LA STORIA CONSERVATIVA DEI DIPINTI MURALI ALTOMEDIEVALI. L’ANALISI DI CINQUE CASI DI STUDIO

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali Corso di Laurea in Storia dell’Arte e Tutela dei Beni Storico-Artistici TESI DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA DELL’ARTE MEDIEVALE

LA STORIA CONSERVATIVA DEI DIPINTI MURALI ALTOMEDIEVALI. L’ANALISI DI CINQUE CASI DI STUDIO

Relatore:

Laureanda :

Prof. ssa Maria ANDALORO

Veronica D’ORTENZIO matricola 8001

Correlatori: Dott.ssa P. POGLIANI

Anno Accademico 2011/2012


INTRODUZIONE

La storia conservativa dei dipinti murali altomedievali. L’analisi di cinque casi di studio. (San Vincenzo al Volturno, S. Sofia a Benevento, Tempietto del Clitunno, San Salvatore a Brescia, Cividale del Friuli) -Introduzione

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-Cronologia

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-Una cornice storico-artistica

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-CAPITOLO I- S. VINCENZO AL VOLTURNO -La storia del monastero di San Vincenzo al Volturno

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-Critica d’arte a San Vincenzo al Volturno

Pag.42

-La storia conservativa dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno

Pag.58

-Lo studio e la ricomposizione dei frammenti di

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intonaco dipinto a San Vincenzo al Volturno -San Vincenzo al Volturno nel percorso della pittura italiana

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nel IX secolo -CAPITOLO II- S. SOFIA A BENEVENTO -La chiesa di S. Sofia a Benevento: storia e arte

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-Il restauro della pianta di S. Sofia: l’articolo

Pag.98

di P. Cavuoto e R. Pane (1963-1964) - Il restauro della pianta di S. Sofia: la risposta

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di A. Rusconi e gli studi della dott.ssa M. Costagliola (2002)

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INTRODUZIONE

-CAPITOLO III- IL TEMPIETTO SUL CLITUNNO - La chiesa di S. Salvatore a Spoleto e il Tempietto sul Clitunno:

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dubbi sulle origine e indagini sulle loro storie - Studi e studiosi intorno al S. Salvatore di Spoleto e al

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Tempietto del Clitunno: gli affreschi e il loro restauro -CAPITOLO IV- S. SALVATORE/S. GIULIA A BRESCIA - La storia del monastero di S. Salvatore nella città di Brescia

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- Affreschi e stucchi in S. Salvatore a Brescia

Pag. 160

- Il cantiere pittorico altomedievale di S. Salvatore a Brescia: stratigrafia, tecnica e studio delle sinopie

Pag. 170

- Ricerche ed indagini a S. Salvatore – S.Giulia

Pag. 177

-CAPITOLO V- IL TEMPIETTO LONGOBARDO A CIVIDALE DEL FRIULI - La storia del Tempietto longobardo di Cividale

Pag. 195

- Architettura esterna ed interna

Pag. 197

-Gli stucchi

Pag. 200

-Gli affreschi

Pag. 206

- I restauri

Pag. 211

-CAPITOLO VI- VICENDE CONSERVATIVE A CONFRONTO

Pag. 226

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INTRODUZIONE -CONCLUSIONI

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-APPENDICE

Pag. 241

-APPARATO ICONOGRAFICO

Pag. 245

-Bibliografia

Pag. 293

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INTRODUZIONE

“…così in base a questi semplici criteri, non aspettate da me copia di nomi, di date, di biografie, più o meno aneddotiche; ma soltanto la catena ideale che lega i più grandi artisti italiani a seconda dei loro intenti stilistici. Il che non è poco.” R. Longhi, “Breve ma veridica storia della pittura italiana”

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INTRODUZIONE INTRODUZIONE “Di tutti gl’altri modi che i pittori faccino, il dipignere in muro è più maestrevole e bello, perché consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era da gli antichi molto usato il fresco et i vecchi moderni ancora l’hanno poi seguitato. Questo si lavora sulla calce che sia fresca, né si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno vogliamo lavorare. Perché allungando punto il dipingerla, fa la calce una certa crosterella, pe’l caldo, pe’l freddo, pe’l vento e pe’ ghiacchi, che muffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuole essere continovamente bagnato il muro che si dipigne, et i colori che vi si adoperano tutti di terre e non di miniere et il bianco di travertino cotto. Vuole ancora una mano destra, resoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo et intero, perché i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è più quello. E però bisogna che in questi lavori a fresco giuochi molto più al pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezzione. Molti de’ nostri artefici vagliano assai negli altri lavori, ciò è a olio o a tempera, et in questo poi non riescono, per essere egli veramente il più virile, più securo, più resoluto e durabile di tutti gl’altri modi, e quello che nello stare fatto di continuo acquista di bellezza e di unione più degl’altri infinitamente. Questo a l’aria si purga e da l’acqua si difende e regge di continuo a ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co’ colori che abbino colla di carnicci o rosso d’uovo o gomma o draganti, come fanno molti pittori; perché oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spacio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco e non ritocchino a secco, perché oltra l’esser cosa vilissima, rende più corta vita alle pitture.” Chi parla è Giorgio Vasari, nel suo libro “Le vite de’ più eccellenti archi tettori, pittori et scultori”, pubblicato a Firenze nel 1550.1 Così invece Cennino Cennini: “ Col nome 1 G. Vasari, “Le vite de’ più eccellenti architettori, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550”, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Einaudi, Torino, 1986, pagg. 83-84

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INTRODUZIONE della santissima Trinità ti voglio mettere al colorire. Principalmente comincio a lavorare in muro, del quale t’informo che modi dèi tenere passo a passo. Quando vuoi lavorare in muro (ch’è ‘l più dolce e il più vago lavorare che sia), prima abbi calcina e sabbione, tamigiata bene l’una e l’altra. E se la calcina è ben grassa e fresca, richiede le due parti sabbione, la terza parte calcina. E intridili bene insieme con acqua, e tanta ne intridi, che ti duri quindici dì o venti. E lasciala riposare qualche dì, tanto che n’esca il fuoco: ché quando è così focosa, scoppia poi lo ‘ntonaco che fai. Quando se’ per ismaltare, spazza bene prima il muro, e bagnalo bene, ché non può essere troppo bagnato; e togli la calcina tua ben rimenata a cazzuola a cazzuola; e smalta prima una volta o due, tanto che vegna piano lo ‘ntonaco sopra il muro. Poi quando vuoi bene lavorare, abbi prima a mente di fare questo smalto ben arricciato, e un poco rasposo”.2 Si vuole iniziare così questa introduzione e questo lavoro di tesi per iniziare subito ad identificare l’oggetto della mia ricerca: gli affreschi. “Conformemente all’etimologia, intendiamo per affresco ogni pittura eseguita su intonaco fresco, in modo che i pigmenti siano fissati dalla carbonatazione della calce (idrossido di calce) contenuta nell’intonaco. Il pigmento, mescolato all’acqua, viene depositato col pennello sulla superficie di un intonaco o di una mano di calce; quando comincia a seccare, l’idrossido di calcio contenuto allo stato disciolto migra verso la superficie dove reagisce con l’anidride carbonica dell’aria per formare del carbonato di calcio, mentre l’acqua evapora. Durante questa reazione, i pigmenti vengono inglobati dalla cristallizzazione del carbonato superficiale, che li fissa come se divenisse parte integrante di una lastra di calcare. La carbonatazione, che si produce dalla superficie verso la profondità, forma, dopo un certo tempo, una crosta superficiale che rallenta la reazione in profondità. Ne risulta che la pittura si indurisce prima in superficie, e che la pellicola superficialmente è generalmente più resistente degli strati sottostanti.”3 L’idea di questa tesi nasce dopo aver sostenuto, nel mio percorso di studi magistrale a Viterbo, l’esame di Storia

2 C. Cennini, “Il Libro dell’Arte o Trattato della Pittura”, a cura di F. Tempesti, Grande Libreria Longanesi & C., Classici della Società Italiana, Milano, 1975 3

P. Mora, L. Mora, P. Philippot, “La conservazione delle pitture murali”, II edizione, ICCROM, , a cura di Bresciani S.r.l., Editrice Compositori, Bologna, 2001, pag. 13

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INTRODUZIONE dell’arte medievale, con la prof.ssa Andaloro. All’inizio della mia carriera accademica non avrei mai pensato che, alla fine, mi sarei laureata in storia dell’arte medievale. Come materia mi aveva sempre affascinato, a causa dei tempi antichi e misteriosi che ce l’avevano trasmessa e di quel senso di religiosità e di sacralità della quale sembrava quasi tutta permeata. Ma non mi sentivo all’altezza di affrontarla. Non ne avevo gli strumenti. L’esame che ho sostenuto, come un po’ tutti gli studi a Viterbo, mi colpì per come faceva interagire storia dell’arte e conservazione. Nello studio dei libri che mi erano stati forniti queste due discipline non solo perfettamente convivevano, ma addirittura si compensavano, una era necessaria all’altra. Inoltre, dopo aver scoperto già durante la stesura della tesi triennale il mio interesse per gli affreschi, capii che nello studio dell’arte altomedievale potevano trovare appagamento la mia passione per i dipinti murali e la voglia di trovare concretamente una prova al bisogno che, al giorno d’oggi, avverto che storia dell’arte e restauro tornino finalmente a rapportarsi.4 Essendo l’arte altomedievale così lontana nel tempo, priva di date precise e di autografie, paga il pegno, nella ricerca storico-artistica, dell’essere appunto così priva di coordinate temporali dettagliate e manchevole di nozioni e di numerosi elementi di confronto. Le testimonianze a noi pervenute,

in

percentuale

rispetto

ai

campi

artistici

moderni

e

contemporanei, sono assai poche. Prima di iniziare a scrivere propriamente la tesi, ho quindi prima dovuto apprendere alcuni elementi essenziali e preliminari. Chi, a Roma, volesse iniziare a muovere i primi passi nel mondo dell’Alto Medioevo, tra le prime cose, scoprirebbe che esiste un museo, dell’Alto Medioevo appunto, non troppo conosciuto, ma per diversi aspetti molto interessante.5 La visita dello stesso, al di là della visione dei reperti esposti, mi è servita perché mi è stata da stimolo per la riflessione su alcuni punti che a breve deluciderò. L’opus sectile di Porta Marina è

4 CFR P. Philippot “Saggi sul restauro e dintorni. Antologia”, Scuola di specializzazione per lo studio ed il restauro dei monumenti, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Bonsignori Editore, Roma 1998 5

Inaugurato nel 1967 nel Palazzo delle Scienze all’Eur con l’obiettivo di dotare Roma di un museo archeologico dell’età postclassica e di promuovere la ricerca su un periodo strategico per lo studio della trasformazione del mondo antico, il Museo espone materiali databili tra il IV ed il XIV secolo provenienti per la maggior parte da Roma e dall’Italia centrale. Aperto tutti i giorni dalle 9.00 alle 14.00, chiusura della biglietteria alle 13.30; mercoledì, giovedì e domenica aperto fino alle 19.30, chiusura della biglietteria alle 19.00. Chiuso il lunedì, il 1° gennaio, il 1° maggio e il 25 dicembre. Si trova in Viale Lincoln, 3, Esposizione Universale Roma, Roma, RM, Lazio, 00144, Italia. Fonte: http://archeoroma.beniculturali.it/musei/museo-nazionale-dell-alto-medioevo

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INTRODUZIONE sicuramente la più importante opera esposta nel Museo. Si trova lì dal 2006 ed è interessante notare la diversità di allestimento rispetto al resto delle sale. La decorazione della domus tardo antica venne scoperta nel 1940 ed è afferente alla stanza del banchetto. Si decise di esporre la decorazione nel museo perché l’opera rappresenta un ponte fra l’Impero Romano e l’Alto Medioevo. Ed è questo il primo punto, una cosa va chiarita dell’Alto Medioevo, ribadita, ma giustamente interpretata: l’Alto Medioevo non è il tardo antico, deriva dal tardo antico, nasce dal tardo antico, segue il tardo antico, è influenzato dal tardo antico, ma non è il tardo antico. Questo però non deve portare all’estremo opposto, per quanto se ne distacchi, non ne prescinde. E’ un problema di linguaggi. E linguaggio sarà una parola su cui mi soffermerò altre volte. Ora quello che voglio dire è che l’arte altomedievale, come tutti i settori e ambiti, necessita e ha un suo linguaggio proprio e specifico, che le appartiene. Il mosaico proveniente da Ostia è realizzato con intarsio marmoreo e crollò mentre era in costruzione. Gesù è rappresentato secondo un’iconografia pagana. Questo è uno dei tratti caratteristici di alcune opere d’arte medievali: seguendo secoli di paganesimo, l’arte altomedievale cristiana spesso utilizza elementi pagani, in una sorta di sincretismo, riadattandoli, rivitalizzandoli, reinterpretandoli, reinventandoli, Questo fa sì che quegli stessi indizi figurativi non siano uguali, ma neanche diversi. Se si passa alla sala successiva quella che ospita l’opus sectile, è percepibile una linea diretta tra il motivo stilistico decorativo dell’opera di Porta Marina e i rilievi ornamentali dei marmi apprezzabili nella seconda sala. Una linea diretta, ma non continua. E’ come per il Gesù. Non c’è più significato nel contenuto. Non è che nell’Alto Medioevo si sia persa la tecnica, ma si rappresenta esclusivamente l’idea, non si da più importanza alla figura umana. La tecnica artistica impiegata era la stessa sia che si stesse realizzando un’opera a fini religiosi sia che non lo fosse. Si riprendono a questo proposito le parole della prof.ssa Romanini sull’arco di Costantino e la differenza brandiana fra segno e immagine. “La sommarietà, in altre parole, è conseguenza diretta dell’essere le immagini non giù usate come immagini, appunto, ma come segni ritmici e più semplicemente segni: ai quali, per definizione, si richiede il sacrificio di tutto ciò che è inessenziale alla “significatività” e cioè all’evidenza del 8


INTRODUZIONE messaggio “significato”.6 “Nel segno resta sempre qualcosa dell’immagine (un segno, per funzionare come segno, deve offrire qualcosa di sensibilmente percepibile), e nell’immagine resta sempre qualcosa del segno, la sostanza conoscitiva della cosa (un’immagine che non sia immagine di qualcosa mi spinge ad interrogarmi sul suo significato, e quindi funziona come segno). Ciò non toglie che per Brandi il corretto sviluppo della coscienza vada verso una progressiva divaricazione dei due ambiti. Il segno della scrittura si emancipa dall’originario carattere ideogrammatico o geroglifico verso la scrittura alfabetica, mentre l’immagine abbandona il valore di pittografia ed evolve verso la figuratività dell’arte. […] “Allora, se l’arte egiziana, e in particolare la scultura, riesce a tramandare uno straordinario equilibrio tra segno e immagine, l’incapacità di raggiungere il segno condanna quella civiltà a pensare sostanzialmente per immagini, impedendole di raggiungere la concettualità nella scienza e nella filosofia. Invece la civiltà bizantina conosce una retrocessione dell’immagine a segno. La classicità era riuscita a disgiungere compiutamente le due vie del segnoconcetto e quelle dell’immagine, come testimonia da un lato l’arte, dall’altro la filosofia greca. L’allegorismo cristiano, e in particolare la sua sterotipizzazione bizantina, dirotta però nuovamente l’immagine a segno. Se quello che conta è quanto l’immagine significa, il suo contenuto religioso o teologico, allora la pittura torna ad essere pittografia. Si torna a pensare con le immagini anziché con i concetti. Un caso sottile di confusione tra immagine e segno è rilevabile secondo Brandi anche nel manierismo. A torto si pensa che il suo carattere più proprio consista nella estenuata raffinatezza delle figure, nella estrema eleganza formale. Il proprio del Manierismo non si colloca infatti a livello di formulazione di immagine, ma è identificabile solo se ci si pone dal punto di vista della generazione di essa. E allora si vedrà come quel che individua il Manierismo sia ancora una volta uno scambio, una confusione tra immagine e segno, per cui l’immagine nasce come sigla, si apparenta al segno, e invece di aspirare alla figuratività che le è propria tende verso la figuratività soltanto accessoria del segno. Come in una calligrafia o un calligramma, l’immagine è segno, ma vale per 6

Romanini A.M. in Romanini A. M., Andaloro M., “L’arte medievale in Italia”, Milano, Sansoni, 1996, pag. 16

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INTRODUZIONE l’attrattiva accessoria della sua bellezza, della sua valenza puramente formale.”7 Alcuni dati da continuare a tenere presenti, ma del quale si parlerà meglio nell’ultimo capitolo. Il museo nasce negli anni Cinquanta, in concomitanza della rinascita dell’interesse per l’Alto Medioevo di quegli anni. Il museo non nasce, stranamente, con l’intento di raccogliere tutti i tesori altomedievali, ovviamente mobili, presenti sul territorio nazionale. Questo perché negli anni Settanta, a seguito della nascita delle Soprintendenze, la tendenza è quello di far trattenere ad ogni comune i propri patrimoni artistici. Per questo non tutti i tesori altomedievali sono raccolti nel Museo dell’Alto Medioevo e per questo chi voglia apprezzare e scoprire le bellezze di questo periodo deve essere disposto a doversi muovere molto. Le vetrine vennero realizzate con una forma di catalogazione scientifica, differenziando innanzitutto le sepolture femminili e maschili, nelle necropoli di Castel Trosino8 e Nocera Umbra.9 Inoltre, per

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P. D’Angelo, “Cesare Brandi. Critica d’arte e di filosofia”, Quodlibet Studio, 2006, pagg. 118-121

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Le fonti documentali non consentono di conoscere l'esatta epoca in cui vi furono i primi insediamenti umani in questo luogo. In epoca romana il sito era conosciuto per le acque termali che attraverso canalizzazioni raggiungevano la città di Ascoli. Castel Trosino, secondo quanto riportato da Francesco Antonio Marcucci, nacque come punto di avvistamento e scoperta e fu qui costruito per sfruttare la facile difendibilità del luogo. Insieme a Castel Manfrino, l'ex convento di San Giorgio di Rosara e la Rocca di Montecalvo rappresentò una delle postazioni integranti del sistema difensivo della contea Ascolana voluta da Carlo Magno. Durante il VI secolo d.C. ospitò la sede delle truppe ausiliarie dei Greci e nell'anno 578 la fortezza fu distrutta dal duca di Spoleto Faroaldo I, ancor prima che questi conquistasse anche Ascoli. Nel periodo medioevale vi si stabilirono i Longobardi giunti dopo che la città ascolana fu assoggettata al Ducato di Spoleto. In questo periodo rappresentò il punto di riferimento giurisdizionale e militare di molti centri della montagna e del bacino del Castellano. Nell'anno 1893, fu scoperta l'enorme necropoli longobarda, scavata da Raniero Mengarelli, che contò il rinvenimento di oltre 260 tombe, di cui 92 non corredate da alcun oggetto e la maggior parte delle altre restituiva il proprio corredo funerario costituito da materiale di modesto valore. In 34 tombe sono state rinvenute preziose manifatture realizzate in vetro, oro ed argento. La definizione di Tesoro dei Longobardi nasce proprio dal pregio delle lavorazioni e dall'elevato interesse archeologico e storico dei reperti, alcuni dei quali di particolare valore, decisamente superiore alla media di quelli rinvenuti in altre tombe longobarde in Italia. Già Giuseppe Colucci, nel volume XXI delle “Antichità Picene”, narrava di “ritrovamenti di oggetti preziosi” avvenuti tra il 1765 e il 1782, più di cento anni prima della scoperta della necropoli. La venuta alla luce di questo giacimento sepolcrale fu casuale. L'allora parroco di Castel Trosino, don Emidio Amadio, dette incarico ad un uomo di sua fiducia, Salvatore Pignoloni, di preparare un terreno, in contrada Santo Stefano, per la piantumazione di un vigneto. L'attività di dissodare il campo fece affiorare i primi oggetti che decoravano uno scheletro inumato in una tomba a fossa. Continuando a scavare furono dissotterrate innumerevoli sepolture. Su impulso di Giulio Gabrielli, ingegnere ascolano, che notificò alle autorità statali preposte il ritrovamento, l'ingegner Mengarelli e il professor Brizio coordinarono i lavori di scavo in modo scientifico. I rinvenimenti della necropoli si possono catalogare in più periodi. Vi sono tombe del VII secolo, di cui è difficile comprendere le diverse appartenenze culturali della popolazione. Vi sono quelle della fase che risale alla seconda metà del VI secolo nelle quali il corredo funerario ritrovato è di semplice consistenza ed include piccoli vasi di vetro o terracotta e qualche oggetto ornamentale. Poi, vi sono le sepolture del periodo che si computa a partire dalla fine del V secolo, nelle sepolture sia maschili, sia femminili sono stati rinvenuti oggetti di valore, come: armi, monili e gioielli, elmi, corazze, lance, scudi, frecce, fibule, collane, orecchini, pissidi ed amuleti. Quasi tutto il materiale rinvenuto fu trasportato ad Ancona. Attualmente alcuni pezzi provenienti da Castel Trosino sono esposti presso il Museo dell'Alto Medioevo di Roma, altri al Metropolitan Museum of Art di New York ed altri ancora al Musée d'Archéologie Nationale a Saint Germain en Laye in Francia. La maggior parte del tesoro castrense si trova conservata ed esposta ad Ascoli Piceno all'interno del locale museo dell'Alto Medioevo. 9

Nel V secolo fu sede di diocesi e prima del sec. X inglobò anche il vastissimo territorio già delle antiche città di Tadinum, Plestia e Sentinum. Il primo saccheggio, se non una vera e propria distruzione, come dice lo storico Jordanes, si ebbe al passaggio dei circa 100.000 Goti di Alarico, diretti verso Roma (che presero nel 410). Occupata nel 571 dai Longobardi, data la sua importanza strategica, divenne sede di un Gastaldo, (uno dei 10 del Ducato di Spoleto, con un'autorità simile al prefetto di provincia attuale) che aveva responsabilità militari, amministrative e giudiziarie, coadiuvato da alcuni Sculdasci dislocati nel vasto territorio. Già dalla prima invasione longobarda fu sede anche di una Arimannia, formata da famiglie di guerrieri nobili e molto ricchi dei quali

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INTRODUZIONE quanto riguarda la necropoli di Castel Trosino si operò una differenziazione fra le sepolture di longobardi e sepolture locali. Quello dei Longobardi, che è il periodo che più specificatamente si tratterà in questa tesi, è un periodo composito. Le maestranze locali vengono usate dai Longobardi. Assistiamo in quegli anni a una scambio di competenze a livelli elevati. Essendo privi di un proprio linguaggio artistico, se non per oggetti di uso quotidiano, vedi armi, gioielli e fibbie, questo popolo utilizzò le maestranze locali e il proprio linguaggio artistico specifico e pregresso. Se questo, quindi, rende paradossalmente più difficile l’indagine di questo crinale storico, perché si avverte sempre la sensazione di star parlando di un’arte che non si è mai differenziata dal suo passato, uno dei primi dati evidenti e concreti che permette di distaccare questo contesto artistico dagli altri ambiti è la cronologia. I secoli in cui vissero i Longobardi non sono gli stessi in cui vissero altri popoli e le civiltà che condivisero con questi anni e luoghi vanno tenute presente per analizzare e individuare possibili influenze, differenze e analogie, ma solo dopo aver correttamente focalizzato la categoria stilistica dei Longobardi o comunque di ambito longobardo. Per questo, a mio avviso, la scelta museologica di disporre vetrine e reperti cronologicamente per poi creare dei sottogruppi e dei sottoinsiemi geografici e di genere appare azzeccata. Facciamo un salto. Abbiamo parlato di storia dell’arte e di restauro e si è utilizzato il museo dell’Alto Medioevo per parlare di storia dell’arte. Passiamo al restauro. E quindi passiamo a “Teoria del restauro”, testo imprescindibile quando si parla di questo argomento. Si vuole qui proporre una suggestione mentale, da prendere ovviamente con la dovuta cautela, ma che vuole avere solo il merito di incuriosire gli animi e stimolare le coscienze, risvegliare un interesse. Si può pensare a Teoria del Restauro di Cesare Brandi come a una parete palinsesto. Il suo profilo risulta essere caratterizzato da una complanarità di interessi e da una confluenza polimorfica di fonti, in questo quindi si configura come un palinsesto di scritti, idee ed elaborati che Brandi non aveva pensato come organico, ma che tutti insieme, richiamandosi a vicenda, vanno a costituire il substrato culturale su cui l’intera teoria, alla fine dell'Ottocento è stata trovata una vasta necropoli. Con i Franchi, divenne contea dell'estremo nord-ovest del Ducato di Spoleto, zona di confine con le terre dipendenti dall'Esarcato Bizantino di Ravenna.

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INTRODUZIONE l’intero universo mentale e professionale di Brandi, si fonda e poggia. Fra tutte le opere di Cesare Brandi, la Teoria va dunque letta e analizzata in questa sua peculiarità, analizzata a ritroso, alla ricerca della fonte, dell’origine del fondamento teorico del restauro, imprescindibile per lo studioso. “Teoria del restauro” è quindi un’apax nella bibliografia brandiana, per questo risulta essere così unica e preziosa, ma anche fragile, in quanto potrebbe essere non immediata l’individuazione della chiave di lettura per scrutarla. Tornando all’immagine della parete palinsesto, credo, quindi, che “Teoria del restauro” vada affrontata delicatamente, come si fa con una pellicola pittorica stesa secoli fa, letta prima con la mente che con gli occhi, come si fa con iconografie molto lontane dai nostri gusti, inserita in una complessa rete di confronti con i modelli che l’hanno influenzata, come si fa leggendo gli episodi illustrati e i loro riferimenti che ci vengono magari dall’Oriente, capìta alla luce della doppia visione scientifica e umanistica, inquadrata nel contesto ambientale, rivelata alla luce dell’enorme progetto che la deve aver necessariamente preceduta, colta nei suoi dettagli più fini ed eleganti. In essa non va ricercata la verità; nel suo carattere frammentario e disomogeneo non deve costituire un diktat, ma solo il primo sole che riscaldò, tra l’altro in anni che iniziano ad essere molto lontani da noi, i primi germogli di quelle dissertazioni filosofiche che iniziarono a intavolare gli studiosi colloquiando e confrontandosi nell’ambito della storia dell’arte. Ci si potrebbe chiedere se Teoria del Restauro possa rappresentare una sorta di cerniera tra un primo Brandi, orientato verso la fenomenologia della produzione, e incarnata dai “Dialoghi”, e un secondo Brandi in cui la prospettiva dell’estetica della ricezione diventa per lo meno altrettanto importante.10 Si tratta però di una ricostruzione che potrebbe anche risultare capziosa. Infatti che la Teoria del Restauro sia diventata un libro nel 1963 non significa affatto che Brandi abbia cominciato ad affrontare il tema del restauro solo successivamente ai dialoghi o anche solo successivamente al primo di essi, ovvero al Carmine. Brandi era completamente permeato di quella sensibilità che lo rendeva dolente per la sofferenza della materia nel transito attraverso la storia. 10

M. Andaloro (a cura di - ), “La teoria del restauro nel Novecento da Riegl a Brandi”, Atti del convegno internazionale di studi (Viterbo, 12-15 novembre 2003), Università degli studi della Tuscia, Nardini Editore, 2006, pag. 325

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INTRODUZIONE Questa sofferenza non è soltanto una metafora. Il restauro preventivo non va inteso come “profilassi che, attuata come una vaccinazione, possa immunizzare l’opera d’arte nel suo corso nel tempo”.11 Il restauro può considerarsi la forma privilegiata di ascolto operativo di quel testo dell’arte. E’ ormai generalmente condiviso che alla base di molte delle riflessioni della Teoria soprattutto per la fattispecie del rudere, ci siano state le impressioni generate dalle devastazioni della guerra, dagli squarci dei bombardamenti, dai monumenti in rovina. Se dunque il peso delle contingenze storiche può aver giocato un ruolo non secondario nella formulazione dei principi contenuti nella Teoria, qualcosa del genere può benissimo essere accaduto anche quella mattina del 24 Settembre 1945 in cui Brandi si recò a Santa Maria Antiqua. Niente di più probabile che una contiguità o una qualche indiretta suggestione si siano generate nel contatto con quel problematico testo di metodologia del restauro costituito dalla chiesa altomedievale. Non si trattava solo del già rilevato ricorrente scambio dialettico fra teoria e prassi, alimentato dalle sconvolgenti esperienze dell’Istituto in quegli anni post-bellici, che furono materia ed esempio concreti per le prime formulazioni teoriche, come il Fondamento teorico del restauro, o come la prolusione al corso di “Teoria e Storia del Restauro” per la scuola di specializzazione di Roma. Bensì dal confronto, diretto e senza mediazioni, iniziato quella mattina di settembre e sviluppatosi nel sopralluoghi successivi, con la problematica, complessa, contraddittoria e stratificata,

posta,

nella

basilica

del

Palatino,

dalla

salvaguardia

dell’integrità delle pitture e del contemporaneo rispetto dell’autenticità del monumento rimesso in luce dagli scavi, fortemente mutilo e frammentario. Ed è ricordando quel 24 Settembre che il cerchio si chiude. Tanti sono i motivi per cui mi sono appassionata all’arte della conservazione degli affreschi o comunque dei dipinti murali: l’affresco è una tecnica che decora le stanze, le gallerie, le cappelle, le volte, circonda a 360° una persona, richiede molta attenzione, se si sbaglia bisogna ricominciare da capo, necessita di un lungo progetto preliminare, richiede l’ausilio di molte figure che ruotano attorno all’artista, richiede sforzo fisico e molta capacità 11

M. Andaloro (a cura di - ), “La teoria del restauro nel Novecento da Riegl a Brandi”, Atti del convegno internazionale di studi (Viterbo, 12-15 novembre 2003), Università degli studi della Tuscia, Nardini Editore, 2006, pag. 226

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INTRODUZIONE artigianale, è di solito molto grande, ma fatto di tanti piccoli dettagli, in esso scienza e umanesimo, chimica, fisica e arte dialogano armoniosamente e amabilmente, ma soprattutto nella freddezza di quel muro e nella visione portata all’estremo di un’immagine bidimensionale di cui non puoi vedere il retro, al massimo con le moderne tecnologie “il dentro”, l’affresco ci si pone davanti, in tutta la sua grandiosità e maestà obbligandoci a osservarlo minuziosamente, in maniera quasi chirurgica. In questa sorta di spavalderia, ci interroga tutti. Lo stesso, penso, fece quel 24 Settembre con Cesare Brandi. Teoria del restauro, come parete palinsesto, parete palinsesto come stimolo alla formulazione di nuove strategie conservative, affreschi altomedievali come casi di studio per indagare il rapporto fra arte e restauro e conservazione come nuovo strumento di indagine storico artistica. La questione non è nuova. “La storia delle tecniche delle pitture murali presenta un duplice interesse. Al restauratore fornisce un insieme di conoscenze che gli faciliteranno l’identificazione della tecnica impiegata nell’opera che deve trattare, permettendo la formulazione di ipotesi che orienteranno gli esami tecnici e di laboratorio ogni qualvolta saranno necessari. Allo storico dell’arte fornisce un insieme di dati materiali che, in ragione degli stretti rapporti fra stile e tecnica, costituiscono un contributo prezioso per la storia dell’arte stessa. Da una parte la lettura tecnica dell’opera acuisce la sensibilità formale per la comprensione dei rapporti fra i mezzi e il fine, tra la struttura e l’aspetto; dall’altra offre alla critica elementi propri di diagnosi che possono concernere la genesi dell’opera. La sua storia, o la sua situazione in uno sviluppo storico. Inoltre i dati tecnici riuniti in occasione di un restauro potranno avere un’incidenza significativa sulla storia dell’arte. L’integrazione dei punti di vista tecnico, archeologico e critico nel corso di un restauro richiederà sempre una partecipazione intima dello storico dell’arte, per il quale costituirà una missione importante e un’esperienza preziosa. Per essere rigorosa, l’identificazione di una tecnica antica dovrà basarsi sulla convergenza dei dati dell’esame tecnico, delle analisi di laboratorio e delle fonti letterarie.”12 Il Medioevo passato, con il suo linguaggio da riscoprire, coperto da secoli di storia, come rampa 12 P. Mora, L. Mora, P. Philippot, “La conservazione delle pitture murali”, II edizione, ICCROM, , a cura di Bresciani S.r.l., Editrice Compositori, Bologna, 2001, pag. 85

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INTRODUZIONE di lancio per nuovi progetti futuri. In questo credo il Medioevo sarà sempre un’avanguardia.

“Longobardi in Italia: i luoghi del potere” è il nome di un patrimonio dell’umanità italiano inserito dall’Unesco nella Lista del patrimoni dell’umanità“ il 25 giugno 2011. Si tratta di un sito seriale comprendente sette

luoghi

densi

di

testimonianze

architettoniche, pittoriche e scultoree dell'arte longobarda, la cui candidatura è stata accettata nel marzo 2008 con il nome "Italia Langobardorum. Centri di potere e di culto (568-774 d.C.)". A Cividale del Friuli (Ud) fa parte del sito la cosiddetta "area della Gastaldaga" con il Tempietto longobardo e il Complesso episcopale, che include i resti del Palazzo patriarcale sottostanti al Museo archeologico nazionale. A Brescia rientra nel patrimonio Unesco il monastero

di

Santa

Giulia

con

la

chiesa

di

San

Salvatore. A Castelseprio (VA) il sito riconosce l’area del castrum con il monastero di Torba, la chiesa di Santa Maria foris portas con i suoi affreschi e i

ruderi

A Spoleto (Perugia)

della basilica di San Giovanni Evangelista. il

patrimonio

include

la

basilica

di

San

Salvatore. A Campello sul Clitunno (Perugia) fa parte del sito seriale una piccola chiesa dedicata a San Salvatore, a forma di tempietto corinzio tetrastilo in antis. A Benevento, già sede del più importante ducato longobardo della Langobardia

Minor,

le

testimonianze

longobarde

riconosciute dall'Unesco sono raccolte nel complesso monumentale che si articola intorno alla chiesa di Santa Sofia. Nel territorio del ducato di Benevento sorgeva anche il santuario di San Michele Arcangelo, fondato prima dell'arrivo dei Longobardi ma da questi adottato come santuario nazionale a partire dalla loro conquista del Gargano (VII secolo). Il complesso si trova a Monte Sant'Angelo (Foggia) e testimonia il particolare culto micaelico presso i Longobardi. Volendo all’inizio questa tesi interessarsi precipuamente della conservazione delle pitture murali in età longobarda, a partire dalla lista di questi siti, si è deciso di compiere alcune modifiche nella scelta del luoghi da analizzare. San Salvatore a Spoleto e il Tempietto sono stati analizzati insieme, la vicenda di 15


INTRODUZIONE Castelseprio, vista la complessità del tema è stata messa da parte, nonostante per chi scrive l’argomento sia interessantissimo, Sant’Angelo in Formis è stato escluso vista la non corrispondenza della datazione degli affreschi con il periodo in esame, al suo posto si è inserito il complesso molisano di S. Vincenzo al Volturno.

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INTRODUZIONE CRONOLOGIA13

« Sparsa le trecce morbide su l’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo sguardo cercando il ciel »14 I sec a. C Migrazione di Winnili dalla Scandinavia a Scoringia. Formazione della gens Langobardorum 5 d. C Sconfitta ad opera di Tiberio 167 Irruzione in Pannonia Fine IV sec. Migrazione in Boemia 488-489 Occupazione Rugilandia 508 Vittoria sugli Eruli 510-540 ca. Regno di Vacone 526-527 Occupazione province romane Pannonia I e Valeria 545-560 ca. Regno di Audoino 547-548 Occupazione province romane Savia e Norico mediterraneo orientale 560-572 ca. I Longobardi, guidati da Alboino, entrano in Italia e conquistano le regioni a Nord del Po; fondazione immediata ducato

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Questa cronologia è stata scritta utilizzando come fonti: J. Jarnut, “Storia dei Longobardi”, 1995, Giulio Einaudi Editore, Torino e S. Gasparri, “Italia longobarda”, 2012, Gius. Laterza & Figli

14

A. Manzoni, coro dall’atto IV dell’Adelchi

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INTRODUZIONE friulano; presa di Pavia; Alboino è assassinato (congiura della moglie Rosmunda, forse con sostegno bizantino) 567 Vittoria sui Gepidi 568 Ingresso in Italia 569 Conquista di Milano 572 Conquista di Pavia 574 584 Interregno. Per un decennio i Longobardi non eleggono un re 584-590 Regno di Autari, che combatte contro i Franchi che avevano invaso il Trentino 590-616 Regno di Agilulfo e Teodolinda; invasione dell’Italia centrale, prima tregua con i Bizantini (598); conquista di Padova e Monselice; Teodolinda fonda S. Giovanni di Monza 590 Attacco di Franchi e Bizantini al regno longobardo 590-604 Papato di Gregorio Magno 591 Pace con i Franchi 603 Grandi conquiste di Agilulfo nella pianura padana occidentale: Cremona, Mantova, Padova 606 Scisma dei Tre Capitoli, che vede la diocesi di Aquileia in dissidio rispetto a Roma e Costantinopoli 610 Gli Avari invadono il Friuli e saccheggiano Cividale 612 Colombano fonda il monastero di Bobbio 612-626 Regno di Adaloaldo, figlio di Agilulfo e Teodolinda 626-636 Regno di Arioaldo, duca di Torino, poco documentato dalle fonti 18


INTRODUZIONE 627 Muore Teodolinda 636-652/3 Regno di Rotari: emissione dell’Editto (643); conquiste della Liguria e di parte del Veneto orientale (prima distruzione di Oderzo). Dopo di lui regna suo figlio Rodoaldo, ma solo per pochi mesi 653-661 Regno di Ariperto: era figlio di Gundoaldo duca di Asti e nipote di Teodolinda; sotto di lui ci sarebbe stata la conversione definitiva al cattolicesimo dei Longobardi 661 Il regno è diviso tra i due figli di Ariperto, Godeperto e Pertarito 662-671 Regno di Grimoaldo: duca di Benevento, di origine friulana, si impadronisce del potere uccidendo Godeperto, mentre Pertarito fugge prima presso gli Avari, poi presso i Franchi; caduta di Oderzo e completa conquista del Veneto orientale, mentre il potere militare bizantino si rifugia in laguna; il re aggiunge alcuni capitoli all’editto 671-678 Regno di Pertarito: diventa re uccidendo Garipaldo, figlio di Grimoaldo; Cuniperto, figlio del re, è associato al regno; ribellione di Alahis duca di Trento, il quale viene poi perdonato e assume anche il ducato di Brescia 678-700 Regno di Cuniperto: nuova ribellione di Alahis, sconfitto e ucciso; sinodo di Pavia (698) e fine dello scisma dei Tre Capitoli 680 Sinodo a Roma di condanna del monotelismo. Prima vera pace fra il regno longobardo e l’impero bizantino 700 ca. Fondazione dei monasteri di S. Maria di Farfa e di S. Vincenzo al Volturno 701 Ariperto II figlio del duca di Torino e nipote di re Godeberto si impadronisce del trono uccidendo il piccolo Liutperto, figlio di Cuniperto, e sconfiggendo i suoi sostenitori

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INTRODUZIONE 712 Ansprando, uno dei sostenitori di Liutperto, insieme a suo figlio Liutprando, sconfigge Ariperto II e diventa re. Muore dopo pochi mesi e Liutprando è eletto re dei Longobardi 713 Prima aggiunta di capitoli all’editto da parte di Liutprando (cui seguono altre quattordici aggiunte negli anni compresi fra il 717 e il 735) 726-728 Crisi iconoclasta; Leone III impone la dottrina iconoclasta a Costantinopoli; l’Italia bizantina si ribella e vengono eletti duchi indipendenti nelle Venetiae, a Ravenna e a Napoli; il papa capeggia l’opposizione, che è religiosa, ma anche politica 728-729 Conquiste di Liutprando in Emilia e nella Pentapoli; sottomissione dei duchi ribelli di Spoleto e Benevento; viaggio a Roma del re che colloca le insegne regali sulla tomba di S. Pietro 730-740 ca. I Longobardi guidati da Ildebrando, nipote del re, occupano temporaneamente Ravenna; Liutprando interviene in Provenza in aiuto di Carlo Martello contro gli Arabi;15 in precedenza aveva adottato con il taglio dei capelli il figlio di questi, Pipino;16 in seguito, essendosi ammalato il re, Ildeprando viene eletto re; guarito, Liutprando associa il nipote al trono 731-741 Papato di Gregorio III. Primo appello ai Franchi, che cade però nel vuoto 740 ca. Rifondazione di Montecassino

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Più precisamente nel 739, ad Arles.

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Con il regno dei Franchi, nominalmente governato dai Merovingi ma di fatto dai maggiordomi di palazzo Carolingi, i rapporti furono inizialmente tesi, a causa della tradizionale ostilità tra questi e i Bavari alleati di Liutprando. La situazione mutò quando Carlo Martello, nel 725, intervenne a sua volta nei conflitti interni bavaresi e sposò una nipote di Guntrude. Tra il maggiordomo di palazzo franco e Liutprando prese forma uno stretto legame che si consolidò, intorno al 730, in un'alleanza formale (amicitia). Il legame con Carlo Martello venne rafforzato nel 737, quando il sovrano de facto dei Franchi inviò a Pavia suo figlio Pipino affinché Liutprando lo adottasse. Il re lo accolse benevolmente, lo fece rasare all'uso longobardo e lo rimandò al padre con ricchi doni. L'episodio rappresentò un passaggio fondamentale nella storia dei Franchi: attraverso quell'adozione Pipino divenne figlio di re e quindi legittimato, nell'ottica del tempo, ad assumere formalmente il trono a danno della dinastia Merovingia (cosa che fece nel 751). Nel 738 Liutprando sostenne nuovamente Carlo Martello che, impegnato in quel momento a nord contro i Sassoni, non poteva far fronte al contemporaneo attacco degli Arabi che, a sud, avevano invaso il territorio di Arles. Liutprando mobilitò il suo esercito, penetrò in Provenza e volse in fuga gli invasori. La vittoria sugli "infedeli" rafforzò anche le sue vesti di difensore della cristianità, già messe in luce quando, pochi anni prima, aveva messo in salvo dalla Sardegna (minacciata sempre dagli Arabi) quelle che si supponeva fossero le reliquie di sant'Agostino d'Ippona.

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INTRODUZIONE 741-752 Papato di Zaccaria 742 Incontri a Terni e a Pavia fra Liutprando e Zaccaria, che hanno per esito accordi di pace. Liutprando sconfigge Spoleto e Benevento 744 Morte di Liutprando. Ildeprando è deposto e Ratchis, duca del Friuli, diventa re 744-749 Regno di Ratchis: prosecuzione dell’Editto; spedizioni militari nella Pentapoli; abdica in favore del fratello Astolfo e si fa monaco a Montecassino 749-751 Prima fase del regno di Astolfo: aggiunte all’Editto (745 e 750); conquista di Ravenna e dell’Esarcato 752-757 Papato di Stefano II, che chiama in aiuto i Franchi contro Astolfo; rinnova l’unzione a Pipino e ottiene la Promissio Carisiaca (754) 754 Trattati di Ponthion e Quierzy. Prima vittoria di Pipino su Astolfo 756 Seconda vittoria di Pipino su Astolfo. Creazione dello Stato della Chiesa. Morte di Astolfo 757 Desiderio è eletto re dei Longobardi. Non consegna al papa i territori bizantini occupati. Invasione della Pentapoli 759 Adelchi, figlio di Desiderio, è associato al trono del padre 761 Fondazione di S. Salvatore di Brescia da parte di Desiderio e sua moglie Ansa. La loro figlia Anselperga è badessa 772-795 Papato di Adriano I. Chiede di nuovo, invano, a Desiderio la consegna dei territori bizantini occupati. Accordo con i Franchi 768 Morte del re Pipino: Carlo Magno e Carlomanno diventano re dei Franchi 770 Carlo Magno sposa una figlia di Desiderio 21


INTRODUZIONE 771 Morte di Carlomanno, rottura di Carlo Magno con i Longobardi 773-774 Guerra tra Franchi e Longobardi 774 I Franchi conquistano Pavia; destituzione di Desiderio, Carlo Magno è “gratia Dei rex Francorum et Langobardorum” 775-776 Fallito il progetto di una sollevazione generale, solo il Friuli e il Veneto si ribellano ai Franchi sotto il comando del duca friulano Rotcauso e, sconfitti, subiscono una dura repressione 781 Carlomanno, figlio di Carlomagno, è battezzato con il nome di Pipino e diventa re dei Longobardi 795-800 Redazione del Constitum Costantini 795-816 Papato di Leone III 796 Pipino, re dei Longobardi, sconfigge gli Avari e distrugge il ring17 800 Carlo Magno è incoronato imperatore a Roma in S. Pietro da papa Leone III 810 Morte di Pipino 814 Morte di Carlo Magno

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Il tesoro degli Avari era custodito in una cittadella, detta “ring”, protetta da nove muraglie concentriche.

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INTRODUZIONE Una cornice storico artistica “Ma la sua ambizione non era ancora soddisfatta e il vincitore dei Gepidi dal Danubio volse lo sguardo alle più ricche rive del Po e del Tevere. Quindici anni non erano ancora trascorsi da quando i suoi sudditi, alleati di Narsete, avevano visitato il dolce paese d’Italia; i monti, i fiumi, le strade erano familiari alla loro memoria, la narrazione delle loro vittorie e forse la vista del loro bottino avevano acceso nella nuova generazione la fiamma dell’emulazione e della conquista”.18 “Nel 1967 Hans Belting coniò il termine di “questione italiana” per indicare il complesso problema delle origini dell’arte carolingia, le cui vicende possono essere comprese solo se inserite in un discorso le cui radici affondano nei fenomeni determinatisi in Italia, ma anche in area merovingia e germanica; questi fenomeni sono segnati profondamente dalla presenza di due “culture”, cioè quella latina e quella “barbarica”, sul cui fertile dialogo si fondano le basi non solo della cultura carolingia, ma anche di quella in senso più ampio “occidentale”, cioè in altre parole le basi della civiltà artistica europea. L’area longobarda rappresenta una zona-campione ideale “perché di rado è altrove altrettanto agevole cogliere l’impatto immediato sia, all’origine, tra autentica e viva cultura “antica” e mutazioni linguistiche delle più diverse radici, sia, al termine, tra il mondo pre-carolingio e la svolta che prende il nome da Carlo” [Romanini]. Le mutazioni linguistiche appaiono precocemente e con documenti di inedita forza di scardinamento delle forme tradizionali del lessico artistico.”19 La definizione di “arte longobarda” ha acquisito negli ultimi anni una valenza di carattere storico più che etnico. Oggi indica il complesso delle manifestazioni artistiche realizzate a partire dalla metà del VI secolo, e quindi dal momento in cui i Longobardi varcarono le Alpi e conquistando l’Italia settentrionale diedero vita a un fiorente regno che cadde nel 774 a opera di Carlo Magro. Questo nuovo assetto politico spezzò ogni legame con il mondo antico. Negli oggetti di sicura produzione longobarda, soprattutto armi e gioielli ritrovati 18

Gibbon E., “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano”, Mondadori, 2012, vol II, pag. 1729

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Romanini A. M., Andaloro M., “L’arte medievale in Italia”, Milano, Sansoni, 1996, pag. 196

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INTRODUZIONE nelle tombe, si riscontrano i caratteri comuni a tutta l’oreficeria barbarica, in cui la vivacità cromatica, che abbina l’uso di smalti, pietre preziose e paste vitree, supplisce alla semplicità degli ornati geometrici e nastriformi. La diversa cultura degli invasori influì in qualche modo anche sui prodotti scultorei delle botteghe locali, che si dedicavano quasi esclusivamente all’arredo architettonico. Le superfici si rivestono di motivi decorativi e simboli, realizzati con un rilievo piatto che si stacca con netti contorni contro il piano di fondo arretrato. Quando invece si propongono intenti figurativi creano composizioni incerte, dove figure tozze e appiattite campeggiano nel vuoto. Ma gli affreschi di Castelseprio e il tempietto di Cividale, ad esempio, testimoniamo come questo periodo storico sia stato capace di produrre anche opere di grande qualità, dove la tradizione antica appare ancora straordinariamente vivace. Per inquadrare questo elaborato di tesi in un’adeguata cornice storico artistica, per analizzarne criticamente gli eventi storici e per studiarne il linguaggio figurativo, si partirà da una città, Roma, e da una figura, quella di un papa, Gregorio Magno. S. Gregorio Magno fu veramente il primo papa dell’età di mezzo il fondatore della Roma medievale, colui che diede alla città la posizione che avrebbe poi conservata per molti secoli nell’ambito dell’Occidente; ma fu anche l’ultimo papa dell’età paleocristiana, nata dalla cristianizzazione dell’antica Roma. Di entrambi questi aspetti della sua personalità è necessario tenere conto.20 La sua politica edilizia differì sostanzialmente da quella dei papi che lo precedettero e che lo seguirono. Durante il suo pontificato non fu eretta nessuna chiesa, e fu donato solo qualche arredo liturgico d’argento alla basilica Vaticana; l’inserimento nell’abside pietrina di una cripta e la trasformazione di alcuni antichi granai in diaconie non furono certo operazioni molto costose. E’ chiaro che Gregorio volle concentrarsi sui compiti che considerava

essenziali per un papa del suo tempo;

salvaguardare dalle invasioni Roma e i possedimenti della Chiesa; assumere le funzioni dell’inefficiente amministrazione bizantina, conferendo alla Chiesa le responsabilità di un governo temporale; riorganizzare la gestione delle proprietà ecclesiastiche, nutrire la popolazione romana e assicurare alla 20

CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 77

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INTRODUZIONE città i servizi essenziali; comunicare con le masse al loro livello e nel loro stesso linguaggio; infine, attraverso le missioni nei paesi nord-occidentali ancora pagani, fare di Roma la meta di pellegrinaggi provenienti da tutta Europa e la città santa del cristianesimo occidentale. Tutte queste attività furono svolte, più che in nome di sublimi ideali, sul piano della buona amministrazione quotidiana: fra i padri della Chiesa Occidentale, accanto ad Agostino grande teologo, ad Ambrogio uomo di Stato, a Girolamo predicatore ardente e traduttore della Bibbia, Gregorio fu l’ideatore e il realizzatore di un programma concreto che influì profondamente su Roma e suo ruolo nel mondo occidentale.21 Ma nel corso del VII secolo, a Roma e in tutto il Mediterraneo il quadro politico, economico e culturale si trasformò radicalmente sotto la pressione di eventi vicini e lontani. Nel 635 i musulmani conquistarono la Siria e la Palestina; Gerusalemme cadde nel 640, l’Egitto nel 641, la Persia e la Mesopotamia poco dopo; alla fine del secolo l’Africa settentrionale era in mano araba; nel 711 fu invasa e rapidamente conquistata la Spagna, a eccezione del Nord. Il Mediterraneo si trasformò in un lago musulmano; l’impero bizantino, attaccato dall’Islam a Sud, dagli Slavi e dagli Bulgari nei Balcani e dai Longobardi in Italia, si ridusse all’Asia Minore, alla Grecia e ai Balcani meridionali, con un precario dominio sull’Italia meridionale, sulla Sicilia e su Ravenna e con una presenza inefficiente (anche se tutt’altro che nominale) a Roma.22 Nella seconda metà del VII secolo i rapporti culturali con Bisanzio rimasero stretti, mentre Roma cercava di conciliare i propri interessi con le pretese politiche e teologiche dei Bizantini. L’afflusso di profughi dai paesi conquistati dai musulmani, tutti di cultura greca, rafforzò questi legami.23 Ma il conflitto tra Roma e Bisanzio, proseguito per tutto il VII secolo sulle questioni politiche e si quelle religiose, tra loro strettamente connesse, toccò il suo acme nel 726. L’impero e la Chiesa d’Oriente proibirono la venerazione delle immagini di Cristo, della Madonna e dei santi, dando inizio a una lotta iconoclastica che durò fino all’843, salvo un’interruzione

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CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 114

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CFR ivi, pag. 115

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Ivi, pag. 118

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INTRODUZIONE nel trentennio fra il 786 e l’816; la Chiesa di Roma si rifiutò di aderirvi, continuando a sostenere la venerazione delle immagini e lottando aspramente conto le imposizioni degli iconoclasti. A partire dal 720 circa, centinaia di monaci e di eremiti che si erano battuti conto la politica della Chiesa e del governo orientali cercarono scampo emigrando in Occidente. La maggior parte di essi si rifugiò naturalmente nelle province di lingua greca, e cioè nell’Italia meridionale e in Sicilia; a Roma arrivarono due ondate, la prima in coincidenza col culmine delle persecuzioni iconoclastiche intorno al 754 e la seconda dopo la loro recrudescenza nell’816. Entrambi i gruppi furono accolti a braccia aperte, in conformità del prevalente atteggiamento antibizantino dei papi.24 Le opinioni teologiche e le usanze liturgiche di questi profughi orientali – sia di quelli scacciati dalla Palestina e dalla Siria verso il 640, sia di quelli fuggiti dall’impero d’Oriente circa un secolo dopo – furono rapidamente assimilate nelle tradizioni romane; e anche l’influsso da essi esercitato sulla formazione dell’arte romana fra il VII e il IX secolo non sembra essere stato d’importanza secondaria. Sebbene i contatti con Bisanzio, soprattutto in campo politico, teologico e culturale, non venissero mai interrotti, rimase viva a Roma una tradizione locale il cui peso non è sempre facile da valutare. L’incontro con la tipologia architettonica, con gli schemi iconografici e con le concezioni stilistiche orientali (in particolare bizantine), il loro accoglimento o rifiuto e la loro rielaborazione formano un capitolo tanto affascinante quanto complesso della storia artistica di Roma. Le varie fasi di quest’incontro sono riflesse nei mosaici e nelle pitture murali, nelle icone e nelle piante delle chiese di Roma, ma molti elementi rimangono ancora oscuri, soprattutto per la scarsità di opere superstiti.25 In queste opere della metà del VII secolo l’illusione che le figure siano immerse nello spazio deriva chiaramente dalla volontà di modellare le forme corporee con luci e colori attenuati da una velatura

atmosferica,

realizzandole

con

pennellate

rapide

e

con

lumeggiature. Uno stile simile, strettamente collegato con elementi pseudoclassici, era prevalso a Costantinopoli nei primi decenni dello stesso secolo,

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CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 120

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CFR ivi, pag. 122

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INTRODUZIONE soprattutto nelle opere eseguite per l’imperatore Eraclio (610-641); non è ancora accertato se esso abbia trovato diffusione anche fuori di Costantinopoli, ma non v’è dubbio che nel cinquantennio a cavallo tra il VI e il VII secolo uno stile illusionistico si affermò a Roma nei dipinti murali di S. Maria Antiqua,26 capolavoro di arte altomedievale a Roma. Nel quadro dei persistenti contatti con l’ambiente bizantino, una seconda ondata ellenistica giunse a Roma direttamente da Costantinopoli sotto il pontificato di Giovanni VII (705-707).27 Nei due anni del suo pontificato, Giovanni mantenne stretti contatti con la corte di Costantinopoli e diventò, alla maniera di un gran signore bizantino, un attivo patrono delle arti a Roma, mettendo così termine a un cinquantennio di scarso intervento papale in questo campo.28 Nelle pitture e nei mosaici del tempo di Giovanni VII sono evidenti le nuove connessioni con Bisanzio.29 Analogamente a quanto già era accaduto un secolo prima, questa seconda ondata ellenistica giunta sotto il pontificato di Giovanni VII, pur lasciando tracce importanti a Roma, si orientò ben presto verso un linearismo sempre più marcato, nel quale riuscirono a sopravvivere solo tenui tracce di effetti illusionistici e di tecniche impressionistiche.30 A quanto pare l’influsso ellenistico che si manifestò a Roma intorno al 600 e al 700, e in generale gli elementi stilistici ed iconografici bizantini, provennero da Costantinopoli e dalla sua sfera d’influenza immediata, più che da centri provinciali: singoli maestri e intere botteghe devono essere venute direttamente dalla capitale bizantina, ed è improbabile che gli artisti attivi sotto Giovanni VII costituissero un caso isolato. Si è supposto che questi influssi siano giunti a Roma tramite le comunità monastiche in fuga dalle province siro-palestinesi e africane conquistate dai musulmani nel VII secolo, o dalle province centrali dell’impero bizantino dopo la metà dell’VIII secolo e di nuovo dopo l’816: ma di ciò non esistono prove. Il contributo delle comunità monastiche deve

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CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 128

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CFR ivi, pag. 131

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CFR, pag. 132

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CFR, ivi pag. 135

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Ibidem

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INTRODUZIONE aver riguardato soprattutto la prassi liturgica e le questioni teologiche, o tutt’al più qualche schema iconografico; i monaci sfuggiti agli iconoclasti avranno prodotto un certo numero di manoscritti o di epitaffi greci, ma il loro apporto era in ritardo e proveniva da centri bizantini di provincia o da città occidentali bizantinizzate, più che dalla stessa Costantinopoli.31 A Roma la vitalità delle forze autoctone fu nel complesso notevole, soprattutto durante questi secoli di più stretti legami con l’arte bizantina. Alcuni elementi orientali – immagini di santi, schemi iconografici, forme neoellenistiche – penetrarono nella città, probabilmente per opera di artisti venuti dalla stessa Bisanzio, ma furono rapidamente assorbiti, trasposti in un muovo linguaggio e fusi nella tradizione delle botteghe locali, allo stesso modo in cui furono assimilate e integrate nel rito romano le reliquie, le festività e le usanze liturgiche orientali. L’occupazione bizantina, gli stretti legami con l’Oriente, protrattisi per oltre due secoli, e gli sporadici influssi orientali non impedirono a Roma di rimanere una città prettamente occidentale; e anzi proprio nel VII e nell’VIII secolo essa divenne sempre di più la città santa, la capitale spirituale e il centro politico dell’Occidente. Portatori del suo crescente influsso furono i missionari inviati nei paesi barbari, e ancor di più tutti coloro che venivano in pellegrinaggio a Roma: tornando nei loro paesi, vescovi e sacerdoti nordici portavano con sé, oltre alle solite reliquie, anche le usanze del rito romano, cosicchè gli elementi orientali incorporati nella liturgia, inseriti nel calendario dei santi o assimilati nell’architettura e nella decorazione delle chiese di Roma si diffusero fin nei paesi più lontani d’Europa.32 Nello stesso tempo i Longobardi, che da quasi un secolo erano rimasti tranquilli, invadevano le terre della Chiesa nell’Italia centrale e i possedimenti bizantini nei dintorni di Ravenna; ma con abili trattative Gregorio II convinse il re Liutprando a deporre le armi sulla tomba di S. Pietro. Dieci anni più tardi, una nuova minaccia longobarda fu sventata allo stesso modo, dopo una frettolosa riparazione delle mura di Roma, dal papa Zaccaria, il quale andò personalmente a riprendersi, come un qualsiasi sovrano, le città di frontiera

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CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 136

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CFR ivi, pag. 137

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INTRODUZIONE restituite dagli aggressori. Quando nel 743 questi mossero di nuovo contro Ravenna, assediarono Roma, chiedendone la capitolazione. Il papa Stefano II temporeggiò e riuscì a far valere l’assedio, ma nel frattempo i Bizantini si rivolsero a lui, presumibilmente nella sua qualità di massimo funzionario imperiale dotato ancora di un potere legittimo, perché ottenesse in nome dell’imperatore la restituzione dei possedimenti bizantini occupati dai Longobardi. Questi respinsero la richiesta di Stefano, il quale si rivolse all’unica potenza occidentale capace di affrontare gli invasori: i Franchi. Nell’inverno del 753 il papa traversò le Alpi e il re franco Pipino il Breve, che qualche anno prima si era impadronito del trono con l’approvazione del predecessore di Stefano, fu da questi consacrato insieme coi figli. Venne così confermata la legittimità della sua dinastia a regnare sui Franchi, e da parte sua Pipino garantì la sicurezza di Roma e dei possessi della “repubblica romana della santa Chiesa di Dio”. Con la minaccia di un intervento armato di Pipino ottenne dai Longobardi la promessa di restituzione dei territori di proprietà della Chiesa: e quando l’anno seguente la promessa non fu mantenuta, il re franco scese nuovamente in Italia e costrinse i Longobardi a cedere, con una donazione “a San Pietro e alla Santa Romana Chiesa”, non solo questi territori, ma anche quelli già appartenenti ai Bizantini.33 L’età longobarda è in Italia uno dei momenti in cui la concezione “figurale” espressa magistralmente da Auerbach emerge più chiara, con la stessa freschezza con cui appare alla base della prima arte paleocristiana: anche se in tutt’altra forma, ben diversamente complessa. “Si tratta di una concezione “figurale” del mondo secondo la quale il “fenomeno” attuale è l’eterno in fieri, mentre quest’ultimo è, bensì, l’approdo finale e l’essenza segreta e ultima dell’oggi multiforme e frammentario, ma solo nella misura in cui quest’ultimo viene costruendolo, come un mare le cui “onde battono al di là”. Una concezione che è leitmotiv fondamentale e base teoretica di fondo di ogni aspetto del mondo medievale, costituendo pertanto chiave di lettura indispensabile per capire il Medioevo, anche in fatto d’arte.”34 Seguendo il libro “L’arte medievale in 33

CFR Krautheimer R., “Roma. Profilo di una città (312-1308)”, Roma, Edizioni dell’elefante, 1981, pag. 139

34

Romanini A.M. in Romanini A. M., Andaloro M., “L’arte medievale in Italia”, Milano, Sansoni, 1996, pag. 184185

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INTRODUZIONE Italia” e prendendo ad esempio e i capitelli di S. Eusebio a Pavia e la testa di Teodolinda, conservata al museo del Castello Sforzesco, due sono i punti che vanno evidenziati. Da una parte la testina è realizzata con tecniche desunte dall’oreficeria, quasi l’autore fosse un orafo applicato a trasferire nella roccia immagini e metodi operativi studiati per l’intaglio di piccole pietre preziose. Dall’altra, ad esempio la Teodolinda, è un punto di arrivo che in un certo senso risolve e conclude la ricerca espressiva di cui si possono apprezzare i riflessi nelle numerose crocette auree longobarde. Da queste emerge una immagine della figura umana di altissima forza astrattiva e di altrettanta cruda intensità. Un umanesimo “reinventato”: “così come i capitelli di S. Eusebio reinventano una tra le più classiche e tipiche forme dell’architettura greco-romana, riscoprendone la funzione statica e facendo di essa l’elemento base di una nuova “immagine” figurativa”.

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Il nuovo

elemento/forza è l’emergere di una linea/protagonista, un elemento che resterà a lungo alla base della forma artistica propriamente occidentale, “una linea intesa come strumento di conoscenza e di sintesi unificante. Uno strumento ideale per ritrovare alla radice delle immagini un ordine e un “senso unitario e dunque per ricomporre quella figura/sintesi di natura trascendente, chiarificatrice e salvifica, a trovare la quale è teso l’intero pensiero e l’arte medievale, dai sarcofagi “a teste allineate” del primo IV secolo a Dante”.36 Nel 774, anno in cui Carlo Magno finì il regno longobardo, per quanto i Longobardi si trovassero in disaccordo con Roma, erano, da più di un secolo circa, tutt’altro che i ferocissimi barbari persecutori della Chiesa, tuttavia non esisteva nemmeno la perfetta fusione tra Romani e Longobardi in un’unica gente “italiana”. La mancanza di documenti non ci permette di risolvere definitivamente né questi né molti altri punti fondamentali del “fenomeno longobardo”. Tuttavia almeno un punto è certo. Quando i Franchi scesero in Italia contro i Longobardi le loro armi non portarono il cattolicesimo e un revival latino in un’Italia traumatizzata e ridotta allo stato barbaro. Trovarono l’uno e l’altro in piena attività, da almeno più di un secolo. Riprendiamo i capitelli di S. Eusebio a

35

Romanini A.M. in Romanini A. M., Andaloro M., “L’arte medievale in Italia”, Milano, Sansoni, 1996, pag. 184

36

Ibidem

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INTRODUZIONE Pavia per enucleare cosa erano diventati i Longobardi in Italia e di conseguenza il loro linguaggio artistico. In essi l’immagine vegetale non solo si identifica con la funzione statica del capitello, ma la trasforma in “figura” del valore creatore e salvifico della croce. La croce nel capitello risulta essere non solo la figurazione centrale, ma addirittura l’asse portante e condizionante della forma del capitello, il quale di fatto sembra nato per contenerla e incorniciarla. “In definitiva, nei confronti degli esempi tardoantichi e bizantini – che certamente ben conosce e cita - l’autore di questo capitello sta come un consapevole erede, ben conscio del suo tempo “altro” e dei suoi diversi strumenti, così mentali come tecnici. E’ questa consapevolezza che lo libera da ogni atteggiamento di soggezione o di revival, permettendogli di ergersi ben autonomo e sicuro del suo proprio nuovissimo “volgare”. Si tratta di una linea che, nella multiforme varietà dell’VIII secolo longobardo, ha valore esemplare, rappresenta cioè una vera e propria costante di fondo, sottesa, chiarificandolo, a un pluralismo sperimentale quanto mai ricco e complesso”.37

37

Romanini A.M. in Romanini A. M., Andaloro M., “L’arte medievale in Italia”, Milano, Sansoni, 1996, pag. 218

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CAPITOLO I

CAPITOLO I

1.1 La storia del monastero di S. Vincenzo al Volturno "Fu scoperta per caso molti anni addietro, quando il proprietario del podere che vi faceva uno scasso per piantare la presente vigna, vide sprofondarsi il terreno, ed aprirsi la buca che serve ora di entrata alla cripta: buca alta un metro e larga mezzo metro, che doveva essere certo una finestra rettangolare della stessa cripta. Per cacciarvisi, non c'è altro modo che sedere sul pendio umidiccio dov'ella s'apre, restringersi tutto, e lasciarvisi andar giù sdruccioloni, senza pericolo di stracollarsi un piede; perché si batte subito sul piano, e si è dentro in compagnia di rospi e ragni di ogni varietà e costume".38 Sono parole di don Oderisio Piscicelli-Taeggi, lo scopritore, per lo meno dal punto di vista storico artistico, della cripta di Epifanio, a fine Ottocento che, con questo racconto bizzarro, avventuroso e a tratti surreale, ci descrive la rinascita nelle coscienze e alla conoscenza comune del sito altomedievale. Ma l'inizio della storia del monastero risale all'VIII secolo e più precisamente al 703, secondo il Chronicon Vulturnense, che rappresenta per noi la fonte più importante, essendo un manoscritto redatto nel monastero da un monaco di nome Giovanni nel 1120.39 In quell'anno Paldone, Tatone e Tasone, due fratelli ed un cugino, nobili e di origine beneventana, probabilmente per motivi di natura politica, decisero di allontanarsi dalle loro terre di origine. Essi avevano annunciato che la meta del loro viaggio sarebbe stata Roma, mentre in realtà era loro intenzione recarsi in Gallia. Arrivati ai confini della Marsica, rimandarono indietro servi, cavalli e some con i quali si erano fino a quel momento accompagnati e proseguirono a piedi verso la Sabina dove furono ospitati dall'abate di Farfa,40 Tommaso di Morienna.41 L'abate gli propose di proseguire insieme 38

Don O. Piscicelli-Taeggi, “Pitture cristiane del IX secolo esistenti nella cripta nella badia di San Vincenzo al Volturno”, Montecassino, 1896, pag. 5

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 29

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L'Abbazia di Farfa è un monastero della congregazione benedettina cassinese, che prende il nome dall'omonimo fiume (il Farfarus di Ovidio) che scorre poco lontano e che ha dato il nome anche al borgo adiacente l'abbazia. Si trova nel territorio del comune di Fara in Sabina, nel reatino.

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CAPITOLO I fino a Roma per un pellegrinaggio, ma durante il tragitto li convinse a tornare a Farfa dove i tre nobili abbracciarono la vita monastica. Proprio il monastero fu il luogo dove avvenne la riconciliazione dei cugini con i propri genitori. I tre, grazie all'intermediazione dell'abate Tommaso, ottennero inoltre in concessione, dal duca Gisulfo di Benevento,42 il territorio che corrisponde al bacino idrografico dell'Alto Volturno. Il Chronicon riporta l'avvenimento con ricchezza di immagini miniate e dovizia di particolari, descrivendo l'avvio del monastero e le difficoltà che i tre incontrarono. Pare addirittura che un angelo apparve loro, portando vino e farina in segno di benedizione e benvenuto, nel luogo che l'abate di Farfa gli aveva indicato. Paldone fu il primo abate del nascente monastero di S. Vincenzo in Volturno, che iniziò a sorgere in un luogo da tempo abbandonato e che doveva essere l'antica sede vescovile di Marcus Samnius. Il Chronicon però non si sofferma nel spiegarci gli aspetti più legati agli interessi che il papa Giovanni VI, amico personale di Tommaso di Morienna, aveva per quel territorio che si trovava ai limiti del ducato di Benevento e di Spoleto. La scelta non era affatto casuale e il luogo fu individuato sulla base di considerazioni strategiche nell'ambito di una politica di controllo di quelle zone, volendo il papa impiantare un'istituzione monastica che si articolasse in un territorio ormai pericolosamente abbandonato e non sotto controllo.43 Nel 774 Carlo Magno44, deponendo Desiderio,45 si attribuiva il titolo di re 41

Tommaso di Farfa, noto anche come Thomas de Maurienne (Val Moriana, 650 – Farfa, 10 dicembre 720), fu un religioso francese appartenente all'Ordine benedettino che fondò l'Abbazia di Farfa della quale fu il primo abate. Monaco benedettino di origini francesi, durante il viaggio di ritorno in patria dopo una permanenza a Gerusalemme di sette anni insieme al connazionale Luciero, passato per Roma, si fermò a Farfa. Secondo la tradizione gli apparve in sogno la Madonna che lo invitò a cercare in Sabina, nei pressi del monte Acuziano, una chiesa in suo onore ormai abbandonata: l'avrebbe riconosciuta perché circondata da tre alti cipressi. Praticamente rifondò l'Abbazia di Farfa, in abbandono da tempo, e la resse come abate per 35 anni, durante i quali l'Abbazia si riprese e divenne ancor più grande e famosa di quanto lo fosse stato in precedenza. Già nel IX secolo in alcuni testi farfensi se ne riporta la venerazione come santo. Viene celebrato il 10 dicembre. 42

Gisulfo I (o Gisolfo; ... – 706) è stato un duca longobardo, duca di Benevento dal 689, quando morì suo fratello Grimoaldo, alla morte. Suo padre fu Romualdo I. Sua madre fu Theodrada (o Theuderata), figlia di Lupo del Friuli, ed esercitò la reggenza per lui durante i primi anni del regno. Secondo Paolo Diacono, fu durante il suo regno che le reliquie di san Benedetto da Norcia e di sua sorella santa Scolastica furono portate via da Monte Cassino da parte dei Franchi. 43

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 29

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Carlo, detto Magno, o Carlomagno, in tedesco Karl der Große, in francese Charlemagne, in latino Carolus Magnus (2 aprile 742 – Aquisgrana, 28 gennaio 814), fu re dei Franchi e dei Longobardi e imperatore del Sacro Romano Impero. L'appellativo Magno (in latino Magnus, "grande") gli fu dato dal suo biografo Eginardo, che intitolò la sua opera Vita et gestae Caroli Magni. Grazie a una serie di fortunate campagne militari allargò il regno dei Franchi fino a comprendere una vasta parte dell'Europa occidentale. La notte di Natale dell'800 papa Leone III lo incoronò imperatore, fondando l'Impero carolingio. Con Carlo Magno si assistette quindi al superamento, riguardo alla storia dell'Europa occidentale, dell'ambiguità giuridico-formale dei regni romano-barbarici in favore di un nuovo modello imperiale. L'Impero resistette fin quando il figlio di Carlo, Ludovico il Pio, fu in vita venendo in seguito diviso fra i suoi tre eredi, ma la portata delle sue riforme e la sua valenza sacrale influenzarono radicalmente tutta la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi.

