Tutti casa e lavoro. La manifattura a domicilio nella Firenze del Rinascimento

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FRANCO FRANCESCHI

Tutti casa e lavoro. La manifattura a domicilio nella Firenze del Rinascimento La Firenze rinascimentale era una delle capitali dell’economia mondiale e fra le città più ricche e sviluppate dell’Occidente. I fondamenti di questa prosperità risiedevano non soltanto nei successi del commercio e della banca, ma anche nell’importanza delle sue manifatture. Forte di una consolidata tradizione nella realizzazione dei panni di lana di ottima qualità, caratterizzata da una produzione non secondaria di stoffe di lino, arricchita a partire dal primo Quattrocento dallo sviluppo di una dinamica industria dei drappi di seta, la città toscana deteneva una quota rilevante del mercato internazionale dei tessuti. Decine di botteghe di lanaioli e di setaioli, cui si aggiungevano quelle dei linaioli e dei battilori (in cui si otteneva il prezioso filo destinato alla realizzazione dei drappi auroserici), punteggiavano soprattutto l’area centrale della città e il quartiere di Santo Spirito. Gestite dai mercanti- imprenditori, esse costituivano altrettanti poli organizzativi e direzionali intorno ai quali prendeva forma quella che gli studiosi hanno definito come ‘manifattura disseminata’ o ‘decentrata’, un sistema di produzione complesso, che coinvolgeva nelle sue diverse fasi centinaia di artigiani con i loro laboratori cittadini ma anche migliaia di lavoratori a domicilio dispersi sia all’interno che all’esterno delle mura urbane. E proprio a questo lavoro svolto nel chiuso delle abitazioni, ma capace di materializzarsi in prodotti di altissimo pregio destinati all’esportazione, sono dedicate queste pagine. Di quali case stiamo parlando? Nella propria abitazione, secondo le fonti fiorentine, lavoravano filatori, orditori e tessitori di lana, incannatori, orditori e talvolta torcitori e tessitori di seta, filatori d’oro per i drappi auroserici, orditori e tessitori di lino: un insieme socialmente variegato, ma, salvo rare eccezioni, fatto di uomini e soprattutto di donne la cui esistenza si svolgeva in un contesto materiale assai diverso da quello dei ceti agiati, si trattasse dei membri dell’élite economica e politica o della media borghesia delle Arti e delle professioni. Ciò vale innanzitutto proprio per la casa, e questo ci impone di mettere subito da parte le immagini degli interni delle dimore patrizie che talvolta fanno da sfondo ai lavori di cucito e di ricamo delle giovani di buona famiglia, magari rappresentate nelle storie della Vergine o uscite dalle pagine di un libro di Ricordi: «Feci la via di casa il Rosso di Piero» – scrive nel 1477 Bernardo Machiavelli a proposito del suo confinante Del Rosso – «e domandai di lui e non ve lo trovai. Trovai la donna sua


monna Agnola drento all'uscio che cuciva e con lei era la Ginevra sua figliuola che similmente cuciva...»1. A questi livelli della gerarchia sociale l’abitazione doveva essere qualcosa di radicalmente diverso da quello che siamo abituati a immaginare. Per molti, i meno dotati di mezzi finanziari o semplicemente i più giovani, i single, gli immigrati, era poco più di un riparo e di un letto, e per il soddisfacimento di questi bisogni elementari poteva bastare uno spazio da dividere con qualche compagno o con il proprio ‘maestro’, l’uso di un locale presso una famiglia provvista di una casa più grande, nella migliore delle ipotesi lo stretto piano di un edificio. Una soluzione praticata era anche la locazione di stanze ammobiliate, che però implicava un sovrapprezzo per le ‘masserizie’. In alternativa vi era sempre la possibilità di acquistare oggetti usati, tutti facilmente reperibili presso i rigattieri cittadini; per non parlare del caso, frequente soprattutto fra i lavoratori forestieri, in cui erano gli stessi imprenditori tessili a concedere in uso, insieme agli strumenti di lavoro, i complementi indispensabili dell’abitazione 2 . A giudicare dalla documentazione tardo-trecentesca e quattrocentesca prodotta dall’Arte della Lana fiorentina, per esempio, erano assai numerosi i tessitori provenienti dalla Germania, dalle Fiandre, dal Brabante cui i lanaioli cittadini mettevano a disposizione un telaio, il letto, una tavola, una panca, l’occorrente per cucinare3. Esigenze di una maggiore stabilità e disponibilità di spazio sorgevano per le famiglie, ma è dubbio che, soprattutto in rapporto al secondo aspetto, riuscissero pienamente soddisfatte. Il fatto che i lavoratori a domicilio dell’industria tessile vivessero prevalentemente nelle aree cittadine in cui più basso era il livello degli affitti (via dei Pentolini, via dei Pilastri, via San Gilio, branca dei Pinti nel quartiere di San Giovanni; via San Benedetto, via del Fiore, via San Salvatore, via San Giovanni a Santo Spirito) 4 ; lo stesso ammontare di queste pigioni 5 ; i rilievi degli storici dell’urbanistica e dell’architettura, che parlano di «unità minime d’abitazione» 6 ; espressioni quali «piccola casa», «casellina», domus parva, domuncula7: tutti questi elementi convergono nel far ritenere che gli alloggi di questi lavoratori si presentassero spesso come ambienti di dimensioni ridotte e soprattutto privi di 1

