SCUOLA UMANA
Per una scuola umana
Prefazione di Lina Bertola
Nelle edizioni Itaca
Roberto Laffranchini
Il rischio della libertà
Roberto Laffranchini
Si può essere un buon padre?
Angelo Scola, Franco Anelli, Francesco Valenti Bisogno educativo e compito della scuola
François-Xavier Bellamy
I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere
Silvio Cattarina
Voglio il miracolo!
Emergenza educativa: un imprevisto è la sola speranza
Maurizio Botta, Andrea Lonardo
Adolescenti inafferrabili. Un itinerario per proporre la fede
Roberto Laffranchini
Per una scuola umana
www.itacaedizioni.it/per-una-scuola-umana
Prima edizione: agosto 2023
© 2023 Itaca srl, Castel Bolognese
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-526-0758-5
Stampato in Italia da Mediagraf, Noventa Padovana (PD)
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Prefazione
Prefazione
Nella domanda di María Zambrano posta a esergo di queste pagine, nelle sue nude e graffianti parole, risuonano tutta la nostalgia e l’inquietudine dell’esistenza, la sua fragilità, la sua sempre incolmabile mancanza, e insieme il desiderio di senso, attesa e speranza in un possibile compimento. Sono parole che toccano la carne viva del nostro stare al mondo, del nostro radicamento nella vita, abitato sia da quella fragilità dell’anima che rischia l’abbandono, la dimenticanza di sé lungo i «cammini della ragione», sia dal desiderio di illuminare quegli «abissi del cuore» che custodiscono orizzonti inesplorati di verità.
La potenza di questo domandare attorno ai destini dell’anima è un invito a riconoscere e ad assumere in prima persona il rischio esistenziale, a dare ospitalità alla sua costante presenza nel dipanarsi dei nostri giorni.
Proprio nel domandare rischioso è custodita anche una preziosa esperienza di bellezza, un meravigliarsi originario. Una bellezza inaugurale, profondamente intrecciata fin dalle radici della nostra civiltà con ciò che è buono e vero; una bellezza che sa diventare perciò gratitudine e contemplazione verso ciò che si offre a noi, verso il donarsi della realtà che viene a colorare e a nutrire di senso ogni sfumatura dell’esperienza del vivere.
È in questo domandare che nasce il coraggio di nominare gli abissi del cuore e la voce dell’anima.
Per noi, uomini dalle tante risposte incontrate sul cammino della ragione, è il coraggio di scavalcare le sue gabbie per
aprirci a un altrove, al di là di quel pensare pragmatico che vorrebbe tenerci bloccati sulla superficie dell’esistenza.
Nel nuovo saggio di Roberto Laffranchini, questo domandare incontra la speranza educativa di una scuola umana, vissuta dentro prospettive di accoglienza e di bene. Le risposte del suo gesto pedagogico si avventurano allora alla sorgente dell’io, si incamminano verso quella nostalgia profonda del cuore da cui sgorga il desiderio di felicità.
Dobbiamo davvero ripartire dal cuore, da quel sapere del cuore di cui già parlava Pascal: un sapere che non ha nulla a che vedere con il sentimentalismo ma, al contrario, è una forma di conoscenza in cui si esprime con forza la passione per la verità.
È proprio questo sapere del cuore a offrirci un altrove, un andare oltre la razionalità strumentale che trasforma la presenza fisica del reale in modelli e in codici, con il rischio sempre più grande di ridurre anche le umane esistenze, il nostro esserci, ad algoritmi senza corpo.
È questo sapere del cuore a permettere di alimentare la ragione, e le sue conoscenze, con ciò che è custodito nel nostro mondo interiore, in quell’intimo vissuto di ognuno in cui si disvelano ulteriori aperture dell’umano, e in esse ogni ulteriore domanda di senso.
María Zambrano scrive, sempre nell’opera citata a esergo, che proprio nel cuore nasce quel sapere dell’anima che precede il sapere razionale.
Lasciando da parte ciò che la ragione ha detto dell’anima […] sarebbe opportuno vedere più chiaramente in che modo l’uomo ha sentito la sua anima […] come ha percepito questo frammento di cosmo che dimora in lui […] scoprire quelle ragioni del cuore che è il cuore stesso ad aver trovato, approfittando della sua solitudine e abbandono.
