gsosta4FRECCE c a... MONTEVERDE VECCHIO #7
ilquartiererifugio storia - mappa - itinerario - racconto - fumetto - curiositĂ
CoNtaCHILoMEtRI SOMMARIO
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4FRECCE Supplemento di SETTESTRADE Anno XII n. 1 gennaio 2013 4frecce.wordpress.com 4frecce.redazione@gmail.com Direttore Responsabile Umberto Cutolo Redazione, testi e progetto grafico Michela Carpi, Andrea Provinciali Hanno collaborato: Costanza Galanti, Tiziana Albanese e Francesca Deodati
contagiri editoriale retromarcia storia retrovisore passato presente tergicristallo foto autostop racconto navigatore mappa scuola guida itinerario autoradio playlist frizione cultura marmitta fumetto revisione memorie a confronto lunotto citazione
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Stampa PoLigraf srl Via Vaccareccia, 41/b Pomezia (RM) www.poligrafsrl.it SETTESTRADE Bimestrale dell’Automobile Club di Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 184 del 17.05.2001 Editore Acinservice Srl Sede legale, pubblicità e redazione Via C. Colombo, 261 – 00147 – Roma http://www.roma.aci.it/
Foto e illustrazioni di copertina rispettivamente di Michela Carpi e Francesca Deodati
EDITORIALE CoNtaGIRI
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via Carini, di T. Albanese
«Una mattina, il filobus numero 75, in partenza da Monteverde Vecchio per Piazza Fiume, invece di scendere verso Trastevere, prese per il Gianicolo, svoltò giù per l'Aurelia Antica e dopo pochi minuti correva tra i prati fuori Roma come una lepre in vacanza». È così che ha inizio l’avventura che Gianni Rodari immaginava realizzarsi tra le vie e le ville di Monteverde Vecchio. Visto che il filobus non voleva saperne di ripar- sone, stava ripartendo tutto solo, al pictire, «uno dopo l'altro i viaggiatori scese- colo trotto. […] "Che ora abbiamo fatto?", domandò ro a sgranchirsi Raccontateci il vostro quartiere qualcuno. "Uh, le gambe o a fuchissà che tardi" mare una sigainviando foto o testi a e tutti si guardaretta e intanto il 4frecce.redazione@gmail.com rono il polso. loro malumore scompariva come la nebbia al sole. Uno Sorpresa: gli orologi segnavano ancora coglieva una margherita e se la infilava le nove meno dieci. Si vede che per tutto all'occhiello, l'altro scopriva una fragola il tempo della piccola scampagnata le acerba e gridava: "L'ho trovata io. Ora ci lancette non avevano camminato. Era metto il mio biglietto, e quando è matura stato tempo regalato, un piccolo extra, la vengo a cogliere, e guai se non la come quando si compra una scatola di trovo". […] "Attenzione!", gridò ad un sapone in polvere e dentro c'è un giotratto l'avvocato. Il filobus, con uno scos- cattolo».
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via Dandolo, di T. Albanese
È un quartiere regalato, Monteverde Vecchio, in cui rintanarsi e ricominciare a scoprire la vita. È un quartiere rifugio: per la nobiltà romana e pontificia, che vi consolidò le proprie tenute e ampliò le suggestive ville, per la giovane coppia Wurts, alla cui fantasia e al cui denaro dobbiamo i vezzi di villa Sciarra, rifugio per i cristiani - sotto San Pancrazio sono le catacombe - e per gli artisti - qui si rifugiarono Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, i registi Taviani, Nanni Moretti, qui si trova rifugio dalla Roma storica, monumentale, impegnativa, rifugio da cui godere di più vasti e verdi orizzonti. Azionate le 4frecce e venite a scoprirli con noi. a
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REtRoMaRCIa STORIA IL PARADISO PERDUTO Dalle ville nobiliari ai palazzinari
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onteverde ospita uno dei più ampi parchi di Roma, ma non è a questo che deve il proprio nome: il suo verde è piuttosto quello della pietra che già in età romana si estraeva dalle cave lungo i pendii del “monte” e che venne poi utilizzata anche per edificare le sue prime palazzine. Di collina si trattava poi, più che di monte, distesa lungo la propaggine meridionale del Gianicolo, collina affacciata sul Tevere con vista sui sette colli, collina in cui il verde in ogni caso non mancava; i primi edifici risalgono solo alla fine dell’Ottocento e fino ad allora la ricoprivano cave ma anche vigne - come vigna San
Villa Sciarra, di T. Albanese
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Carlo, oggi sede dell’ospedale Forlanini - e ville patrizie, come le ampie tenute boscose che fin dal Seicento erano curate dalla famiglia Pamphilj, o come i giardini alle spalle del Vaticano, nel tempo proprietà di un monsignore, di un appaltatore delle Dogane Pontificie, di un paio di cardinali, infine di una Barberini, sposa a un membro della famiglia Sciarra che finalmente si attribuì la paternità della villa dandole il proprio nome. Questo piccolo paradiso iniziò ad andare perduto con l’approvazione di un piano regolatore che avrebbe dovuto proteggerlo e che invece col tempo finì per danneggiarlo.