B. MACHIAVELLI, Libro di Ricordi, a cura di C. Olschki, Firenze, Le Monnier, 1954, pp. 57-58. Per tutto ciò cfr. F. FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”. I lavoratori fiorentini dell'Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 1993, pp. 286-287. 3 ID., I tedeschi e l'Arte della Lana a Firenze fra Tre e Quattrocento, in Dentro la città. Stranieri e realtà urbane nell'Europa dei secoli XII-XVI, a cura di G. Rossetti, seconda edizione riveduta e ampliata, Napoli, Liguori, 1999, pp. 277300. 4 B. DINI, I lavoratori dell'Arte della lana a Firenze nel XIV e XV secolo, ora in ID., Manifattura, commercio e banca nella Firenze medievale, Firenze, Nardini, 2001, pp. 141-171: p. 162. 5 Un esame dei canoni pagati dai lavoratori lanieri nel quartiere di Santo Spirito mostra che nell'80% dei casi la cifra annuale versata non superava i 5 fiorini: ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE [d’ora in avanti ASF], Catasto, 64-67 (1427). 6 G. FANELLI, Firenze architettura e città, 2 voll., Firenze, Vallecchi, 1973, II, p. 580: l’espressione viene impiegata in relazione alle case che il monastero camaldolese di San Salvatore possedeva nell’Oltrarno, e segnatamente nella zona dove la presenza dei lavoratori lanieri era più forte. 7 Cfr. A. SCHIAPARELLI, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, 2 voll., nuova ed. a cura di M. Gregori, Firenze, Le Lettere, 1983, p. 8; CH.-M. DE LA RONCIÈRE, Prix et salaires à Florence au XIVe siècle (1280-1380), Rome, Ecole Française de Rome, 1982, nota 29, p. 390; ed inoltre ASF, Arte della Lana, 416, c. 97v (1402). 2


una sviluppata articolazione interna. In effetti, per il poco che sappiamo delle case dei meno abbienti, la tipologia più comune era quella di cellule abitative bilocali, composte cioè di sala e camera, ubicate a terreno o all’ultimo piano, normalmente confinanti ma talvolta sovrapposte e legate dalla scala comune dell’immobile8. In questo quadro l’appartamento situato in via Guelfa e preso in affitto nel 1393 dal tessitore di panni Giuliano di Giovanni – «una casa [...] con corte, orto e palchi» – doveva rappresentare una sistemazione più che dignitosa9, e lo stesso vale per l’abitazione locata nel 1416 da un altro tessitore, Arrigo di Arrigo di Brabante, composta da «corte, pozzo, palchi e camere»10. Non dobbiamo, in ogni caso, sottovalutare gli elementi di differenziazione che esistevano in questo panorama, elementi connessi alle disponibilità economiche dei singoli e alle differenze di status socio-professionale fra i diversi gruppi che componevano la galassia dei lavoratori a domicilio. Del resto anche un architetto e trattatista come Sebastiano Serlio distingueva nel libro VI della sua Architettura civile, pur etichettandole tutte come «mezze case», le «casipp(o)le di poveri artefici abitabili a terreno» da «altre che si abita dissopra per artefici alquanto più accommodati»11. Tornando a Firenze, grazie ai dati forniti dal Catasto del 1427 è possibile osservare, per esempio, come il canone medio delle abitazioni prese in affitto dai tessitori di panni di lana residenti nel quartiere di Santo Spirito fosse sensibilmente più basso di quello delle dimore dei tessitori di drappi di seta: nel primo caso oltre il 70% dei valori non superava i 5 fiorini annui e non vi erano canoni superiori a 7 fiorini (cifra corrispondente, secondo il sistema di stima degli Ufficiali del Catasto, a un valore dell’immobile di 100 fiorini); nel secondo i canoni compresi entro i 5 fiorini annui erano solo il 40% ed una percentuale quasi analoga era costituita da importi superiori a 7 fiorini e fino a 1812. Naturalmente sul livello degli affitti incidevano, oltre all’ampiezza degli alloggi, fattori come l’ubicazione, lo stato di conservazione, la presenza di strutture di servizio, ma è comunque significativo che i tessitori di drappi potessero permettersi di vivere in case più costose e quasi certamente più grandi. Questo, peraltro, rispondeva anche a precise necessità. Pur in presenza di una diffusa proprietà dello strumento di lavoro in ambedue i gruppi, la gran parte dei tessitori di lana non era in grado di mettere in opera che un telaio, cosicché l’‘azienda’ restava sostanzialmente limitata ai componenti della famiglia; i tessitori di seta, al contrario, facevano registrare come condizione prevalente il possesso individuale di più di uno strumento e fra di loro era addirittura identificabile un’élite di maestri titolari di piccole manifatture dove erano in attività fino a sei o sette telai, con il conseguente impiego di un 8

F. SZNURA, L'abitazione privata nel quadro dell’edilizia minore fiorentina: limiti ed esperienze (XIII-XV secolo), «Ricerche storiche», XVI, 1986, pp. 459-472: p. 461; CH.-M. DE LA RONCIÈRE, La vie privée des notables toscans au seuil de la Renaissance, in Histoire de la vie privée, sous la direction de Ph. Ariès et de G. Duby, II, De l'Europe fèodale à la Renaissance, Paris, Seuil, 1985, pp. 162-309 [trad it., Roma-Bari, Laterza, 1987] p. 179. 9 ASF, Arte della Lana, 95, c. 29r. 10 ASF, Arte della Lana, 145, c, 117v. 11 S. SERLIO, Architettura civile. Libro sesto settimo e ottavo nei manoscritti di Monaco e Vienna, a cura di F. P. Fiore, Premesse e note di T. Carunchio e F. P. Fiore, Milano, Il Polifilo, 1994, lib. VI, p. 123. 12 ASF, Catasto, 64-67.