Nella conoscenza del cuore, nel sapere dell’anima, possono
Prefazione
nascere e possono fiorire nuovi significati perché in questi intimi vissuti ogni cosa si trasforma in una realtà più luminosa.
Per la filosofa spagnola la sapienza dell’anima nasce dalla capacità di sentire un’intimità originaria con le cose: un’intimità che riempie il logos di grazia e verità. Questa intima percezione apre all’esperienza fondamentale e decisiva del sacro e del mistero.
Alla straordinaria intensità del pensiero della Zambrano vorrei ricondurre il dipanarsi del gesto educativo di Laffranchini, sia nelle premesse etiche, nutrite dal senso religioso, sia nelle molteplici declinazioni fin dentro i dettagli dell’agire pedagogico. In questo orizzonte di senso si può leggere il delicato e attento addentrarsi dell’Autore sui sentieri dell’umano, ospitando la meraviglia e il mistero nell’esporsi all’incontro con il volto di ogni ragazzo, e con la sua attesa di felicità.
Un gesto educativo che è anche attenzione a quella bellezza inaugurale, a volte fin troppo nascosta, tradita e maltrattata, ma che sempre ci chiama a riconoscerla e ad abitarla.
Da questa scuola vissuta, da questa scuola umana emerge la consapevolezza che un’autentica educazione non può che essere educazione all’etica.
Non tanto all’etica intesa come ethos, insieme di valori condivisi in un’epoca o in una cultura.
Il gesto autenticamente educativo è sempre un gesto di libertà, attento alle insidie di ogni possibile forma di ideologia.
Il gesto educativo si rivolge all’etica come oikos, la casa, la dimora interiore: rimane in attesa di ogni bambino, di ogni ragazzo, sostando sulla soglia del suo personale abitare la vita, perché è da qui, da questo «punto sensibile» che affiora la voce di quel di più di senso che sgorga dalle radici più intime del vissuto di ognuno.
L’educazione all’etica, insomma, accade non tanto nel riconoscimento dei valori, quanto innanzitutto nell’incontro con il valore intrinseco alla vita.
Il valore è gratuità e trascendenza, qualità non misurabile
della pienezza del vivere: custodito nella nostra dimora interiore, è sempre in dialogo con i valori di un ethos comune. In questo dialogo, come sottolinea a ragione l’Autore, il desiderio e il compito di stare al mondo mostra la sua priorità rispetto al bisogno di stare nel mondo. Il valore può farsi così punto di resistenza, domanda di senso per capire dove siamo, dove stiamo andando, e perché.
Per questa ragione, il suo essere nutrimento di questa scuola vissuta ci mantiene lontani dalle derive di una scuola in ostaggio alla ragione strumentale e a quella logica del mercato che ne definisce i bisogni e, senza più reticenze, pretende di dettarne l’agenda.
L’attenzione al valore della vita, il prendersi amorevole cura del cammino di ciascuno, nell’esperienza della conoscenza e nella sua condivisione con il cammino degli altri, ci offre un dono prezioso: la consapevolezza che c’è sempre un altro mondo possibile, anche in questo.
Lina BertolaAgli educatori e agli insegnanti perché guardino con fiducia al futuro in un orizzonte di speranza per loro stessi e per i giovani che incontrano
Rimarranno senza luce questi abissi del cuore, rimarrà abbandonata l’anima con le sue passioni, al margine dei cammini della ragione?
María Zambrano
Verso un sapere dell’anima a cura di Rosella Prezzo, Cortina, Milano 1996, p. 17
Una scuola vissuta, una scuola umana
1. La scuola si prende cura di bambini e bambine, di ragazzi e ragazze e ne accompagna la crescita fin da piccoli, favorendone lo sviluppo umano, culturale, comunitario e sociale, affiancandosi alla famiglia. La stessa parola cultura indica la cura che si ha «verso il basso e verso l’alto»1. Prendersi cura significa avere a cuore, riconoscere il desiderio di compimento di ognuno che è sempre rivolto ad altro e all’altro2.
Questo processo, in particolare, è l’obiettivo della scuola dell’infanzia, della scuola elementare e della scuola media, la quale poi introduce altri percorsi formativi più specifici sul piano degli studi e sul piano professionale.