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CAPITOLO I dei Longobardi, con il sostegno del papa Adriano I.46 Da questo momento a Roma vennero recuperati i modelli di riferimento dell'universalismo che sarà alla base della politica carolingia.47 I monasteri meridionali, in particolare, forniranno le fonti giuridiche, storiche e artistiche alla quali attingerà la cultura nordica. Ad Ambrogio Autperto48 deve attribuirsi il merito di aver intensificato i rapporti tra il monastero vulturnense e la corte reale carolingia, dalla quale egli proveniva. Carlo Magno dotò il cenobio di numerosi privilegi e confermò le precedenti donazioni dei duchi longobardi. Autperto, uomo di grande cultura, a S. Vincenzo trovò un ambiente adatto per ampliare i suoi orizzonti integrando i suoi obiettivi politici con la conoscenza delle Sacre Scritture.49 Questa circostanza non fu favorevole solo alla formazione personale di Ambrogio, ma anche al monastero che trovò nella figura di Autperto l'artefice della riorganizzazione sistematica dei princìpi della regola benedettina, nell'ottica di un'esaltazione in termini più universali della comunità monastica e del suo patrimonio culturale e 45

Desiderio, noto anche come Daufer, Dauferius, Didier, in francese, e Desiderius, in latino (Brescia, ... – Liegi?, post 774), fu re dei Longobardi e re d'Italia dal 756 al 774. Originario di Brescia, fu creato da Astolfo duca di Tuscia. Alla morte di Astolfo aspirò al trono longobardo in opposizione al fratello e predecessore del defunto, Rachis, che aveva abbandonato il monastero di Montecassino dove si era ritirato ed era ritornato a Pavia, occupando il palazzo regio. 46

Adriano I (Roma, 700 – Roma, 25 dicembre 795) fu il 95º papa della Chiesa cattolica, dal 1º febbraio 772 alla sua morte. Era il figlio di Teodato consul, dux et primicerius Sanctae Romanae Ecclesiae e fratello di Alberico marchio et consul tusculanus princeps potentissimus, che alcuni genealogisti vogliono come antenato più remoto dei celebri conti di Tuscolo. Subito dopo la sua consacrazione, il territorio governato dai Papi venne invaso da Desiderio, re dei Longobardi, e Adriano si trovò costretto ad invocare l'aiuto del re dei Franchi, Carlo Magno, che entrò in Italia con una grossa armata, assediò Desiderio nella sua capitale, Pavia, prese la città, mandò in esilio il re Longobardo a Corbie (in Francia) e con un gesto innovativo si prese per se il titolo di re dei Longobardi. Il Papa, le cui aspettative erano aumentate, dovette accontentarsi di alcune aggiunte territoriali al Ducato di Roma, all'Esarcato di Ravenna e alla Pentapoli delle Marche, che consisteva di cinque città sulla costa dell'Adriatico, da Rimini ad Ancona, e della piana costiera fino all'inizio delle montagne. 47 Proprio al tempo di Ambrogio Autperto, in seguito alla vittoriosa discesa di Carlo Magno in Italia, il monastero fu teatro di una lotta fra i monaci longobardi fedeli al duca di Benevento e quelli franchi favorevoli ai nuovi dominatori d'oltralpe, tanto è vero che i Carolingi si interessarono ben presto agli affari del monastero. Più precisamente, si narra che nel 783 un monaco della fazione franca aveva accusato il monaco longobardo Poto di aver rifiutato di cantare, insieme al resto della comunità le salmodie augurali in onore di Carlo Magno. Quando il re franco venne a conoscenza di ciò, ordinò che Poto fosse sospeso dalla sua carica, condotto a Roma e tratto di fronte ad una commissione papale di inchiesta. Poto fu, comunque, prosciolto dall'accusa, ma gli venne richiesto di pronunciare un giuramento di fedeltà al re e a dieci monaci, scelti tra la comunità, rappresentanti di entrambe la fazioni. Allo stesso modo i monaci si recarono da Carlo Magno per attestare sotto giuramento, l'innocenza di Poto. 48

Ambrogio Autperto (... – 781) è stato un teologo e abate franco. Originario della Provenza, nato da distinta famiglia, fu alla corte del re franco Pipino il Breve ove fece da precettore del futuro imperatore Carlo Magno di cui fu in seguito cancelliere. Probabilmente al seguito di Papa Stefano II Autperto venne in Italia ed ebbe modo di visitare la famosa abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno, nel ducato di Benevento. Nel 740 decide di abbracciare la vocazione religiosa e diventa monaco in tale abbazia. Intorno all’anno 761 venne ordinato sacerdote e il 4 ottobre del 777 fu eletto abate. Scrisse un commento agli scritti dell’Apocalisse di San Giovanni e nello stesso periodo diventa abate, ovvero dal 777 al 778. Per il monastero era un periodo difficile di continue lotte interne tra monaci che sostenevano i longobardi e i monaci che sostenevano i franchi, infatti la sua morte avvenne in modo misterioso. 49

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 29

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CAPITOLO I non. L'interpretazione degli scritti di S. Giovanni Evangelista ed il suo Commentario dell'Apocalisse contribuirono in maniera decisiva alla formazione di una cultura vulturnense che ebbe così ad assumere dei caratteri di assoluta originalità sia sul piano della corrispondenza tra organizzazione monastica e strutture architettoniche, sia su quello del rapporto esistente tra espressioni artistiche e simbologia. E' all’abate Giosuè, succeduto a Paolo I, che si deve una totale riorganizzazione urbanistica del monastero ed una serie di iniziative architettoniche che condizionarono l'impianto funzionale della città monastica fino al giorno della distruzione saracena. Prima di tutto va evidenziato che Giosuè consolidò i rapporti con la corte carolingia, anche per suo diretto collegamento con la famiglia imperiale: sua sorella, infatti, fu la moglie di Ludovico il Pio, uno dei figli di Carlo Magno e futuro imperatore d'Europa. Giosuè si era reso conto che ormai l'organizzazione monastica di S. Vincenzo aveva assunto caratteri di assoluto rilievo, diventando un punto di riferimento di straordinaria importanza non solo nel quadro dell'organizzazione monastica peninsulare, ma anche nel complicato sistema politico di quell'epoca, per le interferenze tra il potere civile e quello religioso. L'abate certamente comprese che ormai era il momento di dare una connotazione urbanistica alle articolazioni monastiche che prima, in maniera spontanea, si erano aggregate all'antico nucleo di S. Vincenzo. Seguendo un criterio di razionalizzazione e pianificazione degli spazi, sulla scorta di indicazioni determinate dalla Regola di S. Benedetto e condizionato dalle sopravvivenze delle strutture del vicus e della villa romana preesistenti, diede inizio ad un'opera che porterà il complesso vulturnense a collocarsi tra i più importanti monasteri d'Europa. E' ovvio che anche la nuova impresa costruttiva si sarebbe dovuta inquadrare nella più vasta visione carolingia della Renovatio Imperii e quindi anche la nuova chiesa, di cui aveva intrapreso l'edificazione, avrebbe dovuto ispirarsi a uno dei modelli più significativi dell'architettura cristiana imperiale, quale di fatto era la chiesa costantiniana di S. Pietro a Roma, non solo utilizzando materiale di spoglio di preesistenti monumenti romani, ma anche rinnovando un’ iconografia consolidata dall'architettura. Nella

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CAPITOLO I costruzione della chiesa vennero adottati moduli proporzionali che si ritrovavano in altri edifici benedettini del territorio vulturnense.50 L'anno dell'inaugurazione, dice il Chronicon, pare debba farsi risalire all'808 presenti, secondo il cronista, Ludovico il Pio51 e Pasquale I,52 ma se si tiene conto che Pasquale I fu papa dal gennaio 817 al febbraio 824, che Ludovico il Pio divenne imperatore nell'814 e che Giosuè morì nell'817, deve ritenersi che l'inaugurazione sia avvenuta nei primi dell'817, pur rimanendo dubbia la presenza dell'imperatore che non risulta essere sceso in quell'anno. L'impianto

architettonico

risente molto,

in maniera diretta,

dell’

impostazione costantiniana della basilica vaticana di S. Pietro che, per tutta la cultura carolingia, continuò ad essere un riferimento costante pur nella varietà delle dimensioni e del numero delle navate. L'impostazione spaziale era basata su una rigorosa assialità longitudinale e la scoperta della grande cripta semianulare sottostante la parte presbiteriale dell'abside centrale non fa che confermare l'importanza che la basilica doveva avere nel progetto dell'abate Giosuè.53 Ciò che rimane delle pitture, decorative e figurative, nel complicato corridoio che immetteva nella piccola cella, mette in evidenza l’intento di portare quasi all'esasperazione la ricerca di uno spazio labirintico, che richiamasse i più antichi complessi catacombali, volti a proteggere, quasi come una serie di gusci, la parte che era considerata più

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 32

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Ludovico I, detto Ludovico il Pio o Luigi I, in francese è Louis le Pieux o Louis le Débonnaire (il Benevolo), in tedesco è Ludwig der Fromme (Casseuil-sur-Garonne, 16 aprile 778 – Ingelheim am Rhein, 23 giugno 840), fu re dei Franchi e imperatore dell'Impero carolingio dal 814 all'840. Ludovico nacque a Casseuil-sur-Garonne, nell'attuale Gironda, in Francia, quarto figlio legittimo di Carlo Magno. Fin dall'infanzia, raccontano i biografi, fu molto religioso. Ludovico fu incoronato re di Aquitania, ancora bambino, nel 781, e là inviato con un reggente e una corte per governare la regione, reprimere le ribellioni delle popolazioni sottomesse e cercare altresì di estendere il regno oltre i Pirenei. Nel 793, fu inviato in Italia in appoggio del fratello Pipino in lotta contro il duca di Benevento. Tornato in Aquitania, sposò Ermengarda, figlia del conte Ingram, che gli darà sei figli. 52

Pasquale I (Roma, ... – Roma, 11 febbraio 824) fu il 98º Papa della Chiesa cattolica, che lo venera come santo, dal 25 gennaio 817 alla sua morte. Nato a Roma, abate della basilica di Santo Stefano, venne elevato al pontificato per acclamazione del clero romano poco dopo la morte di papa Stefano IV. Non era trascorso infatti neanche un giorno completo dalla morte del suo predecessore poiché il clero temeva che il tempo favorisse eventuali interferenze da parte dell'imperatore. Come i suoi predecessori Pasquale I si preoccupò di informare prontamente e rendere omaggio all'imperatore carolingio Ludovico il Pio ed informarlo che la celerità della sua nomina, da lui non sollecitata, era dovuta esclusivamente all'esigenza di evitare il formarsi di fazioni in Roma. A tal fine inviò il suo legato pontificio Teodoro che tornò non solo con le felicitazioni dell'imperatore ma anche con un Pactum cum Pashali pontifice con il quale l'imperatore s'impegnava a riconoscere la sovranità papale sui territori dello Stato Pontificio ed a garantire il libero svolgimento delle elezioni del papa. Tale documento fu successivamente contestato da molti storiografi. Le relazioni tra Pasquale I e l'imperatore comunque, non furono mai molto cordiali, così come Pasquale non riuscì mai a conquistarsi le simpatie della nobiltà romana. 53

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 32

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CAPITOLO I sacra, ovvero la piccola cella a forma di croce latina, che assumeva la funzione di reliquiario dove pochi avevano il privilegio di accedere fisicamente. Il percorso che porta al sacello non ha altri uguali pur se si presta a confronti con, ad esempio, St. Petersburg presso Fulda, Saint Medard a Soissons, Saint German ad Auxerre, la basilica di Vreden, l'abbazia di Werden o, infine, il duomo di Hildesheim. La decorazione è particolarissima, non ha esempi in tutto il mondo carolingio e consta di una profusione di diamanti, marmi policromi, tarsie multicolori, pannelli di cubi che caratterizzano l'ambiente come un luogo prezioso.54 Vista la situazione archeologica della cripta di Giosuè, cadute le parti strutturali verticali, l'ambiente è analizzabile come se ci si trovasse nella sua prima fase costruttiva. Ciò ci induce a riflettere sull'originale impostazione spaziale e sul concetto di centralità nell'architettura cristiana di questo periodo. Il punto di partenza della costruzione appare evidente come sia anche il luogo centrale simbolico dell'abbazia, ovvero il reliquiario a pianta cruciforme.55 Dall'824 all'842 il monastero verrà retto da un'altra figura centrale per la storia di san Vincenzo al Volturno ovvero l'abate Epifanio. “Qual è il tempo da assegnare a siffatte pitture? E' facilissima la risposta: al nono secolo. Lo rivela il disegno tanto conforme ai pochi monumenti che ci restano di quel tempo, e lo conferma la maniera di colorire. Ben pochi mezzi allora offriva agli artisti la tavolozza, provveduta di soli quattro colori: il rosso, il giallo, l'azzurro e il nero; e solo dalla digradazione di essi e dalla loro mescolanza si ottenevano le altre tinte. Nondimeno ci stupisce il meraviglioso effetto

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Un visitatore di IX secolo che fosse sceso nella cripta di Giosuè si sarebbe trovato di fronte a uno scintillio di colori e motivi, come le grandi rotae e i pannelli rettangolari con composizioni prospettiche raffinate. Le rotae sono realizzate a partire da bande concentriche intersecate da linee radiali, divise in sezioni che sfruttano un numero base di forme e una gamma di colori calcolata in variazioni che sembrano infinite. La decorazione non è dipinta bidimensionalmente, ma resa in maniera da dare l'impressione di superfici curvate, concave o convesse o inclinate su piani angolari. Le formazioni prospettiche rompono continuamente il punto di vista e interrompono la visione prospettica: non vi sono due rotae uguali. La sequenza dei disegni è cangiante e comprende elementi illusionistici tridimensionali, elaborate sequenze di solidi geometrici regolari, accordi di superfici sfaccettate e motivi ingegnosi in andamento diagonale. Le configurazioni base impiegate per ogni pannello in combinazioni differenti sono in numero limitato: modanature a zig-zag poste al rovescio, scacchiere che diventano meandri e merlature, formazioni sfaccettate a ventaglio o a stella, grappoli di piramidi tronche, giochi cromatici, scale multicolori che si sovrappongono a schemi di marmi venati. Le forme utilizzate sono i triangoli, i quadrati, i rettangoli, le losanghe, i rombi e i parallelogrammi, ma sempre variopinte. Ogni pannello è incorniciato da un bordo riccamente decorato e ben marcato. In generale tutte le pitture, figurate e non, ritrovate o nella sala delle riunioni o nell'aula centrale dello stesso edificio sono di primissima qualità e dimostrano la volontà di ricreare un'atmosfera e un decoro anticheggianti, come la pittura a finti pannelli di marmo, il partito decorativo a pelte sovrapposte o lo zoccolo decorato in finto porfido e in finto granito rosso picchiettato. Nella parete di fondo del peristilio le pitture rievocavano figure vegetali. Qui lo schema decorativo fu pesantemente rovinato dall'incendio dell'881, ma le tracce di blu egiziano rinvenute suggeriscono che non si trattava di un ambiente qualsiasi.

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg. 38-39

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CAPITOLO I che si sapeva ritrarre da così poco. Sì, quelle figure non hanno rilievo: le sole pieghe, le quali non sono scarse, e non sono senza varietà e ragionevolezza, danno forma alle figure: trascurata è la parte ornamentale e quasi insignificante; ma pure l'occhio le contempla con amore. E meglio che il colorito e il disegno, il tempo preciso delle pitture ce lo dà la figura dell'abate Epifanio che è ai piedi del calvario. Il suo nimbo ad angoli retti ci dice che egli era vivente, quando fu dipinta la cripta; ed Epifanio, secondo il Chronicon Vulturnense, fu abate dall'826 all'843, e tenne il governo diciassette anni, undici mesi e otto giorni”.56 Figura centrale, quindi, non solo perché permette di datare le pitture presenti nella cripta della chiesa da lui fatta realizzare, ma anche perché a lui si devono i meriti di una rielaborazione definitiva del monastero attraverso soluzioni che portarono il complesso ad assumere un aspetto aderente alla spiritualità benedettina. E’ in questo periodo che S. Vincenzo diventa "un centro avanzato della cultura religiosa cristiana dell'alto medioevo europeo”.57 Purtroppo una serie di eventi disastrosi, come il terremoto dell'847 e soprattutto le incursioni saracene dell'861 e dell' 881, costituirono l'inizio della fine per questa straordinaria esperienza religiosa. Alla sette del mattino del dieci ottobre dell’881 gli Agareni,58 che secondo il Chronicon, erano comandati da Saugdan, assalirono il monastero. Sempre secondo il Chronicon, l'assalto fu facilitato dal tradimento di un servo che aveva consentito ai Saraceni di individuare la parte più facilmente attaccabile, quella di sud-est. L’ora e la direzione furono scelti anche per motivi di tecnica militare in quanto i Saraceni necessitavano di avere il sole alle loro spalle. Quel giorno, a San Vincenzo al Volturno, era presente anche la comunità monastica di Montecassino. Furono saccheggiati tesori, distrutto lo scriptorium con tutti i codici fino ad allora elaborati, demolite le officine, fatte crollare le 56

Don O. Piscicelli-Taeggi, “Pitture cristiane del IX secolo esistenti nella cripta nella badia di San Vincenzo al Volturno”, Montecassino, 1896, pagg.17-18

57

F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag. 46

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Saraceni è il termine col quale, in contesto medievale cristiano, si usavano chiamare i musulmani provenienti dal Nordafrica o, addirittura, dalle più lontane contrade del Mashriq(Oriente islamico). L'origine del termine è di fatto incerta. Le ipotesi principali sono due: c'è chi si rifà al termine arabo sharqiyyùn, che significa "orientali" (ma il dubbio principale è "orientali" rispetto a chi o a cosa?); oppure chi ipotizza un richiamo al nome di qualche gruppo tribale arabosinaitico, i Sarkénoi,] intesi come "figli di Sara", con riferimento alla storia di Abramo. Un altro nome, che prendeva le mosse proprio dal termine "Saraceni", ha portato nei secoli scorsi a usare talora l'espressione "Agareni": dal momento che il patriarca Abramo aveva avuto suo figlio Isacco/Israele da Sara, la discendenza dell'altro suo figlio Ismaele, progenitore biblico e coranico degli Arabi "che vivono nelle tende" (nomadi), avrebbe dovuto essere più logicamente chiamata "agarena", dal nome appunto della sua schiava Agar.

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CAPITOLO I murature. Desolati per lo scenario che avevano davanti, senza la forza per ricominciare, i pochi monaci superstiti si trasferirono a Capua dove fondarono un nuovo monastero, sempre dedicato a San Vincenzo, retto fino al 920 da Godeberto.59 A cavallo del Mille, una nuova comunità di monaci ridiede vita al monastero di San Vincenzo al Volturno. Giovanni V fu l'ultimo abate che intervenne sulla basilica che fu di Giosuè ed Epifanio. La storia del monastero proseguì fra alterne vicende e dal secolo XI la famiglia dei Borrello influenzò le vicissitudini del sito fino a quando la stessa famiglia non restituì parte dei territori di cui erano entrati in possesso illegalmente. Questo episodio se da una parte significò la liberazione dall'ipoteca burellense, dall'altra sancì la fine dell'autonomia vulturnense e l'ufficiale entrata nell'ottica di Montecassino.60 Dal punto di vista storico artistico, è da riferirsi a questo periodo, sotto l'abbaziato di Benedetto e forse del suo successore Amico, il magnifico pavimento a tessere marmoree che si conserva nelle ali e sul presbiterio nonché sotto l'attuale pavimentazione.

E' considerata una delle più stupefacenti opere di

composizione pavimentale del XII, confrontabile con quella più famosa di Montecassino. La composizione è ottenuta con un'innumerevole quantità di tarsie marmoree ricavate da materiali di spoglio seguendo un disegno unitario che si ripete uguale a sé stesso per tutta la chiesa. L'elemento base è una lunga linea continua che parte dalla grande ruota della navata centrale per intrecciarsi con una miriade di composizioni circolari realizzate a partire da forme più piccole rotonde, quadrate, triangolari, esagonali ed ottagonali. La grande rota regia ospitava i personaggi più illustri che venivano a far visita all'abbazia. L'ambito culturale a cui, probabilmente, bisogna riferire questa importante ornamentazione litostrota è quello di area romano-laziale che vedeva svilupparsi questa particolare forma di decorazione, in particolar modo ad opera di famiglie di artigiani i quali utilizzavano marmi preziosi quali il serpentino, il porfido, lo statuario, il granito per decorare i 59

Godeperto (o Godeberto; 645 circa – Pavia, 662) fu re dei Longobardi e re d'Italia dal 661 al 662. Nel 661, alla morte di Ariperto I e secondo la sua volontà, i suoi due figli Godeperto e Pertarito furono nominati successori congiunti sul trono longobardo. Il regno fu bipartito (procedimento rimasto unico nella storia dei Longobardi ma frequente, per esempio, tra i vicini Franchi); Godeperto elesse a sua capitale Pavia, mentre il fratello si insediò a Milano. Tra i due fratelli si aprì immediatamente un conflitto civile; Godeperto invocò, tramite il duca di Torino Garibaldo, l'aiuto del duca di Benevento, Grimoaldo, che accorse con truppe provenienti, oltre che dal suo ducato, anche da quelli di Spoleto e di Tuscia (662). Giunto a Pavia, il duca, istigato da Garibaldo, uccise il sovrano e ne occupò il trono. 60

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg. 52-57

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CAPITOLO I pavimenti, ma anche le pareti delle più importanti chiese dell'area. L'abbazia di Montecassino fu soppressa dal punto di vista giuridico con le leggi di riforma del Regno di Napoli e conseguentemente anche i beni di San Vincenzo, una volta incamerati dallo Stato, furono venduti a privati e dopo alcuni passaggi finirono in proprietà del duca Enrico Catemario di Quadri che, nel 1942, stabilì di donarli a Montecassino mentre era abate Gregorio Diamare. Da allora l'abbazia di Montecassino è di nuovo proprietaria di tutto il complesso e l'abate ordinario ne conserva la giurisdizione.61 Queste le vicende storiche. Si vuole concludere con due citazioni, una dell’allora arcivescovo di Milano, già abate di San Paolo fuori le mura e l’altra dell’ex presidente della Repubblica C.A. Ciampi, il primo visitò l’abbazia nell’agosto del 1929, il secondo nel marzo del 2002, le due frasi ci possono far rendere conto di quanto è stato fatto, nonostante ci sia ancora molto da fare, dal punto di vista conservativo, argomento del quale si parlerà più dettagliatamente nel terzo paragrafo di questo capitolo. Così il card. Schuster: “Questi resti oggi danno al visitatore un senso di pena per l’ingiuria che il tempo e gli uomini, ma soprattutto gli uomini, hanno recato ad essi. La Badia di San Vincenzo al Volturno è per me uno dei documenti più importanti della Storia Italiana perché qui la Storia è stata vissuta!”62 Così, invece, si espresse l’ora senatore a vita Ciampi: “Nell’Europa che stiamo costruendo, con una cittadinanza e una sovranità comuni, le grandi istituzioni culturali saranno i pilastri sui quali far crescere quella identità culturale che già delega i nostri popoli, soprattutto le giovani generazioni. Alcuni giorni fa sono rimasto profondamente colpito dalla visita degli scavi archeologici del monastero di San Vincenzo al Volturno. E’ straordinario pensare come Carlo Magno – nonostante le guerre, la difesa dai barbari, il peso dell’impero – abbia voluto investire cospicue risorse nella costruzione e nello sviluppo di una grande impresa culturale, il monastero di San Vincenzo, all’estremo confine sud della “sua” Europa. Il parco archeologico sta diventando un esempio concreto di “alleanza delle autonomie”. Bisogna renderne merito alla Regione Molise, al Ministero per i Beni Culturali, 61

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995 , pag.73

62 N. Paone, “San Vincenzo al Volturno”, Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “V. Cuoco”, Iannone, Isernia, 2004, pagg. 166-167

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CAPITOLO I all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ho incontrato i giovani archeologi che stanno riportando alla luce quella straordinaria città monastica. Ho visto il loro entusiasmo, la preparazione e la consapevolezza di fare un’opera importante che resterà. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire.” (Palazzo del Quirinale, 3 aprile 2002.)63

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N. Paone, “San Vincenzo al Volturno”, Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “V. Cuoco”, Iannone, Isernia, 2004, pag. 165

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CAPITOLO I 1.2 Critica d'arte a San Vincenzo al Volturno Il monastero di San Vincenzo al Volturno rappresentò un crocevia di idee, arti e figure eminenti. Un nodo cruciale per la storia dell'arte, la storia del monachesimo e la storia dell'Alto Medioevo per lo meno italico, se non europeo. Già nell'idea della sua progettazione si riunivano più necessità ed obiettivi: da una parte l'abbazia avrebbe dovuto accogliere le esigenze di una comunità che erano eminentemente spirituali, di cura delle anime, ma San Vincenzo al Volturno rispondeva anche a delle mire di potere e si configurò da subito come un' istituzione di potere, un potere che la relazionava a livello internazionale ad altri organismi chiave sullo sfondo politico, sfondo sui cui comunque si comportava da protagonista.64 La serie di officine, centri produttivi e botteghe associate, così come gli atelier specializzati erano parte integrante del monastero di San Vincenzo al Volturno tra la fine dell’VIII secolo e il saccheggio dell’abbazia, avvenuto nell’881. Queste importanti testimonianze archeologiche, le tracce delle loro attività e la sequenza con la quale vengono ritrovate forniscono una fondamentale risorsa per conoscere la storia delle sorti di San Vincenzo al Volturno, le dinamiche del monastero stesso e le strategie messe in atto dai monaci di volta in volta per l’ampliamento e la ricostruzione. Effettivamente le officine danno prova anche della volontà del complesso di tentare di sostenersi da solo e di controllare da solo i suoi cambiamenti, le sue condizioni politiche e le sue questioni sociali. Nonostante però i luoghi strategici dove sono ubicate e il ruolo cruciale giocato nella gestione della politica, la distruzione del tessuto dei monasteri altomedievali è stata pressocchè completa e nonostante le chiese vengano conservate e preservate sempre meglio in realtà dobbiamo considerare e mai scordarci che conosciamo veramente poco sull’organizzazione costruttiva dei monasteri, sulla loro forma e sui dettagli delle loro strutture, sull’estensione delle sale, delle gallerie, dei portici e delle corti, delle camere e degli edifici funzionali. Se quindi il ritrovamento dei ruderi delle officine medievali risulta ancora più eccezionale, bisogna sempre tener conto della percentuale minima, 64

CFR J. Mitchell, “San Vincenzo al Volturno nell’Alto Medioevo, in R. Cassanelli, E. Lopez-Tello Garcia, “Benedetto: l’eredità artistica”, Jaca Book, 2007

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CAPITOLO I rispetto all’intero, che si ritrova. Del regno franco a nord delle Alpi ci sono frammenti di evidenze archeologiche di siti come Corvey, Fulda e Lorsch, dall’Inghilterra anglosassone ne abbiamo dal monastero di Beda a Jarrow in Northumberland e alcuni dal possibile complesso monastico di Flixborough. In Italia evidenze di produzioni artigianali sono state rinvenute attorno alle corti del monastero di fondazione ducale longobarda di San Salvatore a Brescia, per l’VIII e il IX secolo a Nonantola, Novalese e Farfa; a Roma, nella Crypta Balbi, le attestazioni sono leggermente precedenti, mentre tracce di attività metallurgiche per il VII secolo sono state riportate alla luce in prossimità della chiesa episcopale a Comacchio; in questo il monastero di San Vincenzo rappresenta un’eccezione in quanto il completo abbandono del primo monastero e i successivi piccoli lavori agricoli hanno permesso l’eccezionale conservazione delle tracce del primo impianto monastico, con le murature in alzato e una ricchezza di artefatti riportati alla luce dagli scavi. Il nuovo monastero iniziato da Giosuè e completato dai suoi successori Talarico ed Epifanio fu un palcoscenico in cui tutte le arti concorsero al raggiungimento degli scopi sopra elencati. La pittura, la scultura, la lavorazione, del vetro, dei metalli, dell'avorio e dello smalto erano da una parte utilizzate per realizzare una cornice preziosa consona alla preziosità del patrimonio culturale del monastero, ma utilizzarono loro stesse quei luoghi per dispiegarsi e mettersi in mostra. Che fosse per attrarre l'attenzione sulle importanti reliquie conservate, per commemorare illustri abati defunti o per dilettare benefattori di riguardo, in ogni parte del monastero la bellezza si mostrava senza pudori a suggellare la sacralità di quegli spazi. I vari tipi di decorazione mettono in relazione luoghi diversi del monastero creando una gerarchia degli spazi, definendo varianti all'interno di una gamma di motivi ornamentali ricorrente.65 La cripta dell'abate Epifanio, che può a buon diritto considerarsi la perla dal punto di vista storico artistico del monastero di San Vincenzo al Volturno, fosse solo per le ottime condizioni in cui è arrivata a noi, era completamente dipinta con un complesso programma che traeva spunto dagli scritti di Ambrogio Autperto; il ciclo di pitture murali che qui si sta per analizzare, si configura 65 CFR J. Mitchell, “San Vincenzo al Voltrurno nell’Alto Medioevo, in R. Cassanelli, E. Lopez-Tello Garcia, “Benedetto: l’eredità artistica”, Jaca Book, 2007

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CAPITOLO I quindi come complesso e sottilissimo, qual'era la mente del grande teologo e quale è l'eredità intellettuale da lui lasciataci. E' praticamente impossibile ricostruire l'identità e la provenienza del gruppo di artisti impegnati nella decorazione dei muri della cripta. Il modo di delineare i volti, la definizione della ricaduta delle pieghe delle tuniche e dei pallii sulle membra, gli ornamenti, le perle e i ricami che decorano le vesti e ornano gli abiti fanno riferimento a quel modo diffuso nel ducato di Benevento e che può ritrovarsi nelle principali località collegate al monastero: Prata di Principato Ultra, vicino Avellino, Sant'Ambrogio di Montecorvino Rovella, il tempietto di Seppannibale, vicino Fasano, in Puglia.66 Si è ipotizzato che questa tradizione tragga spunto dall'èlite di committenti che gravitava nell'orbita della corte ducale beneventana e di Salerno, nella seconda metà dell'VIII secolo. In realtà le caratteristiche del repertorio figurativo trovano consonanze e analogie anche con ciò che venne realizzato nel beneventano sotto il duca Arechi II come la chiesa di Santa Sofia e la cappella palatina dei santi Pietro e Paolo a Salerno. Ad ogni modo è "plausibile che a San Vincenzo una serie di abati ambiziosi abbia adattato a un contesto monastico un ricco linguaggio pittorico, concepito una generazione prima per abbellire e promuovere la da poco rinvigorita corte del duca Arechi a Benevento negli anni Cinquanta e Settanta dell'VIII secolo, e ulteriormente sviluppato a Salerno negli anni Ottanta”.67 Nel periodo in cui la stella di San Vincenzo al Volturno splendette di più, tutte le forme d'arte si espressero in forme altissime. Ne è testimonianza la quantità di manufatti lavorati ritrovati negli scavi dell'abbazia, prova della grande fioritura della bottega collettiva. Nelle officine vennero fusi manufatti in ferro e rame, raffinati oggetti liturgici, reliquiari e legature, armi e foderi, finimenti per cavalli venivano bagnati nell'oro e nell'argento. La lavorazione e l'ornamentazione si rifaceva alla corrente moda carolingia, ma utilizzando un linguaggio proprio e una tecnica appartenenti alla tradizione longobarda. Volendo trattare in maniera più sistematica e dettagliata della decorazione murale della cripta di Epifanio si seguirà un metodo che descrive le scene partendo da quelle che 66 CFR J. Mitchell, “San Vincenzo al Voltrurno nell’Alto Medioevo, in R. Cassanelli, E. Lopez-Tello Garcia, “Benedetto: l’eredità artistica”, Jaca Book, 2007 67

Ibidem

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CAPITOLO I un ipotetico visitatore, scendendo nella cripta, vedrebbe per primo, ma si dimostrerà in un secondo momento come quest'ordine non corrisponda alla lettura simbolica e iconologica dell'intero ciclo affrescato. Pare, ed è dato oramai quasi per certo, che la cripta cosiddetta dell'abate Epifanio debba ricondursi alla chiesa denominata S. Maria in insula, fatta edificare dallo stesso abate, nell'ambito dell'ampio programma di risistemazione del complesso monastico. Il luogo era facilmente raggiungibile da un qualsiasi punto del monastero, attraverso un percorso che dapprima luminoso diventava sempre via via più scuro, facendosi buio all'interno della cripta. La prima caratteristica da evidenziare della cripta è costituita dai fiori che compaiono sull’intero perimetro delle pareti, ai piedi di tutti i personaggi e che sono identici a quelli delle pitture della cappella del Peccato Originale a Matera. Si tratta della raffigurazione di un campo di papaveri che si sviluppa senza soluzione di continuità a collegare tutte le scene rappresentate nell’ambiente sotterraneo con il preciso intento di simboleggiare una dimensione spaziale extraterrena e più precisamente paradisiaca. Appena superata la porta, in alto, rimangono deboli tracce di una figura, il cui volto non è conservato, che tende la sua mano sinistra ad un personaggio posto sullo stipite di destra, quindi a lui affrontato, che è ritratto mentre riceve un libro. A posteriori delle considerazioni sul significato teologico della narrazione, vedremo come queste due figure possano rappresentare Cristo che consegna a Giovanni la verità simboleggiata da un libro chiuso.68 Mentre il precario stato di conservazione di queste due figure non rende leggibile la scena se non ad una visione più attenta, entrando saltano subito all'occhio le sei Sante Vergini che formano la teoria delle Martiri. Sulla stessa parete, dalla parte opposta dell'abside, sono rappresentate le scene del martirio dei SS. Lorenzo e Stefano. In una nicchia è rappresentata la figura di un monaco in piedi, nell'atteggiamento dell'orante, nella parete absidale si vedono quattro Arcangeli, affrontati a due a due. Nell'abside, racchiuso in un nimbo circolare vi è un quinto arcangelo. Nella cupola è rappresentata la Madonna Regina assisa sulla sfera celeste. Nella parete rettilinea opposta all'abside una sequenza di immagini che rappresentano l'Annunciazione, la

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.92

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CAPITOLO I Natività, il bagno del Bambino Gesù, la Crocifissione con Epifanio e la Gerusalemme piangente, l'angelo che apre il sepolcro di Cristo. Sotto il Sepolcro, una nicchia con Cristo e i SS. Lorenzo e Stefano. Questo uno schema delle scene rappresentate nella cripta, che è sembrato opportuno porre in maniera preliminare alla spiegazione del significato non epidermico degli affreschi per avere prima una conoscenza di tutti i tasselli che compongono questo pregiatissimo ciclo di pittura murale. Per avere delle coordinate ancora più chiare per comprendere l’intero ciclo, bisogna partire, innanzitutto, dalla figura di Epifanio, in quanto committente di questo gioiello. Attingiamo ancora una volta dalla nostra fonte princeps, ovvero dal Chronicon, per scoprire che Epifanio aveva origini marsicane e precisamente era di S. Martino sul monte Marsico ed edificò le due chiese di Santa Maria in insula e S. Lorenzo in alia insula.69 Inoltre si deve tener presente di alcuni strumenti che spesso si utilizzano nelle analisi storico artistiche su opere altomedievali. Si avrà modo di definire in maniera più dettagliata le corrispondenze fra alcuni scene dipinte a San Vincenzo ed alcuni importanti codici miniati; ricordiamo che San Vincenzo era un importante scriptorium e che spesso, per questo periodo, si è soliti usare come termine di confronto, per alcune pitture, scene miniate in codici, visto anche lo scarno inventario che si ha di dipinti almeno per questo periodo. Si vuole qui far presente come nel ciclo della cripta siano presenti tre elementi riscontrabili anche in un codice conservato nella Biblioteca Vaticana detto codice Gioveniano visto che venne commissionato dal sub diaconus Iuvenianus per essere destinato ad una chiesa dedicata a San Lorenzo in un monastero non identificato e che riporta Atti degli Apostoli, epistole cattoliche e l'Apocalisse, con un commento ripreso da Beda il Venerabile.70 I tre elementi sono: la mano dell' Eterno che esce dalla luce, S. Giovanni dormiente che riceve la rivelazione dell'Apocalisse, l'angelo che regge l'asta 69

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.93

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Beda il Venerabile (672 ca. – 25 maggio 735) fu un monaco, storico e santo inglese, vissuto nel monastero benedettino di San Pietro e San Paolo a Wearmouth (oggi parte del Sunderland), in Inghilterra, e a Jarrow, in Northumberland, è famoso come studioso e autore di numerose opere, tra le quali la più conosciuta è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum (Storia ecclesiastica del popolo inglese), che gli è valsa il titolo di "Padre della storia inglese". È stato dichiarato santo e dottore della Chiesa cattolica. La memoria liturgica è il 25 maggio (precedentemente era il 27 maggio). Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla poesia, ai commentari biblici. È’ citato da Dante Alighieri nella Divina Commedia.

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CAPITOLO I sigillo del Dio vivente. Nella cripta la mano dell'Eterno è collocata nell'archivolto dell'unica fonte di luce dell'ambiente, l'angelo è al centro del catino absidale, S. Giovanni, come sopra accennato, sull'archivolto dell'ingresso. Un particolare interessante è che la linea della luce che parte da quell'unica finestrella aperta in questo spazio, dal punto di vista strettamente figurativo, è sottolineata da un fascione luminoso realizzato a partire da "motivi ornamentali rettilinei che contengono una linea spezzata che forma una teoria di triangoli contigui come i bordi di un tappeto. Acutamente John Mitchell sottolinea che nella tradizione figurativa altomedievale tale tipo di decorazione sta a rappresentare una sequenza di nuvolette squarciate dalla luce e perciò una rivelazione."71 La mano, invece, che identifica l'Eterno ha dei rimandi iconografici innanzitutto in una pietra erratica che sopravvive nella basilica di S. Maria di Canneto sul Trigno dipendente da San Vincenzo dove una grande mano benedicente alla greca risulta essere rappresentata come elemento autonomo all'interno di una composizione, purtroppo per noi però, non sopravvissuta. Significativo è anche un frammento del IX secolo scoperto nel luglio del 1994 nell'area di scavo dell'abside di San Vincenzo Maggiore (l'abbazia fatta edificare da Epifanio). Si tratta di un bassorilievo che contiene una "figurazione stilizzata di un agnello con a lato una singolare rappresentazione dell'Eterno risolta con il simbolo numerico-matematico dell'infinito, ripetuto quattro volte sui bracci della croce, che si congiunge ad una mano distesa. La rappresentazione richiama temi simbolici facenti riferimento agli scritti neotestamentari giovannei e il contesto dello scavo ci indica che probabilmente la datazione del frammento è da ricondurre ad un'epoca che corre fra gli abbaziati di Giosuè ed Epifanio”.72 La teoria delle Sante Martiri fa chiaramente riferimento al corteo di Sante in S. Apollinare Nuovo a Ravenna. In entrambi i casi le donne sono rappresentate, fra di loro, con lo stesso atteggiamento e la stessa posizione, sono vestite con ricche dalmatiche, una fascia tiene fermo sulle loro teste un velo che nella parte

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F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.93 Ivi, pag.101

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CAPITOLO I destra scende dietro per comparire sull'avambraccio e nella parte sinistra copre la mano che così tiene, senza entrarci direttamente in contatto, una corona di perle. Il volto delle Sante è arricchito da preziosi orecchini penduli circolari e inquadrato in un'aureola dorata che sottolinea le palmette infilate nei capelli. Le figure si stagliano così sullo sfondo colorato a fasce orizzontali. Una curiosa analogia tra il ciclo volturnense e il mosaico ravennate è riscontrabile nella figura di Sant'Anastasia, riconoscibile, negli affreschi che stiamo trattando, da una scritta appena leggibile, ma che il Toesca ancora aveva potuto facilmente rintracciare. Il culto della santa martire di Sirmio nasce da una passio in cui il racconto della sua morte si intreccia con quella delle tre sorelle Agape, Chionia e Irene. Nella tradizione iconografica, solitamente, le tre sorelle sono raffigurate mentre portano vasi e, dato che, nella cripta, nella scena in questione, è raffigurata un'anfora tutto porterebbe a pensare che le altre tre Sante di cui non ci è arrivata l'epigrafe con il nome possano essere identificate con le tre sorelle martiri Chionia, Agape e Irene. Inoltre nel VII capitolo della regola benedettina, a proposito dell'umiltà, viene riportata la frase: "la propria volontà merita la pena, l'imposizione procura la corona". Il Lentini notò che la frase è ripresa dagli atti delle sante Agape, Chionia e Irene descritti nella passio Anastasiae. Va infine ricordato che il culto di Sant'Anastasia assume importanza non solo per l'insegnamento che si può ricavare dalla conoscenza delle vicende terrene di una donna elevata agli onori dell'altare, ma anche per il significato simbolico che evoca il suo nome, visto che in greco, anastasis vuol dire resurrezione e spesso la dedicazione di una chiesa alla resurrezione di Cristo era associata al nome della santa, come a Costantinopoli,

dove

secondo

Teodoro

il

Lettore,

fu

sepolta

Sant'Anastasia.73 Sulla stessa parete, ma dalla parte opposta dell'abside, sono rappresentate le scene finali dei martiri dei santi Stefano e Lorenzo. Nella scena che raffigura il supplizio di quest'ultimo, il santo è completamente nudo, con le mani legate, è steso su una graticola mentre due carnefici lo tengono fermo con lunghe forcine a due punti. Sopra la testa si possono scorgere alcune lettere che prima componevano la scritta SCS

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.102

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CAPITOLO I LAURENTIUS. La fonte di cui ci si servì per raffigurare fedelmente il martirio è chiaramente la passio di S. Lorenzo del Martirologio di Adone, mentre la scritta verticale CARNIFICES, sembra tratta dal carme damasiano in onore di S. Lorenzo. I due carnefici sono vestiti con delle tunichette a mezza gamba e calzano stivaletti di cuoio così come il terzo carnefice che volge le spalle al fuoco quasi per ripararsi dal calore e che trattiene la fune con il quale Lorenzo è legato. Incombe sulla scena la figura dell'imperatore Valeriano74 che seduto su un cuscino di velluto sopra un trono ornato di perle e pietre preziose conferma l'ordine di eseguire l'uccisione. Ma un angelo dalle ali multicolori appare al centro della scena a soccorrere Lorenzo. Della figura di Santo Stefano, invece rimane solo la parte superiore così come, purtroppo, dei lapidatori ne sopravvivono solo due. Il santo è raffigurato inginocchiato e con le braccia alzate. Gli assassini hanno lunghe tuniche e l'ampio mantello è rigirato e appuntato sulla spalla destra con un grande fermaglio per permettere maggior scioltezza nel movimento del lancio della pietra. Alcune pietre appaiono tinte di rosso, alcune sono ancora nel grembo dei lapidatori, in parte ritratte in volo.75 La parete con gli Arcangeli è il punto di riferimento per capire il significato dell'intero ciclo. E' la chiave di lettura dell'intero programma iconografico che coinvolgeva, pare ovvio desumerlo, non solo questa chiesa, ma l'intero complesso delle strutture abbaziali, in particolare quella di San Vincenzo Maggiore. Le quattro figure degli Arcangeli sono simili fra di loro, immobili e immoti. Secondo il Pantoni, le figure di cui non compare il nome, oltre a Raffaele di cui conserviamo l'epigrafe SCS RAPHEL, sarebbero Michele, Gabriele e Uriele. La posizione è statica, le ali fisse, ma di queste ci colpisce il piumaggio realizzato a sei fasce multicolori. I visi sono imberbi le aureole azzurre. Dalla spalla sinistra scende un mantello rosso fermato da una borchia arricchita da un giro di perle. La tunica è ornata nella parte inferiore da una fascia dorata e gli arcangeli indossano stivaletti rossi. Ognuno di questi quattro arcangeli regge una sfera celeste che racchiude una stella ad otto punte. Il piano su cui gli angeli poggiano è realizzato prospetticamente 74

Publio Licinio Valeriano (latino: Publius Licinius Valerianus; 200 circa – Bishapur, dopo il 260) è stato un imperatore romano. Regnò dal 253 al 260. 75

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.102

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CAPITOLO I con fasce orizzontali sfumate ocra sulle quali si stagliano i papaveri rossi. La cornice continua ed il taglio del piano inclinato, otticamente, danno l'impressione che gli arcangeli poggino su un basamento a ferro di cavallo che racchiude l'osservatore a 360°. Sopra le figure alate, fasciature realizzano la sfera celeste su cui è assisa la Madonna Regina. Dentro la nicchia absidale, in maniera eminente, è rappresentato un quinto angelo, questi reca nella mano destra un'asta, chiaro simbolo di potere, con una croce al vertice. In sede di restauro, sono emersi, in basso a sinistra, brandelli di una figura inginocchiata con alcune lettere, probabilmente un monaco orante, forse lo stesso Epifanio, che nel riconoscere nell'angelo il Cristo, gli rivolge una preghiera.76 Nella cupola decorata con una calotta di stelle, si staglia Maria, con la scritta verticale alla sua sinistra SCA MARIA. E' ritratta in atteggiamento regale, seduta su un cuscino di porpora di un trono ornato di perle e pietre preziose. Ha una grande aureola dorata, il viso è molto rovinato, ma possiamo riconoscere degli orecchini ed una ricercata acconciatura raccolta in un velo. E' vestita con una dalmatica rossastra con orlatura dorata. Dalle larghe maniche bianche si intravedono gli avambracci fasciati dalla stoffa preziosa ocra, i piedi calzano pantofole arricchite da fili di perle. Con una mano regge un libro poggiato sulle gambe su cui sta chiaramente scritto BEATA ME DICENT, l'altra mano è aperta con il palmo rivolto verso di noi e le dita allargate. Il rapporto fra le scene non è formale, ma sostanziale: "Gesù Cristo, che è Dio, è figlio di Maria. Un rapporto che tende ad esaltare il ruolo determinante di Maria nella storia della salvezza dell'umanità e che Autperto aveva ben evidenziato in una sua originale omelia “In festo assumptionis”. Per il fatto di essere la Madre di Dio, la Madonna è Regina dell'Universo e come tale esercita il potere su tutte le cose assisa su un trono al centro della sfera celeste".77 A questo punto il suo ruolo all'interno di questo contesto figurativo e pittorico appare chiaro. "La Madonna regina si afferma come elemento determinante e non eliminabile di un processo che, pur essendo fuori dal tempo terreno, è costituito da vari momenti che si identificano nelle figurazioni tutte

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CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg. 106-114

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Ivi, pagg.115-16

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CAPITOLO I correlate tra loro".78 Il Cristo dell'Apocalisse è raffigurato al centro della volta. O meglio intuiamo che sia il Cristo dell'Apocalisse dalle poche tracce sopravvissute, grazie all'aiuto delle sottili incisioni provocate dalle punte dei compassi usati dal pittore sull'intonaco ancora fresco e dai colori superstiti, il giallo e l'ocra. E' seduto su una grande sfera con i piedi che poggiano su una più piccola, la lunga tunica è trattenuta sulle ginocchia dalla mano sinistra dove era il libro della Rivelazione, la destra è in atteggiamento benedicente. Era raffigurato con lunghi capelli raccolti sulla nuca che scendevano fin sulle spalle. La grande aureola dorata è crucisegnata e contornata da una fascia più chiara. Dal Cristo dell'Apocalisse passiamo ad analizzare le scene che raccontano la vita terrena del Cristo. Nella scena dell'Annunciazione, sulla destra, appare la Madonna sbigottita dall'arrivo dell'arcangelo Gabriele. E' ritratta come nell'iconografia della Madonna Regina con abiti regali e su di un trono, non si intravedono i piedi, ma la postura complessiva ci fa intuire che sia appena scesa dal suppedaneo; con la mano sinistra regge ancora due fusi dell'arcolaio. Sia ciò che rimane del volto, sia la mano tesa verso l’angelo, quasi a proteggersi e difendersi, atteggiamento ben diverso dalla mano della Madonna regina quasi tesa ad emanare e promanare la sua potenza sull'umanità, sottolineano gli atteggiamenti di sorpresa e spavento con cui l'autore delle pitture voleva caratterizzare la Vergine in questo episodio. Gabriele, accanto a una colonna tortile, particolare della casa di Maria, è rappresentato in maniera magistrale e sublime. Terminata la planata, sta per allinearsi in posizione verticale. Osservando l'andamento delle pieghe dei veli e confrontandolo con l'angelo che cala a salvare S. Lorenzo, precedentemente descritto, capiamo che l'arcangelo Gabriele è arrivato volando in picchiata, fin quasi a sfiorare la terra e repentinamente si sta posizionando in maniera verticale. Da sottolineare l'andamento curvo delle gambe e l'inarcamento del busto, ma soprattutto la resa delle ali che, non più costrette e dispiegarsi per opporre resistenza all'aria si chiudono su sè stesse. La tunica bianca dell'angelo è ricoperta da veli colorati. La scena è di una potenza espressiva inenarrabile.79 La scena è confrontabile con alcune raffigurazioni dello 78

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg. 115-116

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CFR ivi, pagg. 106-114

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CAPITOLO I stesso tema di cultura orientale, come la scena nel salterio di Basilio I o nelle pitture rupestri di Tokali Vecchia a Goreme nella Cappadocia. Nonostante comunque questi riscontri, dal punto di vista dinamico e plastico, la scena volturnense rappresenta un unicum e bisognerà aspettare ancora molto prima di vedere scene di uguale straordinarietà. A sinistra dell'Annunciazione, vi è la rappresentazione della Madonna distesa su un letto con accanto un personaggio che potrebbe essere sia S. Giuseppe che il profeta Isaia, che aveva preannunciato la nascita del figlio di Dio. La pellicola pittorica è molto rovinata, ma la pittura ci viene incontro per suggerirci che l'artista voleva esplicitamente tenere distinti i due personaggi: Maria è, infatti, avvolta in un ampio mantello rosso che le copre anche la testa e l'aureola, da cui escono solo i piedi nudi. E' rappresentata in una falsa prospettiva, adagiata su un giaciglio bianco a fasce parallele rosse. I monogrammi H M (HAGHIA MARIA) ci confermano l'identificazione. Una grande fascia bianca curvilinea costituisce una vera e propria cornice alla figura su sfondo azzurro. L'effetto è accentuato dalla tecnica pittorica: il pennello segue l'andamento curvilineo dei bordi della figura di Maria, evidenziandola. L'altro personaggio è ritratto con le gambe accavallate, su uno sgabello esagonale. E' anziano e pensoso, la mano destra sostiene la testa, la sinistra indica Maria. In molte raffigurazioni bizantine la Natività è rappresentata con l'immagine della Madonna stesa e accanto il bambino.80 Si prendano in considerazione i cicli ad affresco della Cappadocia o della Macedonia. Nella scena della chiesa di Tokali Vecchia l'uomo accanto a Maria è san Giuseppe, mentre nella tradizione iconografica macedone, ad esempio Ocrid, si continuano ad eseguire rappresentazione simili a quelle volturnensi. A san Vincenzo al Volturno il Bambino è rappresentato sulla parete opposta. L'assenza del bambino potrebbe legarsi a significati profetici della raffigurazione. In generale bisogna porre attenzione a una lettura puramente narrativa della fabula che gli episodi raccontano: abbiamo visto come l'autore, utilizzando scene temporalmente individuabili, preferiva, con queste, trasmettere concetti più globali. In tal senso la figura di Giuseppe sembrerebbe poco significativa, rispetto a quella profetica di Isaia. Il 80

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg.117-120

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CAPITOLO I cosiddetto codice Garrett, realizzato nel monastero di San Saba a Gerusalemme, del secolo XII, conservato all'università di Princeton, riporta il Vangelo di Matteo. Nella scena miniata della Natività, Maria è rappresentata all'interno di una cornice quadrilobata con accanto il Bambino. Fuori da questa intima scena, è rappresentato in piedi con un cartiglio Isaia che indica la Vergine. Ma è pur vero che alcune icone sinaitiche, precedenti o contemporanei agli affreschi epifanici, o alcune scene miniate, successive, ma comunque significative, vedi l'icona nel Convento di Santa Caterina sul Sinai, a tempera dell'VIII secolo, dove campeggia la scritta JOSEF, ci fanno propendere verso l'ipotesi che quella figura maschile sia san Giuseppe. Facendo un ulteriore salto nel tempo, le Natività delle chiese di S. Sofia, della S. Vergine di Pestani, di S. Clemente Piccolo, di S. Demetrio Piccolo, di S. Anastasia, dei Piccoli Santi Anargiri, rappresentano la Madonna con accanto un San Giuseppe pensoso. Passando alla scena delle due levatrici che lavano il Divino Bambino, vediamo come delle due una è in piedi e sta versando l'acqua con un'anfora monoansata, mentre quella di sinistra è seduta e lava il Cristo, in posizione retta. La scena è ripresa integralmente dal cosiddetto Vangelo dello pseudo-Matteo dove si racconta che al parto di Maria abbiano assistito due levatrici. La prima, Zelomi, dopo la nascita di Cristo, verificò che la Madonna era ancora vergine. La seconda Salomè, che non credette a Zelomi, volle accertarsi e perse l'uso della mano, che riacquisto dopo aver toccato il Bambino mentre lo lavava. Tutta l'iconografia altomedievale è concorde nella raffigurazione del lavaggio del Bambino dentro un calice, che una delle donne sia in piedi mentre versa l'acqua, mentre la seconda è seduta. La coppa nella raffigurazione volturnense ha un gambo terminante con una sfera su cui poggia la calotta della coppa decorata a palme lunghe in basso e palmette sovrapposte lungo il bordo superiore dal quale pendono due anelli. Il medesimo motivo decorativo si ritrova nel calice rappresentato nella scena del lavaggio del Cristo Bambino nella già citata icona del convento sinaitico di Santa Caterina. In questa icona sono riportati anche i nomi delle due levatrici per cui sappiamo che quella seduta è Salomè mentre la levatrice in piedi è Zelomi.81 Altro caso in cui l'importanza del monastero di S. 81

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995 , pagg.122-123

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CAPITOLO I Vincenzo al Volturno viene ribadita è la raffigurazione della Madonna Regina con il Bambino. E' una delle più singolari rappresentazioni della Madonna, in quanto anche se sono rispettati i canoni classici, mai era successo che la Madonna venisse raffigurata abbigliata con costumi imperiali bizantini. Maria si staglia su un fondale ovale, un clipeo costituito da una fascia rossa trapuntata di stelle, ma la figura non è compresa tutta all'interno della cornice in quanto vi si sovrappongono in alto ed in basso la testa, l'aureola e il suppedaneo. Il sontuoso abito regale è impreziosito da ricche applicazioni dorate a cerchi concentrici che si concludono con un orlo a fasce dorate, alternate a fili di perle. I capelli sono raccolti in un'alta corona dorata e trapuntata di perle, alle orecchie orecchini penduli. Il Bambino è caratterizzato da un'aureola crucisegnata, poggia sulle gambe della Madre, ha una mano benedicente, mentre l'altra regge un rotulo. Ai piedi della Madonna, la figura inginocchiata di un monaco orante, tonsurato. Più in basso, i volti di due santi, quello di destra ha un copricapo tronco conico e una capigliatura rossiccia. Una foto eseguita dal Gabinetto Fotografico Nazionale ci dimostra che i santi erano tre. Il personaggio centrale con la mano destra benedice alla greca e con la sinistra regge un volume.

Il

terzo

personaggio

scomparso

aveva la mano

destra

completamente aperta con il palmo rivolto verso chi guarda ed un libro stretto al petto con la sinistra. Questa parte di pittura viene considerata di epoca posteriore, anche se non è da escludersi che possa trattarsi semplicemente di un'altra mano. Di Madonne con il Bambino di epoca anteriore o coeve a quelle di Epifanio ne esistono abbastanza, ma in tutte, il modello orientale ce le raffigura sì in trono, ma in abiti popolari, si prendano ad esempio le raffigurazioni copte su tessuto dell'Egitto o quelle parietali dell'abside di una chiesa di Bawit. Al massimo la rappresentazione ci presenta la Madonna in abiti da matrona romana, mentre solo dopo il Mille a Maria verranno fatti indossare abiti regali.82 Passiamo alla scena della Crocifissione. La composizione è simmetrica. I bracci della croce sono esageratamente allargati per fare da fondale all'immagine di Cristo, quasi 82

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg.123-124

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CAPITOLO I disteso sul legno, le mani hanno lunghe dita, il capo è lievemente allineato, i lunghi capelli, divisi da una scriminatura centrale, scivolano sulla spalla sinistra, del volto si riconoscono solo gli occhi socchiusi e una rada barba. L'aureola è fortemente segnata con una cornice scura, è crucisegnata e ci è rimasta un' omega sulla sinistra. Il perizoma rossiccio è legato sull'anca sinistra e scende fino al ginocchio destro, i piedi sono divaricati e sul vertice della croce una tavola recita: JHESUS CHRISTUS REX JUDEORUM. Sopra i bracci della croce, a destra e a sinistra, sono raffigurati il sole oscurato e la luna che appare a causa dell'eclissi, citando il vangelo di Marco. Sotto i bracci, a destra e a sinistra, citando questa volta il vangelo di Giovanni, vi sono la Madonna e l'apostolo Giovanni. La Madonna è interamente ricoperta dal maphorion (vedremo come questo dato iconografico si offrirà a interessanti raffronti con analoghe raffigurazioni), comprese le mani rivolte al Figlio. San Giovanni, invece, ha una tunica ed il laticlavo dorato coperti da un ampio pallio pieghettato. L'apostolo si porta la mano destra al viso in segno di spavento e con la mano sinistra regge il suo vangelo. Cristo è rappresentato con calcolato gigantismo rispetto alle altre figure per esaltare il suo ruolo. Ai piedi della croce, l'abate Epifanio, anziano di età, con una sottile barba, i capelli bianchi, presenta una vistosa tonsura e una casula rossa copre la sua tunica bianca. E' in atteggiamento di omaggio reverenziale, inginocchiato. Anche sul terreno sui cui poggiano i personaggi di questa scena sono raffigurati gli stessi papaveri che abbiamo trovato in altre scene raffigurate nella cripta.83 Malgrado la Crocifissione sia l'episodio centrale, insieme alla Resurrezione, della vita terrena di Gesù, non sono frequenti prima del Mille raffigurazioni di questa. La prima è quella scolpita nella porta lignea della chiesa di Santa Sabina a Roma, databile V secolo. Ricordiamo poi, una miniatura siriaca del Vangelo di Rabbula, del 586, anche qui la Madonna è coperta, comprese le mani da un maphorion, mentre Cristo è coperto da un colobium, la lunga tunica senza maniche. Analoga scena è rappresentata sul coperchio di una scatola lignea contenente pietre della Terra Santa, di provenienza sconosciuta, oggi 83

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg.123-124

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CAPITOLO I conservata al Museo Vaticano. Dell'VIII secolo è un'altra icona del convento sul Sinai di Santa Caterina, ma qui le mani della Madonna sono scoperte. Il Cristo è vestito con il colobium anche nel celebre affresco di Santa Maria Antiqua a Roma attribuibile all'epoca di papa Zaccaria, quindi alla metà dell'VIII secolo. Questo dovrebbe essere fra i più antichi affreschi rappresentato la Crocifissione, ma quello di san Vincenzo al Volturno dovrebbe essere il primo dove il Cristo non è raffigurato con il colobium, ma con il perizoma. Notiamo anche come se nella scena romana Maria e Giovanni sono raffigurati senza nessun afflato emotivo, quasi personaggi autonomi, fra di loro e rispetto la scena, nella scena epifanica sono invece espressivamente caricati. Il contesto drammatico è sottolineato anche dall'inarcamento delle figure e dal panneggio delle vesti. Facendo un salto nel tempo, arriviamo alla seconda metà del X secolo, in Cappadocia, dove a Cavusin, un affresco ci presenta una Crocifissione con Madonna coperta, comprese le mani, dal maphorion. Questa scena è particolarmente simile a quella volturnense.84 Riprendendo la descrizione degli affreschi in questione, sopra la Crocifissione troviamo una figura di donna seduta con il viso appoggiato sulla guancia della mano sinistra. Il suo capo è sormontato da una corona che simboleggia una cinta muraria e lunghi capelli sciolti la incorniciano. L'epigrafe verticale ci attesta che si tratta di HIERUSALEM, che piange la perdita del suo Figlio e riflette sulle sventure che le sono state profetizzate dallo stesso, dopo che lo avrà condannato a morte. In un certo senso la figura richiama la Gerusalemme celeste giovannea. Manca da analizzare la scena delle Marie al sepolcro. Un angelo dalle solite ali multicolori sta per alzarsi in volo dopo aver annunciato alle due donne che Cristo è risorto. Con la mano sinistra regge un'asta, con la destra indica il sepolcro vuoto. Il sudario abbandonato è visibile da un'apertura della cornice sui cui si può leggere SEPULCRUM DNI. Maria di Magdala e Maria, madre di Giacomo, sono avvolte in mantelli marroni e recano i vasi con gli unguenti. A destra dell'angelo si apre una piccola nicchia nella quale si trova situata l'immagine del Cristo risorto con l'aureola crucifera con i monogrammi dell'Alfa e dell'Omega. Un mantello azzurro scende su una

84

CFR F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pagg.124-130

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CAPITOLO I tunica ocra. Sulla destra rimangono le lettere JHS, benedice alla greca mentre reca un libro aperto che reca le lettere EGO SUM DS ABRAHA (Io sono il Dio di Abramo). A destra e a sinistra sono le figure, simili fra di loro, di Santo Stefano e San Lorenzo, come attesta l'epigrafe sopravvissuta SCS LAURENTIUS. Lunghe tuniche bianche li vestono, reggono entrambi un volume. Vista la presenza di queste tre figure all'interno di una nicchia e l'esistenza di un ripiano in muratura probabilmente questa pittura aveva valore iconico e di fronte ad essa si accendevano lumi. Immaginiamo l'atmosfera e l'impatto visivo di questa cripta buia che riceveva luce solo da una finestrella e il bagliore delle luci di fronte l'icona di Gesù risorto che recita le parole che Dio disse a Mosè di fronte al roveto ardente del Sinai. Concludendo possiamo riassumere che il ciclo nasce da una profonda programmazione e progettazione, dal punto di vista intellettuale e teologica altissima: il tema fondamentale è la resurrezione dei corpi mediante il sacrificio di Cristo, rivelata nell'Apocalisse di Giovanni. A S. Giovanni verosimilmente sono riconosciute le capacità e le facoltà per comprendere le Rivelazioni divine, fuori da limiti temporali. "In questa cripta si tentano di annullare i rapporti temporali, unificando in un solo attimo i momenti fondamentali della storia della Cristianità. La cripta, insomma, è il luogo dell'attesa dell'Anastasis."85 Una scoperta straordinaria è stata fatta durante i restauri: sotto l'Annunciazione, quello che si riteneva essere il basamento per un altare votivo, si è rivelato essere una sepoltura, nella quale il defunto era sistemato in posizione seduta, quasi a suggerire il punto di vista corretto e più giusto per cogliere il senso apocalittico della cripta. "Epifania, nella tradizione cristiana, dal greco, vuol dire rivelazione della divinità. E questa circostanza non dovette essere di importanza secondaria per la formazione religiosa personale di Epifanio.”86

85

F. Valente, “San Vincenzo al Volturno: architettura ed arte”, Monteroduni, Edizioni CEP, 1995, pag.135

86

Ivi, pag.136

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CAPITOLO I 1.3 La storia conservativa dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno “Ancora oggi il contadino, nel rimuovere le zolle che coprono di bella vegetazione quelle rovine, ritrova arse pietre ed avanzi di mura dipinte e scalee di marmo ed avanzi di cose lavorate dalla mano dell'uomo. Le colonne ed i capitelli, sparsi qua e là, ricordano magnificenze scomparse, e fanno dolorosa fede del furore bestiale di quelle barbare invasioni, seguite pur troppo da altre distruzioni. Per lunga pezza dai paeselli vicini si scendeva là a scavare marmi dalle rovine per abbellire chiese e palazzi; e il solo monumento che rimane a provare la cultura artistica di quel tempo in questa regione d'Italia, è la sepolta chiesetta dell'Abate Epifanio. I saggi che ne ho dati bastano, spero, a mostrare la sua importanza, e a muovere il governo, affinché provegga alla sua conservazione. Qualche migliaio di Lire non è certo un peccato a spenderle, perchè non vada perduto, dopo dieci secoli, quello che il ferro ed il fuoco dei Saraceni non giunse a consumare.”87 Con questa parole don Piscicelli Taeggi, già a fine Ottocento, esponeva la sua idea riguardo la necessità che l'abbazia di San Vincenzo al Volturno necessitasse di un'opera di conservazione e tutela. Per la seconda rinascita dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno tanto si deve ai monaci cassinesi che di volta in volta si occuparono del suo recupero: ricordiamo d. Erasmo Gattola, archivista e storico di Montecassino che descriveva la chiesa quale si presentava nella prima metà del Settecento, l’abate e vescovo Diamare che rientrò in possesso di San Vincenzo al Volturno nel 1942, l’abate Ildefonso Rea al quale toccò la resurrezione di Montecassino dopo i bombardamenti, ma che non si scordò mai di San Vincenzo al Volturno e il già citato Angelo Pantoni che ne curò i restauri e gli scavi.88 Il primo giudizio concreto riguardo il restauro degli affreschi dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno si deve a una delle più importanti figure per quanto riguarda la storia del restauro moderno, almeno in Italia: Cesare Brandi. Il fondatore dell'allora ICR (ora ISCR) era stato incaricato proprio dal Ministero, in qualità di direttore allora dell'eminente istituto, di mettere 87

Don O. Piscicelli-Taeggi, “Pitture cristiane del IX secolo esistenti nella cripta nella badia di San Vincenzo al Volturno”, Montecassino, 1896, pag. 23

88

CFR A. Pantoni, “Le chiese e gli edifici del monastero di San Vincenzo al Volturno”, Montecassino, 1980, pagg. 31-36

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CAPITOLO I finalmente fine alla numerose ipotesi di intervento sul sito e ritenere definitivamente chiusa la questione. Nel 1957, l'autore di "Teoria del restauro" pubblicò una relazione sul sopralluogo da lui condotto nel monastero molisano in particolar modo per accertare lo stato dei dipinti murali. Più precisamente il Ministero chiedeva a Brandi un giudizio strettamente tecnico, soprattutto riguardo la ventilata ipotesi di procedere alla rimozione dei dipinti dal loro supporto murale, presentata come unico rimedio realistico per salvare i preziosi dipinti da una situazione che sembrava senza soluzioni. Il monumento, infatti, era difficilmente accessibile, lontano da centri abitati di una certa importanza ed estensione, difficile quindi da gestire e controllare; il fatto di staccare e spostare i dipinti in un luogo sicuro sembrava l'unico modo per conservarli in maniera adeguata e renderli fruibili. Così una testimonianza dell’epoca: “Abbiamo avuto la bella sorpresa di trovare la cripta di S. Lorenzo incapsulata in una opportuna costruzione protettiva; ma, subito dopo, scendendo nell’ipogeo, ne abbiamo invece avuta una bruttissima: gli affreschi dell’abate Epifanio si sono sbiaditi ancor di più: alcuni, anzi, sono ormai definitivamente scomparsi. Se ci è consentito esprimere un sommesso suggerimento noi pensiamo che la competente Sovrintendenza molisana dovrebbe staccare l’importante ciclo pittorico, trasportato nella vicina basilica abbaziale e sostituirlo, magari, in loco da una fedele copia su tela. L’eccezionalità del monumento lo impone.”89 Ci troviamo, tra l'altro, in un periodo in cui la pratica dello stacco era una pratica di gran lunga diffusa e, al di là di quello che ufficialmente bisognava asserire, ben poca coscienza e conoscenza si aveva dei tesori altomedievali, scarsamente si conoscevano dal punto di vista storico-artistico, scarsamente se ne capiva l'importanza. Imperava ancora allora l'ideologia che premiava la sigla dell'artista, l'attribuzione certa al genio, l'illustre autografia; ai nostri occhi, quindi appare ancora più meritevole, la posizione che assunse Cesare Brandi, che si palesò sin da subito assolutamente contrario agli stacchi, argomentando la sua scelta con motivazioni sia meramente tecniche che squisitamente teoriche, come sempre era solito fare lo stesso. L'edificio, una volta che fosse stato privato 89

L. Lotti, “L’abbazia di San Vincenzo al Volturno”, in “Alma Roma”, 20, ¾, 1979, pagg. 25-32

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CAPITOLO I del suo tesoro più importante, sarebbe stato, di certo, condannato a rapida e sicura morte. Inoltre sarebbero stati privati i dipinti del suo naturale contesto. Analizzando la situazione con lucida essenzialità, il critico si rese conto che l'unica cosa da fare era cercare di far convivere la cripta con un certo grado di umidità, che non era nei fatti eliminabile, cercando di far sì che questa situazione di fatto creasse meno danni possibili. La relazione dello storico dell'arte si concludeva quindi con la raccomandazione di non intervenire se non con opere di ordinaria amministrazione e controllando assiduamente che i parametri chimici e fisici rimanessero allo stato di equilibrio. Va tristemente notato come, se fortunatamente vennero accettate le proposte di Brandi su cosa non si doveva fare, vedi gli stacchi, i suggerimenti in senso positivo, non solo non vennero accolti, ma anzi totalmente

disattesi,

nell'ottica

di

una

totale

incomprensione

dell'impostazione metodica brandiana.90 A distanza di circa quindici anni dalla relazione sul bollettino, credendo che con un intervento così d'impatto, (come se interventi così snaturanti un sito possano dare la certezza, con le loro enorme dimensioni, della riuscita di tale azione conservativa), si potesse finalmente chiudere quella che orami era diventata una vera e propria odissea, la situazione microclimatica della cripta venne totalmente alterata, rompendo per sempre quel delicatissimo equilibrio dei termini igrometrici nel quale Brandi aveva individuato la chiave di volta per sostenere nelle sue caratteristiche congenite il monumento, con la costruzione di una, usando le parole dello stesso studioso, "ridicola cuffia con finestre cimiteriali"91, un ambiente in muratura che chiudeva e copriva i resti della cella tricora sovrastante la cripta, quando invece sarebbe stato preferibile e auspicabile la realizzazione di travi di legno e tegole. Per non parlare di come si sarebbe potuto, ma questo venne fortunatamente realizzato successivamente, sbarrare il fiume a monte con la costruzione di una diga (poi messa in opera dall'ENEL), eliminando in questo modo uno dei principali fattori di degrado della cripta ovvero gli straripamenti del fiume all'interno della stessa. Nel 1979, sette anni dopo la costruzione della 90

CFR G. Basile, “Il restauro delle decorazioni murali della cripta dell’abbate Epifanio e degli ambienti attigui dell’abbazia di. San Vincenzo al Volturno”, in Arte Medievale, 2, serie 11, 1997 (1999), ½, pagg. 171-197 91

Ibidem

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CAPITOLO I "ridicola cuffia", si decise, finalmente, di rivolgersi all'ICR non solo per una consulenza, ma per coinvolgerlo attivamente nella trattazione della situazione ormai disperata, soprattutto per la situazione dei dipinti: essi apparivano oramai quasi del tutto illeggibili a causa dei densi strati di efflorescenze saline e di carbonati, nonché di estesi attacchi di microrganismi, soprattutto alghe; va inoltre precisato come estesa fosse la presenza di cemento soprattutto nelle zone non interessate da decorazione pittorica e di come, a causa di fenomeni di erosione dovuti verosimilmente all'umidità, vi fossero numerose lacune di pellicola pittorica, ma spesso anche di intonaco. Tre proposte di soluzione vennero presentate come ipotesi di risanamento complessivo: "l'allontanamento dalla cripta delle acque meteoriche provenienti dal poggio e incanalamento di esse verso il letto del Volturno anche mediante una trincea di drenaggio praticata attorno al perimetro di essa, l'abbattimento dell'edificio sovrastante la cripta e l'installazione di una copertura al di sopra della relativa area ed infine la messa in opera di un pavimento radiante allo scopo di inibire il formarsi della condensa sulle pareti decorate della cripta. I primi due interventi furono realizzati nell'immediato, nella sequenza richiesta dalla loro interdipendenza, non prima però che fossero eseguiti saggi archeologici sul terreno circostante la cripta per verificare e assicurarsi che la realizzazione della

trincea

non

danneggiasse

alcuna

preesistenza

archeologica.