buon numero di dipendenti13. E’ ovvio che in questi casi le esigenze della produzione si facevano sentire condizionando l’acquisizione degli spazi di lavoro. Così i 16 fiorini che il tessitore di drappi Francesco di Rustico pagava ogni anno per l’affitto della sua casa trovano una spiegazione anche nel fatto che questa doveva ospitare 5 telai14. La crescita della dimensione dell’impresa di tessitura portava alcuni a sperimentare soluzioni diverse, come quella – radicale – di separare abitazione e laboratorio: Antonio di Benedetto di Butino, per esempio, dichiara di possedere una casa «a mio uso» e di tenerne in affitto un’altra «dove io abito»15. Nel tardo Quattrocento e nel primo Cinquecento questa tendenza si accentuò e non è affatto raro incontrare tessitori di drappi – come lo Jacopo di Tedesco studiato da Richard Goldthwaite sulla base dei libri contabili che ci ha lasciato – operanti in vere e proprie botteghe.16 Ma in questo caso si tratta di personaggi che escono dal nostro campo di osservazione. Sbirciando negli interni Nel 1427, nella sua dichiarazione al Catasto, il tessitore di lana Giovanni di Antonio Dini descrive sinteticamente i suoi beni: […] Una choltricie chon due pimacci, di valuta di fiorini 4. Uno chopertoio e due paia di lenzuola, di fiorini 3. Una letiera cho’ una chasapancha ed uno panchone, di fiorini 3. Tre panche e una chassa e forziere, di fiorini 2. Una madia e una bighoncia da farina, fiorini 1, lire 1. Una tavola cho’ trespoli e quattro descheti, fiorini 1. Uno telaio da pani lani fornito, fiorini 2. Quattro conche di tera, lire 2. Una chatena e uno paiuolo e una padella e uno trepie’ e altre chose minute, fiorini 3. Una ciopa monachina e una ghamurra da donna, fiorini 10. Due ciope isbiadate e due mantella da uomo, fiorini 1417. Si tratta di un elenco non molto dissimile da quelli che, a decine, s’incontrano negli atti relativi ai sequestri di beni per debiti ordinati dal tribunale dell’Arte della Lana di Firenze nel tardo Trecento e per tutto il Quattrocento o a qualche contratto di commodatum e noleggio di oggetti come quello di cui beneficiò nel 1389 la filatrice Benedetta per mettere su casa18. Fonti parziali ma preziose, perché in qualche misura sostitutive degli inventari di beni post-mortem contenuti nella celebre serie archivistica dei Pupilli, i cui materiali riguardano, nella stragrande maggioranza dei casi, individui appartenenti ai ceti medio-alti. Sulla base di questa documentazione la fisionomia della casa abitata dai lavoratori a 13

Cfr. FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., pp. 74-76 e 180-181; F. EDLER DE ROOVER, L’arte della seta a Firenze nei secoli XIV e XV, a cura di S. Tognetti, Firenze, Olschki, 1999, pp. 55-56. 14 ASF, Catasto, 65, c. 324r-v (1427). 15 ASF, Catasto, 67, c. 164r (1427). 16 R. A. GOLDTHWAITE, An Entrepreneurial Silk Weaver in Renaissance Florence, «I Tatti Studies», 10, 2005, pp. 69-126. 17 Il documento è riportato in E. CONTI, A. GUIDOTTI, R. LUNARDI, La civiltà fiorentina del Quattrocento, a cura di L. De Angelis, S. Raveggi, C. Piovanelli, P. Pirillo, F. Sznura, Firenze, Vallecchi, 1993, p. 56. 18 ASF, Arte della Lana, 83, c. 32r.


domicilio risulta segnata dalla presenza di due mobili indispensabili, che definivano i corrispondenti ambiti funzionali: la madia e il letto. La diffusa presenza della madia, il mobile che è stato visto come la tangibile rappresentazione dell’importanza del pane nell’alimentazione dei toscani di quest’epoca19, è un tratto che apparentava gli interni cittadini più dimessi con le abitazioni dei contadini, ma non è il solo: negli uni come nelle altre la stanza impiegata come cucina, se si eccettua questo strumento fondamentale per la preparazione e la conservazione del pane, era tutta nella panca situata davanti al fuoco, nella tavola rettangolare che essa imponeva, e naturalmente nel fuoco, l’unica sorgente di calore e il solo mezzo di cottura dei cibi. L’immagine che a questa risorsa primaria si associa – quella della catena di ferro che regge il paiolo, del treppiede sormontato da una secchia, una teglia, una padella di rame – restituisce la dimensione di un mondo dalle abitudini alimentari circoscritte a quanto poteva essere facilmente bollito, fritto o arrostito, eventualmente con l’aiuto di una graticola e di uno spiedo20: dunque farina e farinacei, legumi, uova e, quando era possibile, carne21. L’altro reparto fondamentale dell’abitazione si raccoglieva intorno al letto. L’importanza di questo mobile non si evince soltanto dalla sua universale diffusione: anche la struttura e le dimensioni ne costituiscono un indizio. Esso compare infatti normalmente composto da tutti i suoi principali elementi: il telaio di legno (la ‘lettiera’), la materassa sostituita e talvolta integrata dal saccone, le lenzuola, la ‘coltrice’ di lana o di piume, le coperte immancabilmente descritte nel loro disegno (‘a giglietti’, ‘giallo e azzurro’, ‘a spinapesce’, ‘a castellucci’), le diverse specie di guanciali solo occasionalmente provvisti di federe. La larghezza del letto, difficilmente inferiore a due metri e trentadue metri e sessanta, non è forse del tutto spiegabile con la necessità di ospitare più persone: un letto più ampio e meglio accessoriato era plausibilmente uno dei canali attraverso i quali si manifestavano i connotati di un comfort elementare22. A motivo di queste sue caratteristiche era sicuramente uno degli elementi più costosi dell’arredamento: nell’elenco di beni che abbiamo appena citato gli si attribuisce un valore complessivo di 10 fiorini contro gli appena 2 del telaio! Benedetta, sebbene lo abbia acquistato dal rigattiere, lo ha pagato 11 fiorini23 (ossia l’equivalente di circa sei mesi di lavoro di una 19