In questo lavoro mi riferisco soprattutto al percorso che allievi e allieve compiono dal loro ingresso nella realtà scolastica fino al termine della scuola media: dai 4 ai 15 anni circa. È un periodo di grandi cambiamenti, in cui bambini e bambine si
1 Il linguista Eddo Rigotti osserva che «cultura deriva dal verbo latino colo, di cui è nomen actionis. L’etimologia di questo termine appare subito estremamente interessante, perché segnala la cura che si ha, verso il basso e verso l’alto. Per esempio, agrum colere (agricoltura) indica l’attenzione verso la natura, […] per ottenere frutto; Deos colere, Deum colere indicano non semplicemente una posizione religiosa intellettuale, ma un rapporto affettuoso, amoroso e di devozione verso il divino, il mistero, verso ciò che sta oltre e grazie a cui siamo» (Eddo Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, Mondadori Education, Milano 1999, p. 5).
2 «I care […] mi sta a cuore» era il motto di don Milani, scritto su una parete della scuola di Barbiana; cfr. Documenti del processo di don Milani. L’obbedienza non è più una virtù, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1973, p. 34.
accorgono di crescere e, in vario modo, prendono particolare coscienza di loro stessi in relazione con il mondo in cui sono e in cui si sentono proiettati. Attraverso le possibilità del proprio corpo e della propria mente, attive e passive, scoprono nuove connessioni con la realtà.
Per la prima volta, nuovi problemi e nuovi interrogativi si affacciano all’orizzonte. Essi nascono soprattutto dall’esigenza di verificare la pertinenza di sé con il proprio corpo e con il mondo circostante, a cominciare dagli ambienti già conosciuti, come la famiglia, fino a quelle «zone prossimali»3 che dispiegano nuove trame relazionali sempre più aperte nello spazio e nel tempo, al passato e al futuro.
A scuola si incontrano altri bambini e ragazzi, si incontrano altri adulti, in un ambiente con una struttura e un’organizzazione diverse rispetto a quelle famigliari. Viene richiesto un nuovo impegno, non più soltanto conforme alle aspettative consuete e proporzionali al clima affettivo in cui il bambino è nato e vive. In questi anni allievi e allieve scoprono una loro personale prospettiva in cui cercare proprie risposte a desideri e interrogativi: guidati dalla loro curiosità, vogliono sperimentare nuove soddisfazioni sensoriali e razionali, ma vogliono anche capire se e fino a che punto possono fidarsi di sé stessi e del mondo. Si cercano le ragioni di tutto (si vuole una risposta ai “perché”), ma si sperimenta che esse non bastano per decidere del proprio impegno. La scoperta della propria libertà affascina, ma può anche fare paura. Essa investe una realtà sempre meno limitata ai propri confini e apre possibilità sconosciute. Normalmente, in famiglia, i capricci dei figli risultano ancora commisurati (o dovrebbero esserlo) alle figure autorevoli presenti, soprattutto della mamma e del papà; la manifestazione
3 È la famosa formula usata dallo psicologo e pedagogista sovietico Lev Semënovič Vygotskj; cfr. Olga Liverta Sempio (a cura di), Vygotskij, Piaget, Bruner. Concezioni dello sviluppo, Cortina, Milano 1998, pp. 15, 62-63.
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di disagi e difficoltà sono, per così dire, già “comprese” nelle relazioni personali: i famigliari le conoscono e cercano di interagire con esse. Fuori da questa cerchia di conoscenze strette, ogni atteggiamento, parola o azione implica il rischio sempre meno prevedibile della reazione dell’altro.
2. A scuola si insegna e si impara attraverso varie attività, ma soprattutto nell’incontro tra coloro che condividono attivamente questo percorso. In primo piano vi sono gli insegnanti e gli allievi con la loro personale responsabilità, di fronte a sé stessi e al mondo. Essa è il cuore dell’educazione.
Nel nostro mondo facciamo esperienza della realtà di cui diventiamo consapevoli attraverso la relazione con ciò che è altro da noi e ci sta davanti e di cui siamo anzitutto investiti. Nella visione e nella relazione con il mondo emerge e riconosciamo sempre di più il nostro desiderio di bene, che è desiderio di essere accolti con tutto noi stessi: i nostri bisogni, i nostri desideri.
