), pp. 130-140. 24 Cfr. S. Colucci, Sepolcri a Siena tra Medioevo e Rinascimento. Analisi storica, iconografica e artistica, Firenze 2003, pp. 213-214 e fig. 43. 25 Una prassi, sia detto per inciso, che ritroviamo anche nei manoscritti medievali, dove lo stemma del possessore, che spesso è anche il committente del libro, di norma collocato nel margine inferiore del foglio iniziale, spesso inserito all’interno di un fregio, viene frequentemente eraso. Accanto a una motivazione ideologica come quella appunto della damnatio memoriae possiamo immaginare abbia esercitato un’influenza ancora maggiore una motivazione molto più pratica, quella cioè di eliminare la riconoscibilità di chi aveva
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bri nobiliari si osserva la presenza, insistita e volutamente accentuata, degli stemmi, che servono a stabilire una connessione immediata fra il defunto e la sua illustre e potente famiglia, a fissarne il rango e l’appartenenza sociale, ma che sembrano quasi volere anche occupare simbolicamente i luoghi in cui si trovano le tombe. Siamo insomma davanti a un impiego mirato e consapevole dell’araldica come mezzo espressivo di un’appartenenza dinastica che diventa orgoglio familiare, nella piena consapevolezza della funzione “mediatica” del segno araldico, simbolo sintetico di un individuo e di una stirpe, che ne consente e ne esalta la riconoscibilità. Ecco dunque perché assume un medesimo e forte valore l’operazione contraria, quella cioè della deletio. Faccio solo qualche esempio. In una bella vera da pozzo quattrocentesca di origine certamente veneziana, ma conservata nel parco del castello di Miramar, a Trieste, gli stemmi in essa apposti sono stati scalpellati, mentre in un sarcofago trecentesco, conservato nella stessa suggestiva cornice e anch’esso di origine veneziana, a essere stati scalpellati sono invece il testo dell’iscrizione, collocata sul lato frontale e, probabilmente, delle croci astili patenti, che si trovavano sui due fianchi della cassa, ma non gli stemmi26. Andando avanti nel tempo, come abbiamo modo di verificare, questo comportamento diventa prassi consolidata, anche se spesso risponde a esigenze in parte diverse da quelle che spingono a decidere e dunque ad attuare una damnatio memoriae intesa nel suo senso più autentico. Una parete del palazzo del Broletto di Brescia era costellata dalle epigrafi, poste in onore dei rettori veneti e accompagnate dai loro ritratti e dai loro stem-
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posseduto in precedenza il codice, che lo poteva avere venduto, ma al quale, altrettanto frequentemente, poteva essere stato illecitamente sottratto. 26 «Il fatto che siano stati scalpellati via l’epitaffio e le croci e non gli stemmi fa escludere una damnatio memoriae o un gesto di ‘iconoclastia’ politica, come quelli operati dai Giacobini; probabilmente i simboli religiosi ed il ricordo della destinazione sepolcrale della cassa furono eliminati dopo la soppressione della chiesa di provenienza, quando il pezzo è stato declassato a una funzione profana ed utilitaristica, verosimilmente di abbeveratoio per cavalli»: così suppone G. Tigler, La scultura lapidea veneziana d’età gotica a Trieste, in Medioevo a Trieste. Istituzioni, arte, società nel Trecento. Atti del Convegno (Trieste, 22-24 novembre 2007), cur. P. Cammarosano, Roma 2009, pp. 333-352: 337. Vale la pena ricordare che sempre nello stesso saggio, alla p. 339, l’autore cita un interessante caso di damnatio memoriae, ovvero la scalpellatura della torre che reggeva nella mano una santa Barbara rappresentata in una lastra marmorea sempre trecentesca e sempre veneziana, parte verosimilmente di un sarcofago e ora conservata all’interno del castello di Duino, scenograficamente posto su di uno sperone carsico a picco sul mare del golfo di Trieste e assai caro a Rilke. La torre, uno degli attributi della santa, spesso con tre finestre a simboleggiare la Trinità, è anche l’arma dei primi proprietari del castello, i conti della Torre: è forse per questa ragione che è stata eliminata in un’epoca indefinita, magari nel cruciale 1797.
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mi, poi abrase a seguito di una delibera del Senato della Serenissima del 4 marzo 1692, che volle eliminare, scalpellandole, «quelle pietre sopra de’ quali […] si vedevano eloggi ed inscritioni in lode de’ rappresentanti passati»27. La deriva auto-laudatoria che prese l’affastellamento, anzi l’ostentazione degli stemmi (e soprattutto delle iscrizioni celebrative) dei podestà veneziani fu dunque alla base di questa decisione, che segue ad esempio quella con cui, nel 1691, sempre il Senato veneto ordinò la rimozione e la cancellazione di tutte le «iscrizioni ed altre memorie, laudative dei podestà veneziani, innalzate nelle città suddite». La decisione di scalpellare le epigrafi elogiative e gli stemmi famigliari, come di rimuovere busti e statue dedicati ai rettori, per contrastare, a dire il vero, il culto della personalità più che per comminare la pena della damnatio memoriae, quasi in una sorta di recupero della legislazione antimagnatizia medievale, dovette poi fare i conti con il maggiore o minore zelo di coloro che dovevano concretamente eseguire quest’opera di rimozione sistematica dei ricordi, o meglio della concretizzazione del ricordo, né mancò l’azione contraria, quella cioè di ricollocamento nella loro ubicazione originaria – dunque nelle loro nicchie – dei busti dei rettori prima rimossi28. Di fatto tuttavia, se le motivazioni dell’agire possono essere diverse, gli effetti sono risultati i medesimi, portando comunque alla cancellazione del ricordo, anzi degli strumenti per affermare il ricordo, così come analoghi sono stati i tentativi di recuperare il ricordo, ripristinando i segni materiali, visibili del ricordo stesso. Muoviamoci verso Verona, dove la propaganda politica scaligera passò anche attraverso l’uso consapevole e diffuso della parola esposta. Nel corso del secolo scaligero (1277-1387) sono in particolare gli sviluppi edilizi e il riassetto urbanistico della marmorea urbs (e anche dei centri vicini, come Peschiera) a venire celebrati e fissati nel ricordo collettivo attraverso numerose epigrafi, in cui l’auto-esaltazione dei signori raggiunge l’acme. Partendo da questi presupposti non sorprende una circostanza, che pure,
27
Come si ricorda ne I Diari dei Bianchi (1600-1741), editi da P. Guerrini, Le cronache bresciane inedite dei secoli XV-XIX, V, Brescia 1932, pp. 1-148: 46. 28 Ci riferiamo, per la verità, in particolare a quanto è avvenuto specificamente a Belluno, fra la fine del 1691 e il maggio del 1692, in seguito appunto all’ordine trasmesso dalla ducale del 19 novembre 1691, di cancellare le epigrafi elogiative dei rettori e di rimuovere statue e busti loro dedicati. Se infatti fu scalpellata almeno una parte, quella più facilmente raggiungibile, delle epigrafi (ma non degli stemmi), le raffigurazioni dei rettori subirono una sorte diversa e migliore: dapprima rimossi, i busti vennero poi ricollocati già pochi anni dopo – nel 1696 – sulle facciate del Palazzo dei rettori e degli altri edifici pubblici cittadini. Cfr. M. Perale, Il Palazzo dei Rettori di Belluno. Storia e architettura, Belluno 2000, pp. 88-89.
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e questo forse è invece sorprendente, rimane un episodio isolato. Mi riferisco alla scalpellatura dello stemma che campeggiava al centro di una delle due iscrizioni che ricordano la costruzione del ponte delle Navi da parte di Cansignorio tra il 1373 e il 1375, collocate in origine sulla torre che stava al centro del ponte. Quella in volgare, col testo di una ballata ma senza le armi della famiglia è rimasta, direi ovviamente, intatta. Quella in latino ha al centro dello specchio epigrafico, a occupare un terzo della superficie, lo stemma scaligero entro uno scudo ovale sostenuto da un’aquila ad ali spiegate, stemma che è stato accuratamente eliminato: ci troviamo in questo caso di fronte a una damnatio memoriae, che peraltro non è possibile datare con precisione29. Il danneggiamento, quando non la vera e propria totale eliminazione, degli stemmi medievali, che da soli campeggiavano sulle facciate dei palazzi pubblici comunali o accompagnavano epigrafi e monumenti funerari, in seguito ad eventi traumatici come quelli bellici non solo è fenomeno diffuso in tante altre realtà regionali, ma è prassi insomma che perdura nel tempo ed è frequente in età moderna, soprattutto in età napoleonica. Serve non solo a eliminare il ricordo del singolo, ma anche e soprattutto del suo gruppo famigliare: la condanna all’oblio colpisce l’identità genealogica ed è la risposta ovvia a quella politica di affermazione di sé e della propria stirpe, che, come abbiamo già ribadito, proprio attraverso gli stemmi si realizza visivamente30. Ricchissima di esempi in tal senso è l’epigrafia di area ligure, per la quale disponiamo di un corpus assai articolato, in cui spiccano esempi tutti simili, che sembrano dunque rispecchiare comportamenti ricorrenti. Il furore contro gli stemmi poteva toccare le iscrizioni funerarie, ma anche quelle commemorative, come accade all’epigrafe che ricorda la costruzione di una loggia, avvenuta il primo giorno di maggio del 1411, da parte delle famiglie Camilla e Lercari nelle vicinanze del Palazzo Ducale31. Gli stemmi delle due antiche e nobili famiglie – in particolare i Lercari furono 29 Cfr. Modonesi, Museo di Castelvecchio cit., pp. 54-55, n. 24. 30 Fenomeno nel fenomeno è quello ben rilevato da D. Kraack, Monumentale Zeugnisse
der spätmittelterlichen Adelsreise. Inschriften und Graffiti des 14. bis 16. Jahrhunderts, Göttingen 1997, sub voce damnatio memoriae: ci riferiamo alla pratica, non così occasionale, di danneggiare i graffiti devozionali e gli stemmi che nobili pellegrini erano soliti apporre durante i loro pellegrinaggi nei luoghi santi. Kraack studia in particolare le testimonianze ancora conservate ad esempio a Betlemme e in particolare nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme e suppone che ad operare questa frequente eliminazione siano stati i nemici di coloro che avevano incautamente lasciato le tracce del loro passaggio. 31 Cfr. Corpus inscriptionum Medii Aevi Liguriae, III. Genova. Centro storico cit., pp. 95-96, n. 165, fig. 165.
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sovente consoli dei placiti, dunque amministratori della giustizia, ma poi anche, soprattutto, fra ‘500 e ‘600, ambasciatori e dogi –, collocati agli estremi dell’elaborata lastra, furono abrasi, così come fu abrasa l’immagine dell’Agnus Dei scolpita al centro. Com’è inevitabile sono appunto alcune delle grandi famiglie genovesi, quelle dalla storia antica e dalla genealogia incastonata di personaggi illustri, a patire maggiormente la furia iconoclasta, soprattutto all’epoca della Repubblica democratica ligure, costituita nel 1797. Per citare uno dei tanti casi liguri, ricordo che nel chiostro della chiesa genovese di S. Domenico era conservata la lapide funeraria di Tommaso De Mari, di sua moglie e dei suoi eredi, datata 14 maggio 1324, nella cui parte sinistra era incisa, entro uno scudo, l’arma della famiglia, ora abrasa32. I De Mari, va ricordato, erano un’antica famiglia che diede a Genova anche dei dogi, in particolare fra il XVII e il XVIII secolo. La rimozione fisica del ricordo sembra tuttavia toccare solo marginalmente il lignaggio genovese forse più importante, quello dei Doria. Ad esempio la loro chiesa famigliare, che divenne anche il loro pantheon, la chiesa di S. Matteo, nella piazza genovese omonima, e il loro palazzo, prospiciente la stessa chiesa, non subirono danni rilevanti in tal senso33. Gli esempi possono naturalmente continuare e riguardano casi di rimozione della memoria del singolo personaggio e, più in generale, del potere e del regime politico che attraverso quei segni esteriori si manifestavano. Spostiamoci a Roma e camminiamo verso Castel S. Angelo, arrivando dal ponte S. Angelo: lo stemma che vediamo, ma che non riconosciamo più, è quello di papa Alessandro VI Borgia ed è uno dei pochi sopravvissuti alla distruzione totale operata dalle truppe rivoluzionarie francesi. Affiancato da due vittorie alate, probabilmente riportava sia i simboli della carica pontificia (tiara e chiavi) sia il toro, l’emblema araldico del casato. Si 32
Ibid., II. Genova. Museo di Sant’Agostino cit., pp. 68-69, n. 51, fig. 51. In alcuni casi sembra che più che di damnatio memoriae si possa parlare di un danneggiamento irragionevole, indiscriminato e cieco, senza un bersaglio preciso, come sembrano testimoniare le lastre tombali conservate nella chiesa genovese di S. Maria delle Vigne, tutte scalpellate e con gli stemmi abrasi. Si tratta tuttavia di iscrizioni commemorative di personaggi non sempre illustri, come quella tardo-trecentesca di Antonio Ruby, macellaio di Sampierdarena, dei suoi fratelli speziali, dei figli ed eredi. Cfr. ibid., III. Genova. Centro storico cit., p. 67, n. 117, fig. 117. 33 Fra le epigrafi funerarie di membri della famiglia Doria che furono invece danneggiate possiamo ricordare la lapide sepolcrale di Tommaso Doria, capitano della Riviera di Ponente, morto nella liberazione della città dall’assedio delle truppe viscontee, il 15 giugno 1438, lapide un tempo collocata nella cattedrale di Albenga. Le armi poste ai due lati dell’iscrizione sono state scalpellate, così come segni di abrasione presenta l’aggettivo illustris, con cui viene indicato il defunto. Cfr. ibid., IV. Albenga, Alassio, Ceriale, Cisano sul Neva, Ortovero, Villanova d’Albenga cit., pp. 42-44, n. 11, fig. 11.
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è invece conservata la solenne iscrizione in capitale epigrafica col nome del pontefice e la data, il 1495, della fine dei lavori di difesa della fortezza, ad opera probabilmente di Antonio da Sangallo il vecchio. I Francesi forse non sapevano leggere il latino o forse si accontentarono di rimuovere i simboli più riconoscibili dell’odiato potere della Chiesa. Ricordo peraltro che, in un movimento circolare di continua condanna del ricordo, lo stemma di papa Borgia aveva a sua volta sostituito quello di Bonifacio VIII, che, in occasione del Giubileo del 1300, aveva avviato una campagna di restauro di alcuni monumenti, fra cui appunto il mausoleo di Adriano34. Parliamo di stemmi, ma il discorso vale naturalmente anche per altri simboli, come i leoni marciani. Ad esempio a Treviso, entrata nel dominio di Terraferma veneziana per prima, già nel 1339, i leoni, considerati gli emblemi più ufficiali della Serenissima, erano diffusamente presenti sulle porte e sulle mura cinquecentesche come anche sui palazzi pubblici, ma la maggior parte di essi fu rimossa o sfregiata al momento della caduta di Venezia nel 1797, quando infuriò quella che si potrebbe definire “leontoclastìa giacobina”: il lapidario dei Musei Civici raccoglie notevoli esempi, di provenienze diverse, di teste leonine e bassorilievi coi leoni marciani che sono stati scalpellati. La medesima cosa avvenne naturalmente in molti altri centri veneti e lombardi, da Brescia a Feltre, dove per sfregio a Venezia, nella implacabile distruzione di molte vestigia architettoniche e artistiche, si sono scalpellati proprio i leoni di San Marco.
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Accentuando, anzi esagerando una delle modalità della damnatio memoriae del mondo classico, quella cioè della scalpellatura delle statue e dei busti o dei ritratti dai bassorilievi e dalle monete si giunge evidentemente sino al danneggiamento o addirittura alla distruzione del monumento funebre che dovrebbe appunto custodire e garantire la memoria di un individuo35, dato che, come notoriamente suggerisce Ulpiano secondo quanto riporta il Digestum (XI, 7.2.5-6), «monumentum est quod memo34 È interessante osservare come alcuni stemmi di altri pontefici, come quelli di Urbano VIII Barberini oppure di Paolo III Farnese non sono stati invece toccati, probabilmente perché erano collocati in luoghi poco visibili. 35 «Dem politisch-propagandistischen Einsatz der Grabdenkmäler stand ein negatives Korrelat zur Seite: die Zerstörung der Monumente, die zur Ächtung des politischen Gegners beitragen sollte. […] Beispiele verraten den Willen zur Schädung des menschlichen Gedenkens, zur damnatio memoriae, der die Denkmäler der Mächtigen zwangsläufig in besonderer Weise ausgesetzt waren»: così giustamente osserva I. Herklotz, Grabmalstiftungen und städtische Öffentlichkeit in spätmittelalterlichen Italien, in Materielle Kultur und religiöse Stiftung im Spätmittelalter, Internationales Round-table-gespräch (Krems an der Donau, 26. September 1988), Wien 1990, pp. 233-271: 239.
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riae servandae gratiae existat». A quelli già proposti da altri relatori aggiungo altri esempi, certo noti, ma comunque pertinenti, che riguardano manufatti talora oramai definitivamente scomparsi, talora invece ancora conservati36. Nel 1257 (o forse 1258) alla morte di Aldobrandino degli Ottobuoni, uno degli anziani del Primo Popolo di Firenze, i cittadini decisero di onorarlo dedicandogli, a spese pubbliche, un imponente monumento funebre collocato nella cattedrale di S. Reparata, monumento sul quale si incise un’iscrizione celebrativa in esametri leonini. Quando, a seguito della battaglia di Montaperti, i ghibellini assunsero la guida della città, la tomba venne distrutta e il corpo di Aldobrandino fu gettato in un fosso, come ricorda Giovanni Villani nella sua Cronica (VI, 62), e lo stesso destino toccò nel 1267 alle tombe degli Uberti37. Il singolare sarcofago del guelfo Berardo Maggi, prima vescovo e poi princeps della città di Brescia, morto nel 1308, collocato nel Duomo vecchio bresciano, e il complesso monumento funebre del ghibellino Guido Tarlati, prima arcivescovo poi signore della città di Arezzo, morto nel 1327, monumento anch’esso innalzato nel duomo cittadino verso il 1330 a opera di Agostino di Giovanni e Agnolo Ventura su disegno di Giotto, sono stati danneggiati quasi subito dopo la loro costruzione: quello di Maggi verosimilmente nel 1316, quando la famiglia venne cacciata dalla città, quello di Tarlati, malamente poi restaurato nel Settecento, nel 1341, quando il potere ad Arezzo ritornò alla parte guelfa38. Ciò si verificò quando le famiglie dei due prelati vennero sconfitte e cacciate dalle loro città, perdendo il potere. Si tratta di personaggi che ebbero peraltro delle vicen-
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36 Rimando anche ai casi, pochi ma pur sempre significativi, raccolti da I. Herklotz, “Sepulcra” e “Monumenta” del Medioevo, Roma 1985, pp. 222-223, che a proposito della violatio sepulchri ribadisce, a p. 222, come «oggetto dell’offesa non era solo la salma, ma anche il monumento funebre; l’idea della dannazione della “memoria”, esattamente nel senso antico, tornava perciò sempre più in primo piano». 37 Cfr. G. Villani, Cronica, II, Firenze 1823, p. 69 e R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, IV. 3, Berlin 1927, pp. 378-379. 38 Della tomba del vescovo bresciano dà un’interessante lettura J.-F. Sonnay, Paix et bon gouvernement: à propos d’un monument funéraire du Trecento, «Arte medievale», s. 2, 4 (1990), pp. 179-191, che parla diffusamente anche del monumento dedicato a Tarlati, con cui istruisce degli utili confronti. Rimandiamo anche alle considerazioni sulla tomba Tarlati di M.M. Donato, «Cose morali e anche appartenenti secondo e’ luoghi»: per lo studio della pittura politica nel tardo medioevo toscano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento. Relazioni tenute al convegno internazionale organizzato dal Comitato di studi storici di Trieste, dall’École française de Rome e dal Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Trieste (Trieste, 2-5 marzo 1993), cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 491-517: 507-510.
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de biografiche sovrapponibili, che furono ambedue signori delle loro città e che sono accomunati anche dalla particolarità dei loro monumenti funebri, in cui la rappresentazione di fatti storici che li videro protagonisti, organizzati in un programma di glorificazione politica, si integra con il più consueto programma iconografico funerario. Tutti esempi, questi, che rivelano la volontà di disonorare il ricordo dell’uomo, dunque di realizzare una damnatio memoriae non comminata ufficialmente, ma imposta de facto, alla quale erano esposte in particolar modo le tombe dei potenti. Aggiungo che la distruzione delle tombe monumentali degli avversari rappresenta in qualche modo un complemento inevitabile della loro edificazione e in ambedue i casi si tratta di evidenti e consapevoli atti politici, che offendono tanto il corpo quanto il sepolcro, dunque la memoria. A Padova i monumenti funebri dei nemici Carraresi subirono la damnatio memoriae veneziana: la monumentale tomba di Francesco il Vecchio (morto nel 1393), eretta nel 1398 dal figlio Francesco Novello, e quella della moglie Fina Buzzaccarini (morta nel 1378), entrambe collocate in un significativo e imponente mausoleo, rappresentato dal Battistero cittadino, vennero appunto distrutte nel momento dell’arrivo del dominio veneziano, nel 1405. Resta solo, nel Battistero, l’arcone su mensole un tempo sovrastante il monumento funerario di Fina; sui dadi che reggono le mensole si leggono ancora le sigle F F, che vengono intese come le lettere iniziali appunto di Fina e di Francesco, mentre nel sublime affresco di Giusto de’ Menabuoi che lo accompagna sono dipinti e sono ancora visibili i carri39. Una sorte meno drammatica subirono invece le arche pensili di Ubertino e Iacopo II da Carrara, morti rispettivamente nel 1345 e nel 1350. Imponenti monumenti funebri a parete sotto un arcosolio, con le immagini dei defunti giacenti, collocati un tempo affrontati nell’abside della chiesa di S. Agostino e ora agli Eremitani, sono strepitose opere gemelle di Andriolo de’ Santi ed erano arricchite nella loro struttura originaria da una decorazione a fresco di Guariento, andata quasi completamente perduta40. La celebrazione signorile si era realizzata attraverso una politica di immagine e grazie a questi monumenti sepolcrali, che tuttavia, almeno nel caso degli ultimi due da Carrara evocati, non vennero distrutti, ma solo danneggiati: infatti i danni si limitano alla scalpellatura degli stemmi carraresi posti sui dadi delle mensole che reggono l’arcosolio. Peraltro la damnatio 39 40
Cfr. http://maldura.unipd.it/ddlcs/cem/index.html, Duomo-Battistero 2. Cfr. http://maldura.unipd.it/ddlcs/cem/index.html, SS. Filippo e Giacomo rispettivamente 8 e 7.
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non colpì, consapevolmente o casualmente, tutti i membri della famiglia carrarese, lasciando per esempio intatta l’epigrafe, datata 15 luglio 1401, che ricorda come Valburga, figlia di Francesco il Vecchio e badessa di S. Agata e Cecilia, fece costruire il chiostro del monastero padovano, dove in origine era collocata la lastra (attualmente conservata nel Palazzo Trento Papafava), che forse per questa ragione rimase nascosta alla vista dei più. Nel suo comparto superiore si trova l’arma carrarese con cimiero a testa di saraceno, che occupa gran parte della superficie, schiacciando quasi la parte testuale. Questa lapide è particolarmente interessante, dato che si tratta di una delle rare testimonianze dell’epoca di Francesco Novello sopravvissuta del tutto intatta sotto i colpi della damnatio memoriae messa in atto dalla Serenissima all’indomani della conquista di Padova41.
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Io non cercavo solo le forme tradizionali della damnatio memoriae, quelle cioè concrete, realizzate eliminando la parola esposta in virtù della deletio, ma anche quelle per così dire virtuali, che attuassero la condanna della persona e, dunque del suo ricordo, attraverso la parola esposta e non attraverso la sua cancellazione. È per questo che – ora posso aggiungere – erroneamente supponevo di trovare, nelle epigrafi commemorative di un evento o di celebrazione di un personaggio, la menzione, seppure in negativo, dell’avversario, da demonizzare e dunque in qualche modo da far dimenticare. Nella esiguità dei testi esaminati non ho trovato sostanzialmente nulla che esplicitamente andasse in tale direzione, e la circostanza mi ha indotto a pensare che, se mai c’è stata una produzione epigrafica con una fisionomia siffatta, essa possa aver avuto una caratteristica strutturale ben precisa, quella cioè di essere una scrittura di livello basso, non tanto per quanto attiene ai contenuti, quanto per ciò che concerne la sua esecuzione. Si potrebbe cioè pensare a un’epigrafia realizzata non sul supporto lapideo, aere perennius, bensì in modo più estemporaneo, ad esempio dipinta oppure, in forme ancora più spontanee, graffita: una tecnica e una forma di scrittura, insomma, che, contrariamente a quanto che avviene di solito, non prevedono il tempo e la durata nel tempo. Il che spiegherebbe la mancanza di testimonianze, che la tradizione non ha voluto o potuto conservare, data la loro “volatilità” e che non aveva neppure senso conservare a lungo. In un processo costante di eliminazione dei “cattivi ricordi” è plausibile che, quando un dato evento o un dato personaggio sono stati dimenticati, anche le iscrizioni che li riguardavano siano state eliminate, in
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Cfr. http://maldura.unipd.it/ddlcs/cem/index.html, Palazzo Papafava 1.
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quanto oramai del tutto prive di un valore evocativo e dunque di un significato per la coscienza e la memoria collettive. Potremmo definire queste esperienze come “scritture transeunti”, e in qualche modo esse vengono a essere tangenti alle scritture infamanti, se pure non a esse perfettamente sovrapponibili. Delle pitture, e immagino anche delle scritture dipinte infamanti, avremo modo di sentire in questi giorni cose nuove. Ma, facendo mie osservazioni già proposte, mi preme metterne in rilievo quegli aspetti che, assai probabilmente, esse condividevano con le epigrafi volte a realizzare la damnatio memoriae, in nome di quella consuetudine con la scrittura esposta che caratterizza il tardo medioevo. Si trattava, nell’uno e forse nell’altro caso, di epigrafi assai più labili e caduche rispetto a quelle incise. Il medioevo, specialmente nel suo momento comunale, seppe inventare e sfruttare anche specifici generi epigrafici sconosciuti – per quanto ne sappiamo - all’Antichità, come le scritte infamanti che a mo’ di didascalia accompagnavano le pitture infamanti, dunque le raffigurazioni, su determinati edifici pubblici cittadini, dei colpevoli di determinati reati, più o meno gravi, come il falso o la bancarotta, sino al tradimento o all’omicidio: un genere di punizione giudiziaria anch’esso tipicamente medievale, particolarmente associato al periodo delle grandi contese che travagliarono la vita delle istituzioni comunali42. Ma devo ricordare come le scritte infamanti dipinte abbiano avuto da sole una loro diffusione anche precedente a quella delle pitture: già in una rubrica degli statuti di Vercelli del 1242 si stabiliva che per chi fosse riconosciuto colpevole d’infamia fosse scritto «litteris grossis ita quod bene legi possit in muro palacii intra palacium communis Vercellarum dealbato nomen illius infamati et per quam causam fuit infamatus et per quem rectorem»43. Solo successivamente la pittura si aggiunse alla scrittura. Nell’uno e nell’altro caso, siano state esse epigrafi infamanti a se stanti, oppure dida-
42 D’obbligo è il rinvio almeno al saggio che ha raccolto e organizzato i tanti dati sul fenomeno della pittura infamante: ci si riferisce naturalmente a G. Ortalli, «… pingatur in Palatio …». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979, che osserva quasi all’esordio del suo studio, alla p. 25, come «colpire l’individuo attraverso la sua immagine significava utilizzare il simbolo per giungere ad un fine concreto, seguendo una via molto congeniale ad un ambiente […] ancora […] analfabeta ma […] assai attento alla rappresentazione figurata». Si tratta di considerazioni che mantengono inalterata la loro validità anche quando le trasferiamo dalle pratiche della pittura infamante a quelle della damnatio memoriae, che colpisce tanto le raffigurazioni fedeli degli individui, dunque i loro ritratti, quanto i simboli che li rappresentano, dunque ad esempio le loro insegne araldiche, quanto le parole che le ricordano, dunque i segni alfabetici incisi che compongono i testi di iscrizioni commemorative o funerarie. 43 Ibid., pp. 65-66.
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scalie esplicative delle raffigurazioni pittoriche, andava garantita loro la massima leggibilità, che doveva a sua volta garantire l’identificazione e il biasimo del personaggio punito, come recitano tante formule diverse ma equivalenti che si incontrano nelle norme statutarie. Inoltre grazie all’esposizione pubblica si perfezionava in qualche modo l’atto di condanna, al quale si attribuivano così l’accettazione e l’approvazione della comunità. Lo scopo che accomuna tutte queste azioni è quello, come bene osserva Gherardo Ortalli, «di colpire certi personaggi distruggendone l’immagine quando il suo permanere poteva significare il riconoscimento di una posizione pubblica non più giudicata come legittima o meritata: un lungo filo collega la classica damnatio memoriae […] all’“accecamento” delle insegne che ricordavano in Firenze il dominio del duca d’Atene, all’azzurro velario con cui a Venezia si coprì la figura di Marino Falier […] fino a una serie di analoghe azioni delle quali la stessa società contemporanea è non di rado spettatrice»44. Esistono dunque pratiche che servono, se non proprio a cancellare il ricordo, almeno a infangarlo, dunque realizzano quella lutatio cui ho già fatto cenno. E in fondo, come abbiamo più volte sottolineato, un effetto voluto o comunque ottenuto dalla damnatio memoriae non è tanto quello di eliminare il ricordo, bensì quello di disonorarlo. È questo certamente lo scopo che si attribuì a una colonna infame sui generis, quella che il Senato veneziano decretò di erigere nel 1364 per commemorare lo scampato pericolo rappresentato dall’“iniquo tradimento” di Baiamonte Tiepolo, come si ricorda nel testo della iscrizione in essa incisa. Il cippo aniconico, che ora si conserva nel Civico Museo Correr di Venezia, alto poco meno di un metro e dalla circonferenza di poco meno di due metri, era in origine collocato sul terreno, dove si innalzava la dimora del traditore, che venne rasa al suolo. Tiepolo, morto intorno al 1328, si era messo col suocero Marco Querini a capo di una congiura che, anche con l’aiuto padovano, avrebbe dovuto abbattere il dogato. Dopo il fallimento dell’assalto al Palazzo ducale, che ebbe luogo il 15 gennaio 1310, Tiepolo fu esiliato e abbandonò Venezia, continuando invano nelle sue trame. La congiura suscitò gran clamore e questo spiega anche l’iniziativa di condanna che lo colpì, volta a caricarlo di ignominia e anche a lasciare un monito, essendo stato il cippo «posto […] per altrui spavento e per mostrar a tutti sempre seno», come si legge nell’iscrizione in volgare veneziano, in quattro endecasillabi rimati, che è incisa sulla sua superficie.
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Ibid., p. 30.
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E sempre a Venezia, solo qualche anno dopo, troviamo invece un caso classico di damnatio memoriae, che ha citato en passant Ortalli nel passaggio sopra ricordato: quella cioè che colpì Marino Falier, divenuto doge nel 1354, reo di avere congiurato contro il Maggior Consiglio e per questo motivo l’anno dopo, nel 1355, condannato alla decapitazione, che venne eseguita con gran clamore e assai scenograficamente proprio sulla grande scalinata del Palazzo Ducale. La sua immagine era tuttavia rimasta fra quelle dei dogi che ornavano la sala nuova del Maggior Consiglio. Così, nel 1366, il Consiglio dei Dieci decise di rimuovere il ritratto e lo stemma di Falier, colorando lo spazio rimasto vuoto di azzurro (il colore legato simbolicamente alla morte), e soprattutto aggiungendovi una scritta che ricordava che «hic fuit locus ser Marini Faletro decapitati pro crimine proditionis»: l’oligarchico stato veneziano sceglieva dunque uno strumento di punizione consolidato e tradizionale, anche se nel contempo più antiquato rispetto ad esempio al violento impatto comunicativo della pratica allora assai diffusa della pittura infamante45. Entrambe le iniziative, assai diverse fra di loro, più che l’effetto di cancellare il ricordo possono avere avuto quello, duplice, di disonorarlo pur conservandolo nel tempo. Di fatto, se un segno può essere uno stimolo della memoria, esso può aiutare la capacità di ricordare qualcuno anche in negativo: in questo caso cioè si avrebbe la condanna ad essere perseguitati da una cattiva memoria. Ciò che è stato o che è stato commesso non si può cancellare, ma ricordare e condannare consapevolmente, anche se, nel caso della pittura infamante, mi sembra che la sua efficacia sia da collocarsi solo nel presente e nel quotidiano e manchi di quella funzione prospettica, tutta indirizzata verso il futuro, di cui invece, come si è già osservato, viene caricata la damnatio memoriae. Qualche volta troviamo nell’epigrafia anche traccia della restitutio memoriae, dunque della riabilitazione della persona, prassi assai frequente nel mondo classico e ovviamente legata alla precedente, in quanto volta a risarcire il danno nel momento in cui il condannato viene riabilitato: dalla damnatio memoriae si passa dunque alla memoria reddita. Un caso di emendatio della memoria, come viene indicato con un termine che non a caso è anche filologico, è quello che riguarda l’arcivescovo di Milano Teodoro. Su uno dei due capitelli pseudo-corinzi ora conservati nel Castello Sforzesco di Milano, ma provenienti dalla distrutta chiesa milanese di S. Maria di Aurona, fondata da Aurona, sorella di Teodoro, capitello che probabil45
Ibid., pp. 168-170.