L'intervento dell'ultimo punto fu, invece, possibile realizzarlo solo dopo che i termini igronometrici della cripta tornarono a valori "fisiologicamente" accettabili. Ciò non avvenne prima del 1985. Nel 1983, però, fu necessario un intervento di "pronto soccorso" per evitare che il prosciugamento delle murature, fatto di per sé positivo, minasse l'adesione e la coesione delle decorazioni pittoriche. Fu in questo frangente che fu chiaro il disastro che era stato realizzato utilizzando il cemento liquido, che solo in minima parte si riuscì ad asportare e sono nelle parti prive di pittura. Fu, infine, nel 1987 e l'anno successivo che si poté realizzare un intervento completo di conservazione e di restauro.92 Non ci si dimenticò, certo, in quest'occasione di documentare lo stato di conservazione dei dipinti e non, fu raccolto 92

CFR G. Basile, “Il restauro delle decorazioni murali della cripta dell’abbate Epifanio e degli ambienti attigui dell’abbazia di. San Vincenzo al Volturno”, in Arte Medievale, 2, serie 11, 1997 (1999), ½, pagg. 171-197

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CAPITOLO I qualsiasi tipo di testimonianza scritta e visiva che documentasse la storia conservativa dell'opera e si incaricò l'ing. Massari di studiare le cause dell'accelerazione del degrado nelle decorazioni murali. Dopo un anno di misurazioni, monitoraggi e indagini , Massari presentò delle proposte in perfetta linea con le logiche d'intervento brandiano, ovvero "la logica del'intervento quanto meno possibile invasivo ( sempre qualora sia risultata non percorribile la strada del non intervento), che si limita a sostenere gli elementi positivi e a far cadere quelli negativi, o quanto meno a limitarne la nocività. Quello insomma che in anni più recenti sarà chiamato intervento "soft", o ancora meglio di tipo "passivo": che ha il sicuro vantaggio, rispetto a quello "attivo", di non alterare radicalmente le condizioni di equilibrio cui il manufatto è per così dire assuefatto da lunghi periodi di tempo e spesso anche quello, tutt'altro che marginale di ridurre drasticamente i costi d'impianto, gestione e manutenzione dei sistemi attivi."93 L'intervento conservativo ambientale della cripta di Epifanio si rivelò talmente efficace che venne considerato utile e adottabile in casi analoghi, un capitolo importante insomma nella storia degli interventi su ambienti ipogei. Dal punto di vista archeologico, in realtà, i primi scavi erano stati condotti alla fine degli anni Sessanta, ma a detta del prof. Basile fu questo uno scavo che sconvolse l'assetto originario del complesso e, prima dello scavo del 1981 per la messa in opera della trincea, vennero realizzato solo dei limitati saggi a sinistra dell'area della cripta. Quella del 1981 può essere quindi considerata, a buon diritto, la prima vera e completa campagna di scavo che, proprio per la sua importanza, diede l'avvio a ben cinque anni di campagna condotti dal prof. Richard Hodges e dai suoi allievi dell'Università di Sheffield, su incarico della Soprintendenza molisana subentrata dal 1971 (anno della sua istituzione) a quella dell'Aquila. Furono rivenuti oltre ai due edifici di culto, alcuni ambienti abbaziali, tra i quali l'enorme refettorio del tempo dell’abate Giosuè. Numerosi reperti non soltanto medievali rivelarono e confermarono la complessa stratificazione insediativa del sito. Soprattutto nell'ambiente ad ovest del refettorio e del relativo vestibolo venne fatta una importante scoperta: frammenti di intonaco raffiguranti sette 93

CFR G. Basile, “Il restauro delle decorazioni murali della cripta dell’abbate Epifanio e degli ambienti attigui dell’abbazia di. San Vincenzo al Volturno”, in Arte Medievale, 2, serie 11, 1997 (1999), ½, , pag. 173

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CAPITOLO I profeti entro archetti, a grandezza pressoché naturale, ognuno con un cartiglio (di cui solo uno permetterebbe di dare un nome al profeta che lo tiene, Michea, che però purtroppo è andato perduto esso stesso). Completa la decorazione un basamento dipinto, ai piedi dei profeti, a finto marmo e un sedile decorato a losanghe. Le tinte usate sono quelle del bianco e rosso, del violetto e del grigio. I dipinti risalirebbero all'epoca di Giosuè e sono stati avvicinati a esempi di arte carolingia nella Lombardia del Nord, a cominciare da S. Giovanni di Mustair e S. Martino di Serravalle. Per la classificazione, studio e ricomposizione sia di questi frammenti sia di quelli del vestibolo, avvicinabili invece ai dipinti della cripta di Epifanio e che risultano privi di incrostazioni e di accumulo di altro materiale nel retro, fu cooptato da Hodges, il prof. Mitchell dell'Università dell'East Anglia a Norwich, il quale fece pulire i frammenti e tentò ai soli fini di studio una ricomposizione delle zone più indicative e dei volti. A questo punto la Soprintendenza richiese il prof. Basile come direttore dei lavori per garantire la conservazione e il restauro dei numerosissimi e preziosi frammenti. Il lavoro fu affidato ai restauratori Paola Cinti e N. Mario Gammino del Consorzio Tecnici Restauro e Kristine Doneux, con l'assistenza della restauratrice Gianna Musetti.94 Effettivamente i profeti vennero in gran parte ricostruiti, ma la ricomposizione mirò più che a una restituzione dei singoli particolari, a una resa dell'insieme. In questa occasione vennero individuati i partiti architettonici che cadenzavano l'andamento delle figure profetiche, porzioni della fascia decorativa sottostante le stesse e alcune parti figurative prima non riconosciute. Da questo momento in poi la conservazione della cripta di Epifanio e dell'abbazia di san Vincenzo al Volturno nel suo insieme significò praticamente lo studio e la ricomposizione degli affreschi rinvenuti nella cripta, ma si ritiene talmente importante questo ambito e talmente interessante, almeno per chi scrive, da volerlo trattare in maniera più compiuta in un paragrafo a parte. Sicuramente per quanto riguarda la letteratura relativa al monastero, il Bollettino sui cui Brandi recensì il sito, soprattutto dal punto di vista della conservazione occupa un ruolo 94

CFR G. Basile, “Abbazia di San Vincenzo al Volturno: restauri in corso”, in Arte Medievale, 2, serie 2, 1988, 1, pagg. 153-161

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CAPITOLO I preminente, ma tale letteratura è ben più corposa e di più antica data. La cripta venne descritta per la prima volta da padre Piscicelli di Montecassino nelle due relazioni rispettivamente del 1885 e del 1896, agli inizi del secolo la stessa venne studiata dal Bertaux e, dettagliatamente dal Toesca;95 molto più tardi ripresa dalla Barosso e dal Grabar e poi nuovamente illustrata dall'abate di Montecassino Ildefonso Rea nel 1979 e dieci anni dopo da Angelo Pantoni. Nel frattempo numerosi furono gli studiosi italiani e stranieri che si occuparono delle eccezionali pitture: la Wettstein nel 1960 e Ferdinando Bologna, il Belting, il Francovich e la de' Maffei. E' proprio in alcune di queste pubblicazione, quella del Bertaux soprattutto, e quella del Toesca del 1904, 1924 e 1932, che sono presenti delle riproduzioni fotografiche dal quale si può accertare, confrontandole con le fotografie del 1957 presentate dal Rea e dal Pantoni della relativa velocità cui gli affreschi si stavano degradando, se consideriamo che già il Toesca accennava a disfacimenti degli affreschi, ormai caduti in abbandono e alla necessità che si provvedesse a una loro tempestiva conservazione. Nel 1957 Brandi si accorgeva della ormai quasi avvenuta illeggibilità della figura della Vergine in trono con il libro neotestamentario e perduta la sua chiarezza ancora avvertibile negli scatti fino al 1924. Notava, inoltre, livelli diversi di velocità di rovina delle pitture, appuntando che quelli con le Sante si stavano perdendo prima che quelli con le scene della vita terrena del Cristo. La risposta a ciò fu trovata da Brandi nel progressivo grado di umidità al quale era sottoposto l'ambiente, anche dopo il 1974, tanto è vero che altre e numerose zone dell'intonaco apparivano già attaccate. Diversamente che rispetto ad altri casi di pitture in ambienti ipogei come le cripte pugliesi o le tombe etrusche di Tarquinia, gli affreschi epifanici non si ricoprivano del tipico strato vitreo e opalescente questo perché, constatò Brandi, l'infiltrazione naturale del carbonato di calcio era annullata dall'azione dell'acqua di condensazione, quindi sempre secondo il senese nei settant'anni che erano passati dalla scoperta della cripta alla data in cui lo stesso si esprimeva, la scomparsa di parte del ciclo pittorico era dovuta

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CFR L. Mortari, “Gli affreschi della cripta di S. Lorenzo a S. Vincenzo al Volturno”, in M. Andaloro, M. Cordaro, “Per Cesare Brandi: atti del seminario, 30-31 Maggio – 1 Giugno 1984”, Istituto di Storia dell’Arte, Facoltà di Lettere, Università di Roma “La Sapienza” – Roma, De Luca, 1988, pagg. 47-50

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CAPITOLO I all'azione di lavaggio dell'acqua di condensazione. Brandi non solo mostrava preoccupazione per l'apertura della finestrella, alludendo a come tali aperture potessero essere ulteriori fonti di danneggiamento, ma asseriva, concludendo, che bisognava "controllare di anno in anno, anzi di stagione in stagione, lo stato degli affreschi e qualora si fosse verificato qualche nuovo seppur lento deperimento si procedesse subito a ulteriori constatazioni".96 Brandi si conferma, ancora una volta, ed è uno dei motivi per cui chi scrive tributa a lui tanta stima, attento conoscitore della materia, profondo amatore dell'arte, lungimirante conservatore, ma anche brillante storico dell'arte, tanto è vero che in "Disegno della pittura italiana", si prodiga in un’ analisi del repertorio figurativo volturnense, trovandosi concorde con il Toesca e il Francovich nel leggere, in quelle pareti, una cultura bizantina e insieme carolingia, quest'ultima ravvisabile soprattutto in alcune fonti iconografiche e nelle aureole. La cultura bizantina Brandi la riscontra soprattutto nella teoria delle Sante Martiri e nella loro eco del medesimo tema ravennate, e si sofferma, con acute osservazioni, sulla Crocifissione, mostrandosi vicino alla tesi del Toesca di un rapporto di quella scena con Roma, ma argomentando ciò con più precise indicazioni riconoscendo nel volto sbarbato del Cristo, una visione insolita del Cristo Emmanuel e del Cristo maturo. Lo storico dell'arte si cimenta anche nell'osservazione di curiosi dettagli e sfiziosi particolari come i piedi nudi della Vergine distesa e ammirando la resa dello spazio che distingue e connota l'intero ciclo.97 Per l’importanza che soprattutto l’analisi del Toesca ha per la storia di questi affreschi si riportano alcuni stralci del parere dello studioso: “… nelle pitture dell’oratorio di Epifanio abate non riusciamo a ravvisare uno stile che prepari direttamente l’opera splendida che l’arte bizantina compierà nel decimo e undicesimo secolo”, vediamo invece germinare; da un sostrato iconografico orientale già sparso riccamente nelle nostre regioni, un’arte che appare di una varietà locale e ben determinata dall’ambiente in Italia quale fu nel secolo nono”. “E’ singolare negli affreschi volturnensi la libertà del

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L. Mortari, “Gli affreschi della cripta di S. Lorenzo a S. Vincenzo al Volturno”, in M. Andaloro, M. Cordaro, “Per Cesare Brandi: atti del seminario, 30-31 Maggio – 1 Giugno 1984”, Istituto di Storia dell’Arte, Facoltà di Lettere, Università di Roma “La Sapienza” – Roma, De Luca, 1988, pag.49

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CFR C. Brandi, “Disegno della pittura italiana, pagg. 51-53,

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CAPITOLO I disegno, l’ampiezza delle forme non ristrette e forzate come in opera di imitatore, il modo nel quale è determinato lo spazio delle scene. Dunque si agitano e si muovono i corpi…anche l’arte bizantina espulse movimenti agitati …; ma gli artisti di Bisanzio restrinsero la tendenza mantenendo formule fisse nei movimenti, stilizzando, ad esempio, in modo invariabile gli svolazzi dei drappeggi dietro alle figure rappresentate in mosse violente …”. “Accanto alla scene più agitate ve ne sono altre di pace, di vita beata; ivi, negli angioli che spiegano le ali variopinte, nel corteo delle sante, nelle sacre iconi si mostrano più numerosi i caratteri propri dell’arte bizantina, ma anche in quegli affreschi v’è tal cosa che non trova confronto con le opere degli artefici orientali; è la maniera facile, libera, non soggetta a canoni, con la quale il pittore va formando corpi e visi alle sue figure, è un tipo umano tutto individuale, dai lineamenti del volto, alla forma delle mani”. “Infine, soprattutto nella maniera di colorire va distinto il pittore dell’oratorio dagli artisti di Bisanzio”.98 Come già più volte dichiarato, esplicitato e ribadito, lo scopo della tesi è mettere in luce come il lavoro interdisciplinare sia una delle chiavi per un miglior lavoro sull’opera, in un continuo scambio di opinioni e idee e un continuo passaggio osmotico fra mondo dell’arte, della conservazione, dell’archeologia e del restauro. Sia prima che dopo il Toesca, il ciclo e il suo contesto furono ampiamente studiati, numerosi furono gli spunti di indagine e riflessione che offrirono a più studiosi di più discipline; studiando ad esempio la storia degli scavi archeologici vediamo come, questo intervento, abbia dato vita a preziose osservazioni anche dal punto di vista storico. I monasteri dell'Alto Medioevo erano centri focali in un mondo che mancava, ancora, di nodi cittadini e centri abitativi. "La storia dell'Europa di quel periodo è stata scritta in grandi abbazie come Lorsche, San Gallo, Montecassino."99 Grazie a luoghi come San Vincenzo al Volturno l'imperatore poteva mantenere un'ampia rete di controllo sulle aristocrazie locali. La nascita di San Vincenzo al Volturno fu, e lo abbiamo già visto nel primo paragrafo, successiva a una fruttuosa campagna militare condotta da Gisulfo I che lo fece entrare in possesso di numerosi territori nel

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G. Cimorelli, “La Badia di San Vincenzo al Volturno”, Venafro, Greco, 1914, pagg. 40-41

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F. Marazzi, R. Hodges, “San Vincenzo al Volturno: sintesi di storia e archeologia”, San Vincenzo Project Arechis, 1995, pag. 9

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CAPITOLO I Lazio e nell'Abruzzo, configurandosi quindi come una manifestazione del suo controllo su quelle zone. Si intende ora procedere ad una rassegna degli scavi intercalata da accenni storici perché se da una parte fonti come il Chronicon aiutano a decifrare ciò che emerge dalle indagini archeologiche, queste ultime aggiungono e chiarificano invece le tappe storiche e cronologiche che hanno segnato la nascita, la crescita, la morte e la rinascita del sito molisano in questione. "Nel giorno 10 Marzo 1832 un tal Domenico Notardonato scavando de' fossi ad uso di viti sulle falde del Colle della Torre, in uno dei fossi rinvenendo del vuoto, ne allargò l'apertura. Si avvede quindi che venìa ad un sotterraneo speco guidato. Penetrando dentro l'istesso trovo, a mio credere, essere porzione del succorpo del celebre monastero di San Vincenzo al Volturno...abbattuto dai sciaurati Saraceni, di cui appena pochi ruderi et orme si ammirano. Lo speco di cui fò motto, della lunghezza di circa palmi venti e poco men di larghezza, della figura di una croce greca...è tutto ricoperto di pittura, senza che siavi neanche l'umido penetrato”.100 Così l'arciprete di San Vincenzo al Volturno descriveva all'abate di Montecassino il fortuito ritrovamento della celeberrima cripta fatta affrescare dall'abate Epifanio. Per oltre un secolo si era pensato che la cripta fosse l'unico elemento superstite dell'epico monastero altomedievale di San Vincenzo al Volturno e che la stessa cripta appartenesse ad una chiesa esterna al monastero vero e proprio. Gli scavi non solo hanno dimostrato che gran parte del monastero si trovava ben conservato sotto campi e terrazzamenti, ma anche che gli strati rinvenuti appartenevano a secoli ben anteriori a quelli altomedievali. Gli scavi vennero iniziati nel 1980 e hanno prodotto grandi risultati, incrementati, nel 1994, dall' accelerazione impressa alle esplorazioni dall'intervento della Regione Molise, tramite l'abbazia di Montecassino, sotto la sorveglianza costante e vigile della Soprintendenza. Basandosi sulla fonte del Chronicon, per molto si è ritenuto che il monastero si fosse insediato su quello che rimaneva dell'antica città romana di Samnium. In realtà non è dato sapere con certezza se gli scavi di epoca romana ritrovati corrispondano alle tracce archeologiche di Samnium, ma è certo che il monastero si insediò su quello

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F. Marazzi, R. Hodges, “San Vincenzo al Volturno: sintesi di storia e archeologia”, San Vincenzo Project Arechis, 1995, pag. 16

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CAPITOLO I che fu un centro di una certa importanza. Esso venne probabilmente abbandonato nel III sec. a. C, e direttamente di fronte la cripta sono stati ritrovati i resti di un santuario databile al IV sec. a.C.. Al declino di questo centro, nella parte bassa della valle vennero fondati altri centri: questi rappresentano i nuclei di Isernia e Campobasso. Oltre i confini dell'ormai abbandonato nucleo romano, ma esattamente nelle prossimità di ciò che ne rimaneva, sorse una villa tardoromana, probabilmente questa ebbe il suo periodo di massima fioritura nel I sec. d.C., ma pare che già intorno al 400 questa venisse abbandonata per un nuovo centro abitato che sorse esattamente su quello di periodo sannita-repubblicano.101 Per sei secoli la planimetria di questo primo strato archeologico che gli studiosi hanno ritrovato condizionò le successive costruzioni. Il villaggio consisteva in un ponte, il cosiddetto Ponte della Zingara, un edificio a torre di due o tre piani, una chiesa ed una chiesa cimiteriale. Le tracce archeologiche ci testimoniamo che probabilmente fino a circa l'inizio del VI secolo fu abitato da una cinquantina di persone. I primi monaci giunti a San Vincenzo probabilmente trovarono i resti del villaggio tardo romano. La chiesa cimiteriale venne trasformata nella prima chiesa abbaziale, San Vincenzo minore, mentre la chiesa a nord venne usata pochissimo, per poi essere abbandonata e ricostruita, seguendo la planimetria dell'edificio sannita e con una decorazione che richiamava quella della chiesa cimiteriale a sud, con bande blu-grigio, rosso opaco, arancio-rosso pallido e giallo con linee bianche. L'idea di affiancare ad una chiesa principale una chiesa più piccola non è strana né nuova. Ne sono un esempio San Martino di Angers, Farfa e San Giovanni di Mustair. Nonostante appare evidente l'intento di dare risalto alle reliquie conservate nella cripta di questa prima chiesa, non va nascosta la semplicità insita nell’ideazione del progetto che, chiaramente, mostra l'assenza di un vero e proprio architetto. Ma l'intervento di una sorta di capomastro, ad un certo punto di questa fase, appare evidente nella costruzione del nuovo deambulatorio. La nuova planimetria oltre ad innestarsi su quella precedente, bisogna notare come inglobò in maniera più organizzata le varie costruzioni della precedente fase e come l'esattezza 101

CFR F. Marazzi, R. Hodges, “San Vincenzo al Volturno: sintesi di storia e archeologia”, San Vincenzo Project Arechis, 1995, pag. 17

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CAPITOLO I della sua simmetria, la disposizione delle pietre e la qualità di stesura della malta risaltino confrontandole con la rozzezza dei precedenti interventi. Le tracce archeologiche di queste due fasi effettivamente presentano dati scientifici non controvertibili, perché non confrontabili con nessun altro dato, ma ci avviciniamo al periodo in qui ciò che viene rinvenuto può essere paragonato con la fondamentale testimonianza del Chronicon. Gli scavi hanno, ad esempio, confermato che la chiesa fatta costruire dall'abate Giosuè era stata realizzata utilizzando materiali antichi, giunti da Capua, tratti dalle spoglie di un antico tempio. Le sue grandi colonne di granito furono impiegate per le navate della chiesa. La facciata della chiesa venne abbellita con una grande iscrizione celebrativa dell'opera di Giosuè, con lettere in bronzo dorate alte circa 30 cm e larghe 15.102 Solo all'estremità orientale del muro nord sono state ritrovate tracce di decorazione pittorica. Le parti inferiori delle pareti delle navate laterali erano decorate con due motivi diversi: il primo era un'imitazione di un sontuoso rivestimento marmoreo in opus sectile, dalle profonde tonalità cromatiche. Questo era concepito per costituire una base solida e ricca per le figure soprastanti e per definire le suddivisioni funzionali e liturgiche. Per quanto riguarda la cripta di Giosuè essa presentava una decorazione che comprendeva sia parti decorate che figurate, le quali dovevano svolgersi sulle volte e sulle parti superiori dei muri dei corridoi anulari e doveva trattarsi di raffigurazioni di angeli e santi, ma queste vennero smantellate quando la cripta venne del tutto abbandonata. A causa di ciò, durante gli scavi, solo pochi frammenti superstiti sono stati rinvenuti, ma sono preziosi indizi per risalire a quale fosse la decorazione originaria. Si è potuta, con questi, sopratutto immaginare quale fosse la resa della pittura dello zoccolo decorato a motivi geometrici, addirittura in due ridotte aree l'intonaco è stato rinvenuto in situ ed ha permesso, seppur marginalmente, di ammirare la mostra di motivi compositivi che per la brillantezza dei colori e per l'esuberante varietà e sofisticazione delle invenzioni non ha eguali conosciuti. La qualità dell'opera è tale da aver assicurato una tenuta delle superfici più che eccellente. Gli affreschi sono stesi su una sottilissima base di intonaco che 102

CFR F. Marazzi, R. Hodges, “San Vincenzo al Volturno: sintesi di storia e archeologia”, San Vincenzo Project Arechis, 1995, pag. 23

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CAPITOLO I aderisce direttamente alla muratura, senza arriccio. Se da una parte la basilica di Giosuè probabilmente richiamava la chiesa abbaziale triabsidale voluta da Desiderio per san Salvatore a Brescia alla metà dell'VIII secolo e la chiesa di San Salvatore a Spoleto dello stesso secolo, la nuova tipologia di cripta richiama quelle cripte anulari romane, tra le quali da menzionare è il caso più antico arrivato sino a noi e cioè quello nella chiesa di San Pancrazio al Gianicolo del 630 circa e il caso, un secolo più tardo, di san Crisogono, del tempo di papa Gregorio III. Nel IX secolo le cripte divennero ancora più comuni a Roma: Santa Prassede, i SS. Quattro Coronati e Santo Stefano agli Abissini. Sotto Epifanio vennero costruite altre quattro chiese, cosicché nel secondo quarto del IX secolo vi erano ben otto chiese sul territorio su cui sorgeva il monastero. Ma di questo periodo abbiamo ampiamente trattato. E' sotto l'abate Gerardo che finalmente l'abbazia decide di spostare il monastero in una zona più difendibile, soprattutto dagli attacchi degli esponenti della famiglia dei Borrelli, che nel 1042 avevano attaccato e depredato il monastero. Qui l'abate Giovanni compose il Chronicon ma già nell’Ottocento il viaggiatore inglese Lord Keppel Kraven passava per visitare l'abbazia e ne constatava ormai la piena decadenza. Come per le pitture della cripta di Giosuè, quelle di Ilario perirono con la demolizione della chiesa che ebbe luogo poco dopo il 1100, nonostante fossero splendide visto che l'abate si era reso conto dei limiti del suo predecessore, Giovanni IV, e volle celare l'aspetto della costruzione.103 Dai blocchi rinvenuti si può ipotizzare che raffigurazioni di angeli, fiancheggianti la figura centrale del Cristo, fossero presenti nello schema decorativo dell'abside. I segni che in tanti anni di scavo gli archeologi hanno ritrovato, prima e per molti secoli, davano prova di quello che fu San Vincenzo al Volturno, essi affioravano casualmente, ritrovati dagli abitanti, senza che questi li cercassero e senza che questi possedessero la scientificità per indagare un territorio che dimostrava di essere stato luogo centrale per tanti secoli di storia e storia dell'arte altomedioevale: "questi segni della presenza del monumento hanno portato gli abitanti del luogo e fare mille 103

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CAPITOLO I ipotesi sulla "città perduta" che si celava sottoterra. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare l'effettiva importanza e grandiosità di quei resti e il loro significato per la comprensione di questa impresa monastica, che decollò nel cruciale momento in cui l'Europa iniziava a prendere forma."104

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CAPITOLO I 1.4 Lo studio e la ricomposizione dei frammenti di intonaco dipinto a San Vincenzo al Volturno105 Fino al 1980 le manifestazioni pittoriche a San Vincenzo vennero studiate solo sulla scorta di quello che era stato trovato ovvero la cripta di Epifanio, avvalendosi del confronto con le miniature del Chronicon. Se già queste poche prove confermavano l'altissimo livello raggiunto dalla cultura volturnense, la scoperta di ulteriori testimonianze offrì agli studiosi nuovo materiale e confermò l'eccezionalità dei ritrovamenti. Più precisamente tra il 1980 e il 1996, si aggiunsero all'elenco delle testimonianze pittoriche del monastero, la parete dei Profeti ricomposta e conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Venafro, gli affreschi della cripta di San Vincenzo Maggiore e numerosi blocchi di travertino con tracce di intonaco dipinto. Questi ritrovamenti permisero di indagare meglio le maestranze operanti a San Vincenzo e verificare l'esistenza dei vari cantieri di cui il Chronicon ci parla. Tra il 1980 e il 1996 e dal 1999 al 2004 (in quest'ultima fase di raccolta è stato rinvenuto circa il 50 % dell'intero patrimonio di frammenti recuperati) si raccolsero ingenti quantità di intonaco dipinto e un notevole numero di blocchi di travertino recanti tracce di affresco sulla superficie.106 La maggior parte dei frammenti venne rinvenuta nella zona del cosiddetto San Vincenzo Minore, nella zona absidale, nella cripta di San Vincenzo Maggiore, nella zona dell'atrio e in prossimità delle strutture ai piedi del colle detto di Torre. Purtroppo se le ulteriori testimonianze di cicli pittorici rinvenute come quelle del vestibolo e del refettorio, dell'abside tricora posta sopra la cripta di Epifanio e del corridoio loggiato furono da subito oggetto di ricerca per la loro più rapida leggibilità, i frammenti vennero immagazzinati e solo in parte studiati. Nel 1999 si insediò la Missione Archeologica dell'Università Suor Orsola Benincasa e ci si rese conto di quanto fosse opportuno nell'ambito più generale di studio e

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Questo paragrafo effettivamente, nell’economia del capitolo della tesi, potrebbe appari ridondante e superfluo, ma se ne giustifica la stesura con l’interesse che la laureanda nutre per il restauro dei frammenti, già argomento della sua tesi triennale, analizzando il caso della cappella Ovetari, e per l’importanza che l’argomento riveste come ambito di incontro fra la teoria della storia dell’arte e la scienza del restauro. 106

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 19

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CAPITOLO I conservazione dei reperti provenienti da San Vincenzo, che vi fosse un settore specifico per gli intonaci dipinti e di come le nuove conoscenze, di cui si sarebbe entrati in possesso sulla storia della pittura, dovessero necessariamente portare a un aggiornamento anche sugli studi per la ricomposizione e ricostruzione, reale o virtuale che fosse di "quel puzzle a "n" varianti così meticolosamente raccolto dagli archeologi".107 Nel 2001 si organizzarono gli spazi nella ex pretura per accogliere il primo laboratorio di ricomposizione dei frammenti pittorici di San Vincenzo al Volturno. Il progetto durò tre anni e vide la partecipazione e il sostegno attivo della Soprintendenza e dell'Università Suor Orsola Benincasa; a mano a mano il complesso si allargò accogliendo nuove strutture e nuova strumentazione. Nel 2004 il laboratorio si spostò nel nuovo complesso museale di Castel San Vincenzo. Avendo più spazio a disposizione fu possibile completare l'opera di ricomposizione e unire i vari archivi in un unico magazzino dei frammenti e dei blocchi. Nel 2002 all'Università Sr. Orsola Benincasa venne inaugurato il nuovo corso di laurea in Diagnostica e Restauro e il laboratorio divenne così luogo per stage e didattica. Vista la rarità di tracce complesse come quelle di San Vincenzo e quanto poco si sa del periodo in questione, è superfluo sottolineare come sia stato fondamentale il lavoro interdisciplinare e multidisciplinare; trovandosi il laboratorio così tanto inserito nel contesto vivo delle indagini archeologiche e delle attività di post-scavo, il fine del laboratorio stesso non poteva essere solo la ricomposizione e/o il restauro dei frammenti. Il rapporto tra lo scavo e il laboratorio fu imprescindibile e quello del restauro rappresentò sono un indirizzo dei numerosi ambiti che concorsero a integrare e connettere la ricerca nel suo insieme. Se il dato archeologico rappresentò il punto di partenza per la ricomposizione, la catalogazione e l'immagazzinamento, la lettura tecnica e stilistica rappresentarono un elemento imprescindibile per la comprensione e per la datazione delle strutture del contesto stratigrafico. La collaborazione fra archeologi e storici dell'arte venne compensata e integrata da quella con i restauratori che studiarono il materiale e le tecniche artistiche per 107

C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 20

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CAPITOLO I ripercorrere l'evoluzione della storia dell'arte dal punto di vista materico, del manufatto. I tecnici del laboratorio per le analisi e la diagnostica individuarono lo stato conservativo e compirono le analisi chimiche e fisiche. Tutti i dati ricavati vennero archiviati e correlati in un sistema informatico.

La

documentazione

fotografica

fu

un

altro

tassello

fondamentale: i frammenti vennero scansionati in scala 1:1 e le immagini furono così direttamente consultabili dal catalogo. Proprio per la peculiarità di questo laboratorio che, rispetto agli altri laboratori in Italia che si occuparono e si occupano di ricomposizione dei frammenti, intesse uno strettissimo rapporto con il contesto archeologico e lo scavo, si sviluppò un modello investigativo e ricostruttivo "a pelle di serpente" (se non si trova più il rettile "struttura architettonica", si poteva attraverso lo studio della pelle "intonaco dipinto", almeno conoscere l'età, la razza, le misure, etc.).108 Gli eccezionali giacimenti di intonaco a San Vincenzo raccontarono degli edifici per i quali erano stati eseguiti, della loro funzione e delle loro misure, della tridimensionalità dell'ambiente; significativo fu il caso della parete dei Profeti, grazie alla quale, al di là del valore estetico e artistico, si poté risalire alla spiritualità del luogo, alla sua funzione, alla dimensione dell'alzato, a una lettura di come si articolassero le pareti. Il laboratorio quindi restituì una nuova dimensione allo scavo, quella cosiddetta della "archeologia verticale", da integrasi con dati ed elementi fornitici dalle pavimentazioni superstiti e dalle planimetrie delle piante. Nonostante l'attenzione prestata da sempre dai responsabili alla raccolta dei delicati frammenti, con la creazione del laboratorio si poté mettere a punto un protocollo di intervento per migliorare lo standard operativo di recupero. La quadrettatura, o griglia di recupero, venne sviluppata con moduli non inferiori al metro quadrato; generalmente la posizione del quadrato venne indicata con il valore alfabetico sull'ascissa e quello numerico sull'ordinata. La quadrettatura venne impostata solo quando il responsabile di scavo riscontrò un'elevata concentrazione di frammenti. Il posizionamento dei frammenti sul rilievo stratigrafico venne richiesto dal laboratorio solo 108

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 24

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CAPITOLO I quando il complesso frammentario era notevole e complesso. Nel caso di tre o più frammenti si scattò una foto al momento del ritrovamento e si ripose nei contenitori il complesso combaciante dopo averne eseguito un rilievo grafico. Al restauratore spettò il compito di risolvere i recuperi difficili, ossia mettere in atto tutte le misure conservative e di pronto intervento indispensabili per evitare danni ai manufatti o quando si rischiava la perdita del frammento. Velinature con carta giapponese o garze, fermature dei distacchi con appositi consolidanti o con malte, puntellature e imballaggi provvisori furono alcune delle operazioni che potevano essere eseguite. Queste operazioni dovevano essere facilmente reversibili.109 Il reperto, posto in un contenitore idoneo, all'ombra e ben sistemato, veniva affidato dall'archeologo al magazzino, mentre una copia della documentazione passava al laboratorio. La ricomposizione dei frammenti avveniva nelle sabbiere, contenitori piani, modulari, riempiti di sabbia e fissati a strutture carrellate, oppure in sabbiere trasportabili. Lo spessore dello strato sabbioso era di circa 4 cm, la sabbia utilizzata era di natura quarzosa o di fiume, di colore neutro e di media granulometria, uniforme e vagliata. I frammenti associabili o combacianti vennero immersi nello strato sabbioso lasciando a vista solo la superficie dipinta. La sabbiera facilitò la ricerca di combacienze e limitò il numero di incollaggi provvisori. I frammenti venivano sistemati nelle sabbiere ripetendo lo schema planimetrico della quadrettatura. Sicuramente il fatto di acquisire via via consapevolezza che ci si trovasse di fronte a "uno dei giacimenti di intonaco affrescato più cospicui e prestigiosi d' Europa”110 ha aumentato il senso di responsabilità degli addetti ai lavori, ma anche le difficoltà da risolvere. Lettura archeologica e storico artistica dovettero necessariamente procedere insieme ai fini di un'adeguata lettura interpretativa del complesso. Gli obiettivi furono sempre tenuti presenti: la conservazione e la valorizzazione del patrimonio delle pitture murali di san Vincenzo al Volturno. L'impostazione originaria data dagli archeologi inglesi al progetto costituì sicuramente la base essenziale, per l'avvio, però, di una rielaborazione di un programma che associò le diverse necessità ed 109

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 27

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Ivi, pag. 29

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CAPITOLO I esigenze derivanti dalle singole discipline. L'acquisto quindi di un software che sapesse organizzare database relazionali, acquisizioni di immagini digitali e ricostruzioni virtuali sembrò necessario e obbligato. "Il caso del laboratorio di studio e ricomposizione dei frammenti affrescati di San Vincenzo al Volturno rappresenta perciò non solo una sfida verso la comprensione di un'importante pagina della pittura murale europea tra IX e XI secolo, ma, allo stesso tempo, anche l'opportunità di lavorare su un patrimonio che diventa materia prima di sperimentazione e applicazione di numerose discipline scientifiche, collegate tra loro da utilities informatiche "dedicate".”111 Nonostante il lavoro fosse impostato, questo non evitò che si incappasse in alcuni e anche abbastanza comuni imprevisti, per questo la struttura generale dovette in un certo senso mantenersi stabile, ma elastica, fissata nei suoi punti fondamentali, ma modulabile. Numerosi furono gli strumenti e gli oggetti che servirono come strumentazione per le varie operazioni in un cantiere del genere, in primis si necessitò di un numero cospicuo di contenitori e sub-contenitori da trasporto e immagazzinamento, in quanto i frammenti rimasero conservati in essi fino alla composizione e al restauro. Anche la scelta del luogo di conservazione dei frammenti dovette essere programmata, privilegiando spazi poco soleggiati e lontani da luoghi di continuo passaggio. In generale, nel progetto di uno scavo si devono tener presente alcuni fattori fondamentali come la dislocazione geografica, le condizioni climatiche e la sicurezza sia del sito che dei lavoratori che degli spazi di deposito. La natura del terreno scavato rappresenta un dato fondamentale al quale far riferimento. Come tutti i reperti, anche i frammenti di intonaco, subiscono un'alterazione di carattere biologico, chimico e fisico, che ne trasforma l'aspetto e la natura originari. Dopo il periodo di interazione con l'ambiente sotterraneo, il reperto raggiunge uno stato di equilibrio che viene interrotto al momento dell'estrazione. Spesso a San Vincenzo grandi accumuli di frammenti si trovavano in stati di crollo di murature o perfino di volte in cementizio. Di conseguenza, i contenitori furono solitamente quelli da trasporto o da immagazzinamento e si fece attenzione a che avessero requisiti fisico-chimici appropriati. Dovevano 111

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 30

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CAPITOLO I essere provvisti di cartellino identificativo del materiale che conservavano. I dati fondamentali da trascrivere erano: la sigla di scavo, l'anno di scavo, il settore, l'unità stratigrafica (US), se individuato l'ambiente, le coordinate della quadrettatura, la data del rinvenimento, il materiale contenuto. Il primo intervento del conservatore consisteva nella pulitura generica, con l'asportazione di terreno incoerente, la pulizia avveniva a secco, con il reperto all'asciutto, con pennelli piccoli a setole extra morbide e di media lunghezza. A questo punto i frammenti furono catalogati nella TMA (Tabelle Materiale Archeologico). I contenitori furono impiegati sia a contatto, per contenere direttamente i reperti, sia per contenere a loro volta altri contenitori di dimensioni minori. I contenitori dovevano essere rigidi, resistenti agli urti e ai pesi del carico, componibili e impilabili. Inoltre non dovevano creare nessuna interazione chimica, resistendo all'acqua, all'umidità e agli agenti inquinanti atmosferici. Le cassette utilizzate erano quindi in PP (PoliPropilene) di uso industriale. I contenitori più piccoli in plastica, in metallo (alluminio, stagnola) o in PE (PoliEtilene). I sub contenitori erano utilizzati per accogliere piccoli gruppi di frammenti provenienti da una stessa US oppure frammenti che, a colpo d'occhio, erano visibilmente contigui. Le cassette erano a loro volta conservati in scaffalature e cassettiere che occupavano tutto il perimetro dell'edificio adibito a laboratorio. Una cassettiera conteneva gruppi di frammenti già indagati e sottoposti a una prima suddivisione.112 Gli intonaci affrescati provenienti da San Vincenzo al Volturno furono il prodotto di recupero di un'attività di scavo durata ben vent'anni. Durante questo periodo, il materiale venne catalogato in maniera più o meno omogenea, ma con impegno incostante, il che ha sì fornito la base essenziale dei dati, ma anche reso indifferibile intervenire con un lavoro approfondito di censimento di tutto il materiale affrescato raccolto. L'esigenza di rilevare la quantità di materiale affrescato e la sua esatta provenienza, costituì il punto di partenza del progetto di studio e ricomposizione degli affreschi. Si può affermare quindi che l'utilizzo di un archivio informatizzato di localizzazione dei 112

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 31

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CAPITOLO I reperti archeologici non solo facilita la ricerca fisica di uno o più reperti all'interno del luogo che li conserva, creando una sorta di mappatura della dislocazione degli affreschi, ma agevola anche la possibilità, nel caso di cambiamento di collocazione delle cassette, di poter ripristinare lo stesso ordine o programmarne uno nuovo; proprio per questo l'archivio fu uno strumento di riferimento durante i lavori di trasloco del Laboratorio di studio e ricomposizione degli affreschi nel nuovo edificio museale. Il lavoro di creazione dell'archivio e di localizzazione dei frammenti di intonaco affrescato produsse un totale di circa 1800 schede informatizzate e il conteggio di 1240 cassette. Si venne a formare un team di archeologi, restauratori e storici dell'arte con competenze informatiche e un database per la gestione delle informazioni relative agli intonaci dipinti. La stretta collaborazione fra i diversi specialisti consentì la progettazione di un sistema di catalogazione flessibile rispetto alle esigenze di ogni tipo di esperti. L'insieme di archivi che costituì la sezione dedicata agli affreschi si innestò nel database generale di San Vincenzo al Volturno, che era stato realizzato sulla base di un modello elaborato dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Siena alcuni anni prima, la sui struttura si era progressivamente ampliata, ramificandosi in tutti i settori d'indagine, fino a coprire in maniera sistematica la totalità del flusso di informazioni. La natura estremamente frammentaria di questo tipo di materiale, ma anche la ricchezza sia qualitativa che quantitativa dei reperti di San Vincenzo, nello specifico, fecero sì che ci si trovasse di fronte ad una schedatura per insieme e sottoinsiemi di frammenti, ma anche per singoli reperti. Per definire nello specifico le operazioni, per progettare un intervento di consolidamento e restauro delle malte, degli intonaci e dei pigmenti si operò un'attenta campionatura sulle quali vennero effettuate indagini diagnostiche finalizzate alla determinazione delle composizioni fisico-chimiche e mineralogiche. Tale attività di ricerca venne condotta utilizzando diverse metodologie analitiche: tra le analisi chimiche la determinazione gas-volumetrica della CO2113 e la determinazione dei sali solubili;114 per le analisi fisiche la 113

Il metodo della determinazione gas volumetria della CO2 permette di determinare il contenuto in carbonati del materiale lapideo mediante attacco acido per acido cloridrico del campione e successiva misura della CO2 sviluppata (calcimetria secondo il metodo Dietrich-Fruhling). Inoltre questa analisi permette di calcolare il rapporto in peso tra aggregato e legante, nel caso di assenza del legante nell'aggregato stesso e nel caso che il legante sia solo la calce.

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CAPITOLO I spettrofotocolorimetria,115 la fluorescenza a raggi X116 e la microscopia elettronica a scansione117 con microanalisi X.118 Ovviamente la fase preliminare a queste analisi fu la campionatura delle malte e degli intonaci, da svolgersi con molta attenzione affinché i campioni prelevati fossero davvero indicativi per i dati che si cercavano. Tutti i prelievi vennero documentati con micro e macro fotografie. Prima di poter effettuare le analisi vere e proprie, i campioni dovevano anche essere adeguatamene preparati. Ciò che contraddistinse le attività svolte all'interno del laboratorio degli intonaci di S. Vincenzo al Volturno fu certamente l'interazione di competenze e professionalità differenti. Il programma di studio impostato sui frammenti di intonaco dipinto, recuperati nel corso degli scavi, richiese infatti una collaborazione costante tra archeologi, restauratori, storici dell'arte e informatici, il cui impegno fu rivolto essenzialmente ad analizzare i dati forniti dai materiali e i risultati delle indagini condotte nei vari settori della ricerca. L'insieme delle informazioni archeologiche costituì il punto di partenza per ciascuna delle diverse tipologie di intervento condotte sui reperti: dalle semplici operazioni di pulitura alla ricomposizione in sabbiera, dalla catalogazione alle ipotesi conservative. Allo stesso modo, le problematiche di carattere storico-artistico vennero necessariamente valutate 114

Il dosaggio dei sali solubili permette, invece, l'estrazione dal campione dei sali solubili totali con un volume noto di acqua bidistillata e di quantificarne le specie mediante misure di conduttività elettrica. Essa viene utilizzata per valutare il degrado chimico dei materiali lapidei, naturali ed artificiali.

115

Le misure colorimetriche di superfici opache rappresentano un metodo strumentale che si basa sulle misure di riflettanza che esprimono i colori in termini numerici, si applica ai materiali lapidei sia naturali che artificiali, trattati e non trattati; può quindi essere utilizzata per il controllo delle variazioni cromatiche su provini trattati e non (verifica del grado di scurimento dato dal prodotto applicato) e per acquisire il cromatismo delle tinte e dei colori (tele, tavole, tempere e affreschi). 116

La fluorescenza ai raggi X, effettuata con strumentazione portatile, permette il riconoscimento degli elementi chimici costituenti il campione in esame, basandosi sulla possibilità di eccitarli mediante irraggiamento con fotoni X. E' una tecnica elementare e in alcuni casi semiquantitativa.

117

La microscopia elettronica a scansione con microanalisi X, permette il riconoscimento degli elementi chimici costituenti il campione in esame, basandosi sulla possibilità di eccitarli mediante bombardamento con un fascio di elettroni. E' una tecnica qualitativa e quantitativa che, inoltre, permette di ricavare informazioni sulla morfologia e la microstruttura del campione, definendone lo stato di conservazione superficiale, il tipo di degrado, la tecnologia di fabbricazione e lavorazione. La microscopia ottica su sezione sottile consiste nell'osservazione della sezione sottile mediante microscopio petrografico a luce polarizzata e nel riconoscimento dei minerali presenti in funzione dei loro tipici colori di interferenza e delle altre caratteristiche fisiche (abito, sfaldatura, indice di rifrazione, ecc.). La diffrazione dei raggi X, basata sull'irraggiamento del campione con un fascio monocromatico prodotto da un opportuno generatore, consente l'individuazione e il riconoscimento delle fasi mineralogiche presenti nel campione analizzato, in funzione del loro grado di cristallinità. Permette inoltre la determinazione qualitativa e la valutazione semi-quantitativa delle componenti (analisi modale). 118

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 49

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CAPITOLO I all'interno dell'ampio complesso dei dati forniti dagli altri campi di indagine; ne conseguì, ad esempio, che la preliminare operazione di lettura e interpretazione iconografica delle superfici dipinte non prescinse affatto dalle informazioni relative al contesto archeologico di provenienza, come anche delle analisi strutturali e dei materiali costitutivi, richieste dai restauratori e condotte dai diagnostici.119 Non solo, quindi, l’indagine storica deve fondare gli approfondimenti critici sulle pitture del monastero volturnense. E’ necessario ogni sforzo. “Di tal guisa che il monastero volturnense sorto a tutela della libertà romana in faccia a’ Longobardi di Benevento, sorgente popolatrice di tutta una regione deserta dapprima, continuamente devastata di poi, mantiene anche oggi alto il decoro della sua missione rivendicando all’Italia, ed alla meridionale in ispecie, la cura tenace nel conservare gelosamente, di fronte al bizantinismo, la nostra arte ellenistico-romama. Senza le pitture dell’oratorio di Epifanio non avremmo saputo di questa gloria. A dimostrare queste due benemerenze della nostra Badia tendeva il nostro lavoro; e speriamo sia riuscito al suo scopo. Ma, occorre bel altro: occorre opera di patriottica riconoscenza. E compierla si potrebbe facendo ogni sforzo per rimettere in luce più elementi ancora che completino la conoscenza di quel periodo luminosissimo della nostra storia politica e civile, dando ogni esteriore titolo di universale venerazione a quelli che già si posseggono. Facciamo per questo vivissimi volti al Governo del Re perché cominci per dichiarare monumento nazionale la Chiesa di S. Maria delle Grotte presso Rocchetta al Volturno, ricca di pitture che stanno ad affermare lo sviluppo della scuola pittorica volturnense nei secoli prossimi seguenti, e ci agevoli in tutti i modi nei saggi di scavo sul luogo dove sorgeva la Badia. E sarebbe opportuno, in tal caso, ricercar l’edificio a cui è addossato l’oratorio scoperto e la chiesa di S. Maria, dello stesso abate Epifanio nell’altra isola come dice il cronista, e potrebbe essere, come ritengono il Piscicelli ed il Bertaux, il monticiuolo di fronte a quello dell’oratorio sulla sponda sinistra del fiume. E’ la storia d’Italia che lo vuole, dell’Italia veramente grande e maestra dei popoli.”120 119

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 49

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G. Cimorelli, “La Badia di San Vincenzo al Volturno”, Venafro, Greco, 1914, pagg. 41-42

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CAPITOLO I 1.5 San Vincenzo al Volturno nel percorso della pittura italiana nel IX secolo L’Alto Medioevo: periodo di abbazie, affreschi e miniature. Nell'ambito delle testimonianze pittoriche, come anche per il resto della produzione artistica del monastero, l'attività di ricognizione archeologica ha restituito reperti relativi a ciascuna delle diverse fasi di vita del complesso abbaziale, ma il rapido excursus storico artistico che qui si presenta ora, verterà essenzialmente sui reperti di intonaco relativi al IX secolo che, in virtù della quantità e del valore del materiale, si configurano come l'aspetto più rappresentativo del periodo di gloria e magnificenza vissuto, a quell'epoca, dal monastero volturnense. Non si vuole quindi riproporre un’analisi storica artistica completa, argomento già trattato nei paragrafi precedenti, ma interessarsi solo dei reperti che dagli scavi archeologici ci sono giunti in maggior numero e ripercorrere i principali snodi artistici nel quale i ritrovamenti si vengono a collocare alla luce delle scoperte archeologiche, mostrando come le due discipline si integrino e compenetrino. Grazie al supporto dei dati archeologici, nonché alla straordinaria testimonianza del ciclo di affreschi della cripta di Epifanio, gran parte dell'intero patrimonio di San Vincenzo viene a collocarsi nel contesto di due importanti fasi della cultura medievale italiana: quella della cosiddetta "rinascita carolingia" e quella legata al ristabilimento dell'autorità imperiale in Italia a opera della dinastia ottoniana. Il Chronicon Vulturnense e i risultati di venti anni di campagne di scavo, hanno posto in evidenza che il IX secolo rappresenta per San Vincenzo l'epoca di maggiore splendore, caratterizzato da un grande fervore artistico e costruttivo. Agli stravolgimenti politici che seguirono l'avvento di Carlo Magno in Italia corrisponde, infatti, un momento di radicale trasformazione per l'intero complesso abbaziale. Se è vero che"...i Longobardi...furono i maestri della rinascita carolingia"121 serve stabilire la provenienza degli artisti che ai primi del IX secolo lavorarono nei cantieri di San Vincenzo. Situato, infatti, nel punto di cerniera tra le corti longobarde settentrionali e il territorio della cosiddetta Longobardia minor, il monastero 121

A.M. Romanini, in C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 41

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CAPITOLO I viene a costituire, in questi anni, il crocevia di correnti artistiche diverse. E' probabile che la vasta tradizione pittorica longobarda, fondata in parte sui modelli tardoantichi, si fosse diffusa negli ambienti aulici dell'Italia del nord e abbia poi raggiunto il sud della penisola sino alla roccaforte del Ducato di Benevento, probabilmente soprattutto in virtù dell'opera di rilancio della corte beneventana avvenuto a opera di Arechi II. In quest'area del Meridione un notevole e ricco corpus di opere pittoriche, che facevano capo al ciclo della chiesa di S. Sofia, avrebbe dato origine a quell'ampio movimento culturale che il Belting chiamò "scuola beneventana", diffusosi lentamente in tutto il territorio. Ai primi del IX secolo, tuttavia, l'avvenuta conquista della Longobardia maior da parte dei Franchi condusse al costituirsi in Italia di due distinti ambiti di potere e di influenza: le nuove e potenti corti carolingie del Nord e il presidio ducale di Benevento a Sud. Con i moduli espressivi della cosiddetta arte beneventana interagirono ben presto istanze e influenze oltremontane, suggellando l'incontro della cultura nordica con duecento anni di dominazione longobarda. Gli affreschi di San Vincenzo al Volturno possono essere considerati, in virtù del particolare ruolo dell'abbazia, uno dei possibili punti di convergenza dei percorsi intrapresi dalla pittura di IX secolo in Italia.122 L'osservazione diretta degli intonaci ancora in situ e di tutto il materiale di blocchi e frammenti dipinti conservati in laboratorio consentì ulteriori approfondimenti. I riquadri a disegni geometrici che decorano il registro inferiore della cripta di San Vincenzo Maggiore

presentano

"un

vocabolario

formale...di

ascendenza

straordinariamente antica"123. La sontuosa decorazione a fascia continua e piccoli cubi prospettici che separa le pitture figurate dalla zoccolatura dei muri richiama con chiarezza alcune pareti affrescate di epoca romana, tra cui la casa dei Grifi a Roma e una serie cospicua di ambienti ed edifici pompeiani, come ad esempio il Tempio di Apollo. Non diversamente, la ricostruita parte con la Teoria dei Profeti, costituisce quasi una rarità nel panorama figurativo altomedievale. Si tratta di un modulo iconografico

122

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 40-48

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Hodges – Mitchell in C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 42

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CAPITOLO I molto diffuso in epoca paleocristiana, ripreso sistematicamente solo a partire dall'XI secolo. Rientrano, dunque, nel repertorio iconografico di San Vincenzo, tipologie decorative di ascendenza classica e tardoellenistica, chiaramente conosciute e recuperate nelle corti altomedievali del nord Italia, e di lì filtrate negli aulici ambienti del Ducato di Benevento. Ed è proprio all'ambito beneventano che rimandano alcuni tratti specifici della pittura di S. Vincenzo. Le eleganti figure dagli arti allungati, la ripresa sistematica dei moduli tardo-antichi, l'utilizzo di un' iconografia di stampo bizantino caratterizzano gran parte della produzione pittorica altomedievale della Campania e del Meridione, il cui termine ante quem è costituito dal ciclo conservato all'interno della chiesa di Santa Sofia a Benevento (seconda metà dell'ottavo secolo). Testimonianza attraverso i secoli del grado di maturazione e diffusione della tradizione figurativa di ambito campano sono una serie di opere collocabili tra la fine del IX secolo e gli inizi del X: gli affreschi della grotta di San Biagio a Castellammare di Stabia,124 quelli di Ss. Rufo e Carponio a Capua, dell'Annunziata di Prata, della Basilica dei Ss. Martiri di Cimitile125 e la Madonna tra angeli nella chiesa di S. Maria in grotta presso Rongolise. Allo stesso ambito campano-molisano, al quale rimandano per un'indiscutibile coerenza stilistica, fanno riferimento i due cicli affrescati della chiesetta pugliese di Seppannibale, vicino Fasano126 e quello della Grotta del Peccato originale a Matera,127 la cui scoperta ha determinato un ampliamento, collocabile già ai primi del IX secolo, dell'area di espansione di questa vasta tradizione figurativa. Pur trattandosi di opere 124

La Grotta di San Biagio è un antico tempio cristiano, ricavato nella roccia di tufo alle pendici della collina di Varano: molto probabilmente in origine era proprio una cava creata dagli antichi romani per costruire le loro ville tramite l'estrazione di blocchi di tufo. In principio vi fu un tempio romano dedicato a Mitra, mentre nei primi secoli della cristianità divenne una catacomba. Fu soltanto dal VI secolo che divenne chiesa, dedicata ai Santi Giasone e Mauro, sede di una comunità benedettina, dipendente dal monastero di San Renato di Sorrento. All'interno vi sono affreschi di notevoli proporzioni, splendidamente conservati, eseguiti tra il VI e XIV secolo: oggi purtroppo la grotta è chiusa al pubblico. Negli ultimi tempi è stata trovata al suo interno una statua raffigurante forse San Biagio che oggi è conservata al Museo Diocesano di Castellammare di Stabia. 125

Rappresenta la trasformazione di un mausoleo funerario del III secolo. Comprende vari ambienti con pittura databili alla seconda metà del III secolo. All'inizio del X secolo il vescovo Leone III la trasformò in oratorio con abside, due altari a blocchi con nicchie e protiro, recante l'iscrizione: " Leo tertius episcopus fecit". 126

Il tempietto di Seppannibale sorge nel territorio di Fasano, lungo la SS 16, a ridosso di una lama nei pressi della masseria Seppannibale Grande, di cui fa parte. Conosciuto con il toponimo Seppannibale, riferito al nome della masseria di pertinenza, Seppannibale Grande, era forse in origine denominato San Pietro Veterano, come testimonierebbero alcuni documenti di età medievale. In due donazioni (1086 e 1099) Goffredo, conte di Conversano, donò la chiesetta di San Pietro Beterano all'abate Lorenzo di Monopoli. 127

Si trova all’esterno del perimetro urbano e, recentemente restaurata, rappresenta un esempio di pittura longobarda con uno straordinario ciclo pittorico di affreschi che coprono le pareti di sinistra e di fondo.

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CAPITOLO I qualitativamente lontane dall'arte di S. Sofia quanto da quella di S. Vincenzo, esse rappresentano le tappe principali del percorso intrapreso, in questi secoli, dalla pittura nel Meridione di Italia.128 Si evidenzia in tal modo una continuità di stile e di maniera che, dallo straordinario esordio di Benevento, attraverso la Puglia e il comprensorio materano, giunge a piena maturazione con gli splendidi affreschi della Valle del Volturno. E' interessante, inoltre, rilevare i diversi punti di contatto che l'arte volturnense presenta con il resto della contemporanea produzione pittorica italiana. Se, infatti, il riferimento alla cultura classica di ambiente beneventano è pressoché costante, i moduli decorativi e i temi illustrati a San Vincenzo rimandano anche a contesti differenti. Le figure oranti inserite nelle nicchie della camera delle reliquie della chiesa madre e le pitture della cripta di Epifanio mostrano precisi richiami con la produzione di ambiente romano tra VIII e IX secolo. La tipologia iconografica degli abati, infatti, rappresentati in posizione frontale a palmi disgiunti, rimanda al ritratto con il nimbo quadrato di San Cirillo, nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma, e all'immagine funeraria, non diversa nell'impostazione, proveniente dal monastero di Farfa. Allo stesso modo, le opere più vicine alla rappresentazione del Cristo crocifisso della cripta di Epifanio sono la grandiosa Crocifissione di Santa Maria Antiqua e quella del ciclo cristologico nella chiesa di S. Clemente, fatta eccezione per alcune differenze nella scelta dei particolari del fondo scenico e nell'atteggiamento delle figure, caratterizzato a San Vincenzo da una gestualità carica di pathos che manca nelle opere romane. Per quanto gli affreschi della cripta di Epifanio siano stati palesemente ispirati dagli scritti di Ambrogio Autperto e basta a darne prova far riferimento alla Madonna Regina che troneggia, inserita in una sorta di clipeo, le storie di Cristo e della Vergine ricoprono interamente le pareti del piccolo ambiente e questo è un carattere che, datato al IX secolo, appare di per sè straordinario e l'unico riscontro leggibile è in Francia, nella cripta carolingia di Sain-Germain a Auxerre. Ancora ulteriori legami si evidenziano tra la pittura volturnense e contesti pittorici dell'Italia del Nord e delle aree di confine. La singolare copresenza, infatti, nella 128

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 40-48

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CAPITOLO I pittura lombarda di IX secolo, di due differenti linguaggi stilistici, quello narrativo e quello cosiddetto dell'icona, ricompare, contornato da altre componenti, negli affreschi di San Vincenzo. Come nei cicli di Torba e Castelseprio, presso Varese, anche nelle pitture di Epifanio le parti narrative della storia cristologica si alternano all'introspezione che caratterizza le immagini singole o clipeate, conferendo da un lato ritmo e vivacità al racconto, dall'altro fermando la sequenza delle storie sulle scene di apparizione e rivelazione del messaggio evangelico.129 All'interno dello stesso ambito di influenza, tra i riferimenti di carattere stilistico-formale rientrano anche gli affreschi della chiesa del San Salvatore di Brescia e il ciclo carolingio di San Giovanni di Mustair,130 i cui punti di contatto con la pittura volturnense riguardano principalmente la maniera di organizzare gli spazi scenici, separati da diversificate tipologie di fasce decorative e il grafismo sottile dei finti marmi realizzati come basamento delle pareti. Nell'arte di San Vincenzo dunque, confluiscono istanze artistiche di disparata provenienza. Posta al centro dei traffici di influenze che differenziano i territori italiani nel IX secolo e oltre, essa rappresenta uno dei punti nevralgici della cultura pittorica che domina l'Europa nei secoli dell'altomedioevo. Individuati questi contatti fra l’arte beneventana e quella nordica, passando per Roma, gli stessi legami sono rintracciabili seguendo le fila di alcune riflessioni deducibili confrontando alcuni manoscritti. Di nuovo, il monastero di S. Vincenzo al Volturno non solo si presta per una lettura a più chiavi, ma anche per una ricerca multidisciplinare che ci ha portati a coinvolgere storia e archeologia fino ad arrivare allo studio delle miniature. Partendo dal saggio di Ferdinanda De Maffei dal titolo “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, del 1973,131 si intende studiare, se pur in forma riassuntiva e superficiale, alcune miniature che posso risultare utili per un confronto con gli affreschi 129

CFR C. Sassetti, “Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione degli affreschi di San Vincenzo al Volturno”, Università degli studi Sr. Orsola Benincasa, Napoli, 2004, pag. 40-48

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Gli affreschi carolingi si trovano nella chiesa abbaziale e raffigurano Storie dell'Antico e Nuovo Testamento, dipinte verso l'830, molto danneggiate e giudicabili solo nell'insieme. Una delle scene più integre è la Guarigione dell'Emorroissa, dove si nota un tratto rapido, con pochi colori, che sovrappone le campiture ritoccando poi con lumeggiature, le quali oggi sono quasi completamente invisibili. Sulla controfacciata inoltre, si segnala una delle prime rappresentazioni del Giudizio Universale. La tecnica e lo stile rimandano agli affreschi della chiesa di Santa Maria Foris Portas a Castelseprio, in Lombardia, per cui si è pensato che a Müstair avesse lavorato un maestro lombardo o che comunque aveva conoscenza diretta delle esperienze pittoriche in tale regione. 131

CFR F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, in “Commentari”, 24, 1973, pag. 255

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CAPITOLO I volturnensi e per cogliere alcune logiche che collegano, appunto, il monastero a Roma e all’Italia settentrionale. Il riscontro più accattivante appare quello con il Pontificale della Casanatense. Il prezioso manoscritto viene considerato redatto ed illustrato in uno scriptorium beneventano, insieme ad altri manoscritti tra cui il Benedictio Fontis. La scritta LANDOLFI EPI SUM ha sempre fatto ritenere che a commissionarlo fosse stato Landolfo I, vescovo di Benevento e ha sempre quindi portato a una datazione tra il 957 e il 982. Tuttavia la De Maffei appare scettica in quanto giustamente fa notare come di solito non si indichi il nome di chi ha commissionato il rotulo, bensì quello del dedicatario, per cui non è da escludere che Landolfo abbia semplicemente acquistato il rotulo per unirlo al Benedizionale fatto da lui comporre e avere così un testo completo e illustrato per la liturgia del Sabato Santo, dopo i rinnovati dettami post 950. Si riapre quindi la questione di dove il manoscritto sia stato redatto e la soluzione a questo interrogativo non può che partire dall’analisi stilistica delle miniature. Sono tutte realizzate a penna, il modulo compositivo è unico e i contorni sono sinuosi e sottili, i corpi traspariscono sotto le vesti leggere, particolare rilievo viene dato alla coscia, ma anche alle gambe che si intravedono sotto i tessuti e alle braccia sotto le casule. I partiti di pieghe obbediscono a un ritmo: raggruppati in numero di tre si distanziano tra loro e scendono verticalmente accrescendo l’ampiezza delle albe e delle dalmatiche. In contrappunto con queste pieghe altre tre, disponendosi a ventaglio, partono da sotto il ginocchio, individuato spesso da un trattino, e fasciano lo stinco, l’andamento è leggero e curvilineo al fine di ottenere un risalto plastico, accentuato dall’adagiarsi delle vesti sui piedi con balze. Quando, in alcune scene, la veste si solleva, improvvisamente si agita, si gonfia, il Belting individua qui le cosiddette pieghe a omega. Quando le figure, in particolare il vescovo, sono volte di tre quarti, falcature triangolari segnano il ventre. I volti sono tutti simili tra loro: vivacemente caratterizzati con le pupille rotonde come spilli, sopracciglia ravvicinate e unite al naso, bocca molto piccola, guance appena accennate da due pomelli rossi. Fino ad ora gli studiosi avevano accostato il Pontificale all’Exsultet Vat. 9820 del 985-987, al Cod. 3 di Montecassino e agli affreschi di San Vincenzo al Volturno. Il Belting ha esteso il numero dei riferimenti facendo riferimento 86


CAPITOLO I al Cod. LXXIII 41 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, agli affreschi del secondo strato della grotta di Castellamare di Stabia e anche con gli affreschi del Duomo di Benevento, ma in questo ultimo collegamento la De Maffei dissente. Secondo quest’ultima, se proprio un riferimento bisogna fare più pertinente è l’accostamento fra il Pontificale e i manoscritti di Montecassino e di Firenze. Gli elementi che collegano questi tre manoscritti, in particolare le già citate pieghe ad omega del Belting, ci riconducono direttamente a San Vincenzo al Volturno.132 Il Pontificale soprattutto sembra avere la stessa matrice iconografica degli affreschi, non limitando quindi le analogie al solo ambito stilistico, ma estendendole anche all’ambito cronologico.“Questa particolare koinè regionale campana del IX secolo, alla quale certamente appartenevano altre opere di maggiore importanza, ha come fulcro e, per noi, anche come punto di partenza proprio gli affreschi della cripta di San Vincenzo, circa l’origine dei quali gli studiosi hanno formulato varie ipotesi. Dai postulati bizantini del Bertaux (“ravvisare uno stile che prepari direttamente l’opera splendida che l’arte bizantina compirà in Italia nel decimo e undicesimo secolo”)133 si è passati a quelli carolingi del Van Marle e dello Oertel, per giungere, in base al dinamismo che anima le scene narrative, a quelli siriaci proposti dal Francovich e accolti dal Bologna. Ultimamente il Belting ha invece inserito detti affreschi e le opere a essi connesse, in una corrente storico-stilistica longobarda che unendo il Nord con il Sud dell’Italia, affonderebbe le radici in una precedente tradizione locale, imbevuta di elementi orientali, non meglio definiti.”134 Spesso i riferimenti non sono delle vere e proprie citazioni, ma dimostrazioni di elementi di origine comune, ma assimilati attraverso direttrici diverse. Ad ogni modo se si confrontano ad esempio le miniature delle Omelie di Gregorio Magno di Vercelli e gli affreschi volturnensi si noterà la stessa carica potenziale e lo stesso dinamismo. Ulteriore discorso si potrà fare per il Salterio conservato a Stoccarda che presenta notevoli tangenze anche con l’Angelo annunziante a Zaccaria della 132

CFR F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale” , in “Commentari”, 24, 1973, pag. 258

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A. Viti, “La cripta dell’abate Epifanio in San Vincenzo al Volturno nei suoi sviluppi storico-artistici”, in Almanacco del Molise, 1982, pagg. 231-256

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F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, in Commentari, 24, 1973, pag. 259

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CAPITOLO I chiesa di Santa Sofia a Benevento. Il Salterio di Stoccarda quindi, sembra addirittura andare al di là delle conoscenze visive che poteva avere il miniatore raccogliendo una vasta gamma di esperienze campane e rappresenta perciò una sorta di sintesi del percorso campano tra le fine del secolo VIII e l’inizio del IX. Ci si offre come la chiave per il passaggio dagli affreschi di Santa Sofia a quelli di San Vincenzo al Volturno. Un necessario accenno seppur veloce va fatto a quella che viene considerata un’altra opera importantissima nella storia delle miniature e pitture campane. Si tratta dell’Apocalisse della Biblioteca di Stato di Treviri, miniata forse nel Medio Reno o a Tours o a Corbie e giudicata unanimemente copia di un codice più antico, a detta del Moreno e del Montague di un prototipo romano, mentre il Neuss la ritiene copia di un prototipo paleocristiano della Gallia. Importanti studi su questa miniatura sono stati redatti anche dal Belting e dallo Schapiro. Le analogie con gli affreschi di Santa Sofia e quelli di San Vincenzo sono numerosi e pregnanti. Alcuni esempi: l’Angelo che compare a Giovanni nella miniatura e l’angelo beneventano, il S. Giovanni o il San Pietro miniati e l’Angelo Annunciante al Volturno, Cassiopea e la Vergine nella volta della cripta, uno degli Angeli dell’Apocalisse che scende in volo e quello che vola a soccorrere S. Lorenzo, S. Giuseppe nella cripta di Epifanio e il S. Giovanni assiso nella miniatura dell’Apocalisse. Si può per lo meno supporre allora che quella fucina nell’Italia settentrionale che avrebbe dato vita e influenzato anche la scuola beneventana di pitture e miniature, possa per lo meno ipotizzarsi collocata a Roma.135 Effettivamente della produzione pittorica romana di quegli anni è rimasto poco, ma dai quei pochi frammenti, relitti e lacerti possiamo delineare un percorso che va dal plasticismo verso una astrazione lineare sempre più accentuata che esclude il chiaroscuro. Di quest’ultima fase la scuola di mosaici dell’età di Pasquale I ne è una perfetta risonanza. Moltissimi sono i riferimenti fra l’Apocalisse di Treviri e gli affreschi di Santa Maria Antiqua, o fra la stessa miniatura e i Vegliardi di San Paolo fuori le mura o il mosaico della facciata di San Pietro che conosciamo grazie 135

CFR F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, in Commentari, 24, 1973, pag. 272273

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CAPITOLO I a un disegno del IX secolo proveniente da Farfa. E ancora i Santi Cosma e Damiano o Santa Prassede, o Santa Cecilia o Santa Maria in Domnica; “sembra quasi che il mosaico contenesse più frenato, il libero svolgersi delle miniature.”136 Ma facciamo un salto ancora in avanti nel nostro ragionamento: si può addirittura ipotizzare che la comunanza fra le opere romane di Papa Pasquale I e opere non romane di un periodo più o meno corrispondente non siano che l’altra faccia di una stessa medaglia che ci mostra quell’evoluzione stilistica che si verificò a Roma durante l’alto medioevo, quel processo che ha avuto inizio nel periodo di influssi bizantini dovuti a varie cause, fra cui la lotta iconoclasta e di cui sono testimonianza, tra le altre, gli affreschi della cappella di Teodoto di Santa Maria Antiqua che giustappunto sono stati messi a confronto con quelli della Acikel Aga Kilisesi in Cappadocia. Il Weitzmann ha inoltre ritrovato la “piega a doppia linea” romana in alcuni lavori nella cosiddetta cattedra di Grado, da lui attribuiti a una scuola siriaca, palestinese o egiziana con influenze siriache. Ora, effettivamente, l’analisi di questo intricato e complicato studio risulta ancora più ostacolato dalla scarsità e spesso dallo stato precario delle opere, ma è logico pensare che le miniature e le pitture che riflettono lo stile romano, fuori da Roma, ferme restando le accezioni locali, non dipendano da una corrente che circolò fra l’Italia del Nord e quella del Sud, scavalcando la capitale, ma che proprio da Roma siano partiti i modelli e i suggerimenti che a più fasi raggiunsero le varie regioni aggiornandosi sui gusti locali e le mode del periodo. Uno dei tramiti più importanti dovettero essere proprio le miniature, vista la fiorente produzione libraria a Roma tra i secoli VIII e IX.137 Proprio a Roma deve porsi il prototipo dell’Apocalisse di Treviri e visto che questa miniatura si avvicina così tanto agli affreschi beneventani di Santa Sofia, la De Maffei ipotizza che in questa chiesa operò un artista che conosceva i modelli romani dandone un’interpretazione allo stesso tempo personale, ma di altissimo livello. Si può forse quindi parlare di un tramite bizantino-romano e da questo dislocato, ma stretto giro di rapporti si può quindi forse dedurre che da una prima fase della pittura 136

F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, in Commentari, 24, 1973, pag. 268

137

CFR F. De Maffei, “Roma, Benevento, San Vincenzo al Volturno e l’Italia settentrionale”, in Commentari, 24, 1973, pag. 272273

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CAPITOLO I altomedievale romana siano scaturiti gli affreschi beneventani, voce di una vera e propria scuola e corrente che a Benevento aveva il suo centro e che affiorò precocemente a San Vincenzo. In questo il Bologna era stato lungimirante e prematuro: “il particolare rapporto di stile in cui essi (gli affreschi di Santa Sofia) si trovano rispetto alle pitture di San Vincenzo, induce a credere diversamente. Quella loro integrità di forma, non ancora investita dall’animazione espressionistica, è un sintomo che non solo tollera male, e anzi esclude qualsiasi tentativo di ulteriore ritardo; ma contribuisce bensì a maturare il convincimento opposto: che gli affreschi beneventani, cioè, siano più antichi degli affreschi volturnensi. Svincolata dal termine dell’847, la loro data vuole rimontare decisamente più indietro, all’epoca della costruzione della chiesa che li contiene, incominciata, come si sa dal duca Arechi II nel 762” […] “l’origine degli affreschi dovrà essere ricercata qui”. Sempre il Bologna: “la maestà iconica delle raffigurazioni non ha nulla della fissità sempre troppo astratta e capziosa dell’arte di Bisanzio”. Non c’è quindi influsso carolingio, ma anzi sempre secondo il Bologna: “furono proprio gli affreschi del gruppo beneventano ad agire sulla formazione delle tendenze prevalse nell’Italia superiore ed oltr’alpe”.138

138

A. Viti, “La cripta dell’abate Epifanio in San Vincenzo al Volturno nei suoi sviluppi storico-artistici”, in Almanacco del Molise, 1982, pagg. 231-256

90


CAPITOLO II

CAPITOLO II

2.1 La chiesa di S. Sofia a Benevento: storia e arte “I longobardi guidati dal fiero Alboino, scesero nella nostra penisola a metà dell’anno 568 dando vita ai ducati di Spoleto e di Benevento. Quest’ultimo ha inizio, probabilmente, nell’anno 571, rendendosi per circa dieci anni indipendente, cioè al comando del solo Duca, dopo la morte di Alboino. E’ un triste periodo per le chiese e per il clero beneventano. Non mancarono stragi e spargimento di sangue. Ancora vivo è il lamento di S. Gregorio Magno e la testimonianza di Paolo Diacono anch’egli di origine longobarda. La Chiesa, materna e vigile, attendeva i nuovi, focosi padroni, pagani o cristiani infetti di arianesimo, al varco della conversione. Infatti, non molto dopo, S. Barbato, vescovo della chiesa beneventana fu colui che fece abbattere il famoso albero che era non lungi dalla città e sotto il quale convenivano i longobardi pagani, a sciogliere i loro voti. Con l’abbattimento del “noce delle streghe” ha inizio la conversione in massa dei longobardi e con la conversione la costruzione di cenobi, monasteri, chiese. I duchi longobardi non mancarono di riunire nella loro corte i dotti del tempo e dare incremento alla cultura. Il “Sacrum Palatium” dei duchi fu eretto nella parte alta della città che a sua volta si era, da tempi remoti, insinuata nel triangolo formato dai due fiumi che ancora oggi la bagnano. Pervenuto sul trono Desiderio, questi pose, nell’anno 758, a capo del Ducato beneventano, Arechi II longobardo di nobile origine ed originario di Benevento. Dominò per quasi trent’anni con grande prudenza, sapere e pietà. Al suo fianco era la gentile Adalperga, figliuola di Desiderio; lustro e decoro della corte: Paolo Diacono Warnefrido precettore di Adalperga che completò in Benevento e per volere di costei, la storia dei longobardi iniziata da Eutropio. Arechi morì in Salerno il 26 Agosto del 787. Aveva 53 anni. Se i terremoti, terribili, e la più terribile devastazione dell’uomo non avessero distrutte le vestigia longobarde, noi oggi ammireremmo, in Benevento, più di un insigne

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CAPITOLO II monumento, frutto di un’era colta e grandemente civilizzatrice”.139 Con queste parole si vuole preparare la mente ad entrare nel mondo della città di Benevento all’epoca del duca Arechi II, per affrontare la trattazione della chiesa di S. Sofia. C’è da fare una precisazione: quasi non esistono trattazioni storico artistiche o architettoniche della chiesa di S. Sofia a Benevento, di cui mi accingo a parlare, senza che si parli, almeno nelle pubblicazioni successive a questa data, del restauro a dir poco arbitrario che venne fatto di questa struttura negli anni Cinquanta. Il caso è talmente emblematico sì che se ne parlerà in maniera più dettagliata e specifica in un paragrafo a parte. Si intende ora presentare l’edificio nelle sue forme e nella sua storia. La chiesa di S. Sofia venne fondata nell’VIII secolo, durante il ducato di Arechi II, sembra intorno al 762 ed annessa a un monastero, dedicato anch’esso alla Divina Sapienza, secondo la tradizione bizantina. Edificata nell’area del Sacrum Palatium probabilmente doveva rivestire la funzione di nuova cappella palatina. Ci fu un momento in cui si pensò che essa fosse stata fondata da Gisulfo II, sulla scorta di un passo del Chronicon di Leone Ostiense,140 che confonde questa chiesa con quella di S. Sofia “a Ponticello”, costruita dall’abate Zaccaria e arricchita appunto da Gisulfo II. Inequivocabile è però la testimonianza di Erchemperto,141 nella sua Historia Langobardorum

Beneventanorum.