Una persona vive in una prospettiva di accoglienza e di bene quando è consapevole che vi è un senso delle cose di cui poter fare esperienza in ogni circostanza. Qualcosa ci è continuamente dato, è dato alla nostra responsabilità e alla nostra libertà; perciò ha senso esserci in ogni momento, ha senso stare al mondo. Il dato costituisce l’inizio di una relazione nella quale via via prendere coscienza di sé stessi, in un cammino aperto, nella speranza.
L’esigenza di senso affiora anzitutto nel rapporto con gli altri, con cui condividiamo il nostro destino di esseri umani, tanto che non possiamo nemmeno per un istante concepirci separati e soli: «il “tu”, e con esso il “noi”, precede l’“io”», scrive Eugenio Borgna4. La stessa esperienza di solitudine è relazione, sia quando è cercata che subita.
La scuola ha il compito specifico di promuovere la ricerca e la scoperta del senso della realtà suscitando anzitutto la «domanda meravigliata», come la chiama María Zambrano, «che ha preceduto la domanda sull’essere o sulla realtà delle cose»5. La strada di questa apertura al mondo è condivisione di esperienze significative di conoscenze che attestino proprio il senso del vivere e concretamente insegnino “a stare al mondo”. Ultimamente studiamo per stare nel mondo, in qualsiasi modo si voglia intendere il nostro bisogno di relazionarci con cose, uomini e fatti del presente e del passato e per proiettarci nel futuro. Lo studio conduce a un sapere personale e comune che apre una prospettiva sulla realtà. Per questo motivo il sapere non può che essere condiviso per cercare insieme la miglior visione sistematica e critica possibile e attuando le più adeguate capacità di comprensione e di comunicazione.
La scuola è uno dei luoghi in cui è in atto questa visione sistematica. È il primo ambito, dopo la famiglia, in cui una visione del mondo rappresenta l’orizzonte di riferimento e di confronto dell’azione personale e comune.
Nella situazione particolare di un istituto scolastico, essa è anzitutto frutto dell’esperienza e della ricerca del singolo insegnante, perché è lui – letteralmente – a dar vita alla conoscenza nel rapporto con gli allievi. Ma, in un contesto comunitario, non può prescindere dalla continua interazione con i colleghi, proprio perché un sapere nasce già esistenzialmente nella relazione con ciò che è altro da sé. Il confronto, perciò, non ha primariamente una funzione strumentale di coordinamento e di informazione, ma rappresenta il fulcro di un’azione culturale e educativa.
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3. Tutto questo rende la scuola un ambito di vita per la persona, con la sua umanità e quel suo desiderio di felicità che sottende ogni espressione di sé e costituisce l’esigenza più profonda dell’io.
Una buona scuola è una scuola umana al cui centro ci sono le relazioni interpersonali e la condivisione della conoscenza e dell’esperienza della realtà.
I modi d’essere delle persone sono espressione della relazione con il reale a partire dalle proprie caratteristiche innate, dagli effetti dell’ambiente – naturale, sociale e culturale –, dagli accidenti e dalle decisioni personali. L’educazione, anche quella scolastica, riguarda pertanto la persona tesa alla totalità, nei suoi modi di essere. In un ambito fortemente comunicativo, questi modi di essere sono le manifestazioni percepibili attraverso le quali incontriamo l’altro, le sue aspettative, i suoi bisogni, le sue fragilità e le sue difficoltà. Proprio perché sono espressioni di ciò che ognuno chiama io, non sono riducibili a sintomi atomizzati che in un processo formativo meccanico rimandano a una risposta tecnica. Essi sono frammenti di una totalità, vissuti interiormente e percepiti esteriormente come «allusione a una totalità implicita o anche solo possibile»6.
Viviamo la nostra esperienza di esseri umani dentro la nostra corporeità, nella continua tensione al bene. Guardare a questa totalità è la finalità del gesto pedagogico-didattico a cui deve essere subordinato ogni tentativo possibile di risolvere il sintomo o il problema specifico. Anzi, ogni azione specifica (didattica, psicologica, sociale, ecc.) è doverosa, proprio in relazione a questa finalità.