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mente faceva parte del suo monumento funebre, troviamo una sintetica ma significativa epigrafe funeraria che recita: «Hic requiescit dominus Theodorus archiepiscopus qui iniuste fuit damnatus». Si ricorda, in estrema sintesi, la tragica sorte di Teodoro, divenuto arcivescovo nel 725 e morto nel 739, perseguitato ingiustamente dal sovrano longobardo Ariperto II e finalmente riabilitato dal proprio fratello Liutprando, quando quest’ultimo divenne re46. Abbiamo a che fare con un risarcimento della damnatio, ammesso che ve ne sia stata una, o, più semplicemente, colla volontà di riportare sotto una più positiva luce l’arcivescovo. In ogni caso si tratta di un’azione riabilitativa, che si realizza molti secoli dopo gli accadimenti, visto che i capitelli sono datati all’XI secolo.
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Faccio una considerazione a margine, sviluppando un’osservazione che prende spunto dall’analisi di due epigrafi che mi paiono originali e significative. Una è rappresentata dall’epigrafe funeraria di Bono, consul e dux napoletano, dell’834, epigrafe attualmente collocata nella basilica paleocristiana di S. Restituta a Napoli. Morto a 47 anni, Bono fu dapprima alleato e poi in conflitto con il principe longobardo di Benevento Sicone, che gli aveva sottratto le reliquie di san Gennaro. Secondo quanto racconta una fonte certo partigiana e a lui fortemente avversa, come i Gesta episcoporum Neapolitanorum, la sua reputazione era pessima, ma il suo epitaffio ce ne tesse invece le lodi, sottolineando come la sua morte ad lacrimas cogit47. Un caso analogo è quello dell’iscrizione funeraria di fra Paolino da Milano, morto nel 1323, predicatore, guardiano del Santo di Padova, rappresentante dell’ufficio dell’inquisizione, ma soprattutto abile paciere, tanto che proprio nell’anno della sua morte fu inviato a Trento come mediatore tra Marsilio da Carrara ed Enrico duca di Carinzia. Tutte qualità elogiate nel suo epitaffio, che si conserva nella Basilica del Santo. Ma non sempre il portrait du défunt rispecchia la realtà e le vicende personali di questo frate ne sono un chiaro esempio48. Nell’epitaffio si sottolineano
46 L’intervento più recente sui capitelli in questione è sicuramente in Milano e la Lombardia in età comunale (secoli XI-XIII), Milano 1993, p. 456, n. 375 (scheda a cura di G. A. Vergani). 47 Cfr. N. Gray, The paleography of latin inscriptions in the eighth, ninth and tenth centuries in Italy, «Papers of the British School at Rome», 16 (n. ser., 3) (1948), pp. 38-167: 128-129, n. 123. 48 Sulla questione della costruzione, retorica ed ideologica, degli epitaffi, su cui pure non mancano interventi più circostanziati, specie per il periodo classico e per quello tardoantico, rimandiamo alla efficace introduzione di B. Mora, Le portrait du défunt dans les épitaphes (750-1300). Formulaire et stéréotypes, «Le Moyen Âge», 97 (1991), pp. 339-353.
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la sua condotta di vita irreprensibile e la sua onestà, mentre sono note le frodi da lui compiute nella gestione, anzi nella cattiva gestione, che durò per ben venti anni, dell’eredità del frate Aicardino di Litolfo. L’iscrizione funeraria naturalmente tace della questione, concentrata com’è ad elogiare l’attività di fra Paolino, eliminando tutte le ombre e accendendo solo le giuste luci49. Dai due esempi, di fatto sovrapponibili, deduciamo che le iscrizioni, soprattutto quelle funerarie, servono spesso anche per cancellare il cattivo ricordo e ricostruirne uno nuovo, mitologico ed edificante, del tutto lontano dalla realtà: servono insomma a prevenire o contrastare una possibile damnatio. Se già di norma il linguaggio degli epitaffi è costruito attraverso una sovrapposizione di formule stereotipate, che ricostruiscono un ritratto del defunto non sempre corrispondente alla realtà – un linguaggio insomma impastato di luoghi comuni, esaltazioni delle virtù morali e richiami a norme ideali di comportamento – in qualche caso, proprio in quei casi in cui sarebbe stato probabile o addirittura inevitabile ricorrere alla damnatio memoriae, o anche incapparvi, si anticipa sapientemente questa mossa con una contromossa, creando una biografia impeccabile e inattaccabile, perfetta e pertanto inverosimile. Insomma dall’oblio della memoria si passa alla ricostruzione della memoria, anzi, di un’altra memoria.
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Torno al punto della questione. Se dovessi riassumere l’esito di questo mio percorso, dovrei dire che mi sono sempre scontrata con un grande silenzio e con una straordinaria e forse inaspettata mancanza di fonti. Ma, paradossalmente, anche il silenzio delle fonti comunque parla, o almeno non è del tutto privo di contenuti. Faccio nuovamente il caso di Verona, ricordando lo “spazio vuoto”, per così dire, in cui si cade osservando la produzione epigrafica, anzi la mancata produzione epigrafica riconducibile al periodo del ventennio ezzeliniano50. La totale assenza della memoria 49 Si vedano sul personaggio la breve biografia e la descrizione della sua iscrizione funeraria offerte da Foladore, Il racconto della vita cit., II, pp. 51-53 e 167-170, scheda 25. 50 Il recente lavoro sull’epigrafia tardomedievale veronese che si è sopra citato ha ulteriormente e direi definitivamente illuminato il buio clamoroso e totale delle fonti epigrafiche riguardo a Ezzelino. Osserva infatti Sartori, Dalla romanica alla gotica cit., pp. 200-201, che, nel notevole deserto epigrafico che caratterizza i cinquanta anni dal 1230 al 1280, «sono forse comprensibili i poco più di due decenni di silenzio durante il travagliato periodo di Ezzelino III da Romano, dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta del Duecento. Si può ipotizzare forse una scarsa produzione epigrafica, seguita da una damnatio memoriae che può aver portato alla scomparsa anche delle poche attestazioni che avrebbero potuto essere prodotte (anche se di per sé […] Verona non ha soluzioni di continuità irrimediabili fra l’età ezzeliniana e quella successiva). Non rimangono purtroppo testimo-
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su pietra coincide in particolare con l’esercizio del potere da parte di un personaggio, il cui ricordo ha subito una pesante rimozione: non sappiamo se questo spazio sia rimasto vuoto già da allora oppure se sia l’esito di una eliminazione totale della presenza, dell’attività, anche della sola menzione di Ezzelino. Quale che sia stata la causa, l’effetto comunque è e rimane eclatante ed è una situazione che si ripresenta, con la medesima fisionomia, anche per la Padova duecentesca. La vera damnatio di personaggi assai controversi potrebbe essersi realizzata non, a posteriori, attraverso l’eliminazione del nome, bensì, ancora prima, almeno apparentemente, a priori, cioè attraverso la mancata menzione del nome stesso. Ci si deve chiedere insomma se nel caso del personaggio che ho menzionato non si sia distrutto nulla perché non si era prodotto nulla che li potesse ricordare. Insomma, le lapides damnantes e quelle damnatae, se mi si passa il gioco di parole, forse non ci sono più, ma forse non ci sono più perché non ci sono mai state.
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Arrivando alla fine di questo discorso, che non dà certezze, anzi ne toglie, mi sembra evidente che almeno una sicurezza rimane, quella cioè che il linguaggio epigrafico in età medievale, perlomeno, ha in qualche modo dei precisi contesti d’uso: i suoi ambiti sono e rimangono prevalentemente quelli celebrativo-memoralistico-commemorativi ed evidentemente non si ritiene legittimo travalicare questi limiti, né intervenire a modificare il dettato dei testi, anche solo eliminando un nome sgradito. Insomma la damnatio memoriae non è nel medioevo un atteggiamento culturale e politico condiviso e diffuso, che recepisce e conserva l’eredità del mondo classico e sembra realizzarsi eventualmente secondo altre modalità. Forse interviene anche, a spiegare questa cesura, se non l’apparente abbandono di questa sanzione, il cambiamento radicale nella mentalità fra età classica ed età di mezzo, fra mondo pagano e mondo cristiano. Per l’uomo romano il ricordo nel mondo dei vivi è fondamentale e comunque una garanzia di sopravvivenza, e da qui nascono la paura dell’oblio e l’efficacia di sanzioni come la damnatio memoriae, che forse colpiscono meno, in una prospettiva tutta ultraterrena, l’uomo medievale, per il quale è più importante il giudizio divino rispetto a quello degli uomini51. Si scivola così dai fatti,
nianze in tal senso, né di iscrizioni realizzate, né di iscrizioni distrutte, per cui tale ragionamento può restare al puro livello di ipotesi, non suffragata o suffragabile, allo stato attuale dell’analisi delle fonti, da prove». 51 Peraltro anche Neumüllers-Klauser, Zum Phänomen der Erasio nominis cit., pp. 258259, osserva «daß vielmehr die letzte Entscheidung über das Schicksal eines Menschen
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o meglio dalle cose, alle idee e il piano dell’analisi si deve mutare, spostandosi dalla storia dei comportamenti a quella della mentalità che quei comportamenti ha determinato. Non posso non sottolineare che sto entrando in ambiti che non sono miei, anzi, mi aspetto proprio da altri smentite o conferme. E propongo un ulteriore elemento sul quale riflettere e in relazione al quale le voci altrui possono confortarmi o invece muovermi delle obiezioni. La damnatio memoriae, nelle sue realizzazioni classiche, prevede l’intervento di un’autorità pubblica capace di imporre le proprie decisioni e diventa efficace se da parte dell’élite dominante si riesce a incidere sulla memoria collettiva. Per questo motivo, come ho già avuto modo di anticipare velocemente, anche nel mondo medievale si dovrebbe avere a che fare con la damnatio, intesa dunque nel suo senso più stretto e tecnico, solo o soprattutto se e quando a decretarla sia appunto un’autorità pubblica sufficientemente forte e che in qualche modo controlla la memoria collettiva. Insomma un dominus dello spazio grafico non inteso solo e strettamente come chi organizza e controlla dei programmi di esposizione grafica, quanto piuttosto come colui che sulle scritture esposte può intervenire legittimamente con questa azione di censura e di cancellazione del ricordo. Peraltro anche il contesto di una comunità, soprattutto, pensando al tardo medioevo italiano, una collettività civica che condivida valori e giudizi è fondamentale perché la condanna abbia un senso e soprattutto un impatto significativo. Concludo con un’ultima osservazione. Quello che mi sembra emerga con forza, al di là di tutto, è una doppia necessità, che è anche una doppia strada da seguire per ulteriori e indispensabili approfondimenti. Da un lato è importante continuare l’attenta verifica delle forme per così dire “altre” di damnatio memoriae, alcune delle quali stiamo imparando a conoscere in questa sede. Più efficace della cancellazione materiale dalle epigrafi è probabilmente quella metaforica operata dal racconto, censurato e reticente, delle vicende storiche opportunamente rimaneggiate. Questo accade ad esempio alla pseudo-Ermengarda, che fu la quarta figlia di re Desiderio e la sposa ripudiata di Carlomagno, menzionata nella storiografia altomedievale sempre come filia regis, di cui nessuna cronaca ricorda invece il nome proprio, tanto che ancora adesso non lo sappiamo con certezza. Bell’esempio di cosciente damnatio memoriae promossa ed attuata in perfetta concordia di intenti dall’élite franca e dalla chiesa romaGott anheimgestellt sei» e pertanto «eine damnatio/deletio memoriae, die sich auf antiken Gebrauch zurückführen ließe, ist in der mittelalterlichen Überlieferung nirgends bezeugt und die Anwendung des Terminus […] daher irreführend».
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na, la cui efficacia si è esercitata anche al di fuori di questi due circuiti, che erano poi quelli culturalmente dominanti. A questa spinta decisa verso l’oblio se ne aggiunge un’altra, almeno parziale, che coinvolge Gerberga, la vedova di Carlomanno, fratello di Carlo, ricordata col suo nome corretto solo negli Annales Mettenses priores, probabilmente perché alla morte del marito si era rifugiata proprio a Pavia dal sovrano longobardo, che, per inciso, non era suo padre come spesso si è sostenuto, appunto per la mancanza di informazioni certe sulla donna52. L’altro opportuno itinerario di ricerca è quello del sondaggio serio e attento in particolare in alcune fonti, come quelle statutarie e cronachistiche, per cercare nel dettato delle norme emanate e nelle parole degli storici di allora le registrazioni precise, le menzioni veloci, o quanto meno le tracce superficiali di una pratica forse troppo volatile almeno in alcune delle sue realizzazioni. Solo ora, giunta alla fine, capisco che avrei dovuto cambiare il titolo del mio intervento, il quale sarebbe dovuto suonare come una domanda piena di dubbi piuttosto che come un’affermazione piena di certezze.
52 Riprendo le osservazioni pertinenti che a riguardo propone S. Gasparri, I Longobardi fra oblio e memoria, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, cur. G. Barone - L. Capo - S. Gasparri, Roma 2001, pp. 237-277. In particolare a proposito del triste destino della pseudo-Ermengarda, scivolata nell’oblio più fitto e avvolgente, anzi, come acutamente osserva, «nelle retrovie della storia», nonostante fosse quella che si attendeva un fulgido e importante destino, Gasparri sottolinea la forza di questa operazione di cancellazione, aggiungendo, a p. 269, che «la profondità dell’operazione di rimozione si comprende pienamente solo se, a tutte le considerazioni già fatte, si aggiunge la coscienza del ruolo di primo piano che avevano le regine (e più in generale le donne di stirpe reale) in area longobarda. […] La vicenda della pseudo-Ermengarda è indicativa delle vicende in cui ci muoviamo. I silenzi delle fonti, talvolta, sono pesanti e voluti quanto le loro voci».
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Nel settembre del 1342 i fiorentini concessero la signoria della città a Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e duca d’Atene oltreché signore di un’altra decina località sparse tra la sua Francia d’origine e il Mezzogiorno d’Italia, nelle terre di Puglia in particolare. Grande del regno, rinomato uomo d’arme e parente acquisito per matrimonio del re Roberto d’Angiò, il duca d’Atene sul momento incarnava al meglio il profilo di principe angioino a cui i fiorentini, sporadicamente ma da quasi mezzo secolo, avevano affidato la signoria della città, inserendola così più strettamente nel coordinamento guelfo angioino dell’Italia di primo Trecento. Dopo undici mesi di regime, almeno tre congiure animate da tre diverse fazioni cittadine forzarono con le armi il francese a rinunciare alla signoria e lo cacciarono dalla città, per sempre1. A partire dalla cacciata del duca e il ristabilimento di un regime comunale, le autorità di Firenze promossero un vasto dispositivo di costruzione di una memoria di tutta la vicenda smaccatamente di parte, che ebbe esiti testuali, rituali e figurativi. Più che di una damnatio memoriae in senso 1
Per la signoria fiorentina di Gualtieri di Brienne v. lo studio di C. Paoli, Della signoria di Gualtieri duca d’Atene in Firenze. Memoria compilata sui documenti, Firenze 1862 (estratto dal «Giornale storico degli Archivi Toscani», 6), utile soprattutto per la documentazione regestata; l’episodio è stato trattato da tutte le principali storie di Firenze, la sintesi più aggiornata in J. M. Najemy, A History of Florence, 1200-1575, Malden MA-Oxford-Victoria 2006, pp. 124 ss.; per la biografia del signore, molto accurata la voce di E. Sestan, Brienne, Gualtieri, in Dizionario Biografico degli Italiani, 14, Roma 1972, pp. 237 ss. Sulla tradizione politica angioina a Firenze, cfr. A. De Vincentiis, Firenze e i signori. Sperimentazioni istituzionali e modelli di regime nelle signorie fiorentine degli angioini (fine XIII-metà XIV secolo), tesi di dottorato di ricerca in storia medievale (XI ciclo, Università degli studi di Milano, discussa a.a. 19992000) e De Vincentiis, Le signorie angioine a Firenze. Storiografia e prospettive, «Reti Medievali. Rivista», 2 (2001), http://fermi.univr.it/rm/rivista/mater/DeVincentiis.htm. Sul coordinamento guelfo angioino nell’Italia di primo Trecento, classico G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano (1974), Torino 1979, pp. 316-330.
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stretto si trattò di un processo differenziato, dai vari attori, prolungato nel tempo, e in tutto ciò simile al percorso memoriale del duecentesco tiranno della Marca Trevigiana, Ezzelino da Romano2. A differenza del caso di Ezzelino, la memoria del duca d’Atene tuttavia non conobbe battaglie, non vide memorie alternative scontrarsi tra loro: fin dai primi anni, fu solo la memoria dei suoi nemici. Anche per questo, aldilà dei racconti degli storici, della signoria fiorentina si finì col ricordare quasi sempre e solo la cacciata del 26 luglio 1343, il momento eroico in cui i cittadini nuovamente uniti si liberarono del dominatore straniero. Furono semmai i diversi contesti storici in cui si manifestò tale immagine memoriale a variarne le inflessioni, i significati, le funzioni. E le variazioni furono molte giacché, forse ancor più del caso di Ezzelino, la memoria del duca d’Atene selezionata, deformata e reinterpretata, ebbe una vita lunghissima in Italia: giunse vivace per lo meno all’unità nazionale, agli anni ‘70 dell’ Ottocento. Del momento finale di questa vicenda è possibile identificare un documento particolarmente significativo perché incrocio di tensioni politiche, interpretazioni colte e ricezione popolare. Inoltre, la natura stessa della testimonianza finisce con il rivelare un aspetto molto spesso sfuggente e ambiguo dei processi di memoria e delle loro tradizione, il ruolo dello stile.
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1. «Noi partimmo divisi in due colonne, una da Pisa e l’altra da Firenze alla volta di Modena […] Ed oh meravigliose a vedere quelle legioni improvvisate, nelle quali il medico, l’avvocato, l’artigiano, il prete, il padrone e il servo marciavano mescolati in culto d’Italia. Oh letizia il sentirci finalmente guerrieri d’Italia! »3. Giuseppe Montanelli, docente di diritto a Pisa, membro del governo provvisorio che aveva retto lo Stato toscano nel 1849, durante gli anni del seguente esilio in Francia era fiero di ricordare in termini eroici il valore di quei volontari italiani; come lui, quei giovani combatterono il 29 maggio 1848 a Montanara e Curtatone nel mantovano 2 Sul dispositivo di memoria messo in atto dai fiorentini fin dai mesi successivi alla cacciata del duca d’Atene, v. A. De Vincentiis, Politica, memoria e oblio a Firenze nel XIV secolo. La tradizione documentaria della signoria del duca d’Atene, «Archivio storico italiano», 161 (2003), pp. 209-248 (distribuito in formato digitale da Reti Medievali, http://fermi.univr.it/RM/biblioteca/SCAFFALE/d.htm#Amedeo%20Devincentiis). Per la tradizione figurativa, alcuni accenni in R. J. Crum - D. G. Wilkins, In the Defense of Florentine Republicanism: Saint Anne and Florentine Art, 1343-1575, in Intepreting Cultural Symbols: Saint Anne in Late Medieval Society, cur. K. Ashley - P. Sheingorn, Athens 1990, pp. 130-140. 3 G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, II, Torino 1853, p. 279.
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contro le ben più numerose truppe austriache comandate dal feldmaresciallo Radetzky4. Se dal punto di vista militare lo scontro non produsse granché nella guerra tra il Piemonte sabaudo e l’Austria asburgica, nella memoria mitologica in costruzione del Risorgimento invece aver partecipato a l’evento diventò presto un segno distintivo, una onorificenza implicita. Quelle truppe di cittadini nel fresco ricordo acquistavano tanto più merito quanto più rappresentavano il popolo italiano tutto nel suo anelito alla libertà: tra medici, avvocati, artigiani, preti, padroni e servi ricordati dal professore volontario, però, militavano anche vari artisti, alcuni pittori, avidi di sporcarsi le mani al di fuori dei loro ateliers. Tra costoro, colui che forse maggiormente beneficiò della partecipazione alla sfortunata impresa fu il fiorentino Stefano Ussi, fatto prigioniero sul campo e deportato per alcuni anni nel carcere austriaco di Theresienstadt5. Liberato e rientrato in patria, il pittore venne premiato per la sua arte e per il suo impegno politico con un pensionato a Roma nel 1854. A quel tempo Ussi era già noto come pittore di storia patria, genere privilegiato per illustrare i fasti della civiltà italiana, attingendo soprattutto all’era che appariva come la più ricca di precedenti eroici e illustri del movimento di liberazione nazionale: il medioevo dei comuni, il secolo di Dante. Profilo politico e specializzazione figurativa furono sicuramente le ragioni per cui, durante il soggiorno romano, un gruppo di eminenti cittadini (e patrioti) fiorentini commissionò al pittore con una sottoscrizione la realizzazione di un grande dipinto, emblematico di ciò che stava accadendo, o che si auspicava accadesse di lì a poco. La scelta cadde sulla cacciata del duca d’Atene da Firenze. Ussi, già allora tendente al perfezionismo formale, ragionò a lungo sulla struttura compositiva del dipinto, ne discusse con i suoi amici pittori, Domenico Morelli, Amos Cassioli e altri ancora nella Firenze del Caffè
4 Montanelli sarebbe rientrato in Italia nel 1859, da parlamentare nazionale tuttavia si asterrà dal votare l’annessione della Toscana al regno sabaudo, v. P. Bagnoli, Democrazia e stato nel pensiero politico di Giuseppe Montanelli (1813-1862), Firenze 1989; Giuseppe Montanelli. Unità e democrazia nel Risorgimento. Atti del convegno, Firenze 1988, cur. P. Bagnoli, Firenze 1990. 5 Nonostante la grande fama goduta in vita, il pittore Stefano Ussi non ha ancora goduto di studi specifici; indicazioni introduttive con riferimenti bibliografici si trovano soprattutto in cataloghi di mostre collettive, v. Ottocento: romanticism and revolution in 19th-century Italian painting, cur. R. J.M. Olson, Firenze 1992, pp. 281 ss.; Uno sguardo ad Oriente : il mondo islamico nella grafica italiana dall’età neoclassica al primo Novecento, cur. M.A. Fusco -M.A. Scarpati, Roma 1997, p. 140 e passim; v. anche la sintesi di S. Bietoletti - M. Dantini, L’Ottocento italiano : la storia, gli artisti, le opere, Firenze 2002, pp. 272-280 per la cacciata del duca d’Atene e passim sull’artista.
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Michelangelo, dove si era trasferito; non sappiamo invece quanto si informasse presso cultori di storia patria e eruditi circa il suo soggetto. Il quadro rimase in lavorazione per anni, fino a quando un altro evento storico non ne rese più urgente, e pertinente, l’esposizione pubblica. Il 27 aprile del 1859 infatti l’ultimo granduca, Leopoldo II, partì definitivamente dalla sua capitale lasciando il posto al governo provvisorio della Toscana libera guidato da Bettino Ricasoli, con il compito di procedere formalmente all’annessione del ducato al regno di Sardegna. Più che di una cacciata, allora si trattò di una educata desistenza da parte del sovrano, isolato: sempre Montanelli ricordò come a Leopoldo non fu torto un capello, anzi venne accompagnato deferentemente alla sua carrozza, aiutato a salirvi e persino omaggiato di un eccellente sigaro toscano (al ché l’Asburgo Lorena avrebbe replicato, con sorriso ironico, «io vado via, ma sigari così non ne fumerete più», mentre la folla gridava «arrivederla, sor granduca!»)6. Forse fu anche per compensare nell’immaginario la prosaicità dei fatti di una liberazione da un tiranno così remissivo che Ussi venne spinto a ultimare e rendere finalmente visibile la sua cacciata del duca d’Atene, datata al 18607. Esibita pubblicamente a Firenze alla prima esposizione nazionale nel 1861, la grande tela di quattro metri e mezzo per più di tre in effetti proponeva un precedente della liberazione in forme ben più eroiche e drammatiche di quanto non fosse avvenuto nel 1859. Il dipinto mette in scena l’istante della domenica 3 luglio 1343 in cui il duca francese, asserragliato con i suoi in palazzo Vecchio, assediato dal popolo in rivolta, assalito dalle incertezze di un carattere irresoluto, dubita se ratificare o meno di suo pugno la rinuncia alla signoria. La scena è centrata sulla figura di Gualtieri, unico personaggio assiso e con lo sguardo rivolto agli spettatori; al suo fianco, si staglia torvo Cerrettieri Visdomini, crudele scherano del tiranno; più a sinistra campeggiano i capi delle tre congiure contro Brienne, tra cui spicca il vescovo di Firenze, Angelo Acciaioli: attorno una folla tumultuante di armati e cittadini fa da movimentato sfondo alla scena. Ussi non aveva inclinazioni erudite, ma poté facilmente documentarsi sulla signoria del duca d’Atene ricorrendo a quella che allora ne era il racconto più conosciuto, e in particolare a Firenze. Le narrazioni storiografiche più accreditate e note circa l’episodio erano il resoconto di un testimone oculare degli eventi, cioè i capitoli che vi aveva dedicato Giovanni 6 Montanelli, Memorie cit. 7 Stefano Ussi, La cacciata del duca d’Atene (olio su tela, cm. 320x452, Firenze, Galleria
d’arte moderna di Palazzo Pitti).
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Villani nella sua cronaca scritti a caldo; quindi la ricostruzione offerta da Niccolò Machiavelli nelle sue Istorie fiorentine, di più di un secolo e mezzo successiva; e la più fantasiosa narrazione di Scipione Ammirato, ricca di dettagli e corroborata da ulteriori notizie nella seconda edizione, curata nel 1641 dall’erede delle sue carte Cristoforo Del Bianco8. Gran parte di quei testi, però, erano a disposizione nella appendice al libro che nei circoli intellettuali e letterati della Firenze risorgimentale era diffusamente associato alla tirannia trecentesca di Gualtieri di Brienne, Il Duca d’Atene, la bizzarra «pittura dialogata» di Niccolò Tommaseo9. Nella seconda metà del giugno 1837, a «rue du Coq, près le Louvre» era stato pubblicata la prima edizione del racconto storico di cui il trentacinquenne Tommaseo, in esilio volontario a Parigi, aveva appena steso l’ultima versione, dopo un rapsodico lavoro preparatorio iniziato tre anni prima10. Edito in Francia per timore della censura, il racconto era destinato a una cerchia scelta di lettori italiani, per lo più fiorentini: uomini di cultura, di studi e soprattutto di lettere che l’autore aveva più volte sollecitato e incuriosito con una corrispondenza intessuta di dichiarazioni di poetica e richieste di consigli. Nonostante una blanda censura, Il Duca d’Atene era circolato in quegli ambienti, suscitando reazioni in cui l’entusiasmo ideologico per la rivisitazione di una storia di rivolta per la libertà e l’indipendenza della patria era temperata da perplessità sulla resa drammatica e lo stile dell’opera11. Sebbene con toni agrodolci, alla fine degli anni ‘30 di
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8 Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. Porta, III, Parma 1991, l. XIII, cap. 17 (la cacciata del duca d’Atene); Niccolò Macchiavelli, Istorie fiorentine, ed. P. Carli, 1927, 1, l. II, cap. 37; Scipione Ammirato, Istorie Fiorentine di Scipione Ammirato, ridotte all’originale e annotate, ed. L. Scarabelli, 7 voll., Torino 1853. 9 «Scrissi, né so per isbaglio, un Duca d’Atene, non romanzo ma pittura dialogata, “visibile parlare/ novello a noi», scriveva Niccolò Tommaseo a Gino Capponi il 14 ottobre 1836: N. Tommaseo - G. Capponi, Carteggio inedito (1833-1874), edd. I. Del Lungo - P. Prunas, Bologna 1911, p. 496. 10 «Studio la storia del Duca d’Atene»: la prima notazione riguardo l’opera appare nei diari di Tommaseo in data 21-24 gennaio 1834, v. N. Tommaseo, Diario intimo, ed. R. Ciampini, Torino 1946, p. 169. Sulla vicenda compositiva e testuale, v. i documentati apparati dell’edizione Tommaseo, Il Duca d’Atene, ed. F. Michieli, Roma-Padova 2003, pp. XXIXCII. 11 Le critiche all’opera di Tommaseo, sempre espresse accanto all’adesione per il tema trattato dall’autore, si appuntavano su due aspetti ben riassunti in una lettera di Giovita Scalvini del 19 settembre 1837: per il contenuto, «mi pare che sarebbe stato bene mettere in maggior rilievo le crudeltà del Duca che cagionarono la ribellione, affinché fosse onestata questa, e giustificate in qualche modo le crudeltà de’ Fiorentini, o almeno paressero meno orribili. Invero da tutto il romanzo, qual è, il lettore che non sia Italiano vorrà piuttosto parteggiare pe’ Francesi che pe’ Fiorentini»; per la forma, «Vorrei anche che i personaggi avessero più vita e indole propria; il che avreste ottenuto, solo che aveste voluto esse-
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quel libro comunque si era parlato parecchio a Firenze, e poi anche altrove; così Tommaseo continuò a rimetterci mano anche dopo la prima edizione. Nel 1847 il racconto venne pubblicato in traduzione tedesca, ma solo in tarda età, quasi cieco, l’autore si decise a proporne una nuova versione: e questa volta in patria, a Milano nel 185812. Negli anni in cui Stefano Ussi era intento a ragionare sulla composizione della sua cacciata del duca d’Atene, dunque, il libro di Tommaseo rientrava in circolazione, in una nuova versione e corredato da una inedita nota circa gli Intendimenti dell’autore. In quelle pagine, Tommaseo si soffermava in particolare su ciò che di quella cacciata il testo avrebbe voluto rendere agli occhi del pubblico: lo smarrimento del protagonista quale segno visibile dell’imprevedibilità delle vicende umane. Una imprevedibilità che coinvolge gli attori stessi degli eventi, i rivoltosi come la colpevole vittima, in un movimento cosmico tanto più potente quanto risultante imprevedibile di singoli movimenti parziali: «queste cose succedono acciocché né l’uomo singolo per autorevole che paia, né i popoli per quanto si tengano grandi arroghino a sé il vanto della rovesciata ingiustizia e delle franchigie istaurate. E acciocché meglio si umilino, segue che le trame loro stesse in uno o più punti si vengano l’una con l’altra intralciando, e che da quello che umanamente è nodo, si svolga inopinato il divino scioglimento. Coteste trame, intrecciate tra loro, invece di farsi rete ai deboli serrano tutt’intorno il potente violento, e lo fanno rimanere immoto come in un lago di ghiaccio. Egli sente mutato ogni cosa intorno a sé, e non sa che cosa, appunto perché il mutamento è nel tutto; come il nostro e gli altri globi movendosi intorno al sole e a sé stessi, veggono sopraggiungere inevitabile il verno e la notte. Se non che al violento la mutazione sopravviene insolita, inesplicabile; e non gli par vero che uomini, dianzi prostrati e mutoli, abbiano virtù di levare la voce e la fronte»13. Come suggerito in quelle pagine, Stefano Ussi infine costruì l’immagine della cacciata sovrapponendo la fila dei protagonisti principali a uno
re un po’ men breve. La soverchia brevità dà a sì fatte composizioni non so che di nudo e di scarno […] Siete sempre affrettato; e l’aver troppa fretta credo che nuoce allo scrittore di romanzi; ad ogni pittore del mondo esterno», cit. in F. Michieli, Nota al testo, in Tommaseo, Il Duca cit., p. XXXV. 12 N. Tommaseo, Der Herzog von Athens: Erzählung, Stuttgart 1847; Tommaseo, Il Duca D’Atene, Milano («presso Francesco Sanvito») 1858. Le variazioni tra la prima e la seconda versione tendono a smussare le scene di violenza del popolo in rivolta, ma v. Michieli, In margine alla lingua e allo stile: analisi delle varianti, in Tommaseo, Il Duca cit., pp. LV-LXXVIII. 13 Tommaseo, Il Duca cit., p. 199.