M. S. MAZZI, S. RAVEGGI, Gli uomini e le cose nelle campagne fiorentine del Quattrocento, Firenze, Olschki, 1983, p. 225. 20 Per tutti i riferimenti cfr. FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., pp. 290-291. 21 Che il ruolo di quest’ultimo alimento nella dieta dei lavoratori, sebbene subordinato all’importanza del pane e del vino, non fosse affatto marginale, lo si può desumere da molti indizi, ben sottolineati dalle ricerche di Giuliano Pinto e di Charles Marie de La Roncière (G. PINTO, I livelli vita dei salariati cittadini nel periodo successivo al Tumulto dei Ciompi (13801430), in Il Tumulto dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina ed europea, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 161-198: p. 168; ID., Il personale, le balie e i salariati dell’ospedale di San Gallo di Firenze negli anni 1395-1406. Note per la storia del salariato nelle città medievali, «Ricerche storiche», IV, 1974, pp. 113-168: pp. 143 ss.; Ch.-M. DE LA RONCIÈRE, Prix et salaires à Florence au XIVe siècle (1280-1380), Rome, Ecole Française de Rome, 1982, pp. 387-388). A questi vorrei aggiungere una testimonianza diretta: quella di un fattore di lana che all’inizio della settimana acquistava a credito la carne per alcuni lavoratori della bottega, carne che questi inviavano quotidianamente a cucinare nelle proprie abitazioni (ASF, Arte della Lana, 418, c. 128v: 1413). 22 FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., pp. 293-294. 23 ASF, Arte della Lana, 83, c. 32r (1389).


filatrice24 o di un’ottantina di giornate di lavoro di un ben pagato operaio della bottega di lana)25; e anche in questo caso colpisce la sproporzione con il prezzo dei suoi strumenti di lavoro – filatoio più arcolaio – costati appena 1 lira, ovvero 0,27 fiorini... Si traducesse o meno in una camera fisicamente separata, l’arredamento dello spazio dedicato al riposo, che negli inventari delle dimore patrizie fiorentine troviamo arricchito anche da due o tre centinaia di oggetti26, era qui quasi sempre completato dalla presenza di alcuni semplici contenitori lignei tra i quali spiccavano la cassapanca a due scomparti e l’anonima ‘cassa’ nelle sue diverse gradazioni: insieme a qualche forziere o ‘forzierino’, essi offrivano riparo ai vestiti, alla biancheria da letto, personale e da cucina. Ancora un particolare: anche dove non è menzionata esplicitamente s’indovina l’immagine dipinta della Vergine27, versione domestica delle madonne miracolose della Santissima Annunziata, di Orsanmichele, dell’Impruneta, alle quali era attribuito il potere di proteggere la città e i suoi abitanti da tutti i pericoli più grandi. Un’attività poco invasiva Le difficoltà di ricostruire un’immagine sintetica delle abitazioni dei lavoratori tessili fiorentini sono poca cosa rispetto a quelle che dobbiamo affrontare per ricomporre frammenti di vita domestica significativi nella prospettiva che qui ci interessa. Partiamo da un dato che mi sembra difficilmente contestabile: le concrete modalità di adattamento fra funzioni produttive e funzioni abitative non dipendevano solo dalla conformazione degli spazi disponibili, ma anche dalle caratteristiche tecniche e organizzative del lavoro che vi si conduceva. Naturalmente non è possibile esaminare, sotto questo duplice punto di vista, tutte le diverse attività svolte a domicilio, e dunque mi limiterò a qualche esemplificazione. La prima di queste riguarda la filatura della lana, indubbiamente una delle occupazioni più diffuse, almeno fra le donne che lavoravano in casa. Si trattava di un’attività che utilizzava strumenti piuttosto semplici e di basso costo, che potevano trovare posto con relativa facilità in un angolo della stanza, accanto al mobilio dell’abitazione: e questo valeva sia per i tradizionali rocca e fuso destinati alla filatura delle fibre lunghe, sia per il più innovativo filatoio a ruota riservato al trattamento della lana corta, sia per attrezzature complementari quali l’annaspatoio necessario alla preparazione delle matasse28. Anche il fatto che la filatura richiedesse una scarsa specializzazione e non determinasse un affaticamento eccessivo la rendeva compatibile con i ritmi della vita domestica facendone 24

Per questo cfr. FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., p. 189, nota 176. 41 lire, o meglio 820 soldi, equivalgono infatti ad un guadagno giornaliero di 10 soldi moltiplicato per 82 giornate. 26 LA RONCIÈRE, La vie privée des notables, cit., p. 191. 27 FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., p. 300. 28 Ivi, pp. 71-72; F. MELIS, Aspetti della vita economica medievale. Studi nell’Archivio Datini di Prato, I, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1962, p. 466. 25