Oggi il tipo di attenzione che si vorrebbe portare verso l’allievo rischia di farci scivolare verso una interpretazione analitica dei suoi bisogni e verso un’offerta di servizi particolari
che non si rivolgono alla persona nella sua globalità, ma a un tipo di sviluppo psico-fisico e funzionale delineato da modelli parziali. Gli obiettivi di tali modelli sono senza dubbio importanti. Tra quelli più citati ci sono l’integrazione, le tecnologie, la salute, i media, l’inserimento professionale, lo sviluppo della dimensione sociale, la sensibilizzazione su problemi e temi ambientali e climatici, la difesa dei diritti, il rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente, la diversità, il contenimento dei disturbi psicologici e dell’apprendimento in ambito scolastico, la performance (il risultato), le nuove competenze disciplinari (dell’inglese non si può fare a meno, ma perché non introdurre l’arabo o il cinese?). Sono tutti traguardi che sempre di più vengono inseriti nelle attività scolastiche con lo scopo di migliorare un approccio funzionale e positivo al mondo. Tuttavia, se l’azione pedagogica e didattica rimanesse estranea alla ricerca condivisa del senso di essere al mondo e del fare, anche gli obiettivi più condivisibili genererebbero indifferenza o frustrazione perché apparirebbero irraggiungibili.
Un importante studioso, che citerò più volte nel corso di questo lavoro, ci ricorda che i «bisogni implicano la relazione dell’uomo col mondo perché con i suoi bisogni l’uomo si rivolge al mondo. […] È l’uomo, una persona non divisa, ad avere bisogni»7. Perciò l’uomo si rivolge a una totalità e non accetta risposte parziali che non implicano il senso stesso dello stare al mondo.
La speranza che è in noi cerca spazi in cui manifestarsi e soprattutto cresce nell’incontro con testimoni che, profondamente radicati in un presente vivo e ricco di storia e di memoria, sappiano guardare al futuro. Con la speranza cresce la voglia di conoscere, di sviluppare le risorse personali, di agire. Eugenio Borgna, che definisce la speranza «la più fragile e la
7 Erwin Straus, Sull’ossessione. Uno studio clinico e metodologico, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2006, p. 143.
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più ostinata fra le strutture fondamentali della nostra vita», scrive: «Una scuola, nella quale chi insegna crea una climax impregnata di speranza, non saprebbe forse ridestare anche negli allievi timidi e insicuri risorse interiori ed emozionali altrimenti perdute nell’angoscia e nella tristezza, nella inquietudine e nella disperazione?»8.
Chi scopre in sé la speranza è teso a cogliere ogni opportunità che il percorso di crescita offre, e vive una relazione attiva e significativa (anche per gli altri) con il mondo. Non solo si lascia sfidare dalla realtà ma ne vuole essere protagonista, guardando alla storia che lo ha generato e al sapere che lo ha preceduto per rispondere alla domanda: “chi sono io?”.
4. Non possiamo trasmettere la speranza, perché non è in nostro possesso. Possiamo però viverla come dimensione a cui affidarci in qualsiasi circostanza. La passione contagiosa per il mondo e per le cose ci induce ad alzare lo sguardo e a guardare sempre oltre.
Nella scuola la parola e la narrazione sono modalità di comunicare, ma direi anzitutto di essere insieme, di conoscere e di conoscersi, nell’incontro con l’altro e con l’oltre. Non dimentichiamo che comunicare significa condividere un dono (dal latino munus). Un clima permeato dalla narrazione si costruisce sulle narrazioni, sui racconti che comunicano all’altro l’esperienza del proprio sapere umano e “scolastico”. La narrazione ha sempre al centro il soggetto nella sua relazione con il mondo. In questa centralità si riconosce la passione dell’insegnante. Egli dovrà accettare la sfida di comunicare sé stesso anzitutto nell’ambito dell’insegnamento della sua disciplina, con il rigore e la coerenza che richiede. Anche gli allievi saranno da accompagnare, in ogni ambito scolastico, verso una comunicazione, non banale, ricca di significato, attraverso il
confronto con gli adulti, senza escludere il richiamo, la sollecitazione e il rimprovero.
Il confronto e il dialogo sono gli strumenti di riconoscimento e di valorizzazione del percorso di crescita dell’altro. La scuola costituisce questa possibilità di imparare dall’altro nella convenienza di tutti.