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sfondo di personaggi in agitazione, per ottenere un’impressione avvolgente di movimento tendenzialmente circolare, da destra a sinistra, come l’orbita incompiuta di un sistema planetario in fibrillazione. Al suo centro, il «potente violento» intrappolato in una «rete» avviluppante: il duca è colto «immoto», gelato dall’indecisione mentre «ogni cosa intorno a sé» muta, sopraffatto dalla storia «inesplicabile» che gli si svolge attorno. Per rendere più intensamente il contrasto tra dinamica del contesto e immobilità del protagonista, tuttavia, il pittore non seguì alla lettera le sue fonti. In nessuno dei 61 capitoli del racconto di Tommaseo vengono rappresentate contemporaneamente le azioni raffigurate dall’artista. L’episodio della consegna alla folla inferocita del figlio dell’odiato ministro ducale, all’estrema sinistra nel quadro, e quello della ratifica della rinuncia alla signoria si trovano ben distinti nella narrazione; così come la rinuncia stessa consiste in un assenso orale alla lettura del documento e non in una indecisa firma autografa. In ciò, il letterato seguiva la dinamica riportata dalle sue fonti, Villani, Machiavelli, Ammirato, che invece il pittore condensò in un’unica rappresentazione14. 2. I poeti italiani alla corte di Federigo II e San Benedetto che invia san Placido in Sicilia a fondarvi l’ordine dei Benedettini (di Alfio Rapisardi), Il riconoscimento del cadavere di re Manfredi e L’ingresso di Carlo VIII in Firenze (di Giuseppe Pezzuoli), Fra Girolamo Savonarola che si presenta a Carlo VIII come ambasciatore della repubblica fiorentina (di Vincenzo Lami), La congiura dei Pazzi (di Cesare Mussini), La morte di Alessandro de’ Medici (di Natale Pollastrini): i visitatori della prima Esposizione
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14 La scena della rinuncia vera e propria è ivi pp. 178-179: «Queste condizioni scritte e riscritte in pergamena, e sigillate col suggello ducale, furono dal vescovo di Lecce rilette ad alta voce e sonora (per abito di cancelliere, non per oltraggio), fremente il duca. Al quale il vescovo dettò il giuramento: – Giuro al nome di Dio, giusto e vendicatore, e a tutte le potenze celesti che invisibili ed infallibili veggono l’animo mio, d’attenersi le qui scritte promesse, a ogni costo […] Gualtieri ripeteva con gli occhi fitti alla terra, no altro movendo del corpo sui che le labbra, e con sì leggier moto che le parole appena s’intendevano […] Fatto il sacramento, in segno del deposto dominio, e’ depose il bastone ch’aveva in mando». Giovanni Villani e Niccolò Machiavelli, che Ussi poteva comodamente leggere riportati in appendice al racconto di Tommaseo (sia nella prima che nella seconda edizione), sono parchi di dettagli: «Il duca rinunziò con sacramento ogni signoria e ogni giurisdizione e ragione ch’avesse acquistata sopra la città e contado e distretto di Firenze, dimettendo e perdonando ogni ingiuria, e a cautela promettendo di ratificare ciò, quando fosse fuori del contado e distretto di Firenze», Villani, Nuova cronica cit., p. 231; «Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro, si concluso lo accordo, che il duca se ne andasse coi suoi e sue cose salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze, rinunziasse, ancora che mal volentieri, ratificò», Machiavelli, Istorie fiorentine cit., p. 243.
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Nazionale Italiana inaugurata a Firenze nel 1861 scoprirono la tela di Stefano Ussi esposta nella sezione dedicata alla pittura e circondata da altre rievocazioni storiche, vecchie e nuove15. La pittura di storia rappresentava un punto di forza dell’iniziativa che, nell’ottica degli organizzatori, avrebbe dovuto essere una sorta di secondo plebiscito per la nascente nazione, un sogno premonitore di quella che sarebbe stata la nuova Italia: «Non vi par di sognare pensando che questa Italia, derisa da secoli ed appena orsono tre anni gemente sotto il ferro di stranieri signori, siasi oggi raccolta in Firenze per mezzo dei suoi più forti e più nobili rappresentanti, le Arti, l’Industria, il Commercio?», notavano gli osservatori sulla stampa16. E a quel sogno i pittori di storia, più degli altri, sembravano tenuti ad obbedire, rispettando i canoni di un’arte impegnata civilmente e politicamente; contro gli ideali dell’arte per l’arte, che allora erano sempre più in voga, la storia patria infatti era un giacimento pressoché inesauribile di soggetti moralizzanti e educativi. Visitando quelle sale, il drammaturgo Napoleone Giotti (alias Carlo Jouhaud), autore per suo conto di drammi come Aroldo il Sassone, Giano della Bella e della fortunata trilogia La lega lombarda, pubblicata proprio nel 1848, ravvisava in molte di quelle tele la realizzazione, più o meno compiuta a seconda dei diversi talenti, dei doveri civili della pittura storica: «pitturare fatti nazionali la cui memoria sia profondamente e religiosamente radicata dentro all’anima di un popolo, e con l’esempio reso più efficace dall’opera estetica deve sapere accendere l’entusiasmo e l’amore alla patria, il nobile sentimento della propria indipendenza e alla sacra volontà di emancipazione»17. Scrutinando i dipinti di storia esposti nel 1861 con la lente del più acceso patriottismo risorgimentale, Giotti come molti altri assegnò senza esitazioni la palma alla tela di Ussi, espressione perfetta della 15 Sull’esposizione del 1861: B. Cinelli, Firenze 1861: anomalie di una esposizione, «Ricerche di Storia dell’arte», 18 (1983), pp. 21 ss.; in particolare, sulle sezioni dedicata alla pittura, C. Del Bravo, Milleottocentosessanta, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 2 (1975), pp. 779 ss. e C. Sini, 1861-1899: gli anni delle Esposizioni. Gli esperimenti del vero “ … la cosa sta così nell’arte perché così stava la verità”, http://www.artelabonline.com/article_files/file_1203615215_131.pdf. 16 La citazione della Gazzetta del Popolo di Torino è in E. Colle, Monumenti domestici all’Esposizione fiorentina del 1861, «Artista. Critica dell’Arte in Toscana», (1990), p. 114. 17 N. Giotti, L’Esposizione Nazionale Italiana. Cicalata a proposito della pittura storica, «Rivista contemporanea», 28 (1862), p. 194. Sulla attività drammaturgica di Giotti, in particolare sulla sua Lega lombarda, cfr. C. Trevisan, Delle condizioni della letteratura drammatica italiana, Firenze 1867, pp. 37 ss. («Il Giotti, investendo nel più alto concetto, come doveva il poeta filosofo, quel fatto glorioso alla patria, ci presentò quale fu Barbarossa, l’incarnazione cioè della forza contro il diritto», p. 38).
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«intenzione dell’arte e specialmente della storica pittura»18. La cacciata rievocava un episodio antico, dell’eroico Trecento comunale e fiorentino, ma le cui tracce ancora vivevano nella memoria storica locale; esaltava la lotta popolare per la libertà e l’indipendenza dallo straniero: e lo faceva tanto più efficacemente quanto più l’artista si era impegnato nel rispetto dei canoni estetici e compositivi che dovevano regolare quel genere di pitture. «Il duca titubante ancora, e il cui animo tergiversa fra la truce ambizione del potere che vorrebbe contrastare ancora la preda, e la vile paura della pena» segnava il centro di una composizione grandiosa, in cui non vi era «nulla di triviale» e accademico19. Ussi aveva schivato i principali rischi della pittura evocativa di storia, cioè lo scivolamento nell’artificioso, nell’ideale a discapito del «vero», le trappole del manierismo accademico e degli «anacronismi»20. I «costumi, gli accessorii, i tipi delle diverse figure hanno l’impronta del tempo»: la scena riproponeva efficacemente «quella che oggi i critici chiamano tinta locale»21. Per quanto molto attento ai fatti artistici, Giotti non era un pittore e neppure un critico militante; da intellettuale impegnato nella causa nazionale, del quadro di Ussi gli interessava il contenuto specifico per la carica evocativa dell’evento di rivolta, ma anche la resa retorica, ovvero l’effetto di persuasione indotto sullo spettatore. Da entrambi questi punti di vista, La cacciata del duca d’Atene aveva colpito nel segno e il quadro venne propagandato come simbolo politico soprattutto sul fronte interno, nella nuova Italia e per i nuovi italiani. Ma, a questo scopo, la memoria puramente visiva non bastava: come per le pitture politiche del medioevo, il significato andava esplicitato tramite la parola. Così, attorno al dipinto fiorì tutta una serie di scritture interpretative, o meglio didattiche, di ampia diffusione, per orientare letture e ricezioni di quella classe mediana di cittadini colti che avrebbe dovuto costituire il bacino della classe dirigente del nuovo regno. Senza attuare un progetto propagandistico coordinato, una serie di intellettuali di medio calibro, per lo più pubblicisti, si avviò su una strada interpretativa decisamente extrapittorica: l’immagine era evocata in termini generici quanto a rappresentazione visiva, mentre invece si insisteva sul suo significato ideale. Per far questo si attinse alla storia. In modo più o meno diretto, tutti quegli intellettuali mirarono al fine didattico enunciato con limpida chiarezza nei programmi di periodici e 18 19 20 21
Giotti, L’Esposizione cit., p. 200. Ivi. Ivi, p. 192. Ivi, pp. 200, 192.
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riviste di consumo, come le fiorentine Lettere di famiglia. Raccolta di scritti originali di educazione, istruzione e ricreazione intellettuale per qualunque età e classe di persone. Nell’editoriale dell’anno 1861 si dichiaravano gli scopi generali: «ai fanciulli insegneremo i doveri per via di esempi e di racconti semplici: ai giovinetti apriremo il libro così ampio della storia, sia nostrale come d’altri popoli, educandone la mente e il cuore»22. In quel «libro casalingo del nostro popolo», al dipinto di Ussi venne consacrata una nota siglata assai eloquente sul significato politico del quadro appena esposto: «la pittura si avvicina alla bellezza dei grandi esemplari del decimoquinto e decimosesto secolo, e specialmente il gran quadro della cacciata del duca d’Atene dell’Ussi che la critica non ha saputo dove appuntarlo e l’universale consenso ha dichiarato il più bello fra quanti si vedono all’Esposizione Italiana. Se tanto ha potuto fare l’Italia il giorno dopo che si è riunita in un sol Regno, quando ancora le freme intorno la procella della reazione, quando ancora è priva della sua capitale […] che non farà quando, quietate le politiche vicende, ella potrà invitare i suoi figli a concorrere in Roma, nella città dei Cesari e dei Pontefici»23. Attraverso la cacciata del duca d’Atene si profilavano le luminose sorti della futura Italia unita e, per di più, si alludeva prima del 1870 alla necessaria cacciata di un principe assai più prestigioso e ingombrante: quella del sovrano pontefice dalla naturale capitale della nazione. Più indiretta, mediata dalla storia, fu la presentazione proposta qualche anno dopo sulle pagine de L’Emporio pittoresco. La rivista si avvalse della collaborazione di Augusto Montanari, noto per i suoi studi di economia politica, ma anche per la sua cultura storica (fu autore, tra l’altro, di una breve monografia su Niccolò Copernico ed il suo De monetae cudendae ratione, in cui dava mostra di una certa conoscenza delle fonti trecentesche, i fratelli Villani e altri)24. Montanari presentava il suo intervento come uno «scritto storico […] ad illustrazione del quadro dell’Ussi»25. Dopo il racconto della biografia di Gualtieri di Brienne, tutta centrata sulla sua signoria fiorentina, la seconda metà dell’articolo invece era dedicata alla minuta e pittoresca rievocazione della cacciata del signore da Firenze. 22 «Letture di famiglia. Raccolta di scritti originali di educazione, istruzione e ricreazione intellettuale», 3/1 (1861), pp. 4-5. 23 L’esposizione italiana, ivi, p. 282 (l’articolo è siglato AGC). 24 Cfr. A. Montanari, Nicolò Copernico ed il suo libro De Monetaæ Cudendæ ratione: studio, Padova 1873. 25 A. Montanari, La cacciata del duca d’Atene: quadro storico di Stefano Ussi, «L’Emporio pittoresco. Giornale illustrato», 7 (1867), pp. 362 ss.
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Il tono e lo stile di Montanari invogliavano un’adesione mimetica, condita di nozioni storiche, all’atmosfera emotiva ricercata dal pittore: «le sono pagine di storia tristi e imponenti queste ch’io m’accingo a scrivere… Superbie e rancori di nobili, viltà grandi e generosi propositi di plebe, valore ed inscienza di capitani, tirannie e ribellioni, vittorie italiane, lutto d’Italia e vergogna, guerre fratricide, inique…», esordiva il pubblicista26. Lo scritto venne rafforzato dall’immagine, il lettore infatti avrebbe potuto visualizzare lo sfondo storico evocato nella riproduzione di un particolare del dipinto di Ussi, che nel chiaroscuro del disegno in bianco e nero saturava con ancor maggiore espressività volti e gesti dei personaggi27. Anche grazie a questi interventi, la rievocazione della cacciata del duca d’Atene dipinta da Ussi entrò rapidamente a far parte del repertorio consacrato di immagini di memoria storica più emblematiche del Risorgimento. Lo attesta, già nel 1865, una sintesi di successo come quella del critico Emilio Poggi, dedicata alla pittura e scultura italiana degli ultimi cento anni. In questo compendio dell’arte moderna italiana prendeva forma la connotazione sintetica e stereotipata dell’immagine, e per questo forse più duratura e memorabile: «La cacciata del Duca di Atene levò meritatamente in Italia il nome dell’Ussi, né faccia maraviglia se noi fiorentini nutriamo una profonda venerazione per questo meraviglioso dipinto, il quale con tutte le sembianze del vero, unito alla intelligenza e alle risorse dell’arte, ci pone avanti uno dei più grandi avvenimenti della patria storia, e ci fa vedere la tirannia agonizzante e il movimento di un popolo che a libertà risorge»28. Amor di patria nazionale, orgoglio per le proprie radici locali (fiorentine), resurrezione di un popolo liberato dalla tirannide straniera: Poggi consegnava tutti gli ingredienti dell’interpretazione vulgata della memoria storica trasmessa dall’immagine di Ussi ad un più vasto pubblico e in una visione complessiva dello sviluppo artistico dell’Italia moderna. L’opera veniva così canonizzata nel suo significato ideologico e politico. Un destino coerente per un testo figurativo che fin dalla sua committenza era nato come memoria politica, quanto mai legata al puntuale contesto nazionale e internazionale di quegli anni. Il successo fu tale che in poco tempo il dipinto venne spogliato del suo carattere evocativo locale, fiorentino e toscano, per diventare metafora del popolo italiano in cammino verso una nazione 26 27 28
Ibidem. La stampa si trova in “L’Emporio pittoresco. Giornale illustrato”, 7 (1867), p. 361 E. Poggi, Della scultura e della pittura in Italia dall’epoca di Canova ai nostri tempi, Firenze 1865, p. 56.
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unita e libera dagli stranieri. Fu in questa più ampia prospettiva che la tela di Ussi fu presentata sette anni dopo alla Esposizione universale di Parigi del 1867, e per quella sua nuova valenza nazionale la giuria (composta in maggioranza da francesi) attribuì al quadro la medaglia d’oro: più che un apprezzamento estetico, il riconoscimento venne inteso come un augurio politico per il neonato regno d’Italia. I primi interpreti del dipinto si sforzarono dunque di proporre una lettura contenutistica e evocativa del significato dell’immagine, ricorrendo abbondantemente alla rievocazione storica, per quanto molto orientata. Tuttavia, il discorso politico consensuale sulla memoria raffigurata in quella composizione si intrecciò molto presto con quello estetico, sullo stile con cui venne resa. Nel 1866, in occasione della grande mostra di Brera, l’architetto e critico d’arte militante Camillo Boito, voce autorevole del Politecnico di Milano (e fratello maggiore del poeta Arrigo), si diffondeva un una lode che sembrava alludere a una difesa da accuse non direttamente evocate: «Tutto è pensato, opportuno, misurato, almeno nell’intenzione; e le norme, lasciateci in preziosa eredità dai gloriosi artisti del passato, non sono messe nel dimenticatoio» rivendicava Boito; «Egli [Ussi]» proseguiva «non si è mai abbandonato alla corrente pittorica de’ nostri dì; ha sempre resistito a quello che si potrebbe chiamare il manierismo della verità. Che il buon senso giovi anche all’arte, lo ha mostrato la vastissima tela, che rappresenta la Cacciata del duca d’Atene, ed è il più importante quadro fra quanti sono stati eseguiti da molti anni in Italia»29. La difesa stilistica di Boito non era solo una generica presa di posizione per l’arte tradizionale rispetto alle avanguardie. Era anche una risposta alle prime voci che in quell’immagine vedevano tutt’altro, un residuo del passato, una vana retorica stilistica applicata alla memoria, addirittura perniciosa per la sua inattualità. E fu proprio attraverso la breccia critica dello stile che la carica memoriale del dipinto iniziò ad essere smitizzata. 3. Giovedì 4 maggio 1867 una scelta ma nutrita banda di 120 artisti toscani e fiorentini organizzò un pranzo solenne nel teatro Fiesolano. La messa in scena conviviale officiava, ancora una volta, il trionfo che il confratello Stefano Ussi aveva mietuto all’esposizione parigina dell’anno precedente. Chiassosa e festaiola, fu comunque una cerimonia, con tanto di orazioni e addirittura un sonetto in lode dell’opera, il tutto tra abbondanti libagioni. Il quadro celebrativo di Ussi era diventato a sua volta una cele29 C. Boito, La mostra a Brera, «Il Politecnico. Repertorio di studi letterarj, scientifici e tecnici», ser. IV,2 (Milano 1866), p. 622.
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brazione, una icona che coagulava la solidarietà di corpo di artisti più o meno provinciali. L’unanimità consensuale dei festeggiamenti di calendimaggio tuttavia era solo apparente. Fin dalla esposizione del 1861 infatti le scelte compositive di Stefano Ussi avevano suscitato perplessità negli osservatori più sensibili alle questioni di stile, in un clima artistico dominato dalla discussione sulla nuova maniera toscana e poi italiana, la macchia. A quella data il movimento, ispirato direttamente dai modelli francesi, era ancora in una fase di definizione teorica e l’unica nozione stilistica caratterizzante su cui concordavano fautori e critici, sostenitori e avversari della moda transalpina, era quella di effetto30. Molti colleghi di Ussi, come Vincenzo Cabianca e Cristiano Banti, ritenevano che l’effetto espressivo della nuova maniera poteva trovare compimento anche in scene tratte dalla tradizione letteraria o storica, contrariamente ai francesi coevi che avevano eletto il paesaggio quale tema privilegiato per rendere al meglio il loro approccio rivoluzionario. Per i primi macchiaioli italiani la ricerca di nuovi effetti non era necessariamente connessa a una particolare categoria di soggetti dipinti, quanto piuttosto alla sapiente e ricercata esasperazione di una tecnica di per sé tradizionale, il chiaroscuro. Conferire vigore e armonia alla rappresentazione attraverso l’enfatizzazione dei contrasti di luce e ombra sembrava allora la via più diretta a un realismo che non cadesse nel puro descrittivismo: «la macchia fu inizialmente una accentuazione del chiaroscuro pittorico: un modo per emanciparsi dal difetto capitale della vecchia scuola, la quale a una eccessiva trasparenza dei corpi sacrificava la solidità e il rilievo dei suoi dipinti»31, rilevava già nel 1862 Telemaco Signorini, alfiere del nuovo movimento. Ma era proprio la ricerca dell’effetto attraverso l’accentuazione del chiaroscuro ad essere considerata la minaccia più pericolosa al primato della forma, del disegno, della chiarezza compositiva, che invece secondo i tradizionalisti costituiva il nerbo della vera e migliore tradizione pittorica nazionale32. Attento alle novità, circondato da sodali entusiasti delle suggestioni provenienti d’oltralpe, Ussi sfruttò vistosamente le risorse espressive del
30 Sulla questione, N.F. Broude, The Macchiaioli: Effect and Expression in NineteenthCentury Florentine Painting, «The Art Bulletin», 52 (1970), pp. 11 ss. Cfr. anche Broude, The Macchiaioli. Italian Painters of the Nineteenth Century, New York-London 1987. 31 X [Telemaco Signorini], Polemica artistica, «La Nuova Europa», 2/188 (1862), riedito in M. Borgiotti - E. Cecchi, Macchiaioli Toscani d’Europa, Firenze 1963, p. 26. 32 Tra gli altri, si v. le critiche di P. Selvatico, La pittura storica e sacra d’Italia all’Esposizione Nazionale di Firenze nel 1861, in Selvatico, Arte e artisti. Studi e racconti, Padova 1863, pp. 51 ss.
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chiaroscuro nella grande tela destinata all’esposizione nazionale, ma prudentemente si mantenne entro i confini di una revisione in chiave realistica delle opzioni stilistiche adottate dai pittori di storia della tradizione consolidata, sulla scia dei capolavori del genere eseguiti in Italia nei trent’anni precedenti33. Così nel 1861, critici e pubblico ammirarono La cacciata del duca d’Atene accanto a una sfilata di dipinti storici dei gloriosi pittori della «vecchia scuola» (come la definiva Signorini), riesumati in occasione dell’esposizione; ma poterono anche fare un confronto diretto con alcune opere dello stesso genere che guardavano all’avanguardia del tempo, come il discusso I novellieri fiorentini del XIV secolo del ben più audace Vincenzo Cabianca34. Avvicinate l’una all’altra in un medesimo spazio espositivo, le pitture di storia italiane di metà Ottocento rivelavano una certa solidarietà di intenti evocativi e celebrativi dell’identità nazionale; ma occhi attenti vi scorgevano pure ricercate differenze stilistiche che finivano con l’attribuire ai soggetti rappresentati, se non significati contrapposti, sicuramente una visione diversa della memoria storica. Il quadro di Cabianca «potrebbe essere un bel quadro, se l’autore si fosse dato la pena di finirlo»35, commentava una guida critica all’esposizione del 1861: nonostante il predominio del chiaroscuro accomunasse la tela di Ussi a quelle dei suoi colleghi più innovatori, le storie rievocate da Cabianca e compagni ad uno sguardo ravvicinato finivano con lo scomporsi in una fitta galassia di macchie di colore, offrendo una rappresentazione più mobile, sfuggente e inquietante delle compatte pennellate a cui era ricorso il loro celebrato confratello. La cacciata del duca d’Atene di Stefano Ussi si impose fin dalla sua prima esposizione come l’immagine del tiranno di Firenze più incisiva e popolare per la scelta di uno stile di compromesso, un rinnovamento della tradizione che volutamente non osava varcare i confini rassicuranti di una estetica consolidata, imbrigliata in un formalismo di maniera. La scelta fu senz’altro oculata sul momento, garantì al quadro il massimo successo sia tra coloro che erano più interessati agli echi ideologici del soggetto, sia tra il vasto pubblico che acclamò il capolavoro formalmente riassuntivo e politicamente aggiornato di un glorioso genere figurativo. Caratterizza da una
33 Ussi stesso dichiarò la sua opzione stilistica, v. Sini, 1861-1899 cit., testo tra note 13 e 14. 34 Vincenzo Cabianca, I novellieri fiorentini del XIV sec. (olio su tela, cm. 78x99, Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti). 35 Yorick [P. C. Ferrigni], Viaggio attraverso l’Esposizione Italiana del 1861, Firenze 1861, p. 129.
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opzione di stile conservatrice, tuttavia, l’immagine subì presto revisioni critiche suggerite proprio dalla rapida evoluzione dei paradigmi stilistici. Alle soglie della definitiva unità d’Italia, la carica evocativa del quadro di Ussi iniziava a sbiadirsi. Non era più sufficiente aver rappresentato la cacciata del duca d’Atene, l’espulsione del tiranno da parte del popolo in nome della libertà, per essere acriticamente apprezzato in quanto artista. Un’altra Italia, precocemente lucida, poteva guardare con diversi occhi quel dipinto e, in nome di una carica rivoluzionaria ancora maggiore di quella che ne aveva fatto la fortuna, esprimere critiche radicali per lo meno in una prospettiva estetica, per quanto fortemente ideologizzata. L’avanguardia insomma riportava la pittura alla pittura e a darle voce, pochi giorni dopo i fragorosi brindisi del teatro Fiesolano, fu il critico d’arte Diego Martelli, fondatore assieme a Adriano Cecioni e Telemaco Signorini de Il Gazzettino delle arti del disegno36. Negli anni immediatamente successivi alla premiazione dell’accademico Ussi, Martelli avrebbe ospitato regolarmente nella sua tenuta sulle scogliere di Castiglioncello gli irrequieti macchiaioli, che in città si ritrovavano al Caffè Michelangelo. Ma già a 22 anni, quando aveva ammirato per la prima volta la Cacciata del duca d’Atene appena fresca nello studio dell’autore, il giovane critico era un fervente sostenitore degli impressionisti francesi. In loro aveva visto la vera arte nuova e moderna, quella che, aldilà delle ideologie nazionalistiche, esprimeva con maggior verità lo spirito dei tempi. Nei macchiaioli italiani di quegli anni Martelli, come altri, riconosceva invece la versione nazionale di quei progressi, e innanzitutto per questioni di tecnica e stile: «essi dicevano che tutto il rilievo apparente degli oggetti raffigurati su di una tela si ottiene mettendo nella cosa rappresentata giusto il rapporto fra il chiaro e lo scuro e questo rapporto non esser possibile rappresentarlo al suo vero valore che con delle macchie o pennellate che lo raggiungessero esattamente. Questa ricerca doveva naturalmente portare la conseguenza di una fattura molto più ruvida ed irregolare di quella di coloro che dipingevano riunendo tutto il così detto rimpasto con lo sfumatore e le pennellesse»37. Le pennellesse, evidentemente, iniziavano ad apparire intollerabili anche nel capolavoro di Ussi; e così, dalle pagine della sua rivista, Martelli rispose alle ebbrezze celebrative del calendimaggio 1867 con una lettura a 36
Buona introduzione in L’opera critica di Diego Martelli dai Macchiaioli agli Impressionisti. Catalogo della mostra, cur. E. Dini - E. Spalletti, Firenze 1996 e nei saggi in L’eredità critica di Diego Martelli, cur. C. Sini - E. Spalletti, Firenze 1999. 37 D. Martelli, Giuseppe Abbati, in Martelli, Scritti d’arte, cur. A. Boschetto, Firenze 1952, pp. 218-219.
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mente fresca. Inutile negare l’evidenza: la Cacciata del duca d’Atene era nata già vecchia. «Il professor Ussi» invece di rivolgersi all’attualità artistica, «è un amorosissimo incessante, indefesso, cercatore ed esecutore dei precetti dell’Accademia»38, constatava il critico. Di quella Accademia che, ai quei tempi, per Martelli e i suoi incarnava l’ultimo bastione di una corruzione antica, risalente a un padre apparentemente nobilissimo: «la questione è netta ed antica. Fu Raffaello un corruttore dell’arte? Se si crede di no, bisogna fare come fa Ussi, seguitare la tradizione che per linea abbastanza curva e fantastica, ma pur continua, saltando prima a dritta nel barocco poi a mancina nel classicismo di Canova si è condotta fino al punto attuale ed al quadro del Duca di Atene. Se si crede invece alla libera ingenuità del 400, alla deviazione del secolo di Leon X, bisogna negare, assolutamente negare»39. Nonostante la radicalità di questo compendio di storia dell’arte ad uso degli avanguardisti, lo sguardo di Diego Martelli non si limitò all’estetica. La sua testimonianza mostra come un paradigma di lettura differente da quello che fino ad allora aveva dominato la ricezione della cacciata di Ussi si rivelasse un acuto strumento di demitizzazione della memoria. La prospettiva rigorosamente stilistico ideologica (l’avanguardia) piuttosto che politico evocativa (l’estetica risorgimentale), ricollocava il dipinto nel suo contesto proprio, cioè le altre esperienze pittoriche del tempo; e la Cacciata del duca d’Atene, come rappresentazione estetica ormai accademica, dunque tradizionale per eccellenza, non funzionava più da collante ideologico per rivendicare un qualsivoglia primato italiano all’estero: «ci accuseranno di antipatriottismo e sia pure; d’altronde ci sembra poco ragionevole che se un italiano fa figura all’estero per una opinione che non dividiamo noi per amor di patria, si debba applaudire all’errore». Ma era soprattutto sul fronte interno che lo sguardo dell’avanguardista smascherava una retorica della memoria rievocativa, che si voleva fortemente politica, ma era ormai posticcia quanto la vecchia pittura d’accademia. Una memoria pericolosa proprio per la sua efficacia a livello di massa, capace di nascondere verità dure e urgenti: «triste è la parte che mi tocca a fare in questo momento ossia la parte uggiosissima di Cassandra. Ma se riflettiamo quanto si sia
38 Martelli, Della medaglia conferita al prof. Stefano Ussi dal Giurì internazionale di Parigi, ivi, pp. 21 ss. Per il contesto critico, cfr. M. Seidl, “Io esco dai vasti saloni della pittura francese per entrare nel piccolo recinto della pittura italiana”: Pasquale Villari als Kritiker der Pariser Weltausstellung von 1867, in Pittura italiana nell’Ottocento, cur. M. Hansmann - M.Seidel, Venezia 2005, pp. 431 ss. 39 Martelli, Della medaglia cit., p. 21.
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detto che l’Italia era madre di scienza, culla delle arti, terra del genio, mentre poi la statistica ci ha gettato in faccia l’umiliante cifra di diciassette milioni di analfabeti, ci avvaloriamo nell’idea di dir sempre ed a qualunque costo quella che per noi si crede la verità»40. Dopo gli entusiasmi risorgimentali, la disillusione di un presente osservato con maggior criticità finiva per investire anche l’immagine della memoria dell’antico tiranno di Firenze. La risignificazione di una traccia figurativa in relazione all’evoluzione dei contesti di ricezione non è un fenomeno particolarmente originale nei processi storici. Con il tempo, in effetti, alle immagini vengono attribuite nuovi significati: tuttavia, in questo caso, l’immagine del tiranno di Firenze non venne criticata per il suo contenuto iconografico. Gli avanguardisti a cui Morelli diede voce non proposero infatti una revisione del significato della signoria trecentesca del nobiluomo francese: anche per loro, il duca d’Atene rimase un tiranno e la rivolta del 1343 un luminoso esempio di lotta popolare (e nazionale) per la libertà. Il tema storico dunque conservò la sua valenza esemplare per tutti, tradizionalisti o avanguardisti che fossero. Fu invece attraverso la nozione, prettamente formale, di stile, che potè farsi strada una percezione critica più consapevole dell’inadeguatezza di quella rievocazione figurativa nella nuova Italia. In una giovane nazione che avrebbe dovuto rivolgere un lucido sguardo alla realtà attuale della sua condizione, piuttosto che rispecchiarsi in una storia figurata in forme patinate, una nuova generazione di critici e artisti denunciò la retorica di una pratica artistica che offriva al pubblico dei connazionali un passato in immagini rassicuranti e senza smagliature. In quegli anni le esigenze dello stile cambiavano veloci quanto quelle della storia.
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La pittura infamante occupa un posto di rilievo tra i dispositivi messi in atto dal potere medievale per condizionare negativamente il ricordo degli individui. Su questa pratica, che sino ad allora aveva attirato solo episodicamente l’attenzione degli studiosi, Gherardo Ortalli scrisse nel 1979 un libro celebre, che costituisce ancora oggi un contributo imprescindibile. In quelle pagine per la prima volta si definì precisamente il fenomeno come la raffigurazione di rei contumaci, dipinta in un luogo pubblico, ordinata dalle autorità al fine di «ribadirne, certificarne o anche provocarne l’infamia»1. Di tale fenomeno Ortalli censì i riferimenti presenti nelle fonti scritte (cronache e soprattutto statuti) e, su questa base, ne delineò la vicenda, suddividendola in tre fasi: una prima, che iniziava attorno alla seconda metà del XIII secolo nel contesto dei regimi guelfi e popolari delle città italiane, una seconda, di maturazione, coincidente con il secolo XIV, in cui le attestazioni si diffondevano su tutta l’Italia comunale mentre si precisavano i reati invocati e le raffigurazioni si stabilizzavano nella figura dell’impiccato a testa in giù, e una terza, protrattasi stancamente fino al primo Cinquecento, caratterizzata da un uso sempre più diradato, tendente a concentrarsi a Firenze, ultimo baluardo di quello stile di governo guelfo e popolare di cui la pittura infamante era stata caratteristica2. Gli studi apparsi nei successivi decenni hanno confermato queste conclusioni. Sono state abbandonate, direi definitivamente, alcune idee già criticate da Ortalli, come quella relativa al contributo delle pitture infamanti alla nascita dell’arte del ritratto3 o alla diretta relazione della pittura infa-
1 G. Ortalli, “...pingatur in palatio...” La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979, p. 184. 2 Ibid., p. 186. 3 Per la critica ibid., pp. 85-102. Cfr. anche S. Y. Edgerton jr, Pictures and Punishment. Art and Criminal Prosecution during the Florentine Renaissance, Ithaca-London 1985, pp. 76 e ss.