Nel 1909 infatti il neo eletto sindaco Nathan approvò un piano per la città che avrebbe dovuto regolamentare la disordinata speculazione edilizia degli anni precedenti, indicando sia le (sole) aree edificabili, sia le (sole) tipologie abitative: fabbricati alti massimo 24 metri, villini di due piani con annesso giardinetto, e “giardini” edificabili solo in minima parte e con costruzioni di lusso. L’area di Monteverde Vecchio rientrava tra le aree “a carattere residenziale”, e nella parte alta del colle iniziarono ad essere edificate case basse e villini eleganti che si affacciavano lungo viali alberati, in qualche modo ancora isolati dal resto della città, lontani dalla popolare Trastevere, dalle aree industriali, dagli impianti ferroviari. Ben presto però i villini si trasformarono in palazzine, i giardini vennero ridotti, i fabbricati ampliati. Neanche vent’anni
dopo sarebbero state costruite dal fascismo le case popolari al termine di via Donna Olimpia, i cosiddetti “grattacieli”, per ospitare la popolazione sfollata a forza in seguito ai massicci sventramenti del centro (quella di Trastevere e della "spina di Borgo", rasa al suolo per lasciar spazio a via della Conciliazione). Fino agli anni 50 le due anime del quartiere quella popolare e quella borghese - sarebbero rimaste in ogni caso distinte; ci penserà il boom edilizio degli anni 60 e 70 a omologarle con le sue brutture e i suoi abusi, a riempire tutti gli spazi disponibili: persino i grattacieli, che ai Ragazzi di vita di Pasolini (1955) ancora apparivano “grandi come catene di montagne”, non spiccano più isolati sullo sfondo di una vallata ma si confondono con le nuove costruzioni, si mimetizzano, si rimpiccioliscono, quasi. a
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REtRoVIsoRE PASSATO PRESENTE A SPASSO NEL VERDE Tra Storia e leggende VILLA DORIA PAMPHILJ Fra le ville più ampie e sfarzose di Roma, venne acquistata dalla famiglia di cui porta il nome nel 1630 e iniziò ad essere abbellita e arricchita non appena il cardinale Giovanni Battista Pamphilj salì al soglio pontificio con il nome di Innocenzo X. Una parte della villa venne lasciata ad usi agricoli, un’altra destinata a riserva di caccia, e una zona venne trasformata in parco con vegetazione apparentemente spontanea e lussureggianti giardini disposti secondo una complessa scenografia. Vennero poi fatte ricerche araldiche per dimostrare la discendenza della famiglia
Villa Doria Pamphilj, di M. Carpi
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da Pampilo, re dei Dori, dalla cui stirpe sarebbe nato il re Numa Pompilio (ma il nome della villa non ha nulla a che vedere con questo: il nome Doria si aggiunse nel 1760 quando l’ultima discendente, Anna Pamphilj, si unì a Giovanni Andrea Doria di Genova). Acquisita la fantasiosa genealogia, i Pamphilj acquistarono anche vigne e ville confinanti, edificarono l’edificio principale, il raffinato Casino delle Allegrezze - che doveva ospitare i grandi ricevimenti e quei Giardini di delizie circostanti il Palazzo nei quali si sarebbe intrattenuta la nobiltà romana.