Un attore di lunga esperienza mi confidava che studiava quanto scritto sul copione recitandolo, durante le prove, davanti agli altri attori, al regista e ai tecnici. Prima c’era la lettura personale, ma perché quelle parole diventassero vive era necessario l’incontro con quel piccolo pubblico che poi sarebbe diventato un grande pubblico nelle rappresentazioni in cartellone. Così accade anche agli insegnanti e così imparano anche gli allievi. La narrazione non segue un modello rigido di comunicazione e non si può trasporre in un modello didattico. Essa ha il suo punto di verifica nel desiderio che essa stessa suscita nei soggetti coinvolti di permanere nella relazione per scoprirne continuamente nuove prospettive impreviste di apertura al mondo. Il problema o i problemi possono rimanere irrisolti, ma non sono di ostacolo alla relazione che continua nell’intrecciarsi dei racconti e prima ancora degli sguardi. Può interrompersi solo con il rifiuto, con la rottura voluta da uno degli interlocutori, per altro raramente totale, che è comunque espressione della libertà radicale con cui siamo posti di fronte al mondo e a noi stessi, spesso anche con conseguenze tragiche.
Mi sembra perciò che una definizione calzante di narrazione sia quella di un racconto che provoca un altro racconto. La parola, così importante nella scuola, non va intesa come discorso logico e compiuto. Può essere un obiettivo ma non la condizione per stabilire la riuscita dei processi di apprendimento.
Recentemente ho ascoltato una testimonianza di un insegnante di italiano che raccontava le sue prime esperienze di insegnamento in una classe turbolenta di ragionieri, ai quali doveva spiegare Dante. Legge il primo canto dell’Inferno e nella lezione successiva chiede agli allievi che cosa pensassero
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della lettura svolta. Il più apparentemente indifferente e scalmanato della classe alza la mano e chiede di essere interrogato. Dice che sa a memoria il canto; tutti si mettono a ridere, ma lui comincia e recita tutto il canto senza sbagliare una parola. Quell’insegnante aveva suscitato un interesse, aveva lasciato spazio alla potenza di Dante, alla bellezza di quei versi e quell’allievo aveva risposto. Quella recita era il suo racconto.
Luigi Giussani, citando il teologo Josef Andreas Jungmann, ha definito l’educazione «introduzione alla realtà totale» e osserva: «è interessante notare il duplice valore di quel “totale”: educazione significherà infatti lo sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con tutta la realtà»9.
Uno degli obiettivi del mio lavoro è stato cercare di cogliere nell’esperienza di insegnamento le modalità più adeguate nella pratica quotidiana per sviluppare le “strutture dell’individuo” e di affermarne “la connessione con tutta la realtà”. Credo che la narrazione apra una prospettiva comunicativa in cui esperienza e conoscenza di sé e della realtà si attestino via via consapevolmente nel soggetto.
L’esperienza ci mostra che spesso fatiche e difficoltà degli allievi sono proprio imputabili a disturbi della comunicazione. Talvolta esse hanno cause profonde nei soggetti che richiedono anche interventi specialistici che non necessariamente gli operatori della scuola sono in grado di mettere in atto.
Più spesso le difficoltà riscontrate a scuola sono dovute a una inadeguata impostazione del dialogo, inteso in senso ampio. Sembra di non riuscire “a capirsi”, a comunicare. La narrazione rappresenta anzitutto una modalità di incontro in cui
9 Josef Andreas Jungmann, Cristo come punto centrale dell’educazione religiosa, Marietti 1820, Genova-Milano 2012, p. 37; Luigi Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 65.
poter riconoscere i propri limiti e le proprie fragilità, i bisogni propri e dell’altro e il desiderio di cambiare e soprattutto di essere amati.
5. Scrivendo questo libro ho ancora più scoperto la ricchezza della mia esperienza e di quella di colleghi e amici con i quali ho vissuto una straordinaria avventura come insegnante e come direttore delle scuole della Fondazione San Benedetto di Lugano.
Io vi ho ritrovato e sperimentato la prospettiva educativa che ha alla sua origine l’insegnamento e la testimonianza di Luigi Giussani a cui spesso rimando nel libro.