un’occupazione tipicamente familiare, quasi impermeabile all’apporto di esterni e solitamente integrativa. Così la filatrice era in primo luogo la moglie che ritoccava con la propria opera il reddito proveniente dal lavoro del marito, magari approfittando – come la protagonista di una novella di Franco Sacchetti – della tranquillità della notte inoltrata e delle primissime ore del mattino29. Ma era anche la Simona ritratta da Giovanni Boccaccio, «di povero padre figliuola», cui toccava guadagnare «con le proprie braccia il pan che mangiar volea»30. O ancora la donna sola, nubile o vedova, per la quale le commesse dei lanaioli rappresentavano l’unica fonte di sostentamento («mi bisogna tutta notte a filare a filatoio se io voglio mangiare, e non ho niente», si legge in una dichiarazione fiscale senese del 1453)31. La donna capofamiglia, infine, cui incombeva attraverso la filatura e le altre attività saltuarie che era in grado di esercitare il mantenimento della prole: di essa abbiamo, grazie alle deposizioni in un processo del 1408, un fugace ritratto in monna Silvestra, vedova e madre di un figlio «deviato e vagabondo», costretta per vivere «a filare, lavare, assistere le partorienti e fare altri servizi»32. Ma torniamo al Trecentonovelle, che presenta per il nostro discorso più di un motivo di interesse. «Ogni notte di verno» la filatrice descritta da Franco Sacchetti «si levava in sul mattutino a vegliare e filare lo stame a filatoio». La sua postazione di lavoro era situata presso il focolare, lungo la fragile parete fatta di mattoni posti ‘per ritto’ che separava l’alloggio da quello del suo vicino, il pittore Buonamico. Il ronzio dello strumento non disturbava così il marito, operaio in una bottega tessile, che evidentemente dormiva in una camera posta a una certa distanza, ma teneva sveglio l’artista, il cui letto si trovava dall’altra parte del muro divisorio e che oltre tutto aveva ritmi di lavoro opposti rispetto a quelli della donna, dipingendo fino a tardi. Solo sul fare del giorno egli poteva assopirsi, perché la filatrice sospendeva la sua attività per dedicarsi alle faccende domestiche: «spezzare con il coltellaccio alcuno pezzo di legne», «accender il fuoco», «trovare la pentola», «mettere la carne in molle»33. Questa organizzazione del tempo del lavoro domestico, tipica di chi apparentemente svolgeva la sua attività senza l’aiuto di altri membri della famiglia, non doveva però essere l’unica possibile. Anche a prescindere da testimonianze come quella del Piovano Arlotto, che racconta come «le nostre donne fiorentine d’estate se ne stiano, per il caldo, il giorno dopo desinare, nelle corti e nei giardinetti, il più delle volte intente nelle loro occupazioni, come filare e cucire [...] quasi fino all’ora di cena»34, qualche

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F. SACCHETTI, Il Trecentonovelle, a cura di A. Lanza, Firenze, Sansoni, 1984, nov. 192, pp. 438-442. G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1980, giorn. IV, nov. 7, pp. 546-553, citazione alle pp. 547-448. 31 Cit. in G. CATONI, G. PICCINNI, Famiglie e redditi nella Lira senese del 1453, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell'Italia medievale, Atti del Convegno internazionale, a cura di R. Comba, G. Piccinni, G. Pinto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, pp. 291-304: p. 301. 32 ASF, Arte della Lana, 417, c. 71r (1408). 33 SACCHETTI, Il Trecentonovelle, cit., nov. 192, pp. 438 e 440. 34 Facezie, motti e burle del piovano Arlotto, a cura di C. Amerighi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1980, pp. 138139. 30


spunto documentario ci consegna l’immagine di due e anche di tre sorelle che filano, o – come nella casa di un tale Antonio Del Volpe – della madre, delle due figlie e della nuora insieme alla rocca35. La ‘bottega’ in casa. Gli strumenti Rispetto alla filatura della lana attività come quelle svolte dai tessitori di panni e di drappi e ancor più dai torcitori di seta, nei casi in cui questi ultimi operavano a casa, implicavano una ridefinizione degli spazi molto più traumatica per la vita della famiglia. I telai da lana, che a quest’epoca erano ormai del tipo ‘largo’, azionato da due persone, si presentavano come strumenti di una certa complessità, nei quali la struttura-base veniva completata da una serie di importanti accessori: il ‘subbio’ (il cilindro orizzontale posto sul retro del congegno e sul quale si avvolgeva l’ordito), lo speciale filatoio per confezionare i ‘cannelli’ che entravano nelle spole, le stesse spole e soprattutto i pettini, dalla cui conformazione e lunghezza venivano a dipendere quelle del panno da tessere36. A differenza dei telai dai quali uscivano le stoffe di lana, abbastanza standardizzati, quelli da seta presentavano sensibili differenze, direttamente legate alle tipologie dei tessuti serici prodotti, e ben esemplificate dai loro prezzi. Ai gradini più bassi della scala merceologica si collocavano i tessuti dalle armature più semplici e monocromi, ovvero, in ordine di pregio crescente: i taffettà, i rasi, i velluti piani; in una posizione intermedia stazionavano i damaschi, il cui valore veniva elevato dal disegno e dalla tecnica della lavorazione; nelle caselle più alte troviamo la vasta gamma dei velluti e degli zetani vellutati ‘operati’ (ovvero arricchiti di ‘opere’, decorati con disegni), impreziositi dall’introduzione di fili d’argento o d’oro. Corrispondentemente, se nei decenni centrali del Quattrocento i telai per i taffettà, i rasi e i velluti semplici non costavano più di 6-8 fiorini, prezzi molto diversi erano invece consueti per i telai detti ‘al tiro’, dai quali uscivano i drappi di qualità superiore: quelli per i damaschi richiedevano normalmente un investimento di 25 fiorini, quelli per gli zetani vellutati costavano fra i 25 e 30 fiorini, quelli per tessuti a figure potevano raggiungere i 35 37 . Nel telaio al tiro, una rappresentazione realistica del quale è stata identificata qualche anno fa in tre opere dell’artista fiorentino Apollonio di Giovanni38, il fondo del tessuto veniva realizzato dal maestro tessitore che alzava gruppi di fili dell’ordito premendo i pedali del telaio in una sequenza particolare e lanciando con la navetta le trame di base attraverso il varco prodotto dall’innalzamento dell’ordito stesso. Il disegno veniva invece prodotto con l’aiuto di un assistente che tirava una serie di corde corrispondenti ai contorni del modello da riprodurre, facendo sì che certi fili venissero alzati o abbassati; un compito per quanti, già abbastanza maturi da capire il principio che regolava il funzionamento del meccanismo, 35