Affidata

alle

cure

di

monache

benedettine, a capo delle quali dovette essere la stessa sorella di Arechi II, Gariperga, S. Sofia assunse presto una notevole importanza, se i monaci ne rivendicarono, nel X secolo, l’autonomia da quella di Montecassino; da essa, infatti, tranne due brevi periodi, essa sempre dipese. Nonostante le

139

M. Ferrante, “Chiesa e chiostro di S. Sofia” in Samnium, n° 2-3, maggio-agosto 1952, pag.69

140

Leone Ostiense o Leone Marsicano o Leone di Montecassino (Marsica, 1046 – Roma, 22 maggio 1115) è stato un monaco e vescovo italiano, storico dell'abbazia di Montecassino. Membro di una nobile famiglia dei Marsi, Leone Marsicano (Leo cognomine Marsicanus), come egli stesso si nomina nel prologo alla Chronica monasterii Casinensis, entrò nel monastero di Montecassino all'età di quattordici anni, accolto e fatto istruire dall'abate Desiderio, in un'epoca compresa fra il 1060 e il 1063, come si deduce dal fatto che egli dice suo maestro di noviziato Aldemario, notaio di Riccardo I, principe di Capua, documentato almeno fino al 23 agosto 1059, poi nel 1063 circa, superiore della comunità di monaci inviati dall'abate Desiderio in Sardegna su richiesta di Barisone, giudice di Torres, la cui nave fu assalita e depredata dai pisani, infine cardinale (di incerto titolo) e abate di S. Lorenzo fuori le mura a Roma. 141

Erchemperto (... – post 887) fu un monaco benedettino e storico longobardo, noto soprattutto come autore della Historia Langobardorum Beneventanorum, importante fonte primaria della storia della Langobardia Minor. Della sua vita non si sa quasi nulla: si ignora dove e quando sia nato, e da quale famiglia avesse origine; non si conosce dove abbia compiuto gli studi né il luogo e l'epoca in cui maturò e realizzò la sua scelta di vita monastica. Le notizie tramandate dal cronista Leone Ostiense, storico dell'abbazia di Montecassino del XII secolo, tra cui l'iniziazione agli studi religiosi in tenera età a Montecassino, sono frutto di fraintendimenti del materiale d'archivio da lui utilizzato.

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CAPITOLO II concessioni di papa Benedetto VIII, del 1022, e di Leone IX, del 1052, solo nel 1084 si poté giungere, dopo alterne vicende, alla piena indipendenza. Questa naturalmente ne favorì l’ascesa economica e culturale, cosicché, verso la metà del XII secolo, mentre il monastero si arricchiva del magnifico chiostro fatto costruire dall’abate Giovanni IV, la chiesa, che intanto poco dopo il Mille aveva ottenuto il suo campanile, veniva ampliata. Nei secoli seguenti, strutturalmente l’abbazia non subì modifiche, ma alla floridezza di un tempo, successe una sempre crescente decadenza, tanto che, nel 1595, per risollevarne le sorti, i Benedettini vennero sostituiti dai canonici regolari. Il 5 giugno 1688 un grave terremoto fece crollare il campanile che rovinò sul corpo aggiunto in età romanica; in occasione del restauro che ne seguì la chiesa assunse le caratteristiche con cui è giunta fino a noi, non avendo subito nessuna modifica nemmeno quando cessò di esistere il monastero e si insediarono, dal 1834 al 1928, i Fratelli delle Scuole Cristiane. Oggi la struttura ospita anche il museo del Sannio.142 Il monumento venne già descritto nella sua complessità dal De Nicastro alla fine del Seicento ed accuratamente studiata, due secoli più tardi dal Meomartini. Purtroppo non è andato perduto, nel corso del tempo, soltanto il monastero, eccezion fatta per il chiostro, ma anche l’atrio ed il nartece della chiesa, fino al 1495 documentati esistenti. La stessa chiesa, con il passare dei secoli, come già detto, subì modifiche seppur lievi, in concomitanza soprattutto con il rovinoso terremoto del 1688, in occasione del quale venne restaurata su ordine del cardinal Orsini, nel 1696. Sebbene questi lavori richiesero molto impegno e suscitarono molte critiche da parte dell’abate del monastero, esclusa la cupola che venne ricostruita ex novo, questi non costituirono un totale rifacimento della struttura, ma, seppur liberamente inteso, un semplice ripristino. Ciò si può affermare, appunto, osservando che l’andamento interno della chiesa è apprezzabile tutt’oggi, a parte le differenze nella muratura perimetrale causate dal restauro contemporaneo sopra citato. Basandoci su una relazione del 1609 ricordata dallo Zavo, la chiesa presentava una pianta circolare, letteralmente: “edificata in forma tonda, sostenuta da otto colonne di diversi marmi 142 CFR Centro Italiano di Studi sull’Altomedioevo, “Corpus della scultura altomedievale”, V, La diocesi di Benevento, Spoleto, 1966, pagg. 29-40

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CAPITOLO II mischi”, “è assai antica ed ha della forma greca, nella quale vi sono assai reliquie”143; queste parole non fanno che confermare il carattere bizantino di questo edificio di età longobarda. L’interno di S. Sofia è splendido e presenta un giro di colonne centrale disposte sui vertici di un esagono ed un secondo giro di dieci sostegni (otto pilastri e due colonne) disposte ai vertici di un decagono concentrico all’esagono. Ne risulta quindi un duplice deambulatorio coperto da vele trapezoidali: “lo straordinario effetto di dilatazione, generato da una così singolare disposizione planimetrica, è esaltato dalla luce, che piove in abbondanza dalle finestre dell’alto tamburo esagonale su cui s’imposta, sul vano centrale, la cupola”.144 Le colonne centrali sono tutte di spoglio con capitelli anch’essi provenienti da fabbriche romane. “Nonostante un evidente programma centrico, riassunto dalla cupola su colonne – secondo il concetto bizantino che qui si arricchisce di nuove idee in virtù di una ignota, ma alta personalità artistica – una sorta di direttrice longitudinale, sia pure del tutto subordinata alla centralità, affiora nella presenza di una triplice abside volta ad oriente, destinata ad accogliere al centro l’altare”.145 Questa disposizione spaziale deve ritenersi del tutto originale ed autonoma, l’ignoto architetto che la concepì si ispirò liberamente agli edifici centrici paleocristiani o altomedievali, mediando in quest’organica forma, con un’idea architettonica geniale, la forma circolare e quella poligonale. Se in altre importanti chiese come San Vitale o i Santi Sergio e Bacco la dilatazione spaziale veniva ottenuta con le esedre, in questo caso beneventano si raggiunge tramite la moltiplicazione di prospettive fuggenti, con un’alternanza visiva di sostegni: viene quindi perfettamente applicato e interpretato il principio orientale di architettura come principio dinamico, la tematica della spazialità continuamente in moto in un processo di plurimi allargamenti. Gli sperimentalismi architettonici di questi tempi si basavano tutti sulla manipolazione delle due forme del cerchio e dell’ottagono; queste due sagome, in Santa Sofia, vengono

143

A. Venditti, “Architettura bizantina nell’Italia meridionale”, pag. 574

144

Ivi, pag. 576

145

Ibidem

94


CAPITOLO II superate fondendole in una ricerca libera e raffinata, che partiva sì dalla tradizione bizantina, ma che voleva anche superare gli esempi dei mausolei o dei martyria. Adiacente alla chiesa è, come già detto, il chiostro: esso presenta una variante della consueta pianta quadrata, poiché l’angolo a mezzogiorno ripiega verso il centro. La particolarità di questo luogo, di datazione controversa, ma attribuibile alla prima metà del XII secolo, è formale, cioè individuabile nell’articolazione delle quadrifore. Ogni quadrifora, è compresa da tre pilastri rettangolari che si alternano alle tre esili colonnine impostate sul parapetto. Questa sistemazione richiama sicuramente esempi pugliesi di età romanica, quali il frammento del chiostro di S. Benedetto di Bari ed il chiostro omonimo di Brindisi, ma non è da sottovalutare il forte accento islamico conferito all’insieme dagli architetti che, ancora, caso assai raro in Italia, diedero all’ambiente un andamento a ferro di cavallo. Qualificando così la cultura medioevale campana romanica o comunque proto-romanica, la forte caratterizzazione islamica si fonde con la tradizione bizantina, questo è evidente nei capitelli che concludono le colonnine prevalentemente di spoglio, su di essi si impostano degli aggettanti pulvini del tipo “a stampella”: “un’estrema varietà decorativa contraddistingue i capitelli non meno dei pulvini, dal momento che, se nei primi possono indicarsi esempi tardo-romani, paleo bizantini, altomedievali e romanici, i secondi, ampiamente studiati per il loro straordinario interesse figurativo, sono stati riferiti talora ad una scuola indigena – con strette analogie già individuate dal Bertaux, con quelli del distrutto chiostro di Montevergine e con l’unico capitello figurato della cripta del duomo di S. Agata dei Goti - ; ovvero, e forse con maggior validità critica, si è suggerito in base ad analogie formali con esempi pugliesi, un apporto lombardo postantelamico ed un’apertura verso più complesse correnti di cultura romaniche.”146

Del resto, così il Modestino: “dalla data poscia della

costruzione di questo chiostro, che fu l’undicesimo secolo, si conferma il parere di quegli scrittori che riferiscono a quest’epoca il gusto dell’imitazione

bizantina,

benché

assai

limitato

ne’

monumenti

architettonici dell’Italia. Il lavoro così minuto de’ capitelli di queste

146

A. Venditti, “Architettura bizantina nell’Italia meridionale”, pag. 584

95


CAPITOLO II colonne, il loro tritume, le loro foglie complicate, gli esseri fantastici che vi si veggono, attestano l’influenza degli usi di Oriente, quando, sotto il regno degli Imperatori iconoclasti, gli artefici non osavano di ritrarre figure umane negli edifizii religiosi, Questa architettura d'altronde ebbe corta durata, ove si eccettino le città sottoposte al dominio de’ Greci, poiché surse precisamente in quest’epoca lo stile Lombardo…”.147 Ritornando all’interno della chiesa di S. Sofia, non si può non far menzione degli affreschi presenti all’interno dell’edificio. In realtà, il capitolo avrebbe voluto trattare degli eventuali restauri avvenuti su queste pitture, ma degli stessi non vi è traccia, tuttavia, visto l’interesse di chi scrive per le testimonianze pittoriche figurative ad affresco e vista l’importanza di questi affreschi per la storia dell’arte medievale, se ne intende qui fare un seppur rapido accenno rimandando al fondamentale testo del Bologna, “Pittura delle origini” e allo studio del prof. Pace su “La pittura in Italia”. Il pittore che realizzò all’interno della chiesa il vasto ciclo figurato, inquadrando le scene entro scomparti di finti marmi colorati, fu un eccezionale maestro. I frammenti superstiti mostrano un’iconografia rara e uno stile che si collega palesemente ad opere di origine siro-palestinese. La storia di Zaccaria, nell’abside sinistra, colto nel momento dell’annunzio della prossima nascita del Battista e l’impetuosa Annunciazione a Maria nonché la commossa Visitazione nell’abside destra sono manifestazioni altissime, avendole giustamente datate il Bologna al 760, di una pittura “che ha impresso nuova vitalità all’ellenismo divenuto statico e atemporale e che, calandolo nel tempo come cosa viva, con una salda intonazione realistica gli ha conferito una forte carica espressiva”.148 Gli affreschi di Santa Sofia sono dunque una novità e non solo per Benevento. Ma essa, qui, fu resa possibile dal fervore culturale della corte e in particolare dal principe, dalla sua straordinaria apertura che lo portava a guardare con lo stesso interesse al presente e al passato. Ancora oggi non cessano di stupire: “per la monumentalità dell’impianto compositivo, per il pieno coinvolgimento degli “attori” e delle “attrezzature sceniche” nel difficile spazio ricurvo delle absidi, per 147

C. Modestino, “Torri e chiostri – Santa Sofia”, in Rivista storica del Sannio, anno I, luglio-agosto, Benevento, 1914, pag. 24

148

M. Rotili, “L’eredità dell’antico a Benevento dal VI all’VIII secolo”, in Napoli nobilissima, luglio-agosto 1975, vol. XIV, fasc. IV, pag. 127

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CAPITOLO II l’arditezza dei tagli fisionomici (come nell’angelo visto di tre quarti), per la pittura stessa nelle sue intrinseche qualità di disegno e stesura cromatica Alla loro data, agganciata alle sorti costruttive dell’edificio in cui essi si trovano, questi affreschi non cessano non hanno confronti, né a ovest (nel mondo precarolingio) né ad est (nel mondo bizantino, comprensivo del suo vasto ritaglio siro-palestinese)149.

149

Pace V., “La pittura medievale in Campania”, in AA. VV., “La pittura in Italia”, L’Altomedioevo, Electa, 1994, pag. 243

97


CAPITOLO II 2.2 Il restauro della pianta di S. Sofia: l’articolo di P. Cavuoto e R. Pane (1963-1964) Quello che si sta per descrivere è la vicenda del restauro architettonico della chiesa di S. Sofia. L’episodio rappresenta un caso assolutamente scottante nella storia del restauro, ma, c’è da ammettere che, chi scrive ha trovato particolarmente piacevole, e quasi divertente, leggere le carte che narrano le fasi della storia: un po’ per come tali testi riescono a narrare in maniera viva gli accaduti, quasi che ci si trovasse proprio in quegli anni (del resto i brani da analizzare sono tutti scritti in forma epistolare, registro linguistico alquanto diretto e colloquiale), un po’, appunto, per il modo quasi informale e spontaneo di lanciarsi critiche e sospetti, in maniera neanche troppo velata, fra i protagonisti di questo accaduto. Partirei dall’articolo pubblicato da Paolo Cavuoto su Napoli Nobilissima. L’autore inizia il suo scritto affermando che la pianta della chiesa di S. Sofia era giunta modificata e questo lo stesso si sentiva di affermarlo sulla scorta di testi quali i già citati De Nicastro e Meomartini, chiamando in soccorso un’incisione del XVII secolo e un disegno del Labruzzi che rappresenta l’esterno prima del 1702. Dopo averli chiamati in causa però, il Cavuoto asserisce che le ricostruzioni di questi studiosi di epoca moderna non sembrano valide e che per capire qual’era la pianta originale della chiesa si debba far riferimento solo ai sondaggi eseguiti nelle fondamenta del 1947 che sembrerebbero confermare le posizioni espresse anni prima dal Ferrante. Secondo Paolo Cavuoto la chiesa conservò il suo aspetto originario sino al 1688, anno dell’oramai famoso terremoto, al seguito del quale il cardinale Orsini operò un restauro. E’ qui che lo scrittore individua il momento di fondamentale modifica all’assetto originario della chiesa. Precisamente è a quest’epoca che si fa risalire la realizzazione della “pianta pseudo-circolare”150 con il quale arrivò sino all’epoca di Cavuoto. Lo stesso prosegue descrivendo cosa era stato ritrovato a seguito dei sondaggi del 1947 eseguiti a cura della Soprintendenza ai Monumenti in tutte le pilastrature della chiesa formanti il decagono e afferma nella riga dopo che “queste scoperte autorizzarono

150

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.53

98


CAPITOLO II naturalmente altre ricerche”, prosegue ancora qualche riga dopo raccontando che “così: si rimosse allora tutto il pavimento, ed il livello primitivo dell’edificio risultò di circa m 0,65 al di sotto di quello attuale. Internamente apparvero gli speroni di muro che sembrarono agli studiosi essere elementi del muro perimetrale e sulla facciata si presentò un arco frontalmente ricurvo. Essi mostrarono una perfetta continuità con gli spigoli che già si notavano all’esterno del tempio. Ne risultò quindi per la chiesa, tenendo conto della parte absidale una pianta mistilinea, per un terzo curva e due terzi stellare, che non trova precedenti in alcun monumento pervenutoci dall’alto medioevo. Si diede quindi inizio all’opera di restauro…”151 Quella che era stato ritrovato nei sondaggi del 1947 erano: “…le due absidi minori, in fondo alla chiesa. Esplorazioni effettuate nella zona del presbiterio hanno rivelato la presenza delle fondazioni dell’abside maggiore che, con le due minori, formava la cella tricora. Nella facciata della chiesa sono emersi, da strutture che vi si erano sovrapposte, due archi in mattoni e tufo a doppio centro. Non ha invece presentato problemi la decorazione della lunetta sul portale; o almeno non tali che potessero contribuire, se risolti, ad illuminare la vicenda architettonica della chiesa. A destra e a sinistra del portale si sono rese visibili altre due arcate, che con molta probabilità dovevano continuare sino a costituire il nartece…”152 Ci sono delle frasi del Cavuoto che lasciano per lo meno perplessi: “(l’opera di restauro) non può essere comprovata d’altro canto da un’adeguata documentazione filologica, essendo i pareri degli antichi cronisti e scrittori sul monumento abbastanza discordi. La scoperta che diede più da pensare fu quella della forma mistilinea della chiesa, che tuttavia è stata restaurata secondo una pianta cosiddetta stellare, ritenuta originaria. Nell’interno è stato rimosso tutto il pavimento, mentre sono state rispettate le cappelline quadrate, trasformate però in trapezoidali, ai lati dell’ingresso, costruite nel ‘700, benché non presentino alcuna logica connessione con l’antica costruzione. E’ stato eliminato il vano adibito a presbiterio con la riapertura delle absidi laterali, murate nel ‘600, mentre, rifatta l’abside centrale sulle fondamenta di quella originaria, si è ricostruita

151

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.54

152

Ibidem

99


CAPITOLO II l’antica cella tricora. La cupola ha conservato la forma assunta dopo il terremoto del 1688, benché non mostri di accordarsi con sufficiente organicità al resto della costruzione ed allo spazio della chiesa”.153 L’autore conclude la descrizione del restauro effettivamente ammettendo che il restauro ha sollevato notevoli problemi. Per quanto l’articolo non sembri scritto con metodicità scientifica e per quanto le argomentazioni risultino spesso poco convincenti, la confusione che si avverte leggendo lo scritto da Cavuoto deriva probabilmente dalla difficoltà, per lo stesso, di individuare le adeguate motivazioni che portarono a quell’intervento di restauro. Con un altrettanto improvviso salto mentale e testuale, rispetto a quelli compiuti già, a questo punto Paolo Cavuoto afferma che se prima la pianta della chiesa faceva pensare a un’influenza bizantina sulle maestranze dell’edificio, bisogna a questo punto, con la nuova pianta, ritrovare validi agganci culturali per risalire all’origine di questa spettacolosa e mai vista pianta mistilinea, di cui lo stesso non si capacitava. E viene alla mente un detto latino che recita “accusatio non petita, recusatio manifesta”. Chiamando in causa il Chierici, sicuramente sull’architettura pare abbiano operato influenze paleocristiane, intrise di spirito classico, e chiaramente richiami longobardi,

ma,

fosse

solo

per

l’omonimia

con

la

basilica

costantinopolitana, per il Cavuoto non si può prescindere da una ricerca in area orientale del prototipo della pianta mistilinea beneventana. A questo punto inizia una lunghissima e pedissequa trattazione sulle basiliche orientali che avrebbero potuto ispirare il capomastro di Santa Sofia. Il discorso sull’avvenuto, ma arbitrario restauro viene considerato esaurito e concluso. Innanzitutto per il Cavuoto i monumenti più rilevanti sono quelli di Costantinopoli, dalla quale si esercitò un’influenza che arrivò sino a Salonicco, Parenzo, Ravenna, sulle coste dell’Africa, a Susa, in Egitto, ad Alessandria. Prende in analisi come primo gruppo quello degli edifici siriani che si sono in parte conservati, al contrario di quelli della Mesopotamia, regione del mattone cotto, e quelli della pianura dell’Iran nella quale si era soliti costruire in legno. I monumenti siriani citati sono quelli che si estendono fra i massicci del Dyebel-Barisha e il Dyebel-Riba, del Dyebel-

153

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.54

100


CAPITOLO II el-Ala con alcuni altri massicci situati nel deserto in direzione dell’Eufrate. Sono ricordati il Kasr-Ibu-Wardan,154 gli edifici a Bosra155 e Esra, infine quello che si trova a Rusofa. In Mesopotamia non si trovano basiliche, ma chiese ad una sola navata, ad esempio quelle di Midyat,156 Mar Ibrahim Ubil, Arnes Markyarikos, Khark,157 Masovo ecc. Sempre in Siria sono degne di attenzione Wironscheir in Mesopotamia, il convento di San Simeone Stilita tra Antiochia e Alep.158 Una serie di monumenti conservati ricordano poi il Martyrion di Gregorio di Nisso, come l’edificio ottagonale di Bin-Bir Kilissè, quello di Ieroma, quello di Hierapolis,159 in cui gli otto pilastri costituenti l’ottagono sono circondati da un ambulacro circolare. Allo stesso gruppo si ricollegano i due edifici ottagonali di Dere-Ahsey in 154

Qasr ibn Wardan (arabo: ‫ ) أ وردان‬è un insediamento che si trova nel deserto della Siria a circa 60 km da Hama. Questo risale alla metà del VI secolo d.c. e fu fatto erigere dall'imperatore di Bisanzio Giustiniano I per finalità difensive contro i Sassanidi. Il complesso, forse sede di un importante capo militare, consisteva in una caserma, un Palazzo e una Chiesa. La chiesa è a pianta rettangolare con torre scalare sporgente; il nucleo interno è maggiormente sviluppato in altezza e i capitelli delle colonne sono imitazioni siriane dei modelli bizantini. Il palazzo è invece a due piani e l'elemento principale è la sala a quadrifoglio, con braccia laterali allungate. 155

Bosra (nomi alternativi: Bostra, Busrana, Bozrah, Bozra, Busra Eski Sham, Busra al-Shām, Nova Trojana Bostra) è un'antica città nel sud della Siria, per un certo periodo capitale del regno nabateo e capitale della Provincia Arabica sotto i romani, l'Arabia Petraea. Bosra (in aramaico cittadella) o Busr-as-Sam (la cittadella di Sam) è una cittadina dal prestigioso passato, caratteristica per le sue costruzioni in pietra nera di basalto. Situata a circa 140 km a sud di Damasco, nei pressi della frontiera giordana, fu nel passato un importante punto strategico all'incrocio delle vie carovaniere tra Mar Mediterraneo e Golfo persico e tra l'Anatolia ed il Mar Rosso. Attualmente è un importante sito archeologico con un ben conservato teatro romano e, dal 1980, fa parte dei patrimoni mondiali dell'umanità della nazione mediorientale. 156

Midyat (Siriaco: Mëḏyaḏ) è una città, di origine siriaca, nella Provincia di Mardin in Turchia. La città è il centro, da secoli, di un'enclave cristiano-siriaca nel sud-est della Turchia, generalmente nota col nome di Tur Abdin. Un nome simile a Midyat, compare per la prima volta, su un'iscrizione del sovrano neo-assiro, Assurnasirpal II (883-859 a.C) questo testo descrive come le forze assire conquistarono la città ed i villaggi circostanti. Nella sua lunga storia, la città di Midyat è rimasta politicamente assoggettata a vari conquistatori, dall'impero assiro fino all'attuale Turchia. 157

L'isola di Khārk o Khārg (farsi ‫ راخ ر زج‬Jazīreh-ye Khark) è una circoscrizione della provincia di Bushehr, nella regione di Bushehr. L'isola si trova a 25 km dalla costa iraniana e 483 km a nord-ovest dello stretto di Hormuz. Il suo porto è un importante centro di esportazione di greggio. Il termine khark in persiano significa "dattero ancora acerbo". 158

Qalḏat Simḏān (arabo: ‫ ناعمس ةعلق‬, "la Rocca di Simeone") è il primo convento cristiano, con annesso chiostro, costruito nel nord della Siria di oggi, circa 30 chilometri a nord-ovest della città di Aleppo. È sorto nel luogo in cui Simeone Stilita il Vecchio, il primo asceta cristiano, visse e morì nel 459. È la più eloquente testimonianza del prestigio monastico bizantino, caratterizzato da un enorme complesso, costruito, tra il 476 ed il 491, per iniziativa dell'imperatore Zenone, quale centro di pellegrinaggio, con l'intento di smorzare il conflitto che opponeva, in quegli anni la chiesa di Costantinopoli all'eresia monofisita locale, che esprimeva il malessere dei cristiani di Siria contro il potere centrale. 159

Hierapolis (anche Ierapoli o Gerapoli) è una città ellenistico-romana della Frigia. Dominava la valle del fiume Lykos sulla strada che collegava l'Anatolia al mar Mediterraneo. Le rovine si trovano nella odierna località di Pamukkale ("castello di cotone"), situata nella provincia di Denizli, in Turchia, e famosa per le sue sorgenti calde, che formano concrezioni calcaree. Hierapolis di Frigia non è da confondersi con Hierapolis in Siria o con Hierapolis Castabala, in Cilicia. Nel sito archeologico opera dal 1957 la missione archeologica italiana di Hierapolis di Frigia, fondata da Paolo Verzone del Politecnico di Torino. Attualmente il direttore della missione è Francesco D'Andria dell'Università del Salento. Hierapolis di Frigia è uno dei siti archeologici e naturalistici più frequentati del Mediterraneo. Le maggiori attrazioni turistiche sono rappresentate dalle concrezioni calcaree, dalle calde acque termali che sgorgano in mezzo alle rovine, e il patrimonio architettonico della città antica: un teatro romano molto ben conservato, una vasta necropoli e il martyrion dell'apostolo Filippo, il cui complesso occupa per intero la collina che sovrasta la città.

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CAPITOLO II Licia. Degne di menzione sono, a questo punto, per il Cavuoto, le chiese rupestri della Cappadocia, da mettere in rapporto alla chiesa di Santa Maria di Castelseprio. Si passa poi all’Armenia, importanti sono le chiese di Etschiadzin,160 notevole la chiesa di San Gregorio, interessante la chiesa del Pastore ad Ani.161 Cita anche le chiese di Bagaran162 e Mastara,163 ma quella davvero fondamentale da conoscere è la chiesa di Inrid, messa in parallelo con quella di Gumbad-i-Qabus. Dopo questo tripudio di nomi e questo caleidoscopio di annotazioni architettoniche e riferimenti geografici il Cavuoto così parla: “Non pare facile intanto rilevare delle analogie tra S. Sofia e le composizioni stellari armene. L’esame compiuto in generale sull’arte cristiana nell’oriente paleocristiano e medioevale non consente, in verità di pensare ad affinità icnografiche tra gli edifici di quella regione e la chiesa di cui ci occupiamo.”164Si vuole sottolineare che il Cavuoto si trovò quasi costretto a scrivere, visto che prima e durante il restauro nessuna descrizione dell’intervento, delle operazioni e del restauro era mai stata pubblicata. Questa, che appare evidente come sia degenerata in un’analisi sulle architetture cristiane in luoghi distanti chilometri da Benevento, doveva essere la prima relazione ufficiale sul restauro operato, che avrebbe dovuto sopire i dubbi del mondo della critica d’arte e della storia del 160

Vagharshapat (in armeno: Վաղարշապատ) o Echmiadzin (in armeno: Էջմիածին) è una città di circa 56.900 abitanti (2007) della provincia di Armavir in Armenia. Echmiadzin è la città più sacra dell'Armenia, sede del catholikos, il capo della Chiesa apostolica armena e si trova a circa 20 chilometri a ovest della capitale Yerevan. La città venne fondata col nome di Vardkesavan nel IV o III secolo a.C. Il re Vagharsh (117-140) ne cambiò il nome in Vagharshapat (in armeno: Վաղարշապատ), che tuttora è il nome ufficiale della città. Alcuni decenni dopo la città divenne la capitale dell'Armenia e rimase la città più importante del paese fino al IV secolo. Il monumento più importante di Echmiadzin è la sua cattedrale, costruita originariamente da San Gregorio Illuminatore come una basilica a volta nel 301-303, quando l'Armenia era l'unica nazione del mondo a riconoscere il Cristianesimo come religione di stato. Secondo gli annali armeni del V secolo, San Gregorio ebbe una visione di Cristo che scendeva dal cielo e colpiva il suolo con un martello d'oro per mostrare il luogo dove sarebbe dovuta essere costruita la Cattedrale. Quindi il patriarca diede alla chiesa e alla città il nome di Echmiadzin, che significa "il luogo dove discese l'Unico Figlio" 161

Ani (in armeno: Անի, in latino: Abnicum) è una città medievale in rovina situata nella provincia turca di Kars, vicino al confine con l'Armenia. Nel medioevo fu la capitale del regno armeno, che comprendeva la maggior parte dell'attuale Armenia e della Turchia orientale. La città è collocata tra le gole del fiume Akhurian ad est e la Tzaghkotzadzor valley ad ovest. Il fiume Akhurian è un affluente del fiume Aras e forma parte del confine tra la Turchia e l'Armenia. Chiamata la "Città delle 1001 chiese", la città era al crocevia di diverse strade commerciali e i suoi edifici religiosi, palazzi e fortificazioni erano tra i più avanzati, sia a livello tecnico che artistico, del mondo. Nel suo periodo di massimo sviluppo, all'interno delle mura di Ani vivevano tra i 100.000 ed i 200.000 abitanti e la città, nota in tutta la regione per lo splendore e la ricchezza, fu rivale di Costantinopoli, Il Cairo e Baghdad; successivamente fu, però, abbandonata e dimenticata per secoli. 162

Bagaran (in armeno Բագարան, in passato Haji-Bayramli) è un comune dell'Armenia di 555 abitanti (2008) della provincia di Armavir. Situata a 5 kilometri ad ovest del fiume Akhurian, è un'antica capitale dell'Armenia, fondata alla fine del III secolo dal re armeno Oronte II 163

Mastara (in armeno Մաստարա) è un comune dell'Armenia di 2571 abitanti (2001) della provincia di Aragatsotn. Nel paese si trova una chiesa del V secolo, la Chiesa di San Giovanni. 164

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.58

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CAPITOLO II restauro, scritta comunque non da qualcuno che aveva nei fatti realizzato quell’intervento. Comunque il Cavuoto, quasi per dovere di completezza, continua analizzando la Gallia, la Bretagna e la Germania, ovvero quella che lui chiama orbita carolingia e ottoniana. Vengono elencati come complessi organismi architettonici dell’età merovingia e carolingia S. Martino di Tours,165 la chiesa di S. Germain a Auxerre,166 l’abbazia di Lorsch167 e S. Salvatore a Paderbon.168 Anche in questo caso l’autore così chiosa: “neanche in questa orbita può trovarsi alcuna struttura che ricordi S. Sofia”.169 Tuttavia la trattazione prosegue con S. Germigny des Pres, S. Gallo,170 la basilica di Parenzo,171 S. Donato a Zara172 e la cappella palatina 165

Il vescovo san Brizio (in latino Brictius) aveva fatto erigere nel 437 una chiesa in legno per ospitare la tomba ed il piviale di san Martino di Tours. Constatata la grande popolarità e frequentazione di questo santuario, Perpetuo fece costruire al posto del medesimo una prima basilica nel 471. San Gregorio di Tours ne dà la seguente descrizione : « Il vescovo Perpetuo […] fece costruire la grande basilica che esiste ancora a tutt'oggi e che si trova a cinquanta passi dalla città. Essa è lunga centosessanta piedi e larga sessanta. La sua altezza fino alla volta è di quarantacinque piedi. Ha trentadue finestre dalla parte dell'altare e venti nella navata che è ornata da quarantadue colonne. In tutto l'edificio vi sono cinquantadue finestre, centoventi colonne, otto porte, tre presso l'altare e cinque nella navata […] Siccome il rivestimento in legno della precedente cappella era di elegante fattura, il pontefice non credette opportuno distruggerlo e fece costruire, in onore dei santi Pietro e Paolo, un'altra basilica ove fece piazzare questo rivestimento. »

166

La Chiesa di Saint-Germain d'Auxerre si trova nella parte nord della città di Auxerre, in Francia, e fa parte di un'antica abbazia. Venne fondata nel V secolo dal vescovo san Germano d'Auxerre, che donò alcuni terreni di proprietà della sua famiglia ed altri benefici. Il primo edificio costruito fu una cappella piuttosto semplice, che conteneva alcune preziose reliquie di San Maurizio martire e della Legione Tebea. Germano stesso vi venne sepolto il 1º ottobre 448. Verso l'inizio del VI secolo al posto della cappella venne costruita un basilica su iniziativa della Regina Clotilde, moglie di Clodoveo I, poi nel periodo carolingio venne inglobata in un'abbazia. In seguito alla prodigiosa guarigione del conte Corraddo della famiglia burgunda dei Welfen (quelli che diedero poi il nome al partito guelfo), nell'840 fu disposto di edificare una nuova basilica, come ex voto. I lavori iniziarono nell'841 e terminarono verso l'865. Resta di quel periodo la cripta a più livelli, per seguire la conformazione del terreno, terminata nell'857con la traslazione delle spoglie di San Germano. 167

L'Abbazia imperiale di Lorsch (in tedesco: Reichsabtei Lorsch, in latino: Laureshamense Monasterium, chiamata anche Laurissa o Lauresham) fu una delle più famose abbazie dell'Impero carolingio; essa si trova nella cittadina di Lorsch, in Assia, circa 10 chilometri a est di Worms. Pur essendo caduta in rovina, i suoi resti sono comunque considerati l'edificio pre-romanico più importante di tutta la Germania. Nel 1170 venne compilato qui un manoscritto (conservato oggi negli archivi di stato di Würzburg) che è di fondamentale importanza come fonte di notizie sulla Germania medievale. Un altro importante documento proveniente dall'abbazia è il Codex Aureus, risalente all'VIII secolo. Nel 1991 le rovine dell'abbazia di Lorsch furono inserite nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO. L'abbazia venne fondata nel 764 dal conte dei Franchi Cancor e dalla madre Williswinda come chiesa proprietaria (in tedesco Eigenkirche), cioè costruita su di un terreno privato e su cui il signore feudale riteneva il diritto di nominare il personale ecclesiastico. Essi chiamarono quindi Chrodegang, arcivescovo di Metz, che consacrò la chiesa ed il monastero a San Pietro e ne divenne il primo abate. Nel 766 però egli rinunciò al titolo per dedicarsi al compito di Arcivescovo di Metz e mandò il fratello Gundeland come suo successore, insieme a 14 monaci benedettini. Per aumentare l'importanza dell'abbazia come luogo di pellegrinaggio, Chrodegang ottenne da Papa Paolo I il corpo di San Nazario, martirizzato a Roma insieme a 3 compagni durante il regno di Diocleziano. Le sacre reliquie arrivarono il giorno 11 luglio 765 e vennero deposte con tutti gli onori nella basilica che si trova all'interno del monastero. Gli edifici vennero quindi rinominati in onore di San Nazario. 168

È una storica città della Vestfalia, posta in un avvallamento fra la foresta di Teutoburgo e l'Eggegebirge sulle sorgenti del fiume Pader. Fu scelta da Carlo Magno per le due prime Diete nel 777, e nel 799 s'incontrò col papa Leone III col quale siglò l'alleanza fra la Chiesa e l'Impero. Nell'805 la rese sede vescovile, com'è tuttora. 169

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.59

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L'Abbazia di San Gallo (in tedesco Fürstabtei Sankt Gallen) fu per molti secoli una delle principali abbazie benedettine d'Europa. È situata nella città di San Gallo nell'odierna Svizzera. Il monastero venne fondato nel 612 come eremo e prese il nome da san Gallo, un monaco irlandese. San Gallo fu discepolo e compagno di san Colombano futuro abate di Bobbio, e morì nel 645. Quindi fu di regola celtico-irlandese scritta dal suo maestro Colombano a Luxeuil. Il monastero, dopo la morte di san Gallo, andò in rovina ma il

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CAPITOLO II di Aix.173 Ma manca ancora l’Inghilterra. Trovano spazio Brixwort174 e Reculver, S. Martino di Canterbury e il portico della chiesa di Monkwearmouth. Di nuovo il Cavuoto conclude questi paragrafi: “le piante delle chiese, alla quali si è accennato non presentano alcuna analogia con qualsivoglia impianto mistilineo di edificio religioso”,175 calcolando che in genere sono ad una sola navata e il transetto si trova solo a Wort,176 nella chiesa di S. Maria del castello di Douvre, a Repton, a Stow e a Norton. L’abside addirittura rimpiazzata da un vano rettangolare, vedi Escomb ed

conte di Waltram di Turgovia nel 719 incaricò il monaco benedettino Otmaro di ripristinarne la funzionalità. Otmaro lo ricostruì radicalmente ex novo come abbazia, provvedendo a che i monaci colombaniani potessero viverci in comunità ed adottò per loro una regola che nel 747 venne trasformata in regola benedettina abbandonando quella adottata da San Colombano il che lasciò poi degli strascichi che sfociarono in una congiura contro l'abate Otmaro che nel 759 accusato di adulterio fu esiliato e condannato a morire di fame. Nel 719 Otmaro fu il primo abate dell'Abbazia. In essa furono poste in custodia le reliquie di San Gallo. Durante il regno di Pipino il Breve venne fondata la famosa scuola di San Gallo, in cui le arti, le lettere e le scienze fiorirono. Successivamente, sotto l'abate Waldo di Reichenau (782-784) vennero copiati molti manoscritti, formandosi così una nutrita biblioteca. Numerosi monaci anglosassoni e irlandesi si riunirono per dedicarsi alla copia dei libri. Su richiesta di Carlo Magno, il Papa Adriano I inviò molti salmodianti da Roma, i quali propagandarono l'uso dei canti gregoriani. Nel secolo seguente l'abbazia di San Gallo entrò in conflitto con quella vicina di Reichenau sull'omonima isola, nel lago di Costanza. Tra il 924 e il 933 i magiari minacciarono l'abbazia ed i libri furono spostati a Reichenau per sicurezza. La maggior parte di essi, con il tempo, fece ritorno all'abbazia di San Gallo. Nel 1032 san Poppone, divenutone abate, v'introdusse la riforma cluniacense. Nel tredicesimo secolo l'abbazia e la città divennero un principato indipendente su cui gli abati regnarono vantando il titolo di principe del Sacro Romano Impero. Sotto la guida dell'abate Pio (1630 – 1674) venne iniziata la stampa dei libri. Nel 1712 l'abbazia subì grandi cambiamenti a seguito del saccheggio della Svizzera. Buona parte di libri e manoscritti vennero portati a Zurigo e Berna. Dopo il ripristino dell'ordine, San Gallo divenne la residenza del vescovo ed ospitò gli uffici amministrativi del cantone, oltre ai resti dell'antica biblioteca. Ai giorni nostri rimane poco dell'originale monastero medievale. La maggior parte delle strutture, compresa la cattedrale, vennero progettate in stile tardo barocco e costruite tra il 1755 ed il 1768. La biblioteca di San Gallo è considerata una delle più ricche di tutto il Medioevo. Ospita una delle più impressionanti collezioni di libri in lingua tedesca del primo Medioevo. Nel 2005 conteneva più di 160.000 libri, di cui 2.200 scritti a mano e 500 risalenti a prima dell'anno1000. In seguito la Stiftsbibliothek diede inizio ad un progetto per la digitalizzazione degli inestimabili manoscritti. La libreria contiene il Codex Abrogans uno dei più antichi testi in lingua tedesca esistente risalente al ottavo secolo e generalmente attribuito a Arbeo von Freising, vescovo e letterato austriaco dell'epoca. È presente inoltre un cartiglio senza eguali del nono secolo, noto con il nome di Pianta di San Gallo, che racchiude gli unici documenti d'architettura risalenti al periodo di 700 anni intercorrente tra la caduta dell'Impero ed il tredicesimo secolo. I piani non vennero mai eseguiti, ed il loro nome è dovuto al fatto di essere stati conservati all'interno dell'abbazia, dove possono tuttora essere trovati. I piani rappresentavano la costruzione di un monastero ideale, concepito da uno dei concili tenuti ad Aquisgrana per la riforma del monachesimo nell'Impero franco, durante i primi anni dell'imperatore Ludovico I (tra l'814 e l'817). Nel 1983 il convento di San Gallo venne inserito dall'UNESCO tra i Patrimoni dell'umanità come «perfetto esempio di grande monastero Carolingio». 171

La Basilica Eufrasiana (croato: Eufrazijeva bazilika) è una basilica paleocristiana nella città di Parenzo in Istria (in croato Poreč). Il complesso episcopale, inclusa parte della basilica stessa, una sacrestia, un battistero e la torre campanaria del vicino palazzo vescovile, è uno dei migliori esempi di arte bizantina della regione. A causa del suo eccezionale valore è stata inserita tra i patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel 1997. Ha dignità di Basilica minore. 172

La chiesa di San Donato (Sveti Donat) è uno dei più illustri monumenti bizantini della Dalmazia. Costruita all'inizio del secolo IX direttamente sul selciato del foro romano, è un solenne edificio a pianta circolare con tre caratteristiche absidi radiate che fu probabilmente modellato sulla Basilica di San Vitale di Ravenna. Le prime menzioni della chiesa risalgono al 949 circa, mentre verso il secolo XII cominciò ad essere chiamata col nome del suo fondatore, il vescovo Donato. 173

La Cappella Palatina (Pfalzkapelle) è il nucleo più antico della Cattedrale di Aquisgrana e fu fatta costruire da Carlo Magno tra il 786 e l'804 come cappella privata del suo palazzo annesso. Nonostante le aggiunte, le modifiche e i restauri nei secoli successivi la sua struttura e soprattutto il suo corredo di opere di oreficeria sono ancora eccezionalmente conservati. 174

Brixworth è un villaggio di 5.162 abitanti[1] dell'Inghilterra. Il villaggio si trova a circa 8 km a nord di Northampton

175

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.59

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Wört è un comune tedesco di 1.438 abitanti, situato nel land del Baden-Württemberg.

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CAPITOLO II Arlington, Peterborough.177 Immancabile la conclusione: “Dall’esame compiuto sulle forme fondamentali dell’architettura medioevale in Oriente ed in Occidente non sembra probabile, come si vede, trarre rapporti tra i tipi di edifici sorti nelle regioni a cui si è accennato e la pianta del tempio beneventano”.178 Il Cavuoto allora chiede aiuto all’Italia, ma arrivano in suo soccorso, e anche relativamente, solo le piante del ninfeo degli Orti liciniani,179 il mausoleo di S. Costanza180 e S. Maria in pertica.181 Analizza dunque la categoria dei battisteri, nominando quelli di Parenzo, Aquileia, Grado, Roma, Lomello, Torcello e Varese. Per giustificare, o comunque spiegare, la differenza che a volte si incontra nell’analizzare le architetture altomedievali, Cavuoto trova opportuno fare l’esempio di Castelseprio: “…dell’VIII secolo, studiata dal Bognetti, dal Chierici e dal De Capitani D’Arzago. Non pochi studiosi sono rimasti perplessi davanti alle caratteristiche di questa chiesa così discordante dai comuni edifici lombardi. Si è creduto di potervi scorgere l’influenza di monaci orientali sfuggiti alla persecuzione iconoclasta, i quali avrebbero fatto realizzare un loro progetto da rozze maestranze locali. In effetti, però, se si guarda bene, Castelseprio ricorda molto da vicino le chiesette asturiane, per il sistema di contraffortatura e per il caratteristico uso di archi rialzati.”182 Alchè ci si 177

Peterborough è una città del Regno Unito di circa 160.000 abitanti. Insieme ad alcuni sobborghi, costituisce un'autorità unitaria (omonima) a sé stante, compresa nella contea del Cambridgeshire. È una delle città britanniche con lo status di "City". 178

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.59

179

Gli Horti Liciniani erano dei giardini situati a Roma sul colle Esquilino, tra la via Labicana e la via Prenestina, a ridosso delle Mura aureliane. Confinavano a nord con gli Horti Tauriani e ad ovest con gli Horti Pallantiani e gli Epaphroditiani. Essi presero il nome dalla gens Licinia che li possedeva. Nel III secolo furono di proprietà dell'imperatore Licinio Gallieno (253-268), che li mise in comunicazione con i vicini Horti Tauriani e vi realizzò una lussuosa residenza imperiale extraurbana, ricordata come Palatium Licinianum in documenti del IV e V secolo, da localizzarsi presso la chiesa di Santa Bibiana. Doveva trattarsi di un complesso di edifici che permetteva all'imperatore di ospitare l'intera corte e che comprendeva sale per banchetti e piscine. Nella zona sommitale degli horti Gallieno progettò di erigere una statua colossale raffigurante se stesso nelle vesti del Dio Sole invitto, ma l'opera non fu mai portata a termine 180

Il mausoleo fu fatto erigere dalla figlia dell'imperatore Costantino (che in realtà si chiamava Costantina; il nome Costanza e l'appellativo di santa provengono da confusioni successive) a metà del IV secolo. La santificazione del nome, come in altri casi di edifici di origine e concezione romana acquisiti dai cristiani nei primi secoli, ebbe come risultato la conservazione della struttura. La costruzione era posta a fianco della basilica, con la cui navata sinistra era collegata, e l'opinione prevalente è che vi sia stata deposta anche Elena, l'altra figlia di Costantino. 181

La chiesa di Santa Maria in Pertica (Sancta Maria ad Perticas) era una chiesa di Pavia, fondata dai Longobardi nel VII secolo e ora distrutta. È nota solo attraverso scavi, ricostruzioni e da alcuni disegni; tra questi, uno schizzo della pianta di Leonardo da Vinci e una dettagliata incisione settecentesca. Fondata nel 677, quando Pavia era la capitale del Regno longobardo, dalla regina Rodelinda, era una delle architetture più interessanti della città. Presso la chiesa avvennero anche incoronazioni regie, come quella di Ildebrando nel 735. La chiesa sorgeva nel luogo di un antico sepolcreto longobardo caratterizzato dalla presenza di perticae, aste sormontate da immagini di uccelli di origine pagana, esempio quindi di sincretismo o sintesi religiosa attraverso il riutilizzo in chiave cristiana di un luogo sacro pagano. 182

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.60

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CAPITOLO II prodiga in confronti fra Castelseprio e il San Satiro a Milano e fra l’oratorio di Germigny-des-Pres e alcuni edifici mozarabici, come la chiesetta di Cristo de la Luz a Toledo. Detto tutto ciò, il Cavuoto, cerca prima supporto nel Lavagnino, notare che dopo tutta questa trattazione su basiliche e chiese lontanissime anche e soprattutto dalla temperie culturale beneventana, ci si rivolge al contributo di un critico d’arte nostrano, che ritiene di dover mettere in rapporto la S. Sofia con le chiese di S. Giovanni Maggiore e di San Giorgio Maggiore entrambe a Napoli, con la basilichetta cimiteriale di Prata, la chiesa di S. Maria delle cinque torri a Cassino e il battistero di San Severino in Calabria. Queste le sue parole riportate dal Cavuoto: “La chiesa di S. Sofia di Benevento è da collegarsi con tante costruzioni orientali. Ma è anche necessario riconoscere in essa il frutto di una vivacissima facoltà inventiva eminentemente architettonica. Come il mausoleo di Teodorico a Ravenna rispecchia, quasi simboleggia, la rude, ma fiera nobilissima arte del grande re goto, questa chiesa di S. Sofia può essere considerata quasi l’esponente di quella civiltà, di quel particolare modo di vita di quelle tendenze che furono proprie delle arti longobarde”.183 Ovviamente, anche a conclusione dell’articolo, Paolo Cavuoto non si esime dal ribadire quanto annotato per tutto il testo: “Non pare, in conclusione, che si debba scorgere nelle caratteristiche tecniche e stilistiche di S. Sofia una coerenza ed un’organicità che le conferiscano una notevole validità artistica. D’altro canto, non sembra neppure che il corpo della chiesa si accordi con armonica uniformità agli ambienti e agli elementi struttivi della facciata e della parte anteriore dell’opera. Si può dire, in sostanza, che la chiesa di S. Sofia riproducesse un organismo architettonico di tipo bizantino a pianta centrale o poligonale, nel quale, però, non si riesce a cogliere la realizzazione organica e coerente di una idea spaziale poiché, anche se è essa è stata presente, appare piuttosto rozzamente interpretata dai costruttori”.184 Il perché di quel restauro non fu mai dato saperlo. All’articolo di Cavuoto seguì, nella pubblicazione della rivista, un breve allegato di Roberto Pane, direttore della rivista. Elogiando come scrupolosa la ricerca di Cavuoto,

183

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.63

184

Ibidem

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CAPITOLO II Pane intende fermare la concentrazione dei lettori su due problemi per lui urgenti: da una parte quella che è l’interpretazione storica di un monumento, dall’altra uno più pertinente il restauro. “D’altra parte, e malgrado la legittima attesa, nessuna descrizione dell’opera compiuta, né alcuna dimostrazione critica sono mai venute fuori; perciò si ha ragione di affermare che uno dei più importanti monumenti della Campania è stato restaurato in maniera del tutto arbitraria; a meno che non si pensi che tale maniera sia da considerarsi valida per il solo fatto che, a seguirla, sono stati gli insindacabili organi ai quali lo Stato italiano assegna il compito di tutelare il patrimonio storico-artistico”.185 Qualora pure i due speroni avessero composto con il resto della struttura un organismo coerente, le moderne norme del restauro, ed in particolare la famigerata Carta del Restauro, non autorizzavano una simile manipolazione, essendo state le due coppie già demolite. Anche se sicuramente i due elementi rappresentavano un elemento di curiosità, è palese come distruggano ogni unità spaziale e volumetrica, sia interna che esterna: essi non hanno nessun legame con le colonne e i pilastri e spezzano violentemente la continuità dell’anello perimetrale. “In altri termini, ed a parte ogni ricerca storica, noi qui ci sentiamo in presenza di uno spazio che non è architettura, ma accozzaglia informe; non continuità organica ma approssimazione priva di ogni organismo. Analogie tra l’attuale S. Sofia ed altri “prototipi” non sono state rinvenute non perché questa beneventana sia una concezione geniale e singolarissima, ma solo perché essa è un grossolano rifacimento che venne successivamente e giustamente soppresso ”. […]186 “Le strutture stellari armene sono il risultato di una chiara e rigorosa concezione geometrica, e non hanno niente a che fare con l’attuale S. Sofia. L’autore dei risalti angolari è, con ogni evidenza, non un architetto che abbia esperienze formali, siano esse di lingua latina, greca o…longobarda, ma un povero maestro di muro che, in seguito ad un terremoto, ha pensato di consolidare la chiesa con un barbaro sistema di angoli sporgenti e rientranti che egli riteneva, e con qualche ragione, capaci di opporre resistenza alle scosse

185

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.64

186

Ibidem

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CAPITOLO II sismiche.”187 Quindi rispetto al buon Cavuoto, che aveva per lo meno tentato una ricostruzione storica per giustificare l’infausto restauro, Roberto Pane non usa mezzi termini e stigmatizza così, a conclusione del suo commento, l’operazione: “Erano tempi oscuri, forse; ma in verità, neppure questi, in cui si ricostruiscono arbitrariamente delle strutture scomparse, mi sembrano tempi molto luminosi”.188

187

P. Cavuoto, “La chiesa di S. Sofia di Benevento”. In Napoli nobilissima, 3, 1963/4, pag.64

188

Ibidem

108


CAPITOLO II 2.3 Il restauro della pianta di S. Sofia: la risposta di A. Rusconi e gli studi della dott.ssa M. Costagliola (2002) Ma chi era lo scellerato professionista che aveva condotto i tanto criticati lavori a S. Sofia? Quest’uomo rispondeva al nome dell’ingegner Antonino Rusconi, che ovviamente non mancò di leggere l’articolo firmato CavuotoPane189, pare su segnalazione di amici napoletani. La risposta del dott. Rusconi fu a dir poco piccata e si prodigò di rispondere punto per punto alle accuse che gli venivano mosse, in un articolo che uscì sempre su Napoli Nobilissima, di ben tre pagine. Ovviamene malgrado non fosse stato fatto il suo nome, l’ing. Rusconi si era sentito preso in causa ogni qual volta veniva nominato quel “qualcuno” che aveva operato scelte tante nefaste, agli occhi della coppia Cavuoto-Pane; di quest’ultimo Rusconi ci tiene a precisare che non sa chi sia e dubita che abbia i titoli per poter parlare di problemi così difficili e complessi, ma gli riconosce un tono più garbato e cortese nei suoi confronti. Ovviamente però riconosce nello scritto di Cavuoto quello che anche chi scrive aveva notato e di cui si era fatto cenno nel paragrafo precedente e cioè che lo scritto più che puntare a un fine scientifico preciso, sembra voler solo dare prova e sfoggio di cultura ed erudizione, l’autore risulta manchevole nel non aver consultato, a detta di Rusconi, pubblicazioni più recenti e aggiornate, non vagliando o confermando i dati di cui era in possesso; lo scritto risulta, quindi, essere utile solo “per arricchire l’indice degli articoli di una rivista carente di materiale”.190 Al contrario di quanto successo per le parole di Cavuoto, invece Rusconi rimane particolarmente colpito dal tono di Pane, ovviamente in senso negativo, trovando le sue parole pervase da una “inusitata asprezza”.191 Con la stessa profonda veemenza, allora, il Rusconi inizia a rispondere dapprima criticando l’iniziale teoria di Pane secondo cui la chiesa sarebbe stata restaurata senza aver pubblicato o comunicato con qualsiasi articolo di carattere scientifico gli esiti dell’intervento. Il problema è che Rusconi non

189

Si precisa che Roberto Pane non si formò per esteso, ma solo con le sigle R. P.

190

A. Rusconi, “Per Santa Sofia di Benevento”, in Napoli nobilissima, 3, 1963-1964, pag.157

191

Ibidem

109


CAPITOLO II risponde negando ciò, ma sentenziando che ciò sarebbe stato inutile. Si riporta qui di seguito questo passaggio con le esatte parole: “Ma a chi, ci si può domandare, avrebbe servito o servirebbe oggi una descrizione od una dimostrazione del restauro? Non certo a R. P., il quale folgorato dalla Verità e sul cavallo di Orlando, ha potuto stillare le sue critiche e trinciare i suoi giudizi contro tutti, certamente – è ovvio- dopo aver tutto esaminato, tutto studiato, tutto intuito, escludendo a priori ogni possibilità di smentite o di obiezioni. In caso contrario su quali elementi avrebbe potuto basare le sue critiche? Su invenzioni, forse, su osservazioni superficiali inesatte, su fantasie intese ad ingiuriare ed a diffamare? Amletico dubbio che spetta al sig. R.P. di chiarire ai lettori. Per conto mio, e mi perdoni il sig. R.P. per una tale mancanza di rispetto, dato il tono ed il contenuto del suo commento, propenderei, purtroppo, a ritenere più esatta la seconda ipotesi, sempre che naturalmente il prelodato sig. R.P non dimostri infondato tale ingiurioso sospetto valendosi di argomenti persuasivi e non già di inconsistenti vane parole, di scantonamenti, di ragionamenti ermetici infiorati da teorie trascendentali, di rinnovati giudizi ingiuriosi, di artifizi, di concetti e di labirinti dialettici, atti a imbrogliare le carte e a fuorviare il lettore superficiale od impreparato.”192 Facendo a questo punto riferimento all’ambito giuridico e spiegando come di solito non è il reo confesso a doversi giustificare ma l’accusatore a dover dimostrare le sue imputazione, Rusconi invita Roberto Pane ad argomentare ben dodici punti che qui in breve riassumerò: quali prove ha del mancato accertamento dei valori e dei significati dei nuovi elementi messi in luce, quali indagini gli permettono di dire che S. Sofia è stata restaurata in maniera arbitraria, come fa ad asserire che i due speroni siano stati precedentemente costruiti e poi demoliti e come questi interrompano l’unità organica e la coerenza dell’architettura, perché ha manomesso la pianta che fa trovare allegata al suo commento, con quali dati afferma che gli speroni siano stati ricostruiti dopo il solo rinvenimento del tracciato perimetrale originale, perché gli speroni non avrebbero legami con le colonne e con i pilastri, che l’andamento a zig-zag è un rifacimento posteriore che poi venne soppresso, che il costruttore di S. Sofia fu “un

192

A. Rusconi, “Per Santa Sofia di Benevento”, in Napoli nobilissima, 3, 1963-1964, pag.157-158

110


CAPITOLO II povero maestro di muro”?193 Su quest’ultimo punto Rusconi si accanisce particolarmente e specifica che gradirebbe la risposta in ben tre distinti ambiti che si prodiga dettagliatamente a descrivere. Prosegue poi affermando che necessita di spiegazioni riguardo le affermazioni di Pane per cui il fantomatico costruttore avrebbe ritenuto meno valide le due convessità simmetriche alle celle tricore, dove sarebbero dovute essere queste celle tricore, la cui esistenza evidentemente sarebbe sfuggita a tutti, con quali prove afferma che le strutture scomparse sono state ricostruite arbitrariamente e se gli risulti che elementi longobardi, gotici o rinascimentali siano stati, nelle “manipolazioni”, distrutti o modificati. Rusconi chiosa la sua riposta affermando che quel tanto chiamato in causa “qualcuno” era all’epoca niente di meno che il Soprintendente ai Monumenti della Campania e chiede, ancora, perché si è tanto criticato il suo operato, quando invece interventi sì sprezzanti della già citata Carta del Restauro, come quelli alla Cattedrale di Teano, che coinvolgono direttamente Roberto Pane, siano avvenuti nel silenzio più totale. L’ingegnere saluta distintamente citando un mordace distico di Marziale dedicato proprio alla persona di Roberto Pane: “Su duri puer ingenii videtur” “Praeconem facies vel Architectum”.194 All’articolo del dott. Rusconi rispose, sullo stesso numero di Napoli Nobilissima, inizialmente Cavuoto, che comunque era stato tirato in ballo. Le sue parole sono, come per il primo articolo, caratterizzate da educazione e garbo; lo stesso ritiene solo opportuno chiedere a Rusconi dove avrebbe citato dati inesatti, specifica che ha visto di persona più volte la chiesa di S. Sofia e indica il motivo per cui citò, nella sua ricerca, la chiesa di Ani o la basilica di Parenzo, nonostante sia cronologicamente successiva a Santa Sofia. Il tono si fa un po’ più forte solo in un passaggio: “Per sostenere che un organismo architettonico abbia una validità artistica, bisognerebbe, a mio parere, dimostrare che in esso si realizza una idea di spazio organica e coerente con la tradizione di cultura alla quale l’organismo stesso appartiene. Ora, questa organicità e coerenza sembrano irrimediabilmente distrutte dal rifacimento

193 194

A. Rusconi, “Per Santa Sofia di Benevento”, in Napoli nobilissima, 3, 1963-1964, pag.157-158 Ivi, pag. 159

111


CAPITOLO II della struttura e della pianta della chiesa, ridotta alla pretesa originalità di un andamento stellare che sarebbe doveroso spiegare attraverso una documentazione storica e filologica, la più vasta e diligente possibile”195, ma l’intervento si ferma qui. Ovviamente seguì alla risposta di Cavuoto, quella di Pane. Dapprima lo stesso si preoccupa di rispondere alle accuse mossegli personalmente, quindi sottolinea come comunque il Rusconi si ostini a non pubblicare le carte del restauro e a non fornire una documentazione dettagliata dell’intervento, cosa che di per sé rende, già arbitrario l’operato dell’ingegnere, a detta di Rusconi, ma a detta anche del parere di chi scrive. Riferisce che per parlare ed interessarsi di fatti riguardanti il proprio paese e il suo patrimonio storico artistico, non si deve per forza necessitare di titoli, che comunque lo stesso afferma di avere, e che il suo intervento a Teano non si trattò di un restauro, ma di una ricostruzione, essendo stata la cattedrale distrutta dai bombardamenti e che tutto ciò che riguardò quest’opera è stato pubblicato ed edito. A questo punto Pane chiama in causa, quasi come avvocati, un documento fondamentale, che è stato a suo modo protagonista, anch’egli di questo battibecco, la già citata Carta del restauro, e niente di meno che l’eminente storico dell’arte Bertaux. Della Carta, Pane cita per esteso l’articolo 5: “Che siano conservati tutti gli elementi aventi un carattere d’arte o di storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell’unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga ad escluderne alcuni a detrimento di altri, e solo possano eliminarsi quelli, come le murature di finestre e di intercolumni di portici che, privi di importanza e di significato, rappresentino deturpamenti inutili; ma che il giudizio su tali valori relativi e sulle rispondenti eliminazioni, debba in ogni caso essere accuratamente vagliato, e non rimesso ad un giudizio personale dell’autore di un progetto di

restauro.”196

Di

Bertaux

riferisce

questo

giudizio:

“Anzitutto

l’interpretazione oggi consueta della pianta come pianta stellare è scorretta in quanto nega la forma tonda delle pareti esterne verso est e verso ovest.

195

A. Rusconi, “Per Santa Sofia di Benevento”, in Napoli nobilissima, 3, 1963-1964, pag. 159

196

Ivi, pag. 160

112


CAPITOLO II Inoltre, non si tratta qui in nessun modo di una costruzione a pianta stellare, poiché le pareti a stella non hanno né significato costruttivo né influenza sulla

concezione

spaziale…D’altronde,

se

si

volesse

considerare

l’andamento stellare occorrerebbe cambiare la distribuzione degli elementi strutturali interni”.197 Nel 2002 la dott.ssa Monica Costagliola pubblica sulla rivista Apollo un articolo molto interessante seguito da un’interessantissima appendice documentaria. In seguito alle sue ricerche e a un’attenta lettura delle carte ritrovate, la studiosa è riuscita a ricostruire le vicende dei restauri novecenteschi a Santa Sofia e a risalire ad episodi non evidenziabili dalla sola lettura dello scambio di risposte fra Pane, Cavuoto e Rusconi. Anche la Costagliola è concorde nel riconoscere che in realtà la chiesa fu da sempre poco studiata, analizzata solo o per la sua pianta circolare ad anelli concentrici o per il cospicuo riutilizzo di materiale classico, altrimenti per l’interesse suscitato dalla riproposizione dell’impianto stellare, all’atto dell’intervento realizzato da Rusconi. Quando nel 1971, finalmente Mario Rotili presentò il lavoro condotto dal soprintendente Rusconi, al quale aveva partecipato in prima persona, sottolineò come “la ricomposizione del tempio longobardo avesse raccolto un consenso quasi unanime, pur persistendo il disaccordo

espresso

da

Roberto

Pane,

fermamente

convinto

dell’inopportunità della ricostruzione rusconiana diretta a favore di una presunta configurazione primitiva”.198 Proprio perché i dubbi espressi da Pane erano difficilmente comprovabili, data l’irreparabilità di testimonianze concrete, la Costagliola decise di consultare i carteggi conservati presso gli archivi della Soprintendenza di Caserta e dell’ex Cassa per il Mezzogiorno – l’ente finanziatore delle opere post-belliche – per risolvere l’insoluta questione proposta dallo studioso napoletano. Si è così potuto disporre di una preziosa documentazione tecnica, consistente in fotografie, rilievi, progetti e perizie facenti riferimento a un arco temporale che andava dal 1925 al 1960. Una delle prime cose che si scoprì fu che l’intervento di Rusconi fu solo l’ultimo atto di una lunghissima fase che aveva preparato tale operazione. Nel primo trentennio del Novecento si ipotizzò che alcune 197

A. Rusconi, “Per Santa Sofia di Benevento”, in Napoli nobilissima, 3, 1963-1964, pag. 159

198 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 32

113


CAPITOLO II tracce dell’originale architettura potessero sopravvivere al di sotto della veste barocca di cui era ormai rivestita S. Sofia. I cultori e gli amatori di storia locale sette-ottocentesca si appassionarono per cercare una risposta alla questione che domandava di quanto le trasformazioni orsiniane avessero alterato l’assetto originario. Si concluse che il nucleo centrale della chiesa fosse sopravvissuto all’impeto costruttivo dell’attivo cardinal Orsini, poi papa Benedetto XIII. Il primo che aveva intuito ciò fu Emile Bertaux, all’inizio del Novecento. Successivamente anche altri studiosi come il Toesca, il Lavagnino e il Chierici avevano aderito a questa tesi per cui, nel 1926, in occasione dei restauri al chiostro, con l’occasione, si decise di intervenire anche sulla moderna configurazione dell’edificio beneventano per ritrovare le ipotizzate cospicue tracce della chiesa originaria. Il progetto venne realizzato in

un decennio, dal 1924 al 1934, quando il Regime

Fascista aveva deciso di destinare cospicui finanziamenti ad interventi di restauro. A tale scopo, la Soprintendenza ai Monumenti della Campania formulò un organico programma relativo all’intero patrimonio storicoarchitettonico presente sul territorio, allo scopo di “arricchire la documentazione storica e artistica dei secoli che vanno dal principio del Cristianesimo alla fine della dinastia aragonese e per cercare nuovi elementi per una migliore conoscenza del Medioevo che ebbe nella Campania una delle regioni più feconde di esperienze e di conquiste. Il rinnovato interesse per il Medio Evo condusse alla “riscoperta” di importanti monumenti, attraverso

l’attività

di

liberazione

degli

antichi

organismi

dalle

stratificazioni più recenti, prevalentemente barocche”.199 Il complesso di Santa Sofia fu oggetto di studio per Gino Chierici che ne curò il restauro del chiostro. Più precisamente si prodigò per eliminare tutte le sovrapposizioni, che durante gli anni si erano addossate alla struttura antica. Nel corso delle operazioni riguardanti il chiostro, appunto, probabilmente in vista della redazione di un progetto di sistemazione dell’intero complesso fece realizzare un rilievo rinvenuto in forma di schizzo. L’importanza di questo disegno è notevole visto che ci attesta l’assetto dell’edificio rimosso con le successive ricostruzioni e conosciuto solo attraverso fotografie. Il progetto 199 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 32

114


CAPITOLO II che poi non venne mai pubblicato, relativo al riassetto della Santa Sofia e della piazza antistante, era in linea con l’ideologia urbanistica del regime ed era strettamente connesso al restauro dell’intero complesso. “La proposta mirava alla valorizzazione dell’antico insieme, mediante l’isolamento degli edifici circostanti. In particolare, i due laterali che occultavano la piena visibilità, venivano eliminati e sostituiti da scenografiche quinte, includenti rigogliosi giardini di alte essenze arboree. Per quanto riguarda le fabbriche religiose, l’elaborato pianificò per il chiostro quanto fu effettivamente realizzato mentre per il tempio si mise a punto la prima di una numerosa serie di ipotesi di restauro”.200 Fortunatamente le numerose modifiche previste non ebbero luogo e solo nel 1930 venne compiuto qualche saggio da parte dell’ispettore Lavagnino. Nel 1941, la Soprintendenza ai Monumenti di Napoli fece compiere un’altra ricognizione da R. Zanoni. Questa volta quello che interessava era l’esterno, in particolare l’area prossima al coro. L’indagine era quindi rivolta agli elementi prima trascurati. Tanto è vero che venne realizzato anche uno specifico studio relativo solo alle colonne, osservandone singolarmente di ciascuna i capitelli, le basi e i diametri. Ma le emergenze suggerite dagli eventi bellici premevano e all’elaborato non seguì mai una proposta progettuale. Gli anni del dopoguerra furono caratterizzati da una molteplicità di interventi di restauro. Ciò dipese dal fatto che l’urgente impegno legato alla ricostruzione dei monumenti gravemente danneggiati, e la conseguente riflessione sul loro significato, spinsero i tecnici non solo a dare la precedenza alle iniziative che impedissero la perdita materiale, ma soprattutto quella nella memoria. “Un inaspettato indirizzo all’iter progettuale fu indotto dal fatto che i bombardamenti compromisero il più delle volte le stratificazioni recenti contribuendo involontariamente alla rimessa in luce delle originarie strutture”.201 Le incursioni che colpirono duramente la città di Benevento nel 1943, colpirono anche la cattedrale di Santa Sofia e resero urgenti le opere di riparazione, in quanto, tra l’altro, mancando una chiesa metropolitana, la popolazione ne reclamava l’utilizzo per poter officiare le 200 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 34 201

Ivi, pag. 37

115


CAPITOLO II messa. Approfittando di questa situazione nel 1947, il soprintendente Giorgio Rosi compì dei saggi nello spazio a destra del presbiterio. Venne alla luce un’abside completamente ricoperta di affreschi e stucchi seicenteschi. La composizione pittorica raffigurava, in tre registri sovrapposti, nella calotta absidale, un concilio di angeli, sovrapposti ad una Vergine con Bambino, in atto di proteggere una chiesa dal prospetto a capanna, fiancheggiata da due torri campanarie. Questi affreschi sono ormai solo sporadicamente testimoniati da segnalazioni contemporanee e da una fotografia. Le indagini proseguirono nell’area a sinistra del presbiterio. L’ispezione rivelò un’abside simmetrica a quella già scoperta, recante tracce di affreschi, ascritti al IX-X secolo. Erano state ritrovare la storia di Zaccaria, la Visitazione e l’Annunciazione. “La tesi tuttora più accreditata, fu quella di Ferdinando Bologna, il quale li ritenne coevi all’edificazione da parte di Arechi II (760) e anteriori a quelli di San Vincenzo al Volturno, ai quali erano palesemente legati da affinità stilistiche.”202 Lo scoppio delle bombe sulla piazza aveva permesso a Rosi di effettuare sondaggi anche all’esterno per i quali ottenne un finanziamento dal Ministero della Pubblica Istruzione, che gli consentì di indagare l’area. Le ricerche furono ben presto sospese per il sopraggiungere di problemi finanziari. Il soprintendente tentò inutilmente di coinvolgere nell’impresa anche il Genio Civile. La portata delle scoperte fu notevole in quanto condusse all’individuazione di molteplici stratificazioni, le più antiche risalenti addirittura all’epoca romana. Il successore di Rosi fu il nostro Antonino Rusconi, che fu soprintendente ai Monumenti della Campania fino al 1955. Lui ebbe finalmente la possibilità di realizzare, nell’arco del decennio seguente, una campagna di scavi sistematici. La vasta ricognizione della fabbrica iniziò nel 1950 sollecitata anche dall’opinione pubblica e la classe politica che aveva intuito l’indotto turistico ed economico legato alla valorizzazione dell’abbazia. Delle operazioni che si stavano svolgendo a Santa Sofia in quel periodo, però, si aveva notizia solo in minima parte dai commenti da parte della stampa locale, ad esempio dell’articolo di Mario Ferrante. Lo stesso Rusconi, come sappiamo, ne fece un resoconto solo nel 1967, quindi 202 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 38

116


CAPITOLO II un decennio dopo, rispondendo tra l’altro in minima parte agli interrogativi che gli venivano posti, “dal momento che documentò, più che lo scavo, le acquisizioni conseguenti il restauro compiuto, favorendo così la nascita di forti perplessità sulla legittimità del suo intervento. Inoltre, l’assenza di immagini e la mancata pubblicazione di una relazione particolareggiata sulle esplorazioni compiute, ha in qualche modo negato, in tutti questi anni, la possibilità di intraprendere gli studi ampi e approfonditi che lo stesso funzionario auspicava. Solo oggi, grazie al ritrovamento di elementi inediti, si tenta di chiarire la vicenda. Allo scopo si è rivelato prezioso il contributo fornito dalla rilettura dei quotidiani locali, i quali rendono nota dell’acceso dibattito, che si svolgeva in quegli anni e della cronologia delle opere in corso”.203 Ad esempio il ritrovamento di alcune fotografie, commissionate dalla Soprintendenza, consente una migliore comprensione dei fatti, ma soprattutto la scoperta di tutte quelle componenti che vennero rinvenute, ma non inglobate nella ricostruzione. La rimozione degli intonaci da parte di Rusconi mise in luce una differenza di magistero murario, che Rusconi identificò come struttura di epoca longobarda. Il ritrovamento di configurazioni murarie più antiche spinse il soprintendente ad estendere i sondaggi alle pareti perimetrali e all’area circostante. Soprattutto venne rinvenuto una lunga porzione di circuito murario che, partendo dall’abside seguiva la curvatura dell’edificio. A posteriori questo sembrerebbe un ritrovamento importante, ma inspiegabilmente trascurato, forse perché non ritenuto pertinente all’edificio religioso. Dopo il selciato della piazza, si passò ad indagare il prospetto principale. L’analisi della trama muraria richiese l’asportazione completa degli intonaci e degli stucchi superstiti, lo smontaggio del portale con la lunetta superiore e la liberazione delle cornici barocche. Vennero ritrovate curvature, analoghe sia per altezza che per fattura all’arcata centrale, nelle ali laterali; vennero anche riportate nel grafico di Ferrante, tuttavia Rusconi, in sede di restauro non ritenne opportuno considerarle, considerandole pertinenti a una età successiva a quella longobarda, perciò le occultò sotto uno strato di intonaco. Il Ferrante 203

M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 38

117


CAPITOLO II sottolineò il ritrovamento, notando l’omogeneità strutturale con l’arco centrale e il medesimo svolgimento in altezza, ipotizzando l’appartenenza dei ritrovamenti al primitivo nartece. “L’eliminazione totale dell’intonaco fu estesa alle pareti laterali, per rivelare l’antico paramento murario. Le operazioni in oggetto, definite “scavi ampi e accurati”, si presentano come vere e proprie demolizioni, che, incuranti del valore delle stratificazioni seisettecentesche, procedevano con una furia spasmodica alla ricerca della presunta compagine originaria”204: così procedeva l’intervento rusconiano. La tessitura muraria rimessa in luce consisteva di due file di mattoni, spessi circa 3 cm e un filare di tufelli squadrati irregolarmente: “la tecnica, all’epoca ritenuta insolita a Benevento, trovava riscontro nelle realizzazioni romane della seconda metà dell’VIII secolo, per cui convinse gli studiosi della sua appartenenza alla fase di fondazione da parte di Arechi e fu motivata con il fatto che il sovrano, in vista del particolare impegno costruttivo, avrebbe appositamente chiamato maestranze provenienti dalla città papale”.205 Completate le indagini all’esterno, l’intervento di Rusconi interessò l’interno della chiesa, ma anche e soprattutto questa volta le scelte prese furono talmente opinabili da suscitare vive contestazione da parte della stampa locale. Venne completamente eliminato il pavimento per verificare l’area delle colonne e dei pilastri. Si evinse che i sostegni poggiavano su plinti indipendenti, le colonne erano perfettamente in asse con l’elemento verticale superiore mentre i pilastri avevano un orientamento completamente diverso rispetto alle intelaiature soprastanti, probabilmente a causa dei numerosi eventi tellurici che interessarono quel territorio. Le basi erano state ottenute da materiali di spoglio, di gusto egittizzante e provenivano dal tempio domiziano di Iside; i capitelli erano invece del tutto simili a quelli di VII secolo utilizzati in altri luoghi della città. Rusconi rilevò anche che i pilastri non avevano un andamento radiale, come ci si aspetterebbe da una pianta radiale, bensì parallelo alle pareti perimetrali. Ma, e qui veniamo al dunque, “la scoperta che destò enorme scalpore e indirizzò tutte le scelte successive riguardò i tratti fondali di muro 204 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 40-42 205

Ivi, pag. 42

118


CAPITOLO II dall’andamento a zig-zag; essi configuravano un impianto stellare, convergente dalla zona d’ingresso verso le tre absidi opposte, suggerendo un organismo particolarissimo e unico nel suo genere.”206 I lavori di scavo, che procedettero di pari passo con le operazioni di restauro, furono caratterizzati da un’alternanza di fasi tecniche e fasi burocratiche, soprattutto l’operato della soprintendenza dovette spesso soggiacere a più condizionamenti derivanti da eminenti figure politiche e religiose, appartenenti a un’elite beneventana di spicco. Già all’inizio degli anni ’50, quando si decise di restaurare la chiesa, per mancanza di fondi, si dovette ricorrere a un finanziamento del Comitato Finanza Industria e Turismo della Cassa per il Mezzogiorno, che era l’organo preposto al controllo delle opere di interesse turistico e industriale. La pratica effettivamente venne trasmessa prima di elaborare un progetto specifico, ma solo nel 1952 presero forma le prime ipotesi di restauro. Solo grazie al lavoro della dott.ssa Costagliola e alle sue ricerche, si può oggi ripercorrere il complesso iter progettuale e burocratico che caratterizzò l’opera di restauro.207 L’ufficio di tutela mise in atto diverse proposte, all’inizio più moderate, rispetto a quelle poi effettivamente realizzate. Molte furono le divergenze di ordine economico, sociale, politico e burocratico. Sicuramente in tutti i suggerimenti espressi si ritrova sempre lo stesso “atteggiamento antibarocco, alimentato dal desidero

di

riconfermare l’unità stilistica longobarda. La posizione era decisamente anacronistica, soprattutto in considerazione degli orientamenti ufficiali, circa il restauro dei monumenti impartiti alle Soprintendenze ormai da vent’anni, che propendevano per tutti gli elementi di interesse storico artistico senza particolari predilezioni per un preciso stile.”208 Il monumento continuava a mostrare difficoltà, tanto è vero che dalla richiesta di sovvenzione alla formulazione di un’ipotesi di restauro trascorsero appunto circa due anni. La soluzione iniziale mirava alla conservazione

206 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 42 207

Si rimanda al regesto documentario, molto completo e interessante, che si trova alla fine dell’articolo preso in esame: M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pagg. 62-74

208 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 46

119


CAPITOLO II dell’organismo nel suo intero. Ma nel 1952, prese corpo un’ipotesi più radicale: “la scoperta delle basi delle colonne, dei pilastri e dei muri fondali del tracciato stellare, fu ritenuta di eccezionale importanza e ciò indirizzò diversamente le scelte progettuali. Il fatto che, contemporaneamente alla formulazione di un piano procedevano gli studi delle strutture in elevazione, ne rendeva problematica l’elaborazione, condizionata dai continui rinvenimenti, che confermavano o smentivano le ipotesi.”209 Il piano definitivo venne descritto in una relazione firmata da Rusconi e dall’architetto Majoli. Nel documento si asseriva che il progetto mirava alla rifunzionalizzazione della fabbrica che versava nel più completo abbandono ed in condizioni statiche precarie. Si rendeva necessario, pertanto, un intervento di consolidamento associato al “restauro scientifico sulle tracce e gli indizi sicuri, posti in luce.”210 Il progetto presentato in questa relazione venne, però, accantonato, in quanto ritenuto dalla Cassa per il Mezzogiorno troppo oneroso. Si elaborò quindi una proposta più economica, che non prevedesse

l’abbassamento

di

quota

del

pavimento.