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mante con la magia4; si è ribadita la distanza tra la pittura infamante propriamente detta e altre immagini tese a diffamare, ma nate al di fuori di una pratica sistematica e regolamentata giuridicamente5 e, d’altro canto, è stata sottolineata la sua maggiore vicinanza – pur con importanti differenze – ad altri dispositivi diffusi altrove come le Schandbilder di area tedesca 6. Lo stesso autore e altri sono poi tornati, anche di recente, sulla questione già intuita del debito della pittura infamante nei confronti dell’immaginario cristiano7 e infine sulla cruciale relazione tra affermazione di questa pratica e regimi di popolo a connotazione guelfa.
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1. A confermare quest’ultimo elemento hanno contribuito in maniera determinante le ricerche condotte da Giancarlo Andenna su alcune pitture del Broletto di Brescia che in origine coprivano interamente la porzione più alta delle pareti: file di cavalieri incatenati, disposti su più fasce, ognuno dei quali identificato mediante lo stemma che imbraccia e il nome indicato in grande evidenza8. Per la loro eccezionalità le pitture bresciane hanno avuto
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4 Ortalli, “...pingatur in palatio...” cit., p. 110. Ma cfr. anche D. Freedberg, The Power of Images. Studies in History and Theory of Response, Chicago-London 1989, pp. 246-282. 5 G. Ortalli, Colpire la fama e garantire il credito tra legge e propaganda. Il ricorso alle immagini, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, cur. P. Prodi, Bologna 2007, pp. 325357, dove si cita per contrasto R. Mills, Suspended Animation. Pain, Plasure and Punishment in Medieval Culture, London 2005. 6 Si tratta delle lettere d’infamia con cui si autorizzava in caso di rottura di un contratto, che la parte lesa potesse rivalersi sull’altra diffondendo immagini infamanti e umilianti: M. Lentz, Schmähbriefe und Schandbilder: Realität, Fiktionalität und Visualität spätmittelalterlicher Normenkonflikte, in Bilder, Texte, Rituale. Wirklichkeitbezug und Wirklichkeitkonstruktion politisch-rechtlicher Kommunikationsmedien in Stadt- und Adelgeseftschaften des späten Mittelalters, cur. K. Schreiner - G. Signori, Berlin 2000, pp. 35-67. 7 Ortalli, “...pingatur in palatio...” cit., p. 125, ribadito dallo stesso Ortalli in un quadro più generale in G. Ortalli, Luoghi e messaggi per l’esercizio del potere negli anni delle sperimentazioni istituzionali, in pensiero e sperimentazioni istituzionali nella ‘Societas Christiana’ (1046-1250). Atti della sedicesima Settimana internazionale di studio Mendola, 26-31 agosto 2004, Milano 2007, pp. 761-800: 778-782, dove viene citato l’importante saggio di M. Bacci, Artisti, corti, comuni, in Arte e storia nel medioevo, cur. E. Castelnuovo G. Sergi, Torino 2002, pp. 631-700. 8 G. Andenna, La simbologia del potere nelle città comunali lombarde: i palazzi pubblici, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento (Relazioni tenute al Convegno Internazionale organizzato dal Comitato di Studi Storici di Trieste, dall’École Française de Rome e dal Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Trieste), Trieste, 2-5 marzo 1993, cur. P. Cammarosano, Roma 1994 (Collection de l’École Française de Rome, 201), pp. 369-393; Andenna, La storia contemporanea in età comunale: l’esecrazione degli avversari e l’esaltazione della signoria nel linguaggio figurativo. L’esempio bresciano, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del XIV Convegno
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l’onore di essere citate in posizione di rilievo nella nuova edizione francese del libro di Ortalli pubblicata nel 19949. La ragione di tale attenzione è facile da comprendere. Collegando tali pitture agli anni del regime guelfo e popolare bresciano conseguente all’arrivo di Carlo I d’Angiò (iniziato tra 1270 e 1272 e terminato nell’ultimo decennio del secolo), Andenna ha consentito di qualificarle come esempio risalente alla prima fase di questa pratica punitiva, un esempio che sposta indietro di parecchio la datazione della più antica pittura infamante giunta sino a noi10. L’elemento su cui Andenna ha fondato questa datazione è costituito dai pochi, ma significativi frammenti superstiti di una scritta che correva lungo tutta la parete meridionale e che, con ogni probabilità, costituiva un’intitolazione di carattere generale. In questi frammenti si possono leggere infatti parole come exemplus, patria, brisiensis populus, incompatibili con il regime dominato da Uberto Pelavicino, che si era concluso nel 1266 con il rientro degli esuli guelfi. Sempre per lo stesso autore il termine ad quem della raffigurazione potrebbe essere costituito dal 1292, anno cui risalgono una serie di disposizioni statutarie rogate «sub palatio picto comunis Brixie»11, che dimostrerebbero come le pitture fossero già in loco.
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Internazionale di Studi del Centro Italiano di Studi di Storia ed Arte di Pistoia, Pistoia 1417 maggio 1993, Pistoia 1995, pp. 345-360; Andenna, Pittura e propaganda politica negli affreschi del Broletto di Brescia, «Civiltà bresciana», 8/I (1999), pp. 3-18. 9 Le pagine su questi dipinti murali costituiscono di fatto l’unica rilevante variazione rispetto all’edizione originale in italiano: G. Ortalli, La peinture infamante du XIIIe au XVIe siècle. “Pingatur in palatio”, Paris 1994. Lo stesso studioso ha nuovamente fatto riferimento a queste pitture in La rappresentazione politica e i nuovi confini dell’immagine nel secolo XIII, in L’image. Fonctions et usages des images dans l’Occident médieval, cur. J. Baschet - J.-C. Schmitt, Paris 1996, pp. 251-273; e in L’immagine infamante e il sistema dell’insulto nell’Italia dei comuni, in Lezioni di Metodo. Studi in onore di Lionello Puppi, cur. L. Olivato - G. Barbieri, Vicenza 2002, pp. 332-340; e in Comunicare con le figure, in Arti e Storia nel Medioevo, cur. E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. III, Torino 2004, pp. 477-518. 10 Edgerton, Pictures and Punishement cit. nel suo libro del 1985 affermava che «Unfortunately, not a single one of these once numerous pitture infamanti from the Duecento and Trecento has survived anywhere in Italy» (p. 74). Freedberg, The power of images cit., p. 248, sulla base di Ortalli dava come attestazione più antica del fenomeno quella degli statuti di Parma del 1255 approvati nel 1261. La più antica pittura infamante giunta sino a noi citata da questi lavori è quella anonima che un tempo ornava il carcere delle Stinche, relativa alla cacciata del Duca di Atene Gualtieri di Brienne, datata al 1360 circa. 11 Andenna, Pittura infamante e propaganda politica cit., pp. 4-7, 10-12 che riprende G. Panazza, Affreschi medioevali nel Broletto di Brescia, «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 145-146 (1946-47), pp. 79-104, p. 90. In un contributo successivo (G. Andenna., La signoria del vescovo Berardo Maggi e la creazione della piazza del potere. Brescia tra XIII e XIV secolo, in Lo spazio nelle città venete (1152-1348). Espansioni urbane, tessuti viari, architet-
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Una volta stabiliti i termini di massima per la loro realizzazione, restava tuttavia da comprendere quale fosse il soggetto della pittura. Con grande cautela Andenna aveva avanzato l’ipotesi che la raffigurazione desse conto di una scena di prigionia vera e propria e che sulle pareti del palazzo fosse stata raffigurata una lunga fila di condannati a morte per decapitazione, ma senza precisare di quale condanna si potesse trattare, rinviando a «più approfonditi studi storici sulla identificazione dei personaggi e sui termini cronologici del soggetto rappresentato»12. Ricerche più recenti compiute da Matteo Ferrari13 e da chi scrive14 hanno apportato nuovi elementi che lasciano intravedere una soluzione. Innanzitutto questi studi hanno rilevato per la prima volta che tutti i cavalieri portano una borsa al collo, elemento iconografico connesso al peccato dell’avarizia e al tradimento, citato come attributo da inserire nelle pitture infamanti in alcuni statuti comunali15. In secondo luogo, approfondendo un altro spunto avanzato da Andenna, hanno sottolineato la forte vicinanza funzionale della raffigurazione bresciana alle liste di banditi, una prossimità visibile in alcuni fatti grafici peculiari: la presenza di segni di croce che separano i nomi nello stesso modo in cui lo fanno i segni di paragrafazione nelle liste scritte, quella di congiunzioni correlative «et» chiamate a svolgere la funzione di accorpare i nomi dei parenti in piccoli gruppi che nelle liste scritte è normalmente espletata dalle semiparentesi16.
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ture. Atti del II Convegno nazionale di studio, Verona, 11-13 dicembre 1997, cur. E. Guidoni - U. Soragni, Roma 2002 (Storia dell’Urbanistica/Veneto, 2), pp. 182-191, Andenna sembra adombrare che questa citazione si riferisca a un altro palazzo, quello del popolo, costruito a partire dagli anni 1270 in una sede adiacente a quella del Broletto. Non mi pare ci siano elementi certi per ritenere che il passo si riferisca a quest’ultimo ambiente. 12 Andenna, Pittura infamante e propaganda politica cit., p. 8 per l’ipotesi sulla condanna e p. 10 per l’auspicio di nuovi lavori. Già Edgerton, Pictures and Punishement cit., p. 77 nota 65 aveva invitato a distinguere tra vere pitture infamanti “intese come punizioni ufficiali di singoli individui e pitture di fatti infamanti, volte a commemorare eventi noti”, iscrivibili nella genealogia della pittura di storia. I casi qui analizzati tuttavia mostrano come sia difficile distinguere tra le due categorie. 13 M. Ferrari, I Cavalieri incatenati del Broletto di Brescia. Un esempio duecentesco di araldica familiare, «Archives Héraldiques Suisses», 2 (2008), pp. 181-212. 14 G. Milani, Prima del Buongoverno. Motivi politici e ideologia popolare nelle pitture del Broletto di Brescia, «Studi Medievali», ser. III, 49 (2008), pp. 19-85. 15 G. Rezasco, Dizionario del Linguaggio italiano storico e amministrativo, Firenze, 1881, p. 807, sub voce Pittura: «I padovani non furono da meno degli altri, poiché oltre allo scrivere nel libro dei falsarj il nome dell’Ufficiale reo di gravi estorsioni a danno della Repubblica, ne dipingevano l’aspetto nel Palazzo del Comune con una Borsa al collo». Come riferimento viene citato «Statut pad 1420, III, 55». Si tratta degli statuti compilati dopo la riforma veneta del 1420, ma potrebbe contenere una norma precedente. 16 Milani, Prima del Buongoverno cit.
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Questi fatti (e altri sui quali in questa sede non è possibile insistere) qualificano la raffigurazione bresciana come una pittura infamante con funzioni eminentemente documentarie, fedele (in quanto ufficiale) traduzione in figura di un atto di condanna in forma di elenco deliberato dal comune. Restava da stabilire di quale elenco si trattasse e a questo scopo hanno fornito un contributo essenziale le indagini prosopografiche compiute sulla base delle fonti documentarie e di quelle araldiche. Sulle prime però il tentativo di identificare un episodio che avesse dato origine agli affreschi si è scontrato con l’esistenza di un numero eccessivo di possibilità, molte delle quali in contrasto tra di loro. Lo dimostra la tabella (si veda nella pagina seguente) che elenca i bandi politici della storia bresciana nelle quali sono attestati (nelle fonti citate in nota) personaggi il cui nome è scritto al di sopra dei cavalieri o è desumibile dai loro stemmi. In altre parole, gli episodi che avrebbero potuto scatenare la grande pittura infamante bresciana sono troppi e sembrano escludersi reciprocamente. Per fare un esempio, la presenza sulla parete meridionale di un personaggio identificato come Bonapax Faba, noto miles bresciano attestato tra fine del XII e primi decenni del XIII, farebbe pensare al suo coinvolgimento, ormai vecchio, nelle rivolte contro il regime anti svevo che ci furono negli anni delle guerre tra il papato e Federico II (quelle che nella tabella abbiamo collocato al numero 3)17. Ma d’altro canto, pochi metri più in là, il Rizardus comes che porta lo stemma degli Ugoni, e che dunque è da identificarsi con ogni probabilità con il Rizardus de Ugonibus, firmatario di una pace nel 1313, sposta di più di un secolo i termini. È pressoché impossibile che questi due personaggi abbiano partecipato allo stesso evento. Nel mio studio, che sulla base di nuovi elementi confermava la datazione proposta da Andenna precisandola agli anni intorno al 1280, avevo ipotizzato che i personaggi dei quali si trovavano attestazioni di bando nettamente precedenti fossero stati nuovamente banditi e che per quelli di cui si dispone di attestazioni troppo lontane (che in altre parole dovevano essere morti quando le pitture furono eseguite) si potesse pensare a una raffigurazione di nipoti omonimi. Un’ altra possibilità che avevo preso in considerazione era che sulle pareti del palazzo si fossero voluti raffigurare, ogni volta che erano stati banditi, nuovi gruppi, in un un lavoro di aggiornamento continuo, ma complessivamente lasciavo la questione aperta, in vista di ricerche sul supporto pittorico che ne chiarissero meglio la stratigrafia18.
17 F. Menant, Faba (Fava), Bonapace (Bombasius), in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIII, Roma 1993, pp. 606-607. 18 Milani, Prima del Buongoverno cit., pp.73-74.
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Cronologia delle esclusioni politiche a Brescia REGIME
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1234-41 1236 1238-1256 1256-1258 1258 apr.-set 1258-1266 1266-1268 1268-70 1270-72 1273 1274 1279 1280
Anti - Svevo Filo - Ezzelino Anti - Ezzelino Filo - Pelavicino Anti - Pelavicino Anti - Torriani Angioino Angioino - popolare Angioino - popolare Angioino - popolare Angioino - popolare
12 13
1286 1289
Angioino - popolare Angioino - popolare
1 2 3 4
PARTI ESCLUSE (famiglie i cui membri sono ritratti in effigie) Concessionari di beni comunali (da Turbiado)19 Ribelli (Conti Ugoni di Marcaria e di Mosio)20 Malesardi (Lavellolongo, Faba, da Manerbio)21 Pars Ecclesiae Alleati di Ezzelino (da Manerbio, Gambara, Griffi)22 Pars Ecclesiae Alleati di Pelavicino (da Manerbio)23 Alleati di Francesco della Torre24 Nemici di Carlo I (Manducaseni)25 Ribelli della Valcamonica26 Ribelli del Garda (capitani di Manerba)27 Ribelli e Banditi (de Abate [?])28 Ribelli del Garda alleati al vescovo di Trento (de Limone [?])29 Ribelli di Valcamonica (Federici)30 Ribelli (Pregnacchi)31
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19 Liber Potheris Communis Civitatis Brixie, edd. F. Bertoni Cazzago - L. Fé d’Ostiani - A. Valentini, in Historie Patriae Monumenta, XIX, Torino 1899, coll. 596 e 1038. 20 Annales Brixienses, ed. L. Bethmann, in M.G.H., Scriptores, 18, Hannoverae 1863, pp. 811-820: 819: «Et eo anno Fredericus imperator venit Lombardiam, et fuit Monteclarii, et cepit Mancariam et Mosum, et comites Longi ei Mosum dederunt, et cepit Vincentiam et reversus fuit in Alemanniam, et Mantuani occupaverunt Mancariam», Liber Potheris cit., coll. 298-301, doc. LXIII (1238, 14 giugno). 21 F. Odorici, Storie bresciane dai primi tempi sino all’età nostra, I-X, Brescia 18561858, VII, pp. 123-124. 22 A. Bosisio, Il comune, in Storia di Brescia, cur. G. Treccani, I. Dalle origini alla caduta della signoria viscontea (1426), Milano 1963, pp. 559-710: 679-681; Jacopo Malvezzi, Chronicon Brixianum ab origine urbis ad annum usque MCCCXXXII, in L.A. Muratori, R.I.S., 14, Mediolani 1729, col. 924. 23 Bosisio, Il comune cit., p. 685. 24 P. Grillo, Comuni urbani e poteri locali nel governo del territorio in Lombardia (XII-inizi XIV secolo), in Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, cur. L. Chiappa Mauri, Milano 2003, pp. 41-82: 72 nota 149 e testo corrispondente. 25 Annales Placentini Gibellini, ed. G. Pertz, in M.G.H., Scriptores, 17, Hannoverae 1864, p. 556. 26 Ibid., cit., p. 507. 27 Malvezzi, Chronicon Brixianum cit., col. 951. 28 Archivio Segreto Vaticano, Fondo veneto I, 3514. 29 J. Riedmann, Verso l’egemonia tirolese (1256-1310), in Storia del Trentino, III. L’età medievale, cur. A. Castagnetti - G. M. Varanini, Bologna 2004, pp. 255-344: 286-287. 30 A. Valentini, Gli statuti di Brescia dei secoli XII al XXV illustrati e documenti inediti, «Nuovo Archivio Veneto», 15 (1898), pp. 370-376. 31 Archivio di Stato di Brescia, Comune, Statuti, 1044, 1/2, c. 302v (1289): «Item statuunt et ordinant correctores quod terralium de Pregnachis splanetur in fossato quod est ei prope a meridie parte dicti teralii et continuetur cum alio teralio de Monbello que est iuxta dictum teralium de Pregnachis et iuxta dictum fossatum».
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Oggi le relazioni fatte dai tecnici in vista dell’auspicabile restauro hanno chiarito parecchie cose32. Esse hanno dimostrato che il ciclo pittorico dei cavalieri incatenati costituisce un’opera unitaria, probabilmente condotta da maestranze diverse, ma nel giro di uno stretto intervallo cronologico e nell’ambito di uno stesso progetto (smentendo così l’ipotesi del work-in-progress). Inoltre è emerso che i cavalieri in origine erano suddivisi in gruppi delimitati da cornici. Per la parete meridionale sono stati identificati quattro riquadri: due sulla fascia superiore e due su quella inferiore [Fig. 1]. Tenendo conto di questa divisione la presenza dei personaggi acquisisce maggiore senso e sembra di riuscire a percepire un ordine. Tra i personaggi del primo riquadro della fascia superiore, infatti, due appartengono al medesimo lignaggio comitale (gli Ugoni, divisi nei rami da Mosio e da Marcaria) della zona sud-orientale del comitato che, come attesta il Liber Potheris, furono dichiarati ribelli nel 1236 per aver ostacolato l’espansione bresciana nel territorio ed aver appoggiato Federico II (numero 2 della tabella)33. Il secondo riquadro, posto nella fascia superiore, ospita invece almeno tre persone i cui nomi si ritrovano nelle cronache tra i milites cittadini banditi dal comune in quanto filofedericiani nel periodo delle guerre contro Federico II e filoezzeliniani, dopo la morte dell’imperatore (numeri 3 e 4 della tabella)34. Non ci sono riscontri certi per il terzo riquadro (il comes Rizardus già nominato è ricordato in un documento di pace del 1313, ma non sappiamo quando e se fu bandito), ma il quarto riquadro ospita con ogni proba-
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32 S. Marazzani, I dipinti murali del sottotetto del Palatium novum maius di Brescia. Indagini tecniche, dattiloscritto, Brescia 2007, Comune di Brescia, Archivio Servizio Edifici Monumentali. 33 Nel primo riquadro si trova il personaggio che reca il nome di Comes R[aim]ondus, che può essere identificato con Raymundus figlio del conte Azo di Mosio, del lignaggio degli Ugoni, detti anche Longhi o Longoni, che appare in un documento datato 9 maggio 1227 trascritto in Liber Potheris cit. col. 404. Il personaggio effigiato nello stesso riquadro sotto il nome di Raynaldus [co]mes potrebbe essere identificato con il comes Raynaldus (sempre del lignaggio degli Ugoni, ma di un altro ramo, come mostra lo stemma diverso) presente in documenti del Liber Potheris risalenti al 1226 (col. 387) e al 1240 (col. 291). 34 Nel secondo riquadro si trova il già menzionato Bonapax Faba, collegabile alla notizia secondo cui nel 1238 un centinaio di milites bresciani avrebbero preso le parti dell’imperatore e per questo sarebbero stati banditi. Secondo gli Annales Placentini Gibellini cit., p. 479, tra questi erano i Fabi. Nella stessa porzione delimitata del dipinto sono raffigurati due personaggi di cui è perduto il nome ma che risultano qualificati come [nepotes Ma]fei de Gambara, con ogni probabilità identificabili con Lanfranco e Graziadeo de Gambara (figli di Goizo, fratello di Maffeo) che insieme a Tajone di Manerbio provarono nel 1258 a consegnare la città a Ezzelino III da Romano.
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bilità personaggi attestati come banditi e ribelli tra 1279 e 1280 (righe 10 e 11 della tabella)35. La parete opposta, quella settentrionale ha una struttura più complessa poiché ospita una più ampia stratificazione pittorica che ne rende più difficile la lettura. Tra i due lacerti appartenenti allo strato che qui interessa, quello dei cavalieri incatenati, si trova una scena dipinta successivamente, che raffigura la pace cittadina patrocinata dal vescovo signore Berardo Maggi nel 1298. Anche questa parete tuttavia era divisa in riquadri. Lo dimostrano vari elementi: la presenza di un frammento di una terza fascia, più bassa delle due che corrono parallele a quelle della parete prospiciente, alcuni frammenti di cornici e un elemento iconografico, l’unico che interrompe la serie dei cavalieri, una porta cittadina, da cui un gruppo di cavalieri escono, a raffigurare vividamente, direi, l’esclusione sottintesa dal bando. Dunque nella parete nord si può ipotizzare almeno la presenza di cinque riquadri: un primo a sinistra della porta, un secondo che oggi si trova a destra della scena della pace, un terzo e un quarto disposti su fasce parallele al di sotto, rispettivamente del primo e del secondo e infine un quinto posto sotto il quarto [Figg. 2 e 3]. Il primo riquadro, quello in alto a sinistra contiene due personaggi attestati attorno al secondo quarto del Duecento, uno dei quali risulta essersi ribellato al comune, che gli aveva requisito alcuni terreni comunali già dati in concessione alla sua famiglia nel quadro di una vasta azione di recupero (riga 1 della tabella)36. Il terzo riquadro vede la presenza di un personaggio di cui manca l’iscrizione, ma il cui stemma attribuibile con certezza al lignaggio dei Federici titolari di vasti possessi e diritti in Valcamonica, banditi dal comune nel 1288 (riga 12 della tabella). Per il secondo riquadro di questa parete il discorso è più complesso, dal momento che, come è stato chiarito, i personaggi in esso
35 Nel quarto riquadro si trovano posti vicini due personaggi qualificati come [ …d]e Abate e Bonapax de Limone. In documento databile al 1279 conservato nel fondo del Monastero di San Pietro in Monte di Serle (Archivio Segreto Vaticano, Fondo veneto I, 3514) sono attestati come malexardi et banniti un Bonaventura condam domini Wygelmi abatis de Gavardo e un Bonapax. Ho proposto l’identificazione delle due coppie di personaggi in Milani, Prima del Buongoverno cit. pp. 73-74, considerando il fatto che in quegli anni il comune si trovò a dover contrastare ribellioni nel contado, in particolare nella zona del Garda, cui appartiene la località di Limone. 36 In questo riquadro della parete nord sono presenti Ventura Cagnola, identificabile con il Bonaventura Cagnolus che compare in un documento del 1251 in Liber Potheris cit., col. 700, e Giroldus de Turbiado che secondo un testimone il quale nel 1286 parla di fatti svoltisi quarantacinque anni prima aveva combattuto insieme ai suoi fratelli contro il comune che cercava di riaffermare il controllo sulle comunanze (chiamate cavethe) poste nella località di Rudiano che essi avevano avuto in gestione (Liber Potheris cit., coll. 1037-1038).
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contenuti furono oggetto di un intervento di ridipintura. Secondo Matteo Ferrari in origine questi personaggi non recavano né la catena né la borsa al collo e non erano identificabili tramite iscrizioni. Si tratta di dati che lasciano credere che si trattasse di una raffigurazione non infamante, con ogni probabilità complementare a quella dei banditi che pochi metri oltre, procedendo verso sinistra, uscivano dalla porta. Con il primo riquadro, il secondo formava quindi una scena coerente che vedeva da un lato l’ingresso trionfale nella città (compendiata nella porta) dei reggitori del comune, dall’altro, la conseguente uscita dei banditi. Ad alcuni anni di distanza, (alcuni particolari nelle acconciature sembrerebbero indicare la fine del Duecento) questa porzione del dipinto fu «rivisitata in chiave infamante»: si aggiunsero le catene, le borse, le scritte dei nomi e si modificarono le teste e gli stemmi, affinché potessero identificare personaggi banditi in quel momento, forse coloro che non avevano rispettato la pace celebrata da Berardo Maggi. Nella stessa occasione con ogni probabilità si aggiunsero il quarto e il quinto riquadro37. Ora, a parte questo intervento successivo, che comunque è di grandissimo interesse, emerge chiaramente come il dipinto raffigurasse in ogni riquadro personaggi banditi in una certa fase della storia comunale per una ragione diversa: la ribellione dei tenutari di beni collettivi di inizio Duecento, l’opposizione all’espansione comunale nel contado meridionale appena successiva, lo schieramento con l’imperatore e i suoi seguaci di metà secolo, la ribellione delle località del contado settentrionale, del Garda e della Valcamonica degli anni 1270-1280. Le pareti del Broletto di Brescia contengono insomma un repertorio dei vari nemici del comune: qualcosa di simile a una lista antologica come quelle che furono realizzate a Bologna o a Firenze nel XIV secolo, in cui si riunivano banditi di epoche diverse per farne risaltare la condivisa natura di nemici del regime38: una specie di memoriale degli offensori dotato di grande efficiacia comunicativa. Si pensi a titolo di esempio quanto poteva essere chiaro il messaggio veicolato dal fatto che sulla parete meridionale su fasce differenti (in quelli che abbiamo definito riquadri primo e terzo di quella parete) fossero visibili esponenti 37 Ferrari, I Cavalieri incatenati del Broletto di Brescia cit., pp. 193-194 e Marazzani, I dipinti murali del sottotetto, cit. pp. 42-47. 38 Per le liste scritte a Bologna dal 1308, G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003 (Nuovi Studi storici, 63), pp. 390 ss. Per le liste scritte a Firenze nel Trecento avanzato, M. Campanelli, Quel che la filologia può dire alla storia: vicende di manoscritti e testi antighibellini nella Firenze del Trecento, «Bullettino dell’Istituto storico Italiano per il Medio Evo», 105 (2003), pp. 87-247.
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del medesimo casato, i conti Ugoni, appartenenti a generazioni diverse, ma riconoscibili dallo stesso stemma: la loro giustapposizione dimostrava in modo lampante quanto l’opposizione alla città di questo lignaggio avesse caratterizzato l’intera vicenda politica comunale. A differenza di quanto sarebbe avvenuto a Bologna e Firenze, dove le liste cui ho fatto appena cenno sono qualificate come liste di ghibellini, il denominatore comune al quale erano ricondotti i diversi nemici della città non era tuttavia quello della fazione nemica. Per quanto molti dei personaggi oggi identificabili potessero essere qualificati come ghibellini, essi non furono raffigurati come tali, ma come traditori e avari riconoscibili dalla borsa al collo39. Lo stratagemma di rappresentarli in questo modo, che tradizionalmente nelle immagini infernali connotava gli avari e richiamava la figura di Giuda, permise di esprimere al meglio l’idea secondo cui chi aveva tradito la propria città ribellandosi, lo aveva fatto per perseguire il proprio interesse senza dedicarsi al bene di tutti che era fondamento e fine del regimen cittadino. Da questo punto di vista gli appaltatori di comunanze che non volevano restituirle al comune e i domini loci che non volevano riconoscere sui propri territori la giurisdizione cittadina avevano veramente qualcosa in comune.
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2. L’identificazione della borsa al collo come elemento qualificante della pittura infamante nel Broletto duecentesco di Brescia porta a rileggere le immagini che ornano la parete d’ingresso della sala principale del palazzo della Ragione di Mantova. Di questa sala sono piuttosto note altre pitture: le grandi navi e l’assalto al castello che occupano le fasce superiori, rispettivamente, della parete di ingresso e di quella di fondo, di cui sono state date interpretazioni diverse40; più in basso, sulla parete di fondo, una serie di soggetti religiosi (tra cui un giudizio universale, una crocifissione e una Madonna in trono) ormai attribuibili con certezza al pittore Grixopulus di Parma che le realizzò intorno al 125241. Alla stessa altezza, nella parete di ingresso si trovano le pitture che qui interessano: un gruppo di personaggi che sembrano dialogare, con al centro due individui più separati, uno dei quali tiene in mano un libro [Fig. 4].
39 40
Milani, Prima del Buongoverno cit. Matilde, Mantova e i Palazzi del Borgo. I ritrovati affreschi del Palazzo della Ragione e del Palazzetto dell’Abate, cur. A. Cicinelli - A. Massarelli - A. Morari, Mantova 1995. 41 Rispetto alle interpretazioni precedenti fuga ogni dubbio G. Gardoni, Ideologia religiosa e propaganda politica: il pittore «Grixopulus Parmensis» e gli affreschi del Palazzo della Ragione di Mantova, «Iconographica», 7 (2008), pp. 58-68.