MELIS, Aspetti, cit., p. 527. Ivi, pp. 467-468; FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., pp. 72-73. 37 EDLER DE ROOVER, L'arte della seta a Firenze, cit., p. 55. 38 S. DESROSIERS, Trois représentations d’un métier à la tire florentin du XVe siècle, «Bulletin de Liaison du Centre International d'Etude des Textiles Anciens», 71, 1993, pp. 36-47. 36


erano al tempo stesso sufficientemente agili e leggeri da poter rimanere a lungo appollaiati sulla sommità del telaio39 : quei ‘fanciulli’ di cui parla il quattrocentesco Trattato dell’Arte della seta fiorentino e alla cui distrazione imputa alcune caratteristiche imperfezioni che potevano riscontrarsi nei tessuti operati40. A prescindere dai suoi differenti modelli il telaio era un congegno ingombrante, che necessitava di una superficie d’appoggio perfettamente piana, senz’altro più rumoroso degli strumenti per la filatura: a questo proposito basti pensare che a Pavia, alla metà del Cinquecento, gli studenti che abitavano nella zona di maggiore concentrazione delle tessiture domestiche protestarono vivacemente, rivolgendosi alle autorità municipali, contro i tessitori di drappi, accusati di disturbare la loro concentrazione e il loro sonno...41. Per tutte queste ragioni l’inserimento del telaio nella stanza comune della casa, dove sembrano collocarlo sia le testimonianze iconografiche che la sua posizione negli elenchi di beni, non doveva essere indolore. Ciò significa anche che in presenza di più telai è plausibile pensare all’esistenza di un locale specificamente destinato ad accoglierli. Quest’ultima eventualità sembra la regola nel caso dei torcitoi da seta, il cui inconveniente principale nella prospettiva del lavoro a domicilio non era costituito tanto dal rumore – il problema erano semmai le vibrazioni, che ne sconsigliavano la messa in opera ai piani superiori – quanto dalle dimensioni. Il torcitoio circolare a trazione umana, il tipo normalmente utilizzato nella Firenze del Quattrocento, misurava almeno due metri di diametro e qualcosa in più di altezza; i suoi elementi operativi erano ripetuti parecchie decine di volte e ciò consentiva di torcere in modo regolare dagli 80 ai 150 fili contemporaneamente; un uomo-motore collocato all’interno lo muoveva, mentre all’esterno un altro addetto provvedeva alle varie esigenze della torcitura 42 . Un esemplare perfettamente funzionante di questa macchina è stato ricostruito nel 1997, sulla base di un documento lucchese e delle indicazioni fornite dal quattrocentesco Trattato dell’Arte della seta fiorentino, a Bevagna, in Umbria, nell’ambito del Mercato delle Gaite, la straordinaria manifestazione che ogni mese di giugno fa rivivere botteghe e mestieri della fine del Medioevo. Un ultimo aspetto che influiva non poco sulle condizioni di vita e di lavoro all’interno delle abitazioni era il fatto che, almeno nel trattamento della seta, erano auspicabili elevati livelli di umidità

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L. MONNAS, The Artists and the Weavers: the Design of Woven Silks in Italy 1350-1550, «Apollo», CXXXV, 1987, pp. 416-424: p. 417; F. EDLER DE ROOVER, Andrea Banchi setaiolo fiorentino del Quattrocento, trad. it., «Archivio storico italiano», CL, 1992, pp. 877-963: p. 909. 40 L'Arte della seta in Firenze. Trattato del secolo XV, a cura di G. Gargiolli, Firenze 1980 [rist. anast. dell'ed. Firenze 1868, con acclusa la riproduzione del manoscritto Plut. 89 Cod. 117 della Biblioteca Laurenziana di Firenze], cap. LIV, pp. 87-88. 41 E. ROTA, Sopra un tentativo d’industria serica in Pavia nel secolo XVI, «Bollettino della società pavese di storia patria», V, 1905, pp. 28-42: pp. 39-40. 42 F. CRIPPA, Dal baco al filo, in La seta in Italia dal Medioevo al Seicento. Dal baco al drappo, Atti del Convegno, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 3-33: p. 17; ed inoltre F. FRANCESCHI, Un'industria «nuova» e prestigiosa: la seta, in Arti fiorentine. La grande storia dell'Artigianato, II, Il Quattrocento, a cura di F. Franceschi, G. Fossi, Firenze, Giunti, 1999, pp. 166-188: pp. 172-173.