LA PIMPACCIA Si narra che i giardini di villa Pamphilj siano infestati dal fantasma di una donna che nel cuore della notte, a bordo di una carrozza nera, si aggira con gran frastuono tra i sentieri e le fontane. Si tratta dell’inquieto corpo di Olimpia Maidalchini, ambiziosa ragazza di Viterbo che andò sposa a Pamphilo Pamphilj, fratello del futuro papa Innocenzo X. Morto il marito, Donna Olimpia divenne la consigliera del Papa, nonché padrona indiscussa della scena romana per almeno un decennio. Il popolo la odiava (o, più semplicemente, la invidiava): le venne affibbiato il nome di Pimpa, o Pimpaccia, e non le vennero risparmiate invettive appese alla statua di Pasquino, che guardacaso si trovava proprio alle spalle del mae-
stoso Palazzo Pamphilj a piazza Navona. Morto anche Innocenzo X, Donna Olimpia fece le valigie, le riempì di monete d’oro, e non si fece più rivedere a Roma. Inutili furono i tentativi di riportarla all’ovile (e di restituire il maltolto); papa Alessandro VII la fece esiliare, e due anni più tardi Donna Olimpia morì di peste. Da allora, nelle notti di tempesta, il suo fantasma ritorna nei luoghi in cui è vissuta: su un nero cocchio trainato da cavalli impazziti e guidato dal diavolo, la Pimpaccia attraversa Ponte Sisto, percorre via della Lungara, si inerpica verso San Pancrazio ed entra nella villa della sua famiglia: qui, mentre le splendenti monete d’oro tintinnano nel buio, i diavoli la trascinano via tra lingue di fuoco.
VILLA SCIARRA Ci si arriva risalendo via Dandolo: una svolta a sinistra, su via Calandrelli, ed eccolo lì, il cancello in ferro battuto che immette nel piccolo gioiello costituito dai sette ettari di Villa Sciarpa. La fontana che si trova proprio di fronte all’entrata, con il suo costante gorgoglio, ci ricorda le origini della villa, in età antichissima bosco sacro dedicato alla ninfa Furrina protettrice delle acque. Il piazzale d’ingresso prende nome da George Wurts, l’americano appassionato di giardini al quale si deve l'aspetto che ancora oggi ha la villa. Fu lui a volere che vi fossero piantate palme, grandi
cedri, rare piante esotiche accanto a cipressi e lauri, a siepi di sempreverdi potate con forme zoomorfe, fu lui che volle per la villa ricchezza di colori e contrasti. All’interno della villa si trovano fontane, la grande uccelliera voluta da Wurts per allevarvi pavoni bianchi, e la scenografica Esedra Arborea, una siepe di lauro disposta a semicerchio in cui sono state ricavate delle nicchie verdi che ospitano statue raffiguranti i dodici mesi dell’anno. Poco più oltre si trova il casino Barberini, l’edificio principale della villa ora sede dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. a
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tERGICRIstaLLo FOTO
SEGUI IL SENTIERO DORATO di Michela Carpi 8
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aUtostoP RACCONTO LA LUNA DI NOVEMBRE di Costanza Galanti
«Secondo te dove sarà la Luna, fra un po’?» La metà destra del viso del ragazzo è illuminata, mentre l'altra è in ombra.