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Oggi si riescono a distinguere, più o meno intere, sei persone, ma in origine dovevano essercene molte di più. Secondo Francesca Fantini D’Onofrio, l’analisi dei frammenti rivela che l’affresco si estendeva sull’intera parete ed era composto da un riquadro centrale più ampio, con al centro quella che a prima vista sembra un’ iscrizione disposta su due colonne, e da quattro riquadri laterali, due su ogni lato42. Le sei persone oggi visibili occupano poco più di metà del riquadro centrale e una parte del riquadro posto alla sua sinistra, il che – ipotizzando il rispetto della simmetria – indica che in origine le persone raffigurate fossero tra le quattordici e le ventidue43. Anche qui tutti i personaggi superstiti portano una borsa al collo. Questo elemento, che non era stato colto dalla Fantini d’Onofrio, mina la sua interpretazione della pittura come una scena di pace, «l’inno alla fine delle lotte cittadine mantovane»44, e la connota decisamente come una pittura infamante. Secondo la studiosa il dipinto rappresenterebbe il patto di alleanza tra il comune di Cremona e quelli di Mantova, Ferrara e Padova contro Ezzelino da Romano stretto l’11 giugno 1259, che prevedeva tra i suoi capitoli anche il rientro di alcuni mantovani banditi dalla città nel 1251 per aver consegnato a Cremona, allora nemica e schierata con Ezzelino, il castello comunale di Marcaria, poi rapidamente riconquistato dai Mantovani45. La presenza della borsa, simbolo del tradimento, confer-
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42 F. Fantini D’Onofrio, Le iscrizioni della parete di ingresso, in Matilde, Mantova e i Palazzi del Borgo cit., pp. 142-149 e Fantini D’Onofrio, Viaggio tra le fonti documentarie, ibid., pp. 156-161. Cfr. anche A. Calzona, La rotonda e il palatium di Matilde, Parma 1991, p. 106 e E. Datei, Il pellegrinaggio in Matilde, Mantova e i Palazzi del Borgo cit., pp. 107-110. 43 La variazione nella stima dipende da quante persone si pensa potessero essere raffigurate nei riquadri laterali. La composizione del riquadro centrale intorno all’iscrizione impaginata in verticale a cui si è accennato rende pressoché certa l’ipotesi che esso contenesse sei persone, tre a destra e tre a sinistra della scritta. Fantini D’Onofrio (Le iscrizioni della parete di ingresso cit., p. 146) afferma che il riquadro centrale aveva una lunghezza doppia rispetto a quella dei riquadri laterali. Questo spingerebbe a ipotizzare che ogni riquadro laterale potesse contenere tre persone, il che porterebbe il totale delle persone rappresentate a 18 (6 al centro più 3 per 4 riquadri). 44 Fantini D’Onofrio, Viaggio tra le fonti documentarie cit., p. 160. 45 Annales Mantuani, ed. G. Pertz, in M.G.H., Scriptores, 19, Hannoverae 1866, pp. 19-31: 23. «1251. dominus Bonifatius de Canossa de Regio fuit potestas Mantue; et suo tempore Ubaldinus de Campitello et comes Princivalus et Ratbolus comes cum multis aliis proditoribus et Cremonensibus furtive rapuerunt Marchariam, et capitaneum Cirche occiderunt. Unde Mantuani contra eos viriliter processerunt, capientes dictam terram, Cremonenses occiderunt et Rathbolum comitem». Il Liber privilegiorum comunis Mantue, ed. R. Navarrini, Mantova 1988, p. 218, n. 60 (1259 giugno 11, Cremona) contiene i «Capitoli della alleanza da stabilirsi fra il marchese Uberto Pallavicino, Bosone di Bovara, ed il comune di Cremona da una parte, ed il marchese Azzo d’Este, Ludovico conte di Verona ed i comuni di Mantova, Ferrara e Padova dall’altra, contro Ezzelino da Romano»,
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ma che ad essere rappresentati furono effettivamente coloro che avevano consegnato il castello di Marcaria, come del resto – lo si vedrà tra breve – attestano i loro nomi. La pittura tuttavia, contrariamente a ciò che credeva la Fantini D’Onofrio, non servì a segnalare il fatto che erano rientrati, ma piuttosto il fatto che erano stati banditi. Lo indica chiaramente l’iscrizione centrale [Fig. 5] che, a differenza di quanto era stato ipotizzato dalla studiosa, può essere sciolta in questo modo: Hic e(st) ul(l)/mus mali / consilii / s(ub) q(u)a tract/ata fuit / p(ro)dit(i)o M(ar)/che reg[e] / [M]ill(esim)o. CC.L.I
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Questa lettura è convalidata da un altro elemento figurativo che non era stato messo in luce: un albero, evidentemente un olmo, di cui si intravedono i contorni bruni del tronco e alcune tra le prime ramificazioni, posto tra i due personaggi centrali, al centro esatto della parete. Sulla parete d’ingresso del palazzo della ragione fu dunque raffigurata la scena del tradimento che aveva portato alla consegna del castello al nemico. I protagonisti furono identificati mediante il nome scritto chiaramente al di sotto delle figure. Oggi sono ancora visibili i nomi Otholinus,46, Adrigotus Cal(o)rosi, appartenente a un lignaggio leader della parte filoimperiale di Mantova47, Moç[olinus] e Ubaldinus de Canpe[dello]48, e infine un (co)mes Guiçard(us), presumibilmente il conte Guizardo da
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in cui si fa riferimento ai fatti di Marcaria «Item quod omnes banniti pro facto Marcharege et eius occasione et omnes eorum homines et homines Ubaldini et Mozolini de Campitello banniti pro Marcharegia vel occasione ipsorum suorum dominorum et Conradus de Calorosis et nepotes filii fratris habeant fruges suas, restitutis eis omnibus et eorum hominibus et possessionibus, quas habebant tempore quo exiverunt de Mantua, exceptatis guastis ipsis factis et venditionibus, si quas fecerint, de quibus nulla fierit restitutio, et quod ipsi omnes possint, statim firmata societate, mittere uxores et familias et nuncios suos ad colligendum fruges sua set stare super possessionibus sui set possint et debeant habitare in civitate et districtu Mantue». 46 Fantini D’Onofrio, Viaggio tra le fonti documentarie cit., p. 157 propone di identificarlo con Ottolino da Riva o Ottolino degli Avvocati. Gli Avvocati risultano coinvolti nel tradimento di Marcaria secondo un documento del 1256 oggi perduto, ma citato in C. Cipolla, Appunti ecceliniani, «Atti del Real Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 70 (1910-1911), pp. 401-420. 47 Fantini D’Onofrio, Viaggio tra le fonti documentarie cit., p. 157, aveva letto erroneamente questo nome come Aldrigo Tusca. Il coinvolgimento dei Calorosi nel tradimento di Marcaria è attestato sia dal documento del 1256 cit. supra a nota 45, sia da quello del 1259 contenuto nel Liber privilegiorum cit. 48 Ubaldino e Mozolino da Campitello sono citati come banditi per il fatto di Marcaria nel documento del 1259 cit. supra a nota 45.
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Redondesco49, podestà del circuito filoimperiale in numerose città venete, appartenente a quello stesso lignaggio degli Ugoni di cui si è fatta la conoscenza trattando delle pitture bresciane. Quest’ultimo tiene in mano un libro, forse il vangelo sul quale stanno giurando la scellerata alleanza, all’ombra di un olmo cioè nel luogo tradizionalmente deputato a ospitare le riunioni consiliari dei piccoli centri, stavolta sede di un consiglio cattivo, i cui membri, mediante la borsa, sono immediatamente qualificati come traditori prima ancora che come avari.
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3. La migliore comprensione di questi due cicli di pitture non serve semplicemente a retrodatare di più di un secolo la più antica immagine infamante conservata, ma consente anche di cogliere un processo in corso. Ortalli, lo si è accennato, aveva fatto riferimento a un movimento verso la standardizzazione visibile sul lungo periodo, che portò da una certa varietà di forme all’immagine dell’impiccato a testa in giù nel pieno Trecento. Il confronto tra Mantova e Brescia lascia immaginare un fenomeno in qualche misura analogo, ma su un arco cronologico più limitato svoltosi in precedenza. A Mantova si decise di sfruttare l’immagine della borsa al collo per la pittura infamante di alcuni traditori legati ad un unico evento (la consegna del castello di Marcaria del 1251), le cui circostanze (il tradimento consumato solennemente e ufficialmente sotto l’olmo) erano raffigurate perché tutti le potessero comprendere. A Brescia la stessa immagine fu posta al servizio dell’esigenza di unificare traditori vecchi e nuovi tra i quali figuravano sia quelli che noi definiremmo traditori veri e propri, come i cittadini che (negli stessi anni di Marcaria) abbandonarono la città per seguire Ezzelino, sia quanti in precedenza, pur non facendo parte della cittadinanza, avevano appoggiato l’imperatore, sia quanti prima e dopo avevano in modi diversi leso gli interessi pubblici del comune e per questo stesso fatto potevano essere qualificati come traditori. Rispetto a Mantova, nella Brescia di trent’anni dopo gli episodi si moltiplicano e l’immagine della borsa serve a tenerli insieme sotto lo stesso segno. Ampliando il discorso a un piano più generale, si può dire che Mantova e Brescia costituiscono esempi in figura di due diverse accezioni con le quali gli storici oggi impiegano l’espressione di damnatio memoriae, corrispondenti a due diverse strategie. Le pitture mantovane sono un caso di ciò che potremmo chiamare la denigrazione del ricordo, una tecnica che si ritrova per esempio nella descrizione di Ezzelino III da Romano fatta dai 49 Guizzardo conte, identificabile come Guizzardo da Redondesco, presenziò a un patto di alleanza tra Mantova e Brescia nel 1254 conservato in Liber Potheris cit., col. 837.
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cronisti di parte filopapale di cui ha scritto Sante Bortolami50: del tiranno, come di qualsiasi altro nemico, si selezionano gli aspetti più negativi, i fatti, veri o inventati, che lo facciano apparire nella luce peggiore. A Mantova i nemici del comune sono raffigurati come traditori, mentre tradiscono. Le pitture di Brescia rinviano a un’altra strategia, un’operazione più complessa, in cui è osservabile quella che Jan Assman ha definito l’alleanza tra il potere e l’oblio51: si annullano le differenze tra episodi diversi per costruire una linea interpretativa del passato particolarmente ostile a qualcuno e, specularmente, favorevole a qualcun altro. Potremmo definire tale operazione come l’omologazione del ricordo, e citare a mo’ di esempio i bandi contro signori e comunità autori dei diversi atti di disobbedienza o insubordinazione nei confronti del comune di Siena che finirono inanellati nella serie del memoriale offensarum del comune di Siena52. Su un periodo più dilatato è quanto avvenne con la costruzione della serie degli antipapi, le cui vicende disparate furono accomunate sotto il segno della ribellione al potere del legittimo vescovo di Roma53. I dipinti, oggi perduti, che furono eseguiti nella camera dei consigli segreti nel complesso del Laterano all’indomani del concordato di Worms (1122) e che raffiguravano i pontefici seduti in trono mentre schiacciavano sotto i piedi i rispettivi antipapi che li avevano contestati, sembrano ispirati proprio da un progetto di questo tipo54. Qualcosa di simile avviene a Brescia nel momento in cui si volle mostrare come lungo tutto il corso del secolo il comune aveva fronteggiato e bandito, cacciandoli dalla città (la fila che esce dalla porta) e condannandoli (la catena) nemici diversi, ma tutti qualificabili come traditori. Il fatto che quest’ultimo elemento potesse essere espresso da una borsa al collo tornava estremamente utile in un comune che tra i suoi nemici includeva non solo cittadini autori di congiure o conti ribelli, ma anche
50 Cfr. G. Ortalli, Ezzelino: genesi e sviluppi di un mito, in Nuovi studi ezzeliniani, cur. G. Cracco, II, Roma 1992, pp. 609-625 (Nuovi Studi storici, 21). 51 J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997, pp. 44-50. 52 L. Banchi, Il memoriale delle offese fatte al comune e ai cittadini di Siena ordinato nell’anno 1223 dal podestà Bonifazio Guicciardini bolognese, «Archivio Storico Italiano», 22 (1875), pp. 199-234. 53 Cfr. l’intervento di Kai Sprenger in questo volume, e più in generale le considerazioni di A. Menniti Ippolito, Il governo dei papi nell’età moderna. Carriere, gerarchie, organizzazione curiale, Roma 2007, pp. 7-14. 54 I. Herklotz, Gli eredi di Costantino. Il papato, il Laterano e la propaganda visiva nel XII secolo, Roma 2000, al cap. III. Vicarius Christi. Le camere di consiglio di Callisto II e i loro dipinti.
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PITTURA INFAMANTE E DAMNATIO MEMORIAE
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appaltatori insolventi di beni comunali o signori che avevano sobillato le comunità contro gli ufficiali cittadini. A dire il vero, mancherebbe all’appello una terza accezione con la quale gli storici impiegano l’espressione di damnatio memoriae, l’unica propriamente intesa, la più antica, ovvero la cancellazione del ricordo, l’eliminazione dei monumenti volti a perpetuare la memoria di qualcuno o di qualcosa. Si potrebbe allora osservare che in questa accezione la damnatio memoriae fu praticata nei confronti delle stesse pitture infamanti. A Mantova, come accennato, i testi ci indicano che nel 1259 i traditori di Marcaria superstiti rientrarono e, come è stato rilevato da Matteo Ferrari, le pitture furono scialbate con colori bianchi e gialli di cui restano ancora le tracce. A Brescia, per quanto la ridipintura cui si è fatto cenno indichi che i cavalieri incatenati non furono fatti sparire nell’epoca in cui divenne signore Berardo Maggi, essi furono progressivamente ricoperti da pitture di soggetto differente, sacro e profano, negli anni successivi55. La conservazione di queste pitture infamanti che per così tanto tempo sono restate ignote si deve quindi, paradossalmente, al fatto che furono ricoperte da altri intonaci. Proprio queste mani di bianco, per un effetto perverso della volontà di farne sparire il ricordo, cancellandole, provvidero a preservarle.
55 M. Ferrari, I cicli pittorici nell’ultimo trentennio del Duecento, in Duemila anni di pittura a Brescia, ed. C. Bertelli, I, Brescia 2007, pp. 95-108.
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Fig. 1. - Brescia, Broletto, Parete sud, i quattro riquadri
Fig. 2. - Brescia, Broletto, Parete nord, il primo riquadro con la porta cittadina e il terzo
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Fig. 3. - Brescia, Broletto, Parete nord, i riquadri a destra della scena della pace
Fig. 4. - Mantova, Palazzo della Ragione, Parete d’ingresso, zona intermedia
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Fig. 5. - Mantova, Palazzo della Ragione, Parete d’ingresso, zona intermedia, la scritta intorno al tronco dell’albero
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Il tema che forma l’oggetto di questo contributo non è certamente dei più facili per la risaputa polivalenza del concetto di damnatio memoriae, un istituto che ebbe, oltre ad un intrinseco valore morale e sociale, notevoli implicazioni politiche, e per l’obiettiva difficoltà a dare connotazioni ben definite e interpretazioni compiute e organiche ad alcuni episodi, i quali potrebbero rientrare in questo caratteristico intervento sanzionatorio oppure rapportarsi a realtà radicalmente differenti rispetto a quella che si intende indagare. Nel 1327, allorché condannò al rogo Cecco d’Ascoli insieme alle sue opere, l’inquisitore francescano frate Accursio Bonfantini pose come obiettivo finale della sua decisione la cancellazione del nome e dell’opera dell’autore dell’Acerba per l’eternità1; al contrario, nel 1377, quando inserirono nel corpus delle norme legislative e consuetudinarie «de lu Commune et de lu Populo de la ciptà d’Ascoli» il nome di Giovanni Vennibeni, gli statutari intesero damnare sì la memoria «taeterrimi tyranni»2,
1 Su Cecco d’Ascoli, cfr. Cecco d’Ascoli. Cultura scienza e politica nell’Italia del Trecento. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XVII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-3 dicembre 2005), cur. A. Rigon, Roma 2007. 2 Cfr. Statuti di Ascoli Piceno, I, ed. G. Breschi, Acquaviva Picena-Ascoli Piceno 1999, pp. 57 e 111. Su Giovanni Vennibeni, che soffocò ad Ascoli le libere istituzioni comunali nel triennio 1318-21, cfr. G. Gagliardi, Meco del Sacco. Un processo per eresia tra Ascoli e Avignone, in L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ‘300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre-1 dicembre 2007), cur. A. Rigon - F. Veronese, Roma 2009, pp. 309-310. Un documento importante per ricostruire la figura del Vennibene, letto da Melchiorre Delfico nei “Registri di Carlo II d’Angiò” e sfuggito finora agli storici locali, si trova in M. Delfico, Saggio istorico delle ragioni dei sovrani
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ma anche di mantenerne vivo il ricordo a suo perpetuo vituperio3. Nella storia ascolana s’incontrano di frequente episodi, che potrebbero rientrare nel concetto tradizionale di damnatio memoriae4 oppure avere una diversa connotazione sul piano giuridico. Ad esempio, dal Primo registro della tesoreria di Ascoli (20 agosto 1426-30 aprile 1427), conservato nell’Archivio di Stato di Roma e pubblicato a cura di Maria Cristofari Mancia nel 1974, risulta che, il 10 febbraio 1427, il tesoriere della Marca card. Astorgio Agnesi versò un ducato
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Magistro Iohanni, pictori, quia pinxit arma, insignia sanctissimi domini nostri pape et Ecclesie in platea Arengi et pro pictura .IIII. confalonorum populi et pro destruendo arma et insignia illorum de Carraria in tota civitate5.
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Il motivo di questo pagamento, registrato nel terzo capitolo generale delle spese straordinarie della tesoreria di Ascoli, si presta ad almeno due supposizioni. Effettuato, infatti, al momento del capovolgimento politico che segnò la fine della signoria dei da Carrara ad Ascoli e il ripristino della piena autorità pontificia sulla città, se riferita al crollo della fortuna dei carraresi, l’incarico dato al pittore Iohannes «pro destruendo arma et insignia illorum de Carrara» potrebbe proporsi come un caso scolastico di damnatio memoriae6; al contrario, se collegato al ripristino dell’autorità pontificia, potrebbe indicarsi come un esempio paradigmatico di quell’atteggiamento ricorrente in tutti i tempi e in tutti i paesi ad ogni mutatio regiminis. Data l’impossibilità di diradare la nebbia che avvolge l’intenzione del card. Agnesi, le due ipotesi restano ovviamente aperte.
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di Napoli sopra la città d’Ascoli d’Abruzzo oggi nella Marca, in Opere complete, III, Teramo 1903, pp. 54-55. Il documento porta la data del 1° aprile 1305. 3 Nel commentare il celebre processo postumo a papa Formoso, l’Amman e il Dumas (Storia della Chiesa - VII - L’epoca feudale. La Chiesa del particolarismo, Torino 1973, p. 36) scrivono che «si conoscevano precedenti esempi di damnatio memoriae, ma il processo si era limitato al nome ed agli atti dell’accusato; questa volta [con la riesumazione del corpo del pontefice] si voleva colpire la persona fisica stessa del papa prevaricatore». Come si vede, siamo di fronte ad una diversa finalità della damnatio memoriae. 4 Forse la più calzante definizione di damnatio memoriae è quella che si legge nell’articolo “Inlaudatus” di Aulo Gellio (II, 6, 10 e 17): «Inlaudatus est isque omnium pessimus deterrimusque [...], qui neque mentione aut memoria ulla dignus neque umquam nominandus est». Per episodi di damnatio memoriae nell’antichità classica, cfr. Suet., Cal., LX; Val. Max., VIII, 14, ext. 5 (di Erostrato, che incendiò il tempio di Diana a Efeso); Hist. Aug., Comm., XX. 5 Il primo registro della tesoreria di Ascoli, 20 agosto 1426-30 aprile 1427, ed. Maria Cristofari Mancia, Roma 1974, p. 147. 6 Sulla fine della signoria dei da Carrara e la restaurazione dell’autorità pontificia ad Ascoli nel 1426, cfr. ibid., pp. 1-21.
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La storia ascolana moderna ci offre un altro chiaro esempio della difficoltà di inquadrare un episodio nella damnatio memoriae oppure in una fattispecie completamente differente per le parzialità che affiorano dai resoconti della storiografia locale. Della serie dei volumi contenenti le decisioni prese dalle magistrature ascolane succedutesi dal primo Cinquecento ai nostri giorni manca solo quello relativo al biennio “giacobino” 1798-99. Se a far sparire il registro furono – come sembra – i magistrati nominati dopo la restaurazione del governo pontificio per “riconsacrare” l’antico regime ed evitare volutamente ogni soluzione di continuità con il «ripugnante ed empio governo francese» che si voleva e doveva cancellare per sempre7, ci troviamo senza dubbio di fronte ad un caso emblematico di damnatio memoriae; al contrario, se furono i magistrati giacobini a distruggerlo prima dell’arrivo delle truppe austriache in città per eliminare le prove per eventuali imputazioni a loro carico, è altrettanto chiaro che la sparizione del volume non rientri assolutamente fra i casi di damnatio memoriae8. Ma lasciamo i preamboli ed entriamo nel vivo del tema del nostro intervento. Non un ascolano, bensì l’intera storia di Ascoli patì un’autentica damnatio memoriae il 25 dicembre 1535, allorché il governatore pontificio Giovan Battista Quieti ordinò di incendiare il palazzo del Popolo per snidare i ribelli che vi si erano asserragliati. Nelle fiamme, «preter alia damna, cancellaria tota perijt» e, con essa, si distrusse per sempre la memoria di tanta parte della storia medievale della città9. Di estremo interesse per lo storico, oltre che per il giurista, gli Statuti urbani e rurali sono strumenti insostituibili di cognizione per seguire l’evoluzione politico-istituzionale di una comunità, ma, in alcuni casi, anche per conoscere episodi e momenti della vita locale di particolare importanza. Segnatamente, per quanto riguarda il nostro tema, negli statuti di Ascoli del 1377 troviamo il ricordo della damnatio memoriae dei due «crudelissi-
7 Sull’argomento cfr. M. Formica, Potere e popolo. Alcuni interrogativi sulla Repubblica romana giacobina, «Studi Romani», 37/3-4, (1989), pp. 235-237. 8 Un caso di damnatio memoriae si ebbe ad Ascoli il 28 febbraio 1798, allorché «le truppe francesi abbatterono tutti gli stemmi pontifici e quelli di molte famiglie nobili», che campeggiavano sugli edifici pubblici e privati della città. Cfr. P. Capponi, Annali della Città di Ascoli Piceno - Parte prima dal 1789 a tutto il 1815, Ascoli Piceno 1905, p.17. 9 Sull’incendio del palazzo del Popolo, cfr. Archivio di Stato di Ascoli Piceno (d’ora in poi ASAP), Archivio storico comunale di Ascoli (d’ora in poi ASCA), vol. 59 (Consilia 1535 usque 1539), c. 1; G. Gagliardi - Gc. Marcone, Il palazzo del Popolo di Ascoli Piceno, Cinisello Balsamo 1992, pp. 115-119.
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mi tiranni misere Joahanni de Vendibene et misere Galiocto d(e) Malatesta» i quali tentarono di abbattere «lu reggiemento de lu stato populare di Ascoli» rispettivamente nel 1318-1321 e nel 1348-135610. Particolarmente importante ai fini del nostro argomento è la rubrica XX del libro III dello Statuto del Conmuno d’Asculi. Inerente all’indipendenza e alla sicurezza della città, alla pax civium, all’immodificabilità dello «Stato populare», al dovere di fedeltà dei cittadini, la norma prevedeva pene severissime a carico dei nemici de «lu populare Stato et libertà della ciptà». L’epigrafe della rubrica recitava testualmente:
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Ch(e) li homini de la ciptà d’Ascoli siano uniti et amaturi de lu pacifico populare stato.
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I destinatari del preciso ed inderogabile imperativo di condotta erano «tucti homini, maschi et femene, de la ciptà d’Ascoli et del soi destricto, di qualuncha co(n)ditione si fosse». A tutti la disposizione statutaria imponeva di essere
p(er)petualmente amaturi d(e)l pacifico et bono stato de la ciptà, del soi contade et destrecto, co(n) puro animo et dericto core et siano te(n)uti et d(e)biano amare la p(er)petuale pace et pacifico stato de la ciptà et no(n) essere partisciano, né fare alcu(n)a parte, ma de co(m)muna et una parte, cioé de la Sancta Romana Echiesia matre nostra.
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Da questo precetto primario, «im(m)utabile», che esprimeva l’obbligo di astenersi da qualsiasi atto contrario alla pacifica e ordinata convivenza civica, discendevano come corollari posizioni attive e passive, che l’ordinamento statutario garantiva o sanzionava in modo coerente e rigoroso. In primo luogo il dettato statutario imponeva ai destinatari – ascolani e distrettuali – il dovere di difendere il governo popolare e la pace sociale, rinunciando ad ogni azione che potesse attentare all’assetto istituzionale del governo cittadino oppure colpire gli interessi primari della città. I reati presi in considerazione dalla rubrica erano il tumulto (rumor), l’insurrezione, la ribellione, il tradimento, gli attentati contro l’integrità e l’indipendenza del comune, l’ideazione, la partecipazione e l’adesione ad azioni militari contro la città, in quanto nessuno
10 Cfr. Statuto del Conmuno d’Asculi del 1377, libro II, rubrica LXXVJ, libro III, rubrica LXXXJ, libro II degli Statuti de lu Populo de la ciptà d’Ascoli del 1377, rubrica XVIIIJ. Per «lu stato tiran(n)ico» di Giovanni Vennibeni, cfr. supra nota 2; per quello di Galeotto Malatesta, cfr. la Cronaca ascolana dal 1345 al 1523, ed. A. Salvi, Ascoli Piceno 1993, pp. 3-9.
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habia ov(er)o debia havere alicuna signoria ov(er)o balia ov(er)o generale iuriditione ne la d(i)c(t)a ciptà d’Ascoli.
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La responsabilità penale sussisteva anche quando l’azione criminosa non si concretizzava e l’evento non si verificava. Le sanzioni, poi, colpivano sia i promotori che i loro fiancheggiatori. L’inosservanza della norma penale sostanziale della rubrica XX determinava gravi conseguenze giuridiche – sanzioni – che colpivano i responsabili nella persona, nel patrimonio, nella dignità. Infatti al prodursi di uno dei casi contemplati dalla rubrica XX, si avviava un’azione penale interamente pubblica, di cui era investito il podestà (oppure il capitano del popolo) in carica, il quale doveva svolgere tempestivamente le necessarie indagini e, se l’accusa risultava fondata, comminare le sanzioni previste dallo statuto consistenti per chi
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farrà overo presumarà de fare (con)tra [lu pacifico populare stato] ne la pena del capo et tucti li beni soi siano publicati et deve(n)gano i(n) Com(m)une et li figlioli soi siano scacciati p(er)petualemente de la ciptà et de lo districto d’Ascoli et la im(m)agene sua sia d(e)penta, ad p(er)petua memoria de la cosa, i(n) palazo de lu d(i)c(t)o Com(m)une ad viptuperio soi et i(n)de le porte de la ciptà d’Ascoli sia d(e)pi(n)to. Et in quella medesme pena sia punito chi tractasse ov(er)o ordinasse alicuno tradimento de la ciptà d’Ascoli overo d(e) le sue castella. Et se serrà femina, epsa femina sia arsa et le loro dote devenga in Com(m)une.
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Le pesanti coercizioni fisiche, la confisca dei beni, la condanna all’esilio, le esecrazioni d’ordine morale previste dallo Statuto non furono tuttavia in grado a tenere sotto controllo la vita cittadina, che nei secoli XIII/XVI venne a trovarsi in uno stato di permanente conflittualità e di instabilità politica per i continui disordini provocati dalle opposte fazioni, i forti contrasti tra famiglia e famiglia, le frequenti esecuzioni capitali, i numerosi omicidi causati principalmente dalle lotte fra le fazioni e dall’avidità di dominio. Nessuno meglio del poeta elegiaco ascolano Pacifico Massimi (1410 c.-1506) ha descritto con accenti di profondo scoramento e di lacerante afflizione la triste realtà della città in quel periodo11: Quando quies erit hic? Quando hic dormire licebit? Quando hic sollicitus non dabit arma furor?
11
Su Pacifico Massimi, cfr. A. Mulas, Massimi, Pacifico, in Dizionario biografico degli italiani, 71, Roma 2008, pp. 777-779.
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Saepeque bella movent aliiae sed saepe quiescunt Urbes, hic nullo tempore bella silent. Cum sopisse putas alta se pace furorem: Sopito maior surgit ad arma furor. Semper agit lites frater cum fratre paterque Insidias nato praeparat ille patri. Quae pax est teneris saevis cum tygribus agnis: haec est adversis civibus usque meis12.
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La più volte menzionata Cronaca ascolana dal 1345 al 1523, oltre alle continue guerre contro Fermo, Offida, Castignano, Arquata, ecc., ricorda un numero impressionante di tumulti, di tradimenti, di cittadini «expulsi» o «subspensi» o «percussi» o «decapitati» o «occisi» dopo essere stati «extrissinati per urbem» oppure «tenagliati per urbem» prima di essere «discerpti in 4 partes». E ciò «ad exemplum aliorum»13. In tutti questi casi i responsabili venivano immancabilmente affrescati sul posto «in quo depinguntur fractores pacis et proditores»14. Uno degli episodi più gravi del periodo in esame si verificò il 2 marzo 1490, allorché 12
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P. Massimi, Hecatelegium, libro quarto, elegia seconda, vv. 23-32. Per una approfondita conoscenza di questo turbolento periodo della storia ascolana, oltre alla citata Cronaca, si rimanda alle opere di A. De Santis (Ascoli nel Trecento, 2 voll., Ascoli Piceno 1984-1988) e Giuseppe Fabiani (Ascoli nel Quattrocento, 2 voll., Ascoli Piceno 1950-51 e Ascoli nel Cinquecento, 2 voll., Ascoli Piceno 1957-1959). 13 Per qualche esempio, cfr. Cronaca ascolana dal 1345 al 1523, cit., pp. 3, 5, 8, 12, 13, ecc. 14 Come si è visto, secondo lo statuto l’immagine del condannato doveva essere dipinta «i(n) palazo de lu d(i)c(t)o Com(m)une ad viptuperio soi et i(n)de le porte de la ciptà d’Ascoli». Nel 1377, al momento cioè in cui si riformava lo statuto, il palazzo del comune era quello dell’Arengo (cfr. G. Gagliardi, La pinacoteca di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 1988, p. 8), dove perciò venivano raffigurati i condannati politici. Allorché l’edificio di piazza Arringo divenne la residenza del luogotenente del “vicarius” di Ascoli Ladislao d’Angiò Durazzo (1404), le autorità comunali si trasferirono nel palazzo del Popolo «in platea superiore» (ibid.). Da questo momento le figure dei condannati a morte vennero affrescate sulle pareti di una torre, che sorgeva nei pressi della nuova sede comunale e che, nel sec. XVI, era di proprietà della famiglia Lenti, la quale nel 1554 ne chiese la demolizione (cfr. ASAP, ASCA, vol. 64, c. 103 v: «Supplicatio Baptiste Lenti et fratrum pro demolitione turris in qua depinguntur fractores pacis et proditores»). Forse i Lenti rinunciarono alla demolizione per non pagare i cento fiorini richiesti dal Comune per accogliere la loro “supplica”, dato che una “turris penta” è ricordata nei documenti del Sei-Settecento nello stesso sito (l’area dell’attuale caffè Meletti), senza però che ne venga indicato l’uso (cfr. G. Gagliardi, Il Meletti, Ascoli Piceno 1998, p. 14). Infondata, infine, è l’affermazione del Fabiani che «i traditori si dipingevano in una torre posta accanto al palazzo Lenti, ora Gallo» in corso Mazzini (cfr. Ascoli nel Quattrocento cit., I, p. 139, nota 74), perché i Lenti acquisirono quell’edificio solo nel 1781 (cfr. ASAP, Archivio notarile di Ascoli, atti del notaio G. Faraone, vol. 3913, c. 346). Sulle pitture infamanti, cfr. G. Ortalli, “...Pingatur in palatio...” La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979.
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incepte primum fuerunt maledicte factiones machinatorum et non machinatorum15. Quo tempore (dictum fuit) quidam cives tractaverunt perturbare quietum statum civitatis propter quod capti fuerunt Iohannes Perus Colai Petri, Cesar Mariani Folci, vir nobilis, et Grisantes Paulini Cincti, dominus Nicolaus Francisci Iannelle, eques auratus. Et facti sunt exules rebelles dominus Iacobus ser Iohannis de Alvitretis, eques auratus, cum tota familia, Goliassus Odde de Scarillis, vir nobilis, dominus Franciscus Cautus, eques auratus, cum Antrea eius germano, equite militari, et Iohanne fratribus olim filiis Baptiste aromatarii, Richardus et Theseus Francisci Marini de Miglanis cum suis fratribus et familiis. Et facti sunt exules et rebelles cum his complures alii cives, quorum longum esset enarrare. Nonnulli alii fuerunt relegati et confinati, inter quos fuit dominus Deiophebus Novellus filius ser Sanctorii, legum doctor, Perus Marinus Malchioris de Sgariglis, vir nobilis, Alexander Baptiste de Iannellis, Cesar Mariani de Folcis et Iacobus ser Francischini et plures alii cives16.
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Due anni dopo, questa sommossa ebbe il suo tragico epilogo: i giovani Cesare di Antonuccio di Amatrice e Francesco di Giovanni Antonio di Luco furono condannati senza alcuna esitazione e portati al patibolo17, perché dichiarati proditores, turbatores et tractantes et ordinantes de malo statu Civitatis Asculi et homines male fame et conditionis, [...] et turbatores patrie, et boni status dicte Civitatis, non habentes deum pre oculos, sed potius inimicum humani generis ac immemores salutis eorum patrie18.
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Il giorno successivo, «giudicati con processo a parte», gli altri insorti del 2 marzo 1490 furono condannati «a morte in contumacia, i loro beni posti alla confisca e i loro figli al bando»19. Sia nel primo che nel secondo caso, il «barisellus Franciscus Germani de Bononia» dispose che «immagines» dei condannati «ad eorum vituperium depingantur»20. Secondo il Pastori, i dipinti furono cancellati l’anno successivo per ordine di Innocenzo VIII, che aveva accolto una supplica dei parenti degli... affrescati21. 15 Sul significato dei «singolari termini machinati e non machinati» (= guelfi e ghibellini), cfr. Cronaca ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 44, nota 271 e G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento cit., I, p. 138. 16 Cronaca ascolana dal 1345 al 1523 cit., p. 44. 17 Va forse intesa così la frase «iuste et iniuste Deus sit» della Cronaca (p. 45). 18 ASAP, ASCA, vol. 16 (Liber III Maleficiorum), cc. 94 e 103. 19 Fabiani, (Ascoli nel Quattrocento cit, I, pp. 138-139; ASAP, ASCA, vol. 17 (Liber IV Maleficiorum), cc. 6-7. 20 Ibid. 21 Il Fabiani (Ascoli nel Quattrocento cit., I, p. 139, nota 74) osserva che nella bolla di Innocenzo VIII, citata dal Pastori, «non si parla affatto di ciò».