Per

ovviare

all’occultamento, inevitabile con questa modalità di intervento del basamento delle colonne, si pensò a dei pozzetti chiusi da vetri per consentire la visuale. Ma questa nuova soluzione non fu accolta dai beneventani i quali auspicavano una nuova soluzione a fronte anche dell’incontro che c’era stato tra Rusconi, il soprintendente alle Antichità della Campania Amedeo Maiuri e Giuseppe Alberti, presidente dell’Ente provinciale per il turismo, incontro promosso dal sindaco di Benevento. Giuseppe Alberti fu un altro personaggio chiave di questa vicenda, soprattutto per il ruolo di mediatore che ebbe tra la Soprintendenza e la Cassa per il Mezzogiorno. Lo stesso fu anche personaggio fondamentale nella storia di Santa Sofia anche nell’opinione pubblica visto anche con quanto zelo si prodigò, insieme al parroco di allora Gennaro Capasso, per ottenere i finanziamenti necessari al restauro. Alcune sue lettere sono state ritrovate nell’archivio dell’ente finanziatore e testimoniano tutto quanto si è 209 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 46 210

Ibidem

120


CAPITOLO II detto di lui. Il piano definitivo e la relativa perizia di spesa, rettificato dalla Soprintendenza, comportò una notevole riduzione della sovvenzione e l’introduzione conseguente di notevoli varianti al progetto di restauro, formulate in seguito ad un sopralluogo dei tecnici della Cassa. Ma l’ufficio di tutela non condivise le indicazioni della Cassa; ovviamente qualora la Cassa avesse insistito, la Soprintendenza avrebbe studiato soluzioni alternative per entrambe le parti, cosa che effettivamente avvenne, come testimoniano i nuovi preventivi che seguirono, sottoposti alla decisione dell’Ente e respinti. La questione sembrava quasi completamente risolta nel 1955, “quando si decise di realizzare un nuovo programma che avrebbe mutato completamente e irreversibilmente il volto del tempio. Non conosciamo le motivazioni precise che spinsero a modificare il progetto del 1952, già finanziato ed a lavori iniziati. Infatti, nel marzo del 1955, si procedette alla gara d’appalto e, nel mese successivo, si richiese al Comune l’uso del suolo pubblico per impiantarvi il cantiere. Ma, prima di varare definitivamente le opere, forse per ordine del Rusconi, fu condotto un ultimo rilevamento”211. Probabilmente la soprintendenza voleva verificare che le fondazioni ritrovate fossero effettivamente quelle originali; i suoi dubbi e le sue incertezze ci vengono, tra l’altro, confermate da una lettera inviata, indirizzata dall’Alberti nella quale “dichiarava di “sentirsi in dovere di sostenere” il ripristino della pianta stellare, in quanto “un ardimento del genere” avrebbe riscosso certamente “l’incoraggiamento ed il conforto del parere di quanti si appassionano all’arte dell’Alto Medioevo”.212 Nel frattempo la Soprintendenza completava gli scavi, ma i risultati non erano quelli che ci si aspettava. Nonostante fossero state condotte numerose indagini “non si riuscivano ancora a risolvere quei dubbi interpretativi che inesorabilmente, comparivano di continuo.”213 Ciò che più creava dubbi e incertezze a Rusconi erano gli speroni; secondo una comunicazione ufficiale del 1967 fu indagato tutto il perimetro esterno per riscontrare l’esistenza di un tracciato circolare di collegamento ai vertici dei muri a zig-zag, ma gli 211

M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 48 212

Ibidem

213

Ibidem

121


CAPITOLO II esiti furono negativi, in quanto non solo si constatò l’inesistenza di questo perimetro murario, ma si constatò che il terreno circostante era addirittura vergine. Recenti scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica hanno confermato ciò. Quindi le testimonianze emerse effettivamente rendevano più che arbitraria la scelta di Rusconi. Di questo se ne accorse all’epoca lui stesso tanto è vero che richiese di avvalersi di una consulenza specifica in materia, per cui formulò al Ministero della Pubblica Istruzione una richiesta urgente, inoltrata il 5 agosto 1955, affinché autorizzasse “un sopralluogo collegiale con qualche collega particolarmente versato in architettura medievale”.214 Nei carteggi esaminati dalla Costagliola non si ritrova la relazione di un’ispezione, ma nelle tabelle delle indennità e dei rimborsi del Ministero, si ritrova che il prof. Emilio Lavagnino del Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti visitò Santa Sofia il 6 settembre 1955, per esaminare la questione riguardante il restauro. Probabilmente proprio il parere di quest’ultimo fece cadere le ultime resistenze del Soprintendente. “Il rifacimento della fabbrica longobarda, divenne esecutivo. Il 12 dicembre 1955, fu approntato dall’architetto Bruno Majoli, direttore dei lavori, un rapporto sulle variazioni da apportare, a causa dei “nuovi elementi architettonici emersi nel corso di esecuzione delle opere”, tali da determinare “con sicurezza la conformazione planimetrica dell’antica chiesa” e, pertanto, sorgeva “la necessità di ricomporre l’unità d’insieme, demolendo le strutture settecentesche e ricostruendo il perimetro longobardo”.215 Rusconi ricostruì graficamente la veste longobarda della chiesa non sono nel tracciato, ma anche in elevato. La compagine mostrava una pianta mistilinea, contraddistinta da una sezione circolare, interrotta dall’apertura di tre absidi ed una stellare, delimitata da angoli sporgenti alternati a rientranze che convergevano sul prospetto seguendo un perimetro leggermente convesso. Ci fu un attimo in cui si pensò di ricostruire anche la cupola, seguendo il presunto disegno del primitivo assetto, viste le disastrose condizioni in cui versava e avendo verificato, dalle tracce rinvenute, l’assetto originario. Ma la demolizione della cupola settecentesca 214 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 48 215

Ibidem

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CAPITOLO II non avvenne perché eccessivamente costosa; si ripiegò quindi sulla riproposizione parziale dell’impianto longobardo. “La porzione stellare fu ricostruita attraverso una delicata operazione di cuci e scuci, che comportò l’eliminazione delle strutture settecentesche e la ripresa delle murature più antiche, il tutto eseguito per brevi tratti e con opportuni puntellamenti”.216 Su un capoverso del testo della Costagliola, fondamentale a mio avviso, ci si vuole soffermare: “La coesistenza di unità tipologicamente differenti evidenziava

chiaramente

la

complessità

strutturale

della

chiesa,

probabilmente non adeguatamente indagata, quale effetto delle numerose modifiche apportate, sia in seguito ai molteplici eventi tellurici che devastarono la città, sia per le esigenze di tipo funzionale, che durante i secoli dovettero rendersi necessarie. Ma, il voler ricomporre a tutti i costi l’immagine longobarda prevalse […]”217: questo risulta essere uno dei punti chiave dell’intera vicenda. Comunque allo scopo di eliminare lo sgradevole contrasto tra la fase moderna e quella primitiva, secondo un atteggiamento diffuso, tutte le parti ascrivibili all’epoca moderna, furono ricoperte da un anonimo strato di materiale. Nonostante il piano fosse stato approvato dalla Cassa del Mezzogiorno non erano state risolte le questioni economiche, causate soprattutto dal fatto che la realizzazione di operazioni non preventivate, come la demolizione delle volte, aveva comportato un incremento delle spese tale da rendere necessario un nuovo finanziamento. Nel 1955, Rusconi fu trasferito alla Soprintendenza di Venezia, ma rimase responsabile dei lavori la cui direzione venne affidata dal prof. Teolato all’arch. Bruno Majoli. Nel 1956 si insediò il nuovo soprintendente Riccardo Pacini, la cui unica preoccupazione fu il persistere di questioni burocratiche ed economiche. La nuova richiesta di fondi inoltrata non ottenne il consenso dell’Ente che richiese una documentazione fotografica e con grafici, per chiarire l’effettiva necessità di altri liquidi e avere delucidazioni su come fossero stati spesi gli altri fondi. Nell’aprile del 1957 giunsero altri fondi, al termine di un iter amministrativo complesso e comunque, questo ulteriore invio di denaro, non fu sufficiente. Con il 216 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 51 217

Ibidem

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CAPITOLO II conferimento delle ultime due tranches di finanziamenti le operazioni si conclusero in tempo utile per il collaudo affidato all’ing. Mario Oriani, nel maggio del 1957. Nella data di consegna, nel 1960, la chiesa era definitivamente ultimata. Ma, c’è un ma. Come già più volte ripetuto, il restauro in atto in Santa Sofia non aveva prodotto che vaghe informazioni. Nel 1952 Rusconi lo aveva presentato alla comunità scientifica a Grado, in occasione del II congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo. La relazione riscosse molto successo ed ebbe una grande risonanza, ma non fu mai pubblicata. In sede locale, uscì l’articolo già citato di Ferrante su “Samnium” e qualche notizia sul quotidiano “Cronaca del Sannio”. Come giustamente suggerisce la dott.ssa Costagliola: “La mancanza di materiale edito, attestante i risultati delle indagini condotte sul monumento, nonché i criteri d’intervento messi in atto, costituì una gravissima carenza, in considerazione del fatto che l’oggetto del restauro era, ed è tuttora, reputato uno degli esempi più significativi dell’architettura longobarda della Campania.”218 Nell’ottobre 1957 Benevento fu una delle sedi del III Congresso di studi sull’Alto Medioevo. In occasione dell’importante evento convennero in città i maggiori esperti di arte medievale, per cui, l’Amministrazione Provinciale, in collaborazione con l’Ente per il Turismo, fece ricomporre provvisoriamente la facciata, per presentare l’edificio in una condizione di integrità. Inoltre lo stesso Rusconi, venuto appositamente da Venezia, nella prima giornata dei lavori, condusse i congressisti in visita alla chiesa ed illustrò loro il ripristino in corso. Di conseguenza, sull’edificio si appuntò l’interesse degli studiosi, desiderosi di conoscere maggiormente le ragioni dell’intervento, ma le aspettative rimasero a lungo insoddisfatte. Infatti neanche dopo il completamento delle opere, l’ex soprintendente della Campania provvide a comunicare ufficialmente i risultati delle ricognizioni archeologiche eseguite e le linee guida che avevano portato al ripristino della presunta immagine iniziale. Dobbiamo arrivare al 1963 quando vide la luce, sulle pagine di “Napoli Nobilissima” l’ormai celebre articolo di Cavuoto seguito dalla nota del direttore della rivista. Quello che non si è ancora detto è che, a seguito di quell’articolo, il Ministero della Pubblica 218 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 52

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CAPITOLO II Istruzione, essendo stato criticato l’operato di un suo rappresentante, chiese alla Soprintendenza ai Monumenti di Napoli una dettagliata relazione esplicativa dei criteri adoperati nel restauro, da stampare nel proprio “Bollettino d’Arte”. Ma l’invito non ebbe esito, tanto che, a un certo punto, fu la stessa redazione del Bollettino che con numerosi solleciti caldeggiò la pubblicazione di una testimonianza ufficiale da parte di Rusconi. L’opinione di Pane fu integralmente ripresa da Arnaldo Venditti nel volume del 1967, Architettura bizantina, nel quale lo studioso compì un’accurata lettura del complesso beneventano e ribadì gli assunti già espressi da altri in “Napoli nobilissima”. Finalmente, dopo circa quattro anni, Rusconi pubblicò il tanto atteso resoconto. La polemica sul rifacimento di Santa Sofia si protrasse ancora per anni, grazie all’accresciuta attenzione verso l’architettura longobarda, derivante soprattutto dalla rimessa in luce di altri episodi attraverso i restauri di quegli anni. Più volte è stato chiamata in causa la Carta del Restauro; recuperando l’articolo 5 di “Norme per il restauro dei monumenti”219, appare chiaro come almeno questa norma sia stata del tutto disattesa dal soprintendente Rusconi nel suo intervento di restauro in S. Sofia a Benevento, provvedendo alla soppressione di tutte le componenti di epoche posteriori non compatibili con la struttura architettonica longobarda. Lo spasmodico desiderio di ricomporre la presunta unità stilistica primitiva è stato ben analizzato, ancora una volta da Monica Costagliola; si conclude definitivamente l’analisi della storia conservativa di S. Sofia utilizzando ancora una volta le parole della studiosa e sottolineando l’altissima qualità del suo articolo, che ha molto appassionato e mosso un sentito apprezzamento da parte di chi scrive. “I circa trent’anni appena trascorsi non hanno apportato ulteriori chiarimenti alla vicenda, in quanto anche la monografia sulla chiesa, più volte annunciata da Rusconi, non è stata mai edita. Alla luce del preciso excursus storico condotto in termini di conservazione e tutela dei monumenti, nell’accezione recepita durante gli anni post-conflitto, l’operato di Rusconi, va inteso come il risultato di una precisa tendenza dell’epoca, che voleva il progetto, teso ad ogni costo alla riscoperta della celata immagine originaria. Questa errata motivazione 219

Più precisamente: Consiglio Superiore Per Le Antichità e Belle Arti. Norme per il restauro dei monumenti. Carta italiana del restauro. 1932

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CAPITOLO II prioritaria “giustificò” le radicali trasformazioni settecentesche, le quali benché connotassero uno spazio organico e formalmente compiuto, vennero irrimediabilmente

eliminate,

in

nome

dell’imperante

atteggiamento

antibarocco del tempo.”220 Ci si congeda con una domanda provocatoria: ortodossia del restauro o fondamentalismo integralista? Si deve far presente che la chiesa di S. Sofia a Benevento fu oggetto, negli anni Novanta, di alcune operazioni di rilievo motivate da un ciclo di sperimentazioni finalizzate alla lettura metrica e morfologica di opere antiche. Le opere, si sa, subiscono nel corso del tempo rilevanti singolarità strutturali interpretabili correttamente soltanto sulla base di una conoscenza accurata delle relazioni spaziali fra i dettagli costitutivi. E’ stato dunque progettato un intervento ed avviato il rilievo tridimensionale della chiesa beneventana,221 preventivando soluzioni tecnologiche diversificate per l’aspetto topografico e per quello fotogrammetrico. Perciò, una prima serie di misure ha permesso la ricostruzione della sezione al livello del suolo dell’edificio: attraverso una rete di inquadramento generale, con opportuni collegamenti fra parte esterna e parte interna dell’opera, sono stati identificati in dettaglio la morfologia e gli spessori delle pareti murarie insieme alla distribuzione, irregolare, degli ordini di colonne che fanno da supporto agli archi della volta. L’intradosso della struttura di copertura è stato poi delineato mediante la scansione di alcune sezioni trasversali e longitudinali, relazionate alla simmetria naturale dell’edificio. Nel corso di queste fasi operative, si è utilizzata una stazione topografica integrata, dotata di distanziometro Wild Dior per la misura diretta sul paramento murario; una procedura software opportunamente preparata ha consentito la correzione automatica della distanza e dell’angolo zenitale osservati, per eliminare gli effetti di eccentricità verticale del puntatore laser. La geometria delle pareti esterne è stata quindi ricostruita attraverso il procedimento fotogrammetrico, che ha definito i dettagli costruttivi e ha permesso la loro aggregazione nello spazio oggetto. Per questo, la fase di ripresa si è articolata in forme diverse che hanno contemplato sia il classico 220 M. Costagliola, “Nuove acquisizioni sui restauri novecenteschi della chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento”, Apollo, 18, 2002, pag. 54 221

CFR L. Colombo, “Il rilievo tridimensionale di Santa Sofia a Benevento”, in Anagke, 9, 1995, pagg. 92-95

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CAPITOLO II procedimento stereoscopico sia la modalità monoscopica, più idonea per le zone a visibilità limitata. Il progetto della copertura fotogrammetrica rivestiva già allora una grande importanza nell’organizzazione del rilievo delle strutture architettoniche; era già possibile però operare anche prescindendo dall’osservabilità stereoscopica classica, per l’accresciuta potenzialità dei sistemi fotogrammetrici monoscopici.

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CAPITOLO III

CAPITOLO III

3.1 La chiesa di S. Salvatore a Spoleto e il Tempietto sul Clitunno: dubbi sulle origine e indagini sulle loro storie "I due singolari edifici hanno patito varie vicende. La loro storia comincia dall'attività pagana. Ambedue da monumenti pagani furono volti ad uso cristiano. Il medioevo non soltanto se ne valse per adunarvi i fedeli alla preghiera, ma vi lasciò anche tracce non dubbie dell'arte sua propria".222 "...Queste decorazioni simboliche inserite nei due monumenti della valle spoletina e di cui fu grande la risonanza nella regione umbra, sono l'indice molto espressivo dello spirito di classicismo che animava i promotori del lavoro, i quali, del resto, non facevano che seguire la vasta corrente che il Venturi ha chiamato neo-classicismo del secolo XII, forse causa prima e ragion d'essere di questa nobile scuola del restauro."223 Così si esprimono padre Grisar e I.C. Gavini riguardo due monumenti del territorio umbro ovvero il Tempietto del Clitunno e la chiesa di San Salvatore di Spoleto. In realtà questo capitolo si prometteva la trattazione di solo uno di questi due monumenti e cioè del Tempietto, ma non solo le notizie su questo sono quasi del tutto inesistenti se si escludono gli studi del De Rossi, di Padre Grisar e il testo della Benazzi, ma soprattutto non se ne trovano che non facciano riferimento ad entrambi gli edifici. Effettivamente, le analogie fra i due sono molte, soprattutto dal punto di vista della loro storia conservativa. Curioso notare come proprio il loro inserimento nel quadro artistico medievale o in qualche cornice stilistica cronologica sia ostacolata dai numerosi rimaneggiamenti a cui venne sottoposto. Ma forse qui non è opportuno parlare di rimaneggiamenti o ristrutturazione. Bensì di restauri storici. Non perché l'intervento sia stato condotto con qualche criterio di scientificità, ma perché lo stesso non venne operato con intenzione appunto ristrutturativa, l'edificio non versava in pessime condizioni, ma si trattò 222

I. C. Gavini, “Restauri del Medioevo: il tempietto del Clitunno e la chiesa del San Salvatore di Spoleto”, in Bollettino d’arte, 3, serie 27, 1933/34, pag. 3

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Ivi, pag. 6

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CAPITOLO III proprio di una scelta di gusto. Nella corso degli studi storici artistici, in generale, spesso queste incertezze di incasellamento e categorizzazione sono state, a volte a buon diritto, giustificate con il concetto di periodo di transizione, individuando momenti in cui vi erano dei ritorni di elementi non appartenenti a quel crinale storico, ma che si riaffacciavano per questioni spesso inspiegabili. Di per sé questa spiegazione sembrò, fino a un certo punto, soddisfacente per chiarire i numerosi problemi che offriva il Tempietto, ma a un tratto tutto ciò non bastò. Si dovette inserire nelle dissertazioni e nelle critiche un nuovo parametro, prima non adeguatamente considerato, ma fondamentale. Ora se ne capisce l'importanza visto l'aumento del livello di studio dei monumenti e la più ampia capacità investigativa sugli stessi che si sa fare anche dal punto di vista tecnico. E' come se i due monumenti del Tempietto e del San Salvatore avessero vissuto una nuova nascita, una seconda vita a causa del restauro per noi storico, in quanto subìto in un periodo molto lontano. Di questo restauro il tempo ha cancellato i dati più evidenti, ma di esso possiamo rintracciare prove, mancando una documentazione scritta, attraverso ragionamenti intuitivi, attraverso elementi presenti nell'architettura dissonanti con le condizioni d'ambiente di quel periodo artistico. Pare che dopo i restauri avvenuti sotto il regno di Teodorico, avvenuti con scopi primariamente conservativi, non si registrino restauri di edifici cadenti. Dobbiamo arrivare fino ai secoli XI e XII per ritrovare un nuovo fervore di vita artistica che si accese in tutto il mondo cattolico. L'opera dei restauratori di questo periodo fu molto particolare: essi erano molto lontani, ovviamente, dal possedere i criteri di restauro improrogabili per noi per quello che è un momento innanzitutto metodologico e critico. L'arte del restauro non aveva metodi e leggi, quindi la resurrezione di un'opera avveniva dando adito a nuovi elementi nella configurazione generale che si connaturavano ai vecchi e talvolta la fusione avveniva in maniera talmente mirabile da non poter più riconoscere i primi e i secondi.224 Il fatto che il restauro mancasse di scientificità non ci deve portare a credere che mancasse di senso archeologico. Anzi questi restauri sono prova del contrario. Si operava con 224

CFR I. C. Gavini, “Restauri del Medioevo: il tempietto del Clitunno e la chiesa del San Salvatore di Spoleto”, in Bollettino d’arte, 3, serie 27, 1933/34, pag. 1-6

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CAPITOLO III molta inventiva, ma anche con molto rispetto per quello che veniva già considerato un monumento importante proveniente da un passato lontano, ma da imitare. Proprio per questo, per l'amore che si provava verso l'opera, gli si voleva infondere nuova vita, imitando quegli stilemi e quei modelli che lo avevano reso grande. Gli artisti, e quindi anche i restauratori, erano spinti da un istintivo apprezzamento del classicismo e un attaccamento alla tradizione. Il concetto dell'impero di Roma non era sparito ed era questo che scacciava ogni timore di plagio. La fascinazione per quel periodo storico diventava fascinazione per quelle forme che avevano dato immagine a quei valori; si voleva che quelle antiche memorie rivivessero, ma che di esse non si disperdesse il carattere primitivo. Come se quello che significavano non potesse prescindere dalle forme che lo comunicavano. Il Tempietto sulle rive del Clitunno era dedicato al Dio degli Angeli e insieme alla chiesa di San Salvatore di Spoleto offrì appunto agli studiosi non pochi interrogativi da risolvere e dubbi da sciogliere. Agli inizi alcuni storici dell'arte pensarono addirittura di poter gridare alla mirabile scoperta di due edifici di culto cristiano databili IV e V secolo, ma ad alcuni più cauti esperti sembrò più opportuno indicare il ritrovamento di due edifici pagani riadibiti a culto cristiano in tempo costantiniano. Le due opere oltre ad essere consimili per storia conservativa sono analoghi per gusto artistico: entrambi sono permeati di gusto classicista. Quello spirito informa sia il Tempietto dalle chiare connotazioni pagane, ma anche la chiesa spoletina. E' vero, nel ripercorrere quel linguaggio vi sono delle scorrettezze, ma vi sono anche delle abilità di esecuzione plastica degne di un vero e proprio artista greco o latino. L'arte classica si piega al servizio del pensiero cristiano.225 I timpani e i fregi non sono aggiunti, ma inseriti nella struttura stessa e in essi si ripete costantemente il monogramma di Cristo legato a motivi d'acanto e tralci di vite. Proprio queste elemento posto come centro di motivi floreali portò il De Rossi a riconoscere una vera e propria "scuola speciale architettonica cristiana […] conservante ed imitante le fogge classiche".226 Oltre alla già citata opera del De Rossi, ricordiamo che l'unico studio di una certa qualità 225

CFR I. C. Gavini, “Restauri del Medioevo: il tempietto del Clitunno e la chiesa del San Salvatore di Spoleto”, in Bollettino d’arte, 3, serie 27, 1933/34, pag. 1-6

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CAPITOLO III e calibro venne compiuto da padre Grisar, trattandosi questi dei due punti di riferimento fondamentali, si sottolinea comunque come debba ritenersi necessario e indispensabile un'analisi, che partendo da questi due studi, verifichi il fenomeno su una più ampia gamma di monumenti presenti in territorio umbro databili IV e V secolo. Il Grisar notò anche “salti bruschi di sagome, irregolarità nella congiunzione dei pezzi, forme bizzarre e fuori regola nei capitelli e nelle basi, discordanza barbarica fra le due colonne esterne e i loro capitelli".227 Tutto sembra accennare a un rifacimento tale e di epoca tarda, ma quale fu quest'epoca? Una delle ipotesi che va per la maggior è che il rifacimento sia avvenuto nel periodo in cui fiorì la scuola dei marmorari umbri, di cui uno dei maggiori esponenti fu quel Gregorio Melioranzio,228 discusso autore del portale del duomo di Spoleto, in generale divenuto importante e illustre per l'esecuzione di sculture e opere di architettura nella seconda metà del secolo XII. Da qui a dire che i due monumenti furono restaurati dagli artisti umbri del medioevo il passo è breve, ma deve essere cauto. Un dato di fatto è che soprattutto il Tempietto si presenta come un'opera frammentaria nella quale, a partire da un nucleo originario, coerente e omogeneo, vennero inseriti materiali tolti da edifici pagani che si addensavano intorno al Clitunno. Stessa sorte probabilmente toccò al San Salvatore spoletino. In questo caso, la tesi che sembra più accreditata è quelle che vede monaci siriaci, dell'Asia Minore o dell'Egitto trasferiti in queste terre i quali abbiano portato con loro modelli di chiese esistenti nelle terre natie, influenzate dai modelli architettonici degli edifici imperiali di quelle province. “Si è tentato di spiegare la fusione di oriente e di occidente nel nostro edificio; e se abbiamo già accennato all’affermarsi della civiltà romana a Spoleto, che concorda con il carattere dell’intera regione così ricca tuttora di monumenti antichi, per gl’influssi orientali ci 227

I. C. Gavini, “Restauri del Medioevo: il tempietto del Clitunno e la chiesa del San Salvatore di Spoleto”, in Bollettino d’arte, 3, serie 27, 1933/34, pag.3

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Un Gregorio Melioranzio o Miglioranzo capeggiò i marmorari umbri, secondo il Grisar, Autori della porta al duomo di Spoleto, mirabilmente ornata(XII sec.). Il suo nome è inciso sulla figura di un violinista nello stipite sinistro della porta e qualcuno esclude che il Melioranzio sia scultore e caposcuola, essendo invece l’ inventore o un celebre suonatore del violino, strumento lì eternato dal vero Maestro della porta. Tuttavia il fatto che il suo nome non sia accompagnato da lode, come usavano i marmorari umbri e gli artisti in genere di questi tempi, non basta ad ammettere che Melioranzio non sia l'Autore della porta di Spoleto; ma la questione su questo Maestro può essere ancora dibattuta.

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CAPITOLO III soccorrono le vecchie leggende relative alle origini e alla diffusione del Cristianesimo in quella città che sono siriache. I martirologi spoletini recano le passioni di martiri e notizia di molti cimiteri cristiani. A tali leggende – già ritenute del II e del III secolo – si attribuisce oggi una meno remota antichità; ma certo è che Isacco di Antiochia si recò dalla Siria a Spoleto per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Anastasio e fondò un eremo sul Monteluco, secondo la testimonianza di S. Gregorio Magno nei suoi “Dialoghi”. Il che dimostra come nel secolo V si fosse già attuata una emigrazione siriaca in quella città se Isacco la scelse come rifugio sicuro. Con ciò non potremmo unirci a chi ha affermato il San Salvatore opera di monaci venuti dall’oriente. Ciò significherebbe forzare gl’influssi e negare all’edificio gli evidenti caratteri occidentali, connessi all’apporto romano cioè quei diversi elementi culturali rivelati dal nostro esame. Che però questo monumento di eccezione, nel conservare un respiro tardo antico, rifletta una esperienza “mediterranea”,

pare certo, in rapporto con le

tendenze che guidano gli scultori nell’opera decorativa”.229 Quando qualora comunque non si raggiunga l'evidenza dell'ipotesi comprovata da dati di fatto, appare evidente come anche il San Salvatore di Spoleto sia stato rimaneggiato non con un modulo creativo, ma riproduttivo e reinterpretativo di un modulo orientale rintracciabile ad esempio nella disposizione scenografica del presbiterio che ricorda molto da vicino quella della basilica di Kogia Kalesi in Asia Minore. La frammentarietà della chiesa spoletina, con le sue grandi colonne di tutte gli ordini disposte in maniera arbitraria intorno alla sala quadrata, rivaleggia addirittura con alcune chiese egiziane ed asiatiche altomedievali. E' un insieme fastoso e costruito con eccellenza di materiali di spoglio, ma nel quale ci si è scordati delle buone regole vitruviane. E' un'arte medievale fondata sugli avanzi della migliore epoca classica. E' evidente che vi operarono gli stessi restauratori del Tempietto, "ma qui non si trattava solo di qualche elemento da aggiungere a un antico scheletro, bensì della riproduzione di modelli, di cui non si conoscono altri esempi in Italia." 229

230

Per quanto riguarda la dedicazione al Salvatore, così

M. Salmi, “La basilica di San Salvatore di Spoleto”, Firenze, 1951, pag. 45

230

I. C. Gavini, “Restauri del Medioevo: il tempietto del Clitunno e la chiesa del San Salvatore di Spoleto”, in Bollettino d’arte, 3, serie 27, 1933/34, pag. 5

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CAPITOLO III Bruno Toscano: “La dedica più antica dell’edificio fu probabilmente a S. Concordio, che la tradizione agiografica afferma sepolto in questo luogo. Più tardi (sec VIII?) in occasione di un radicale restauro, conseguente ad uno sconosciuto evento distruttivo, la chiesa ebbe il titolo del Salvatore, comune a molte chiese altomedievali, e come tale è citata in documenti dell’815 e dell’840. Nel secolo XI riacquistò la primitiva denominazione, durata almeno fino ai primi anni del Seicento, allorché la devozione per il martire spoletino e per il suo compagno Senzia cedette il posto a quella per l’immagine di Cristo crocifisso distaccata da un altro luogo e in seguito collocata sull’altar maggiore: si giunse così al titolo di chiesa del Crocifisso”.231 Lo studioso prosegue annotando che, visti i numerosi lavori per il ripristino dell’originale edificio paleocristiano, forse sarebbe auspicabile un ritorno all’antica dedicazione. E’ in un altro testo che Toscano ci offre un mirabile confronto fra alcuni dipinti e l’architettura spoletina, ad esempio nota come nei dipinti di Filippo Lippi, nella tribuna del duomo spoletino, i capitelli del portichetto in cui siede l’Annunciata sono fedelmente desunti da un tipo presente a San Salvatore in due posizioni: il primo nella colonna dell’ultima campata della navata destra, l’altro sul sostegno aggiunto nel lato sud del presbiterio; del resto lo stesso storico d’arte aveva già asserito nel medesimo testo che: “per quanto riguarda la fortuna del monumento, è noto che furono soprattutto l’età romanica ed il rinascimento a guardare con rinnovato interesse alla sua struttura e alla sua decorazione. Il Salmi ha giustamente messo in rilievo i motivi che alcune chiese spoletine dei secoli XII e XIII desumono dalla basilica, ed ha mostrato con quanto fervore essa fosse misurata da alcuni grandi architetti e teorici del Cinquecento, da Antonio da Sangallo il Giovane al Serlio, dal Sanmicheli al Palladio. Io posso soltanto aggiungere qualche breve nota sui riflessi più squisitamente locali, suscitati dalla presenza di un così solenne monumento, in particolare nei secoli della rinascenza”.232 Il Russo è d’accordo con il Salmi nell’attribuire il Tempietto del Clitunno a un periodo che va dalla fine del IV secolo al corso del V

231

B. Toscano, “Spoleto in pietre. Guida alla città”. Spoleto, 1963, pag.19

232

B. Toscano, “Scritti in onore di Mario Salmi”, I, Roma, 1961, pag. 91

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CAPITOLO III secolo. Del Tempietto si è lungamente occupato anche il De Angelis D’Ossat. Limitandoci alle parti contemporanee alla costruzione del Tempietto, nonostante gran parte del materiale sia di spoglio, i timpani esterni risultano cristiani, ad essi vanno aggiunti i tre originali architravi con le iscrizioni. Le loro decorazioni a kysmation lesbio e ad astragali sono simili a quelle dei portali del San Salvatore a dimostrazione dell’intima unione dei due monumenti. Anche i timpani riprendono fedelmente i fregi dei portali del San Salvatore. In particolari, degno di nota è un timpano che arrivato in stato frammentario, per la sua qualità formale superiore, Salmi non aveva considerato pertinente all’edificio e per qualcuno addirittura proveniva dalla vicina pieve di San Michele per poi essere trasportato nel tempietto solo dopo il 1810. Probabilmente invece appartiene al Tempietto e potrebbe essere stato trasportato nella pieve dopo il terremoto del 1730 per poi ritornare nel luogo d’origine. Il Russo afferma di essere stato l’ultimo ad averlo fotografato, nel 1980, perché dopo venne rubato. All’interno della cella c’è un frontone del tipo cosiddetto siriaco che richiama quello nel palazzo di Diocleziano a Spalato o nella Santa Sofia teodosiana a Costantinopoli. Tutto ciò ci attesta l’abilità degli artefici e l’imitazione della cornice di spoglio del frontone, ma anche, secondo il Russo, l’indubitabile età paleocristiana in cui tale adattamento è avvenuto, appunto per vicinanza coi portali del San Salvatore. L’archivolto del frontone richiama alcuni sarcofagi ravennati del V-VI secolo, ma anche il sarcofago di Sariguzel detto del principe, conservato nel Museo Archeologico di Istanbul, capolavoro della plastica costantinopolitana della seconda metà del IV secolo e con il sarcofago della chiesa di S. Francesco a Ravenna. Da non tralasciare il confronto con il sarcofago n. 174 delle Grotte Vaticane, del terzo quarto del IV secolo. Il Salmi ha giustamente anche richiamato alla mente la porta lignea di S. Ambrogio a Milano, mentre il Salmi, il Toesca e il De Rossi ritengono il Tempietto posteriore del San Salvatore di circa un secolo, “per lo stile più incerto delle pitture e anche per le forme epigrafiche”233 e per il confronto con gli avori di Boezio. Ma al Russo la decorazione del tempietto appare soltanto di poco posteriore a quella del S. 233

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pagg. 139-141

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CAPITOLO III Salvatore e di conseguenza si accosta alla valutazione del De Angelis D’Ossat. Per smentire una datazione all’VIII secolo il Salmi ha fatto riferimento all’architrave della porta sinistra della facciata di S. Gregorio a Spoleto e aggiunge che fra il S. Salvatore e il Tempietto e fra la lastra tombale di Adriano I e i bronzi della cappella palatina di Aquisgrana intercorre la stessa distanza che passa fra S. Prassede e una basilica paleocristiana. “In tale decorazione andrà in futuro approfondita la diversità tecnica e qualitativa, oltreché formale, tra le varie parti, frutto di apporti e di tendenze differenti, pur nel medesimo contesto cronologico – un certo parallelismo si può istituire a questo proposito con quant’appare nella porta lignea di S. Sabina -, di contro all’unitarietà mostrata al riguardo dal S. Salvatore”.234 Il Russo afferma nel suo studio che “abbiamo dunque raggiunto, almeno sul piano cronologico, conclusioni assai simili a quelle cui è arrivato il Salmi, sebbene per altre vie e con altri argomenti, e speriamo d’aver contribuito a chiarire definitivamente almeno una parte dei problemi che ci propongono due unica quali sono S. Salvatore e il Tempietto sul Clitunno. Non mette conto sottolinear ancor una volta l’importanza di tali conclusioni, giacché la presenza nel panorama occidentale dei due edifici tra la fine del IV e il corso del V secolo fa maturare completamente il quadro storico artistico con cui dovremmo fin d’ora in poi confrontarci.”235 S. Salvatore è una chiesa che è giunta a noi sfigurata dalle vicende dei secoli, sia dal punto di vista architettonico che decorativo. In origine era a tre navate e con parete di fondo rettilinea, poco dopo però forse proprio durante i lavori di costruzione, venne modificato con l’aggiunta di un’abside. Non ci si soffermerà qui a lungo sulla descrizione dell’architettura spoletina, visto che il testo di Salmi del 1951 ce ne offre una validissima e dettagliatissima, ma si vuole almeno sottolineare il presbiterio ricco di elementi e ornamentazioni d’estrazione orientale siriaca. Il Deichmann, di cui si avrà modo di parlare più avanti, controbatte la datazione del Salmi a un età paleocristiana, argomentando che tutte le decorazioni che il Salmi riteneva paleocristiane sono materiali di spoglio e 234

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pag. 143

235

Ibidem

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CAPITOLO III che, per quanto le incorniciature e le cornici potrebbero essere state riadoperate, che i fregi con le croci potrebbero essere stati inseriti in portali più antichi, non si può escludere che tutti gli elementi dei portali così come le incorniciature delle finestre siano stati eseguiti ad hoc. “E’ certo che l’ornamentazione del S. Salvatore fu adoperata ben simile all’Urbe ancora nel pieno medioevo. L’ulteriore svolgimento delle ricerche mostrerà che solo in rari casi nell’età tardo antica una tendenza classicista sembra essere stata la causa per un ampio impiego di spoglie”.236 Insomma il Deichmann ribadisce la sua posizione che assegna il S. Salvatore ed il Tempietto ad un età carolingia. Il Russo nel suo studio, proprio perché all’epoca di Salmi, vista ancora l’immaturità di certi studi, era facile scambiare alcune sculture romane per paleocristiane e viceversa, intende soffermarsi su quelle sculture dei due edifici che sono sicuramente cristiane per via della presenza della croce. Sicuramente cristiani, quindi non di spoglio, solo nel S. Salvatore i fregi dei tre portali e le decorazioni delle tre finestre in facciata. Effettivamente questi tre fregi e queste tre decorazioni sarebbero facilmente attribuibili a un’età paleocristiana se il contesto in cui si trovano inseriti e cioè stipiti, architravi, mensole e cornici non fossero così squisitamente classicheggianti, ma non con certezza materiali di spoglio. Questa esuberante commistione offre un curioso parallelismo con i resti della S. Sofia teodosiana a Costantinopoli. Anzi la quasi sicurezza del fatto che non si tratta di materiali di spoglio ce la dà l’identità e la forma e il ritmo che gli astragali delle finestre hanno rispetto a quelli degli stipiti e degli architravi. Appare, insomma evidente, una contemporaneità tra i fregi con le croci e le mensole e gli stipiti e gli architravi data da un’identità di concezione inconfutabile. Ma d’altra parte a un confronto con l’arco di Costantino, le cornici sopra i portali, risultano reimpiegati e non eseguiti ex novo; se si considera inoltre come viene lavorato il trancio nei fregi, in maniera assolutamente assimilabile a quella riscontrabile nella porta lignea di S. Sabina, il Russo ritiene opportuno datare e il S. Salvatore e il Tempietto a un’età paleocristiana. Il Salmi, non trovando facili risconti e confronti con la scultura, si rivolse agli avori, trovando analogie nel dittico dei Nicomachi e 236

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pag. 96

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CAPITOLO III dei Simmachi o quello di Rufio Probiano o la valva di dittico con le pie donne al Sepolcro del Castello sforzesco di Milano. Per toglierci dall’imbarazzo, nel seguire queste considerazioni, per quanto valide, date dalla critica che portò a queste constatazioni il Salmi, il Deichmann asserendo che gli avori, effettivamente, discendono da tutt’altra tradizione di bottega rispetto alle sculture, fa riferimento ad opere scultoree come i sarcofagi. Partendo da quello di Solona detto del “Buon pastore” per arrivare al numero 154 del museo Pio Clementino o a quello di Hydria Tertulla del museo cristiano di Arles o al sarcofago di Giunio Basso o al sarcofago di Concordio sempre ad Arles o al sarcofago di Probo nelle Grotte vaticane, a quello di Sant’Ambrogio a Milano, a quello numero 106 sempre del Museo Pio Cristiano o al Borghese del Louvre o a quello con Cristo tra i dottori sempre ad Arles, i raffronti possibili sono numerosi e stimolanti. Notare che tutti i sarcofagi elencati sono databili fra la fine del IV secolo, questo per il Russo è un altro chiaro dato da considerare per la datazione del San Salvatore e del Tempietto. A questo punto riteniamo opportuno introdurre due importanti concetti, che per una maggiore comprensione del S. Salvatore e del Tempietto andrebbero fatti dialogare: da una parte, usando le parole del Russo, “quant’abbiam esposto finora ci fa capire che le maestranze che han decorato il S. Salvatore son di prim’ordine nel panorama globale del tempo, superiori come s’è detto a quelle dei sarcofagi all’incirca coevi, e anche per questo han costituito – e costituiscono – un problema circa l’inquadramento della loro origine e della loro formazione culturale”237, dall’altra, sempre usando le parole dello studioso, “risulta sensibile l’intervento di maestranze orientali, le quali operano tuttavia in un contesto occidentale. Ciò è percepibile in varia misura nella plastica presente in Occidente nella seconda metà del IV secolo, ma è un fenomeno che attende ancora un’esatta individuazione e definizione.”238 “La difficoltà d’inquadramento dal punto di vista formale delle maestranze di S. Salvatore risiede appunto nel fatto ch’esse son a mio parere orientali, ma interpretano i motivi alla maniera occidentale; non solo, ma tale interpretazione è 237

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pag. 121

238

Ibidem

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CAPITOLO III intenzionalmente e massimamente classicista, però vissuta con spirito orientale. Ne risulta pertanto un colorismo assai raffrenato, specialmente nei fregi dei portali: e tuttavia certe punte di algido classicismo vengon immediatamente contraddette – appunto per lo spirito, cioè per la formazione e la cultura orientale.”239 Ci si rende conto, in questa sede, della difficoltà di individuare delle specificità nelle modificazioni provocate dall’inevitabile interazione uomo – ambiente, soprattutto in una realtà ricca e complessa e culturalmente così variegata realtà come quella che offriva Roma nel IV secolo, grande contenitore d’opere d’arte e di tradizioni antiche. Ma il fatto che si stia parlando di una capitale in cui si ritrovavano, incontravano tanti secoli, tanti uomini delle più svariate provenienze, incentiva chi scrive a pensare che quello delle maestranze e della mobilità delle idee e dei manufatti, e dell’individuazione quindi di fenomeni che ne spieghino altri altrimenti inspiegabili, debba diventare criterio di studio e metodo di analisi per nuovi progressi alla ricerca.

239

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pag. 123

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CAPITOLO III 3.2 Studi e studiosi intorno al S. Salvatore di Spoleto e al Tempietto del Clitunno: gli affreschi e il loro restauro Vista la scarsezza dei contributi di studiosi e per dare anche un punto di riferimento dal quale eventualmente ripartire, si compirà una rassegna degli scritti più importanti di studiosi riguardo la trattazione dei due monumenti umbri. L’abbrivio alle ricerche lo diede la celeberrima querelle fra il Salmi e il Deichmann riguardo la datazione della chiesa e del Tempietto. Come già accennato, il primo li faceva risalire a un età paleocristiana, mentre il secondo propendeva per una datazione afferente alla seconda metà dell’VIII secolo. Il Salmi si era occupato per la prima volta del Tempietto nel 1921, il Deichmann intervenne nel 1943. Il Salmi reagì ancora nel 1950 e successivamente con la celebre monografia del 1951, oltre agli interventi del 1962, del 1965 e del 1968, infine ribadì la sua posizione ancora nel 1980. Dalla monografia del Salmi del 1951 si vuole riportare un breve esemplificativo passo: “In Umbria e particolarmente a Spoleto troviamo dunque dal secolo VI al secolo IX una scultura ornamentale di valore estetico vario che non raggiunge il valore di certi pezzi dell’Italia settentrionale ma che è sostanzialmente distaccata da quella della nostra basilica e da quella del tempietto del Clitunno. I quali, proprio nel secolo in cui si vorrebbe datare, avrebbero, nel caso, promosso una fioritura di ben altra qualità. Risulta pertanto anche da questa indagine quanto sia assurda la datazione dei due edifici insigni nella seconda metà del secolo VIII e come dobbiamo fermarci per il San Salvatore alla fine del IV – prima metà del V secolo; per il tempietto al V secolo avanzato”.240 Il Verzone, se dapprima aveva patteggiato per Salmi nel 1968, nel 1969 ha un sensibile cambio di opinione, proponendo la data del VII secolo e l’intervento di duchi longobardi. Aderisce al Salmi il Toscano pronunciandosi nel 1961 e nel 1981. Nel 1963 il De Angelis d’Ossat definisce “persuasivo ed esauriente” lo studio di Salmi. Nel 1966 il Grabar è invece vicino alla posizione del Deichmann, ugualmente al Torp che precisa la sua idea nel 1977, nonostante attribuisca a un’epoca altomedievale, più precisamente longobarda,

240

M. Salmi, “La basilica di San Salvatore di Spoleto”, Firenze, 1951, pag. 49

139


CAPITOLO III l’edificazione dei locali laterali alla basilica. Nel 1981 il Pardi accoglie le proposte del Salmi, similmente al Giorgietti del 1984. Si affianca invece a quello del Deichmann la posizione del Delvoye nel 1986. Riguardo il Tempietto il Marrou è vicino alle ipotesi deichamanniane, opponendosi quindi al De Rossi e a Bruno Toscano. Il Bertelli pure propose nel 1983 una datazione all’VIII-IX secolo. Questo lo stato degli studi sull’architettura del Tempietto e della basilica con le conseguenti datazioni. Nessuna traccia di studio sugli affreschi, o per lo meno, nessun riferimento agli affreschi come elementi utili per attribuire i due edifici ad una specifica epoca. Riportiamo un riferimento che fece agli affreschi del Tempietto il Toesca:

“(gli

affreschi) sono certamente posteriori d’assai alla decorazione plastica: furono infatti eseguiti forse nel secolo VII, quando erano già state asportate le colonnine che sorreggevano le cornici”,241e soffermiamo l’attenzione sullo studio che ne fece il prof. Parlato su “Storia della pittura italiana”. “Secondo Maria Andaloro i dipinti raffigurano un trionfo celeste; se ora ricostruiamo l’originario aspetto della parete di fondo, integrandola con le colonnine un tempo disposte sulle pareti ai lati dell’abside a incorniciare le palmette, il timpano adesso mutilo viene a costituire una sorta di serliana, più esattamente un fastigium, elemento dell’architettura imperiale romana cristianizzato e assimilato nell’iconografia del Salvatore, in ragione del contenuto “regale” connesso a tale forma architettonica. Dunque le cornici marmoree sottolineano il significato trionfale della teofania, da intendersi come apparizione aliena da contenuti millenaristici che solo a partire dalla renovatio carolingia e con forme diverse verranno attribuiti a tale iconografia. Il restauro degli affreschi (1984-1985) – e quindi il recupero di un testo pittorico alterato nel disegno e nei rapporto cromatici da arbitrarie reintegrazioni e ridipinture – ha consentito di apprezzare l’alta qualità dei dipinti, di rivedere il severo giudizio del Salmi e di considerarli, forse, il bandolo più importante nella matassa dei problemi connessi al tempietto. Alla vigilia dell’intervento conservativo, Carlo Bertelli vedeva le due “icone” dei Santi Pietro e Paolo in stretto rapporto con gli affreschi firmati da Crescentius a San Lorenzo fuori le mura in Roma risalenti alla fine 241

E. Russo “Su San Salvatore di Spoleto e sul tempietto del Clitunno”, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 8, 1992, pag. , pag. 94

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CAPITOLO III dell’VIII secolo. A lavori compiuti Judson Emerick proponeva una datazione quasi ad annum ancorando i dipinti al breve, ma artisticamente significativo, pontificato di Giovanni VII: gli apostoli di Santa Maria Antiqua a Roma costituiscono, a detta dello studioso, uno stringente parallelo con i santi Pietro e Paolo dipinti nel tempietto. Per Maria Andaloro invece le pitture murali umbre vanno, sì, messe in relazione con l’ambiente romano, ma è proprio l’età di Giovanni VII a costituire il terminus post quem. I diversi punti di vista appena riportati concordano comunque nel ricollegare gli affreschi del Clitunno con la cultura romana del VII secolo, con un mondo dove la lingua greca talvolta prevale su quella latina. Il problema cronologico rimane aperto; solo l’emergere di una prova oggettiva – evento altamente improbabile – potrà suffragare in modo definitivo una delle diverse proposte”.242 Ricapitolando, per secoli la fama che ha accompagnato il Tempietto sul Clitunno, la sua immagine così fortemente antichizzante, il contesto paesistico e naturale furono fattori che hanno reso più difficile una chiara storicizzazione del monumento. Gli studi più recenti escludono, dopo invece pagine e pagine di dati riportati per avvalorare questa ipotesi, sia il riferimento alla tarda antichità, sia quello opposto che ha visto nel Tempietto un monumento revival romanico; stando ai risultati delle ricerche archeologiche di Emerick, il tempietto sarebbe frutto di due campagne costruttive da collocarsi tra il VI e l’VIII secolo, alla seconda delle quali si deve la facies intensamente antichizzante, ancora oggi caratteristica saliente del monumento. A questa seconda fase risalirebbe le rovinatissime pitture imitanti grandi tarsie marmoree dell’ambiente terreno e, di certo, gli affreschi della cella. La superstite decorazione pittorica consta di un Salvatore benedicente a mezzo busto con il libro gemmato dipinti nell’absidiola, nella Croce (ormai illeggibile) affiancata da busti di Angeli clipeati, nella parte superiore della parete di fondo e nei santi Pietro e Paolo disposti simmetricamente ai lati del cilindro absidiale. Pittura e scultura costituiscono nella cella un insieme unitario: si nutrono entrambe della medesima atmosfera antichizzante; e anche le membrature architettoniche

242

E. Parlato in AA. VV., “La pittura in Italia”, L’Altomedioevo, Electa, 1994, pag. 181-182

141


CAPITOLO III hanno un ruolo fondamentale nell’organizzare la decorazione pittorica soprattutto nel coerente rapporto con l’iconografia degli affreschi. Una ricerca storica artistica avviata da un restauro che destruttura anni di ipotetiche datazioni, quindi. Proprio in occasione del restauro a cura della dott.ssa Giordana Benazzi, degli anni Ottanta, si diedero vita ad analisi più strutturale del complesso, studiandone la documentazione relativa alla storia conservativa e compiendo ricerche accurate che indagassero architettura, scultura e pittura, prendendo in considerazione sia le problematiche relative alla datazione che quelle più attinti al restauro. “Il restauro appena concluso, motivato dall’urgente necessità di provvedere al consolidamento di alcune zone dell’intonaco affrescato che presentavano preoccupanti distacchi dalla muratura, rappresenta l’ultimo atto nella storia della conservazione delle decorazioni del Tempietto. Nel corso del lavoro, condotto con cauta e meticolosa attenzione, i dipinti murali, che si trovavano in uno stato di quasi totale illeggibilità sono venuti rivelando una qualità pittorica finora quasi insospettata, che va ad aggiungersi alla già riconosciuta importanza storica; e la bella figura dell’angelo, cui la tecnica adottata dall’ ignoto artefice – il colore è steso a fresco su di una scialbatura di calce pura – conferisce una vibrata luminosità, va a porsi con decisione tra i vertici toccati dall’arte dei primi secoli del medioevo.”243 Questa tesi, proprio e soprattutto in questo capitolo, si configura come una tesi sperimentale, condizionata, nello studiare non tanto la storia conservativa quanto la documentazione relativa alla conservazione dei siti analizzati, dalla lettura via via successiva di testi, ricerche e documenti a cui spesso però ci si avvicina influenzato dalle modalità di catalogazione e d’archivio delle biblioteche. Questo studio condizionato da circostanze e contingenze è assimilabile a ciò che è avvenuto ai dipinti murali del Tempietto. “Dal disegno duro, il contorno grosso, il modellato scarso e il colore tenue” apparivano a Mario Salmi alcuni decenni or sono il Cristo fra Pietro e Paolo e i due angeli. Il giudizio, assai severo, compendia in termini espliciti la scarsa considerazione della quale hanno goduto i dipinti dal momento del loro rinvenimento in poi. Severità e tiepidezze valutative mostrano curiosamente di non tenere nel

243

G. Benazzi, “I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno”, Ediart, 1985, pag. 32

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CAPITOLO III debito conto l’infelice stato di conservazione delle pitture, in gran parte camuffate, tra l’altro nelle cadenze da post-liberty paesano, ad opera del Branzani. Ora che, in seguito alla lunga e paziente opera di pulitura, siamo di fronte alle stesure originarie, seppure frammentarie e sciupate, risulta palese quanto quel giudizio del 1951 non le rifletta e come, col restauro, si sia recuperato un testo che se poteva dirsi noto nelle sue valenze iconografiche e latamente compositive, costituisce, invero, un’autentica scoperta per ciò che concerne i fondamenti delle sue strutture formali. In terra spoletina, nel Tempietto sul Clitunno, lo scarno e affascinante album della pittura alto-medievale viene ad annoverare un nuovo preziosissimo foglio: al pari di molti altri, ricco di spessori, complesso e, per certi versi, enigmatico”.244 Al momento del restauro, lo stato di conservazione dei dipinti era così descrivibile: “Volendo tracciare un quadro riassuntivo dello stato di conservazione dei dipinti nel Tempietto si potrebbe dire che gli strati preparatori erano interessati da difetti di adesione dell’intonaco alla muratura, particolarmente manifesti con pericolosissimi rigonfiamenti nel catino absidale in corrispondenza della figura di Cristo. Anche la coesione delle particelle degli strati preparatori era precaria, in particolare nella zona corrispondente al clipeo centrale sopra il timpano, dove è andata perduta la croce

gemmata

ancora

visibile

in

alcune

fotografie

del

1910.

Particolarmente localizzate sull’angelo a destra, sul Cristo e sulla palmetta a sinistra sono le lacune dovute a picconature eseguite in antico per far meglio aderire un altro strato di intonaco. La pellicola pittorica è invece interessata da diffuse abrasioni dovute in massima parte all’azione meccanica esercitata durante l’interventi di rimozione dello scialbo, del quale comunque rimanevano numerosi residui. Altri dati rilevabili sono le ridipinture a tempera, le stuccature a cemento, le firme graffite, alcune delle quali molto antiche, e le scritte recenti a penna e matita. Era presente inoltre uno strato di ricarbonatazione superficiale, particolarmente spesso e tenace in corrispondenza delle zone dove più massiccia è stata la presenza dell’umidità: tale strato, inglobante particellari atmosferici e depositi carboniosi, era talmente grigio ed opaco da offuscare pesantemente il testo

244

M. Andaloro in G. Benazzi, “I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno”, Ediart, 1985, pag. 47

143


CAPITOLO III figurativo”.245 Così, in sintesi, operò il restauro: “L’aspetto che ha maggiormente connotato l’attuale intervento di restauro è stata la scelta di mirare alla soluzione dei problemi conservativi e al recupero di una corretta “leggibilità” dell’immagine senza interferire minimamente sui materiali costitutivi e senza rischiare di occultare in alcun modo gli elementi che, dal punto di vista archeologico, potessero fornire utili indizi alla ricerca. Si è proceduto innanzi tutto alla asportazione, con mezzi meccanici, delle ricarbonatazioni, dei residui di scialbature presenti in almeno tre strati e delle pesanti stuccature a cemento che correvano lungo tutti i bordi dei dipinti. L’intonaco superstite è stato consolidato in tutto il suo spessore con una resina acrilica in emulsione (Primal AC 33 al 5% in acqua). I difetti di adesione tra intonaco e muratura sono stati risolti con l’iniezione di resine viniliche in emulsione (Vinavil NPC al 40 % in acqua). La pellicola pittorica sollevata è stata fissata con una resina acrilica in emulsione (Primal AC 33 al 10 % in acqua). Le ridipinture a tempera e lo strato più superficiale dei depositi carbonatati sono stati rimossi con prolungate applicazioni di una miscela solvente a pH basico (AB 57). Un ulteriore consolidamento, tanto del colore quanto della superficie dell’intonaco, è stato effettuato con successive impregnazioni di una resina acrilica in soluzione (Paraloid B 72, al 3% in diluente nitro). La presentazione estetica ha mirato a recuperare il massimo della leggibilità dei dipinti senza intervenire con la reintegrazione cromatica delle lacune. Si sono comunque effettuate, in zone campione, alcune prove che si è poi deciso di rimuovere in quanto la scelta definitiva è stata quella di procedere solo con velature ad acquarello, laddove il tono troppo chiaro degli strati sottostanti la pellicola pittorica interferiva nella lettura dell’immagine. Per non generare alcuna forma di confusione nella stratigrafia di un testo già così fatiscente e di difficile comprensione, non sono state effettuate le stuccature delle lacune ma solo un “rinzaffo” di quelle più profonde della muratura. Le pietre di varia colorazione, visibili in diverse zone a causa delle cadute dell’intonaco, sono state uniformate di tono mediante la stesura a pennello di una “colletta” di polvere di marmo ed emulsione acrilica. Ciò è stato indotto dalla necessità di ottenere, almeno a livello del substrato, una uniformità 245

G. Lolli in G. Benazzi, “I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno”, Ediart, 1985, pag. 56

144


CAPITOLO III cromatica che costituisca così un elemento arretrato, ma concessivo, per la frammentaria decorazione”.246

246

G. Lolli in G. Benazzi, “I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno”, Ediart, 1985, pagg. 56-57

145


CAPITOLO IV

CAPITOLO IV

4.1 La storia del monastero di S. Salvatore nella città di Brescia I prossimi due capitoli verteranno su due importanti monumenti altomedievali che si trovano nel Nord Italia. Lasciamo quindi l’area di influenza beneventana e l’Umbria con i suoi influssi tardo romani e paleocristiani, per dirigerci rispettivamente in Lombardia e in Friuli Venezia-Giulia. Iniziamo con l’analizzare il monastero di S. Salvatore, oggi Santa Giulia a Brescia. Secondo “un’antichissima pergamena in lettere longobarde”, annota la Baitelli nel 1657, la chiesa di S. Salvatore sarebbe stata consacrata nel 763, al 29 di ottobre, quando i corpi dei martiri “furono riposti con solennità in Arche sotto terra e nelli altari”.247 La notizia è ripresa dall’ordinario trascritto nel 1438, ma risalente ad epoca anteriore, che riporta anch’esso la data del 29 ottobre per la deposizione delle reliquie e aggiunge che la consacrazione venne effettuata da papa Paolo. Si tratta del medesimo papa che il 26 ottobre dello stesso anno o di quello precedente rilascia a S. Giulia, in un momento di concordia con il re longobardo Desiderio, un privilegio di totale esenzione del vescovo locale. Sia un lezionario martirologio del secolo XI, sia “un’epigrafe metrica che correva un tempo sull’abside di S. Giulia”248, attribuiscono esplicitamente ad Ansa249 la traslazione e la costruzione della cripta. La presenza delle reliquie nel monastero è attestata dal diploma di Adelchi250 del 766, che costituisce il termine ante quem per la traslazione, plausibilmente nella cripta, anche se si 247

G.P Brogiolo, “La nuova sequenza architettonica e il problema degli affreschi del San Salvatore di Brescia”, in “Arte d’Occidente: temi e metodo. Studi in onore di Angiola Maria Romanini”, a cura di Cadei, Roma, 1999, pag. 25

248

Ibidem

249

Ansa (... – Liegi?, post 774) fu regina dei Longobardi e regina d'Italia nell'VIII secolo, quale moglie di Desiderio (756-774). Già sposa di Desiderio quando questi era duca di Tuscia, collaborò attivamente alla politica del marito, soprattutto in campo religioso. A Brescia, città natale di Desiderio, nel 753 fondarono il monastero di San Salvatore, dotato di un'eccezionale ricchezza e affidato come badessa alla figlia Anselperga. Alla giurisdizione di San Salvatore sottomisero un'intera rete di complessi monastici tra Lombardia, Emilia e Toscana, creando una federazione direttamente controllata dal sovrano. 250

Adelchi (o Adalgiso) (... – 788 circa) fu un principe longobardo, associato al trono dal 759 al 774 dal padre Desiderio. Associato al trono del padre nel 759, la sua figura fu a lungo oscurata da quella di Desiderio. Allorché nel 769 Berta, la madre di Carlo Magno, combinò il matrimonio del futuro imperatore con la figlia di Desiderio, sembra che anche Adelchi sia stato fidanzato a Gisela, sorella di Carlo Magno; ma le nozze furono impedite dalla successiva rottura tra i Franchi e i Longobardi.

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CAPITOLO IV potrebbe sempre obiettare che questa sia stata una seconda collocazione rispetto ad una più antica di cui si potrebbe aver perso la memoria. Le fonti scritte, pur nella loro eterogeneità e ancora in assenza di uno studio critico complessivo, forniscono indizi univoci e fra loro plausibili, suggerendo che la cripta esisteva nel 763, conclusione accettata dalla maggior parte degli studiosi come punto fermo nella cronologia della chiesa”.251 L’aspetto fondamentale della comunicazione visiva non si fondava sul potere, pur straordinario in ogni momento storico, delle immagini, ma piuttosto sul fascino e sul potere consacratorio e taumaturgico delle reliquie. Gli apparati iconici e le diffuse narrazioni didascaliche “per immagine” servono più spesso soltanto come efficace cassa di risonanza per ricordare quell’altra più preziosa e più riposta presenza. La situazione, testimoniata per tutto il Medioevo a partire dal secolo VIII è fedelmente rispecchiata in pieno secolo XVII dalla già citata badessa di Santa Giulia, Angelica Baitelli, nei suoi Annali Historici, pubblicati immediatamente dopo la sua morte nel 1657. Nel progetto narrativo della plurisecolare storia del monastero giuliano, la Baitelli pone all’inizio il “Catalogo delle Santissime reliquie, che nelle chiese del serenissimo monastero di Santa Giulia riposano”; appunto “nelle chiese”, come a dire che ogni luogo deputato al culto (San Salvatore con le sue cappelle e la gloriosa cripta, Santa Maria in Solario così come la grande nuova basilica dedicata al culto della santa patrona) aveva veri e propri sacelli di volta in volta valorizzati lungo le ricorrenze dell’anno liturgico da una sapiente regia celebrativa. La visibilità si fondava soprattutto su questo patrimonio, che conferiva sacralità al cenobio e riverberava orgoglioso splendore sulla città come la Baitelli spiega e dimostra nel suo lavoro.252 La città di Brescia, fondata dai Galli Cenomani, diventò colonia latina nell’89 a.C., in virtù della “lex pompeia” che concedeva la cittadinanza romana agli Italici; nel 42 a.C. venne trasformata in “municipium civium Romanorum” e nel 27 a.C., all’inizio quindi dell’età augustea, ricevette il titolo di “Colonia Civica Augusta Brixia”. Nel territorio dell’Impero Romano, Brixia è posta 251

G.P Brogiolo, “La nuova sequenza architettonica e il problema degli affreschi del San Salvatore di Brescia”, in “Arte d’Occidente: temi e metodo. Studi in onore di Angiola Maria Romanini”, a cura di Cadei, Roma, 1999, pag. 25

252

CFR Pier Virgilio Begni Regona, “Aspetti della comunicazione visiva del culto. Il capitello e gli affreschi del cenobio”, in “Culto e storia in Santa Giulia”, pagg. 167-172

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CAPITOLO IV presso il confine fra le province senatorie e le province imperiali transalpine: assume quindi il ruolo di reclutamento e di raccolta di truppe legionarie e pretoriane. Fra le risorse economiche del territorio, oltre all’agricoltura e al commercio, sono fiorenti le attività estrattive (marmo e ferro) e quelle artigianali, fra le quali la lavorazione dei metalli (botteghe di bronzisti). La città romana ha impianto castrense: le strade seguono un tracciato rettilineo e si intersecano ortogonalmente. Centro della città romana, fin dalla metà del I secolo a.C., è il Foro (piazza) di forma allungata, a nord del quale viene eretto il tempio a quattro celle. In età imperiale sulle fondamenta del tempio repubblicano viene eretto un nuovo tempio (“Capitolium”), a sud del Foro la basilica (edificio pubblico, nel quale viene amministrata la giustizia), ad est del tempio il teatro, a sud-ovest le terme pubbliche, a ovest il magazzino annonario (“horreum”).253 Sulla via del decumanus maximus (oggi via Musei) si affacciavano, oltre agli edifici pubblici per il culto e per le attività politiche, le abitazioni della classe aristocratica, delle famiglie senatorie e dei grandi proprietari terrieri. Gli scavi condotti fra il 1958 e il 1971 nel perimetro del monastero di S. Giulia hanno messo in luce i resti di due case romane di età imperiale (di epoca giulio-claudia con aggiunte successive) conservati sotto la basilica di S. Salvatore. Questi nuovo ritrovamenti si aggiungono a quelli avvenuti in precedenza durante la campagna di scavo degli anni 1895-1952 nella zona adiacente, oggi di proprietà dell’Istituto Artigianelli.254 Nell’area del monastero si sono quindi ritrovate tre domus: ci troviamo di fronte ad edifici di notevole importanza sia per lo studio dell’architettura della casa nella Gallia cisalpina in epoca imperiale, sia per la documentazione relativa alla decorazione, che trova riscontro in Roma e nelle più importanti città della penisola, sia per la conoscenza dell’ “instrumentum domesticum”.255 Il 253

CFR I. Gianfranceschi Vettori, “San Salvatore di Brescia, materiali per un museo I, schede didattiche e suggerimenti per la ricerca”, Grafo, Brescia, 1978

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CFR G. Panazza, “Di alcuni affreschi medioevali a Brescia”, Commentari, 11, 1960, pagg 179-201

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loc. latina. Nei reperti archeologici, l'insieme degli oggetti e delle suppellettili di uso domestico. Anche le iscrizioni(bolli, timbri, sigle di proprietà, marchi di fabbrica, ecc.) che si trovano su tali oggetti. Fra i tipi più diversi – dall'iscrizione incisa su un oggetto prezioso a quella che dal collare di uno schiavo ammoniva: Tene me quia fugi!; dal nome di un soldato inciso su un elmo al suggello di un oculista – particolarmente importanti sono i marchi di fabbrica che si trovano sulle tegole, sui mattoni, sui vasi, sulle anfore, sulle fistole (tubi di piombo delle condutture), in quanto ci permettono di stabilire (e spesso manca ogni altra fonte) la proprietà e il luogo di una certa produzione, la sua consistenza economica, l'ampiezza della sua zona di influenza e della diffusione di certi prodotti. Possono esser compresi nell'instrumentum domesticum le sortes (frasi con oracoli su laminette, bastoncini, ecc.) e le tabellae defixionis (tavolette cui si affidavano maledizioni e formule magiche atte a provocare la morte dei nemici).