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e sue braccia stese indicano una il Sole che tramonta alla sua destra, l'altra la Luna, davanti a lui, e insieme formano un angolo che traccia il percorso dei due astri nel cielo. Lui trema leggermente per il freddo mentre risponde «Non lo so, dai, basta». La ragazza strofina le mani sul grembiule, e ne porta una in alto, lasciando illuminare le goccioline rimaste sul dorso. Indica la Luna ancora sbiadita: «Io dico che da lì sale e arriva sopra il palazzo. Ma la gobba... non riesco ancora a capire con che logica si sposta la gobba col passare delle ore». Gli abitanti delle case popolari di Donna Olimpia rientrano numerosi varcando il grande portone e ignorando la coppia
Villa Sciarra, di M. Carpi
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che guarda verso il cielo. Tre volte lui fa per salutare qualcuno, ma sembra non essere riconosciuto, e tuffa allora la mano alzata fra i suoi riccioli puliti. Solo la mamma di lei, passando, gli risponde con un sorriso affettuoso e triste: è un piccolo punto di silenzio nel confuso vociare, lei che ha dismesso la voce da quando è arrivata. «È che a Borgo si nascondeva, illuminava certo ma non sapevo da dove. Poi quand'era buio pesto sì, dicevamo 'non c'è la luna', ma mica lo sapevamo prima, lo capivamo solo nel momento». «Adesso si vede anche...» «...mentre qua, è vera quanto i platani che inargenta, occupa uno spazio, e si muove come me e te».
Il ragazzo ha il viso stanco. Sposta il peso da una gamba all'altra, e si guarda i piedi. Il ragazzo ha il viso stanco. Sposta il peso da una gamba all'altra, e si guarda i piedi. «Ti sei sporcato le scarpe, a venire fino a qua. Se vieni su ti ci sfrego un po' di latte». No, fa lui con la testa, piegando finalmente il braccio sinistro, che era rimasto steso, per offrirlo a lei e incominciare a camminare. Allontanandosi per i prati, si lasciano dietro le risa, poi le urla, e alla fine solo l'abbaiare dei cani li raggiunge dai Grattacieli. Proseguono in salita, ma veloci, impiegando pochi minuti a raggiungere il muro, confine del giardino di un villino, dove è una buca coperta da una grossa pietra e da ciuffi d'erba. Lei si ferma e annuisce, indicando il cerchio fitto di ombre. Si siedono assorbendo l'umidità e l'odore delle erbacce di sera, respirando profondamente e a lungo. Come ricordandosi di un modo per rompere il silenzio, il ragazzo tira fuori dalla borsa una rivista con una donna in copertina avvolta in svolazzi liberty, insieme al nome scritto in corsivo, «Vita femminile». Lei alza il grembiule scoprendo la gonna a fiori, appoggia con cura la rivista fra le due gambe e incomincia a sfogliarla. Sulla pagina 29 indugia a lungo. «L'hai letto questo sui vicini? Bisogna conoscere i nuovi vicini? L'antico costume, sovra tutto meridionale, lo impone... Antico costume che dovrebbe completamente sparire, nelle grandi città... Posso strapparlo? Ehi?!» Il sì lontano di lui la sorprende, rimbomba ormai da cinque metri di profondità e rimbalza sull'acqua che allaga il
via Cantarelli, di T. Albanese
fondo e sulle pareti di arenaria incise da graffiti. «Ci capisci qualcosa?» «Non... vedo». Per scendere nelle catacombe ebraiche, servirebbe una candela. Il ragazzo sfiora le pareti gelide con i polpastrelli, quindi appoggia prima una mano, poi entrambe, e le struscia violentemente, avanti e indietro. «Ma... non è Ebraico, no. È scritto da... sinistra verso destra». Quando il ragazzo risale, la Luna è avanti a loro, alta. Lui è tutto bagnato dal ginocchio in giù. Ha lo sguardo tranquillo, ma ogni nodo del suo corpo trema, così che appare pieno di paura. a
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NaVIGatoRE MAPPA di Francesca Deodati
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sCUoLa GUIDa ITINERARIO MAGNIFICHE PRESENZE di Tiziana Albanese
“Com'era nuovo nel sole, Monteverde Vecchio”. Pier Paolo Pasolini dedicò questi versi al quartiere che per molti anni lo accolse. Li ritroviamo incisi in Via Carini 45, sulla targa commemorativa all'ingresso del palazzo in cui abitò dal 1959 al 1963.