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È conosciuto il carattere fortemente antimagnatizio degli Statuti di Ascoli del 137722. Le aspre e dure accuse dei populares contro l’atteggiamento arrogante e antipopolare della classe aristocratica, da cui era dipesa nei decenni precedenti la politica del comune23, miravano principalmente ad intaccare il prestigio dei nobiles viri e a denunciare agli occhi dei cittadini e dei posteri la loro faziosità e la loro animosità nella gestione della cosa pubblica. Questa esplicita e grave denuncia dei “populares” è un altro chiaro esempio di damnatio memoriae. C’è di più: i bastardelli notarili della fine del Trecento e dei primi anni del secolo successivo sembrano alludere alla damnatio memoriae della stessa parola nobilis. Negli atti rogati in quel periodo, infatti, sono frequenti le espressioni «venerabilis vir», «reverendus vir» e le parole «ser», «dominus», «domina», ma è veramente raro l’uso di «nobilis vir», riferito ad un cittadino ascolano (ma è, invece, usuale per i forestieri importanti come il podestà, il capitano de Popolo, il bargello, ecc.). Viceversa, durante e dopo la riscossa aristocratica verificatasi durante le signorie di Ladislao re di Napoli (1404-1406 e 1408-1414?), dei da Carrara (1413?-1426), di Francesco Sforza (1434-1445) diventano d’uso corrente le espressioni «magnificus vir», «strenuus et generosus miles», «nobiles et potens miles», «honorabilis et spectabilis vir», «nobilis et egregius vir» riferite, però, solo ed esclusivamente a soggetti della classe aristocratica cittadina, come i Guiderocchi, i Miliani, i Falconieri, i Malaspina, i Cauti, i Saladini, ecc.
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Sull’argomento, cfr. L. Zdekauer - P. Sella, Statuti di Ascoli Piceno dell’anno MCCCLXXVII, Roma 1910, pp. VIII-XXI. 23 Cfr. G. Gagliardi, La pinacoteca di Ascoli Piceno cit., pp. 7-8.
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Con molta vivacità si è discusso in questi tre giorni ascolani di un tema accattivante, non solo perché in buona parte inesplorato dalla medievistica, ma anche perché di grande forza evocativa: diversi sono stati i riferimenti alla contemporaneità, da mons. S. Montevecchi, che ha ricordato la distruzione delle statue di Stalin dopo la caduta del muro di Berlino, al vicesindaco A. Antonini, che ha citato l’infangamento della memoria tramite internet, a Nicoletta Giové, che ha esordito citando Bertolt Brecht. Si è considerato un aspetto particolare di quella ‘memoria’ che negli ultimi decenni è stata oggetto di intense ricerche, non solo in ambito storico: con grandi entusiasmi – nel 1984 s’iniziava a parlarne come di un fenomeno sociale ‘totale’ – e con qualche fastidio – nel 2001 Friedrich Prinz denunciava la «strabordante ricerca sulla cosiddetta memoria»1. Con la damnatio ci siamo mossi prevalentemente sul versante dell’oblio, ma non esclusivamente: Silvia Maddalo ci ha presentato l’autocelebrazione di Federico II e la costruzione del suo mito; Wolfgang Decker ha illustrato lo splendido monumento funebre eretto in memoria dell’ex-papa Baldassarre Cossa/Giovanni XXIII; Sante Bortolami ha ricordato le voci positive che anche dopo la morte si levarono a difesa di Ezzelino da Romano; Giuliano Milani e Amedeo De Vincentiis hanno sottolineato l’aspetto ‘costruttivo’ della memoria negativa, fosse essa la pittura infamante di Brescia e Mantova o la cacciata del duca d’Atene da Firenze nel dipinto di Stefano Ussi del 1860. Quindi siamo rimasti entro la dialettica del ricordare/dimenticare e nell’ambito di una damnatio che non giunge all’indicibilità. La memoria è
1 Il primo a parlare della memoria come fenomeno sociale ‘totale’, riprendendo un’espressione coniata da Marcel Mauss, è stato Otto G. Oexle: M. Borgolte, Zur Lage der deutschen Memoria-Forschung, in Memoria. Ricordare e dimenticare nella cultura del Medioevo / Memoria. Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte - C.D. Fonseca - H. Houben, Bologna-Berlin 2005, pp. 21-28: 21 (a p. 22 anche la citazione da F. Prinz).
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rimasta insomma il perno centrale cui ritornare ogni volta e di nuovo, nello sforzo di precisare i tentativi all’opera per la sua decostruzione. Come ha chiarito Gerald Schwedler nel suo contributo di taglio teorico e metodologico, damnatio memoriae è un’espressione coniata nel Seicento sulla base del pensiero giuridico e della pratica politico-amministrativa romana, ma trova applicazioni anche nel mondo medievale: esemplari al riguardo il caso di Ludovico il Bavaro, illustrato dallo stesso Schwedler, e le scalpellature su iscrizioni o su altri edifici pubblici commentate sia da Nicoletta Giové sia da Giannino Gagliardi, in riferimento alla nostra città ospite. Cancellazione del nome, abbattimento di statue, sfregio di ritratti si ritrovano puntualmente nel Medioevo, insieme con l’intervento su nuovi elementi simbolici come gli stemmi: intervento comprensibile alla luce del nesso nome-arma che si andò affermando, nel XII secolo, con l’evoluzione dell’araldica e con la stabilizzazione del sistema antroponimico moderno di nome-prenome; un nesso tanto forte che nel 1561 Barthélémy de Chasseneur avrebbe stabilito l’equazione «nomen vel arma sua». L’arme divenne un sostituto della persona, come ha suggerito alcuni anni fa Hans Belting, individuando nello stemma un precursore del ritratto in quanto segno di un corpo in astrazione araldica2. Arme e ritratto come ‘media’ del corpo, di cui fecero le veci: ecco l’interesse di Clemente VI a eliminare, tra i documenti e i privilegi di Ludovico il Bavaro, in particolare quelli che presentavano l’imago eius riprodotta nei capilettera – era lo stesso risultato che ci si riprometteva in età romana con la raschiatura dell’effigie del ‘dannato’ dalle monete. È così emersa una ricca tipologia di elementi portatori di memoria e quindi oggetto di distruzione: si intervenne su quelli che B.-M. BedosRezak ha chiamato i ‘marcatori dell’individuazione’3, e si intervenne spesso attraverso azioni ritualizzate. Come ci ha ricordato Kai M. Sprenger, al cadavere di papa Formoso vennero strappate le vesti e le tre dita usate per la benedizione, con un rito che richiama la degradazione, mentre Cristiano di Magonza bruciò il pallio ricevuto da Pasquale III per ‘mostrare’ l’inanità dell’atto di conferma papale della sua nomina ad arcivescovo. Tali gesti di forte carica simbolica sono ora valorizzati nell’ambito delle indagini sul “comportamento simbolico-rituale”, volte a considerare quanto venne 2
La tematica è discussa in D. Rando, Bartolo da Sassoferrato e i nuovi orizzonti dell’araldica: comunicazione, identificazione, ‘transculturalità’, in Incrociare le armi. Il libello di Lorenzo Valla contro Bartolo nell’Università di Pavia del 400, Pavia, 6-7 novembre 2008, in corso di stampa. 3 B.-M. Bedos-Rezak, Les marqueurs de l’individuation, in L’individu au Moyen Âge. Individuation et individualisation avant la modernité, Aubier 2005, pp. 33-42: 34-36.
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‘costruito’ attraverso il gesto o l’immagine e a leggere la ‘rappresentazione’ o la messinscena come legittimazione visiva del potere – una recente mostra a Magdeburgo è stata appunto intitolata allo “spettacolo del potere”4. L’operazione della damnatio memoriae si profila allora strumento di quella ‘comunicazione politica’ che si sta ora studiando come elemento decisivo di un potere e di un dominio intesi come azione politica che deve essere comunicata5. L’ampio uso delle immagini fatto in questi giorni conferma la potenza della comunicazione visiva: abbiamo trattato di un oblio visualizzato e ritualizzato. Il significato politico della damnatio è stato il Leitmotiv del nostro incontro. Il primo a parlarne è stato Antonio Rigon all’apertura dei lavori (damnatio memoriae come «supporto potente per disegni di egemonia»), mentre N. Giové ne ha sottolineato il valore ideologico e propagandistico e A. De Vincentiis ne ha seguito la lunghissima efficacia, a proposito della cacciata del duca d’Atene da Firenze, fin dentro il repertorio visivo della memoria storica risorgimentale. La relazione potere-damnatio è stata adombrata da G. Schwedler nel citare M. Foucault e P. Ricoeur: i potenti manipolano il ricordo e operano perché non sussistano memorie alternative. Proprio tra le pieghe del ricordo alternativo degli ‘antipapi’ altomedievali, conservato da notai o da iscrizioni, ci ha invitato a frugare K.-M. Sprenger, per superare in qualche modo la cancellazione degli sconfitti dalla storia; a tal scopo anche l’evocazione di Alessandro III come ‘antipapa’ può essere utile, una suggestione che mi pare richiamare il counterfactual thinking, cui recentemente è stato attribuito un originale potenziale euristico6. I relatori però non si sono limitati alle pratiche medievali che richiamano più da vicino la classica damnatio, hanno invece declinato quest’ultimo termine in modo molto vario. La proposta di nuove definizioni o la necessità di accostare alla categoria-chiave una serie di aggettivi mostra che si è utilizzato prevalentemente un concetto largo di damnatio memoriae, debo-
4 La mostra si è svolta contemporaneamente al convegno di Ascoli: Spektakel der Macht: Rituale im Alten Europa 800-1800, Katalog [21. September 2008-4. Januar 2009 im Kulturhistorischen Museum Magdeburg], cur B. Stollberg-Rilinger - G. Althoff, Darmstadt 2008. 5 Sono le ricerche condotte in particolare presso l’università di Münster e, con speciale riguardo alla comunicazione politica, da B. Stollberg-Rilinger: Was heisst Kulturgeschichte des Politischen? Einleitung, in Was heisst Kulturgeschichte des Politischen?, cur. Stollberg-Rilinger, «Zeitschrift für Historische Forschung», Beiheft 35, Berlin 2005, pp. 9-24; e cfr. il catalogo citato nella nota precedente. 6 Counterfactual Thinking as a Scientific Method / Kontrafaktische Denken als wissenschaftliche Methode, cur. R. Wenzlhuemer, «Historical Social Review / Historische Sozialforschung», 34/2 (2009), Special Issue.
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le dal punto di vista teorico. Ancora in riferimento a Federico II, si è considerata la damnatio nei suoi effetti di lungo periodo sui monumenti da lui voluti – erosione, rovina, perdita di significato, dispersione e riuso di lacerti. Nella variante debole di “selezione storiografica” Marino Zabbia lo ha applicato alla prima storiografia normanna, considerata strumento di legittimazione del potere dei nuovi sovrani. Rispetto a una deletio nominis tardivamente applicata e resa definitiva, W. Decker ha finemente rilevato i caratteri ambivalenti del ricordo di un papa deposto, derivanti da una “memoria storica” non pacificata (Grande scisma e concilio di Costanza) e riflessi in un monumento funebre in sé enigmatico. K.-M. Sprenger ha citato la damnata memoria attribuita dai papi ai loro avversari – forse solo un costrutto speculare alla bona/beata memoria dei predecessori legittimi, e ha proposto il concetto di damnatio in memoriam, una condanna nel ricordo a sua volta affine, ma non perfettamente identica, alla “condanna al ricordo” richiamata già da A. Rigon a proposito sia della pittura infamante, che è stata poi oggetto centrale dell’intervento di G. Milani, sia del “guasto” inflitto alle case dei fuorusciti o banditi nei comuni cittadini: è la valenza negativa della rovina e del relitto, memoriale e ammonitrice, che visivamente si ritrova esemplificata da una città diroccata anche nel “Cattivo governo” del Lorenzetti7. Nell’ambito allargato della damnatio memoriae è stato inserito pure l’annullamento degli atti con valenza giuridica degli antipapi e dei loro seguaci nonché lo sfregio delle tombe e dei cadaveri; si è accennato al rogo di persone e di libri8, cui si può aggiungere anche la censura. È purtroppo mancata l’annunciata relazione di Grado G. Merlo sugli eretici, che avrebbe offerto sicuramente nuovi elementi di riflessione, anche in connessione con il fenomeno risorgente dell’iconoclasmo – si pensi all’azione attribuita da un cronista trecentesco a Gregorio Magno, che avrebbe ordinato l’amputazione e la distruzione (dilaniatio) di tutte le immagini demoniache, delle loro teste e membra presenti a Roma e fuori città, per estirpare alle radici l’eresia e far risplendere l’ortodossia9.
7 Cfr. M. Makarius, Ruines, Paris 2004, in trad. tedesca: Ruinen. Die gegenwärtige Vergangenheit, trad. dal francese di M. Bayer, Paris 2004 , dalla quale cito: p. 17. 8 Sul tema si veda il bellissimo libro di Th. Werner, Den Irrtum liquidieren: Bücherverbrennungen im Mittelalter, Göttingen 2007. 9 «Statuit et ordinavit, ut omnes imagines daemonum, capita et membra ipsorum, quae tam in urbe Romana quam extra inveniri possent, amputari et dilaniari penitus deberent, ut propter hoc exstirpata haereticae pravitatis radice, ecclesiasticae veritatis palma plenius exaltaretur». L’esempio è citato da K. Wren Christian, Empire without End. Antiquities Collections in Renaissance Rome, c. 1350-1527, New Haven-London 2010, p. 19 nota 18, che a sua volta lo riprende da Tilmann Buddensieg.
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Più che di damnatio, si è dunque parlato di memoria selezionata, deformata, interpretata, denigrata, deturpata, con un uso molto flessibile del concetto. La damnatio è stata intesa come ‘pratica’ di distorsione del passato in molteplici variazioni e gradi: considerata sul piano sia della memoria prospettica di cui parla Jan Assmann, quella che guarda al futuro e ai posteri, sia della memoria che si fa riflessione storiografica, costretta a fare i conti con i ‘vuoti’, le reticenze, i silenzi, le manipolazioni delle fonti. Mi pare quindi che il convegno si sia mosso nella prospettiva abbozzata da G. Schwedler – la damnatio memoriae come pratica culturale – e abbia mostrato il carattere non fatale dell’oblio, cui è stato riconosciuto anche il valore di chance per la sopravvivenza10: quando si innesca la rimozione, si dimentica per costruire e per riutilizzare. C’è un’“innocenza nel dimenticare”, così Schwedler, decisiva per la memoria individuale e collettiva – fulminante il dictum di F. Nietzsche: «‘L’ho fatto io’, dice la mia memoria. Non ho potuto farlo io, dice il mio orgoglio e rimane inesorabile. Alla fine – la memoria cede»11. Ma anche la damnatio stessa può essere soggetta all’oblio: di qui il nesso adombrato nell’intervento di Michael Matheus fra damnatio e mito (positivo o anche negativo), due fenomeni distinti ma in relazione, e la “smitizzazione della carica simbolica” di cui ha parlato A. De Vincentiis, sempre a proposito della cacciata del duca di Atene da Firenze nel secondo Ottocento. Ancora W. Decker ha sottolineato come la vera deletio nominis di papa Cossa si sia avuta solo ai giorni nostri, lontani dai dibattiti medievali e da specifiche volontà di damnatio. Sono, queste, alcune delle indicazioni offerteci dalle relazioni e dalle discussioni dei tre giorni appena trascorsi. Non so se mons. Montevecchi abbia trovato risposta a tutte le domande che poneva all’apertura dei lavori, ma sono certa che la pratica dell’oblio non investirà il nostro convegno né saranno dimenticati la squisita ospitalità e i raffinati riti dell’Istituto: per la musica del maestro Paolo Ceccarini e l’incontro con Pupi Avati in occasione del Premio, per l’arte ascolana, non solo figurativa ma anche culinaria, che ci ha fatto generosamente godere, il nostro grazie e il nostro ricordo.
10 Cfr. ancora M. Borgolte, Zur Lage der deutschen Memoria-Forschung cit., p. 25. 11 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral (1886 - 1887), cur.
G. Colli - M. Montinari, Berlin 1968 (Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, 6/2), p. 86, n. 68: «“Das habe ich gethan” sagt mein Gedächtniss. Das kann ich nicht gethan haben – sagt mein Stolz und bleibt unerbittlich. Endlich – giebt das Gedächtnis nach».
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JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR: Buongiorno Jacques. Sono venuto da Roma in seguito alla richiesta dei nostri amici di Ascoli Piceno; ti ricorderai che 20 anni fa sei stato insignito del Premio Internazionale Ascoli Piceno. Proprio perché quest’anno ricorre il ventennale della fondazione del premio, hanno voluto, e mi è parsa una bellissima idea, commemorare questo ventesimo anniversario ponendoti un certo numero di domande, attraverso la mia intermediazione. Comincio subito con la prima domanda. Ventuno anni fa hai ricevuto questo premio; è stato un grande onore per Ascoli Piceno, e hai pronunciato un bellissimo discorso di apertura consacrato ad un tema che ti è caro e sul quale avevi già scritto un certo numero di articoli: i rapporti tra Oriente e Occidente e più in dettaglio, il tema della posizione dell’Italia tra Oriente e Occidente. La domanda che vorrei porti è la seguente: hai l’impressione che durante gli ultimi vent’anni questo tema dei rapporti oriente-occidente e soprattutto della posizione dell’Italia abbia ricevuto dalla parte degli storici e più in particolare dei medievisti l’interesse, l’attenzione che merita? JACQUES LE GOFF: Caro Jean-Claude, prima di tutto vorrei ringraziare gli organizzatori e gli assistenti di questo convegno. Sfortunatamente non posso essere con voi, in questa magnifica città di Ascoli Piceno, e sfortunatamente non posso parlare a lungo in italiano. Parlerò dunque in francese, e tu sarai così gentile da tradurre1. Conservo un bellissimo ricordo di quel convegno. Sono stato quasi in
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Traduzione a cura di Francesca Tempestini.
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tutt’ Italia, e so che una delle caratteristiche di quest’Italia (si tratta di un fenomeno storico, sempre vivente, e del quale tu hai rimarcabilmente parlato nella tua opera), è la molteplicità delle città, grandi e piccole, dei comuni, e che lo spirito cittadino è una delle caratteristiche profonde dell’Italia. Io auguro oggi agli italiani per i quali provo sempre un’ammirazione, un affetto e una riconoscenza molto forti, di preservare il senso di unità nazionale che hanno acquisito e che ha reso l’Italia all’epoca della mondializzazione uno dei fari della civilizzazione attuale, e allo stesso tempo, spero che preservino la memoria di questi diversi comuni, di queste città e cittadine, che inoltre si situano in un magnifico ambiente rurale che vediamo già nel Trecento, attraverso la pittura di Ambrogio Lorenzetti, e che anche il Sereni ha saputo meravigliosamente mostrare e spiegare qualche anno fa. Credo che l’Italia continui oggi a svolgere un ruolo centrale che forse cambia con l’insieme della storia, ovvero credo che l’Italia sarà il ponte tra l’Europa che si sta costruendo (e della quale l’Italia è uno dei fiori all’occhiello, d’altronde il primo grande atto europeo è il Trattato di Roma del 1956) e questo Medio-Oriente così turbato ma così ricco di ricordi storici.
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J.-C.M.V.: Jacques, ora ti vorrei porre una seconda domanda su un tema un po’ delicato, ma che è in rapporto con la domanda precedente. Vorrei sapere se condividi l’opinione, che è anche la mia, per la quale in questo momento in Francia si stia assistendo dalla parte di un certo numero d’intellettuali e in particolare di medievisti, al rigetto dell’idea che la cultura occidentale abbia un debito nei confronti della cultura araba del Medioevo, in particolare dell’epoca che va dall’VIII al XII secolo, per quello che riguarda il ruolo di questa cultura araba nella trasmissione in Occidente delle grandi opere della filosofia antica e in particolare della filosofia greca. È chiara la mia allusione all’affare Gouguenheim. Allora, preciso rapidamente di cosa si tratti, dal momento che l’opera di Sylvain Gouguenheim, che ha sollevato un grandissimo polverone in Francia la scorsa primavera, non è tradotta in italiano. Si tratta dell’opera di un medievista che rimette in causa, per l’appunto, quello che fino ad oggi era riconosciuto come un ruolo di primo piano nella trasmissione in occidente di una buona parte della filosofia greca o greco-latina antica da parte del pensiero arabo. J.L.G.: Sylvain Gouguenheim, che conosco poco, è un buono storico; tuttavia penso che questo libro non sia proprio riuscito. Innanzi tutto
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penso che lui non abbia sufficientemente dimostrato la sua tesi e in particolare penso che non abbia sostenuto abbastanza il ruolo che attribuisce ai centri di traduzione cristiana come il Monte Saint-Michel. Inoltre mi sembra che ci sia una rimessa in causa del ruolo degli arabi nella trasmissione del pensiero antico all’Europa medievale-moderna che, nel contesto attuale, più che illuminare la realtà accende gli animi e alimenta gli spiacevoli conflitti che oppongono gli uni agli altri, europei e musulmani. Detto questo, trovo che le critiche che sono state fatte a Gouguenheim e a questo libro, siano molto esagerate e che se il tono di questa polemica si allargasse tra gli storici, avremmo una regressione. Forse si è un po’ esagerato sul ruolo degli arabi; resta il fatto che, secondo il mio parere, la cultura europea abbia avuto delle sorgenti e delle vie di trasmissione multiple, e che non si debba arrivare a sottovalutarne qualcuna rispetto alle altre. Il ruolo di intermediario fa parte dell’antichità, e soprattutto del mondo romano che è stato esso stesso, durante l’Impero, un intermediario tra il mondo antico greco e il mondo occidentale. D’altra parte, parliamo dell’apporto barbaro: a questa parola è stato dato un deplorevole senso peggiorativo mentre invece un grande storico polacco molto conosciuto in Italia, Karol Modzelewski ha recentemente mostrato l’originalità, l’importanza dell’apporto cosiddetto barbaro (celtico, scandinavo, germanico, slavo) alla cultura europea. Successivamente, il mondo del Medio Evo, quale che sia l’importanza del cristianesimo, è un mondo che ha fatto posto agli ebrei purtroppo andando verso la persecuzione più che verso la ricezione, e che ha ricevuto, che ha accolto l’apporto arabo (e l’Italia lo sa molto bene, in particolare l’Italia meridionale e la Sicilia, ma non molto più a Sud di Ascoli Piceno, e la Spagna), e tutto questo mi sembra che componga la variegata ricchezza dell’Europa. Non bisogna dimenticare quello che chiamerei l’esempio di Federico II: questo Federico II che, come re delle Due Sicilie molto più che come imperatore, ha saputo, aiutato anche da una cancelleria trilingue, per esempio, far entrare il contributo musulmano nella cultura europea. Un grande storico italiano ancora vivente, nonché mio grande amico, Girolamo Arnaldi, in un buon libro su l’Italia e sui suoi invasori ha messo in evidenza il ruolo che ha avuto l’Italia durante tutta la sua storia per quanto riguarda la trasmissione delle culture. L’Italia per me è veramente un paese meraviglioso, perchè allo stesso tempo è creatrice di cultura e trasmette, passa agli altri la cultura. Mi domando se sia anche per questo che gli italiani sono così bravi nel calcio, dove passare la palla è così importante.
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J.-C.M.V.: Grazie Jacques per questa risposta allo stessa tempo ferma e piena di sfumature. Adesso torniamo al tuo discorso di apertura di Ascoli Piceno nel 1987. In quel discorso evochi il ruolo di piatto dell’Italia negli scambi commerciali tra Oriente e Occidente, e tu stesso, senza essere uno storico specialista di storia economica, hai consacrato, è cosa risaputa, sia saggi che libri assolutamente fondamentali sul ruolo del denaro, sull’evoluzione dell’atteggiamento dei laici e del clero riguardo al denaro, soprattutto nel corso degli ultimi secoli del Medio Evo. Oggi, bisogna dirlo, e penso che tu sia del mio avviso, dopo vent’anni, forse trent’anni, si assiste, nella storiografia sul Medioevo ad una sorta di dissoluzione della storia economica; e tuttavia, in particolare in Italia, penso per esempio ai libri di Giacomo Todeschini, si assiste paradossalmente ad un fiorire di studi estremamente interessanti sul problema dell’evoluzione della dottrina della Chiesa a riguardo dell’usura, più generalmente a riguardo di tutte quelle nuove operazioni, tecniche, bancarie e finanziarie che sono state uno dei fondamenti della grande storia economica dell’Occidente nel XIII e XIV secolo. Come spieghi questo paradosso? Pensi che arriverà un momento nel quale la storia economica ritroverà il suo posto negli studi medievali?
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J.L.G.: Lo spero. Gli storici sono caduti nel trappola nella quale cadono molti uomini e donne nei loro diversi lavori e nelle loro diverse posizioni: passare da un estremo all’altro. C’è stata un’epoca, è vero, nella quale la storia economica è stata molto invadente. Si trattava di una storia economica spesso contestabile perché s’ispirava al marxismo, cosa che personalmente giudico in modo positivo perché credo che Marx sia stato un grande ispiratore per le scienze sociali; ma bisogna dire che si trattava del marxismo meno aperto, ed ecco che la reazione che si è avuta è andata troppo oltre, come succede frequentemente. La storia medievale produce ancora delle opere eccellenti prima di tutto in Italia, con i suoi grandi editori, ma anche nella maggior parte dei paesi europei e anche in qualche paese extra-europeo; resta, infatti, la disciplina tra le più studiate e che dona dei buonissimi frutti. Penso che la storia economica tornerà, ma credo che sarà fatta in maniera diversa. Vedi, mio caro Jean-Claude, tu hai appena evocato qualcosa che credo estremamente importante: l’economia non esiste senza una certa etica, e la crisi mondiale che stiamo vivendo lo mostra bene. Ed è stato nel Medioevo, in particolare in Italia, che un certo numero di uomini profondamente religiosi ha dimostrato e ha stabilito delle regole affinché l’economia potesse continuare a crescere, divenendo anche più redditizia, ma nel rispetto della morale, dell’etica, dello spirito.
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Tu parli di paradosso; è proprio un paradosso al quale io stesso mi interesso in questo momento. Forse sono coloro che hanno più attaccato il denaro, ovvero i francescani, i frati di san Francesco d’Assisi, che hanno in seguito trovato le regole per rendere il denaro, per così dire, frequentabile. E il nostro compito su questo tema che non ci è proprio, ma che ci tocca in qualità di storici, è di ridare all’economia il suo posto nella storia sapendo mostrare come, nel lungo periodo storico, questa non sia mai esistita sola e slegata. Ed è con i francescani da un lato, e dall’altro lato – quello economico – con i primi grandi banchieri, che l’Italia è stata in prima linea in questo sviluppo morale dell’economia. Anche in una cittadina come Ascoli Piceno, vediamo come la ricchezza abbia saputo rinvigorire, dare forza alla vita comunale, donandole una vita meravigliosa. Di conseguenza, bisogna dirigere l’economia verso la buona direzione, ma non bisogna disprezzarla.
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J.-C.M.V.: Prima di porre altre domande a Jacques Le Goff, mi permetto di fare un’osservazione personale. Nonostante io ne sia abituato, trovo veramente straordinaria la sua capacità di cogliere, come si dice in italiano, di identificare le analogie che possono esserci tra situazioni storiche estremamente distanti. Come ad esempio quando hai parlato della capacità del pensiero medievale, in particolare dei Francescani, ad un certo momento, di accettare le nuove forme di attività economiche a condizione che gli operatori, i responsabili del mondo economico accettassero un certo numero di regole concernenti per esempio il montante degli interessi.
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J.L.G.: C’è addirittura un’istituzione, che è nata in Italia, e che ai miei occhi è molto rilevante. Nella lotta contro l’usura si è trovata, un po’ tardivamente, una soluzione che credo abbia avuto un ruolo storico abbastanza importante dal punto di vista economico e sociale: sono i Monti di Pietà. Anche questa è l’Italia. Per il resto, mio caro Jean-Claude, credo che quello che io propongo non sia nulla di eccezionale. Credo che gli storici debbano essere profondamente persuasi che la storia si faccia, come diceva per esempio Braudel, nel lungo periodo, e che si faccia attraverso un rinvio costante dal passato al presente e dal presente al passato, e tutto nella prospettiva dell’avvenire. E francamente non è per fare un piacere agli italiani che dico che, quando sono in Italia, anche se purtroppo da qualche tempo a questa parte non mi ci posso più recare, sento più viva e incoraggiante, se così posso dire, la presenza del passato. È anche la ragione per la quale troverei catastrofico, mi permetto di
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dire, se si arrivasse a diminuire l’insegnamento della storia tra le materie di studio, così come si sente dire qua e là.
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J.-C.M.V.: Jacques, arriviamo adesso a due o tre domande di natura un po’ più personale sui tuoi rapporti con l’Italia, se me lo permetti, anche se abbiamo già evocato questo tema più volte. Tu hai una grande familiarità con l’Italia, la frequenti da molto tempo; ci puoi dire quali sono state le principali tappe di questa familiarità, di questa conoscenza dell’Italia nella tua vita intellettuale e personale?
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J.L.G.: Innanzi tutto devo dire che mia madre aveva origini italiane. Suo nonno, che lei conobbe, era venuto dalla Liguria per lavorare come operaio nell’arsenale di Toulon. Era nato a Porto Maurizio, e più tardi nel corso degli anni mi sono recato a fare un piccolo pellegrinaggio a Porto Maurizio; ma quella volta non scesi fin negli Abruzzi. Successivamente ho avuto la grande gioia di diventare membro della scuola francese di Roma; so che molti italiani non amano Roma, ma penso che abbiano torto. Penso d’altronde che gli italiani sappiano che la loro diversità è una delle ragioni della loro ricchezza, e mi permetto di mostrare la mia tristezza quando vedo la chiusura che una parte dell’Italia effettua su stessa, attraverso delle persone che sono state convinte, in un modo che mi sembra molto spiacevole, dalle idee della Lega, nell’Italia del Nord. Come si può immaginare, per l’appunto, un’Italia senza Adriatico, senza gli Abruzzi che sono meravigliosi? E la mia scoperta di Ascoli Piceno mi ha fatto sentire ulteriormente la ricchezza dell’Italia. L’Italia è, senza alcun dubbio, il Paese dove mi sono recato più spesso nel corso della mia vita, per conferenze, vacanze, e una delle mie gioie è stata data dal fatto che mia moglie, che era polacca, ne sia stata anch’essa subito sedotta, senza che io abbia esercitato pressione alcuna su di lei. È per questo motivo che ci siamo recati in Italia così spesso. E quando parlo dell’Italia, senza dubbio ho qualche preferenza che non rivelerò qui, ma non posso negare di essere felice ovunque in Italia, Sicilia compresa. J.-C.M.V.: Beh, capisco bene che tu non voglia rivelare le tue preferenze; tutti abbiamo delle preferenze nei nostri rapporti con un paese. Ma ci puoi dire come senti la specificità, l’originalità – se ai tuoi occhi essa esiste, e per me esiste – dell’Italia centrale? Penso in particolare alle Marche, all’Umbria, alla Toscana, dal punto di vista storico, naturalmente, e in particolare al loro ruolo nel periodo medievale.
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INTERVISTA A JACQUES LE GOFF
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J.L.G.: Francamente, e non lo dico né per farti piacere, né per far piacere a coloro che mi onorano con la loro attenzione in questo momento, ho subito respinto la distinzione abituale che fanno soprattutto i francesi tra Italia del Nord e Italia del Sud. Ci si dimentica che, e la penso come te, una tra le parti più belle dell’Italia sia quella del centro. Dall’Umbria agli Abruzzi, è li che vedo, lontano dal turismo sfrenato e in una notevolissima autenticità, una delle bellezze e delle gioie d’Italia. È a Spoleto, è a Todi, ad Ascoli Piceno, ad Urbino [prof. Maire Vigueur: “e a Assisi”], ad Assisi, certo, a Spoleto, a Perugia che mi sento, con mia estrema gioia, amico dell’Italia.
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J.-C.M.V.: Ancora due domande Jacques, me lo permetti ? [J.L.G.: volentieri] Senza mettere la tua pazienza a dura prova. Allora, la penultima domanda sarà molto breve: probabilmente hai letto che il programma del prossimo convegno internazionale di Ascoli Piceno che si terrà in occasione del XX Premio Internazionale riguarda la damnatio memoriae nel Medioevo. Non mi pare che tu abbia mai lavorato su questo tema ma data la tua vasta cultura hai sicuramente un’idea dell’importanza di questa pratica nel Medioevo, almeno conosci quali possono essere i legami con pratiche più antiche.