dell’aria (del 65-70%), perché il clima secco favoriva la rottura dei fili, e scarsità di luce solare, che aveva l’effetto di scolorire la preziosa fibra. La ‘bottega’ in casa. Aspetti organizzativi e sociali Se guardiamo alla tessitura il primo modello di organizzazione della produzione a domicilio che incontriamo, e il più diffuso, è quello familiare. In una novella della cinquecentesca raccolta intitolata Le cene, Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca ci presenta una famiglia di tessitori composta dallo sciocco e poco abile Mariotto ‘Falananna’, dalla moglie Mante («una bella e valorosa giovane [...] pratica nel tessere»), e dalla di lei madre Antonia («una vecchiarella tutta pietosa e amorevole»), i quali «tutti insieme, lavorando, menavano assai tranquilla e riposata vita». Almeno finché un evento non del tutto inaspettato – la tresca di Mante con un giovane vicino – non venne a turbarla permettendoci di cogliere, per contrasto, i comportamenti abituali. Infatti, sfinita da una delle tante notti d’amore passate con l’amante, fingendosi ammalata, una mattina Mante restò a dormire fino a tardi. Mariotto, invece, «a l’ora consueta per tempo» si alzò e se ne andò all’«usato lavoro», e così fece monna Antonia. Mentre tessevano chiacchieravano e dinanzi alla preoccupazione dell’uomo per le condizioni di salute della moglie, la suocera lo esortò ad uscire per cercare delle uova, «che molto erano appropriate per il dolore della donna del corpo». Mariotto interruppe così il lavoro per riprenderlo al suo ritorno, ma una nuova pausa intervenne per «desinare». Dopo il pranzo Mante aveva recuperato in pieno le sue forze e i coniugi, «allegrissimi, si tornarono al telaio»43. Soprattutto nel caso della tessitura dei pannilani questo schema poteva presentare, quale variante, quella in cui era la donna la ‘titolare’ del mestiere, mentre l’uomo svolgeva un lavoro diverso fuori casa, spesso un’altra attività del ciclo tessile, che magari lo metteva in condizione di ottenere più facilmente dai lanaioli commesse per la moglie. Si consideri che un sondaggio effettuato per il 1380 ha mostrato che più del 40% dei lavoranti delle botteghe di lana sottoposti a sequestro di beni per debiti possedevano nella propria abitazione strumenti per la tessitura e la filatura44, operazioni sicuramente affidate alle donne di casa. In questi casi più che il saltuario apporto dell’uomo è probabile che la tessitrice sfruttasse il contributo dei restanti membri della famiglia, ma se questo risultava insufficiente, non era escluso il ricorso a personale esterno all’abitazione. In tale sfera rientrava innanzitutto quella che le fonti chiamano la socia, necessario complemento tecnico al telaio e compagna con la quale dividere oneri e proventi della tessitura. Tale sodalizio troviamo applicato nel 1407 da Mea e da Margherita, entrambe sposate, che in casa della prima, in Borgo Panicale, un testimone ha visto

43

A. GRAZZINI (IL LASCA), Le cene, a cura di E. Mazzali, Introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Milano, Rizzoli, 1989, Cena II, nov. 2, pp. 194-217, in particolare pp. 198-202. 44 Il campione è rappresentato da 34 elenchi di beni relativi a sequestri effettuati nel corso dell’anno presso il tribunale dell’Arte della Lana: ASF, Arte della Lana, 77-79.


«tessere come socie sullo stesso telaio»45; anche monna Guerriera, della parrocchia di Santa Lucia Ognissanti, era solita recarsi nella vicina dimora del pettinatore di lana Antonio per lavorare con la madre di lui al telaio46. Per evitare l’insorgenza di questioni tra le parti, ma soprattutto per tutelare l’interesse degli imprenditori, che tradizionalmente anticipavano o prestavano denaro alle tessitrici loro collegate, una legge corporativa del 140l istituì il principio della responsabilità comune anche dinanzi ai crediti accordati dai lanaioli ad una sola delle socie47. Accanto all’associazione, la forma peculiare di ampliamento dell’azienda domestica facente capo alla tessitrice o ai coniugi tessitori consisteva nella subordinazione di manodopera minorile in forme di apprendistato piuttosto desuete negli altri mestieri tessili. Secondo le superstiti scritte contrattuali i discepoli, in genere ragazzi e talvolta bambini non ancora decenni, figli di genitori spesso residenti in contado, si trasferivano per lunghi anni (da uno a otto, ma in media almeno quattro-cinque) in casa dei tessitori ricevendo come contropartita, oltre all’insegnamento del mestiere, l’alloggio e il mantenimento: solo occasionalmente, accanto al victum, vestitum et calceamentum, essi ottenevano alla fine del periodo una ‘buonuscita’ consistente in capi di vestiario e scarpe48. Un documento del 1423 precisa che tale corresponsione finale doveva intendersi quale retribuzione esclusiva degli ultimi tre anni49, il che equivaleva ad ammettere che anche nella tessitura, dopo un certo tempo, il lavoro eseguito dall’apprendista risultava produttivo e come tale degno di essere retribuito. Altre volte, trattandosi di ragazze, il contratto prevedeva una generica assunzione a servizio, ma la realtà che questa dissimulava era sempre lo sfruttamento di una forza-lavoro che, ancora acerba al all’inizio del rapporto, quando l’apprendista era appena adolescente, poteva assumere tutt’altra importanza col trascorrere del lungo periodo previsto per il discepolato. Ecco che cosa si legge in una petizione indirizzata al tribunale dell’Arte della Lana nel 1431: Dinanzi a voi signori Consoli dell’Arte della lana con ogni debita reverentia si spone e dice, per la Maddalena figluola fu di Zachero da Portico, [che] essendo allora d’età d’anni dodici, si puose per servigiale et fante con Giano di Bernardo chiamato Gianbernardi et monna Stagia sua donna tessitori di tele lane, popolo di San Friano; et che tutto il detto tempo è stata con loro et ai loro servigi et con loro insieme [à] tessuto dette tele lane a utile et comodo di detti Giano et monna Stagia; et che oggi la detta monna Stagia è morta, è rrimaso il detto Giano, el perché è stato di necessità che la detta Maddalena si sia partita et chosì à fatto; et che ella debba essere pagata e rimunerata di sue fatiche portate in detto tempo in servigi et comodi di detti Giano et monna Stagia, et etiandio commodamente essere vestita, perché di quindi è uscita sanza alcuno vestimento […]50.