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una domenica mattina di novembre. Abbandonati i vicoli colorati e chiassosi di Trastevere e superato il belvedere gianicolense, varchiamo la porta di San Pancrazio, accanto all'omonima Basilica, e davanti a noi si apre Monteverde Vecchio, con i suoi grandi viali alberati che costeggiano una serie villini di inizio Novecento, immersi nel silenzio e nei colori autunnali. Sullo sfondo, la vista di Villa Doria Pamphilj, il parco pubblico più grande della Capitale, e noi a pieni polmoni respiriamo un'aria leg-
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gera. Aria nuova, non sembra Roma. Come se le Mura Gianicolensi, poste intorno al quartiere per dividerlo dal Gianicolo, lo pongano invece al riparo dal caotico viavai dei turisti e del resto della città. Così ecco via Giacinto Carini, e più giù via Anton Giulio Barrili. A dividerle, Piazza Rosolino Pilo e la Chiesa di Santa Maria Regina Pacis. Si svolge qui la maggior parte della vita di Monteverde Vecchio; è qui che ha sede il Teatro Vascello, oggi guidato da Manuela Kustermann, direttrice artistica della compagnia La Fabbrica dell'Attore - Teatro Stabile d'Innovazione. Spiamo, curiosi, all'interno, scoprendo che la domenica il teatro è aperto per un'attività con i bambini del quartiere. Scambiamo quattro chiacchiere con i ragazzi al botteghino, e raccogliamo così delle notizie preziose. Primo, a via del Vascello c'è il Forno Beti, tra i più famosi di Roma. Toccherà farci un salto, considerando i commenti entusiasti. Secondo, qui hanno vissuto e vivono molti uomini di cultura e di spettacolo. Oltre al già citato Pasolini, ad esempio, a via Carini 45 viveva anche la famiglia Bertolucci, il poeta Attilio e i figli Giuseppe e Bernardo. E poi Gianni Rodari, Giorgio Caproni. E oggi? Oggi, ci dicono, sono ancora tanti, primo fra tutti Nanni Moretti. Se andiamo a prendere un
Chiesa di Santa Maria Regina Pacis, da Google
caffè alla Pasticceria "Dolci Desideri", una delle migliori del quartiere, magari lo incontriamo. Detto, fatto. Io adoro Moretti. La pasticceria è affollatissima e in effetti qualche volto noto si scorge, ma del mio regista non c'è traccia. In omaggio a Nanni, e attratti dalla bellissima vetrina, gustiamo una fetta di Sacher, che si dimostra all'altezza della fama del locale. E così ricominciamo la passeggiata, stavolta alla ricerca di luoghi famosi. Monteverde Vecchio, infatti, con le sue vie residenziali, tranquille e ricche di scorci indimenticabili, è un set naturale per registi italiani e stranieri. Seguendone le tracce, ci immergiamo nel verde e nel giallo del viale alberato di via Poerio, e mentre cerchiamo la villetta che compare nell'ultima fatica di Ferzan Ozpeteck Magnifica Presenza ci fermiamo ogni due minuti ad ammirare questo o quel palazzo degli anni Trenta, impossibile non innamorarsene. E io ripenso ad una delle scene più famose di una pellicola di Moretti, appunto:«Sarebbe bellissimo poter fare un film solo di case». Troviamo anche quella che cercavamo, bella tra
le belle. Riprendiamo la nostra camminata e arriviamo finalmente a Villa Sciarra, che separa Monterverde Vecchio da Trastevere. Un ultimo giro tra i giardini, in compagnia degli anziani sulle panchine e delle chiacchiere domenicali. Com'è nuovo nel sole, Monteverde Vecchio! a
porta di San Pancrazio, di T. Albanese
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aUtoRaDIo PLAYLIST
XYZMNPQRSTUV RADIO 4FRECCE
titolo: monteverde vecchio durata: 43 ‘57’’ on air: www.youtube.com/user/radio4frecce
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01 - loretta goggi - dirtelo non dirtelo (3 ‘ 37 ‘’)
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02 - black mountain - the hair song (4 ‘ 08 ‘’)
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03 - francesco de gregori - la donna cannone (4 ‘ 38 ‘’)
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04 - il teatro degli orrori - io cerco te (3 ‘ 39 ’’)
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05 - luca barbarossa - roma spogliata (3 ’ 44 ’’)