Nel presente lavoro ho fatto riferimento anche ad alcuni esponenti di spicco della psichiatria fenomenologica del secolo scorso, citata e ripresa in Italia, da un grande maestro come Eugenio Borgna. Questo confronto ha confermato l’imprescindibile ricerca di senso che deve sostenere ogni gesto di cura e perciò ogni gesto pedagogico-didattico.
Il mio percorso è stato l’occasione per sperimentare, nelle concrete circostanze della vita scolastica, una reale possibilità di crescita e di conoscenza insieme ad allievi e colleghi e per riconoscere insieme la bellezza di sempre nuove scoperte.
Soprattutto da questa mia esperienza di insegnante nascono le riflessioni raccolte in questo libro. Riguardano l’insegnare, l’apprendere e l’educare che sono compiti di qualsiasi scuola che agisca nel rispetto della persona nella sua integrità ed esigenza di apertura alla realtà totale. Questo resta l’unico scopo di qualsiasi impostazione pedagogico-didattica veramente libera, che non ceda a tentazioni ideologiche, ai ricatti di un funzionalismo produttivo e consumistico e nemmeno all’apologia di un’autonomia che maschera l’incapacità di relazionarsi con il mondo.
Auspico perciò che queste riflessioni possano costituire un punto di confronto anzitutto per tutti coloro che sono impegnati nell’educazione scolastica, ma anche per coloro che,
Una scuola vissuta, una scuola umana
fuori dalla scuola, ogni giorno hanno una responsabilità verso giovani e giovanissimi che la frequentano.
6. La gran parte degli esempi riportati nelle pagine seguenti si riferisce alla mia esperienza scolastica. Nella loro semplicità, essi supportano le mie riflessioni e nella loro quotidianità rendono la scuola una meraviglia dell’umano di cui spesso non ci accorgiamo, distratti dall’attesa ansiosa di sviluppi positivi eccezionali o dal timore dell’imprevisto che sfugge al nostro controllo.
Resta, soprattutto per chi ci lavora, una sfida continua che ci pone di fronte alla nostra responsabilità per un compimento buono di cui noi non siamo gli unici artefici.
Vi sono nel testo molte citazioni di vari autori, filosofi, poeti, scrittori, che mi hanno aiutato ad approfondire un giudizio sulla mia esperienza scolastica. Spesso ne ho scoperto la pertinenza con l’esperienza educativa, a conferma dell’inscindibile legame tra vita e educazione.
Tra questi autori ricordo qui la figura di Etty Hillesum, morta nel Lager di Auschwitz a ventinove anni, di cui ho posto una citazione dal suo Diario all’inizio di ognuna delle sei parti in cui è diviso il libro. Mi ha profondamente impressionato la sua semplicità che spalanca un mondo di riflessioni, nella consapevolezza cristallina che «l’unica vera unità è quella che contiene tutte le contraddizioni e i momenti irrazionali: altrimenti finisce per essere di nuovo un legame spasmodico che fa violenza alla vita»10. Le sue brevi citazioni in esergo rappresentano quasi una sintesi, almeno di un aspetto, delle singole parti di questo lavoro.
10 Etty Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2012, p. 302.
La speranza dilata i confini del possibile, è la passione del possibile, non lo considera nella sua fragile dimensione umana con gli occhi della fredda ragione calcolante, ma con quelli ardenti dell’intuizione e dell’immaginazione.
La potenza del domandare attorno ai destini dell’anima è un invito a riconoscere e ad assumere in prima persona il rischio esistenziale. Nel nuovo saggio di Roberto Laffranchini, questo domandare incontra la speranza educativa di una scuola umana, vissuta dentro prospettive di accoglienza e di bene. Le risposte del suo gesto pedagogico si avventurano allora alla sorgente dell’io, si incamminano verso quella nostalgia profonda del cuore da cui sgorga il desiderio di felicità.
Lina Bertola
Roberto Laffranchini (Bellinzona, 1955) ha diretto le scuole gestite dalla Fondazione San Benedetto di Lugano, di cui è attualmente consulente pedagogico-didattico. Ha insegnato Storia ed Etica presso il liceo della Diocesi di Lugano. Per Itaca ha pubblicato Il rischio della libertà. Un’esperienza di scuola e Si può essere un buon padre?
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