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CAPITOLO IV monastero occupa il settore nord-orientale del comparto urbano che si estende lungo il decumanus maximus dell’antica città romana, racchiude in sé un complesso di edifici ricco e articolato che testimonia l’attività costruttiva e decorativa di almeno diciotto secoli, dal I al XVIII secolo. La zona in cui sorge il monastero è stata in età romana centro, in età medievale e rinascimentale nucleo della vita politica, religiosa e culturale della città. In essa si sono stratificate e intrecciate forme architettoniche e di organizzazione dello spazio caratteristiche della struttura economica, della composizione sociale e della cultura di epoche diverse su un impianto stradale che ha mantenuto nei secoli e ripercorre ancora, in gran parte, il tracciato ortogonale romano. Gli edifici fuori-terra ed i giacimenti archeologici della zona formano un blocco storico-architettonico organico e compatto. Questa zona ha il valore di uno spaccato della storia architettonica della città e può essere perciò assunta a rappresentare per certi aspetti la città nel suo divenire e nel suo prodursi storico. Il monastero si espande per circa 4350 mq in un perimetro di circa 420 m; fu fondato nell’VIII secolo ed è costituito da un vasto insieme di edifici, di strutture e di spazi aperti collegati fra loro: le chiese di S. Salvatore e di S. Maria in Solario, quella di S. Giulia, i tre chiostri e gli adiacenti locali di lavoro e di residenza delle monache, i sotterranei e l’ortaglia.256 Il complesso monastico ci si presenta in forme prevalentemente rinascimentali. I lavori compiuti tra la seconda metà del Quattrocento e la fine del Cinquecento hanno ristrutturato globalmente l’edificio determinando l’attuale definizione dei volumi e degli spazi interni. Risalgono ad epoche precedenti l’età rinascimentale solo le chiese di S. Salvatore e S. Maria in Solario e l’ala meridionale su via Musei. Il complesso può essere considerato pertanto come un monumento di sintesi dell’attività costruttiva e della produzione artistica rinascimentale a Brescia. Lo scavo condotto nel 1968 dopo che, in seguito a lavori, si era constatata nella zona la presenza di strutture murarie, ha permesso di mettere in luce una serie di ambienti, che costituiscono parte di un vasto complesso residenziale. La domus nell’ortaglia di S. Giulia ci presenta resti di decorazione musiva e soprattutto di pitture, che 256

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CAPITOLO IV rappresentano certo una documentazione non frequente nell’Italia settentrionale e fanno quindi della domus un nucleo estremamente significativo nello studio dell’edilizia privata lombarda. Soprattutto risulta di una certa importanza una scena nilotica con pigmei, purtroppo molto rovinata; comunque certamente l’episodio rappresenta una scena a carattere esotico di origine alessandrina. Sicuramente la struttura subì notevoli modifiche nel corso del tempo, ne sono testimonianza le evidenze di muri di un precedente momento costruttivo emerse in occasione del restauro e dello strappo dei mosaici. Nel 1958, invece, in seguito a lavori intrapresi per lo studio della chiesa di S. Salvatore, emerse, nei livelli sottostanti, una casa romana, che era stata in gran parte distrutta durante la costruzione della cripta di S. Salvatore e del coro quattrocentesco di S. Giulia. Alla metà del V secolo l’insediamento fu definitivamente distrutto da un furioso incendio, ma alcune fotografie dei singoli vani ci testimoniano che doveva essere una casa romana di una certa importanza. Ma addirittura nel 1895 era stata ritrovata una domus nell’ortaglia oggi di proprietà dell’ istituto Artigianelli. Erano stati ritrovati, a dir la verità, degli oggetti di epoca varia che avevano fatto presumere la presenza di un insediamento confermato poi solo nel 1952 dal ritrovamento di un mosaico geometrico. Sicuramente si tratta di una villa urbana che ben si inserisce organicamente nel contesto urbanistico della zona, per le presenza delle due domus precedentemente descritte. Il mosaico è da collocarsi nel II secolo mentre l’instrumentum domesticum mostra una continuità cronologica che va dal I al II secolo. Il ritrovamento di queste tre domus conferma che la zona rappresentava in età romana un importante quartiere residenziale.257 Nel 452 il popolo nomade degli Unni, proveniente dalla Pannonia (Ungheria) e guidato da Attila, invade la pianura padana e saccheggia, fra le altre, la città di Brescia. Nel 476 cade l’impero romano d’occidente. A Brescia si avvicendano, nel corso del VI secolo, il dominio goto e quello bizantino. Nel 569 il popolo germanico dei Longobardi invade la pianura padana e conquista anche Brescia, che diventa sede di un ducato. Tra la fine del V e i primi decenni del VI secolo ha inizio la tendenza, confermatasi poi nel corso del Medioevo e del primo 257

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CAPITOLO IV Rinascimento, a spostare verso le aree orientali della città il centro religioso e politico della vita urbana. La zona che si estende lungo tutto il decumanus conserva comunque la sua importanza. Calcoliamo che per tutto il Medioevo, alle due estremità del decumanus si trovano le porte di S. Andrea (a oriente) e Milanese, poi chiamata Bruciata, (ad occidente), che immettono sulla strada rispettivamente per Verona e per Milano. Il ritrovamento di quattro tombe nell’ortaglia di S. Salvatore ha dato luogo al ritrovamento di un certo numero di frammenti di ceramica nera, pettini, fibbie, collane, coltelli e forbici: “è il caratteristico materiale di epoca altomedievale, assai utile per ricostruire la civiltà dei Longobardi nel primo periodo della loro permanenza sul suolo italiano, allorché sono ancora legati alla cultura germanica. E’ tuttavia difficile definire oggi con sicurezza l’uso al quale le aree affacciate sul lato settentrionale del decumanus sono destinante nel primo periodo dell’età longobarda: quelle orientali sono probabilmente prive di abitazioni; la destinazione di quelle occidentali è incerta, perché non possiamo determinare se gli oggetti ritrovati provengono da materiale di riempimento, sono residui di abitazioni “in loco” o appartengono al materiale proveniente dal dilavamento della zona collinare sovrastante”.258 Intorno alla metà del secolo VIII, probabilmente fra il 753 e il 759, i duchi Desiderio e Ansa, più tardi sovrani Longobardi, fondano il monastero di S. Giulia. Secondo alcuni non si tratta di una fondazione vera e propria, ma della riorganizzazione e unificazione di alcuni piccoli monasteri sparsi; tuttavia i documenti parlano di una fondazione “dalle fondamenta”. Alcuni anni dopo la fondazione, vengono trasportate le reliquie di S. Giulia, dall’isola di Gorgona. La prima badessa fu Anselperga, figlia di Desiderio e Ansa. La fondazione del monastero si collega a una linea politica propria dei sovrani longobardi, da Liutprando in poi, di appoggio al monachesimo benedettino per le sue caratteristiche di operosità materiale e culturale; questa politica porta alla costituzione di un vasto complesso di monasteri benedettini maschili e femminili, di nuova costruzione o rifondati, opportunamente dislocati nel territorio longobardo. S. Giulia riveste un ruolo importante anche dal punto di vista politico, un punto di riferimento 258

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CAPITOLO IV reso necessario dal decentramento del potere politico e dalla mancanza di continuità territoriale del regno longobardo. Affinché potesse svolgere pienamente la sua funzione venne dichiarata autonoma dall’autorità diocesana e gli furono garantiti importanti privilegi come l’indipendenza economica e un esteso potere territoriale mediante una ricca serie di donazioni. Nel 759 Desiderio dona ad Anselperga l’area sul quale il monastero sorge e l’edificio con la suppellettile d’oro e d’argento che in esso si trova; nel 767 fa attivare per il monastero una derivazione dell’acquedotto di Mompiano, Tra il 761 e il 772 sono documentate proprietà, oltre che nel Bresciano, nel Cremonese, nel Lodigiano, nel Friuli, nel Bolognese, in Toscana e nei territori di Vicenza, Reggio Emilia, Pavia, Pistoia, Spoleto, Rieti e Benevento. La dislocazione delle proprietà risponde ad esigenze politiche, ma anche economiche: essa permette di mettere in opera colture specializzate e differenziate, e di realizzare così quella forma di autosufficienza economica che è propria dell’economia curtense. A questa attività economica è collegata un’intensa attività di trasporto di prodotti.259 Nel 774 i Longobardi furono sconfitti dall’esercito di Carlo Magno, re dei Franchi; anche Brescia entra a far parte del regno (poi impero) carolingio. Negli ultimi anni del regno di Carlo Magno o all’inizio di quello di Ludovico il Pio viene ricostruito, almeno in parte, il monastero; negli stessi anni si è ricostruita la chiesa di San Salvatore nella forma basilicale che sia pure con modifiche e trasformazioni è giunta fino a noi. Verso la metà del secolo la basilica viene decorata con un ciclo di affreschi e con stucchi. Per tutta l’età carolingia il monastero mantiene la sua funzione di punto di riferimento per rapporti di carattere politico e scambi culturali; conserva anche quasi tutte le proprietà fondiarie situate nell’Italia settentrionale e centro meridionale di cui è stato investito in epoca longobarda e ad esse ne aggiunge altre. Per il periodo 814-972 sono documentate nuove proprietà nel Bresciano, nel Cremonese, nel Veronese, nel Bergamasco, nei territori lucchese, piacentino, trevisano e presso Ivrea. Al monastero appartengono miniere di ferro nelle valli bresciane, fattorie, forni, mulini; esso ha inoltre diritti di pesca in parecchi corsi d’acqua, diritti 259

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CAPITOLO IV su strade, su porti dei fiumi, su mercati. Da S. Giulia perciò dipende una complessa attività di trasporto e scambio di materiali, beni e merci, e di lavorazione dei metalli, seta e lana, sia per le necessità interne, sia per il commercio. Nei fondi di proprietà del monastero risiedevano, nel X secolo, 741 schiavi e 4000 coloni. La conservazione dei codici manoscritti e la presenza di una scuola conventuale fanno di S. Giulia anche un centro culturale, del quale sono documentati i rapporti con il monastero di Reichnau e con le diocesi della regione renana; elemento caratteristico della vita monastica è l’uso di forme liturgiche proprie del patriarcato di Aquileia. Nel 877, per disposizione testamentaria di Gisla, figlia di Ludovico II, viene fondato, accanto al monastero un ospizio con 24 letti per i poveri ed i pellegrini o “xenodochium”.260 Questa forma di attività assistenziale assume una funzione primaria fra le attività del monastero proprio in virtù dell’ubicazione del monastero stesso. Solo nel XV secolo, con la chiusura della porta S. Andrea e quindi con lo spostamento dell’asse viario principale, e, per altro verso, con la riorganizzazione generale del sistema ospedaliero cittadino, l’ospizio perde la sua funzione ed i suoi locali vengono affittati a privati. Nei secoli XI-XIV, in relazione agli avvenimenti storici quali le trasformazioni politiche nel quadro europeo e nell’Italia meridionale, formazione della borghesia e nascita dei Comuni, S. Giulia perde il suo ruolo politico; le proprietà terriere si riducono lievemente di numero, alcune vengono donate dai sovrani nei secoli VIII e IX e non sono più documentate dopo, altre non sono riconfermate oltre il 1185 e si concentrano nell’Italia nord-orientale, prevalentemente nella zona padana. Il monastero conserva proprietà edilizie di diversa natura in Brescia e prosegue la sua attività assistenziale. Nella seconda metà del XII secolo viene ampliata la cripta, che assume forma ad oratorio, e viene aperta una porta nel fianco meridionale di S. Salvatore. Nei secoli XII e XIV e nella prima metà del XV nel monastero avvengono altre trasformazioni e aggiunte di carattere architettonico, ma più intensa è l’attività pittorica. Gli affreschi tardo-trecenteschi della cappella mediana, di scuola milanese, sono 260

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CAPITOLO IV stati eseguiti durante il periodo della signoria viscontea a Brescia. Da datare a circa la metà del XII secolo, con una costruzione tipicamente lombarda, è la chiesa di S. Maria in Solario. L’aula inferiore di questa chiesa venne costruita, intorno alla metà del XII secolo, come sede ben protetta per i cassoni e gli stipi che contenevano gli oggetti preziosi. La consapevolezza dell’alto pregio della suppellettile sacra appartenente al monastero è presente e chiaramente espressa sia nel secolo XV dal Malvezzi, sia dai cronisti di XVII e XVIII secolo. In realtà, di un patrimonio di suppellettili preziose di proprietà del monastero è fatta menzione già in un diploma di Desiderio citato dall’Astezati.261 La definizione di “tesoro” attribuita all’insieme degli oggetti preziosi non comporta che questi oggetti fossero conservati solo per le loro caratteristiche estetiche o per il valore intrinseco dei materiali: non siamo in presenza di un’accumulazione inerte di beni o di una conservazione di tipo museale; è vivo piuttosto il senso dell’antichità degli oggetti, e quindi della loro funzione di testimoni di una tradizione; ma soprattutto, fino alla soppressione, i “pezzi” del tesoro saranno oggetti di uso ricorrente negli atti di culto, nelle cerimonie dettate dalla complessa liturgia del convento. Con la soppressione, gli oggetti perdono la loro funzione pratica e diventano opera d’arte. Il recupero della nozione del loro “valore d’uso” nel contesto in cui erano conservati è però elemento indispensabile per una loro completa conoscenza. Nella seconda metà del XII secolo si trasformò la cripta di S. Salvatore con un ampliamento ben evidente nella struttura architettonica del tipo ad oratorio, con le due scale di accesso dalle navate laterali. Comunque la datazione dell’ampliamento della cripta può essere meglio precisato dalle sculture di scuola antelamica che adornano i detti capitelli: infatti da alcuni documenti è comprovata l’esistenza a Brescia, verso la metà del secolo XII, di lapidici appartenenti alla famiglia degli Antelami. Molto probabilmente, in occasione dell’ampliamento della cripta vennero decorati gli archetti divisori della parete absidale con stucchi a motivi vegetali che ricordano quelli di S. Pietro al Monte sopra Civate. Il monastero nel settore che va dall’incrocio di via Musei con via Piamarta fino a S. Maria in Solario è costituito da un lungo 261

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CAPITOLO IV corpo di fabbrica con tetto a due spioventi. Su pochi tratti di muratura ancora altomedievali, visibili a livello della pavimentazione stradale di via Musei e di via Piamarta, è sorto l’edificio a conci di pietra abbastanza regolari che per la forma e la stilatura sono da ritenere messi in opera tra il ‘200 e il ‘300. Nel secolo XIV e nella prima metà del XV la facciata verso via Musei ha subìto notevoli trasformazioni per l’apertura di finestre rettangolari e di porte con arco ribassato, ancora leggibili nonostante le alterazioni più gravi apportate nel secolo scorso e nell’attuale, allorché questa parte dell’edificio fu alzata di un piano e furono aperte le finestre attuali e gli ingressi. Le trasformazioni avvenute nel monastero fra il ‘300 e la prima metà del ‘400 dovettero essere rilevanti, ma non di grande estensione. Venne costruito il campanile che si inserì circa a metà della navata meridionale di S. Salvatore, con la canna costituita da tratti alternati in cotto e mendolo. Profonde alterazioni subì la navata nord di S. Salvatore con l’apertura della cappella posta ad oriente (1320) e di quella centrale, che sarà arricchita da affreschi intorno al 1375-1380. Il 6 ottobre 1426, nel corso di una guerra tra la Repubblica Veneta e il ducato di Milano, il Consiglio Generale di Brescia e numerosi rappresentanti dei cittadini giurarono fedeltà alla Repubblica di S. Marco: Brescia entrò così a far parte della Repubblica veneta. Negli anni immediatamente precedenti all’instaurazione del dominio veneto e in quelli successivi, fino alla metà del secolo, l’autorità religiosa e l’autorità civile si sforzarono in modi diversi di riportare ad una condotta di vita degna i monaci e le monache di diversi ordini, colpevoli di vita “viziosa”.262 Dal primo vescovo veneto Pietro del Monte viene avviato con decisione un vero e proprio movimento di riforma religiosa, assecondato anche dalla predicazione a Brescia di S. Bernardino da Siena, Alberto da Sarteano, Savonarola, Bernardino da Feltre e di altri religiosi. Il programma di riforma religiosa comprende la chiamata a Brescia di nuovi ordini e lo spostamento e il rinnovo della sede di altri; quindi, un lavoro di edilizia conventuale intenso e articolato, che si presentò come una delle caratteristiche

fondamentali

dello

sviluppo

urbano

e

dell’attività

architettonica della città nel primo secolo della dominazione veneta. Anche 262

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CAPITOLO IV il monastero di S. Giulia partecipò della decadenza dei valori morali, soprattutto per la crisi di identità che seguì la perdita delle funzioni politiche, correlate alla sua stessa fondazione, e della funziona sociale e assistenziale; venne colpito inoltre dal degrado edilizio comune agli altri monasteri, ma aggravato in questo caso dalle distruzioni apportate dall’assedio del Piccinino del 1438. Alla fine del secolo il monastero risulta trasformato sia nella vita interna che nell’assetto patrimoniale che nella struttura edilizia. Dal 1446 alla fine del secolo, con la costruzione del coro delle monache e la ricostruzione dei chiostri e dei locali ad essi adiacenti, l’edificio assunse l’aspetto prevalentemente rinascimentale che ancora oggi conserva. Negli ultimi decenni del secolo vengono eseguiti affreschi nelle cappelle di S. Salvatore.263 Fra il 1509 e il 1516, coinvolta nelle guerre della lega di Cambrai264 e della Lega Santa, Brescia subisce la dominazione francese e l’occupazione spagnola; nel 1512 è saccheggiata dalle truppe francesi guidate da Gastone di Foix. Alla conclusione di questo tragico periodo, nel secondo e nel terzo decennio del secolo, il processo di ricostruzione del monastero si riattiva con la decorazione ad affresco del coro delle monache, della prima cappella e delle pareti occidentali di S. Salvatore. Questa produzione si colloca, nell’ambito cittadino, in un contesto di intensa attività pittorica e di vivo e aperto interesse per la cultura figurativa. La struttura del monastero assume forma compiuta nella seconda metà del XVI secolo con la costruzione della chiesa pubblica di S. Giulia che ne accentua, nell’età della Controriforma, la funzione di struttura per il culto. Sulla facciata di S. Giulia viene posta un’epigrafe che permette l’esatta datazione del compimento dell’edificio: “RELICTO QUOD DESIDERIUS – REX SALVATORI EREXAT – HOC NOBILIUS DETO ET S. JULIAE – DICATUM SACRAE MONIALES – CONSTRUXERE ANNO SALUTIS MDIC” (Abbandonato il tempio che re Desiderio aveva innalzato al Salvatore, le monache consacrate costituirono questo più nobile, dedicato a Dio e S. Giulia, nell’anno della salvezza 1599). Il Rinascimento è 263

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La Lega di Cambrai fu una lega contro la Repubblica di Venezia formata il 10 dicembre 1508 sotto la guida di Papa Giulio II e scioltasi nel1510 per la defezione dello stesso pontefice.

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CAPITOLO IV dunque un’epoca di grande trasformazione per l’antico monastero. Il primo monumento che appare in Brescia con le forme nuove dell’architettura umanistica è il coro delle monache di S. Giulia per la cui costruzione vennero demolite la facciata e circa la metà della basilica di S. Salvatore. Altra grande opera si ebbe intorno al 1481-1483 con il rifacimento del chiostro di sud-ovest. Originariamente il chiostro doveva avere, nelle facciate esterne, i pennacchi e le fasce divisorie decorate ad affresco, ma tale decorazione è stata sostituita da altra nel secolo scorso. Pochi anni dopo, fra il 1487 e il 1493, si aggiunse verso nord il grande chiostro e del 1493 è infine la porta che dava accesso alla zona delle ortaglie nell’angolo sud-est di tutto il monastero; tuttora reca l’iscrizione “S. IULIA/1493”. Risalgono a questo periodo anche l’aggiunta di una terza cappella sul lato nord di S. Salvatore e le trasformazioni di quelle già esistenti, nonché di quella alla base del campanile dedicata a S. Obizio. Nel tardo secolo XVI venne data una sistemazione ai lati nord e ovest del cortile sud-est, come rivelano le mensole del poggiolo e il cornicione terminale. Soltanto alla fine del secolo XVI verrà costruita, ad occidente del coro delle monache, la chiesa di S. Giulia ad unica navata. In tale occasione, per mezzo di un finto transetto, si collegò la navata al coro delle monache, che divenne così il presbiterio della nuova chiesa.265 Questa, terminata nel 1599, venne eseguita dai fratelli Tabanelli, secondo uno schema tipicamente manieristico, con la navata coperta da volte a botte, le pareti animate da tre nicchie, divise da lesene binate su alta zoccolatura, con la monumentale facciata rivestita da lastre di botticino. Quest’ultima, con le lesene e il fregio assai ricco, che la divide in due ordini, con la porta architravata e il timpano, rientra nella tradizione palladiana. Fra i motivi d’interesse suscitati dall’analisi del lavoro costruttivo svoltosi con ritmo costante nel complesso di S. Giulia, è la presenza, in opere più recenti di materiali antichi consapevolmente riutilizzati e integrati. L’uso, in nuove strutture, di pezzi o frammenti architettonici, prevalentemente romani, come materiali da costruzione, non era infrequente in età medievale e rinascimentale; a Brescia abbiamo 265

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CAPITOLO IV testimonianza di un riuso “spontaneo” nelle case-torri del XII-XIII secolo, e di un riuso programmato, con fini di pubblica conservazione, nella facciata del Monte di Pietà che delimita a sud la piazza della Loggia. A S. Giulia il riuso acquista forme di particolare suggestione sia nei casi in cui il materiale antico venga interpretato secondo la sua originaria funzione e sia inserito, senza fratture né rigidità, nel nuovo tessuto, sia nel caso in cui acquisti una sua autonomia, una nuova funzionalità, e si ponga in un rapporto originale con le forme e gli spazi di nuova definizione.266 Dopo il XVI secolo l’assetto patrimoniale del monastero risulta ormai sostanzialmente stabilizzato nei suoi elementi costitutivi. Ai primi anni del Seicento risalgono la decorazione ad affresco della navata di S. Giulia e, per la maggior parte, l’arredo degli altari che comprende, accanto ad opere di scuola locale, espressioni della cultura figurativa della Controriforma in Lombardia.

Tali

espressioni

sono

rare

nel

territorio

bresciano,

tradizionalmente orientato verso Venezia, ma legato ora anche a forme della cultura milanese per la attiva presenza di Carlo e Federico Borromeo. Nel Seicento e nel Settecento vengono attuati interventi architettonici, distrutti nel corso di demolizioni e operazioni di ripristino realizzate nell’Ottocento e nel Novecento. In questo periodo si sviluppa, allo stesso tempo, una fase di riflessione storica e di indagine archivistica condotta da esponenti ufficiali della comunità monastica come Angelica Baitelli e Gianandrea Astezati. Una prova della presenza ancora viva del monastero nel tessuto cittadino fino alla vigilia della soppressione è data dalla ristampa degli “Annali” della Baitelli curata nel 1794 dal sacerdote giansenista Gianbattista Guadagnini, che vi fa pubblicare in appendice una “Vita di S. Giulia” da lui composta. Nel XVII secolo, dal punto di vista architettonico, si ha testimonianza solo della costruzione della volta a botte e delle volte a crociera. Le opere più importanti di questo secolo furono invece concentrate nella decorazione interna della chiesa di S. Giulia. Nel XVIII secolo vi è da ricordare solo il modesto edificio che fiancheggia a sud la chiesa di S. Giulia, il grande portale sotto un portico e tracce di affreschi che sono visibili sulla parete sud del chiostro grande e sulla parete nord nel chiostro sud-est. Nell’aprile del 266

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CAPITOLO IV 1796 l’esercito francese, al comando di Napoleone, invade l’Italia settentrionale. Anche a Brescia, come in altre città, si era formato negli anni della Rivoluzione Francese un movimento giacobino cui parteciparono elementi della nobiltà e della borghesia. Nel maggio 1796 l’esercito francese superò i confini della Repubblica Veneta, nel marzo 1797 si formò a Brescia, e rimase in vita per alcuni mesi, l’autonoma Repubblica bresciana, nel giugno 1797 viene costituita la Repubblica Cisalpina e nel novembre Brescia entra a farne parte.267 La congregazione benedettina di S. Giulia viene soppressa dal governo repubblicano nel settembre del 1798. La soppressione di numerosi ordini e congregazioni religiosi, nei due anni di vita della Cisalpina, risponde alle esigenze di abolire i privilegi legati alla proprietà ecclesiastica, di ridistribuire la proprietà terriera fra i nuovi ceti emergenti e di incrementarne lo sviluppo produttivo. Con la soppressione del monastero, la proprietà dell’immobile passa al Demanio militare della Cisalpina che lo utilizza come caserma, parte del tesoro va invece alla Biblioteca Queriniana. Le 95 monache vengono laicizzate, l’arredo e le proprietà agricole sono venduti; l’archivio è smembrato. Durante il regno napoleonico e la dominazione austriaca il monastero viene adibito ad uso militare. Subito dopo l’unificazione d’Italia, nel 1861, l’Ateneo di Brescia e la Giunta

Municipale studiano la possibilità di acquisire alla proprietà

comunale le tre chiese comprese nel monastero e di collocare in S. Giulia un museo d’arte medievale e rinascimentale. Le tre chiese diventano di proprietà comunale nel 1874; il Museo medievale viene inaugurato il 23 agosto 1882.

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CFR I. Gianfranceschi Vettori, “San Salvatore di Brescia, materiali per un museo I, schede didattiche e suggerimenti per la ricerca”, Grafo, Brescia, 1978

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CAPITOLO IV 4.2 Affreschi e stucchi in S. Salvatore a Brescia Furono gli anni Cinquanta gli anni importanti per la storia dei ritrovamenti a S. Giulia, prendiamo solo in considerazione le parole di Gaetano Panazza sul numero del 1960 della rivista “Arte Lombarda”: “A lavori ultimati la chiesa di S. Salvatore acquisterà senz’altro sommo interesse per gli studi sull’arte dell’alto medioevo. Mentre prima del 1956 si conosceva solo parte dei due colonnati interni, oggi possiamo renderci conto di come fosse l’esterno: le pareti delle due navate minori presentano una sequenza di slanciate arcatelle cieche e lesene poggianti su uno zoccolo, mentre entro le arcate si aprono finestre alte ed ampie senza strombature. Finestre pure a pieno centro alquanto più basse, racchiuse da arcatelle che formano sopraccigli, animano le pareti della navata centrale” […] “Il carattere tradizionale che faceva collegare l’interno di S. Salvatore alle basiliche del VI e VII secolo di Ravenna, di Parenzo, di Grado, ecc., trova quindi conferma anche nell’esterno, che a sua volta si collega con S. Maria delle Cacce e S. Felice a Pavia, per quel che si può ancora vedere di queste due chiese. E’ il motivo decorativo dell’esterno del tempietto di Cividale, è quello delle absidi di Munstair e che si riallaccia al Mausoleo di Galla Placidia, al S. Giovanni di Ravenna, a basiliche paleocristiane come S. Simpliciano a Milano o a quella di Aquileia.” […] “Come a Cividale, anche in S. Salvatore la decorazione in stucco si collegava strettamente con quella ad affresco. In parte questa era già nota: il Toesca, il sottoscritto, il Cecchelli, l’Arslan e il Grabar, per seguire l’ordine cronologico, si erano già occupati di questi affreschi, sia pure in modo alquanto sommario, anche per la difficoltà di esame; ma molti altri frammenti e importanti sinopie si sono ritrovati sia sotto i moderni intonaci delle navatelle laterali e di quella centrale, sia anche nei tratti di pareti esistenti fra le volte seicentesche e il tetto.”268 La decorazione della navata centrale si svolgeva sui pennacchi delle colonne, sui registri sovrapposti divisi in riquadri di formato quasi uguale fra loro delimitati da fasce rosse e bianche, e sul sovrastante ordine di riquadri collocati tra finestra e finestra. Sopra questi riquadri e sopra le 268

G. Panazza, “Le scoperte in S. Salvatore di Brescia”, in “Arte Lombarda”, V anno, n.° 1, 1960, pagg. 13-21

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CAPITOLO IV finestre

si

svolgeva,

a

conclusione,

una

cornice

di

mensole

illusionisticamente aggettanti e in prospettiva, avendo come punto di vista fisso l’altare maggiore. Le mensole, al di sotto adorne di foglie a voluta, erano a modanature variamente colorate, unite fra loro per mezzo di archi ribassati da cui pendevano drappi purpurei, festoni, o in cui erano collocati uccelletti che campeggiavano nel cielo verde-azzurro; così campeggiavano sul fondo anche transenne nero-brune, col motivo ripetuto della croce di S. Andrea, che collegavano nel piano arretrato le mensole aggettanti. Già in questo partito decorativo così ricco di spunti classici ritroviamo un elemento visibile nella zoccolatura dell’abside di S. Maria di Castelseprio e nella decorazione del lontano S. Julian de los Prados a Oviedo.269 La ripartizione delle pareti in riquadri, il tipo e il colore delle fasce che li incorniciano, il numero stesso ci richiamano invece con estrema evidenza l’insigne complesso pittorico di S. Giovanni di Munstair: uno dei cicli più importanti della pittura carolingia, dell’inizio del IX secolo e certamente collegato per molteplici elementi di stile, di iconografia, di storia alle varie manifestazioni della contemporanea scuola lombarda. A Munstair, a S. Maria di Castelseprio, il ciclo bresciano si avvicina anche per un’altra particolarità: manca qualsiasi collegamento fra architettura e decorazione pittorica, in quanto le finestre bruscamente tagliano i riquadri del registro superiore, mentre questi non tengono conto, con il motivo geometrico delle fasce di contorno, della posizione delle luci preesistenti. I richiami con Munstair, S. Maria in Valle a Cividale, con S. Maria Antiqua si fanno poi sempre più stretti se esaminiamo i motivi decorativi: la serie di perle e di pietre dure diversamente disposte e raggruppate si ritrova identica nella chiesa romana e in quella forogiuliense; in questa poi è un’iscrizione con caratteri epigrafici somigliantissimi a quelli dei pochi tratti inscritti conservati nella chiesa di S. Salvatore. Nonostante le pessime condizioni alle quali sono ridotti i frammenti della decorazione pittorica, benché vastissime siano le lacune, sono tuttavia riconoscibili a grandi linee il soggetto e la successione delle storie nel ciclo della navata mediana. Come ci indica il titolo della chiesa, esso è dedicato alla vita del Salvatore: dato il grande numero dei 269

CFR G. Panazza, “La basilica di San Salvatore in Brescia”, in Arte Lombarda, 6, 1961, pagg. 165-177

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CAPITOLO IV riquadri che dovevano adornare le pareti quando la chiesa era integra, non è del tutto improbabile che al ciclo cristologico si aggiungessero scene di altri soggetti, o che, come premessa a quelle del Redentore, vi fossero scene relative alla vita della Vergine. Tuttavia le poche tracce che rimangono dell’ordine superiore sul lato sud, donde inizia la decorazione pittorica, farebbero supporre che già da queste si cominciasse con l’infanzia di Gesù. La successione dei riquadri sembra essere la seguente: si parte dall’ordine superiore del lato sud, dall’abside e, passando poi sulla parete nord, si ritorna, procedendo verso ovest ad est, verso il presbiterio. Mentre sul lato sud si possono soltanto supporre alcune scene, sia per i pochissimi resti pittorici conservatisi soprattutto nelle fasce superiori dei riquadri, sia per le impronte delle aureole con i chiodini di trattenimento per lo stucco, sulla parete settentrionale alcune sinopie ci permettono una identificazione sicura: quella più certa si riferisce alla Fuga in Egitto. Ha questa una tale spigliatezza nel disegno e una così sciolta e ritmata composizione che il confronto con la famosa “Andata a Betlem” di Castelseprio s’impone con immediata evidenza. Più oltre è un’altra sinopia che, per la presenza del Cristo e della Vergine, si ritiene raffiguri le nozze di Cana.270 Il ciclo riprende, sempre partendo da est, nel secondo ordine, per concludersi di nuovo sulla parete opposta verso il presbiterio: è questo il registro in peggior stato di conservazione e di difficile lettura, salvo qualche scena sulla parte meridionale e qualche tratto di sinopia. La maggior parte dei dipinti si conserva invece nell’ultimo registro che ha il medesimo punto di inizio e di conclusione dei sovrastanti ordini: sulla parete sud continuano i miracoli di Cristo, sull’opposta sono chiaramente individuabili le varie scene della Passione, ultima delle quali è la Deposizione nel Sepolcro, in buona parte ancora leggibile. Nulla sappiamo della decorazione delle tre absidi e della controfacciata. Già di per sé la presenza delle tre absidi aveva creato numerosi problemi a critici. “Già è stato da altri collegato questo motivo con quello delle cosiddette chiese “esarcali” e da alcuni vi si è voluto vedere un particolare elemento della propagazione di queste forme nel retroterra padano; da altri invece, pur notando questo rapporto con 270

CFR G. Panazza, “La basilica di San Salvatore in Brescia”, in Arte Lombarda, 6, 1961, pagg. 165-177

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CAPITOLO IV l’architettura ravennate, si è inquadrato il motivo decorativo, insieme a tutto l’impianto architettonico, nell’ultimo stadio della tradizione paleocristiana. Ma a turbare questa unità architettonica che parrebbe riportarci agli esempi tipici delle basiliche ravennati, ecco un elemento che soltanto i recentissimi scavi hanno messo in luce: la presenza cioè delle tre absidi semicircolari che chiudevano le navate; più sviluppata anche in profondità la centrale, più ristrette le laterali (quasi nicchie, più che absidi) e collegate fra loro esternamente da tratti di muratura orizzontali.”271 La pianta basilicale a tre navate con tre absidi non è invece ignota nei secoli VIII-IX a Roma, dove però la navata centrale è solitamente in rapporto diverso con le navate laterali; non è ignota neppure nel resto d’Italia e oltre le Alpi, a S. Albano di Magonza, in S. Emmerano di Ratisbona, in SS. Pietro e Paolo di Niederzell, a Zalavar; schema che ha origini lontanissime in oriente (basilica di Emmaus, oratorio di Bin-Bir-Kilissè) e in occidente (Basilica di Parenzo e S. Martino di Autun). Nelle navate minori la decorazione delle pareti, che si sviluppano sopra le arcate dei colonnati, è ricomponibile nel suo schema generale. Nei pennacchi erano clipei con busti di Angeli o di Santi, racchiusi da fasce. Al di sopra correva un’ampia fascia orizzontale adorna di meandro su cui si sovrapponevano, in corrispondenza dei pennacchi e dei clipei, altri tondi più grandi, forse con figure di Angeli o di Santi. Tale decorazione è conservata particolarmente sulla parete sud della navata settentrionale. Delle due pareti esterne delle navatelle, quella a sud ha le tracce delle rigature che ci indicano la successione e l’ampiezza delle singole zone, nonché i labili resti di figure di Santi che sembrano appartenere ad un periodo alquanto più tardo. La parete nord della navata settentrionale, per quel poco che rimane verso est, ha importanti avanzi pittorici. Da una zoccolatura a transenna con la croce di S. Andrea collegata ad una losanga e ad un riquadro con alternato gioco di motivi marmorizzati, si sale ad una serie di fasce con iscrizioni purtroppo frammentarie oppure adorne con i soliti motivi a perloni e ad incastonature di pietre dure o con elementi vegetali. Sopra e intorno alla porta antica, che si apre in questo tratto di parete, si svolgono le larghe spire dell’apocalittico drago a sette teste, di cui ora ne sono visibili solo tre, 271

G. Panazza, “La basilica di S. Salvatore in Brescia”, “Arte lombarda”, anno V, n.° 2 1960, pagg. 161-184

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CAPITOLO IV concepite con rigore quasi architettonico, per la esatta corrispondenza delle parti, ma anche libero e sciolto nei particolari. Ai lati del complesso motivo, allegorico e decorativo insieme, sono due figure di angeli ritti, visti frontalmente, con aureola e lunghe vesti campaniformi da cui spuntano i piedi ricoperti da calzari. In alto sono altre figure; si vedono due angeli in atto di volare; a sinistra di questi è un personaggio giovanile con tunica bianca, seduto, che tiene un rotulo, davanti ad un’architettura, e fiancheggiato da altre figure vestite con tunica pure chiara; alla sinistra di questa figura è un’arca o uno scrigno. Purtroppo le ultime figure sono acefale. Sopra la monofora che segue verso ovest è un clipeo con una bellissima testa, parzialmente rovinata, di figura giovane, forse femminile. In alto corre orizzontalmente il motivo di meandro. Interessanti resti di decorazioni pittoriche rimangono poi sulle spalle e nei sottarchi delle finestre della chiesa: alcuni motivi simili a quelli di Munster, di S. Maria in Cosmedin, ecc. Non è facile intuire a chi fossero dedicati i cicli delle navatelle minori: alcuni elementi farebbero pensare che quella a nord fosse dedicata a S. Michele, a cui pure era intitolata la chiesa; non è forse azzardata l’ipotesi che quella a sud potesse essere dedicata all’altro titolare del monastero, al Principe degli Apostoli, tanto più che sulla parete esterna di questa navata vennero raffigurati nel tardo secolo XII e nel XIV i SS. Pietro e Paolo.272 Quanto rimane della decorazione pittorica ci permette di avere un’idea delle sue qualità stilistiche, notevolissime. Nelle scene cristologiche domina una compostezza e un equilibrio che ci riportano alle più belle interpretazioni dell’arte paleocristiana: il Cristo calmo, sereno, predominante sulle altre non molte figure dei riquadri, si riconosce quasi sempre o per i gesti di grande nobiltà, o per l’aureola in stucco rilevata, o per il costume che si ripete in tutte le scene, identico nella foggia e nei colori. La composizione è sempre bene commisurata allo spazio sentito veramente come sfondo, sia questo paesaggio o sia costituito da architetture. Il panneggio è largo, sciolto, ben costruito, tale da modellare le figure; pure sentite e rese molto bene sono le carnagioni, di un complesso impasto pittorico vibrante e morbido. Il colore è intenso, ma sobrio, tenuto su pochi 272

CFR G. Panazza, “La basilica di San Salvatore in Brescia”, in Arte Lombarda, 6, 1961, pagg. 165-177

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CAPITOLO IV colori, dal giallo al rosso, con gradazioni di rosato e violaceo, dall’azzurro al verdiccio, al nero. Le carnagioni hanno solitamente una preparazione di fondo gialla su cui è sovrapposta poi una successione di velature, di ombre a chiazze espanse, verdicce, di sottili lumeggiature bianche. Le ombre sono date da segni neri, ma il più delle volte da linee di tonalità più scura della tinta di fondo. Si viene a creare in tal mondo una squisita pastosità, una morbidezza nel modellato fluido e sciolto, sia nelle carnagioni che nei panneggi; le lumeggiature sottili e guizzanti sono collegate intimamente con il modellato sottostante. Si può dire che la tradizione ellenistico-romana è qui ancora viva. A contatto dell’ambiente le figure non si immergono e quasi si dissolvono, come in molte pitture pagane o cimiteriali romane; non vi è neppure quel guizzare sottile della luce, quel colore rappreso che crea la forma; le figure e le architetture hanno una loro vita, un loro plastico modellato e una struttura, ma le une e le altre vivono ugualmente nello spazio e nell’atmosfera ambientale, senza che intervenga a delinearle il segno del contorno o il contrasto del chiaroscuro sovrapposto alle forme. Anche nel campo iconografico, le somiglianze con scene e con composizioni del periodo paleocristiano sono numerose e interessanti.273 Vi è tuttavia in certi episodi una squadratura delle figure, un atteggiarsi dei corpi, un ammiccare degli sguardi, un affollarsi di personaggi e architetture, una tendenza al verismo più che alla naturalezza, particolarità che fanno pensare ai caratteri stilistici che compaiono all’inizio del secolo IX a Roma, definiti da alcuni elemento romano e “romanesco”, da altri “benedettino”, da altri ancora, in Francia o nell’Italia del Nord a Roma stessa, “carolingio”. Questo per quanto riguarda le scene cristologiche della navata centrale; per i clipei, per le composizioni della navata minore, più accentuato è il rapporto, per la ieratica compostezza, e la frontalità delle figure, con le composizioni ispirate a Bisanzio e al mondo orientale. Ritroviamo anche la larga stesura dei piani, la sottile gradazione chiaroscurale che costruiscono le forme nella pittura monumentale bizantina. Gli affreschi bresciani si inseriscono molto bene nel quadro della pittura e della miniatura altomedievale se li 273

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CAPITOLO IV collochiamo agli inizi del secolo IX. Nelle opere del VII secolo ancora predominanti sono la scioltezza pittorica, l’interpretazione ritmica, fresca è la vena di origine ellenistica con una forte unità di fondo fra Oriente e Occidente: ne possono essere esempio gli affreschi di quest’epoca in S. Maria Antiqua, i mosaici dell’oratorio di Giovanni VII, gli affreschi di San Valentino, i mosaici di Nicea, quelli di S. Demetrio a Salonicco, naturalmente con tutte le differenze dovute alla varietà di indirizzi, di maestri, di tecniche, di località. Più vicini al VII che all’VIII secolo, secondo il Panazza, si devono ritenere, anche per gli utili confronti che si possono istituire con gli affreschi bresciani, gli affreschi tanto discussi di Castelseprio, pur tenendo conto che questi sono senza dubbio di un grande maestro che viene dall’Oriente, mentre i dipinti bresciani sono perfettamente connaturati con l’ambiente occidentale. Ma gli affreschi bresciani sono molto vicini, stilisticamente e per iconografia, per visione complessiva dello schema decorativo, agli affreschi di S. Maria Antiqua che dalla metà del secolo VIII vanno ai primi decenni del IX, a quelli della stessa epoca di S. Crisogono e di S. Saba, di S. Maria in via Lata e di S. Maria in Cosmedin, con l’icona di S. Maria in Trastevere. Più forte è di certo l’apporto orientale, ma anche i dipinti di S. Vincenzo al Volturno e S. Sofia di Benevento propongono utili contatti.274 Guardando verso il nord, già si è visto quanta importanza abbia la somiglianza con gli affreschi di Munster; somiglianza che investe composizione, squadratura di figure, rapporto fra queste e l’ambiente, tecnica pittorica, ma che tuttavia non impedisce di presentire anche una diversità di tendenze, a Munster portate a certi stilismi e particolarità tipici dell’arte d’oltralpe e che predomineranno nell’arte ottoniana, a Brescia più connaturate alla tradizione paleocristiana e tardo antica. Particolare importanza per la chiara e profonda somiglianza hanno le non molte miniature italiane dall’inizio del secolo VIII al principio del IX: da quella del Dittico di Boezio a quelle del Codice di Egino, a quelle della Capitolare di Vercelli. Anche oltralpe qualche rapporto possiamo trovare, ma con opere che sono collegate in un modo o nell’altro con la cultura italiana, con l’arte paleocristiana; dai mosaici di Germigny des Pres 274

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CAPITOLO IV ai codici miniati della scuola di Tours, dagli affreschi di Auxerre agli affreschi di Corvay. Se si procede un po’ oltre nel IX secolo, ovviamente con modi diversi e con indirizzi che possono essere anche opposti per la presenza di altri fattori, compare tutt’altra impostazione: il ritmo ora lineare, ora dinamico del contorno isola le figure; l’accentuarsi del movimento vuole dare o drammatica espressività o evidenza di cronaca alle scene; di contro, abbiamo un appiattimento delle superfici, un contrasto fra fondi e linee nere o luci sovrapposte, un disgregarsi delle forme costruite nello spazio. Sono gli elementi che troviamo un po’ ovunque: da S. Clemente agli altri affreschi romani della metà del secolo IX (S. Saba, S. Maria in via Lata, San Martino ai Monti, Tempio della Fortuna Virile), da Naturno ed anche da Malles, nonostante le diversità di ascendenza e di stile che esistono fra queste opere, ai dipinti di Ternand e a molte miniature della scuola francotedesche o svizzere nel secolo IX avanzato.275 Tali elementi informatori possiamo individuare, con diversa tendenza al decorativismo, anche nelle opere bizantine con i mosaici del Sekreton di Costantinopoli. La divergenza con gli affreschi di S. Salvatore si fa sempre più profonda e davvero non sono nemmeno confrontabili con la tensione, il movimento, il ritmo e la sensibilità decorativa delle pitture del IX secolo: da quelle di Galliano a quelle di S. Clemente in Roma o di Sant’Angelo in Formis. Gli affreschi nei pennacchi o sulla parete nord della navatella settentrionale presentano un notevole accostamento alle figure di S. Maria Antiqua in cui è più viva la derivazione orientale, da ravvicinare, a loro volta, alle figurazioni dipinte nel tempietto di Cividale. Nonostante le condizioni non buone dei dipinti di questo famoso sacello, le loro qualità sono tali da mostrarci quanti legami siano pure riconoscibili con i nostri. Forse ancora più accentuato è l’elemento bizantino a Cividale; ma anche qui è un sottile passaggio di luci e di ombre, è una delicata stesura di piani che costruiscono e modellano i visi. Anche a Cividale, del resto, non manca, la sensibilità che possiamo chiamare ancora paleocristiana nella sua accezione occidentale, più che orientale, nella lunetta con il Cristo e gli Angeli. In realtà l’appiattimento delle figure, la tonalità brunita e metallica con quel contrasto fra luci e 275

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CAPITOLO IV ombre che sembra drammatico nei visi delle Sante di Cividale sono dovuti in parte all’attuale stato di conservazione e si accentuano nella riproduzione fotografica con l’effetto tipico del “negativo”. Nel complesso, tuttavia, a Cividale, abbiamo un più forte accento bizantino; a Brescia un più chiaro richiamo alle forme paleocristiane e alle nuove tendenze occidentali; ma certamente è chiaro ed evidente il rapporto stretto che intercorre fra i due cicli pittorici. Se teniamo conto della fortissima somiglianza fra la decorazione in stucco di Cividale e quella di Brescia, di tutti gli altri elementi murari, architettonici, decorativi che collegano i due monumenti; se pensiamo anche a tutti i dati liturgici, storici, che nell’epoca longobardafranca hanno unito S. Salvatore di Brescia e S. Maria in Valle di Cividale, possiamo concludere che la datazione dell’uno può essere utile a chiarire la datazione dell’altro. Da quanto si è potuto determinare tanto la decorazione in stucco come quella pittorica possono trovare la loro giusta collocazione al principio del IX secolo.276 Sia gli affreschi che gli stucchi vennero con tutta probabilità aggiunti in un secondo momento, come rivela l’uniforme intonacatura bianca che ha ricoperto esterno ed interno di S. Salvatore; ma l’aggiunta della decorazione non deve essere portata tuttavia troppo lontana dalla costruzione dell’edificio. I documenti fanno pensare che ai lavori dell’816 siano connesse la ricostruzione del S. Salvatore a tre navate e la sua decorazione in stucco e ad affresco. Del resto, questa decorazione può assai bene adattarsi anche alla decorazione plastica e pittorica del tempietto di Cividale, mentre forse la sua architettura potrebbe essere quella di Desiderio, come a Desiderio spetta la prima chiesa bresciana. Di eccezionale interesse

sono

i

ritrovamenti

al

Monastero

della

Chiemseeinsel

(Oberbayern) che confermano la cronologia proposta dal Panazza per il San Salvatore di Brescia. In quel monastero fondato nel 770 da Carlo Magno, che era genero di re Desiderio, e che subì rifacimenti all’epoca della badessa Irmingard (866) sorella di Ludovico il Tedesco, la prima chiesa aveva elementi che fanno pensare ad un edificio cruciforme; mentre alle trasformazioni della metà del secolo IX si fanno risalire gli affreschi ritrovati. Ora i motivi decorativi richiamano esattamente i meandri nella 276

CFR G. Panazza, “La basilica di San Salvatore in Brescia”, in Arte Lombarda, 6, 1961, pagg. 165-177

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CAPITOLO IV fascia che corre sopra le arcate nelle navatelle di S. Salvatore e la successione dei riquadri marmorizzati nell’abside della cripta, nonché i fioroni in stucco che adornano i sottarchi nella basilica. Anche la testa ha elementi di somiglianza con le teste dei nostri affreschi, nonostante la prevalenza del colore rosso che l’accomuna alle figurazioni di Munster più che a quelle bresciane. Inoltre il Sedlmayr giustamente ha confrontato già gli affreschi delle Chiemsee con quelli di S. Maria Antiqua.

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CAPITOLO IV

4.3 Il cantiere pittorico altomedievale di S. Salvatore a Brescia: stratigrafia, tecnica e studio delle sinopie Ricollegandoci a quanto detto nel paragrafo precedente, passiamo da un’analisi storica della chiesa di S. Salvatore a Brescia, a un’analisi storico artistica. Nella seconda metà del VII secolo, quindi, la zona che corrisponde oggi alla chiesa, e che fin dall’epoca romana fu interessata da un’attività costruttiva, dopo il degrado del V e VI secolo venne radicalmente trasformata. Quello che erano verosimilmente capanne e case di servi e artigiani vennero smantellate per far posto a edifici in buona muratura con cortili, destinati ad usi pubblici e religiosi. Nel 753 il duca Astolfo donò l’area al duca di Brescia Desiderio, suo fedele sostenitore. Desiderio, che poi sarebbe diventato re dei Longobardi, insieme alla moglie Ansa fondò il monastero benedettino femminile di S. Salvatore, affidandolo alle cure della figlia Anselperga.277 Il monastero si inserì nel sistema del monachesimo diffuso su tutto il territorio longobardo e ricoprì un ruolo fondamentale nella società dell’epoca, sia dal punto di vista religioso, sia da quello politico ed economico. La sua fondazione regia gli conferì una certa autonomia dall’autorità diocesana, indipendenza economica e potere territoriale mediante una ricca seria di donazioni e privilegi. Gli scavi e le indagini archeologiche hanno permesso di risalire a quelle che furono le tappe costruttive in età altomedievale e sono stati individuati una serie di edifici articolati intorno alla chiesa principale e ai chiostri. Le strutture architettoniche erano tipicamente longobarde accanto a motivi bizantinoravennati.278 La chiesa di S. Salvatore è comunque, sicuramente, una delle testimonianze più importanti dell’architettura religiosa altomedievale conservata in alzata. Presenta un ampio interno e, secondo l’impianto delle basiliche bizantine e ravennati, è divisa in tre navate da colonne ed archi ed

277

Anselperga (... – ...) è stata una principessa longobarda, figlia di re Desiderio, ultimo re longobardo, e della regina Ansa. Anselperga fu la prima badessa del nuovo monastero di San Salvatore a Brescia che venne inaugurato e costruito con mezzi stanziati dai genitori. Quando sua sorella "Ermengarda" fu ripudiata dal marito Carlo Magno, riparò al convento di San Salvatore, dove venne accolta da Anselperga. La badessa è ricordata anche nell'Adelchi di Alessandro Manzoni. 278

CFR AA. VV. “L’età altomedievale: longobardi e carolingi. San Salvatore/S. Giulia, Museo della città Brescia”, Electa, Milano, 1999, pagg. 83-85

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CAPITOLO IV è illuminata da una serie di finestre. All’esterno presenta un paramento di archeggiature cieche. Gli interventi condotti dal 1958 al 1962 avevano messo in luce le fondazioni di due chiese. All’inizio si era pensato che la prima fosse quella fatta costruire da Desiderio, alla metà dell’VIII secolo, e che la seconda si dovesse far risalire all’epoca carolingia. Successive indagini hanno però consentito di proporre una più articolata sequenza delle fasi altomedievali della chiesa. Secondo le nuove interpretazioni, che sono comunque ancora oggi oggetto di dibattito e ricerca, alla seconda metà dell’VII secolo è databile il primo luogo di culto, un edificio con pianta a T, con successive sopraelevazioni del piano pavimentale, mentre attorno alla metà dell’VIII secolo la chiesa venne ricostruita con tre navate. La nostra chiesa è quindi, più esattamente, ricollegabile a un tipo di pianta come quello di S. Pietro di Holz, a Sabiona, a Bischofshofen, ad Hardecke e poi a Gazzo Veronese.279 La decorazione del S. Salvatore è abbondante e caratteristica, il gusto è sicuramente altomedievale, ma accanto appunto a decorazioni originali, troviamo il recupero di elementi classici e bizantini: tutto sicuramente testimonia la volontà di affermazione del popolo longobardo. Nonostante lo stato frammentario, la decorazione di S. Salvatore è una delle più ricche conservata dall’Alto Medioevo, paragonabile, ma di dimensioni assai maggiori, al Tempietto longobardo di Cividale del Friuli. A San Salvatore, la fusione fra gli stucchi e i dipinti era completa, dato che nelle storie le figure principali avevano nimbi di stucco, sui quali erano dipinti e forse plasmati i volti. La presenza dello stucco nelle parti architettoniche, ossia nei sottarchi e nelle ghiere degli archi, corrisponde a modelli ravennati e romani, ma i motivi impiegati presentano la stessa contaminazione fra mondo mediterraneo e isole britanniche che si nota in altri rilievi di San Salvatore e nella miniatura dei centri longobardi e alemanni.280 L’integrazione fra ornati e rilievo e immagini dipinte era inoltre assicurata dal colore e dai bulbi di vetro verde azzurro inseriti nei numerosi fiori in stucco, secondo una tecnica che trova riscontro a Cividale. Tanto nelle navatelle che nella navata centrale, i triangoli fra gli archi erano 279

CFR G. Panazza, “Le scoperte in S. Salvatore di Brescia”, in “Arte Lombarda”, V anno, n.° 1, 1960, pagg. 13-21

280

CFR AA. VV. “L’età altomedievale: longobardi e carolingi. San Salvatore/S. Giulia, Museo della città Brescia”, Electa, Milano, 1999, pagg. 98-101

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CAPITOLO IV occupati da clipei che ospitavano i busti di santi e sante. Meglio conservata è la testa chiusa entro un clipeo al di sopra della sola finestra superstite nella navata nord. I grandi occhi espressivi e il modellato delle guance carnose l’avvicinano ai momenti più intensi del mondo intimistico e religioso dell’icona bizantina nella pausa iconoclasta. Nella testa di santo con tonsura, sulla parete sud, il contorno insistito e ornamentale dei ciuffi sulla fronte, come le lumeggiature distribuite in linee parallele, sono elementi che lo avvicinano notevolmente alle parti meglio conservate degli affreschi di S. Giovanni a Mustair, in Val Monastero. La ricchezza inventiva delle finte tarsie marmoree che decoravano lo zoccolo assai alto di San Salvatore le pone fra i primi esempi di Torba e quelli più elaborati di San Vincenzo al Volturno. Oltre alla navata anche le navatelle dovevano accogliere storie sulle pareti. Sul muro nord resta una grande composizione, purtroppo assai logora, nelle quali è possibile riconoscere alcune figure monumentali di angeli e serpenti di colore rosso con più teste. Si tratta evidentemente del drago dell’Apocalisse che viene vinto dall’arcangelo Michele. Si ricorda che secondo il Breve Chronicum del monaco Leonense, la basilica era dedicata al San Salvatore, alla Vergine e all’arcangelo Michele. Sopra gli archi e i muri perimetrali, le navatelle erano ornate con una fascia a meandri. La decorazione più monumentale era riservata alle pareti della navata centrale. Un arco inquadra un uccello, da un alto pende un nastro. Si tratta di un tema monumentale che avrà fortuna nella pittura murale dell’Italia settentrionale fino all’età romanica e che già nell’Alto Medioevo ha una corrispondenza in scala minore nella decorazione di Santa Maria foris portas a Castelseprio e in quella di San Martino ai Monti a Roma.281 Tutte le pitture sono eseguite su intonaco sottilissimo steso non a giornate, ma a pontate, previa martellinatura del precedente intonaco bianco allo scopo di farci aderire il nuovo. Gli schizzi tracciati per lo più con un pennello intinto di nero sono spigliati ed eleganti, le figure hanno proporzioni classiche e si muovono con grande naturalezza. In alcuni casi vi sono divergenze fra gli schizzi preparatori e i frammenti di pittura superstiti. Talvolta poté trattarsi di disegni autonomi eseguiti per esercizio degli allievi del maestro principale. 281

C. Bertelli, “Gli stucchi e gli affreschi”, in AA. VV. “L’età altomedievale: longobardi e carolingi. San Salvatore/S. Giulia, Museo della città Brescia”, Electa, Milano, 1999

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CAPITOLO IV Su tutta la superficie delle pareti della navata centrale, dove sono presenti i frammenti degli affreschi, si può osservare la presenza costante e continua di due soli strati principali: uno di intonaco grosso e scialbato e uno di intonachino dipinto, oppure di intonaco grosso scialbato e rilievo in stucco. L’intonaco grosso scialbato costituisce una prima stesura di copertura alla tessitura in mattoni dell’edificio, usata poi presumibilmente in un tempo successivo, quando si decise di eseguire la decorazione dipinta e stucchi, come arriccio, martellinandone la superficie imbiancata per agevolare l’ancoraggio alla parete dell’intonachino. Ma dai prelievi esaminati, tra la scialbatura e l’intonachino non c’è traccia di polvere, e l’intonachino molto sottile quasi si confonde con la scialbatura per la sua fine composizione raramente punteggiata da granelli di sabbia. Dove invece erano previsti gli stucchi, fossero aureole oppure decorazione agli arconi, l’intonachino veniva interrotto a scivolo e la sua assenza veniva successivamente colmata dal rilievo in stucco. L’ancoraggio degli stucchi era assicurato principalmente da chiodi infissi nella parete. L’intonaco-arriccio ha uno spessore di circa 10 mm ed è stato steso a fasce orizzontali di altezza approssimativamente uguale, assecondando sia l’ordine dei ponteggi, sia quello dei registri. La stesura è approssimativa e qualche volta irregolare. Oltre allo scialbo e alla martellinature presenta tracce, sulla sua superficie, delle linee di battitura dei fili per la definizione dei registri e dei riquadri, che risultano coincidere con quello del ciclo di affreschi esistenti. Sono presenti anche disegni eseguiti a pennello in nero o terra rossastra: alcuni corrispondono alle figurazioni eseguite nell’ordine dei riquadri, altre travalicano lo schema dei registri, altre non hanno senso figurativo comprensibile, ma le pennellate che le configurano non si risolvono entro il limite del registro. Ci sono inoltre colature e gocce di colore provenienti, presumibilmente, dai registri superiori durante la lavorazione di questi.282 L’intonachino ha uno spessore medio di 15 mm. Sembra steso secondo l’ordine dei registri, poiché sui frammenti rimasti si trovano i limiti delle pontate, con i margini sovrapposti, ma non quelli delle giornate. Nonostante 282

CFR Seminario internazionale sulla decorazione pittorica del San Salvatore di Brescia, Brescia 19-20 giugno 1981, Atti della ricerca bilaterale (Italia-Repubblica Federale Tedesca) promossa dal CNR. La cura editoriale del presente volume è stata tenuta dalla dott-ssa Maria Teresa Mazzilli, Università di Pavia, Istituto di Storia dell’Arte, Pavia, 1983

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CAPITOLO IV la stesura approssimativa dell’intonaco scialbato sottostante, l’intonachino appare essere steso in modo abbastanza accurato. Il lavoro di pittura si presenta eseguito in modo rapido con un abbozzo schematico a pennello in terra rossastra-bruna dei contorni delle figure, seguito da una campitura di fondo corretta successivamente con il colore definitivo a campitura o pennellate e completato con la definizione dei singoli elementi, realizzata con linee di contorno in nero o rosso-nero. Gli incarnati sono quelli che presentano la maggiore elaborazione: a un fondo giallo segue un fondo verde, qualche volta dato a larghe pennellate di contorno, addolcito da altre in verde rosato chiaro, rosa-chiaro e branco-grigio, completato dalle linee di contorno e lumeggiati in pasta di calce. Sono, quindi, strati di colore sovrapposti uno sull’altro, in numero variante da uno a quattro. I pigmenti usati oltre al bianco di calce sono il nero di vite, l’azzurrite, l’ocra gialla, l’ocra rossa e la terra verde. Sulle zone delle teste aureolate in stucco, si notano tracce di preparazione diverse, tra quelle situate sul primo registro (segno circolare inciso, impronta gialla, piccoli fori impressi o piccole martellinature fitte e localizzate) e quelle del terzo (solo il segno dipinto e qualche impronta colorata) mentre è costante la presenza di chiodi di aggancio e quello di uno strato intermedio.283 Il ciclo incominciava nella zona superiore nord con l’Annunciazione, cui seguiva l’Andata a Betlemme (di cui è conservato il disegno preparatorio). Doveva quindi svolgersi con la Natività, l’Adorazione dei Magi (o forse il Battesimo). Terminava con due miracoli non identificati. Forse l’ultimo quello dell’Emoroissa. Le storie di Cristo dovevano continuare sulla parte opposta; con ogni probabilità si riferivano alla passione e alla gloria. Purtroppo le scarse tracce superstiti non permettono alcuna induzione. Nel registro inferiore della parete nord compaiono almeno due scene di martirio, paragonabili ad altre rappresentazioni dell’VIII e IX secolo a Malles, a San Vincenzo al Volturno e a Roma. Sulla parete opposta vi sono sicuramente la deposizione di un santo (o di una santa) in un sarcofago e l’abbandono di una città da parte di diversi cittadini e di una donna che sembra condotta fuori a forza. Le ipotesi 283

CFR Seminario internazionale sulla decorazione pittorica del San Salvatore di Brescia, Brescia 19-20 giugno 1981, Atti della ricerca bilaterale (Italia-Repubblica Federale Tedesca) promossa dal CNR. La cura editoriale del presente volume è stata tenuta dalla dott-ssa Maria Teresa Mazzilli, Università di Pavia, Istituto di Storia dell’Arte, Pavia, 1983

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CAPITOLO IV interpretative sono diverse. Potrebbe trattarsi di S. Giulia condotta via da Cartagine. Suggestiva è l’ipotesi che ricostruisce nei pannelli episodi della vita delle martiri Sophia, Pistis ed Helpis, le cui reliquie, prelevate nelle catacombe di Roma da Astolfo, sarebbero stare donate al monastero di San Salvatore. Si è suggerito anche di riconoscervi leggende di più martiri particolarmente venerate nel monastero e nella città. Il fatto che il programma degli affreschi associasse alla vita del Salvatore la passione dei martiri rendeva evidente la tesi di Sant’Ambrogio secondo la quale i martiri rappresentano la continuazione della passione di Cristo, dentro una storia sempre rinnovata e attuale che attraverso l’anello del martirio porta sino al sacrificio dell’altare.284 Lo stile delle storie è ricco di risorse, raffinato e complesso. Nonostante la gamma limitata delle tinte a disposizione, i pittori sono riusciti ad ottenere forti contrasti opponendo colori caldi a colori freddi, il tocco leggero delle lumeggiature dà animazione e, nello stesso momento, accentua il rilievo. Gli sfondi architettonici si aprono in una successione di quinte che suggeriscono la profondità; la loro tipologia ha affinità con gli affreschi di Castelseprio e con i rilievi sulla fronte dell’altare d’oro di S. Ambrogio di Milano.285 Nello stesso tempo si nota uno spostamento di tono quando dalla narrazione si passa alle figure isolate di santi, con l’adozione di modi che mettono in evidenza un atteggiamento diverso di fronte all’immagine di devozione rispetto alla scena narrativa. La datazione delle pitture è strettamente legata a quella della costruzione: poiché pitture e stucchi furono realizzati in una stessa campagna, anche se in una successione di fasi, e poiché gli stucchi coprono le anomalie dovute alla collocazione delle colonne e dei capitelli ravennati, l’arrivo dei marmi da Ravenna scandisce la loro datazione. Si vuole, infine, accennare brevemente alla cripta e porre l’attenzione sull’abside in cui erano affrescati tre riquadri, incorniciati da ghirlande simili a quelle dipinte in alcuni strombi delle finestre della navatella, che contenevano numerose immagini di santi entro un paradisiaco giardino fiorito. I fiori rappresentati negli affreschi sono 284

CFR C. Bertelli, Testimonianze epigrafiche e pittoriche del culto delle sante di Brescia”, in a cura di Andenna, “Arte, cultura e religione in Santa Giulia”, 2004, pagg. 45-56

285

CFR AA. VV. “L’età altomedievale: longobardi e carolingi. San Salvatore/S. Giulia, Museo della città Brescia”, Electa, Milano, 1999, pagg. 98-101

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CAPITOLO IV molto simili a quelli di San Salvatore a Sirmione, altra fondazione di Ansa. E’, inoltre, dalla cripta, che proviene la sola figura altomedievale in stucco reperita in San Salvatore il cui abito – un corto mantello a terminazione triangolare, trattenuto sulla spalla destra da una fibula, denota una data altomedievale. Purtroppo è acefala, la testa doveva essere inserita nel corpo dopo essere stata lavorata a parte.