45

ASF, Arte della Lana, 417, c. 45r. ASF, Arte della Lana, 155, c. 31v (1412). 47 ASF, Arte della Lana, 48, c. 54r. 48 FRANCESCHI, Oltre il “Tumulto”, cit., pp. 175-176. 49 ASF, Arte della Lana, 154, c. 31v. 50 ASF, Arte della Lana, 331, c. 31r. 46


Nella tessitura dei drappi di seta – lo abbiamo già intravisto – più che l’organizzazione familiare, magari allargata a qualche apprendista, si evidenzia la presenza di tutta una serie di figure di aiutanti e assistenti che ponevano la casa del ‘maestro’ al centro di una rete di rapporti e di scambi facendone davvero una sorta di bottega frequentata da un buon numero di «lavoranti», «garzoni», «discepoli», «fanciulli»: termini dai quali possiamo soltanto intuire le differenze di età e di specializzazione o quelle nella natura del legame che li univa al proprietario degli strumenti di lavoro. Vivere insieme per lavorare: qualche spunto finale Fra i documenti che ho a disposizione non ci sono, sulla scelta della coabitazione in funzione delle esigenze lavorative, testimonianze eloquenti come quelle che Luca Molà ha rinvenuto per Venezia fra il 1470 e il 1570. Qui le donne, escluse dai laboratori dei tintori, dei filatori e dei battiloro, si concentravano nello svolgimento di operazioni quali la filatura dei metalli preziosi per la confezione delle stoffe auroseriche e soprattutto l’incannatura, la binatura e l’orditura della seta. L’incannatura, in particolare, ovvero l’operazione con la quale si passava la seta dalle matasse ai rocchetti nel corso della filatura-torcitura, era svolta in abitazioni dove vivevano e lavoravano insieme donne appartenenti a famiglie e a generazioni diverse. All’interno di questi piccoli gruppi, perciò, si instauravano talvolta una divisione dei compiti e una gerarchia basate almeno in parte sul grado di anzianità e di esperienza. Le ‘maestre’ più anziane si dedicavano soprattutto agli aspetti organizzativi del lavoro e a tenere i rapporti con i filatori dai quali ricevevano il semilavorato, mentre quelle di età matura e nel pieno delle forze svolgevano il lavoro vero e proprio, insegnandolo alle ragazze e alle bambine; a queste ultime erano normalmente affidate anche le mansioni di trasporto dei materiali. Vi erano, infine, anche semplici ‘mediatrici’, ossia figure che si occupavano esclusivamente di trovare i filati per le maestre in cerca di lavoro, senza partecipare direttamente alla produzione51. Qualche indizio significativo di forme organizzative simili, tuttavia, esiste anche per la Firenze quattrocentesca. Alle dipendenze delle maestre incannatrici fiorentine, per esempio, troviamo piccoli gruppi di fanciulle provenienti dall’Ospedale degli Innocenti, la maggiore istituzione cittadina per l’assistenza all’infanzia abbandonata. I contratti che il Camarlingo dell’ente registrava nel suo libro, completi di sottoscrizione da parte dei rispettivi mariti delle donne, fissavano la durata del rapporto in due anni e prevedevano la corresponsione di un salario monetario che raddoppiava il secondo anno52. Grazie ai registri del catasto del 1427, invece, sappiamo che i fratelli Paganello e Lapo Talani tenevano «in casa III filatoi da torcere seta» e avevano fra i creditori tre uomini e una donna per ognuno dei quali si ripete la formula «sta cho lloro»53. Sempre la fonte fiscale ci fa fare la conoscenza di Piero e Ivo di Bartolo tessitori di drappi, proprietari di 7 telai, che vivevano e lavoravano sotto lo stesso tetto con le 51

L. MOLÀ, Le donne nell’industria serica veneziana del Rinascimento, in La seta in Italia, cit., pp. 423-459. ARCHIVIO DELL’OSPEDALE DEGLI INNOCENTI DI FIRENZE, ser. XII (Ricordanze), 1, cc. 50v-51v (1452). 53 ASF, Catasto, 68, cc. 271r-272v. 52


loro mogli e undici figli di età compresa fra 1 e 14 anni54. Non dobbiamo dimenticare, infine, le molte storie dei tessitori di lana d’Oltralpe, sempre più numerosi con il progredire del Quattrocento. Il continuo rinnovarsi dei loro arrivi nella città toscana (che si presenta come uno dei tratti distintivi della situazione della tessitura a Firenze in quest’epoca), se non decretò la fine della modello ‘familiare’ che ho illustrato prima, era innegabilmente collegato con l’estendersi di una diversa organizzazione del lavoro fondata sulla distinzione, del tutto inusuale nel linguaggio delle fonti fiorentine prima di questa migrazione, tra ‘maestri’ e ‘lavoranti’. Questa immigrazione di tessitori tedeschi, fiamminghi, brabantesi, occasionalmente francesi, si configurava in effetti come un flusso di artigiani specializzati, approdati a Firenze con un proprio seguito di dipendenti, e intenzionati a ricostituire nella nuova città la micro-impresa che forse erano stati costretti ad abbandonare in patria. Il loro primo obiettivo era dunque quello di assicurarsi uno spazio d’abitazione e di lavoro per collocarvi, accanto agli indispensabili oggetti d’uso, almeno un telaio, ma possibilmente due o tre, sui quali – vista la loro condizione di maschi presumibilmente soli o comunque tradizionalmente refrattari all’impiego della propria compagna nella tessitura – operare insieme ad uno o più lavoranti55. Il rapporto salariale che si stabiliva tra questi ultimi e il proprietario del mezzo di lavoro sembra includere spesso proprio la coabitazione, come lasciano intendere le parole di Giuliano da Colonia, che dice di avere necessità di due materasse, «una per suo uso e un’altra per uso dei lavoranti»56. Ancora più esplicito Piero di Giovanni, tessitore alle dipendenze del francese Perino di Piero, che interrogato a proposito dei suoi legami con il maestro, precisa «di essere stato e di stare con Perino [...] e di lavorare con lui nella stessa casa, ma, quanto alla spese, di fare da sé»57. Coabitazione e lavoro comune, dunque, ma ognuno gestiva il suo budget da solo.

54

ASF, Catasto, 67, c. 426r-v. FRANCESCHI, I tedeschi e l'Arte della Lana, cit., pp. 289-291. 56 ASF, Arte della Lana, 80, c. 22v (1381). 57 ASF, Arte della Lana, 417, c. 91r (1409). 55


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