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06 - the cure - a forest (5 ’ 56 ’’)
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07 - giorgia - gocce di memoriai (4 ’ 08 ’’)
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08 - green river - this town (3 ’ 24 ’’)
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09 - old apparatus - derren (6 ’ 22 ’’)
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10 - alex britti - la vasca (4 ’ 21 ’’)
CULTURA FRIZIoNE MONTEVERDE D’AUTORE Pier Paolo Pasolini Ragazzi di vita «Dietro il Ponte Bianco non c'erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde»
Gianfranco Franchi Monteverde «Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento. Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato. Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto. Sono queste mani che dovresti mutilare»
Ferzan Ozpetek Magnifica presenza «La menzogna, alle volte, può essere convincente ma la realtà lo è molto di più. Qualcuno mi ha creduto, e questo è l'importante, perché quando si rimane chiusi là dentro, la realtà e l'immaginario si confondo. Ora ha smesso di piovere, e voglio soltanto trovare una panchina per sedermi, e aspettare che le nuvole vadano via»
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MaRMItta FUMETTO UN UOMO CURIOSO di Francesca Deodati
REVIsIoNE MEMORIE A CONFRONTO TERRA E TEMPI DI FRONTIERA di Umberto Cutolo
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quindici anni ero, in un certo qual modo, un ragazzo di frontiera. Era l'inizio degli anni Sessanta e mio padre aveva deciso di rientrare a Roma da Milano, dove la sua bronchite si era aggravata, senza che fosse riuscito a cogliere i primi benefici effetti di un boom del quale non ci eravamo accorti, soprattutto perché non ci aveva neppure sfiorati, e che per noi era soltanto un amaro prolungamento del Dopoguerra. A Roma andammo a vivere a casa di mia nonna, un po’ perché lei aveva bisogno di compagnia, un po’ perché noi avevamo bisogno di un’abitazione e l’amato centro storico («un buco», diceva mio padre, «ma in centro») era già troppo costoso per le nostre tasche. Dunque accettammo un ruolo cumulativo di badanti ante litteram e ci trasferimmo in un appartamento di Monteverde. «Con il centro è ben collegato», stabilì mia madre e il discorso finì lì. Mia nonna abitava a ponte Bianco (si vedono ancora, ma solo da una parte, i residui di un parapetto in travertino con blocchetti decorati da teste di leone), praticamente a metà della circonvallazione Gianicolense, nell’ampio slargo di piazzale Enrico Dunant, che segna il confine tra Monteverde Nuovo e Monteverde Vecchio. Di lì la strada che proviene da Trastevere si divide in tre direzioni. Sulla sinistra oggi c’è uno stradone che porta a una serie di alveari di cemento: una ventina di megablocchi da dieci piani per duecento metri, praticamente una città. Ma non s’illuda Celentano, non è come la sua via Gluck: in
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Umberto Cutolo
quei primi anni Sessanta, altro che verde; al posto dei palazzoni c’era il traliccio della Purfina da cui sfiatava di notte e di giorno gas infiammato, che ai miei occhi da adolescente non ancora ambientalmente corretti, assumeva connotati poetici e la notte spesso mi sedevo a gambe incrociate sul balconcino di casa per guardare, affascinato, quella fiamma lontana, alta e solitaria, gravida non di CO2, ma di sogni popolati da fate e da maghi. Andando diritti, la circonvallazione saliva verso l’ospedale di San Camillo e si apriva a Monteverde nuovo, quartiere neo residenziale sempre più popolare, dove le palazzine a tre-quattro piani stavano lentamente soppiantando l’antico tessuto di villette bi-trifamiliari con giardinetto, in una contraddizione urbanistica sempre più evidente man mano che si saliva, fino alla piazza San Giovanni di Dio, dove il confine estremo era segnato dalle “casermette”, una serie di bassi edifici di pietra grigia, abbandonati e già in rovina. Davanti a loro, il tram