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CAPITOLO IV 4.4 Ricerche ed indagini a San Salvatore-S. Giulia Se il complesso della basilica di S. Salvatore di Brescia riveste ormai un ruolo di primo piano nella discussione su architettura e decorazione nell’alto medioevo, ciò si deve alla serie di studi ai quali dettero impulso gli scavi e i restauri iniziati più di quarant’anni fa sotto la direzione di Gaetano Panazza e alla serie quasi ininterrotta di studi e ricerche che si sono succeduti fino agli anni Novanta. Tutti questi passi hanno permesso approfondimenti, maturazioni e l’evolversi, anche se non sempre lineare, dello stato delle conoscenze su questo importantissimo complesso architettonico. Già prima della moderna “rinascita” del S. Salvatore, nei primi anni Sessanta del secolo ormai trascorso, una serie di contributi sporadici, ma non per questo meno penetranti, si era affiancata alla più antica bibliografia relativa alla storia del complesso monastico richiamando finalmente l’attenzione sull’importanza primaria della basilica nel panorama dell’architettura altomedievale. Già Federico Odorici nelle sue “Antichità Cristiane” stampate a Brescia nel 1845 si era applicato – anche sulla scorta dell’interesse suscitato dall’opera pioneristica, anch’essa pubblicata a Brescia, di Giulio Cordero di San Quintino – allo studio dell’architettura e della scultura della basilica, da lui datate globalmente al secolo VIII, corredando le osservazioni con tavole ancor oggi preziose. Maggiori approfondimenti critici furono in seguito portati da Ferdinand De Dartein e ancor più da Raffaele Cattaneo, al quale si devono le prime lucide e penetranti osservazioni sulla cripta della basilica o sulla necessità di procedere alla valutazione comparata di architettura e decorazione.286 Ad Arthur Kingsley Porter e alla sua monumentale Lombard Architecture uscita nel secondo decennio del Novecento si deve poi riconoscere, anche relativamente al S. Salvatore, la consueta scrupolosità nell’interrogare comparativamente le fonti e l’edificio con la sua decorazione. L’opera di questi pionieri è tanto più meritoria in quanto ha permesso, pur gradatamente, il formarsi di una coscienza storica come monumento cardine 286

CFR S. Lomartire, “Architettura e decorazione nel S. Salvatore di Brescia tra alto medioevo e “romanico”: riflessioni e prospettive di ricerca”, in “Società bresciana e sviluppi del Romanico (XI-XIII secolo), a cura di G. Andenna, Milano, Vita & Pensiero, 2007, pagg. 117-151

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CAPITOLO IV dell’altomedioevo europeo. Ciò ha costituito un solido patrimonio storico e critico per le ricerche successive, un patrimonio del quale hanno potuto giovarsi innanzitutto le ricerche condotte a partire dalla fine degli anni Cinquanta da Gaetano Panazza, affiancato da Adriano Peroni, con l’avvio di scavi e restauri al complesso della basilica. Tali ricerche hanno costituito al tempo stesso il punto di arrivo degli studi fino a quel momento prodotti sull’edificio e l’avvio di una feconda fase di ricerche, che ha portato nel tempo ad approfondimenti, maturazioni, nuove osservazioni. Sino agli Novanta, pressoché ininterrottamente, nuove osservazioni hanno continuato ad arricchire e a chiarire le informazioni sulla basilica e sul monastero a cui essa appartiene dall’origine. Sulla cripta si erano da tempo rivolte le attenzioni dell’Odorico e del Cattaneo, con valutazioni assai divergenti. Gli scavi condotti da Gaetano Panazza idealmente si riconnettevano a quelli parziali del Da Ponte del 1898 e del Chierici del 1940. Le conclusioni del Panazza, a seguito dei restauri e degli scavi, portarono allo stabilizzarsi di una ipotesi di datazione della basilica attuale al secolo IX, in concomitanza con la reviviscenza della fortuna del cenobio in età carolingia: di conseguenza, nella chiesa più piccola precedente l’attuale sarebbe stato da riconoscere l’edificio coevo al monastero fondato, su terreno donato da re Astolfo, praticamente nel 753 da Desiderio e Ansa, appena prima della loro ascesa al seggio regale.287 La basilica è così entrata nella storia dell’arte occidentale come uno dei più significativi monumenti dell’età carolingia. Decisivo è stato il ruolo svolto dall’analisi comparata, sulla quale ha fornito studi illuminanti Adriano Peroni, dell’architettura e dei resti del ricchissimo apparato decorativo costituito da un insieme inscindibile di dipinti murali e stucchi che, pur nella sua estrema lacunosità, quasi non ha eguali nel panorama dell’architettura altomedievale europea; con una eccezione: il cosiddetto Tempietto Longobardo di Cividale. Si è infatti ben presto avviata la discussione sulla precisa determinazione dei rapporti cronologici e culturali tra i due edifici, accomunati oltre che da evidentissime affinità 287

CFR S. Lomartire, “Architettura e decorazione nel S. Salvatore di Brescia tra alto medioevo e “romanico”: riflessioni e prospettive di ricerca”, in “Società bresciana e sviluppi del Romanico (XI-XIII secolo), a cura di G. Andenna, Milano, Vita & Pensiero, 2007, pagg. 117-151

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CAPITOLO IV formali ed esecutive (pur nel diverso impianto architettonico), dal fatto di essere stati prodotti dalla più alta committenza immaginabile nell’Italia settentrionale tra VIII e IX secolo. Ci si trova senza dubbio in difficoltà nel rapportare il “longobardo” Tempietto cividalese al S. Salvatore “carolingio” di Brescia e al “bizantino” ciclo sepriese. Il fatto è che queste sono le insormontabili difficoltà portate dal quadro estremamente lacunoso dell’arte dell’alto medioevo, che costringe all’arduo esercizio di tentare di ricavare ricostruzioni

plausibili

di

un

panorama

ormai

perduto

mettendo

continuamente a confronto pochi elementi ed estremamente frammentari.288 Dopo gli scavi e le analisi stratigrafiche sulle strutture della basilica condotte da tempo da Gian Pietro Brogiolo, l’ipotesi che la chiesa che noi oggi vediamo sia effettivamente da riconoscere nell’edificio desideriano, si è nuovamente affacciata e, sostanziata da osservazioni circostanziate, si è riproposta come soluzione plausibile. La nuova ipotesi a cui si giunse, non senza esitazioni e ripensamenti, tanto è vero che numerosi saggi sull’argomento arrivarono alle conclusioni più disparate, parve la più accettabile, nonostante ci si rendesse conto delle obiettive difficoltà a cui si andava incontro. Tale nuova datazione per qualche tempo rimase pressoché ignorata e solo dopo qualche anno diede luogo a qualche reazione positiva, ma soprattutto, a reazioni negative. Delle tre categorie nella quali più o meno si possono dividere gli studi di quanti si occuparono dopo il 19581960 della questione, nella prima sono da collocare insigni specialisti stranieri, soprattutto francesi e tedeschi, che, o per scarsa cognizione dei ritrovamenti, o per la loro visuale volta a considerare problemi artistici e cronologici secondo la situazione d’oltralpe, o perché autori di opere di grandi sintesi e quindi tali da trascurare spostamenti cronologici di 70-80 anni, continuarono nell’assegnare la chiesa a tre navate all’epoca desideriana. Vi è un secondo gruppo costituito da studiosi che – a volte con qualche esitazione, a volte con qualche divergenza, a volte concordando pienamente, accettano le conclusioni che assegnano la chiesa a tre navate 288

CFR S. Lomartire, “Architettura e decorazione nel S. Salvatore di Brescia tra alto medioevo e “romanico”: riflessioni e prospettive di ricerca”, in “Società bresciana e sviluppi del Romanico (XI-XIII secolo), a cura di G. Andenna, Milano, Vita & Pensiero, 2007, pagg. 117-151

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CAPITOLO IV all’età post-desideriana: tra questi Vallery-Radot, Meyer, Fillitz, Duval, Rasmo, Salmi, Lorenzoni, Ragghianti, Romanini, Claussen, Belting. Infine vi è la categoria di coloro i quali negano la validità delle ipotesi di Panazza, Peroni e Bognetti: fra questi particolarmente degni di nota sono Bona, Ruggiu Zaccaria, Gioseffi, Torp, Tavano, Gaberschek, Weis.289 Inserire il discorso sugli affreschi alla luce delle nuove considerazioni non è operazione semplice. Al tempo del VI Congresso Internazione di Studi sull’Alto Medioevo, il problema della pittura carolingia in Italia veniva affrontato in maniera molto diversa; da quel momento molti progressi sono stati fatti. Nonostante si sia consapevoli di quanto, soprattutto quando si parla di arte altomedievale, schemi per una presunta evoluzione stilistica siano applicabili solo in maniera piuttosto arbitraria, soprattutto in una zona di frontiera, ad un confronto fra gli affreschi bresciani e quelli cividalesi, questi ultimi date le forme maggiormente stilizzate farebbero propendere per una data più inoltrata. Dobbiamo essere pronti a riconoscere in tutta l’Europa carolingia la presenza di una pluralità di stili, soprattutto dopo gli studi di Koehler. Il problema in Italia è che troppo poco si sa dell’elaborazione dell’arte bizantina nel secolo e mezzo che dura la controversia sulle icone; mentre gli affreschi di Roma conducono verso un progressivo irrigidimento delle forme, le testimonianze indirette dell’area carolingia e dell’Italia settentrionale ci fanno avvertire il recupero di una libertà da tempo dimenticata, in continuità con gli esiti della pittura e del mosaico a Roma agli inizi dell’VIII secolo. La scoperta degli affreschi di San Vincenzo al Volturno, in cui J. Mitchell ha riconosciuto tratti comuni agli affreschi di Mustair, ha indotto lo stesso all’ipotesi che anche gli artisti dell’abbazia alle sorgenti del Volturno fossero longobardi, eventualmente giunti nella Langobardia Minor dopo il crollo del regno. Ma gli affreschi di Seppannibale, resi noti da Gioia Bertelli, mentre dimostrano contatti con San Vincenzo al Volturno, d’altra parte appartengono alla stessa facies di altri affreschi campani meglio nota e più qualificata che non quella del nord Italia, ancora sfuggente e poco unitaria. Gioseffi, Peroni e Panazza cercarono di togliere gli affreschi di Castelseprio dal loro isolamento 289

CFR G. Panazza, “Brescia e il suo territorio da Teodorico a Carlo Magno secondo gli studi fino al 1978”, in G. Panazza, “Ricerche su Brescia altomedievale”, 1962

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CAPITOLO IV mettendo in rapporto, il Peroni, una sinopia di Brescia

con la scena

dell’andata a Betlemme di S. Maria foris portas. Questi confronti sembrano tanto più pertinenti se si accetta la proposta di integrazione dell’iscrizione in S. Salvatore che la attribuisce a Ludovico rex. La cronologia degli affreschi di Brescia verrebbe a coincidere con quelle proposte per Castelseprio, al tempo del conte Sergio, durante il regno di Ludovico, sicuramente prima dell’859, con ogni probabilità dopo il trattato di Verdun.290 Così da una parte negli stessi affreschi di San Salvatore riscontriamo una dicotomia che dobbiamo assumere come tipica di un’età e dall’altra,

nonostante

l’affinamento

delle

conoscenze sulla pittura

altomedievale nell’Italia settentrionale gli affreschi di Brescia chiedono non tanto di essere messi a confronto con altri, quanto di essere compresi nella loro singolarità. Gli affreschi di San Salvatore sono complessi per la loro decifrazione, ma anche per gli apporti di culture tecniche, iconografiche e stilistiche che rivelano. Ad esempio a San Salvatore le sinopie si rivelano come “previsioni” della pittura che poi apparirà a vista e sono una riprova del sistema razionale seguito nella decorazione di uno spazio tanto grande, ed è tutto l’opposto dell’improvvisazione che caratterizza la decorazione di ambienti più piccoli, come Torba, Malles, Naturno. Corrisponde invece all’attento calcolo progettuale di Mustair, su una superficie non meno estesa. Forse anche perché sono una finestra aperta su di un mondo poco noto, che da Bobbio percorre l’Italia settentrionale verso nord-est, collegando l’Appennino alle prealpi bresciane.291 Negli anni Novanta, intanto, l’apparato decorativo venne restaurato da Stefania Tonni. Va dato merito inoltre a Gabriele Archetti per le importanti indagini documentarie. Pierfabio Panazza si è interessato della descrizione particolareggiata e delle notazioni di tipo iconografico, tenendo presente però il fatto che non siamo 290

Nel Trattato di Verdun dell'843 i tre figli sopravvissuti di Luigi (Ludovico) il Pio divisero il suo territorio, l'Impero Carolingio, in tre regni. Il figlio maggiore, Lotario I, aveva dichiarato guerra ai fratelli fin dalla morte del padre nell'840. Dopo la sua sconfitta nella battaglia di Fontenay (841) e l'alleanza tra i suoi fratelli, sigillata nel Giuramento di Strasburgo, Lotario era disposto a negoziare. Ognuno dei fratelli aveva già un suo regno - Lotario in Italia, Ludovico II il Germanico in Baviera, e Carlo il Calvo in Aquitania. Lotario ricevette la parte centrale dell'impero - quella che in seguito divenne Paesi Bassi, Lorena,Alsazia, Borgogna, Provenza, e Italia - e il titolo imperiale come onore, senza avere più che un comando nominale. Ludovico ricevette la parte orientale, gran parte di quella che divenne più tardi la Germania, sotto forma di Sacro Romano Impero. Carlo ricevette la porzione occidentale, gran parte della quale sarebbe divenuta la Francia. Anche se spesso viene presentato come la devoluzione o la dissoluzione dell'impero unitario di Carlo Magno, il trattato in effetti riflette la continua aderenza alla tradizione Franca di una eredità divisibile invece che di una che favoriva solo il primogenito. 291

CFR C. Bertelli, “La pittura di S. Salvatore nel contesto carolingio”, in “S. Giulia di Brescia: archeologia, arte, storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa”, a cura di C. Stella, G. Brentegani, Brescia, 1992, pagg. 211-216

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CAPITOLO IV in grado di ricostruire con certezza la disposizione e la sequenza nella collocazione originaria. Circa le coordinate stilistiche e cronologiche a cui i capitelli, soprattutto quello istoriati possono essere riferiti esiste una bibliografia cospicua, che parte da lontano. Abbandonata presto la datazione all’VIII secolo sostenuta dall’Odorici sulla scorta di una ricca tradizione storiografica soprattutto locale, già il Cattaneo riconduceva i pezzi al XII secolo, seguito da De Dartein, Porter, e poi Toesca, Venturi, Panazza, fino a Géza de Francovich, fra gli altri. La cronologia si è andata precisando alla seconda metà del XII secolo, con il riferimento a maestranze non locali, e segnatamente antelamiche, già da parte del Cattaneo e poi di Panazza e de Francovich, ma anche sulla scorta delle menzioni di Magistri Antelami a Brescia nel tardo XII secolo fornite dal Bognetti. Ha raccolto e precisato tali proposte Gaetano Panazza, che ha riconosciuto nei capitelli della cripta di S. Salvatore, e di conseguenza nelle strutture architettoniche cui essi sono legati, strette affinità con gli interventi ad opera di lapicidi campionesi o antelamici.292 Nel giugno del 1981 si svolse un importante seminario, a Brescia, sulla decorazione pittorica del San Salvatore. Il convegno si apriva con un intervento di Bruno Passamani, l’allora direttore dei Musei Civici di Storia ed Arte. Il piano per la sistemazione museografica del Complesso di S. Giulia e degli spazi archeologici che esistono su Via Musei si precisò come programma comunale fin dal 1975 e fu approvato formalmente nel 1979, dopo un quadriennio di dibattiti, di ricerche e di formulazioni, di proposte che videro la presenza attiva delle forze politiche, della Direzione Musei, di esperti di problemi urbanistici e museografici. Proprio il momento di trasformazione del complesso in museo fornì l’occasione per fare il punto della situazione e gettare le basi per nuovi obiettivi di analisi e studio. Nel 1978, inoltre, si svolse proprio a san Salvatore una mostra sul monastero. Il seminario chiosava e iniziava allo stesso tempo anni di interrogativi e risposte sul complesso e sulla sua decorazione. I cardini della prospettiva di ricerca erano molteplici. Se da una da parte gli studi intendevano allacciarsi a quello che già era stato fatto, proprio la mostra del 1978 poneva la 292

CFR S. Lomartire, “Architettura e decorazione nel S. Salvatore di Brescia tra alto medioevo e “romanico”: riflessioni e prospettive di ricerca”, in “Società bresciana e sviluppi del Romanico (XI-XIII secolo), a cura di G. Andenna, Milano, Vita & Pensiero, 2007, pagg. 117-151

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CAPITOLO IV questione del rapporto esistente fra il S. Salvatore come opera d’arte e del S. Salvatore come contenitore di opere d’arte, in riferimento alla mole di manufatti rinvenuti negli scavi. Il piano quindi si ricollegava a quello già individuato e in parte realizzato nell’Ottocento, sulle proposte di Luigi Lechi (1861) e di Pietro da Ponte (1877), che si concretizzò nel trasferimento di parte del complesso monumentale dalla proprietà dello Stato a quella del Comune. Si specifica di parte del complesso perché a quell’epoca vennero trasferiti al Comune solo le tre chiese di S. Giulia. S. Salvatore e S. Maria in Solario. L’acquisizione venne promossa tramite la Commissione Provinciale per la Conservazione e l’Illustrazione dei Monumenti e dei Documenti Bresciani e portò all’inaugurazione del Museo Cristiano nel 1882. Sicuramente il contributo più importante alla storia critica del monumento bresciano lo diedero le ricerche sistematiche condotte da Gaetano Panazza con l’assistenza del Peroni e del Guarnieri, che formarono argomento dell’VIII Congresso di Studi sull’Altomedioevo. Il collegamento fra il piano ottocentesco, la mostra, il seminario lo individuò proprio il Passamani in un passaggio del suo intervento: “Il Vostro contributo è altamente apprezzabile in quanto porterà sicuramente luci nuove alla dibattuta questione circa la cronologia degli affreschi, e circa la loro collocazione storica e stilistica, il che significa circa anche le vicende costruttive della Basilica di S. Salvatore. E’ un tema che affascina gli specialisti, ma è un tema di fondamentale interesse anche per coloro che si occupano in questo momento della rivalutazione del Complesso di S. Giulia nel quadro di quel vasto programma di restauri e di riorganizzazione museale di cui Voi siete stati informati e di cui avete visto i segni nel corso del sopralluogo di questa mattina”.293 Sicuramente, e comunque è quello che interessa presentare in questo paragrafo, i dibattiti più accesi e che alimentarono una lunga storia critica piena di obiezioni, fu la questione che interrogava il ciclo pittorico bresciano altomedievale e che chiedeva se si trattasse di un’unica campagna decorativa. Magistrale fu a tal proposito l’intervento del Peroni al seminario già citato e che avveniva a ben circa 293

Seminario internazionale sulla decorazione pittorica del San Salvatore di Brescia, Brescia 19-20 giugno 1981, Atti della ricerca bilaterale (Italia-Repubblica Federale Tedesca) promossa dal CNR. La cura editoriale del presente volume è stata tenuta dalla dott-ssa Maria Teresa Mazzilli, Università di Pavia, Istituto di Storia dell’Arte, Pavia, 1983, pag. 11

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CAPITOLO IV vent’anni dalla prima organica presentazione delle pitture ad opera di Gaetano Panazza. Lo studio oltre ad interessarsi del contesto pittorico, ovviamente si correlava in maniera interdisciplinare con altri ambiti quali quello storico o archeologico o comunque si legava a doppio filo con altre questione riguardo lo stesso ciclo pittorico, quali i rapporti con le pitture di Cividale e Castelseprio. Partendo dal presupposto che per il Panazza i frammenti della decorazione della basilica erano pertinenti a un unico, sebbene articolato, ciclo, due sono gli studi che, sia pure in termini diversi, imboccarono la strada indicata dalle ricerche sopra citate: l’uno quello di Barbara Anderson, nella tesi di laurea presso l’Università di Berkeley sugli affreschi di S. Salvatore del 1976, l’altro di Adolf Weis nella monografia sul S. Salvatore del 1977. In entrambi gli studi si sostiene che i frammenti pittorici presenti in situ siano riconducibili a due successioni distinte di cicli diversi; nel caso della monografia del Weiss con argomentazioni più iconografiche e storiche, nel caso della tesi dell’Anderson in maniera più organica, sulla base di osservazioni dirette. All’Anderson si è appoggiato in seguito il Wright nella sua trattazione delle fonti della pittura murale di età longobarda. Il nodo della questione è molto più complesso di quella che può apparire: se infatti si ravvisassero due distinti cicli pittorici, il primo da collocare nell’VIII secolo e il secondo del IX, si avrebbe da una parte una più facile spiegazione per innegabili contraddizioni interne ai reperti pittorici, dall’altra un suggerimento d’appoggio a considerare la basilica pervenuta come quella fondata da Desiderio, duca di Brescia, poco dopo la metà del secolo VIII, e non già una sua ricostruzione seguita al principio o nella prima metà del IX secolo.294 Tale soluzione andava incontro a ripetute critiche e perplessità sollevate sulla distinzione tra la basilica stessa e l’edificio che la precedette, ritrovato negli scavi. Trattandosi di materia squisitamente tecnica, oltre all’imprescindibile riesame ravvicinato della stratigrafia pittorica, si trattava di produrre analisi appropriate, rilievi e disegni dello stato dei materiali, raddrizzamenti fotogrammetrici, prelievi di campioni di superfici pittoriche per sottoporli al vaglio delle analisi tecniche. Ciò fu fatto solo in parte e i risultati furono solo in parte 294

CFR A. Peroni, “San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico altomedievale rivisitato”, in “Arte Medievale”, 1, 1983, pagg. 53-80

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CAPITOLO IV disponibili. La superficie pittorica è rimasta pressoché inalterata dal momento dello scoprimento. Si tratta sì di frammenti, ma cospicui se si considera che alcune scene del ciclo sono quasi interamente pervenute, così come ampi tratti della cornice di coronamento a finte mensole; i casi isolati sono invece difficili da ricollegare fra loro. Strettissimo apparve sin da subito il rapporto con l’architettura; ne sono indizi oltre alle numerose tracce della suddivisione in riquadri su tre registri, i segni dei tracciati preparatori, su ampi resti dell’intonaco bianco che precedette la pittura e il completamento della decorazione a stucco di sicuro certificava che all’interno si era voluto dare un integrale e organico rivestimento tale per cui si volle ricoprire e trasfigurare l’intera struttura nella navata centrale, nelle navatelle laterali e nei muri perimetrali, sino ad invadere gli intradossi delle finestre.295 Le imponenti tracce ad affresco e di stucchi testimoniavano stretti rapporti qualitativi e quantitativi: da questo fondamentale presupposto si basava la documentazione del Panazza, consistente in grafici dei calchi eseguiti su carta da lucido. Su questo fondamentale assunto in realtà, data la sua oggettività non ci furono mai obiezioni; tanto è vero che l’Anderson basava la sua tesi su un altro punto, che non era il ribaltamento dell’ipotesi del Panazza: l’Anderson sosteneva che i due eventuali cicli distinti si sarebbero succeduti sullo stesso canovaccio distributivo. Più chiaramente, tutto quanto esiste di dipinto a S. Salvatore sarebbe pertinente al secondo ciclo, il quale però avrebbe adottato i tracciati del primo. Non si fa cenno a quale campagna decorativa debbano far riferimento gli stucchi, ma questo deriva probabilmente dalla difficoltà di attribuire agli stessi una cronologia su base stilistica. Tuttavia appare scontato come questi debbano far riferimento alla seconda campagna, mentre le aureole eseguite in stucco con tecnica preparatoria simile andrebbero considerate pertinenti alla prima fase, vista la concordanza con le sinopie relative a episodi cristologici, anch’esse dunque da attribuire al primo stadio decorativo. La distinzione delle due fasi pittoriche da parte di Barbara Anderson è appoggiata prima di tutto su contraddizioni interne alle vicende stratigrafiche, facendo tesoro di testimonianze indirette, delle connesse successioni di rivestimenti, inoltre di 295

CFR A. Peroni, “San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico altomedievale rivisitato”, in “Arte Medievale”, 1, 1983, pagg. 53-80

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CAPITOLO IV incongruità narrative, proporzionali e di compatibilità compositiva delle figure. Solo due sarebbero i punti incontestabili dove la pittura del primo strato si sarebbe conservata. Certo, questa ammissione è fonte di perplessità, andando contro il principio di economicità dei rifacimenti, per cui di un eventuale primo ciclo, sopravvive in tutte le zone interessate dalla decorazione solo qualche lacerto, non nessun frammento in alcuni punti e intere scene in un’altra zona. Calcolando che la sovrapposizione di due strati di intonachino in questa presunta traccia di prima pittura, si spiega individuando nel sottostante il lembo residuale della pontata superiore, e tenendo conto della continuità della pennellata, si capirà come fondamentale risulti l’analisi dei modi e delle tappe effettive di realizzazione, perché dalla nozione di tale processo dipendono non pochi elementi per fondare un giudizio qualitativo. L’intonaco imbiancato si trova non solo sulle pareti del clearstory della navata centrale, ma anche su quelle delle navate minori, e persino entro le finestre, sempre in rapporto con una stesura dipinta integrale che, perduta in più vaste porzioni, lo lascia scoperto, e sempre intaccato da segni di martellate.296 La frequenza di queste e la presenza costante dello scialbo macchiato da colature di colore, inducono a ribadire che la stesura di questo intonaco fu preliminare e generalizzata. Lo scialbo di per sé farebbe da una prima elementare finitura non immediatamente precedente l’esecuzione della pittura. Per questo l’intonaco fu martellato una prima volta, per accrescere l’aderenza nei confronti di quella, aderenza non certo aumentata, ma anzi piuttosto ridotta dalla scialbatura. L’ipotesi che questa debba ritenersi un passaggio utile per agevolare i tracciati preparatori e le sinopie va considerata corretta anche tenendo conto del fatto che è improbabile l’idea di una semplice imbiancatura priva di qualsivoglia decorazione; il fatto che la pittura seguisse su apposito successivo intonaco sottile è procedimento scontato di una tecnica che prevedeva di impiegarlo a larghe zone d’intervento esecutivo, e non integralmente “a buon fresco”; altri casi come S. Maria Antiqua e Castelseprio, presentano la stessa successione di intonaco grezzo imbiancato prima di essere dipinto oltre che martellato. Ad ogni modo l’intonaco di base risulta steso a fasce progressive 296

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CAPITOLO IV dall’alto in basso, che non coincidono con quelle dei successivi registri dipinti. Risultano alte circa un metro, ma anche molto meno, con passaggi molto irregolari che tradiscono il procedimento del rinzaffo a lisciatura con la mensola (o il frattazzo), introducendo nella successione delle pontate il segno di una dimensione tutta manuale. La pittura segue su uno strato molto sottile chiamato anche “intonachino”, definibile come un intonaco sottile lisciato, bianchissimo in sezione per l’abbondante presenza di carbonato di calcio, il quale ha trattenuto una stesura dei pigmenti in prima applicazione, e molto meno di ulteriori stesure soprammesse, e ciò in ragione di una stesura cosiddetta mista, più volte descritta, che si distingue dal classico “buon fresco” proprio perché non vincola l’intera stesura del colore al tempo (“giornata”) di umidità che da luogo al processo di carbonatazione della calce. In più punti, infatti, si scorgono le giunture tra le diverse superfici di “intonachino”, che, per quanto si può controllare, coincidono con la seguente successione dall’alto in basso. E’ chiaro che il sistema di esecuzione fu “a pontate”. E’ di particolare importanza agli effetti di una corretta interpretazione stratigrafica rendersi conto che non solo le successioni non sono rigide, ma che normalmente la pontata successiva si sovrappone in larghi lembi a quella superiore, che a sua volta può scendere al di sotto della linea di delimitazione del registro. Non si possono nemmeno escludere riprese che portino a siffatte ripartizioni, tutte le volte che un pentimento lo richiedeva. Tra l’intonaco imbiancato e martellato e la pittura si scorgono varie operazioni preparatorie, che sono del più alto interesse. A parte le colature casuali si propongono in prima istanza i tracciati a corda battuta della griglia dei registri e delle scene. In secondo luogo ci sono le sinopie, che si distinguono nettamente per la loro varietà stilistica e funzionale. Siffatte contraddizioni documentano incontestabili scompensi qualitativi in un insieme che tuttavia deve essere coerente, e di cui rivelano positivamente il peculiare svolgimento.297 Certamente c’è la mano di un grande maestro, ma già nelle sinopie si rivelano, anche quando deve trattarsi della stessa impresa, mani diverse di minore livello, se non di allievi e di 297

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CAPITOLO IV esecutori dozzinali. Molta attenzione è stata tributata dall’Anderson alle aureole.

La

loro

tecnica

risulta

assai

irregolare,

immettendo

incontestabilmente l’uso dello stucco nella stessa stratigrafia pittorica. Il punto cruciale è che questa monumentalizzazione dell’aureola coinvolge il rapporto tra sinopia ed esecuzione successiva. Se infatti la sinopia non comportava un’assoluta fedeltà esecutiva della pittura, le coincidenze tra sinopia e impronta di aureola dimostrano che la rispondenza era piena. Se la particolare conformazione delle porzioni circolari a stucco ha provocato la totale distruzione di queste parti, ciò non è necessariamente stato provocato dal secondo presunto successivo strato pittorico, ma da qualunque esigenza ulteriore di eliminare l’aggetto in stucco. La presenza di questi dischi può spiegare la conservazione di lembi circonvicini di pittura, in quanto protetti per un certo tempo dall’aggettare dello stucco. Lo stesso fenomeno si è verificato in prossimità delle ghiere in stucco, sopra gli archi della basilica. La soluzione mista di aureole dipinte o realizzate a stucco, esattamente come le anomalie dimensionali o proporzionali tra personaggi e altre incongruità, risultano essere elementi propri di un fare pittorico e non già segni di distinte imprese pittoriche. La concordanza di tecnica e di assortimento dei colori è tale, secondo il Peroni, da prevalere su tali considerazioni.298 La buona conservazione di alcuni frammenti ha anche permesso di individuare degli interessanti rapporti fra tecnica e stile. Osservando alcune teste, peraltro tenendo presente che la conservazione della sostanza pittorica “finita” è un rarissimo barlume, che va ricavato con l’immaginazione più da tracce e impronte quasi impalpabili che non dalle superfici pervenutevi, rincresce ad esempio la perdita delle finiture di superficie, si può dire che su un giallo ocra di fondo, definito da contorni rosso bruni, le teste venivano progressivamente modellate con dei verdi, e ancora dei rossi, ma alla fine con dei bianchi che si concentravano altresì come “luci” sulla canna del naso sino ai vertici delle palpebre; le stesse, inoltre, concorrevano a un modellato non chiuso, né seccamente definito, ma eminentemente prodotto dalla trasparenza di una tale sovrammissione. La stessa trafila comparativa può essere ripercorsa per altri significativi

298

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CAPITOLO IV particolari come le architetture di fondo, i panneggi e gli elementi di paesaggi. Per esempio, per quest’ultimo caso, analizzando alcuni frammenti, si può osservare come le fronde siano spesso rese con variegate striature quasi a intarsio, dove la ricchezza del colore si carica di intensi accostamenti, proponendo un notevole contrasto con la resa a macchie che troviamo a Castelseprio. Sicuramente esistono analogie evidenti nella resa di particolari delle figure e dei fondi; su questa constatazione si innesta anche quella della compattezza compositiva, nel senso che fatti e vicende aggruppano

saldamente

personaggi

e

quinte

architettoniche

poco

concedendo ad una distensione degli sfondi. Si nota un costante sfruttamento della possibilità di scalare le figure dall’alto in basso e negli angoli in funzione di una dominante figurale. Tornando ai rapporti fra tecnica e stile sembra necessaria un’ulteriore digressione sulle sinopie. Quale che sia la data che si voglia attribuire all’architettura della decorazione, nessun contesto decorativo altomedievale presenta, al prezzo certo molto alto di tante perdite, un così dovizioso osservatorio di operazioni preparatorie. Nessun ciclo altomedievale dispone di un così multiforme corredo di sinopie. In questo senso, il S. Salvatore di Brescia merita di essere immesso nella storia delle radici medievali del disegno. La diversità degli interventi a livello di abbozzi preparatori certo non è tale da fissare fasi distinte, ma piuttosto indice di una variabilità interna al procedimento stesso, all’organizzazione stessa del lavoro. Tenendo sempre presente il fatto che la conservazione delle sinopie spesso dipendeva da fattori casuali quali una preparazione più accurata o un supporto più umido che abbi meglio garantito la durata delle pennellate, se bisogna prendere con le pinze la corrispondenza in alcuni casi della sinopia con la pittura, e ovviamente a maggior ragione, bisogna stare attenti nel voler decretare come più importanti da un punto di vista qualitativo nella economia generale della composizione della scena, le figure precedute, in fase di preparazione, da una sinopia, sicuramente non si può trascurare la sopravvivenza delle stesse e sicuramente utilizzarle come studio della realizzazione di un ciclo pittorico in età altomedievale.299 Di fatto i fondi e 299

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CAPITOLO IV forse anche particolari episodici secondari appaiono essere stati realizzati senza precedenti indicazioni di abbozzi. E siccome è improbabile che tali elementi fossero aggiunti a caso, come complementi assolutamente estemporanei, mentre probabilmente si appoggiavano a modelli più o meno canonizzati, si deve prendere atto di un diverso procedimento per parti diverse della singola composizione. Occorre, quindi, rendersi conto che in siffatte operazioni si coordinavano apporti diversi e chiedersi in che misura questo innesto di diversi interventi consentisse una diversa applicazione di questa ipotizzata “disciplina degli exempla”. Torniamo ancora alle aureole che, per quanto come già dimostrato non si possano prestare a conclusioni troppo definitive visto l’esiguo numero con il quale ci sono pervenute, sicuramente rappresentano un importante elemento iconologico, nel senso che loro sì, al contrario delle sinopie, rappresentano un dato di superiorità qualitativa e nella composizione della figura.300 I tracciati a corda battuta fanno intuire l’opportunità di un’estensione preventiva globale dell’arriccio o primo intonaco sul quale solamente poteva essere preliminarmente delineata la spartizione tra registri e riquadri. Anche la scialbatura potrebbe interpretarsi non altro che come una prima provvisoria finitura, ma sempre in funzione preparatoria, anche forse per rendere più evidenti le spartizioni e le sinopie. Dopo l’intervento dei tectores, cioè dei muratori addetti all’intonacatura, i pittori passavano di volta in volta dalle sinopie alla pittura seguendo l’ordine dall’alto in basso, per zone assimilabili alle pontate. Sull’intonachino umido veniva steso il colore di fondo che per le teste era l’ocra gialla, ovviamente anche per le parti anatomiche in vista, come le mani, per i paesaggi il rosso, per alcune architetture un colore scuro, per il cielo un blu variato con il verde. Seguivano le ulteriori operazioni di definizione di ogni particolare con le sovrapposizioni e trasparenze finali. Pochi esempi possono superare il S. Salvatore nella ricchezza e nella complessità della compagine strutturale-decorativa, anche se questa cognizione richiede oggi al visitatore e allo studiosi un notevole sforzo di integrazione ideale.301 Innegabile è il confronto che le pitture bresciane

300

CFR A. Peroni, “San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico altomedievale rivisitato”, in “Arte Medievale”, 1, 1983, pagg. 53-80

301

CFR il concetto brandiano di sistema muratura-affresco

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CAPITOLO IV offrono con gli affreschi cividalesi e quelli di Castelseprio. Sicuramente tra questi

paragoni,

più

indagato

è

stato

quello

con

Castelseprio;

nell’analizzarlo si dovrà sempre tenere presente che più che suggerire chiare risposte il paragone assomiglia più a un’equazione a due incognite, rimane il fatto che le analogie pregnanti esistono e che un parallelismo di fatto, per quanto sia sempre parziale, risulta essere, specie in questo caso penetrante. Vista la complessità dell’analisi si riportano delle acutissime osservazioni di Adriano Peroni. L’accertamento della sostanza originaria della finitura pittorica, con stesure soprammesse, effetti allusivi e pennellate “aperte”, disgregate e sfrangiate, avvicina indubbiamente i frammenti bresciani alle pitture di S. Maria foris Portas. “E’ notevole anche una certa similarità di comportamento nella diversa selezione dei mezzi pittorici destinati ai soggetti dichiaratamente iconici, sicché si avverte anche in questo una certa parentela. E tuttavia restano nette divergenze . Vistosa fra tutte la diversa concentrazione dell’impeto coloristico che a Castelseprio investe con coerenza ineguagliata contorni e macchie di colore, laddove i primi a Brescia risultano normalmente chiusi e ingrossati, salvo alcuni tratti fisionomici: siamo alle soglie di una stilizzazione lineare”.302 “Si passa a un contorno

netto

all’inverso

prevalere

di

un

modellato

rapido,

“compendiario”, dove non c’è centimetro della pennellata che non sia dosato di intensità variabile e tuttavia governata da un affetto espressivo”.303 “[…] per constatare come a Brescia il colore sia anche più festoso, ma anche striato e rappreso, mentre a Castelseprio vibra in contrasti più semplici, ma atmosfericamente dilatati, dove non mancano neppure le ombre riportate. Nessun dubbio che la condizione originaria della pittura documenti a Brescia una fondamentale sensibilità per un’applicazione del colore libera da costrizioni lineari, ma secondo specifiche variabili, che ci portano lontano dal pittoricismo “costituzionale” di Castelseprio, il quale sa esprimersi indipendentemente dalla gamma cromatica.”304 Pare dunque che il nesso tra le due imprese pittoriche rimanga netto e importante, tanto più 302

A. Peroni, “San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico altomedievale rivisitato”, in “Arte Medievale”, 1, 1983, pagg. 74-75

303

Ivi, pag. 75

304

Ibidem

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CAPITOLO IV importante per la prova vicina e parlare di rapporti diretti tra pittura importata da maestri orientali e pittura occidentale. Nello stesso tempo esso va anche precisato e circoscritto, nel senso che a Brescia operano anche maestri di altra estrazione, che nel complesso congegno decorativo, combinato con gli stucchi, dovevano realizzare un’impresa radicalmente nuova”.305Ovviamente negli anni le ricerche sono andate avanti. Si riporta un passo di Brogiolo che ci offre nuovi e interessanti spunti di riflessione: “Recenti indagini consentono ora di spostare l’attenzione, senza peraltro dimenticare quegli illustri esempi, sulle due dipendenze monastiche di Sirmione e di Pavia, già ricordate per l’analogia nella cripta. Nella cripta di Sirmione, gli affreschi superstiti raffigurano un santo su uno sfondo di un giardino con rose rosse su campo giallo. Analogo motivo delle rose troviamo nel S. Felice di Pavia, all’interno di due tombe di badesse, recentemente scoperte. Le rose rosse che troviamo in tutti e tre i cicli, i ricami del cuscino della tomba di una badessa assai simili a quelli delle finte crustae marmoree, i toni di colore giallo oro e rosso mattone; taluni caratteri paleografici, con l’alternanza di lettere in onciale e in capitale, che ritroviamo sia a Pavia che a Brescia costituiscono forse qualcosa di più di una vaga somiglianza.306 I confronti incrociati tra i tre edifici di età desideriana sono peraltro molto puntuali anche per l’architettura: la cripta del S. Felice, ricorda nella struttura quella di Sirmione; le arcature cieche che incorniciano le finestre partendo da uno zoccolo, pur essendo diffuso nell’architettura altomedievale europea, trovano in primo luogo una stretta analogia con Brescia e Cividale. Non è probabilmente casuale che i confronti più puntuali siano con celle monastiche dipendenti dal monastero bresciano fatte costruire da Desiderio e/o Ansa. Indizio assai consistente per ipotizzare una datazione a quel periodo e spiegarne le analogie con l’impiego di maestranze al servizio della committenza regia. Il motivo delle rose su sfondo giallo non è tuttavia ristretto all’area padana. Lo ritroviamo infatti a Seppannibale (seconda metà dell’VIII secolo?), unitamente ad altri temi che ricordano quelli della cripta bresciana: la decorazione a tralci e 305

A. Peroni, “San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico altomedievale rivisitato”, in “Arte Medievale”, 1, 1983, pag. 76

306

CFR G.P Brogiolo, “La nuova sequenza architettonica e il problema degli affreschi del San Salvatore di Brescia”, in “Arte d’Occidente: temi e metodo. Studi in onore di Angiola Maria Romanini”, a cura di Cadei, Roma, 1999, pagg. 30-31

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CAPITOLO IV quella a semicerchi entro bande nel sottarco. Si tratta di motivi peraltro diffusi in un ambito cronologico più ampio. In S. Maria Antiqua a Roma, negli affreschi di Giovanni VII dell’inizio dell’VIII secolo, sono assai simili i cerchi del sottarco. Nella cripta di Epifanio di S. Vincenzo al Volturno (inizi del IX secolo) ritroviamo le rose rosse su sfondo giallo. Se guardiamo ai particolari, e il medesimo risultato è emerso dal lavoro della Davies Weyer sugli sfondi architettonici, possiamo collegare le pitture bresciane a esperienze maturate in differenti contesti ed entrate a far parte di un repertorio iconografico destinato a prolungare dall’VIII al IX secolo. Riassumendo, dalla metà dell’VIII secolo, nell’intero territorio del regno longobardo da Pavia a Cividale a Brescia, operò un gruppo di artisti legato alla committenza regia che, nell’ambito di una lunga tradizione debitrice di altre esperienze regionali, era in grado di esprimere alti livelli di elaborazione nel’architettura, nella scultura e negli affreschi”.307 Ma il ciclo pittorico di San Salvatore di Brescia è quindi afferente a una o a due successive campagne decorative? “E’ stata presto abbandonata l’ipotesi di Barbara Anderson circa la successione sulle pareti della navata di due distinti cicli figurativi, apparentemente suggerita dalle differenze talora riscontrabili nelle zone in cui le lacune dell’intonachino dipinto lasciano affiorare le sinopie. Adriano Peroni ha mostrato come e in qual senso vada inteso il rapporto tra sinopie e dipinti: soli portatori, questi ultimi, del lessico narrativo ed espressivo, pur liberamente graduato ma sottoposto a convenzioni e a procedimenti tecnici condizionanti, laddove le prime, delegate al necessario preordinamento di una serie ciclica e complessa di scene narrative in una griglia che comprendeva anche clipei, fasce decorative, iscrizioni, parti rilevate in stucco, e dunque destinate ad essere subito occultate, obbediscono a necessari criteri di rapidità di esecuzione dai quali scaturisce un linguaggio altamente evocativo, con funzione non però narrativa ma eminentemente tecnica, e tuttavia affascinante per la sua rarità e per il diseguale rapporto con i minimi resti pittorici a cui si correlano. Diversi e di diversa estrazione dovettero essere i maestri attivi nel ciclo bresciano; Adriano Peroni ha segnalato come l’accostamento abusato con 307

G.P Brogiolo, “La nuova sequenza architettonica e il problema degli affreschi del San Salvatore di Brescia”, in “Arte d’Occidente: temi e metodo. Studi in onore di Angiola Maria Romanini”, a cura di Cadei, Roma, 1999, pagg. 30-31

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CAPITOLO IV Castelseprio sia da ridimensionare, o meglio da ridefinire, in ragione delle palesi divergenze espressive tra i due cicli, che privano le pitture bresciane – dove il controllo tecnico produce contorni chiusi e modellati compatti – di gran parte della vitalità che a quelle di Castelseprio deriva dall’uso inesausto della tecnica compendiaria”.308

308

Lomartire in AA. VV., “La pittura in Italia”, L’Altomedioevo, Electa, 1994, pag. 54

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CAPITOLO V

CAPITOLO V

5.1 La storia del Tempietto longobardo di Cividale Cividale del Friuli è posta allo sbocco della valle del Natisone, dista 16 km da Udine, suo capoluogo di provincia. Il nome Cividale significa “città”; è l’antica Forum Juliii, denominazione poi estesa a tutta la regione. Nel catalogo di Madrid, anteriore a Paolo Diacono, la città è annoverata fra i maggiori centri della regione e ricordata come “Caput Venetiae”. Non si conosce la sorte che Cividale ebbe durante il periodo delle invasioni barbariche, degli Unni e dei Goti. Fu occupata nell’aprile del 568 dai Longobardi, guidati da Alboino. Quando a capo della città ci fu Gisulfo, nipote di Alboino, Cividale divenne il primo ducato longobardo costituito in Italia, baluardo contro gli Slavi e gli Avari che nel 620 circa la saccheggiarono. Nel 730, il patriarca Callisto stabilì a Cividale la sede del patriarcato di Aquileia. Al periodo cividalese del patriarcato, oltre ad altri monumenti quali l’altare di Ratchis ed il battistero di Callisto, è ascrivibile sicuramente l’oratorio di S. Maria in Valle o Tempietto longobardo, piccolo edificio sorto in un monastero femminile. Venne fondato precisamente nel 768 da Piltrude, moglie del duca del Friuli. In origine la chiesetta era dedicata a S. Maria ed al figlio Gesù, ma dopo l’occupazione franca fu inglobata nel vicino monastero di S. Maria in Valle da cui prese il nome.309 Le fondazioni monastiche femminili ebbero, per i Longobardi, motivi religiosi e di carattere economico (il monastero era un centro di produzione), sociale (garantiva un futuro ai membri femminili della famiglia reale, dei duchi e della nobiltà), politico (legame fra monastero e potere). I monasteri godevano quindi della protezione dei sovrani, o comunque dei fondatori, ed i loro patrimoni erano difesi, ma erano diritto del palazzo l’elezione delle badesse e il governo della proprietà fondiaria. Il diploma dell’anno 830 di Lotario e Ludovico II il Pio nomina per la prima volta il

309

CFR P. e O. Rugo, “Il tempietto longobardo di Cividale del Friuli”, commento alle immagini di L. Perissinotto, fotografie di E. Ciol, Pordenone, Savioprint, 1990, pagg. 5-24

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CAPITOLO V convento benedettino di Cividale; nello stesso il documento viene accordato al patriarca di Aquileia. Il tempietto era ubicato ad est della chiesa longobarda di S. Giovanni in Valle; era così legato alla dimora del gastaldo e alla cappella dei signori della gastaldaga. Un documento ora perduto e tramandatoci parzialmente dallo Schiapparelli, ricorda la donazione della gastaldaga alle monache benedettine da parte di Berengario I. La chiesa subì dei danni a causa dei terremoti che colpirono Cividale. La caduta delle volte dell’aula e la distruzione degli stucchi delle pareti settentrionale e meridionale nel terremoto del 1222 costrinsero le monache benedettine ad abbandonare l’oratorio e a trasferirsi per le loro pratiche religiose nella vicina chiesa di S. Giovanni in Valle. Vent’anni dopo, essendo state rinvenute alcune reliquie all’interno della chiesetta disastrata, le monache ne decisero il recupero dell’antica funzione. L’intervento fu voluto dalla badessa Gisla de Pertica.310 Nella riedificazione dei muri perimetrali furono rifatte e ingrandite le due finestre a sud con l’arco leggermente a ogiva311, a nord, invece, furono abbassate; furono ricostruiti il tetto e i contrafforti esterni. All’epoca dell’imperatore Berengario le monache del convento di Salt si ritirarono a Cividale e trasportarono a S. Maria in Valle il corpo di Piltrude e le reliquie dei santi Anastasia, Agape, Chionia, Irene, Grisogono e Zoilo. Il cranio di S. Anastasia è venerato dalle monache orsoline, che dal 1842 sono proprietarie del monastero mentre il corpo si trova nell’abbazia di Sesto al Raghena. Nel 1371 la chiesetta subì rifacimenti e rinnovamenti dell’arredo liturgico, restauri ulteriori subì dopo il terremoto del 1511 e di seguito nei secoli XVII, XVIII e XIX, scavi ricorrenti nel 1827, 1918, 1948 e 1964. Dopo il terremoto del 1976 il Tempietto fu restaurato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali del Friuli-Venezia Giulia in collaborazione con l’Amministrazione comunale che dal 1893 ne detiene la proprietà.

310

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A sesto acuto

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CAPITOLO V 5.2 Architettura esterna ed interna Esternamente l’oratorio si presenta composto da una torre quadrangolare, cui all’interno corrisponde l’aula e da un corpo più basso, il presbiterio. La struttura muraria è in pietrame non squadrato: il pietrisco è servito per i limiti perimetrali, i mattoni per aula e presbiterio. I principali lavori di manutenzione hanno rimesso a vista le murature dell’esterno, immesso resina nelle screpolature e i vani, lasciati dalle catene lignee, sono stati coperti in calcestruzzo. Sulla facciata orientale si trovano le tre finestre che illuminano il presbiterio; la mediana ha dimensioni maggiori. Alla facciata meridionale è addossata la sacrestia; mostra nella parte alta due grandi arcate entro cui si aprono le finestre da cui prende luce l’aula; in basso la parete meridionale rivela muratura dell’VIII secolo sopra la porta d’ingresso, mattoni del secolo XIII si trovano ai lati della stessa. Sul lato sud della sacrestia si apriva una porticina arcuata per l’accesso del sacerdote officiante da San Giovanni. La facciata occidentale guarda al monastero delle benedettine (ora orsoline), vi si trova l’ingresso originario che comunica con l’aula dell’oratorio attraverso un nartece.312 Le pareti laterali di questa porta sono state lasciate senza intonaco perché trovate integre. La parte superiore (nel primo piano del convento) presenta tre arcate con archi. Nella mediana si apre la finestra che all’interno divide la teoria delle sei sante, nelle laterali sono stati rinvenuti nel 1981 affreschi del secolo XIIIXIV. L’arca settentrionale è dedicata a S. Francesco.313 Il dipinto è di straordinaria espressività e le figure richiamano modelli riconducibili all’ambito della miniatura salisburghese dei secoli XII-XIII. Nella zona sottosante si trova la famosa iscrizione in caratteri gotico fiorito, del secolo XIII-XIV: “…A PATRIS CONFIR/maSAPIENCIA FILII/ AMOR SPC SCI/ ILLUMINA ME”. Di lato ad essa vi è una figura di orante. Nel’arcata meridionale doveva essere raffigurata una Crocifissione di cui rimane un 312

Nartece: specie di vestibolo esterno o interno delle chiese, dove si trattenevano i catecumeni, durante la parte sacrificale della Messa.

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CAPITOLO V lacerto che ci mostra la Madonna rivolta al Cristo morente con drammatica intensità. Il dipinto messo a confronto con altre teste femminili esistenti negli affreschi della cripta di Aquileia dimostra analogie stilistiche. Le arcate erano state occluse con materiale di muratura e la loro liberazione, con il conseguente ritrovamento degli affreschi, ha indotto a teorizzare l’ubicazione del primitivo coro delle monache. Fosse coro o semplicemente corridoio di collegamento con il convento, di fatto questa struttura posteriore nasconde oggi all’occhio del visitatore la facciata occidentale ossia la fronte dell’oratorio. La parte inferiore di essa, che si intravede oltre l’annesso nartece voltato, sembra essere d’epoca rinascimentale, lì è anche visibile la bella colonna antica del passaggio binato, cui è stato sostituito il capitello originale con un altro di sapore lombardesco. Alla parete settentrionale dell’oratorio si è venuta ad addossare la parete cinquecentesca del convento delle benedettine. Le arcate caratterizzano con il loro risalto anche questo lato dell’edificio su cui si aprono due finestre. Nella parte alta della parete sono stati rinvenuti lacerti policromi di affreschi medioevali. Nella parte bassa, in epoca tardo medievale, sono stati aggiunti due archi ribassati.314 Gli arconi o nicchioni sono arcate cieche, ampie, alte e poco incassate, essi vorrebbero dare l’impressione di una dilatazione centrifuga delle pareti. Secondo L’Orange e Torp, i bardelloni sporgenti di cui sono dotati sono stati fatti apposta per accogliere una decorazione in stucco, ma il fatto che gli stuccatori abbiano trasformato questi archi oltrepassati in archi di forme perfettamente circolari dimostra che la costruzione e la decorazione del Tempietto non sono state pensate contemporaneamente. Ai quattro angoli dell’aula possenti piedritti315 poggiano su mensola, su essi si imposta la volta a crociera, un tempo impreziosita con mosaici a fondo oro.316 Sulle tre arcate del presbiterio con doppia ghiera e archi bardellonati vi sono graffiti di due gigli, simbolo di purezza e una croce greca ad estremità 314

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Piedritto: qualunque elemento verticale con funzione portante nelle costruzioni.

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CAPITOLO V patenti. L’architettura dell’oratorio nelle arcate che si ripetono ritmicamente all’esterno e in cui sono inserite le finestre senza strombatura, negli arconi interni che vogliono dare la suggestione di un edificio a pianta centrale, rivela legami con l’arte orientale.

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CAPITOLO V 5.3 Gli stucchi Un tempo erano diffusi a tutto l’oratorio mentre ora abbelliscono solo la parate occidentale: sono i famosi stucchi di Sante di Cividale. In realtà si possono dividere in due zone: una superiore con la teoria delle sante ed una inferiore con il grande archivolto. Le sante sono comprese entro fasce orizzontali ornate di rosette con globetti di vetro verde incastonati, purtroppo in buona parte perduti, che davano all’oratorio cromatismo e atmosfera particolari. Le figure sono alte 1, 86 m x 0,45, quindi poco più del reale, quattro hanno posizione frontale e recano la corona del martirio nella mano sinistra e la croce latina, segno salvatore, nella destra: sono le martiri Chione, Irene, Agape e Sofia. Ai lati della nicchia altre due figure in atto di devozione. Qualcuno ha voluto riconoscere in esse le due Marie, altri, due delle ultime regine longobarde che trovarono rifugio nel monastero: Tassia, moglie di Ratchis e Giseltrude, moglie di Astolfo. La teoria delle sante ricorda le processioni di San Apollinare Nuovo a Ravenna e a Roma le figure dei mosaici dell’arco trionfale in Santa Prassede, in San Clemente e in S. Maria in Domnica. Anche a Cividale alle figure femminili corrisponde una teoria di santi martiri affrescati nel registro sottostante.317 Le sante hanno teste nimbate, l’irrigidimento nei gesti delle braccia e nelle pieghe delle vesti danno un senso di ieraticità. Le figure sono vestite di pallii, l’abito delle matrone romane che si avvolge come una toga, e “dalmatica”, un’ampia tunica che arriva fino sotto il ginocchio. Le figure portano vesti riccamente decorate, collare gemmato ed un diadema a ruota gigliato come ornamento al capo. Si hanno analogie con le corone a gigli nei mosaici di Pasquale I in S. Prassede, Cappella di Zenone in Roma, come pure nella Madonna in adorazione, davanti alla finestra a sesto tondo, della cappella di S. Zenone. Le decorazioni sulle spalle delle sante prendono il nome di orbicoli; le foglie a cuore, che corrono attorno agli ornati rettangolari del bordo inferiore del pallio, sono un motivo che s’incontra in miniature d’epoca precarolingia e carolingia e in tanti esempi di lavori sassanidi e in 317

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CAPITOLO V tessuti siriaci e bizantini. Le parti figurative nei volumi sferoidali delle teste delle sante di Cividale sono simili alle teste ritratto del filone ufficiale ieratico (V-VI secolo) che si richiamano a modelli palmireni. La statuaria nel Tempietto rivive e trova riscontro negli stucchi di Khirbat al Mafiar presso Gerico, sia come manualità che come tecnica e come struttura operativa. Molti studiosi hanno esaminato queste opere d’arte uniche nel loro genere con risultati diversi. Il Venturi attribuisce gli stucchi al secolo VIII e ad artisti nostrani. Lo Strzygowski è il primo che suggerisce un’origine orientale. Il Cattaneo e il Leclercq danno una datazione ai secoli XI-XII. Il Toesca sostiene questa ipotesi ritenendo gli stucchi troppo regolari per appartenere al secolo VIII, i grappoli dell’archivolto troppo naturalistici, le foglie non spinose, e le figure delle Sante ognuna con un’espressione troppo individuale. Anche gli ornati a treccia e strafoto sono rianimati in modo diverso dal modellato del secolo VIII. Certo che la struttura figurativa a Cividale si caratterizza perché cerca la linea retta e non la curva, l’impostazione è rigida e i movimenti mancano di fluidità. In questo senso si rifà anche alla tradizione romano-bizantina d’occidente e ai caratteri stilistici dei moduli tardo antichi. Decio Gioseffi, servendosi della documentazione grafica del volume di R.W. Hamilton ha analizzato la forma delle sculture del castello omayade di Zasr al Hayr al Gharbi, cultura della Siria di cui disponiamo ampia documentazione. I suoi studi sembrano dimostrare che gli stucchi di Cividale abbiano a che fare, a livello di archetipo con questa cultura, che è proto-islamica.318 Il Tavano dice che le maestranze di Brescia e Cividale potrebbero arrivare direttamente dalla Siria. Nel tempio cividalese vede unità nella scompaginazione generale. Viene ammesso che, architettonicamente si possa risalire a una classicità paleocristiana e nell’ornamentazione musiva e nell’affresco a quella protobizantina. Al centro della teoria delle sante in stucco c’è un’edicola-finestra, con ai lati due colonnette che reggono capitelli a foglie d’acanto stilizzate. La decorazione dell’arco è data da perline, da una fascia a treccia e, nella parte più esterna, da una raggiera a ferro di cavallo con foglie d’acanto e 318

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CAPITOLO V fiori gigliati. La finestra originariamente stava a simboleggiare Cristo-Luce, per questo le due sante si rivolgono ad essa. La luce è legata alla tradizione paleocristiana e nell’oratorio, riflessa dalle paste vitree colorate, aveva un ruolo ben più alto del semplice illuminare, lo improntava a grande suggestione mistica. La luce è un simbolo, quasi incarnazione di uno spirito mistico ed allegorico che permea tutto il monumento. La luce qui assume un ruolo ben più alto del semplice illuminare: qui essa vive nella realtà immateriale del Cristo, che si identifica con essa e come essa illumina, riscalda e vivifica”.319 Le statue in origine dovevano essere dodici, di cui tre sulla parete settentrionale e tre sulla parete meridionale, che a loro volta erano affiancate da colonne con capitello. Oggi di tale ornato caduto nel terremoto del 1222 rimane ben poco sulle parti contigue a quella occidentale: solo le due colonnette della finestra nord-ovest sulla parete settentrionale e parte del fregio stellato inferiore. Sostanzialmente, scartate le assurde attribuzioni all’arte classica, il Tempietto è ormai generalmente considerato una costruzione del secolo VIII-IX. Le incertezze permangono, tuttavia, nel giudicare gli stucchi, che hanno sconcertato la critica, sia per la loro unicità, che sembrava sottrarsi a ogni confronto diretto, sia per la tranquilla bellezza, che presuppone un dominio assoluto della forma, quale mai si è voluto concedere ai lapicidi “barbarici” dei secoli VIII e IX, quasi “come se non risalissero a questa stessa epoca le informi epigrafi dei lapicidi “barbarici e i capolavori degli scriptoria carolingi; come se il fondamento culturale di un’opera d’arte dovesse giustificarsi non storicamente ma sulla sola base dei più bassi valori culturali dell’epoca”.320 Ad esempio il Cecchelli che con passione raccolse tutti gli indizi utili a riferire gli stucchi al IX secolo, per giustificare la sua attribuzione, si trovò costretto a doverne svalutare il valore artistico: “non hanno davvero le armoniche proporzioni della statuaria classica”321, ubbidendo al comune latente pregiudizio che a quest’epoca si debbano riferire solo opere di un’arte decaduta e stanca. Gli stucchi appartengono a una grande arte e 319

Marioni-Mutinelli, “Guida storico-artistica di Cividale”, Udine, 1958, pagg. 132-515

320

A. Santangelo, “Cividale, Libreria dello Stato, Roma, 1936

321

Ibidem

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CAPITOLO V richiedono un posto particolarissimo fra i capolavori della plastica nel Medioevo. Secondo il Santangelo la decorazione è attribuibile alla seconda metà del X secolo. Del resto, secondo lo stesso, non si hanno motivi precisi per considerare la decorazione plastica contemporanea dell’architettura. Certo, il trasferimento all’età romanica è stato dimostrato come assurdo dal Cecchelli e assurdo anche di fronte agli argomenti esteriori. Alcuni motivi ornamentali trovano riscontro unicamente nell’arte ottoniana, così come i capitelli della finestra centrale si rivedono in numerosi avori ottoniani e le cimase a giorno degli archi sono affini a quelle del ciborio ambrosiano e agli stucchi della cripta di S. Servazio a Quedlinburg. Il più antico strato di affreschi, sicuramente della fine del X secolo, in nessun modo è anteriore alla decorazione plastica. Ogni riferimento all’arte dell’Oriente cristiano è reso problematico dal fatto che in Oriente non si conserva nulla di simile, nemmeno in forme ritardate o provinciali, mentre dall’altro lato le fonti non citano un solo esempio di chiesa bizantina decorata plasticamente a figure. Un particolare interessante: PAGANUS è il nome di un magister cementarius che mette la sua firma a graffito sulla spalla sinistra del fornice della finestra affiancata dalle sante. Varie sono le interpretazioni di tale nome: cognome latino romano, civile, borghese. L’analisi paleografica mette in evidenza la mancanza di apicature delle lettere. La lettera A con una traversa sul vertice è peculiare delle iscrizioni di Roma, segno usato dopo l’anno 772; si ripeterà con più frequenza nel secolo IX. La lettera G, con inscritta una A con traversa spezzata, ha un ductus angolato; la mancata voluta dopo il pilastrino della lettera G potrebbe essere stato conseguenza della lettera interna aggiunta; la lettera A inscritta nella G angolata rientra, nei vangeli di Flavigny, nella seconda metà del secolo VIII. L’angolatura delle lettere nel Veneto, a S. Michele di Mizzole di Val Pantena e nell’atrio di S. Marco di Venezia, nel marmo di Felicia Michiel, ci porta all’anno 1000. Generalmente questo segno si osserva durante il periodo carolingio: ma lo stile complessivo dell’iscrizione (le apicature, la lettera A con la traversa spezzata, la posizione dell’asta obliqua della lettera N e i tratti curvilinei variabili della lettera S) riconduce al secolo VIII, dal 772 in poi.

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CAPITOLO V Questa datazione è basilare per tutta l’opera in stucco.322 Nella relazione presentata da H.P. L’Orange al II Congresso Internazione di studi sull’Alto Medioevo, nel 1952, lo studioso, parlando della contestualità della decorazione a stucco e a fresco dell’Oratorio di S. Maria in Valle, a Cividale, fra le tante osservazioni, terminava il suo intervento con queste parole: “Pertanto la S dell’affresco ci da pure la data della scritta PAGANUS, e poiché questa appartiene alla zona degli stucchi, presumibilmente come forma dell’artista, stucchi ed affreschi risultano molto vicini nel tempo”.323 A questo punto è ovvio che nasca, come minimo, la curiosità di sapere quando questo presunto maestro “Paganus” poté eseguire la sua opera. Seguiamo il ragionamento di Carlo Guido Mor, che in maniera quasi favolistica, sicuramente leggera, cerca di rispondere a qualche interrogativo. “Ma qui non dico proprio che casca l’asino, ma poco ci manca. Andar a cercar documenti è impresa assurda: fino al XII è una manna se se ne trovano un paio! E le nostre monacelle di S. Maria in Valle non hanno potuto conservare i registri delle loro vecchie camerarie. Alloralasciando agli storici dell’arte di azzuffarsi sugli stili e le derivazioni stilistiche – cerchiamo, in base a quello che possiamo mettere assieme, di vedere in quale epoca l’economia friulana potesse permettere un’opera simile. E’ chiaro che ci troviamo di fronte a un’opera di alto impegno e di alto costo. Anche ammettendo che molta parte dei salari potesse essere corrisposta in natura, cioè passando il vitto, ma la materia prima per fare lo stucco, gli intonaci di supporto, i chiodi per sostenere l’incannicciato, le materie per i colori, gli attrezzi, le impalcature, i vestiti e un margine di guadagno per maestri ed operai, tutto questo costava e in parte doveva esser comperato a danari. Non possiamo certamente, dire quando, ed io non mi proverò nemmeno: constato semplicemente che bisognava disporre di un certo capitale e di certe rendite sicure, ed in misura abbastanza notevole. Tanto più tenendo presente che il lavoro è stato condotto tutto in un tempo medesimo, sia pure a fasi successive, ma intervallate soltanto dalle poche 322

CFR P. e O. Rugo, “Il tempietto longobardo di Cividale del Friuli”, commento alle immagini di L. Perissinotto, fotografie di E. Ciol, Pordenone, Savioprint, 1990, pagg. 5-24

323

H.P. L’Orange, “L’originaria decorazione del Tempietto Cividalese”, in “Atti del II Congresso Internazione di Studi sull’Alto Medioevo (7-11 settembre 1952), Spoleto, 1953, pag. 102

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CAPITOLO V giornate sufficienti per lasciare asciugare gli intonaci di base. Dunque si era dovuto preparare un preventivo abbastanza dettagliato sia del tempo occorrente all’esecuzione, sia delle spese, e predisporre, in quest’ultimo settore, le somme necessarie o i generi in natura occorrenti. Il che mi sembra ci debba portare ineluttabilmente ad un momento di tranquillità politica ed economica”.324 In poche righe così il Mor ci mostra come la risposta ad un interrogativo possa portare a ricerche più vaste che interrogano più discipline, dalla storia delle tecniche artistiche alla storia. Lo stesso si è anche lungamente interessato della iscrizione su tre righe, inquadrata da una cornice interessante a gemme colorate raccordate da un filo di perle bianche, intramezzato da un gruppo di cinque perle gialle formanti un quadrato con perla centrale, il tutto, bordo e iscrizione su fondo azzurro cupo con tracce di colorazione porpora, che era in origine il vero fondo. L’iscrizione si offre a confronti con quelle bresciana nel S. Salvatore e ha dato modo di scoprire che l’intitolazione originaria325 era al Salvatore.326

324

C.G. Mor, “L’autore della decorazione dell’oratorio di S. Maria in Valle a Cividale e le possibile epoche in cui potè operare”

325

CFR C. Mutinelli, “Il tempietto longobardo di Cividale e la sua intitolazione”, in “Atti del convegno di studi longobardi” (15-18 Maggio 1969) 326

C.G. Mor, “La grande iscrizione dipinta del Tempietto Longobardo di Cividale”, in Acta ad archaeologiam et artium series altera in 8°”, 11, 1982, pagg. 95-122

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CAPITOLO V 5.4 Gli affreschi Gli affreschi originari sono ormai ridotti a pochi episodi: il Cristo Logos tra gli arcangeli Michele e Gabriele e alcuni martiri (resti di una teoria che doveva svilupparsi in almeno tre pareti) nella parete d’ingresso, un Sant’Adriano nella parete settentrionale: sono tutti caratterizzati dalla fissità delle posizioni, dai tratti espressionistici dei volti, dall’uso di terre verdi per dare effetti chiaroscurali. Il loro stato di conservazione è pessimo, secondo Bergamini devono essere considerati contemporanei alla costruzione del Tempietto ed alla decorazione a stucco. C’è, in generale, da annotare come numerosi voci discordanti si siano levate riguardo la datazione dell’apparato decorativo:327 c’è chi, per il carattere particolare, che pone gli affreschi in un certo senso al di fuori delle grandi correnti artistiche nazionali, li ha ritenuti precarolingi (e li ha datati pertanto alla fine dell’VIII secolo) oppure ottoniani ( e quindi attribuibili al X secolo). Dalla Barba Brusin e Lorenzoni, riprendendo l’ipotesi di Torp sulla contemporaneità o addirittura identità di mano (comunque messa in discussione dal Bettini) degli affreschi del Tempietto con quelli del San Salvatore di Brescia che Panazza ritiene dell’inizio del IX secolo, in tanti ne hanno collocato l’esecuzione nello stesso periodo. Si potrebbe pensare che convenga attenersi alle ipotesi del Torp e del Porcher, ribadite da Gioseffi e Tavano, sulla datazione al 760 circa. Come chiarisce il Tavano, “tale cronologia è confortata da indizi ed argomentazioni d’ordine storico, politico e culturale tanto per quel che riguarda la situazione di Cividale nell’ambito del ducato e del regno, quanto per quel che si riferisce al regno longobardo in se stesso e in ordine alla sua politica verso Roma ed ai relativi contatti e confronti”. Oltre a ciò puntuali confronti possono essere fatti con affreschi scoperti nella chiesa di San Salvatore a Brescia eretta per volontà di Desiderio nel 753 e con quelli della chiesa di Santa Maria Antiqua in Roma, dove si ritrovano non solo affinità iconografiche ma anche “l’uso di determinati mezzi espressivi e di particolari tecniche, quali si riscontrano soltanto nell’ambito di un artista o, al massimo, nella sua bottega”. Saremmo di fronte dunque, a Cividale, ad un

327

CFR G. Bergamini. “Cividale del Friuli. L’arte”, Udine/Cividale, 1977, pagg. 113-124

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CAPITOLO V momento di quella rinascita artistica che viene detta liutprandea o desideriana, “che però ha a monte la perentoria esemplarità “classica” e organica di opere prodotte da artisti profughi dal vicino Oriente per effetto dell’avanzata islamica e delle persecuzioni iconoclastiche, e accolti a Roma da papi siriaci e quindi invitati a operare anche nell’ambito della corte regia e delle minori corti longobarde”.328 E’ probabile anzi che coloro che lavorarono a Cividale al servizio della corte longobarda giungessero proprio da Roma. Alla teoria delle Sante in stucco, comprese tra fregi stellati, corrisponde nel registro inferiore una teoria di santi martiri su intonaco che copre la radice degli stucchi. Essi si allineano lungo le pareti, ai lati dei tre nicchioni e campeggiano su uno sfondo architettonico dato da un’ architrave bianco poggiante su colonne gemmate. Sono accomunati da una medesima posizione frontale, dall’immobilità della figura, da una stessa tipologia a livello somatico: volto ovale, naso lungo e dritto, occhi dallo sguardo fisso e dalla pupilla prominente, fronte bassa. Nel santo a ovest della lunetta settentrionale è stato ravvisato Sant’Adriano dopo il ritrovamento di un’iscrizione mutila: SCS (had)RIANUS. Oltre a ciò sull’identità di queste figure si può dire che sono tutti santi guerrieri perché portano la clamide; uno soltanto di essi, un vescovo a est della lunetta meridionale, appartiene alla gerarchia ecclesiastica. Questa concentrazione di martiri soldati, nell’oratorio, è stata condizionata, secondo qualche autore, dalla sua primitiva funzione di cappella palatina della gastaldaga e, a conferma di ciò, si fa notare come nei dipinti posteriori si possano osservare invece i motivi dell’iconografia monastica. In basso, sotto la teoria dei santi, corre una fascia ornamentale, con un tralcio a voluta su fondo oro che continua dietro gli stalli fin nel presbiterio, ma prima di giungervi muta il colore dello sfondo in rosso e muta il fregio un una lunga iscrizione dai caratteri bianchi, ricomparsa mediante lo stacco degli affreschi tardo medievali.329 Anche le tre lunette entro gli arconi dell’aula erano dipinte a fresco. Nulla purtroppo si è salvato della pittura originale in quella posta a meridione, dopo lo stacco della posteriore “Genesi” ora nella sacrestia dell’oratorio. Con qualche

328

Tavano in G. Bergamini. “Cividale del Friuli. L’arte”, Udine/Cividale, 1977, pagg. 121 e 124

329

CFR A. Santangelo, “Cividale”, Libreria dello Stato, Roma, 1936

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CAPITOLO V difficoltà si comprende l’immagine della lunetta a settentrione: la Vergine con Bambino fra angeli che sostengono una sfera con le mani velate. E’ ricomparsa nel settembre del 1958; le si era sovrapposto in epoca posteriore il S. Benedetto in maestà ora al Museo del Duomo. Nel grande archivolto della parete occidentale le pitture, di poco posteriori, agli stucchi, sono fortunatamente ancora leggibili e costituite da Cristo Logos con a fianco gli arcangeli Michele e Gabriele, il cui nome è dipinto all’altezza della spalla. Il Cristo, come nell’altare di Ratchis, è imberbe e giovanile d’aspetto ed è dipinto nell’atto di benedire e di reggere un libro. Il Cristo ha nimbo crocigero e il vertice tonsurato. Secondo il Toesca non persuadono i raffronti con S. Maria Antiqua. Secondo altri autori, che prendono in considerazione la primitiva decorazione nel suo complesso, i santi ed i martiri affrescati sono figure poste l’una accanto all’altra, indifferenziate, impersonali, con rigorosa frontalità, con lineamenti e sguardo che trovano riscontro proprio nelle figure che ornano S. Maria Antiqua di poco precedente. I colori usati per dipingere gli affreschi più antichi sono: il bianco per le vesti, il rosso bruno, porfirico e purpureo, il giallo oro per le aureole e il giallo sfumato per i volti, lumeggiature bianche per i tratti somatici. La tecnica simile nei due luoghi autorizza a pensare che gli artisti abbiano avuto un’identica formazione e il Tempietto sarebbe un angolo di Medio Oriente in terra longobarda. Tavano annota che la struttura delle teste degli angeli di Cristo e dei santi della parete occidentale negli angoli nord e sud, corrisponde a quella di Giuseppe in S. Maria Antiqua. La figura di vescovo sopracitata si avvicina all’angelo annunciante di S. Maria Antiqua e rimanda a modi “neopompeiani”, a differenza di altre, più a occidente, che hanno perso le tinte e quindi il loro modellato.330 L’autore non riscontra nessuna analogia con la pittura carolingia e conferma la strettissima affinità con alcuni affreschi scoperti a S. Salvatore di Brescia. Torp accetta confronti fra Cividale e S. Salvatore di Brescia a livello compositivo e iconografico e solo in un secondo momento per la componente formale. La fattura degli affreschi a ombre verdi e luci fisse distaccate il cui contrasto era sicuramente attenuato da passaggi a secco, trova facile riscontro, come

330

CFR A. Santangelo, “Cividale”, Libreria dello Stato, Roma, 1936

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CAPITOLO V bene ha visto il Toesca, negli affreschi di S. Vincenzo a Galliano, dei primi anni del secolo XI, sebbene questi ultimi nella loro tecnica esasperino maggiormente i contrasti chiaroscurali verso effetti di corrucciata violenza o con altre parole, appartengano a un momento di sviluppo più progredito. Gli affreschi di Cividale dovrebbero dunque porsi nel X secolo. Questa datazione potrebbe essere confermata dalle relazioni con la miniatura ottoniana che si rivelano soprattutto con la cosiddetta scuola di Echternacht331 (per esempio il Registrum Gregorii di Chantilly). La S. Iulitta che invade parzialmente l’intonaco del X secolo e il gruppo con le Sante Maddalena, Sofia, Fede, Carità e Speranza, della parete laterale di destra, accanto al presbiterio, appartengono a un Maestro della fine del Duecento che deriva i suoi modi ritardati e ancor quasi romanici dall’arte dell’Austria meridionale. Si vedano, ad esempio, al confronto con gli affreschi analoghi ma goticheggianti del S. Giovanni di Bressanone. Alla stessa tradizione, sviluppata in forme tarde e mediocri da un maestro locale, si deve attribuire l’affresco con il S. Antonio da Padova e due Santi Martiri posto sulla parete di sinistra fra l’arcone e il presbiterio. Le due lunette comprese negli arconi laterali comprendono, quella di destra, scene della Genesi e quella di sinistra Storie della Vita di S. Benedetto e l’Eterno in trono fra due Santi Vescovi. L’attribuzione del Cavalcaselle332 al secolo XII è sicura garanzia della loro notevole spigliatezza narrativa espressa con un’immediata ingenuità da un maestro popolareggiante veramente romanico. La parete di sinistra presenta inoltre una trecentesca Coronazione della Vergine e quella di destra un S. Nicola da Bari molto rozzo del Quattrocento e una gotica Adorazione dei Magi. Il loro valore artistico non va oltre la corrente pittura ex-voto di devozione.333 Il vano a sinistra del coro è stato malamente rinnovato nel Seicento da un artista alquanto mediocre. Quello a destra è adornato, nella 331

L' abbazia di Echternach è un monastero benedettino della città di Echternach, in Lussemburgo. L'abbazia venne fondata da Willibrord, santo patrono del Lussemburgo, nel VII secolo ed è oggi nota per l'attrazione turistica dell'annuale "processione danzante". Beornrado, terzo abate di Echternach, fu largamente favorito da Carlo Magno, e venne eletto arcivescovo di Sens nel 785. Alla morte di Beornrado, nel 797, Carlo Magno prese il diretto controllo dell'abbazia per un anno. Influenzati dalla tradizione irlandese, i monaci di Echternach divennero i maggiori produttori di opere miniate della regione, sviluppando uno dei migliori scriptoria dell'epoca franca. 332

Giovanni Battista Cavalcaselle (Legnago, 22 gennaio 1819 – Roma, 31 ottobre 1897) è stato uno scrittore, storico e critico d'arte italiano. Per i suoi studi e le sue capacità attributive è considerato il fondatore della moderna critica dell'arte. Rilevante fu anche il suo apporto alle tecniche di restauro per le quali, nonostante molte difficoltà concettuali, contribuì proponendo nuovi e più aggiornati criteri. 333

CFR A. Santangelo, “Cividale”, Libreria dello Stato, Roma, 1936

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CAPITOLO V parete di fondo, da un bel Crocifisso tra Maria e Giovanni che le lontane risonanze bolognesi e il confronto con un manoscritto miniato del Museo riportano ai primi del Quattrocento. Il vano di mezzo del coro conserva nell’imbotte334 un Cristo in maestà entro mandorla e da un lato l’Adorazione dei Magi, dall’altro i Santi Benedetto, Antonio abate, Giovanni Battista, Maria Maddalena, e Caterina d’Alessandria. Il fatto che esistano due affreschi, uno raffigurante le sante Agape, Chionia, Irene e Anastasia e un Santo (Crisogono o Zoilo), della seconda metà del trecento, e un altro con i santi Tiziano ed Ellaro, il primo sovrastante l’arcone nelle parete sinistra interrompendo la cornice di stucco, il secondo nascosto dietro gli stalli che sono dunque posteriori, dimostra che già a quell’epoca il rivestimento marmoreo delle pareti era cadente e la decorazione plastica, quindi, diroccata.

334

Imbotte: superficie concava di un arco o di una volta.