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J.L.G.: Devo dire di essere stato colto.... di essere nuovo a questo soggetto, che tu hai a sufficienza dipanato sotto i miei occhi tanto da avermi convinto che sia un tema molto importante; conosco molto poco al riguardo. La sola cosa che posso dire è che quello della memoria è senza dubbio uno dei temi che hanno avuto più importanza tra le popolazioni del Medioevo, in particolare in un paese come l’Italia, dove la memoria del passato romano è così presente, così viva. Sarei molto contento, in caso arrivassi in vita a quel momento, se potessi avere gli atti del convegno, così da conoscere in modo più preciso quali sono stati gli strumenti di questa Damnatio Memoriae e la sua importanza. Credo che sia un soggetto originale e importante perché mostra precisamente come gli uomini e le donne del Medioevo fossero attaccati alla funzione della memoria. J.-C.M.V.: Non ti preoccupare, Jacques, riceverai rapidamente gli atti di questo convegno che secondo il programma si annuncia molto interessante. Vorrei porti un’ultima domanda. Dunque, io frequento Ascoli da un certo numero di anni, e posso garantirti che la gente di Ascoli, dico bene,
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la gente di Ascoli e non solo i promotori di questa iniziativa culturale, ha conservato un fulgido ricordo del tuo passaggio ad Ascoli. E quando questo premio è stato creato, oramai 21 anni fa, è stato voluto dalla gente di Ascoli, che voleva aprire al pubblico la vita culturale di Ascoli, darle una dimensione europea. Non potevano scegliere meglio che attribuire il premio a Jacques Le Goff. E tu, dal canto tuo, cosa ti ricordi di Ascoli? Anche se alla fine del tuo discorso ci sono una ventina di righe su Ascoli che trovo superbe, come se tu non ci avessi passato solo qualche giorno bensì una vita intera.
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J.L.G.: Una delle mia più grandi gioie ad Ascoli Piceno è proprio quello che hai appena detto: ho avuto l’impressione di viverci da molto tempo. Mi ci sono trovato così bene perchè sono uno storico che pensa che il suo lavoro non si debba limitare all’insegnamento, a scrivere dei libri, a vivere con altri storici; bensì lo storico deve far conoscere il passato a tutti e in modo generale all’epoca nella quale vive, deve vivere con la gente. La vita di tutta la popolazione... sono loro gli attori della storia, bisogna vivere insieme alla gente; io ho passeggiato molto per Ascoli Piceno, e se gli ascolani mi fanno l’onore – che non sono sicuro di meritare - di non dimenticarmi, dal canto mio posso dire che tra i miei ricordi di Ascoli Piceno non c’è solo il convegno, non c’è solo l’accoglienza della municipalità, non ci sono solo i superbi monumenti, ma c’è il piacere di aver incontrato per strada, anche senza averci parlato, della gente con la quale ho subito sentito che, se avessi avuto la possibilità di conoscerla meglio, avrebbe senza dubbio toccato il mio cuore.
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J.-C.M.V.: Grazie Jacques. Per concludere è proprio a nome della gente di Ascoli, di questa popolazione di Ascoli che spero assisterà alla trasmissione della tua intervista, che vorrei indirizzarti un ringraziamento allo stesso tempo affettuoso e molto caloroso; grazie. J.L.G. : Grazie, grazie a tutti.
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INDICI
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Avvertenze
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Le fonti archivistiche e codicologiche sono indicizzate in ordine alfabetico delle città in cui si trova l’istituzione che le possiede. All’interno di ogni città, le istituzioni e, all’interno di ognuna di esse, le voci sono indicizzate anch’esse in ordine alfabetico. I nomi di persona sono di preferenza indicizzati in base al cognome del personaggio o della famiglia o dinastia (es. Malatesta, Correr). Imperatori (Ludovico IV il Bavaro), sovrani (Luigi II d’Angiò) e membri delle loro famiglie (Ludovico d’Altavilla), santi (Francesco d’Assisi) e beati e personaggi designati con il solo toponimo d’origine (Masolino da Panicale), invece, sono indicati sotto il loro nome proprio, così come gli autori antichi e medievali. I papi e gli antipapi sono indicizzati seguendo il loro nome dopo l’elezione, sebbene venga fornito un riferimento al nome nel secolo (Cossa Baldassarre, v. Giovanni XXIII, antipapa). Gli autori moderni presenti nel testo e in nota sono indicizzati con il cognome seguito dalla sola iniziale del nome. I nomi delle località minori sono affiancati dalla sigla della provincia di riferimento, tale dicitura non compare nel caso di città capolouoghi di provincia. Le città straniere, le regioni e gli altri riferimenti geografici a luoghi presenti in altri stati sono accompagnate dall’indicazione dello stato, posto tra parentesi, es. Maiorca (Spagna). All’interno delle singole città sono indicizzati, come sottovoci in ordine alfabetico, gli edifici, le istituzioni e i luoghi presenti nel testo. Nel corso dell’indice sono utilizzate le seguenti abbreviazioni: archiv.: archivista arcidiac.: arcidiacono arciv.: arcivescovo card: cardinale cron.: cronista fam.: famiglia imp.: imperatore
O. Min.: Ordo Fratrum Minorum ps.: pseudo reg.: regina trad.: traduttore v.: vedi vesc.: vescovo
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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ASCOLI PICENO Archivio di Stato Archivio notarile di Ascoli, atti del notaio G. Faraone, vol. 3913, 204 Archivio storico comunale, vol. 59, 201 Archivio storico comunale, vol. 16, 205 Archivio storico comunale, vol. 17, 205 Archivio storico comunale, vol. 64, 205
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BERNA Burgerbibliotek Oberbayerisches Ladrecht, germ. 1506, 9
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BRESCIA Archivio di Stato Comune, Statuti, 1044,1/2, 186
CITTĂ€ DEL VATICANO
Archivio Segreto Vaticano Fondo veneto I, 3514, 186, 188
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Biblioteca Apostolica Vaticana Archivio di S. Pietro E22, 24, 25, 26, 27, 36, 39, 43, 46, 48 Palatino latino 1071, 107 Urb. Latino 1656, 81 Vaticano latino 3973, 24, 26, 27, 46, 48 Vaticano latino 8872, 64
NAPOLI
Biblioteca Nazionale ms. V B 37, 96
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
PALERMO Biblioteca della Società Siciliana per la Storia Patria ms. I B 25, 96
PARIGI Bibliothèque Nationale Latin 4933, 24, 25, 26, 27, 36, 39, 43, 46, 48
PRAGA
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Tesoro del Duomo, 106
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Musée du Louvre Département des Objets d’art, MR 80, 106
RAVENNA
Archivio di Stato Fondo Canonica di S. Maria in Porto, pergamena n. 0428 (199A), 83
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ROMA
Archivio di Stato Primo registro della tesoreria di Ascoli (20 agosto 1426-30 aprile 1427), 200 Biblioteca Angelica ms. 1474, 94, 96-97
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Al-Mahdiyya, 59 Allucingoli Ubaldo, v. Lucio III Alpi, 78, 119 Alta-Baviera, 9 Altavilla, fam., 26, 30, 31, 32, 33, 34, 40, 41, 42, 45, 62 Althoff G., 211 Amalfi (SA), 27, 28, 36, 40, 45 Amann E., 200 Amato di Montecassino, cron., 29-33, 51 Ambaglio D., 16 Amedeo VIII di Savoia, v. Felice V Ammirato Scipione, cron., 165, 166 Anacleto II (Pierleoni Pietro), antipapa, 47-49, 77, 78 Anagni (FR), 70, 72 Andaloro M., 93, 95, 106 Andenna G., 23, 182, 183, 184 Andrea di San Bartolomeo, monaco e cron., 42 Andreas Chr., 99 Andria (BT) - Castel del Monte, 102-104 - Santa Maria del Monte, chiesa, 103 Angeli Bertinelli M. G., 137 Angenendt A., 15 Angiolini H., 113 Anna Comnena, 38 Anselmo da Baggio, v. Alessandro II Antiochia (Siria), 27 Antonini A., 209 Antonio Ruby, 144 Apollo, 97-98 Aragazzi Bartolomeo, 117, 123 Aragona, fam., 103, 114 Arezzo, 146 Ariperto II, re longobardo, 152 Arnaldi G., 219 Arnaldo da Brescia, 85 Arnone, generale di Niceforo III, 38 Arquata (AP), 204 Ascoli Piceno, 71, 86, 111, 112, 130, 134, 199-203, 205, 217, 219, 220-224 - Arengo, Palazzo dello, 200, 203-204 - Lenti, Palazzo, 204
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Aachen, 81 Abate, de, fam., 186 Abbate F., 70 Abruzzo, 222 Abulafia D., 93 Acciaioli Angelo, vescovo di Firenze, 164 Acht P., 5 Acquaviva Picena (AP), 130 - S. Niccolò, piazza di, 130 Adelaide di Savona, 45 Adele di Fiandra, v. Ala di Fiandra Adelicia d’Altavilla, 28 Adriano IV (Nicola di Breakspear), papa, 36 Adrigotus Calorosi, 192 Agareni, v. Saraceni Agnesi Astorgio, card., 200 Agostino di Giovanni, 146 Aicardino di Litolfo, frate, 153 Ala di Fiandra, reg., 27 Alarico II, re dei Visigoti, 70 Albenga (SV), 144 Alberico da Barbiano, 117 Alberigo G., 115 Alberti S. A., 103 Albornoz Egidio, 117 Alessandro di Telese, cron., 25, 30, 42, 46-55, 60, 61 Alessandro II (Anselmo da Baggio), papa. 36, 37 Alessandro III (Bandinelli Rolando), papa, 21, 23, 56, 71-73, 76-84, 86, 211 Alessandro IV (Rinaldo di Jenne), papa, 73 Alessandro V (Pietro Filargo da Candia), antipapa, 112, 113, 114, 118-120 Alessandro VI (Roderic de Borja y Borja), papa, 113, 114, 144-145 Alessio I Comneno, imperatore d’Oriente, 27, 38, 39 Alexander Baptiste de Iannellis, 205 Alfano I, arciv. di Salerno, 43 Alfonso d’Altavilla, 28 Alfonso V d’Aragona, re di Napoli, 114 Alighieri Dante (Durante), 163
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Baschet J., 183 Basilea (Svizzera), 120, 125 Basilicata, 32 Bassan E., 95, 106 Bassano del Grappa (VI) - Finco, palazzo, 105 Battelli G., 78 Battisti E., 10 Bautère Gilberto, 42 Bayer M., 212 Beccia N., 32 Becker J., 32 Beda il Venerabile, cron., 22 Bedos-Rezak B.-M., 210 Behrens K., 11 Belluno, 142 Belting H., 210 Benedetto da Norcia, santo, 167 Benedetto XIII (Martinez de Luna y Perez de Gotoz, Pedro), antipapa, 111, 113-115, 117-120 Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini), papa, 113, 115, 118, 124 Benedetto XIV (Garnier Bernard), antipapa, 114 Benevento, 37, 48, 49 - San Salvatore di Telese, monastero di, 49, 51 Benevento, 57 Benucci F., 133 Bergamo - S. Vincenzo, cattedrale, 78 Bering K., 97 Berlino (Germania), 81, 121, 209 Bernardino da Polenta, 117 Bernardo di Chiaravalle, santo, 49, 54 Bertelli C., 195 Bertelli S., 23 Berthmann K., 76 Bertolini M. G., 76 Bertoni G., 133 Bertoni M., 123 Bertoni Cazzago F., 186 Besançon (Francia), 70 Bethmann L., 186 Betlemme (Israele), 143
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- Mazzini, corso, 204 - Meletti, Caffè, 204 - Palazzo Comunale, 85, 201 - Sant’Emidio, cattedrale, 124 - Sant’Ilario, Ospedale, 85 Ashley K., 162 Ariano (RO), 49, 50, 61, 64 Asburgo, fam., 8 Assisi (PG), 223 Assmann A., 11 Assmann J., 6, 11, 12, 69, 194, 213 Atene (Grecia), 6, 161 Aubert R., 115 Augusto (Caius Iulius Caesar Octavianus), imp., 93 Aulo Gellio (Aulus Gellius), 200 Aurona, 151 Austria, 163 Avagnini M. E., 105 Avallone R., 40 Avati Pupi, 213 Aversa (CE), 42 Avery C., 122 Avigliano (PZ) - Lagopesole, castello di, 104 Avignone (Francia), 5, 114, 118 Avvocati, Ottolino degli, 192
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Bacci M., 182 Bagnoli P., 163 Bamberga (Germania), 78 Banchi L., 194 Bandinelli Rolando, v. Alessandro III Banti C., 173 Banti O., 79, 133 Baptista, 205 Barbara, santa e martire, 141 Barberini Maffeo, v. Urbano VIII Barbieri G., 183 Bari, 25, 40 - castello, 104 Barletta (BA), 102, 103 Barone G., 156 Baronio C., 5 Bartholomeus, magister, 104
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Boucicaut, v. Jean Le Maingre Bourges - Saint-Chapelle, 106 Bracciolini Poggio, 120, 121 Brackmann A., 78 Braet H., 15 Brancaccio Rinaldo, card., 117, 123 Brandmüller W., 11-116, 120 Brassloff S., 6, 135 Braudel F., 221 Brecht B., 129, 130, 209 Brenk B., 99 Brera (MI), 172 Breschi G., 199 Brescia, 145, 146, 179, 183, 184, 190, 193-195, 209 - Broletto, 182, 184, 189 - S. Maria Assunta, Duomo vecchio, 146 Breveglieri B., 133 Brienne, Gualtieri di, duca d’Atene e signore di Firenze, 150, 159, 161-166, 167, 170-172, 176-177, 183, 209, 211, 213 Brindisi, 98 Broude N. F., 173 Brunelleschi Filippo, 123 Bruni Leonardo, 120 Brunone di Toul, v. Leone IX Bruun P., 97 Buck Th. M., 22 Bückling M., 99 Buddensieg T., 212 Burdach K., 97 Buoncompagni Ugo, v. Gregorio XIII Burdino Maurizio, v. Gregorio VIII Bussagli M., 97 Buzzaccarini Fina, 147
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Bettini M., 16 Biermann H., 99 Bietoletti S., 163 Billo L., 133 Biondo Flavio, 120 Bisanzio, v. Istanbul Bitonto (BA), 95, 102 - San Leucio Vecchio, chiesa di, 102 Bock Nikolaus, 122 Boemondo I d’Altavilla, principe d’Antiochia, 24, 27, 28, 32, 39, 44 Boemondo II d’Altavilla, principe d’Antiochia, 27, 44, 45 Boesch Gajano S., 76 Böhmer J. F., 76, 98 Boito Arrigo, 172 Boito Camillo, 172 Bologna F., 70, 99 Bologna, 80, 112, 117-120, 133, 189, 190 - S. Petronio, cattedrale, 122 Bolognini B. , 122 Bolzoni L., 10 Bonaventura Cagnolus, 188 Bonaventura condam domini Wygelmi abatis de Gavardo, 187 Bonetti C., 22 Bonfantini Accursio, frate, 199 Bonifacio di Canossa, 191 Bonifacio VIII (Caetani Benedetto), papa, 139, 145 Bonifacio IX (Tomacelli Pietro), papa 113, 116, 118-120 Bono, consul e dux di Napoli, 152 Bonsanti G., 122 Borgiotti M., 173 Borja y Borja Roderic de, v. Alessandro VI Bottiato Guglielmo, v. Bottazio Guglielmo Borgogna (Francia), 119 Bortolami S., 194, 209 Boschetto A., 175 Boschof E., 82 Bosisio A., 186 Bosone di Bovara, 191 Bottazio Guglielmo (Bottiato Guglielmo), 104
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Caballos A., 6 Cabianca Vincenzo, 173, 174 Cadei A., 103 Caetani Benedetto, v. Bonifacio VIII Caetani Giovanni di Gaeta, v. Gelasio II Caetani Lamberto, 139-140 Caifa, sommo sacerdote, 79
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Carozzi C., 50 Carpineto Romano (RM) - Abbazia di San Bartolomeo, 42 Carrara, da, fam., 112, 122, 147, 148, 200, 206 Carrara, Francesco da, detto il Vecchio, signore di Padova, 147, 148 Carrara, Francesco da, detto Novello, signore di Padova, 147, 148 Carrara, Iacopo II da, signore di Padova, 147 Carrara, Marsilio da, signore di Padova, 152 Carrara, Ubertino da, signore di Padova, 147 Carrara, Valburga da, 148 Carruthers M., 15, 69 Casagrande C., 53 Cassandra, 176 Cassano R., 93 Cassioli Amos, 163 Castagna Giovanni Battista, v. Urbano VII Castagnetti A., 186 Castel Fiorentino, 100 Castel Maniace, 103 Castelnuovo E., 97, 182, 183 Castiglioncello (LI), 175 Castignano (AP), 204 Cataldi S., 16 Catania, 54 Cauti, fam., 206 Cauti Andrea, 205 Cauti Francesco, 205 Cauti Giovanni, 205 Cava dei Tirreni (SA) - monastero di, 36 Cavallo G., 134 Ceccarelli Lemut M. L. , 79 Ceccarini P., 213 Cecchi E., 173 Cecco d’Ascoli, 199 Cecioni A., 175 Cefalonia (Grecia) - chiesa di S. Salvatore, 44 Cefalù (PA), 95
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Caius Iulius Caesar Octavianus, v. Augusto Calabria, 25, 30 Callisto II (Guido dei conti di Borgogna), papa, 36, 37, 48, 79 Callisto III (Giovanni di Sturmi), antipapa, 71, 72, 83, 84 Calò Mariani M. S., 93, 95, 104 Calzona A., 191 Camilla, fam, 143 Cammarosano P., 141, 146, 182 Campana A., 133 Campanelli M., 189 Campania, 32, 43, 60 Campitello, Ubaldino de, 191 Canne (BT), 25 Canosa di Puglia (BT), 102 Canova Antonio, 176 Cantarella G. M., 21,35, 45, 55-56, 60 Capasso R., 84 Capelli A., 85 Capitanata, 103 Capitani O., 64 Capo L., 156 Capocci Raniero, vesc. di Viterbo, 100 Capponi Gino, 165 Capponi P., 201 Capra Bartolomeo della, 120 Capua (CE) - Museo Nazionale Camapano, 104 - porta di, 99, 103 Capua, principe di, 23, 30, 31, 33 Caravale M., 36 Cardini F., 45, 92, 97 Carfagna B., 112 Carlo, detto Magno (Carlomagno), imp., 155, 156 Carlo I d’Angiò, re di Napoli e di Sicilia, 183, 186, 103, 107 Carlo II d’Angiò, re di Napoli, 199 Carlo IV di Lussemburgo, imp., 5, 106 Carlo VI di Francia, detto il Beneamato, re, 118 Carlo VIII di Valois, re di Francia, 167 Carlomanno I, re dei franchi, 156 Carosi A., 134
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Condulmer Gabriele, v. Eugenio IV Congar Y., 115 Constable G., 70 Copernico Niccolò (Kopernik Miko³aj), 170 Corbier M., 137 Cordaro M., 99 Corrado di Urslingen, 92 Corrado IV, di Svevia, imp., 95, 98, 102 Corrado di Wittelsbach, arciv. di Magonza, 23 Corrao P., 56 Correr Angelo, v. Gregorio XII, papa Cortenuova (BG), 99 Cosentino, cron., 32, 34 Cosenza, 30 Cossa Baldassare, v. Giovanni XXIII, antipapa Cossa Niccolò, 115 Costantino I, imp. romano, 97 Costanza, 112, 114-117, 119-121, 124, 212 Costanza d’Altavilla, 92, 95 Costanza d’Antiochia, 27 Cracco G., 194 Cremona, 191 - S. Leonardo de Bangia, ospedale, 78 Crescentius, notaio di Foligno, 83, 84 Cristiano, arciv. di Magonza, 77, 210 Cristofari Mancia M., 200 Crivelli Carlo, 124 Croazia, 70 Crum R.J., 162 Cunio, conte, 117 Cuozzo E., 30, 45, 57 Curtatone (MN), 162 Cutolo A., 119 Cybo Giovanni Battista, v. Innocenzo VIII
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- Trasfigurazione di Gesù, basilicaduomo, 95, 104 Celestino II (Guido Ghefucci da Castello), papa, 73 Ceruti A., 96 Cesar Mariani Folci, 205 Cesare di Antonuccio di Amatrice, 205 Chalandon F., 34, 38 Chasseneur, Barthélémy de, 210 Chenyet J.C., 38 Chiappa Mauri L., 186 Chronicon Amalphitanum, 26, 27, 28, 31, 32, 35-43, 59, 63 Ciampini R., 165 Cicerone (Marcus Tullius Cicero), 10 Cicinelli A., 190 Cilento N., 52 Cimarra L., 131 Cinelli B., 168 Cipolla C., 192 Circa (AP), 191 Cividale del Friuli (UD), 116, 117 Civitacastellana (VT), 75 Clausen P. C., 99, 102, 104 Clemente III (Wibert di Ravenna), antipapa, 75-77, 79, 81 Clemente VI (Pietro Roger), papa, 5, 5, 6, 8, 210 Clemente VII (Roberto di Ginevra), antipapa, 78, 111, 114, 118-120 Clemente VIII (Sanchez Muñoz Gil), papa, 114 Clementi D., 25, 28, 51 Cola di Rienzo, 97 Colle E., 168 Colli G., 213 Colonna, fam., 140 Colonna Sciarra, 8 Colonna Ottone, v. Martino V Colotto C., 35 Colucci S., 140 Commodo Lucio Elio Aurelio (Lucius Aurelius Commodus), imp., 137 Como, 78, 117 - S. Carpoforo, Abbazia, 78 - S. Martino in Musso, chiesa, 78
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D’Alessandro V., 34, 56 Damasco (Siria), 44 - S. Maria, monastero di, 44 D’Amato J. M., 94 D’Angelo E., 32, 50, 54-56, 60
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Dongo, arciprete di, 78 D’Onofrio M., 32, 99 D’Oria F., 58 Doria, fam., 144 Doria Tommaso, capitano della Riviera di Ponente, 144 Dorn R., 99 Drengot Quarrel, conti di Aversa, 30 Drogone d’Altavilla, 30, 41, 62 Dumas A., 200 Duèze Jacques, v. Giovanni XXII
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Dalmazia, 119 Daneu Lattanzi A., 94 Danti C., 123 Dantini M., 163 Datei E., 191 Davide, re d’Israele, 96 Davidsohn R., 146 Davis R. H. C., 22 De Bartholomaeis V., 29 De Blasiis G., 49 De Donato V., 83 De Mari, fam., 144 De Mari Tommaso, 144 De Rossi G. B., 140 De Santis A., 204 De Stefano C. A., 103 De Vincentiis Amedeo, 159-178, 161, 162, 209, 211, 213 De Vooght P., 115 Decker Wolfgang, 109-12 124, 209, 212, 213 Déer J., 111 Del Bianco Cristoforo, 165 Del Bravo C., 168 Del Lungo I., 165 Delfico M., 199 Della Scala, fam., 142 Della Scala Cansignorio, signore di Verona, 143 Della Torre, conti, 141 Delle Donne F., 36, 60, 92, 94, 96, 98, 100 Delogu P., 22, 32, 50 Desiderio, re dei longobardi, 155 Deutinger R., 74 Di Meo A., 26 Dietrich von Nieheim, 116, 117 Dini E., 175 Domiziano (Titus Flavius Domitianus), imp., 136 Donatello ( Donato di Niccolò di Betto Bardi), 117, 121-124 Donati A., 137 Donato di Niccolò di Betto Bardi, v. Donatello Donato M. M., 146
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Ebendorfer Thomas, cron., 7, 8 Echterhoff G., 13 Eck W., 6 Eco U., 9 Eden, 92 Edgerton S. Y. Jr, 181, 183, 184 Efeso (Turchia), 200 - Diana, tempio di, 200 Elne (Francia), 14 Elvira di Castiglia, 28 Enderlein L, 122 Enrico Aristippo, arcidiac. di Catania e trad., 60 Enrico d’Altavilla, 28 Enrico IV, imp., 75, 79 Enrico V, imp., 41 Enrico VI di Svevia, imp, 91, 92, 94-96 Enrico VII, re di Germania, 94, 103 Enrico, conte di Tirolo e duca di Carinzia, 152 Enzo di Sardegna (Heinrick di Svevia), 100, 103 Erdmann C., 35 Erler G., 117 Erll A., 15, 69 Ermengarda ps., 155 Erostrato, 200 Esch A., 116, 119 Este, Azzo di, 117, 191 Etienne Aubert, v. Innocenzo VI Eudes di Lagery, v. Urbano II Eugenio IV (Condulmer Gabriele), papa, 120, 124
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Ezzelino III da Romano, signore della Filippo di Mahdia, eunuco, emiro di Marca Trevigiana, 105, 153, 154, 162, Palermo, 44 187, 191, 193, 209 Filippo I di Francia, re, 27 Fink K. A., 112, 115 Finke H., 116 Faba, fam., 186, 187 Firenze 112, 113, 117, 118, 124, 146, Faba Bonapax, miles bresciano, 185, 187 150, 159, 161-168, 170, 174, 177, 181, Fabiani G., 204, 205 189, 190 209 Fabre P., 86 - Calimala, arte dei, 122 Faenza (RA), 80 - Michelangelo, Caffè, 163-164 Fagnani Lamberto, v. Onorio II - S. Giovanni, Battistero di, 111, 119, Fajt J., 121 122 Falcando Ugo, cron., 54-61 - Ss. Maria Novella, basilica di, 123 Falcone Beneventano, 34-35, 46, 50, 53 - Ss. Trinità, 203 Falconieri, fam., 206 Fiskovic I, 70 Falier, Marino, 150, 151 Fleckenstein J., 107 Falla Castelfranchi M., 70 Fliche A., 115 Fano (PU), 80, 83 Flores M., 16 Fantini D’Onofrio F., 191, 192 Flower H., 7, 70 Faraone G., 204 Fodale S., 49 Farbaky P., 121 Foggia, 33 Farnese Alessandro, v. Paolo III - palazzo di, 103 Fé d’Ostiani L., 186 Foladore G., 133 Federici, fam., 186, 187 Foligno (PG), 92 Federico I di Svevia, detto Barbarossa, - Sassovivo, monastero, 79 imp., 21, 23, 56, 73, 74, 76, 80, 82-85, Fonseca C. D., 15, 32, 35, 43, 49, 69, 94, 95 209 Federico II di Svevia, re di Sicilia e Fontana G., 10 imp., 70, 71, 89, 91-108, 166, 185, Fonte Aretusa (SR), 92 187, 209, 212, 219 Forlì, 85 Felice V (Amedeo VIII di Savoia), anti- Formica M., 201 papa, 78 Formoso I, papa, 74, 200, 210 Feltre (BL), 145 Fortini P., 79 Fenestrelle (TO) Foschi S., 70 - carcere di S. Carlo, 129 Foucault M., 12, 211 Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, Francescani (Ordo Fratrum Minorum), 103 8 Fermo (FM), 204 Franceschini A., 79 Fernandez F., 6 Franceschini E., 60 Ferrara, 76, 79, 191 Francesco d’Assisi, santo, 221 Ferrara M., 122 Francesco di Giorgio, 99 Ferrari M., 184, 189, 195 Francesco Pipino, cron., 100 Ferrigni P. C. (Yorick), 174 Francia, 27, 29, 39, 100, 115, 118, 121, Fieschi Sinibaldo, v. Innocenzo IV 161, 162, 165, 218 Fiesole (FI) Franciscus Germani de Bononia, 205 - Teatro Romano, 172, 175 Franke A., 60
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Fransen G., 115 Franzen A., 115 Freedberg D., 182, 183 Frenken A., 116 Freud S., 12 Fried J., 15, 69 Fuiano M., 31 Fulcis, Cesare di Mariano de, 205 Fusco M. A., 163
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Gabriel M., 73 Gabriele Condulmer, v. Eugenio IV, papa Gabrieli F., 134 Gadoni S., 83 Gagliardi Giannino, 197-206,199, 201, 204, 206, 210 Galdi A., 24, 40 Galelone, 79 Gallo D., 133 Gambara, fam., 186 Gambara, Goizo de, 187 Gambara, Graziadeo de, 187 Gambara, Lanfranco de, 187 Gambara, Maffeo de, 187 Garcia IV Ramirez, re, 28 Garda, 186, 189 Gardoni G., 190 Gargan L., 40 Garms J., 134 Garnier Bernard, v. Benedetto XIV, papa Garufi C. A., 21, 24, 25, 43, 46 Gasparri S., 156 Geary P. J., 15, 62 Gelasio II (Caetani Giovanni di Gaeta), papa, 36, 37 Gennaro, santo vescovo e martire, 152 Genova, 118, 143 - Doria, Palazzo, 144 - Ducale, Palazzo, 143 - S. Domenico, chiesa, 144 - S. Maria delle Vigne, chiesa, 144 - S. Matteo, chiesa, 144 - S. Matteo, piazza, 144
Gensini S., 29 Gentile da Frabriano, 123 Gerberga, 156 Germania, 78, 119 Gerola G., 105 Gerolamo, archiatra di Salerno, 40 Gerusalemme (Israele), 95, 100 - Santo Sepolcro, Basilica del, 143 Geuenich D., 69 Ghefucci da Castello, Guido, Celestino II Gherardo di Borgogna, v. Niccolò II Ghiberti Lorenzo, 123 Giacomo di Simone, 140 Giamberti Antonio da Sangallo, detto Il Vecchio, 145 Gigante M., 98 Gill J., 115 Gillhoff G. A., 111 Gilpract, v. Arnone Gioia del Colle (BA) - castello, 104 Giorgio Cartofilace, archiv., 97 Giotti N. (Jouhaud Carlo), drammaturgo, 168, 169 Giotto di Bondone, 146 Giovanna I d’Angiò, regina di Napoli, 119 Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli, 119 Giovanni Antonio di Luco, 205 Giovanni Battista Castagna, v. Urbano VII Giovanni Codagnello, cron., 101 Giovanni d’Altavilla, 27 Giovanni da Ascoli, v. Giovanni de Trivianis Giovanni da Modena, 122 Giovanni (Bindotti) da Montepulciano, 112 Giovanni da Montepulciano, v. Piendibene, Giovanni di Giovanni de Trivianis (Giovanni da Ascoli), 112 Giovanni di Sturmi, v. Callisto III, antipapa
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Grisantes Paulini Cincti, 205 Grixopulusdi Parma, 190 Gröhe J., 114 Grottaferrata (RM), 70 Guaimario III di Salerno, 29 Gualdo G., 68 Gualtiero di Offamil, vesc. di Palermo, 55, 60 Guariento di Arpo, 147 Guarino S., 99 Guarna, Romualdo II, v. Romualdo Salernitano Guasti Cesare, 112 Guerrini P., 142 Guglielmo da Ravenna, arciv. di Salerno, 45 Guglielmo d’Altavilla, conte di San Nicardo, 31 Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio di Ferro, 30, 31 Guglielmo di Blois, cron., 55 Guglielmo di Puglia, cron., 29, 30, 31, 32, 33-35, 37, 38, 43 Guglielmo I di Sicilia, detto il Malo, 23, 28, 41, 46, 48, 54-63, 95 Guglielmo II di Puglia, duca, 26, 27, 33, 42 Guglielmo II di Sicilia, detto il Buono, 23, 28, 54-58, 60-63, 94, 95 Guglielmo, duca di Puglia, 34, 35, 36, 37, 40, 42 Guiçardus, v. Guizzardo da Redondesco Guiderocchi, fam., 206 Guido da Crema, v. Pasquale III Guido dei conti di Borgogna, v. Callisto II Guidone da Crema, eresiarca, 72, 73 Guidoni E., 184 Guillaume Fillastre, detto il Vecchio, 116 Guillot O., 70 Guiscardo d’Altavilla, 27 Guizzardo da Redondesco (Guiçardus), 192-193 Gussone N., 74