della linea 13 seguiva il cerchio inciso a terra dalle rotaie e tornava indietro verso l’altro capolinea dell’Acqua Bullicante, al Prenestino. Prima dell’ampio giro tranviario, l’ultimo segno della civiltà era il cinema Delle Terrazze, trasformatosi negli anni successivi, prima in un supermercato, poi in un concessionario di automobili. Anche a destra si saliva (e si sale ancora), ma il viale ombroso, più stretto e discreto - anche perché privo di binari era la porta d’accesso a Monteverde Vecchio, dove superato sulla destra il viale dei Quattro Venti e la sovrastante piazza Rosolino Pilo, con slargo e chiesa di prammatica, ci si addentrava in un intrico di villette con giardino, nascoste dal loro stesso verde e dalla lontananza delle strade di scorrimento (allora peraltro neanche tanto intenso) e preservate dal passeggio grazie all’assenza di negozi, senza che ne venisse meno la comodità, essendo questi raccolti nella piazza tutt’intorno alla chiesa. In quei primi anni Sessanta ero un ragazzo di frontiera, che ogni pomeriggio sconfinava dal proprio quartiere, affascinato da quel viale in cui l’ombra dei platani segnava una sorta di porta temporale, introducendomi in un mondo diverso e sconosciuto: meno popolare, più
elegante, ma senza essere inavvicinabile. Anzi era lì a portata di mano e io mi ci immergevo con il pretesto di raggiungere i miei amici: Maurizio, Leonardo, Piero, Rodolfo… Il luogo d’incontro era un ex garage, diviso in quattro o cinque ampie sale, dove minorenni come noi si mescolavano ad adulti poco cresciuti alternandosi intorno a calciobalilla, biliardi, tavoli da pingpong, per sfidarsi in gare di abilità in cui il massimo supporto tecnologico era fornito dai flipper e dal loro odiato succedaneo: il tilt. Ma l’oggetto del mio desiderio era il biliardo a stecca, guardato con inavvicinabile ammirazione, dove Sergio volteggiava da un lato all’altro, si fermava a guardare gli angoli e gli allineamenti, si spostava a osservare l’insieme del tavolo, prendeva tempo per pensare, strofinando il gessetto azzurro sul girello e alla fine colpiva la biglia bianca, dandole effetti inimmaginabili, bocciando e imbucando, di calcio e di traversino, facendo filotto o abbattendo tutto il castello in una silenziosa, ma non meno tangibile, apoteosi che gli tributavo con i miei occhi spalancati. Il garage era insomma una sala giochi (ma questi locali noi li definivamo “bische”, per sentirci sfiorati dal brivido di
Mura Gianicolensi, di T. Albanese
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via Carini, di T. Albanese
un’illegalità che pochi anni dopo sarebbe stata molto più facile frequentare, sia pure in altri campi) ed era intitolata a un “certo” Piero Gobetti, che nessuno di noi aveva (ancora) sentito nominare. Tant’è che parlando, ci si dava appuntamento “ar Gobbetti”, quasi presumendo un titolare dalla natura infelice (anche se mi chiedevo spesso perché non dire “gobbetto”, al singolare, o se gli sfortunati titolari non fossero due o addirittura un’intera famiglia). Altri luoghi di ritrovo erano quegli allora già pochi spazi non ancora edificati o asfaltati, che con pochi oggetti raccogliticci (qualche pietra un po’ più grossa, un paio di segnali stradali mobili) e con molta fantasia, trasformavamo in un campo di calcio, improvvisando velenosissime partite tre contro tre. Ce n’erano due, soprattutto: uno proprio in fondo a viale dei Quattro Venti, dove oggi c’è un parcheggio e una rotatoria; un altro, con tanto di erba, era un’aiolone a ridosso delle mura che circondano villa Sciarra, dove avevamo stabilito la consuetudine di andare a fare la nostra partitella, all’alba di Capodanno, dopo una notte di
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San Silvestro passata a giocare a tressette, con il condimento di salaci sfottò e vigorose arrabbiature, a casa del più ospitale (e abbiente) del nostro gruppo di amici. Poi scoprimmo un vero campo di calcio, di dimensioni regolari e con tanto di porte (sia pure senza la rete) in quella parte di Monteverde Vecchio che si affaccia su villa Pamphilij. Scendendo da porta San Pancrazio (dove andavamo a giocare a tennis, o meglio ci agitavamo con delle racchette nel tentativo spesso vano di colpire la palla) ci si avventurava verso Via Vitellia fin a raggiungere i vasti confini di Villa Abamelek, sede di rappresentanza dell’ambasciata sovietica. Alla villa successiva si poteva accedere attraverso un lungo viale che dava sulla strada con un cancello sempre aperto. Non ricordo più chi ci aveva dato la “dritta”, ma superando quel cancello, pochi metri dentro il vialetto, sulla sinistra, c’era una parete d’edera che si scalava con poca fatica. Scavalcato il muretto ci si trovava davanti un campo di calcio abbandonato, ma in piena regola, dove ce la spassavamo, alla faccia
MEMORIE A CONFRONTO REVIsIoNE della polizia segreta sovietica che - ne eravamo sicuri - ci osservava impotente da dietro gli ampi finestroni della sontuosa residenza. Dietro l’ironia c’erano i primi, stentati abbozzi di una dimensione politica che ci aveva raggiunto per sentito dire, i primi sintomi di una “scienza” che non era ancora diventata quella coscienza che negli anni successivi avrebbe colpito la nostra generazione, cancellando in un sol colpo biliardi e biliardini, tressette e ping-pong, per sostituirli con dibattiti e manifestazioni, cortei e occupazioni. Perché è vero che ero un ragazzo di frontiera - e tale mi sentivo - ogni volta che imboccavo il viale che mi portava da Monteverde Nuovo a Monteverde Vecchio. Quel che non sapevo - o ancora non capivo - era che quella frontiera che stavo varcando non era geografica (o, più modestamente, topografica), ma si trattava di un confine temporale e culturale che stavo superando senza rendermene conto e che sarebbe sfociato pochi anni dopo, per me e per la maggior parte della mia generazione, in quel Sessantotto che, da qualunque parte lo si voglia vedere, resta uno dei pochi anni che, nel corso dei secoli, sia riuscito a dare il suo nome ad una fase storica.
Qualche anno dopo mi capitò di passare in viale dei Quattro Venti, davanti “ar Gobetti”. Era diventato un circolo culturale nel quale si tenevano conferenze, si svolgevano riunioni, si presentavano libri. Un’attività certamente più appropriata al nome del grande pensatore torinese e testimonianza tangibile di quel percorso comune che anche io e i miei amici avevamo compiuto in quegli anni. Ma, al momento di occuparsi di attività più consone al personaggio a cui era intitolato, il gestore del locale ne aveva cambiato il nome: da “Circolo Gobetti” a “Circolo 84”, mutuando - e sostituendolo al nome del pensatore torinese - il numero civico del garage. Un dissenso dei nuovi gestori con il pensiero liberale? Il desiderio di scegliere un profilo meno vincolante, per attirare più proseliti? La voglia di modernizzare, uscendo fuori da schemi ritenuti ormai superati? Un’anticipazione del riflusso che segnò gli anni successivi al Sessantotto? Chissà. Forse era un circolo di frontiera. Perché il bello della frontiera (anche di quella tra Monteverde Nuovo e Monteverde Vecchio) è che una volta che è stata spesso faticosamente varcata, all’orizzonte se ne manifesta immediatamente un’altra che prima era assolutamente invisibile da raggiungere e oltrepassare. a
RINGRAZIAMENTI La Redazione di 4frecce ringrazia tutti coloro che con segnalazioni, ricordi, racconti, hanno reso possibile la realizzazione di questo numero. Un grazie particolare va a Umberto Cutolo, direttore responsabile della rivista Settestrade e infaticabile consigliere; ringraziamo poi Costanza Galanti, studentessa di Antropologia, amante di biblioteche e di boschi, Tiziana Albanese, organizzatrice di laboratori di lettura e officine letterarie (piccolimaestri.wordpress.com e www.bombacarta.com), e infine Dea (Francesca Deodati), fumettista ventottenne già direttrice della School Comix Aprilia.
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LUNOTTO «Vieni qui a Monteverde/ dove noi fummo soli/ soli, mentre si perde/ Marte dietro il tetto/ segnale d’andare a letto» (Giorgio Caproni)
via Ugo Bassi, di M. Carpi