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Giovanni di Villarasca, monaco, 73 Giovanni XXII (Duèze Jacques), papa, 7, 8 Giovanni XXIII (Cossa Baldassarre), antipapa, 109, 111, 113, 115-118, 120-124, 209, 213 Giovanni XXIII (Roncalli Angelo), papa, 111, 112, 115 Giovè Marchioli Nicoletta, 127-15, 209, 210, 211 Girgensohn D., 116, 120 Giroldus de Turbiado, 188 Giuda Iscariota, apostolo, 79, 190 Giuliano (Flavius Claudius Iulianus), imp., 6 Giusto de’ Menabuoi, 147 Gizewski C., 135 Gizewski Chr., 6 Glasfurd A., 114 Goez W., 82 Goffredo da Viterbo, cron., 94 Goffredo Malaterra, 24, 30, 31, 32, 33, 34, 38, 43 Goliassus Odde de Scarillis, 205 Gottinga (Germania), 116 - Max Planck Institut für Geschichte, 69 Gouguenheim S., 218, 219 Gozzadini Giovanni, 117 Grandi R., 133 Gray N., 152 Grecia, 70 Gregorio I, detto Magno, papa, 212 Gregorio VII (Ildebrando di Soana), papa, 35, 36, 37, 77 Gregorio VIII (Maurizio Burdino), antipapa, 35, 36, 76 Gregorio IX (Ugolino di Anagni), papa, 99 Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort), papa, 71, 72 Gregorio XII (Correr Angelo), papa, 111, 113, 114, 116-118, 120, 124 Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni), papa, 113, 114 Griffi, fam., 186 Grillo P., 186
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Iohannes Perus Colai Petri, 205 Iohannes, magister, 200 Isabella di Brienne, 98 Isabelle d’Inghilterra, 105 Isabella di Wittelsbach di Baviera, 118 Ischia (NA), 118 Isnenghi M., 15 Istanbul (Bisanzio, Turchia), 34, 37, 38, 39 Italia, 21, 23, 25, 28-30, 32, 34, 41-43, 50, 53, 62, 63, 71, 72, 78, 79, 82, 85, 93, 106, 130, 131, 132, 161, 162, 168175, 177, 181, 218-223
Iacobus ser Franceschini, 205 Iacobus ser Iohannis de Alvitretis, 205 Ildebrando di Soana, v. Gregorio VII Imola (BO), 83, 84 Indersbach, 8 Innamorati, Giovanni degli, 112 Innocenzo II (Papareschi Gregorio), papa, 36, 46-48, 54, 77, 91 Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni), papa, 71 Innocenzo IV (Fieschi Sinibaldo), papa, 91, 100, 101 Innocenzo VI (Aubert Etienne), papa, 72 Innocenzo VII (de’ Migliorati Cosimo), papa, 113, 114, 119, 120 Innocenzo VIII (Cybo Giovanni Battista ), papa, 113, 114, 205
Kajava M., 136 Kaminsly H., 118 Kamp N., 55 Kantorowicz E., 93, 97, 98 Kauffmann C. M., 94 Kaufhold M., 5 Kecks R. G., 99 Kehr P. F., 71, 78 Kelly Th. F., 24 Kieven E., 77 Kloten I., 122 Kölzer Th., 28, 58, 60, 92 Kopernik Miko³aj, v. Copernico Niccolò Kraack D., 143 Krüpe F., 7
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Hagender O., 86, 91, 100 Halbwachs M., 12, 13 Halder-Egger O., 101 Hardt (von) H., 117 Hansmann M., 176 Haseloff A., 105 Haskins C. H., 107, 108 Hasse Cl. P., 9 Hedrick C. W. Jr., 134, 135 Hefele K. J., 115 Heidegger M., 14, 17 Heidelberg (Germania), 122 Heidrich I., 81 Heimpel H., 116 Helmarth J., 81, 111 Herbers K., 74 Herklotz I., 87, 145, 146. 194 Herzner V., 122 Hill R., 45 Hirsch F., 26, 40 Hoensch J., 121 Hoffmann H., 26, 29, 40 Hollerbach J., 124 Houben H., 15, 23, 32, 35, 47, 49, 50, 69, 93, 209 Huillard-Bréholles J. L. A., 71, 98, 107 Hus Jan, 117
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Jacquart D., 22 Jakobs H., 78 Jamison E. M., 28 Janson H. V., 122 Jarry E., 118 Jean de Berry, duca di Berry, 106 Jean Le Maingre, detto Boucicaut, 118 Jedin H., 72, 115 Jedlowski P., 12 Job Vener von Gmünd, 116 Johrendt J., 82 Jouhaud Carlo, v. Giotti Napoleone Juffinger R., 134
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Lotario II, di Suplimburgo, imp., 36, 46, 58 Lourdaux W., 86 Lozito N., 45 Lucano (M. Annaeus Lucanus), 92 Lucca, 76, 81 - San Martino, cattedrale, 76 Lucio III (Allucingoli Ubaldo), papa, 73 Ludovico d’Altavilla, 27 Ludovico IV il Bavaro, imp., 5-9, 11, 14, 210 Luigi II d’Angiò, re di Napoli, detto il Magnanimo, 112, 117, 118, 119 Luigi IX di Francia, santo, 100 Luigi Filippo d’Orléans, duca di, 119 Lullo Raimondo, 9 Lupo Protospata, cron., 25, 31, 44, 45
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La Rocca E., 99 Ladislao d’Angiò Durazzo, re di Napoli, 204, 206 Lambertini R., 35 Lami Vincenzo, 167 Lamma P., 57 Landolfo, arciv. di Benevento, 35 Lavarra C., 35, 50 Lavellong, fam., 186 Lazio, 134 Le Goff Jacques, 14, 215-224, 217, 218, 220, 222, 223 Lecce, 161 Leclercq J., 54, 116 Leibniz G. W., 9 Lenin (Ul’janov Iliè Vladimir), 129 Lenti, fam., 204 Lentz M., 182 Leonardo di Simone, 140 Leone IX (Brunone di Toul), papa, 35 Leone X (Medici, Giovanni, de’), papa, 176 Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, 164 Lercari, fam., 143 Levillain Ph., 113 Licinio R., 21, 30, 130 Liertz U.-M., 136 Lightbown R. W., 111 Ligure, Repubblica, 144 Liguria, 134, 222 Limone O., 40 Limone, de, fam., 186 Limone, Bonapax e, 187 Lione (Francia), 91 Lipsia (Germania), 7 Liutprando, re longobardo, 152 Livorno, 117 Locke J., 13 Lodi, 117 Longobardi, 25 Lorenzetti Ambrogio, 212, 218 Loroaux N., 6 Losito M., 103 Lotario dei Conti di Segni, v. Innocenzo III
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Macconi M., 94, 98 Machiavelli Niccolò, 165, 166, 167 Maddalo Silvia, 89-108,93, 94, 96, 99, 100, 209 Magdeburgo (Germania), 210 Maggi Berardo, 146, 187, 189, 195 Magister Tolosanus, cron., 101 Magistrale F., 134 Magonza (Germania), 78 - Fulda, abbazia di, 78 Mainz (Germania), 5 Maione di Bari, ammiraglio di Guglielmo I, 56, 57, 60, 62 Maiorca (Spagna), 114 Maire Viguer J.-Cl., 215-224, 217, 220, 221 Makarius M., 212 Malaspina, fam., 206 Malatesta Carlo, 116, 117 Malatesta Galeotto, 202 Maleczek W., 77, 91 Malesardi, fam., 186 Malvezzi Jacopo, 186 Mályusz E., 121 Manducaseni, fam., 186 Manerbio, da, fam., 186
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Mazzucchi L., 78 McNeal Caplow H., 122 Medici, Alessandro de’, duca di Firenze, 167 Medici, Giovanni de’, v. Leone X, papa Melfi (PZ), 33, 42 Melo di Bari, duca di Puglia, 29, 42 Menant F., 185 Menestò E., 93 Menniti Ippolito A., 194 Menzel M., 5 Meredith J., 99 Merlo G. G., 212 Merseburg (Germania) - S. Giovanni Battista e S. Lorenzo, cattedrale di, 75 Meschini M., 39 Meuthen E., 115 Meys O., 121 Michalsky T., 122 Michele VII Doukas, imp. d’Oriente, 38 Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi, detto Michelozzo, 117, 121-124 Michieli F., 165 Middeldorf U., 122 Miethke J., 5 Miglio M., 92, 99 Migliorati, Cosimo dei, v. Innocenzo VII, papa Migne J. P., 71 Milani Giuliano, 179-196, 184, 185, 187, 188-190, 209, 212 Milano, 118, 151, 166, 172 - S. Maria di Aurona, chiesa, 151 - Sforza, castello, 151 Miliani, fam., 206 Millet H., 113 Mills R., 182 Mineo E. I., 34 Mlasowski A., 135 Moçolinus, 192 Modena, 133, 162 Modonesi D., 133, 143 Modzelewski K., 219 Molajoli B., 102
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Manerbio, Tajone di, 187 Manfredi di Hohenstaufen (Manfredi di Svevia), 98, 102, 103, 107, 117, 167 Mango C., 134 Manselli R., 92 Mantova, 179, 191-195, 209 - Marcaria, palazzo di, 191-193, 195 - Palazzo della Ragione, 190 Marazzani S., 187, 189 Marcelli F., 123 Marche, 112, 222 Marchi G. P., 105 Marcone Gc., 201 Marcotte D., 116 Marcovaldo di Annweiler, marchese di Ancona e conte d’Abruzzo, 71 Margarethe di Olanda, 9 Margherita di Navarra, reggente di Sicilia, 28, 58 Marini A., 14 Mariotti C., 86 Marsiglia (Francia), 117 Martelli A., 133 Martelli D., 175-176 Martin J. M., 55 Martino V, 115, 117 Martinez de Luna y Perez da Gotoz Pedro, v. Benedetto XIII, antipapa Martino V (Ottone Colonna), papa, 113, 114, 115, 117, 119-121, 123, 124 Marx K., 220 Masaccio (Tommaso di ser Giovanni di Monte Cassai), 123 Masolino da Panicale, 123 Massarelli A., 190 Massimi P., 203, 204 Massimiano (Marcus Aurelius Valerius Maximianus Herculius), imp., 6 Matera, 30 Matheus M., 213 Mathis P., 102 Matilde d’Altavilla, 51 Matteo da Salerno, notaio, 59, 60 Mauss M., 209 Mayer-Maly T., 6 Mazzatinti G., 72
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Neumüller Klauser R., 71, 135, 154 Niccolò II (Gherardo di Borgogna), papa, 36, 37 Niccolò V (Tomaso Parentucelli), papa, 120 Niccolò da Calvi, cron., 101 Niceforo III Botaniate, imp. d’Oriente, 41 Nicola da Bari, sacerdote e magister, 94, 95, 96 Nicola di Breakspear, v. Adriano IV Nicola V, antipapa, v. Pietro di Corbara O. Min. Nicolaus Francisci Iannelle, 205 Nietzsche F., 12, 213 Nocera Umbra (PG), 52 Nora P., 15 Normanni, 21, 23-25, 29-33, 42, 50, 52, 58, 62 Normanni Andrea, 139 Novati Francesco, 107 Novello Diofebo, 205 Novello Santorio, 205
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Monaco di Baviera (Germania), 8, 9 - Sonderforschungsbereich “Memoria”, 69 Mongiano E., 78 Monnas L., 123 Montanara (MN), 162 Montanari Augusto, 170, 171 Montanelli G., 162-164 Montaperti (SI), 146 Monte Saint-Michel (Francia), 219 Montecorvino Rovella (SA) - Sant’Ambrogio, chiesa di, 70 Montepulciano (SI), 123 Montereale (AQ), 32 Montevecchi S., 209, 213 Montinari M., 213 Montorsi W., 133 Mora B., 152 Morari A., 190 Mordek H., 22 Morelli D., 163, 177 Morolli G., 123 Mulas A., 203 Müller H., 81, 111 Müller W., 115 Münster (Germania), 211 Muratori L. A., 23, 186 Musca G., 43, 50, 103 Mussini Cesare, 167 Mussolini B., 130 Mütherich F., 106, 107
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Odorici F., 186 Oexle O. G., 15, 69, 121, 209 Offida, 204 Oldoni M., 22, 30, 31, 40, 46, 50-51 Olivato L., 183 Olson R. J. M., 163 Onorio II (Fagnani Lamberto), papa, 36, 37, 39, 47, 48 Onorio III (Savelli Cencio), papa, 100 Nabucodonosor, 53 Opll F., 76 Nagel I., 123 Ordelaffi Antonio, 117 Najeny J. M., 161 Orfei O., 79 Napoli, 30, 40, 103, 104, 152 Origone S., 134 - S. Angelo in Nilo, chiesa, 123 Orioli R., 101 - S. Restituta, basilica, 152 Orofino G., 107 Napoli, regno di, 32, 118 Orofino da Lodi, 96 Narbona (Francia), 117 Orosio, cron., 22 Natali A., 123 Orsini Pietro Francesco, v. Benedetto XIII Navarrini R., 191 Ortalli G., 70, 97, 101, 149, 150, 151, Nepi (VT), 79 181, 183, 194, 204 Nerone (Nero Claudius Caesar Augustus Osmondo Quarrell Drengot, 42 Germanicus), imp., 6 Otholinus, 192
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Ottaviano di Monticelli, v. Vittore IV Ottaviano, eresiarca, 72 Ottobuoni Aldebrandino, 146 Ottone I, imp., 9 Ottone IV di Brunswick, imp., 72 Ottone, vescovo di Frisinga, 64, 74 Ovidio (Publius Ovidius Naso), 92
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Pasquale II (Raniero), papa, 35, 36, 37, 41, 74, 76, 79, 138 Pasquale III (Guido da Crema), antipapa, 71, 73, 74, 77, 78, 86, 210 Pauly M., 121 Pavia, 73, 115, 117, 156 - S. Pietro in Ciel d’Oro, monastero, 73 Peduto P., 22 Pennacchini L. E., 24 Pace V., 102 Perale M., 142 Padova, 133, 147, 148, 152, 154, 191 Perpignan, 116, 117 - Battistero, 147 Pertz G. H., 25, 186, 191 - Eremitani, chiesa degli, 147 Perugi L., 123 - Musei Civici Eremitani, 133 Perugia, 112, 223 - S. Agostino, chiesa, 147 Peschiera del Garda (VR), 142 - S. Antonio, basilica di, 152 Peter M., 123 - SS. Agata e Cecilia, monastero, 148 Petrucci A., 132 - Trento-Papafava, palazzo, 148 Petrucci F., 123 Pagnotti F., 101 Petrus Leonis, 72 Palermo, 25, 40, 47 54-56, 63, 92, 95 Pezzuoli Giuseppe, 167 - Cimitero Reale, 95 Pfisterer U., 122 - Martorana, chiesa della, 49 Pfulgk-Harttung J. (von), 8 - S. Maria, chiesa di, 43 Phipps Darr A., 122 - Vergine Maria Santissima Assunta, Piemonte, 163 cattedrale, 95 Piendibene, Giovanni di, 112 Pallavicino Uberto, 183, 191 Pier delle Vigne, 95, 98, 99, 100, 102 Panarelli F., 60 Pierleoni, fam., 77 Panazza G., 183 Pierleoni Pietro, v. Anacleto II Pandimiglio L., 94 Pierre de Foix, 114 Pannuti M., 97 Pierre Roger de Beaufort, v. Gregorio Panvini Rosati F., 98 XI Paoli C., 161 Pierucci C., 83 Paolino da Milano (Paulinus Venetus), Pietro, santo e apostolo, 5, 22, 35, 74, O. Min., cron., 152 84, 100, 115 Paolo di Tarso, santo, 5, 22 Pietro da Eboli, cron., 48, 60, 91, 92, Paolo III (Farnese Alessandro), papa, 94, 96 145 Pietro di Blois, 51, 58, 60 Paolucci A., 111 Pietro di Corbara (Nicola V, antipapa), Papareschi Gregorio, v. Innocenzo II O. Min., 8 Paratore E., 95 Pietro Filargo da Candia (Pietro di Paravicini Bagliani A., 22, 69, 91, 93 Candia), v. Alessandro V, antipapa Parentucelli Tommaso, v. Niccolò V Pietro il Gayto, 58 Parigi (Francia), 165, 171, 172 Pilato, Ponzio, procuratore romano - Coq, rue du, 165 della Giudea, 79 - Louvre, 165 Pini A. I., 80 Parma, 70, 183 Pio B., 28, 56, 57, 58, 60
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Pisa, 79, 111, 116-118, 120, 122, 133, 140, 162 - Santa Maria Assunta, cattedrale, 134 Pisone (Cnaeus Calpurnius Piso), console romano, 6 Pispisa E., 93 Poggi E., 171 Pollastrini Natale, 167 Polverari A., 83 Pope-Hennessy J., 111 Porto Maurizio (IM), 222 Potthast A., 71 Powell J. M., 98 Praga (Repubblica Ceca) - S. Vito, cattedrale, 106 - Tesoro del Duomo, 106 Pregnacchi, fam., 186 Presbiter, vescovo di Ascoli, 85 Prietzel M., 116 Prignano Bartolomeo, v. Urbano VI, papa Princivallo de Menozo, conte di, 191 Prinz F., 209, 209 Prinz W., 99 Prodi P., 182 Prunas P., 165 Puglia, 22, 29, 32, 36, 39, 44, 45, 100, 134, 161 Puglia, duca di, 23, 24, 34, 36, 37, 41 Puhle M., 9 Puig y Puig S., 114 Pulignani M. F., 79
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Rajna P., 79 Rando Daniela, 207-214,210 Ranieri, vescovo di Rieti, 79 Raniero, monaco, v. Pasquale II Ratboldus, conte di Cremona, 191 Ravenna, 70, 80, 81, 83 - Sant’Apollinare Nuovo, basilica di , 70 - S. Vitale, basilica di , 70 Raynaldo O., 5 Reggio Emilia, 191 Regnum Italiae, 78 Reichenbach (Germania), 14 Reims (Francia), 100 Reinert F., 121 Reinhardt V., 121 Reizler von S., 5 Resta F., 103 Rezasco G., 184 Ricasoli Bettino, 164 Riccardo di Capua, 51 Riccardo di Shelby, cancelliere di Ruggero II, 58 Riccardo Drengot, v. Riccardo I di Aversa Riccardo I di Aversa, 26 Riccardo III Drengot Quarrel, principe di Capua, 30, 31, 32 Riccardo Palmer, vesc. di Siracusa, 59 Richardus Francisci Marini de Miglanis, 205 Ricoeur P., 13, 14, 17, 211 Riedmann J., 186 Rieti, 79, 85 Quarrel Oddone, canon. della cattedra- - S. Quirico Giulitta, abbazia di, 79 le di Chartres, 63 - S. Michele Arcangelo, chiesa, 79 Quieti Giovan Battista, 201 Rigon A., 112, 130, 199, 211, 212 Quintavalle A. C., 100 Rilke R. M., 141 Quinterio F., 122 Rimini (RN), 84, 85 Quirini Poplawski R., 97 - S. Cataldo, chiesa di, 84 Rinaldo degli Albizzi, 112 Rinaldo di Jenne, v. Alessandro IV Racine P., 92 Ripart L., 70 Radetzky Josef, 163 Riva, Ottolino da, 192 Rahewino, cron., 74 Rizardus de Ugonibus, 185, 187 Rainolfo d’Alife, detto de Airola, 26, 36, Roberto Bassunvilla, conte di Conversa46-48, 51-52, 58 no e di Loritello, 57
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Rösch P., 75 Rosenauer A., 122 Rossetti G., 79 Rossi P., 9 Rossini G., 101 Rosso P., 32 Rothenberg K.-H., 71 Rouche R., 70 Rovere Francesco della, v. Sisto IV Roversi G., 133 Rudiano (BS), 188 Rudolf von Rheinfelden, v. Rodolfo di Svevia Ruggero Borsa, 26, 27, 28, 30, 32, 33, 34, 36, 39, 40, 42, 61 Ruggero I d’Altavilla, detto Ruggero Bosso, granconte di Sicilia, 28, 30, 31. 32, 33, 37, 45, 61, 62, 95 Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia, 23, 24, 25, 27, 28, 34, 36, 37, 39, 42-55, 57, 60-62, 64, 95 Ruggero III di Puglia, 28 Ruggero IV di Puglia, 28 Ruprecht von der Pfalz, v. Roberto III di Wittelsbach Russo L., 24, 29, 39
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Roberto d’Altavilla, comes de Principatu, 28, 31 Roberto I d’Altavilla, detto il Guiscardo, 25, 27-34, 36-40, 42-43, 45, 50-51, 57, 138 Roberto d’Angiò, detto il Saggio, re di Napoli, 161 Roberto di Ginevra, v. Clemente VII, antipapa Roberto I delle Fiandre, duca, 27 Roberto I, principe di Capua, 58 Roberto III di Wittelsbach (Ruprecht von der Pfalz), imp., 116 Roccasecca (FR), 117 Rochais H., 54 Rodenberg C., 91, 100 Rodolfo d’Arles, v. Rodolfo III di Borgogna Rodolfo III di Borgogna, detto il Pio o il Fannullone, 70 Rodolfo, duca di Svevia, 75 Roma, 7, 8, 22, 70, 76-79, 80, 85, 86, 99, 112, 115, 117, 118, 119, 121, 134136, 139, 144, 163, 170, 194, 212, 217, 222 - Adriano, Mausoleo di, 145 - Campidoglio, 139 - Castel S. Angelo, 144 - Cisterna Neronis, 77 - Fontana dei Quattro Fiumi, 136 - Laterano, palazzo del, 87, 139, 199 - Piazza Navona, 136 - S. Maria di Trastevere, basilica di, 77 - S. Paolo fuori le mura, abbazia di, 73 - S. Pietro, Basilica di, 74 - S. Pietro, piazza, 115 - SS. Quattro Coronati, basilica dei, 70, 138 - SS. Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, abbazia di, 73 Romagna, 118 Romano A., 92 Romualdo Salernitano, arciv. di Salerno e cron., 19, 21-64 Roncalli Angelo, v. Giovanni XXIII, papa
San Paolo di Civitate (FG), 33, 35 Saba, regina di, 105 Sabato, fiume, 37 Saccaro Battisti G., 10 Saint-Sorry B., 70 Saladini, fam. 206 Salerno, 22, 24, 26, 28-30, 33, 34, 40, 43, 55, 56, 62, 63 - S. Matteo, cattedrale di, 46 Salerno, duchi di, 42, 48 Salimbene de Adam (da Parma), frate e cron., 101 Salomies O., 136 Salomone, re, 105 Salutati Coluccio, 112 Salvi A., 85, 86, 134, 202 Sambonifacio, Ludovico, conte di San Bonifacio, 191
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Serra Sant’Abbondio (PU) - Fonte Avellana, 83 Sestan E., 161 Settimio Severo (Lucius Septimius Severus), imp., 137 Sforza, Francesco, duca di Milano, 206 Sgariglia, Pietro Marino Melchiorre degli, 205 Shearer C., 99 Sheingorn P., 162 Sichelgaita di Salerno, 41 Sicilia, 21, 23, 25, 33-34, 41-42, 45-46, 55, 56, 58-63, 91-95, 103, 134, 167, 219, 222 Sicone, principe di Benevento, 152 Siena, 112, 115, 117, 194 - Monte dei Riformatori, 140 - S. Niccolò dei Mantellini al Carmine, chiesa, 140 Sigheberto di Gembloux, cron., 76, 77 Sigismondo del Lussemburgo, imp., 112, 113, 116, 117, 119, 121 Signori G., 182 Signorini Telemaco, 173-175 Silva A., 134 Silvani L., 81 Simi Varanelli E., 70 Simon de Cramaud, patriarca d’Alessandria, 118 Simon U., 75 Simone di Sicilia, 28 Simson B., 74 Sini C., 168, 174, 175 Siragusa G. B., 48, 54, 92 Siro, vesc. di Pavia e santo, 80 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 121 Sivo V., 43 Solin H., 136 Sommerlechner A., 134 Sonnay J.-F., 146 Soragni U., 184 Southern R. W., 22 Spagna, 8, 116, 121, 219 Spalletti E., 175 Speckner E., 121
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Sampierdarena (GE), 144 Sampieri T., 92 San Michele Arcangelo sul Gargano (FG), santuario, 29, 42 San Placido, 167 Sanchez Muñoz Gil, v. Clemente VIII, papa Sangermano R., 43 Santi, Andriolo de’, 147 Santini G., 49 Sanzio Raffaello, 176 Saraceni, 25, 29, 30, 45 Sardegna, regno di, 163-164 Sartori P., 133, 153 Sassovivo (PG) - S. Croce, abbazia, 83, 84 Saur K. G., 122 Savelli Cencio, v. Onorio III Savonarola Girolamo, frate, 167 Scafati, battaglia di, 53 Scaglia G., 99 Scalfati S. S., 133 Scalia G., 101, 133 Scalvini Giovita, 165 Scarabelli L., 165 Scarpati M. A., 163 Schipa M., 26, 40 Schivo B., 134 Schlichte A., 23 Schlosser H., 9 Schmale F.- J., 21 Schmid K., 15, 69 Schmitt J.-C., 183 Scholz S., 74 Schramm P. E., 97, 106 Schreiner K., 182 Schreiter Chr., 7 Schunk J. P., 5 Schwarz U., 26, 27, 29, 36, 38 Schwedler G., 3-18, 3, 75, 210, 213 Sebastiani L., 76 Seidl M., 176 Sella P., 206 Selvatico P., 173 Sereni V., 218 Sergi G., 97, 182, 183
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Theseus Francisci Marini, 205 Tiepolo Baiamonte, 150 Tigler G., 141 Todeschini G., 220 Todi (PG), 223 Todisco L., 102 Tohn A., 71 Toledo (Spagna), 35 Tolone (Francia), 222 Tomacelli Pietro, v. Bonifacio IX Tommaseo Niccolò, 165-167 Tommaso di ser Giovanni di Monte Cassai, v. Masaccio Tonini L., 84 Torina Vallis, 79 Torre, Francesco della, 186 Toscana, 79, 162, 163, 164, 222 Toubert P., 30 Tramontana S., 30, 33, 52, 61 Travaini L., 98 Treccani G., 186 Trento, 114, 186 Tabacco G., 161 Trevisan C., 168 Taddeo da Sessa, 99, 102 Treviso, 131, 145 Taibrando, abate di S. Quirico, 79 - Musei Civici, 145 Takácz I., 121 Trieste, 141 Tancredi d’Altavilla, detto il Vecchio, - Duino, castello di, 141 30, 31, 42, 62 - Miramare, castello di, 141 Tancredi d’Altavilla, detto Tancredi di Trofimena, santa, 40 Lecce, 28 Troia (Ecana) (FG), 22, 32, 40 Taranto, 28 Trombetti Budriesi A. L., 49, 55 Taro, fiume, 108 Tronzo W., 93 Tarlati Guido, signore di Arezzo, 146 Trudzinski M., 123 Tartuferi A., 123 Tubinga (Germania), 115, 116 Tateo F., 101 Tucci G., 86 Taviani-Carozzi H., 38, 50 Turbiado, da, fam., 186 Telesko W., 134 Turchini L., 84 Tempestini F., 217 Tusca Aldrigo, 192 Teodoro, arcivescovo di Milano, 151, 152 Terrasanta, 45, 95, 98 Ubaldinus de Canpedello, 192 Tervisio di Atina, 96 Uberti, fam., 146 Tevere, fiume, 74, 76 Ugo, arciv. di Palermo, 57 Theiner A., 5 Ugolino di Anagni, v. Gregorio IX Terezín (Repubblica Ceca) Ugoni, conti di Marcaria e di Mosio, - Theresienstadt, carcere di, 163 fam., 185, 186, 187, 190, 193
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Spira (Germania), 78 Spoleto (PG),131, 223 Sprenger K.-M., 67-88, 73, 76, 78, 79, 82, 83, 85, 194, 210-212 Stabili Francesco, v. Cecco d’Ascoli Stähli M., 92 Stalin Josef, 209 Stefano di Perche, 24, 54, 58-60, 63 Stefano VI, papa, 74 Stefaneschi Pietro, 139 Stollberg-Rilinger B., 211 Stoller M. E., 73 Strasburgo - Notre-Dame, cattedrale, 78 Stroll M., 87 Strunck C., 77 Stumpel J., 70 Suckale R., 8, 9 Svetonio (Gaius Svetonius Tranquillus), 136, 200
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Vergani G. A., 152 Verhelst D., 86 Veroli (FR), 83 Verona, 133, 142, 153 - Navi, ponte delle, 143 - S. Zeno, cattedrale, 105 Veronese F., 199 Vetere B., 45, 49 Vicenza, 131 Vienna (Austria), 8 Villani Giovanni, cron., 146, 165, 166, 167, 170 Vincke J., 117, 118 Violante C., 79 Violante F., 21, 30 Virgilio (Publius Vergilius Maro), 92 Visconti Giangaleazzo, 117, 118 Visdomini Cerrettieri, 164 Viterbo, 80, 134 Vitolo G., 22, 32, 40 Vittinghoff F., 6, 7, 70, 135 Vittore IV (Ottaviano di Monticelli), antipapa, 71, 75, 76, 78, 81-83, 86 Vittoria (RG), 100, 106, 107 Volterra (PI), 79 - S. Maria a Casale d’Elsa, chiesa, 79
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Ugoni, Raymondus de,187 Ugoni, Raynaldus,187 Ullmann W., 77 Ulpiano Gneo Domizio (Gneus Domitius Ulpianus), 145 Umbria, 222, 223 Unfredo d’Altavilla, 31 Urbano A., 70 Urbano II (Eudes di Lagery), papa, 33, 36 Urbano VI (Prignano Bartolomeo), papa, 111, 113, 114, 119, 120 Urbano VII (Castagna Giovanni Battista ), papa, 113 Urbano VIII (Barberini Maffeo), papa, 145 Urbino, 223 Ussi Stefano, 163-164, 166-176, 209
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Valcamonica, 186, 187, 189 Valentini A., 186 Van den Abeele B., 108 Vanni Pietro, 112 Varaldo C., 134 Varanini G. M., 186 Varner E. R., 7, 70, 136 Vecchio S., 53 Venezia, 21, 22, 23, 25, 48, 55, 56, 64, 71-73, 77, 84, 116, 118, 119, 121, 141, 145, 150, 151 - Correr, Civico Museo, 150 - Ducale, palazzo, 151 - S. Marco, piazza, 77 Venezia, Serenissima Repubblica di, 142, 145 - Consiglio dei Dieci, 151 - Maggior Consiglio, 151 - Senato, 141, 142, 148, 150 Vennibeni Giovanni, tiranno di Ascoli, 199, 202 Venosa (PZ), 32, 33 Ventura Agnolo, 146 Ventura Cagnola, 188 Verbeke W., 15 Vercelli, 149
Waitz G., 74, 94 Wallace- Hadrill J. M., 22 Ward-Perkins B., 134 Wefers S.. 121 Weinrich H., 10 Wenzlhuemer R., 211 Werner Th., 212 Wessel Reinink A., 70 Wibert di Ravenna, v. Clemente III Wieruszowski H., 49 Wilkins D. G., 162 Willemsen C. A., 99, 107 Wissowa G., 135 Wittelsbach, 9 Wollasch J., 15, 69 Woolf G., 138 Worms (Germania), 78, 199 Wren Christian K., 212
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14.32
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Zecchino O., 49, 61, 64 Zedler G., 7, 7 Zerubavel E., 15 Yorick, v. Ferrigni P. C. Ziese J., 76, 81 Zigarelli D. M., 80, 81 Zimmermann H., 8, 74 Zabbia M., 19-64, 22, 24, 25, 33, 50, 59, Zimpel D., 22, 54 64, 212 Zito G., 55 Zaccherini G., 83 Zuliani F., 105 Zdekauer L., 206
IS
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E
Würzburg, (Germania) 78
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10.28
Pagina 1
Indice generale
Saluti delle Autorità: S. E. Mons. Silvano Montevecchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag.
Pietro Celani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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VII
Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno . . . . . . . . .
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IX
Antonio Rigon, Introduzione ai lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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XI
»
3
»
19
Kai-Michael Sprenger, Damnatio memoriae o damnatio in memoria. Qualche osservazione metodologica sui cosiddetti antipapi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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67
Silvia Maddalo, Vivit et non vivit: memoria e damnatio memoriae di Federico II tra arte e scrittura di storia . . . . . . .
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89
IM
E
V
Prima giornata
Gerald Schwedler, Damnatio memoriae - oblio culturale: concetti e teorie del non ricordo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IS
Marino Zabbia, Damnatio memoriae o selezione storiografica? I grandi assenti nel Chronicon di Romualdo Salernitano (Periodo normanno) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Seconda giornata
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16/11/2010
11.29
Pagina 2
Wolfgang Decker, Ioannes quondam papa. Il monumento fiorentino a Baldassarre Cossa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nicoletta Giovè Marchioli, Cancellare il ricordo: la damnatio memoriae nelle iscrizioni medievali tra formule e scalpellature . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag. 109
»
127
Amedeo De Vincentiis, Storia e stile, 1343/1861. L’immagine del tiranno di Firenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
159
Giuliano Milani, Pittura infamante e damnatio memoriae. Note su Brescia e Mantova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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179
Giannino Gagliardi, La damnatio memoriae nella tradizione medievale ascolana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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197
Daniela Rando, Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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207
Intervista di Jean-Claude Maire Vigueur a Jacques Le Goff
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215
Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . .
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227
Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Terza giornata
IS
Indici
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Composto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo
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Finito di stampare nel mese di novembre 2010 dallo Stabilimento Tipografico ÂŤ Pliniana Âť Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG)
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