210


CAPITOLO V 5.5 I restauri “Ridotto da più anni in cattive condizioni, l’oratorio è stato sottoposto ad un razionale restauro che, oltre a normali opere di ripristino, si è prefisso di ricercare, analizzare ed accuratamente elencare tutti quei particolari costruttivi e decorativi indispensabili per portare a termine uno studio approfondito del monumento. Nel corso del restauro sono venuti alla luce molti elementi inediti e determinanti”.335 […] “In considerazione della eccezionale importanza del monumento, soprattutto in relazione alla sua datazione che ne fa un “unicum” nella storia dell’arte, sono stati rimessi in luce gli affreschi originali – i più antichi dei quali risalgono all’VIII secolo – e la scritta dedicatoria, staccando le pitture sovrapposte che vanno dal XII al XVI secolo. In quest’occasione è stato, per la prima volta, sperimentato un nuovo sistema di conservazione degli affreschi staccati, che si vale di un sostegno di duralluminio e del quale si da notizia nel II Convegno degli architetti e tecnici del restauro, tenuto nel giugno del 1964 a Venezia”.336 “Altri restauri destinati a rafforzarne la stabilità furono compiuti in varie epoche ma senza mai alterare il carattere dell’edificio che s’è conservato immune da sovrapposizioni più tarde. Ancora oggi il suo interno ha apparenze di triste e desolato abbandono come di cosa dimenticata, che non conosce vita. Più che un restauro si rendono necessari una buona pulizia generale, la stonacatura di quella inverosimile malta che nasconde all’esterno la cortina, e la rimozione dell’architrave di sostegno apposto alla porta maggiore, che ne altera la sagoma rendendola bassa e piatta”.337 “Gli scavi eseguiti dal von Kaschntiz nel 1918, hanno provato che il pavimento, si conserva ancora al livello originario; ma non è più il primitivo, come è parso al Toesca, perché gli scavi hanno portato in luce un frammento marmoreo del secolo VIII-IX, varie tessere cadute dal mosaico della volta e moltissime di quelle ampolle vitree incastrate negli stucchi a ravvivarne la

335

E. Belluno, “Attività delle Soprintendenze: Cividale del Friuli (Udine); Oratorio di S. Maria in Valle (tempietto longobardo)”, in Bollettino d’Arte, 5, serie 51, 1966, pagg-194-195

336

Ibidem

337

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CAPITOLO V policromia”.338 Queste sono alcune citazioni riguardando i restauri nel tempo del Tempietto longobardo di Cividale, Nonostante le loro date, soprattutto per quel che riguarda gli scavi del von Kaschnitz, risalgano a quasi un secolo fa, la storia conservativa del Tempietto ha radici ancora più lontano nel tempo. Il conte Giuseppe Uberto Valentinis, in qualità di ispettore dei Monumenti del Friuli durante la dominazione austriaca del Lombardo-Veneto, fu uno dei principali protagonisti della campagna di restauro del Tempietto Longobardo. Il restauro fu compiuto fra la metà di settembre del 1859 e l’agosto dell’anno successivo. Le condizioni del Tempietto non dovevano essere delle migliori se, già dal novembre del 1842, fu redatto un progetto di restauro da parte dell’ingegner Cabassi al fine di eseguire “quei istantanei provvedimenti reclamati dall’urgenza a preservazione del Tempietto Longobardo”339, a dimostrazione del cattivo stato in cui versava il prezioso monumento. Il progetto non raggiunse mai la fase esecutiva, contribuendo in tal modo a peggiorare le condizioni dell’oratorio che, nello stesso 1842, era stato venduto dall’Amministrazione Camerale al comune di Cividale e che, minacciando di crollare, aveva necessitato lo stanziamento di 4.000 lire per urgenti lavori di risanamento. Nel medesimo anno, inoltre, il Tempietto venne dato in consegna alle Monache Orsoline “assieme a tutte le realtà costituenti il Monastero, riservandosi il Comune il diritto di accesso, e l’obbligo dei restauri per la sua conservazione, senza perciò stabilire alcun fondo di manutenzione”.340 Le condizioni del Tempietto nel frattempo continuarono a peggiorare vista la mancanza di interventi di restauro; non era però in pericolo il solo impaginato architettonico, ma anche le preziose statue in stucco che ornano la parete occidentale. Tanto è vero che il 28 febbraio del 1859 il canonico Lorenzo D’Orlandi avanzò la richiesta di rimborso per le spese sostenute “per due statue esistenti nel prezioso Tempietto Longobardo che

338

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339

S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pag. 185

340

Ibidem

212


CAPITOLO V minacciavano di ruinare”.341 Fin dal giugno del 1856, il restauro di cui necessitava il Tempietto fu efficacemente promosso dalla k.u.k. Zentral Kommission zur Erforschung und Erhaling der Baudenkmale (I.R. Commissione Centrale per la Conservazione dei Monumenti), con sede a Vienna. Il progetto di tale restauro fu affidato all’ingegnere Domenico (o Giandomenico) Rubolo e fu approvato nel gennaio del 1857 dall’I.R. Accademia di Belle Arti di Venezia, che propose come direttore dei restauri il conte Valentinis, il quale, pur privo di qualunque esperienza in tale campo, alla fine dello stesso mese si dichiarava disponibile ad accettare l’incarico. In seguito a un decreto dell’I.R. Ministero del Culto e dell’Istruzione, da cui la Commissione viennese dipendeva, il restauro fu finanziato grazie ad un’elargizione di Sua Maestà I.R.A. Francesco Giuseppe. Il documento specificava che i lavori sarebbe dovuti essere eseguiti agli ordini del Ministero, dietro proposta dell’I.R. Veneta Accademia di Belle Arti, la quale venne pregata di conformarsi alle richieste del Nob. Sig. Giuseppe Uberto Valentinis di Udine, interessato all’arte e intelligentissimo artista il quale già dal gennaio 1857 aveva dichiarato che si sarebbe assunto gratuitamente questo importante ed onorevole incarico. L’I.R. Accademia di Belle Arti di Venezia, prima dell’inizio del ripristino del prezioso sacello, inviò una Commissione istituita per l’occasione, affinché si recasse a visitare il Tempietto e tenesse conto di qualunque necessità di cui Valentinis avesse avuto eventualmente bisogno. Durante questa visita, intervennero lo stesso Conte e il Rubolo e la Commissione stessa approvò le loro idee. Un documento del 17 settembre 1959 si rivela di particolare importanza non solo perché precisa i nomi dei commissari, affermando che “la Commissione istituita per avviare ai modi di effettuare i lavori di ristauro nel Tempietto Longobardo in Cividale composta dall’Ing. Sig. Cecchini di Venezia, dai professori Ferrari e Tagliapietra nonché dall’I.R. Ingegnere in Capo sig. Domenico Rubolo e dal valente archeologo

341

S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pag. 185

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CAPITOLO V nob. Giuseppe Uberto Valentinis si porterà fra brevissimi dì in Cividale”342; ma anche perché ci permette di individuare, in una vicenda come quella del restauro del Tempietto, così importante, ma così anche poco documentata, perlomeno il termine post quem dei lavori: non avendo, infatti, documentazione più precisa riguardo all’effettivo inizio della campagna di ripristino, possiamo solo affermare che i restauri cominciarono sicuramente dopo il 17 settembre 1859, data cui si riferisce il documento. L’articolo di Camillo Giussani, apparso sulla “Rivista Friulana”, rimane allo stato attuale delle ricerche, la testimonianza più precisa e dettagliata delle diverse fasi dei lavori, non avendo trovato la Comingio, nello spoglio delle carte dell’archivio dell’Ufficio Tecnico del comune di Cividale, alcuna descrizione del restauro e non avendo potuto visionare l’archivio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, poiché non ancora inventariato. Dal giornale friulano sappiamo che prima dell’effettivo intervento da parte del Valentinis, l’Ufficio Tecnico curò quella parte dei lavori che riguardavano la conservazione materiale dell’edificio mentre il conte Valentinis si riservò tutta la parte artistica, avendo però l’avvedutezza di adottare nel corso dei lavori, le più opportune modifiche al progetto primitivo approvato dalla commissione accademica. Il Giussani ci ricorda anche che “i lavori furono eseguiti per economia, anziché per appalto o per contratti speciali; ed infine che […] si ottenne un avanzo della somma prestabilita”.343

Dopo

una

prima

parte

in

cui

sono

delimitate

cronologicamente le fasi iniziali del restauro, viene messo ancora in evidenza il ruolo fondamentale svolto dall’Ufficio Tecnico del comune di Cividale, il quale “prima del passato inverno, […] aveva provveduto alla riparazione del tetto, o meglio, alla sua quasi totale ricostruzione, alle linde di riparo ai muri, alla rimessa di intonachi greggi, alla costruzione di un tombotto di scarico per le acque piovane (che i venti, più volte all’anno, portavano nel chiostro e che si riversavano nello stesso tempietto, essendo 342

S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pag.186

343

Giussani in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

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CAPITOLO V questo in un piano più basso di tutte le adiacenze) ed al restauro dei serramenti”.344 Le fasi preliminari dell’intervento riguardarono, quindi, la conservazione

dell’impaginato

architettonico

dell’edificio,

spettante

all’Ufficio Tecnico; ma a questa prima fase dei lavori, anche se non sappiamo in che misura, partecipò anche il Valentinis, come sembra trasparire dalle sue stesse parole in occasione dei restauri degli affreschi del Pordenone nella chiesa arcipretale di Travesio, consigliando un intervento che venne appunto messo in opera a Cividale, circa 30 anni prima rispetto agli interventi sul Pordenone. Il vero e proprio ripristino iniziò con l’intervento del Valentinis: “provvide dapprima al riatto degli stalli. Questi si trovavano spostati, irregolare e spiacente all’occhio, n’era la giacitura ed in prossimo deperimento: e adesso (benché quasi infracidita ne fosse l’intelaiatura, sulla quale erano stati costruiti fin dal 1384) si vedono rimessi (con lavoro eseguito sopra luogo) nella loro antica posizione ed allineati, essendo stata rifatta in larice la predella sottostante, senza che si possa scorgere nella facciata come sia stato praticato questo lavoro, tanto abilmente con colore venne il nuovo ad imitare il vecchio”.345 La fase successiva del lavoro del Valentinis riguardò la decorazione in stucco che orna la porta d’ingresso principale sul lato ovest del Tempietto che, nello specifico, comprende le sei stratue femminili raffiguranti altrettante martiri dell’antichità, una fascia ed un arco ornato con grappoli d’uva e fogliami. Le parole del Giussani, editore e redattore responsabile della rivista friulana descrivono purtroppo sommariamente l’intervento del Valentinis, ma ciononostante, i termini usati sono assolutamente significativi: “le sei statue in stucco che trovavansi nella parte interna della porta d’ingresso, sconnesse a cagione di terremoti ricordati nelle cronache cividalesi […], mal si reggevano appuntellate da una trave che, deturpandole, le attraversava: ora questa statue stanno fissate al muro con adatta [sic] arpe di rame, e rifatti ne furono gli ornamenti e la fascia ornata ad esse sottoposta pur con ritegni di 344

Giussani in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

345

Ibidem

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CAPITOLO V rame fu sostenuta. Una delle opere più decorose per l’arte ci sembra sia stata quella di ridare alla nicchia fra le statue l’originale aspetto, levando una piana di marmo che ivi sporgeva in fuori sostenuta da due modiglioni in legno; barbara riforma di tempi a noi più vicini, per ottenere la quale erasi abbassato il piano della nicchia in modo da distruggere in quel punto la percorrente fascia non solo, ma eziandio gli estremi ornamenti di quella magnifica decorazione che percorre l’arco della porta d’ingresso. Su questa piana posava una statua di legno di S. Benedetto abate, e, da quando ci viene comunicato, tale sfregio a codesto monumento longobardico venne fatto nell’anno 1536. Ma ora il santo è ricollocato in quella nicchia, rialzato da un piedistallo affinché armonizzi colle statue ai lati; la fascia, pria interrotta, è ristabilita: completati gli ornamenti estremi pria mutilati, è del pari restaurati i grappoli ed i fogliami che ornano la fascia di questo archivolto; in una parola fu ridonato il suo pieno effetto non solo a questo lavoro, ma eziandio all’intera facciata, ch’è la principale nell’interno del tempietto”.346 Da queste affermazioni sembra di capire che l’intervento del Valentinis non fu solo di semplice risanamento: venne ricostruito il tetto, rifatta la predella in larice degli stalli lignei, vennero rifatti anche gli ornamenti delle statue in stucco, ristabilita la fascia ornata sottostante le statue e, infine, furono completati gli ornamenti, i grappoli e il fogliame che decorano l’archivolto. Si sottolinea, in particolar modo, come il rifacimento degli stalli lignei trecenteschi sia stato compiuto con tale abilità da risultare impossibile distinguere la parte originale da quella restaurata. Posizione questa che è perfettamente in linea con la teoria del restauro ottocentesco, che lo stesso Valentinis dimostra di approvare attraverso alcuni dei suoi numerosi scritti, pur non parlando nello specifico di architettura, ma del restauro dei dipinti, di cui si occupò per tutta la sua vita e fino a poco prima della sua morte. In un articolo apparso sulla “Rivista Friulana” nel 1861, il Valentinis, esprimendo la propria opinione

su un dipinto di Girolamo da Udine

conservato allora nelle sale del Palazzo Comunale, fa una lunga premessa, la quale, oltre a scagliarsi contro la mala condotta di parroci e fabbricieri nella 346

Giussani, in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

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CAPITOLO V conservazione del patrimonio artistico, tratteggia puntualmente la figura del restauratore. Per il Valentinis, la preparazione del restauratore deve presupporre un lungo e attento studio del disegno e della pittura, mediante la copia protratta per molti anni delle opere degli antichi maestri, così come del resto fanno gli stessi pittori. Ma ciò che contraddistingue la preparazione del pittore da quella del restauratore è che quest’ultimo approfondisce, in special modo, l’aspetto delle tecniche artistiche “onde riescire a conoscere ed imitare li varj metodi tenuti nelle diverse epoche da li pittori che si succedettero. Il ristauratore seguendo le varie tecniche dirige ogni suo studio a contraffare, nelle parti non più esistenti di un quadro questo o quello antico maestro in modo che il suo lavoro non resti scorgibile”.347 Quest’ultima frase ricalca quasi perfettamente le parole che usa Giussani per descrivere l’intervento sugli stalli fatto dal Valentinis, poiché in entrambi i casi il concetto di restauro perfettamente riuscito coincide con l’impossibilità di riconoscere la parte restaurata da quella originale, concezione questa sicuramente non in linea con il restauro moderno, per il quale l’intervento di ripristino si deve sì uniformare formalmente con l’opera d’arte sopravvissuta, ma nello stesso tempo deve essere chiaramente distinguibile dalle parti originali non restaurate, deve essere reversibile, compatibile con i materiali originali e rispettoso dell’autenticità; deve essere inoltre caratterizzato dal “minimo intervento”. La stessa opinione verrà ribadita dal Valentinis a proposito del metodo Pettenkofer”, nel 1874, in cui si specifica che il restauratore “deve inoltre togliere, ove sia il caso, l’anteriore ritocco male riuscito e rinnovarlo in modo che l’occhio più accorto e meglio educato non valga a riconoscerlo; […] cioè nel lavoro non s’ha a scorgere la mano estranea o moderna. […] Ecco ciò che l’intelligente amatore d’arti belle esige dal restauratore”.348 Purtroppo un semplice foglio di giornale non può costituire una prova sufficiente per testimoniare l’entità del rifacimento, anche se parziale, effettuato da parte del Valentinis; certo è 347

Valentinis in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

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Ibidem

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CAPITOLO V che confrontando la descrizione che il Giussani fa, sia delle sei statue dell’archivolto prima del restauro con l’attuale perfezione della decorazione in stucco del lato ovest del Tempietto, può sorgere il dubbio che quello del 1859-1860 non sia stato un semplice intervento conservativo, ma che si sia lasciato parecchio spazio anche all’integrazione, se non addirittura a un parziale rifacimento della decorazione. Nonostante gli scavi e i restauri effettuati tra il 1955 e il 1960, la monografia in tre volumi di L’Orange e Torp e il ripristino portato a termine da Alessandro Degani per riparare ai danni subiti dal Tempietto nel terremoto del 1976 o le recenti ricerche, di notevole perizia e di rilevante valore scientifico effettuate da Teresa Perusini, Paolo Casadio e Piera Spada, anche sulla composizione dello stucco, nessuna indicazione importante è emersa relativamente a una possibile reintegrazione degli stucchi da parte del conte pur potendo supporre, in nome di una esteriore perfezione classicheggiante, che il Valentinis abbia potuto donare levigatezza e splendore alle superfici, nonché una diffusa uniformità estetica, eliminando le poche tracce di cromia e doratura che certamente le statue in origine dovevano avere, come sostenuto da molti studiosi. Si riportanto per completezza alcune parole di Degani: “ Gli studi sul cosiddetto Tempietto longobardo di Cividale hanno avuto ulteriori apporti durante i restauri operati per rimarginare i danni subiti dall’edificio in seguito alle forti scosse telluriche del 1976. Questi lavori sono stati organizzati dal Comune di Cividale, proprietario dell’immobile e da me seguiti quale Ispettore Centrale del Ministero Beni Culturali. Ho approfittato pertanto degli elementi fortuitamente reperiti per proporre alcune osservazioni sulla genesi dell’edificio. Premetto che ho sempre avuto seri dubbi sulla contemporaneità della parte absidale all’aula quadrata antistante, per la diversità di tecnica muraria che si riscontra fra le tre arcate frontali e gli altri elementi arcuati del vano. Se prima avevamo qualche perplessità, ora, mi pare, che i reperti abbiano provato come le due componenti organiche dell’edificio siano di epoca diversa. Infatti la strutturazione dell’aula quadrata parte senz’altro dall’idea di realizzare una fastosa decorazione a stucchi con interpolazioni di affreschi e stesura di mosaici sulle volte. Quindi, nel realizzare l’ambiente, i tre arconi dell’aula quadrata furono approntati in modo tale da poter ricevere, mediante 218


CAPITOLO V l’inconsueta sporgenza dei bardelloni, gli elementi plastici conformati a ventaglio. Ora, se le due parti dell’edificio fossero coeve, non si comprende perché tale sistema non sia stato adottato anche per le tre arcate d’accesso al presbiterio, dove si usarono solo chiodi di ferro inseriti ritmicamente nei giunti fra i laterizi per far aderire e trattenere gli stucchi: metodo questo che di solito è usato quando le superfici portanti sono preesistenti e quindi non preparate allo scopo. Va detto anche come la muratura delle tre arcate abbia l’aspetto tipico di paramento da rimanere a vista, comprovato dalla presenza di due decorazioni di epoca barbarica sulle due lastre in cotto romboidali, inserite all’incontro delle seconde ghiere. Inoltre nel presbiterio, dove un tempo stavano le lastre marmoree di rivestimento, si sono da tempo scoperte, sulle pareti, vaste tracce di decorazione a finto marmo, per cui si potrebbe arguire che il tempietto avesse avuto in origine una veste decorativa più povera della successiva. Se avvaloriamo l’ipotesi secondo la quale decorazione e struttura sono legate allo stesso concetto creativo, se ne deduce che l’attuale aula voltata ha sostituito una situazione preesistente.349 Il ripristino del Tempietto non interessò solamente la parte architettonica e gli stucchi, ma anche gli affreschi che ornano le pareti del piccolo sacello, il cui restauro venne affidato all’artista udinese Luigi Pletti, che li ristuccò e li ripulì liberandoli dalle polveri e dalle muffe e che si occupò anche del restauro in pessime condizioni che ornava la volta centrale del coro e che un tempo “vedevasi crivellato da grossi buchi provenienti senza dubbio dalla ossidazione dei chiodi in ferro infissi nella volta per ritegno dell’intero intonaco”.350 Per paura di annoiare i lettori, il Giussani non volle dilungarsi troppo a lungo sui minimi particolari che caratterizzarono il restauro e sintetizzò il tutto affermando che “in tutto l’interno del tempietto moltissime fenditure furono chiuse con zeppe di legno, stuccati in mille luoghi ed in più punti rinnovati gli intonachi senza che l’edificio abbia perduto il venerando carattere della vetustà, poiché con tinte neutre si seppe nascondere i molti restauri di modo che distinguere il vecchio dal nuovo è impossibile a chi 349

A. Degani, “Contributo agli studi sul tempietto longobardo di Cividale”, in Forum Iulii, 2, 1978, pagg. 5-13

350

S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008,pag. 189

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CAPITOLO V non abbia seguito il corso del lavoro”.351 Nuovamente si evidenzia che il risultato finale dell’intervento è finalizzato all’omogeneità dell’insieme e al mantenimento dell’impressione generale di antichità del Tempietto, affinché soltanto chi abbia partecipato in prima persona ai lavori possa distinguere la parte nuova da quella vecchia. L’articolo si conclude con l’ultima parte dell’intervento di Valentinis, che è consistita nel raccogliere nell’atrio del Tempietto degli antichi frammenti marmorei, in parte sparsi nel cortile e nell’orto del Monastero di Santa Maria in Valle, in parte staccati dalla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista. I frammenti erano venticinque e tra questi c’erano qualche lastra di marmo, un bassorilievo romano e un’iscrizione, che vennero disposti in cinque gruppi e simmetricamente sulle tre pareti principali dell’atrio. Le ultime parole utilizzate da Giussani per concludere l’articolo introducono uno dei grossi problemi irrisolti relativi a questo restauro, vale a dire il mancato reperimento, nonostante ripetute ricerche, dei rilievi del Tempietto eseguiti dal Valentinis. Giussani si augurò che il Valentinis, che “rilevò in disegno perfino i più minuti particolari del tempietto”352, pubblichi al più presto queste preziose tavole, cosa che purtroppo non avvenne mai. A restauro ultimato, la commissione formata da Andrea Alberto Tagliapietra, Giovanni Battista Cecchini e Luigi Ferrari si recò nuovamente al Tempietto Longobardo per il collaudo dei lavori, come confermano sia un documento dell’archivio dell’Ufficio Tecnico del comune di Cividale, sia un articolo della “Rivista Friulana”. Il documento d’archivio, datato 15 ottobre 1860, indirizzato alla “Spettabile Comunale Rappresentanza della città di Cividale” e sottofirmato dai membri della commissione (compreso l’ng. Rubolo) così affermava: “I sottoscritti componenti la Commissione dell’I.R. Accademia Veneta, vennero d’ordine superiore ad esaminare e collaudare i lavori fatti nel Tempietto antico, compreso nel Convento delle Orsoline di questa città”,353 e precisa che proprio il 15 ottobre 1860 termina, con il sopralluogo e il relativo collaudo, 351

Giussani, in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

352

Ibidem

353

Ivi, pag.190

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CAPITOLO V il mandato della commissione. L’articolo del periodico locale, dopo aver dato notizia dell’avvenuto collaudo, si prodigò in elogi al merito del Valentinis, facendosi interprete “di quella riconoscenza che al nostro concittadino conte Giuseppe Uberto Valentinis devono gli amici dell’arte e della patria storia, essendochè per lui quel vetusto monumento longobardico sarà conservato integralmente eziandio all’ammirazione della posterità”.354 A restauro ultimato, Valentinis scrisse in un atto diretto all’I.R. Accademia Veneta affinché fossero accolte alcune sue proposte. Sostanzialmente, il conte proponeva uno scambio fra l’altare custodito nel Tempietto Longobardo, di epoca più tarda rispetto al contesto, e quello di gran lunga più prezioso, di epoca invece longobarda, che giaceva nella chiesa di S. Martino, che il duca sapeva essere il famoso altare del duca Pemmone (meglio conosciuto da noi come altare di Ratchis), proveniente dalla demolita chiesa di San Giovanni Battista e ora esposto nel Museo Cristiano di Cividale. Lo scambio desiderato dal Valentinis aveva quindi motivazioni estetiche e di contestualizzazione dell’insieme, evidenziando ancora una volta il particolare aspetto del conte restauratore, fondamentalmente attento al desiderio di uniformità stilistica e visiva, già riscontrato nel restauro degli stucchi e che sarebbe riemerso anche negli altri restauri architettonici per i quali venne interpellato. Lo scambio di altari, nonostante l’appoggio dell’Accademie di Belle Arti di Venezia e il parere favorevole della stessa opinione pubblica non avvenne mai. Il Valentinis tornò a occuparsi dell’Oratorio di Santa Maria del Valle nel 1893, allorché ebbe l’incarico, in qualità di membro della Commissione Conservatrice di Udine, di sovrintendere al collaudo dell’accesso pensile sul Natisone che, nella piazza di San Biagio portava, e porta, all’interno del Tempietto. La creazione di un ingresso indipendente, che permettesse ai visitatori di recarsi all’interno dell’oratorio senza dover obbligatoriamente passare dall’annesso monastero, si rese necessaria a causa della protesta delle monache orsoline che, infastidite dalla continua presenza dei visitatori, guardarono di buon grado 354

Giussani, in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

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CAPITOLO V al passaggio di proprietà del Tempietto all’Amministrazione Comunale di Cividale, avvenuto anch’esso nel 1893. Il Valentinis non solo sovrintese al collaudo del nuovo accesso al Tempietto il 21 settembre 1893, ma ebbe una parte attiva anche nella scelta del progetto definitivo che portò alla costruzione del ponte pensile. Dopo aver scartato i progetti presentati nel 1887 da Marzio de’ Portis e da Ernesto Paciani, entrambi esponenti della nobiltà cividalese, il Valentinis approvò, pur proponendo alcune varianti ed esclusioni, un terzo progetto recante le firme di Lorenzo Costantini e dello stesso ing. Paciani, che “favorisce, se non pienamente, certo però nell’unico modo possibile le esigenze del monumento”,355 in quanto permetteva, fra l’altro, “di avvicinarsi il Tempietto Longobardo alla chiesa di S. Biagio, nella quale si trova pure una cappella di stile longobardo”.356 A distanza di più di trent’anni dalla fine del restauro del Tempietto, ecco un’ulteriore conferma dell’attenzione del Valentinis ai principi di unità stilistica, che dimostra di privilegiare anche in ambito prettamente tecnico come quello della scelta di un progetto architettonico, preferito ad altri perché avrebbe permesso un collegamento ideale e materiale fra due edifici di stile longobardo. Si ricorda, infine, che il Valentinis, nel menzionare la costruzione della porta d’ingresso alla sagrestia del Tempietto, elogia particolarmente la soluzione adottata dai fratelli Costantini in quanto la “fecero costruire nello stesso stile che predomina nel vetusto tempietto, riproducendo fedelmente quella maggiore della chiesa dell’ex convento dei Francescani, porta che risale all’epoca del dominio longobardo”.357 Si tornò a parlare del Tempietto nei giorni dal 7 all’11 settembre del 1952, quando si tenne il II Congresso Internazione di studi sull’Alto Medioevo, a Grado, Aquileia, Gorizia Cividale, Udine, organizzato dal Centro Italiano di Spoleto. In quel Congresso un intero pomeriggio fu consacrato alle relazioni 355

S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pag.191

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Ibidem

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Burton in S. Comingio, “Il restauro del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (1859-1860), in G. Perusini, R. Fabiani, “Conservazione e tutela dei beni culturali in una terra di frontiera: il Friuli Venezia-Giulia fra Regno d’Italia e Impero Asburgico (1850- 1918), Vicenza, Terra Ferma, 2008, pagg. 185-195

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CAPITOLO V del Dyggve, del Torp e dell’Orange, che avevano per tema il Tempietto nei suoi vari aspetti. Le tre relazioni si devono considerare come un’unità: frutto di fraterna, tenace e costante collaborazione, che durò dal 1947 e le cui definitive conclusioni convogliarono appunto nelle tre relazioni, presenti negli Atti. Il Dyggve ricercò l’aspetto primitivo del tempietto: un’aula quadrata coperta da volta a crociera in pietra e un’abside, formata da tre volte a botte, strette e parallele, in mattoni; il nartece è un aggiunta del Rinascimento. Per considerazioni di carattere tecnico costruttivo, la volta a crociera è da considerare coeva ai muri d’ambito, i muri dell’abside e i muri dell’aula appartengono allo stesso periodo di costruzione, mentre le decorazioni di stucco e quelle dipinte – contemporanee fra loro – furono aggiunte più tardi. Il L’Orange ha opportunamente notato che in ambito architettonico, la pianta della cappella di S. Zenone, chiesa satellite di S. Prassede a Roma, “ripete in miniatura quella dell’aula del tempietto cividalese. Non soltanto la cappella è, come l’aula quadrata e ricoperta da una volta a crociera, ma anche ha, come quella nella zona inferiore, sotto le finestre, nicchie ad arco anziché absidi”. Il Torp fa minute osservazioni tecniche sul fondo degli affreschi, sui colori, sul mezzo adesivo (tempera ed acqua di calce), sull’incontro degli affreschi e degli stucchi lungo il fregio a stelle, sulla fascia dipinta intorno all’arcone occidentale e settentrionale, sullo sfondo architettonico, su finestre e aperture dipinte anche con effetto di prospettiva etc.358 Un ultimo restauro interessò il Tempietto negli anni 1976-1980. Ce ne parla sempre il Degani. In questo operato, durante questo restauro, si cercò, a tutti i costi, di non alterare l’autenticità delle superfici antiche, soprattutto quelle affrescate, che avrebbero potuto essere danneggiate dall’incauto uso di certi leganti. Per cui si è preferito iniettare resine epossidiche. Infatti, in seguito all’intervento, le pitture non hanno subito alterazioni totali né spanciamenti dovuti alla pressione con cui si è immessa la resina nelle screpolature. Tuttavia fu necessario togliere il riempimento in pietre porose sulla volta del presbiterio, per poter intervenire efficacemente sulla statica delle tre botti. Non essendo questa struttura elemento determinante all’estetica dell’edificio, si è ritenuta cosa 358

CFR P.L. Zovatto, “Il Tempietto di Cividale e i nuovi studi”, in Felix Ravenna, 64, 1954, pagg. 49-64

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CAPITOLO V sopportabile la perdita di questo manufatto invisibile agli occhi di chicchessia, ma solo utile agli studiosi per determinare la conformazione dell’antica copertura del presbiterio. I vani lasciati dalle catene lignee sono stati riempiti con getti in cemento armato per reintegrare la struttura a contenimento delle spinte con sistema inalterabile. Si ritenne opportuno non stendere l’intonaco sulla crociera né sulle parti alte dei muri per consentire all’occhio attento di leggere le secolari vicissitudini del monumento. Diventano evidenti così le posizioni altimetriche delle catene lignee più alte, l’esistenza degli archetti a sesto acuto delle finestre volte a meriggio ed altre piccole tracce. Comunque, si cercò di evitare in tutti i modi che l’ambiente perdesse quella sintesi spaziale necessaria al suo godimento estetico.359 Le murature esterne dell’oratorio, visibili da alcuni locali del monastero rimasero a pietrame a vista, conservando i lacerti d’intonaco originario. Tali murature sono state rammendate nei punti dove interventi nel passato avevano danneggiato le loro superfici. Dove i muri furono tagliati per aprire nuovi passaggi si ritenne opportuno stendere nuovo intonaco per evidenziare differenze fra passaggi originali e passaggi eseguiti in rottura. Non furono demoliti i due archi ribassati che un tempo sostenevano il solaio del più antico edificio accostato a nord e che reggono ancora le strutture orizzontali del risvolto settecentesco aderente all’oratorio. Sia all’interno che all’esterno, qua e là, si sono lasciate asole nella muratura per poter vedere tracce importanti esistenti nel vivo di essa. I due passaggi a sud e a nord corrispondenti alla porzione di nartece collegata all’oratorio, ci sono giunti murati

sino

all’imposta

delle

arcate

trasformate

in

lunette

per

l’illuminazione e l’areazione di questo passaggio. Si pensò di riaprirli con la posa di un serramento in ferro e vetro protetto all’esterno da una grata che, pur seguendo il gusto dell’epoca, ben si adattava all’aspetto medievale e rinascimentale del luogo. Venne inoltre rimosso il muro ottocentesco che divideva in due il nartece e lo si sostituì con vetrate e cancelli. Si vuole concludere questo capitolo con le parole di L’Orange, per spiegare come sia importante la collaborazione fra studiosi e le studio delle tracce altomedievali: “ Succeduti i Longobardi ai Goti, invece, a latere di quella 359

CFR A. Degani, “Il tempietto longobardo di Cividale. Ancora un apporto alla sua conoscenza”, Udine, 1981

224


CAPITOLO V che era stata la tradizione romana vediamo nel complesso sorgere un qualche elemento nuovo, un preannuncio di qualche cosa di nuovo anche nel campo culturale, e nel campo artistico e successivamente anche nel campo della struttura sociale e quindi del diritto. Si può dire che il primo sviluppo del medioevo italiano, nel senso autonomo della parola rispetto a quello che era stata la civiltà antica, si può far coincidere con l’epoca longobarda, anche se la tradizione germanica resta naturalmente viva presso i Longobardi ed in modo particolare, […] resta prevalentemente viva proprio nelle arti minori, campo quasi nuovo che con successo abbiamo lavorato. Un secondo risultato del Convegno è quello che quanto noi sappiamo della storia particolarmente dei Longobardi, richiede, e richiede urgentemente, nuove ricerche e particolarmente nel campo archeologico. Dunque bisogna scavare e raccogliere quello che è stato scavato in idonei musei e mettere tutto questo a disposizione degli storici. Naturalmente Cividale in questo senso è uno dei campi preferiti perché proprio in questa zona di Cividale, nella zona del Friuli, noi possiamo aspettarci che i futuri ricercatori possano trovare nuovi, importanti elementi di studio per la conoscenza effettiva della storia dei Longobardi che ci si appalesa, ogni volta che noi la studiamo, sempre più come un campo ricco di indagini importanti per la conoscenza dello sviluppo della storia d’Italia nell’alto medioevo. Ma non è solo per questo che noi siamo venuti a Cividale. Noi siamo venuti a Cividale anche perché vogliamo affermare che l’Accademia dei Lincei, massimo ente culturale italiano, non deve chiudersi nella ristretta cerchia di Roma; ma deve andare incontro alle esigenze dei centri culturali di tutto quanto il paese, facendo conoscere la sua attività e cercando di conoscere e di patrocinare e di aiutare tutte le iniziative culturali che si svolgono nelle varie regioni, in modo che quelle iniziative possano costituire davvero un tutto unico. Facciamo insieme che Roma non sia un centro culturale inerte, né che i vari paesi d’Italia lavorino senza che il centro conosca quelle lodevolissime iniziative locali che là si svolgono”.360

360

H.P. L’Orange, “Il Tempietto di Cividale e l’arte longobarda alla metà dell’VIII secolo”, in “La civiltà dei Longobardi in Europa”, Atti del Convegno sul tema “Roma-Cividale”, 1971, Roma, 1974, pagg.433-460

225


BIBLIOGRAFIA

CAPITOLO VI

Con questo ultimo capitolo si intende indagare, in maniera critica, la storia conservativa passata in rassegna nei capitoli precedenti. Aldilà della mera compilazione cronologica dei dati riguardanti gli interventi di conservazione e restauro dei singoli siti e della possibilità di trovare probabili coincidenze temporali nell’interesse rivolto ai vari complessi altomedievali, dopo aver analizzato i periodi in cui i cinque luoghi sono stati studiati o in cui si è operato su di essi in maniera pratica, si vuole rileggere in parallelo la storia del restauro del secondo dopoguerra provando a trovare delle tangenze che spieghino perché proprio in quel momento un sito altomedievale venne studiato o restaurato. Si vuole quindi riflettere sulle evidenze di una disciplina come quella del restauro che è troppo spesso divisa fra teoria e pratica e che invece spesso nella storia ha con le sue operazioni solo messo in pratica postulati e formule teoriche che hanno giustificato e argomentato quelle scelte attive. Dopo aver ripercorso velocemente le tappe conservative dei cinque casi di studio, si presenteranno tre tipi di cronologie. La prima relativa ai libri e alle pubblicazioni edite in quegli anni e seconda legata ai grandi personaggi che hanno fatto la storia del restauro, la terza più specificatamente legata alle ricerche dell’ISCR. Le indagini conoscitive di questi cinque siti altomedievali mi hanno dato modo di riflettere su numerose questioni. Quasi sempre lo stimolo ad iniziare a studiare questi monumenti è partito da un’ iniziativa personale o di alcuni abati o di eminenti studiosi accademici. Alla scomparsa di questi o al diminuito interesse degli stessi per quei monumenti, la luce che si era accesa sui vari siti si spense. Oltre agli atti dei convegni il materiale da me trovato fa spesso riferimento a guide locali. Con la creazione delle Soprintendenze (sino al 1974 le competenze erano divise tra vari ministeri e la Presidenza del Consiglio, allorché venne istituito dal Governo Moro IV il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che, nel 1998, muta il nome in Ministero per i Beni e le Attività Culturali, da cui a tutt'oggi dipendono) nasce la necessità da parte dei Comuni di identificarsi individualmente anche come patrimonio artistico locale. Il boom economico 226


BIBLIOGRAFIA fa intravedere nella gestione del patrimonio una possibilità di introito economico, ma la ricerca appare troppo spesso lasciata alla libertà personale dimostrando l’incapacità del mondo storico-artistico e del restauro di prendere in eredità e continuare gli studi compiuti da quelle personalità. All’inizio la tesi doveva trattare specificatamente dei restauri dei dipinti murali, ma studiando la bibliografia e compiendo ricerche è sorta la necessità di dover allargare il campo d’indagine: quello che appare evidente è come il lavoro e lo studio attorno all’opera per il restauro, a cui tanto teneva Brandi, realizzato solo nel caso di S. Vincenzo al Volturno, è andato perso e con esso la capacità di comunicazione, di dialogo e di confronto dei vari addetti ai lavori, a tutto discapito della conoscenza a 360° gradi dell’opera. Quello che mi interessa mettere in luce, con questo lavoro, è che, nei casi analizzati emerge la mancanza di interazione fra mondo del restauro e della storia dell’arte per pitture così lontane nel tempo. Nonostante a volte nello studio di un’ opera d’arte altomedievale non si sia supportati da una forte storicizzazione della critica d’arte e non si possa far affidamento a una ricca bibliografia, non certo il progetto di intervento conservativo deve essere precluso e inficiato. Piuttosto le analisi volte a una maggiore conoscenza dei materiali e delle tecniche artistiche possono portare un grande contributo al campo della storia dell’arte. Nei casi in esame ci troviamo quasi sempre di fronte siti che richiesero inizialmente un intervento archeologico di scavo volto al riconoscimento del primo insediamento, sono spesso monasteri e di conseguenza lo studio necessita di un inquadramento storico, da parte dei medievisti. Nel rapporto fra studio della singola opera e del suo ambito non si può perciò prescindere, dallo studio del suo contesto e della temperie culturale che la originò. Il lavoro multidisciplinare non deve quindi annullare le singole individualità, ma far incontrare le varie competenze. Da una parte a volte si sente il bisogno di un’equipe multidisciplinare, dall’altra di professionalità specifiche e settoriali, ma mentalmente elastiche e capaci di interagire. Se nel caso di S. Sofia colpisce l’attenzione data alle architetture e invece lo scarso interesse riservato alle pitture (nel caso di S. Sofia la datazione delle pitture non avrebbe potuto forse aiutare la datazione dell’architettura e quindi la comprensione della vera pianta? O il Tempietto non sarebbe potuto 227


BIBLIOGRAFIA diventare un caso di studio autonomo, svincolato dal S. Salvatore, nello studio delle pitture che contiene facendo luce sulla tradizione figurativa del ducato di Spoleto così vicino a Roma?), a S. Salvatore sicuramente lo studio degli affreschi, dei vari livelli di pittura e delle sinopie, dialogando con le stratificazioni architettoniche e archeologiche ha permesso un più preciso inserimento cronologico in una lettura coadiuvata dal confronto con il Tempietto di Cividale. L’ottimo lavoro svolto a S. Vincenzo (e si noti come sia il caso in cui intervennero Brandi e l’ICR) dal punto di vista prima archeologico, poi storico e infine conservativo non può forse aiutare la conoscenza delle pitture beneventane, in un percorso a ritroso che risalga alle radici della cultura artistica longobarda? Verificando caso per caso, qual è, allo stato attuale, nelle biblioteche e negli archivi di Roma, la documentazione reperibile e confrontando i dati, quello che emerge chiaramente è una ripresa di interesse e di attenzione per i monumenti altomedievali affrontati, in un lasso di tempo che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, ed un conseguente impegno anche alla tutela, valorizzazione e conservazione di questi. Più precisamente, il caso di San Vincenzo al Volturno è quello che appare più riuscitocon un processo di intervento che partendo dallo scavo arriva al restauro delle pitture e alla ricomposizione dei frammenti. Nel caso di Santa Sofia colpisce l’enorme impegno profuso nella ristrutturazione della pianta, ma al tempo stesso la scarsa scientificità con qui questa venne portata a termine e l’assenza di analisi e interventi sulle pitture. Il Tempietto sul Clitunno risulta essere stato oggetto di interesse per molti studiosi di storia dell’arte, ma solo negli anni Ottanta oggetto di un intervento di restauro il quale comunque risulta ben condotto, completo e riuscito. Inoltre questo intervento di restauro, datato 1984-1985,

ha

prodotto

un

testo

qualitativamente

molto

valido.

Concludendo, al San Salvatore di Brescia, le operazione svolte negli anni, per

tantissimo

tempo,

a

partire

dall’Ottocento,

appaiono

volte

all’individuazione della stratificazione del complesso e alla testimonianze archeologiche rintracciabili ai fini di una ricostruzione storica insediativa nella città di Brescia. Dal punto di vista museologico, il complesso appare oggi perfettamente riuscito, c’è però da annotare come gli importantissimi e interessantissimi studi condotti soprattutto dai professori Panazza e Peroni 228


BIBLIOGRAFIA abbiano portato ad analisi sulla stratigrafia degli affreschi, sulle sinopie, sulle tecniche artistiche e sugli stili degli stucchi, ma non abbiano portato a definiti interventi di restauro e conservazione. Il complesso è tuttora oggetto di indagini (la dott.ssa Tonni sta affrontando la riqualificazione degli stucchi) e molti importanti studiosi (Lomartire, Brogiolo) ne continuano ad analizzare le vicende. Il Tempietto di Cividale fu invece oggetto di un restauro a fine Ottocento, lo stesso fu quindi condizionato dal grado e dal livello che all’epoca aveva raggiunto la scienza del restauro. Sicuramente di ben altra qualità fu il restauro condotto dal Degani a fine degli anni Settanta. La ricerca condotta sugli anni (1950-1980) in cui molti degli scritti intorno ai monumenti esaminati sono stati pubblicati e la data degli interventi dimostra come nella seconda metà del Novecento alcuni studi indirizzarono il cammino della storia dell’arte, si rinnovò l’interesse per l’arte altomedievale, alcune importanti figure emersero nel panorama nazionale e le ricerche dell’ICR, soprattutto per quanto riguarda i dipinti murali, disciplinarono la materia del restauro in Italia per gli anni a venire. Ho quindi preso in considerazione il mondo storico, le pubblicazioni artistiche e vari personaggi che hanno fatto la storia del restauro e della storia dell’arte in quegli anni per capire cosa o chi può aver influenzato l’ambito culturale da noi preso in esame. Nel 1942 si tennero le prime due mostre di opere restaurate. Non solo. Le stesse vennero realizzate nella cosiddetta Sala delle Mostre; si tenga presente che questi sono gli anni in cui si collocano gli antefatti e gli esiti di quel periodo che porterà Cesare Brandi a configurarsi, nel panorama italiano, come pioniere, in quegli anni, della riflessione teorica sul restauro a metà strada fra rigore storicistico del rispetto dell’autenticità e esigenza estetica della fruizione. Concepita insieme all’architetto Silvio Radiconcini e situata sullo stesso livello della biblioteca e dell’ufficio del direttore, al secondo piano dell’edificio che, già sede del convento romano di S. Francesco di Paola, si rifunzionalizzava per accogliere il nascente Istituto Centrale del Restauro di Roma, la sala, fin dagli esordi, è consapevolmente progettata come spazio di sperimentazione museografica. Uno spazio concepito meticolosamente sul piano funzionale dove si sarebbero presentate le opere appena restaurate, esito di una ricerca d’avanguardia nel 229


BIBLIOGRAFIA settore.361 Figure come quella di Radiconcini saranno fondamentali nell’accompagnare Cesare Brandi e forse implicitamente ispirarlo nella nascita della disciplina del restauro moderno in Italia. E a questo punto non si può non ricordare un altro importante personaggio come Renato Mancia. Questi ha un ruolo centrale tra i personaggi attivi intorno in quell’epoca e la sua notorietà è legata ad un singolare manuale pubblicato dall’editore Hoepli nel 1936 e in seguito ristampato nel 1946, dal titolo “L’esame scientifico delle opere d’arte ed il loro restauro”. Si tratta di un testo dal carattere innovativo, nel quale sono presentate le metodologie scientifiche più recenti e le loro applicazioni nel restauro, con l’illustrazione dettagliata di casi di studio. Appare singolare che questo straordinario personaggio sia stato così trascurato negli studi di storia del restauro e poco si conosce dell’itinerario

che

Mancia

compì,

dalla

fase

della

scultura

e

dell’apprendimento del restauro, a quella di attivo diagnosta, precursore del moderni Conservation Scientists e poi alla successiva fase di ideatore di iniziative di formazione nel campo del restauro. Ad ogni modo siamo ormai nel

1945

quando

nasce l’UNESCO,362

Nel

1947

Brandi

fonda

“L’immagine” e il 30 e 31 Maggio dello stesso anno si tennero le prove per il conferimento dei primi diplomi rilasciati dalla scuola che aveva preso il via nel 1942. Al 1947 si può datare anche l’inizio della cleaning controversy. Nel 1947, inoltre, Argan pubblica un articolo su Ulisse che si intitola significativamente: “Gli atti del restauratore: conservazione fisica, pulitura, integrazione delle lacune”. Se ne riporta uno stralcio: “L’importanza e l’efficacia di questi mezzi [i sussidi tecnici offerti dalla scienza] non deve essere né esagerata né sottovalutata: nel restauro, come nella medicina, l’efficacia dei mezzi meccanici dipende dalla intelligenza e 361

CFR Catalano M. I. in M. Andaloro (a cura di - ), “La teoria del restauro nel Novecento da Riegl a Brandi”, Atti del convegno internazionale di studi (Viterbo, 12-15 novembre 2003), Università degli studi della Tuscia, Nardini Editore, 2006, pag. 179 362

L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO, dall'acronimo inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è stata fondata dalle Nazioni Unite il 16 novembre 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le nazioni nelle aree dell'istruzione, scienza, cultura e comunicazione. Sono membri dell'UNESCO, all'ottobre 2011, 194 Paesi più 7 membri associati. Il quartier generale dell'UNESCO è a Parigi ed opera programmi di scambio educativo, scientifico e culturale da 60 uffici regionali sparsi per tutto il mondo. I progetti sponsorizzati dall'UNESCO comprendono programmi scientifici internazionali; programmi di alfabetizzazione, tecnici e di formazione degli insegnanti; progetti regionali e di storia culturale; e cooperazioni internazionali per conservare il patrimonio culturale e naturale del pianeta e per preservare i diritti umani. Fu responsabile della fondazione dell'OANA. L'UNESCO fornisce fondi al Consiglio Internazionale della Scienza. Una delle missioni dell'UNESCO è quella di mantenere una lista di patrimoni dell'umanità. Questi sono siti importanti culturalmente o dal punto di vista naturalistico, la cui conservazione e sicurezza è ritenuta importante per la comunità mondiale. L'UNESCO è rappresentato da propri ambasciatori e promuove il celebre Forum Universale delle Culture, che nel 2013 avrà luogo a Napoli. La Commissione nazionale italiana è guidata da Gianni Puglisi.

230


BIBLIOGRAFIA dalla capacità di chi li impiega. Ed il restauro è scienza, e come tale ugualmente distante

dall’empirismo

e dall’astratto

scientismo.

La

radiografia e la lampada di Wood possono fornire utilissimi dati per accertare i sottostrati di una pittura e per localizzare i ridipinti, ma non possono surrogare la sensibilità e la perizia del restauratore; allo stesso modo l’analisi chimica e fisica delle materie può fornire indicazioni preliminari quanto mai preziose, ma il restauro vero e proprio rimane affidato all’opera diretta del restauratore. Di qui l’impossibilità di distinguere nettamente il lavoro d’indagine dall’esecuzione del restauro, che infine non è se non una continua e sottilissima indagine”.363 E’ ad opera di figure quali Paolo Mora o Paul Philippot che si viene a delineare la figura del restauratore. Del resto lo stesso Brandi affermava in modo un po’ categorico il rischio che un ipotetico dibattito tra restauratori in merito a uno specifico restauro si potesse trasformare in un’ inutile accademia; le relazioni e le descrizioni dei restauri, del resto, venivano redatte principalmente da storici dell’arte e archeologi. Nel 1949 Brandi pubblica la voce Restauro nell’Enciclopedia Universale dell’Arte.364 E’ individuabile nel ventennio che va dal 1941 al 1961 il periodo in cui Brandi intraprese un percorso segnato da un ricco rapporto di scambio tra elaborazione teorica ed esperienza diretta nel restauro di importanti cicli pittorici murali, in un processo di continua verifica pratica dell’applicabilità e della coerenza dei suoi postulati teorici e scientifici che lo portò ad affermare il concetto di spazialità e figuratività tra architettura e pittura murale. Nasce infatti in questi anni quello che Brandi stesso chiamerà “il metodo dell’Istituto del rispetto della materia dell’opera d’arte e della continuità del sistema muratura-affresco”.365 Nel 1949 si tenne la mostra con gli affreschi strappati al Palatino. Si presentavano i restauri degli affreschi strappati dalla Sede dei Praecones al Palatino e da Santa Maria Antiqua al Foro Romano in quanto “esposti alle ingiurie degli uomini e del tempo con l’intonaco in gran parte

363

Bon Valsassina C. (a cura di - ), “Omaggio a Cesare Brandi nell’ano del centenario delle nascita”, Edifir, Firenze, 2008, pag. 171

364

C. Brandi, G. Urbani, L. Vlad Borrelli, R. Bonelli, P. Philippot, “Voce: RESTAURO”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XI, pagg. 322-354, 1983

365

Bon Valsassina C. (a cura di - ), “Omaggio a Cesare Brandi nell’ano del centenario delle nascita”, Edifir, Firenze, 2008, pag. 153

231


BIBLIOGRAFIA guasto”366 per i quali Brandi giustifica la scelta dello strappo. La riflessione sul restauro preventivo avviata per le vetrate del Camposanto di Pisa, proseguirà negli anni successivi con la sperimentazione di diverse tecniche di intervento per lo stacco e lo strappo degli affreschi e con la ricerca di nuovi materiali di restauro sempre più adeguati e rispondenti ai principi di reversibilità e compatibilità tra materiali antichi e moderni che culminerà negli anni Sessanta con le ricerche di Giovanni Urbani367 e Giorgio Torraca sui nuovi supporti rigidi a base di prodotti sintetici. La sperimentazione di nuovi tipi di supporti rigidi sarà realizzata sotto la direzione di Brandi verso la fine degli anni Cinquanta, con lo stacco degli affreschi di età repubblicana della casa di Livia e della Casa dei Grifi sul Palatino. La sperimentazione sui supporti prosegue in questa direzione nel corso degli anni Cinquanta, come testimoniano le ricerche di Roberto Carità e Paolo Mora su telai a tensionamento regolabile in struttura metallica. Negli anni Settanta e Ottanta, al di là delle grandi campagne di stacco realizzate a seguito dei devastanti eventi sismici del Friuli del 1976 e dell’Irpinia del 1981, gli interventi di restauro degli affreschi si sono potuti avvalere delle possibilità date dalle nuove tecnologie per il controllo microclimatico, il risanamento e il consolidamento degli intonaci e delle strutture murarie che hanno consentito di staccare sempre meno gli affreschi, conservando, sempre più legata al contesto architettonico, la pittura murale che Brandi considerava, a ragione,

essenziale

per

l’integrità

stessa

dello

spazio

realizzato

dall’architettura. Nel 1950 inizia a uscire il Bollettino dell’ICR, nel terzo numero del Bollettino uscirà un testo sulle alterazioni dei dipinti murali in base alle osservazioni fatte nei laboratori di fisica e chimica dell’ICR, “Sulle alterazioni dei dipinti murali”, nel quale vengono riassunte e criticamente analizzate le osservazioni fatte nei laboratori di fisica e di chimica dell’ICR dal 1944 sugli affreschi del Camposanto di Pisa, su opere di Benozzo Gozzoli, Leonardo da Vinci, sugli affreschi romani, sui dipinti di Mantegna a Mantova, a San Clemente a Roma ed altri ancora. Il testo è stato possibile e le ipotesi hanno potuto essere formulate grazie ad un approccio 366

Bon Valsassina C. (a cura di - ), “Omaggio a Cesare Brandi nell’ano del centenario delle nascita”, Edifir, Firenze, 2008, pag. 155

367

Giovanni Urbani (Roma, 1925 – Roma, 8 giugno 1994) è stato un critico d'arte italiano. Direttore dell'Istituto Centrale del Restauro(1973-83).

232


BIBLIOGRAFIA interdisciplinare che ha permesso di integrare le informazioni e dedurre i comportamenti dei materiali. Per quanto attiene ai complessi archeologici e ai monumenti, negli stessi anni l’impegno dell’ICR fu incentrato sulla conservazione

delle

pertinenze

decorative

dell’architettura

antica,

soprattutto dei grandi complessi pittorici delle tombe tarquinesi e dei monumenti repubblicani e augustei del Palatino, i cui fenomeni di degrado destavano gravi preoccupazioni per l’inutilità degli interventi conservativi fino a quel momento effettuati. Purtroppo le allora scarse conoscenze della fisica dell’ambiente determinarono lo stacco di questi cicli pittorici, che si attuò ininterrottamente fino al 1959 quando furono distaccate le pitture della Tomba della Scrofa Nera. Nel 1950 sul primo numero del Bollettino viene pubblicato, invece, il fondamento teorico del restauro da collegare all’articolo uscito nel 1947 su Ulisse, scritto da Argan. Qui di seguito ne cito un passo a mio avviso molto importante: “Vorremmo dunque affermare che come occorsero secoli di speculazione filosofica per giungere a separare l’Estetica dalla Logica e dall’Etica, così sono occorsi secoli di manualità per giungere ad enucleare nel restauro il collegamento inscindibile con l’Estetica. E’ in questo collegamento che noi vediamo e fondiamo la stabilità del restauro in quanto rifrazione del pensiero stesso dell’arte. Perciò abbiamo asserito che non bastava enumerare le diverse accezioni che il restauro ha avuto attraverso le varie epoche, per relegarlo nella mera contingenza storica. Codeste differenti accezioni rappresentavano le modalità stesse attraverso cui doveva passare e depurarsi il concetto ancora grezzo del restauro. Ma una volta giunti a riconoscere l’inscindibilità del restauro dall’Estetica le oscillazioni pratiche, le differenze metodologiche rappresentavano non già l’invalidazione del concetto di restauro, ma l’elaborazione del concetto attraverso la concretezza storica, nel processo speculativo che è inarrestabile per ogni posizione assunta dal pensiero. Bisogna dunque disgiungere la diversità contingente delle varie pratiche di restauro dalla proposizione speculativa del problema di restauro, in quanto non un problema di gusto, ma un problema che fa tutt’uno con quello dell’essenza dell’arte e dunque dell’Estetica. Ma noi andiamo anche oltre. Noi sosteniamo che la pratica stessa del restauro deve rigorosamente dedursi dal principio che lo pone inscindibile dall’Estetica. E qui, se la deduzione 233


BIBLIOGRAFIA non potrà essere per tutti e per tutto tassativa, dovrà tuttavia portare a un restringimento dell’angolo di apertura, ottenere un’equipollenza se non un’uguaglianza, con l’elaborazione di un metodo che non sarà solo il medioevale ricettario, il figurato Tacuinum Sanitatis dell’opera d’arte malata”.368 Negli anni Cinquanta e Sessanta si collocano alcune importanti figure nel panorama della filosofia estetica: Banfi,369 Anceschi,370 Paci,371 Cantoni,372 Morpurgo-Tagliabue. Sono del 1953 le prime sezioni stratigrafiche e le prime schede di analisi dei laboratori scientifici. Nel 1954 Pareyson373 pubblica “Teoria della formatività”. Nel 1956 Brandi pubblica “Arcadio o dell’architettura”. Nel 1957 Le Goff374 pubblica “Gli intellettuali del Medioevo” e, sempre nello stesso anno, viene fondato il Centro Studi sull’Alto Medioevo a Spoleto. Inoltre, Brandi pubblica “Celso o della scultura”. Nel 1959 l’ICR restaura la Maestà di Duccio di Boninsegna e Philippot è il vicedirettore dell’ICCROM. Del 1960 è “Segno e Immagine” di Cesare Brandi. Tra il 1961 e il 1962 ci lasciano Lionello Venturi375 e il Toesca.376 Nel 1963 viene pubblicata “Teoria del restauro”. Nel 1964 Le 368

Bon Valsassina C. (a cura di - ), “Omaggio a Cesare Brandi nell’ano del centenario delle nascita”, Edifir, Firenze, 2008, pag. 167

369

Antonio Banfi (Vimercate, 30 settembre 1886 – Milano, 22 luglio 1957) è stato un filosofo italiano. Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in grado di attraversare i vari settori dell'animo umano. 370

Luciano Anceschi (Milano, 20 febbraio 1911 – Bologna, 2 maggio 1995) è stato un critico letterario e saggista italiano. Allievo di Antonio Banfi, con il quale si laureò in Filosofia nel 1933, ricoprì l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia presso l'Università di Bologna dal 1952 al 1981. 371

Enzo Paci (Monterado, 18 settembre 1911 – Milano, 21 luglio 1976) è stato un filosofo italiano. Fu uno dei più espressivi rappresentanti dell'Esistenzialismo in Italia. Nacque a Monterado (Ancona), intraprese gli studi di filosofia, nei quali fu allievo di Antonio Banfi. Incominciò la sua carriera di docente, insegnando storia della filosofia all'Università di Pavia e successivamente filosofia teoretica all'Università Statale di Milano. Creò la rivista Aut Aut, che diresse dal 1951, e nella quale sono testimoniati i suoi molti interessi letterari e culturali. 372

Remo Cantoni (Milano, 14 ottobre 1914 – Milano, 3 febbraio 1978) è stato un filosofo italiano. Insegnó filosofia morale in molte università italiane. In opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupó di cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia. Nel solco del maestro Antonio Banfi fu uno dei maggiori esponenti della scuola definita "umanesimo critico". Oltre ai numerosi volumi pubblicati fondó le riviste “Studi filosofici” e “Il pensiero critico”. 373

Luigi Pareyson (Piasco, 4 febbraio 1918 – Milano, 8 settembre 1991) è stato un filosofo italiano. Fu accademico dei Lincei e membro dell'Institut international de philosophie, oltre che fondatore e direttore della Rivista di estetica. 374

Jacques Le Goff (Tolone, 1º gennaio 1924) è uno storico francese, studioso della storia e della sociologia del Medioevo, tra i più autorevoli studiosi nel campo della ricerca agiografica. Docente nelle Università di Lilla e Parigi, dirige dal 1962 l'École pratique des hautes études di Parigi. 375

Lionello Venturi (Modena, 25 aprile 1885 – Roma, 14 agosto 1961) è stato un critico d'arte e storico dell'arte italiano. Figlio di Adolfo, fu uno dei 12 docenti universitari che nel 1931 rifiutarono di prestare il Giuramento di fedeltà al Fascismo, perdendo così la cattedra. Si trasferì a Parigi, dove rimase sino al 1939, e poi a New York fino al 1944. Nel 1945 ritornò in Italia, a Roma, dove riprese l'insegnamento universitario sino al 1955. 376

Giovanni Pietro Toesca (Pietra Ligure, 12 luglio 1877 – Roma, 9 marzo 1962) è stato uno storico dell'arte italiano. Toesca viene ricordato fra i più importanti medievisti del novecento. Il suo volume "La pittura e la miniatura nella Lombardia fino alla metà del quattrocento" ricostruì per la prima volta il quadro dell'arte figurativa lombarda del medioevo, definendone l'importanza riguardo

234


BIBLIOGRAFIA Goff pubblica “La civiltà dell’Occidente medievale”. Nel 1965 Pareyson pubblica “Teoria dell’arte”. Nel 1966 “Conversazioni di estetica” e “Problemi dell’estetica”. Del biennio 1965-1967 sono alcune importanti opere di Previtali, del 1966 è “Le due vie” di Cesare Brandi, nel 1967 Venditti pubblica “L’architettura bizantina”, il 1968 è l’anno che vede la nascita dei primi tre volumi della “Storia dell’arte italiana” dell’Argan,377 ma la morte di Erwin Panofsky.378 Nel 1970 muore Roberto Longhi379 ed esce la “Teoria Estetica” di Adorno.380 Del 1973 è il famosi intervento di Brandi all’Accademia dei Lincei, del 1972 è la Carta del restauro, che era stata preceduta dalla sua versione preliminare di Venezia nel 1964. Nell’intervento che Cesare Brandi tenne in occasione del convegno internazionale organizzato dall’Accademia dei Lincei e pubblicato negli atti con il titolo di “Applicazione dei metodi nucleari nel campo delle opere d’arte”, esprime il suo disagio nell’essere in mezzo a scienziati. L’esigenza dell’interdisciplinarietà sembrava a lui in contrasto con lo sviluppo autonomo delle singole scienze e con l’utilizzo di linguaggi formalizzati e particolari da rendere sempre più ostici i contatti tra professioni diverse. Si sentiva in imbarazzo per non essere un addetto ai lavori, ma, da addetto ai all'intera Europa. Allievo a Roma di Adolfo Venturi, Toesca iniziò la sua carriera di docente all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, nel 1905. Nel 1907 fu scelto per l'appena istituita cattedra di Storia dell'Arte all'Università di Torino. Nel 1914 si spostò a Firenze, e nel1926 a Roma, dove concluse la sua esperienza d'insegnante universitario nel 1948. Fra i suoi studenti più importanti Roberto Longhi e Ernst Kitzinger. Toesca è stato Direttore della sezione Storia dell'arte medievale e moderna dell'Enciclopedia Italiana dal 1929 al 1937, e membro nazionale dell'Accademia dei Lincei dal 1946. 377

Giulio Carlo Argan (Torino, 17 maggio 1909 – Roma, 12 novembre 1992) è stato un critico d'arte, politico e docente italiano, primo sindaco non democristiano della Roma repubblicana dal 1976 al 1979. Argan fu dagli anni settanta un esponente di prestigio della Sinistra Indipendente e senatore dal 1983 al 1992 nella IX e X Legislatura. Negli anni venti frequenta l'ambiente culturale gobettiano e si forma all'Università di Torino con Lionello Venturi, ricevendone l'esempio di una critica di impostazione crociana, ma estesa anche all'arte contemporanea. Nel 1928 aderisce al Partito Nazionale Fascista. Si interessa soprattutto di architettura: nel 1930 esordisce con gli articoli Palladio e la critica neoclassica e Il pensiero critico di Antonio da Sant'Elia; nel 1931 si laurea su Sebastiano Serlio. Frequenta il Perfezionamento, è assistente di Toesca, e nel 1933 entra nell'amministrazione Antichità e Belle Arti, diventando ispettore a Torino, poi a Modena e infine a Roma alla Direzione Generale, dove elabora assieme a Cesare Brandi il progetto dell'Istituto Centrale del Restauro oltre ad essere redattore della rivista Le Arti. 378

Erwin Panofsky (Hannover, 30 marzo 1892 – Princeton, 14 marzo 1968) è stato uno storico dell'arte tedesco.

379

Roberto Longhi (Alba, 28 dicembre 1890 – Firenze, 3 giugno 1970) è stato uno storico dell'arte italiano.

380

Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno (Francoforte sul Meno, 11 settembre 1903 – Visp, 6 agosto1969) è stato un filosofo, musicologo e aforista tedesco. Fu esponente della Scuola di Francoforte e si distinse per una critica radicale alla società e al capitalismo avanzato. Oltre ai testi di carattere sociologico, nella sua opera sono presenti scritti inerenti alla morale e all'estetica, nonché studi critici sulla filosofia di Hegel, Husserl e Heidegger. Alla riflessione filosofica affiancò per tutta la sua esistenza un'imponente attività musicologica. Studente all'Università di Francoforte, l'amicizia personale con Max Horkheimer lo pose in contatto con l'Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte sul Meno. L'avvento del nazismo lo costrinse all'esilio, prima ad Oxford e, successivamente, in America, in quelli che egli chiamava gli Statistici Uniti. Qui fu particolarmente impegnato in progetti sociologici all'avanguardia come il Radio Research Project e soprattutto nell'indagine sulla Personalità autoritaria. Ritornato in Germania nei primi anni cinquanta, le sue lezioni, pur difficilissime, all'Università di Francoforte registrarono una crescente partecipazione, mentre diventava un mito per mezza Europa il seminario da lui svolto con Max Horkheimer sulle tematiche hegeliane.

235


BIBLIOGRAFIA lavori di conservazione e restauro, aveva la consapevolezza della “luce prodigiosa” che le applicazioni scientifiche avrebbero potuto dare ai lavori di restauro. Lo scopo di conservare e non distruggere: conservare integralmente, intervenire in sicurezza, di ritrovare il livello originale di una pittura o di una scultura, sembrava a Cesare Brandi una condizione non rimandabile. Nel 1974 Pareyson pubblica “L’esperienza artistica”. “Teoria generale ella critica” vede la luce ugualmente nel 1974. Negli anni Settanta e Ottanta Renato Bonelli estende i criteri del restauro critico al problema urbanistico e del paesaggio. Alla fine degli anni Settanta nascono i primi laboratori scientifici del CNR, nel 1978 Urbani istituisce la commissione NORMAL381 e l’ICR acquista il primo microscopio elettronico a scansione; soltanto alla fine degli anni Sessanta i primi studi ambientali condotti sui monumenti ipogei permettono di giungere a una prassi conservativa diversa finalizzata alla conservazione in situ delle pitture. E’ importante sottolineare quanto a questo mutamento e all’approfondimento delle cause del degrado delle pitture ipogeiche abbia contribuito l’Istituto stesso, ponendone le basi con un’ampia campagna conoscitiva condotta di concerto con il CNR. Sono 381

La Commissione NorMaL (NORmalizzazione MAteriali Lapidei) è nata nel 1977, su iniziativa di un gruppo di studiosi del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell'Istituto Centrale per il Restauro al fine di individuare metodologie di studio unificate e specifiche per il settore della conservazione dei materiali lapidei, nell'ambito dei Beni Culturali. Promotore dell'iniziativa fu Giovanni Urbani (direttore dell'ICR) e convinto assertore dell'importanza e della inderogabile necessità di individuare metodologie di studio unificate. La proposta venne presentata per la prima volta nel 1977, all'International Symposium on Conservation of Stone Materials tenutosi a Bologna, sotto l'egida dell'International Institute for Conservation (IIC). la relazione aveva il titolo di Artistic Stone Works - A proposal for the Unification of the Methods of Studying Stone Decay and of Controlling Stone Conservation, e venne presentata da un gruppo composto da Giovanna Alessandrini, Carlo Manganelli, Paola Rossi-Doria, Marisa Tabasso Laurenzi, Sergio Vannucci. Inizialmente la Commissione venne costituita da soli quattro Gruppi di lavoro:

NorMaL C - metodologie chimiche, NorMaL P - metodologie petrografiche, NorMaL B - metodologie biologiche, NorMaL F - metodologie fisico-meccaniche.

Scopo della Commissione NorMaL era quello di stabilire metodi unificati per lo studio delle alterazioni dei materiali lapidei e per il controllo dell'efficacia dei trattamenti conservativi di manufatti di interesse storico - artistico. La Commissione pose una limitazione, almeno momentanea, ai propri lavori: interessarsi unicamente dei materiali lapidei, intendendosi con tale termine non solo le pietre naturali, ma anche i materiali artificiali utilizzati in architettura, quali stucchi, malte (indipendentemente dalla loro funzione in opera), prodotti ceramici (quali laterizi e cotti) ottenuti partendo dai materiali naturali attraverso processi particolari di lavorazione. All'attività di normazione (sotto forma di raccomandazioni non avendo l'autorità di proporre standard) della Commissione parteciparono, fin dalla sua istituzione, specialisti di diversa appartenenza: esperti e ricercatori del CNR e del Ministero per i Beni Culturali ma anche docenti universitari, liberi professionisti (progettisti, scienziati in conservazione e restauratori), rappresentanti delle industrie interessate al settore, per un totale di circa 200 componenti, suddivisi in Gruppi e Sottogruppi di lavoro, ciascuno specializzato nelle diverse discipline scientifiche che aderiscono al settore conservativo (chimica, biologia, fisica, geologia, ecc.) o in classi particolari di materiali (malte, prodotti ceramici, ecc.) o, infine, in problematiche particolari (documentazione grafica, stato igrometrico delle strutture, ecc.). Il coordinamento dell'attività di ciascun Gruppo fu affidato ad un ricercatore appartenente ad uno dei due enti promotori (CNR e Ministero dei Beni Culturali). La pubblicazione dei documenti (con copyright CNR-ICR), la revisione editoriale, la diffusione degli stessi venne affidata al ICR. Caratteristica peculiare di molti documenti NorMaL, soprattutto quelli di tipo metodologico, è stata la base sperimentale da cui essi sempre hanno preso origine: i documenti sono sempre stati elaborati a seguito di una adeguata sperimentazione condotta in parallelo tra i diversi laboratori afferenti a Gruppi e Sottogruppi di lavoro, al fine di pervenire a documenti estremamente dettagliati in tutte le fasi contemplate nella metodologia.

236


BIBLIOGRAFIA peraltro rintracciabili, in uno scritto precedente, alcuni passaggi che rimandano all’operatività del restauratore, e al modo in cui questa si situa rispetto alla teoria. Nei decenni Ottanta e Novanta abbiamo le figura di Alessandro Conti382 e le sue pubblicazioni intorno al restauro. Nel 1982 “Metodo e scienza” e “Operatività e ricerca nel restauro” di Baldini,383 nel 1992-1995 vengono restaurati i Bronzi di Riace. Oltre ai già citati Urbani384 e Cordaro, non si può non citare, fra i direttore dell’ICR, Pasquale Rotondi.385

382

Alessandro Conti (Firenze, 1946 – Siena, 1994) è stato uno storico dell'arte italiano. Alessandro Conti si era laureato a Bologna con Francesco Arcangeli, entrando immediatamente nell’orbita di influenza di Roberto Longhi, che lo aveva avviato allo studio della storia del restauro. Successivamente aveva lavorato sotto la guida di Giovanni Previtali e di Paola Barocchi. Ha insegnato Scienza e tecnica del restauro, Storia della critica d’arte e Storia dell’arte moderna presso le università di Bologna, Milano e Siena. Si è occupato prevalentemente di storia del restauro e delle tecniche artistiche, conducendo studi che sono ancora fondamentali in queste discipline. Il suo ampio raggio di interesse si è esercitato su uno spettro di secoli della storia dell’arte molto vasto, con una particolare predilezione per la miniatura medievale. 383

Umberto Baldini (Pitigliano, 9 novembre 1921 – Massa, 16 agosto 2006) è stato uno storico dell'arte italiano, specialista nella teoria del restauro. Laureatosi in storia dell'arte col professor Mario Salmi, entrò in servizio come ispettore della Soprintendenza di Firenze e nel 1949 diventò direttore del Gabinetto di restauro. In quella veste si trovò a dover gestire la drammatica emergenza dell'alluvione di Firenze del 1966 che danneggiò tanti capolavori. Si avvalse dell'opera di tanti restauratori fra i quali Vittorio Granchi, che restaurò anche il Crocifisso di Santa Croce. Il risultato di quegli interventi consacrò a livello mondiale le tecniche e le metodologie della cosiddetta «scuola fiorentina» di restauro. Nel 1970 divenne direttore dell'Opificio delle pietre dure; dal 1983 al 1987 venne chiamato a dirigere l'Istituto Centrale per il Restauro di Roma e, in quegli anni, curò l'imponente recupero della Cappella Brancacci nella basilica del Carmine a Firenze. Venne successivamente nominato presidente della Università Internazionale dell'Arte di Firenze, e direttore, sempre a Firenze, del Museo Horne. 384

Di cui bisogna sempre ricordare e mai dimenticare il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria.

385

Pasquale Rotondi (Arpino, 12 maggio 1909 – Roma, 2 gennaio 1991) è stato uno storico dell'arte italiano. È’ noto per aver salvato durante la seconda guerra mondiale circa diecimila opere d'arte italiane dalla distruzione e dal saccheggio delle truppe naziste. Nominato nel 1961 direttore dell'Istituto Centrale di Restauro di Roma, si fece in tale veste tra i promotori del salvataggio delle opere d'arte danneggiate dall'alluvione di Firenze del 1966.

237


BIBLIOGRAFIA “Nella teoria del restauro di Brandi trovò una somiglianza con i modelli, con le leggi, con le formule che i fisici inseguono nel tentativo di spiegare come funziona il mondo. Queste leggi sono riconosciute come tali quando e perché riescono a spiegare ed interpretare ogni evento particolare di un certo fenomeno una volta per tutte, ossia hanno un valore generale. Ad esempio: la legge di gravitazione universale e la caduta dei corpi; la teoria del corpo nero di Planck e la radiazione emessa da ogni corpo che si trova a una temperatura maggiore dello “0” assoluto. Allo stesso modo la teoria del restauro di Brandi riesce a spiegare e interpretare qualsiasi tipo di opera d’arte, analizza e risolve qualsiasi problema di restauro e di conservazione. Il restauro preventivo presuppone la capacità di prevenire qualsiasi fenomeno dannoso e questo è possibile solo se si conosce il sistema materiale con cui si ha a che fare. Ma ciò avviene quando si conosce il modello generale di una certa tipologia di fenomeni, allora si conoscono i parametri che governano quel processo e attraverso la misura e la regolazione di questi parametri è possibile controllare la trasformazione di quel sistema fisico.”386

386

G. Accardo in Bon Valsassina C. (a cura di - ), “Omaggio a Cesare Brandi nell’ano del centenario delle nascita”, Edifir, Firenze, 2008, pag. 131

238


BIBLIOGRAFIA Conclusioni La ricerca bibliografica è avvenuta partendo dal catalogo della biblioteca Hertziana e della biblioteca di archeologia e storia dell’arte del Ministero per i beni e le attività culturali. La ricerca ha messo in luce come spesso le fonti siano di carattere poco scientifico essendo guide locali e come spesso la reperibilità di importanti articoli sia difficile reperibilità, mancandone citazioni e riferimenti in altri testi. La tesi avrebbe anche voluto includere documenti provenienti dagli archivi delle varie soprintendenze, ma problemi logistici dati dalla scelta di partire con una borsa di studio all’interno del programma Erasmus Placement hanno inficiato questa possibilità. Ovviamente la laureanda si rende disponibile, qualora la commissione lo ritenesse opportuno, necessario e interessante, continuare le sue ricerche successivamente alla laurea e ampliare i suoi studi. La tesi ha, durante tutto il suo lavoro di progettazione, ricerca e stesura, arricchito, soprattutto dal punto di vista morale, umano e personale chi scrive. Particolarmente impegnativo, quindi formativo, è risultato il periodo di studio preliminare all’inizio vero e proprio di lavoro di tesi, per acquisire le competenze necessarie allo svolgimento della stessa, in particolar modo lo studio degli elementi necessari alla lettura di un’architettura, lo studio delle nozioni basilari di storia medievale, nel periodo in esame, e la gestione di tanto materiale documentario. L’uso consistente di citazioni è stato messo in atto come gesto di umiltà, sentendosi spesso la laureanda non totalmente in grado di gestire la materia e il materiale, ma anche come gesto volto a voler presentare un lavoro il più possibile preciso, organico e dettagliato, che poggiasse sui fatti e sulle parole “dei grandi”. Si è quindi adoperato il caso delle pitture murali altomedievali per ispezionare il campo di indagine in cui restauro e storia dell’arte, scienza ed estetica non falliscono, balbettando, nel comunicare, come portatrici di contenuti, messaggi e linguaggi diversi, bensì si intrecciano e si incontrano, si scambiano in un movimento a doppio binario il cui frutto, il cui terreno comune è la disciplina della conservazione. Oltre quindi a sentir parlare di scientificità dell’arte, si vorrebbe e si necessiterebbe sentire in giro il concetto di esteticità della scienza, che forse più del primo, richiede un’analisi e più attenzione, perlomeno. Credo che un concetto fondamentale per la comprensione di 239


BIBLIOGRAFIA questa tesi sia nel concetto di “linguaggio dell’arte”: se l’opera non parla la stessa lingua della comunità che abita i suoi luoghi, non diventa opera identificatrice, in cui la gente si possa rispecchiare nella propria storia, se l’opera d’arte non è conosciuta, non è più fruita, perché non è più emblematica, se non viene valorizzata, moralmente muore, come qualcosa che non venga più costantemente nutrito dagli sguardi delle persone, figlie della generazione che quell’opera aveva creato. Allo stesso modo se si sente parlare di bizantinizzazione dell’arte di età barbara, allo stesso modo si vorrebbe che si diffondesse il concetto di barbarizzazione dell’arte bizantina. Il linguaggio non è solo figurativo e il problema quindi è che non esiste una disciplina apposita, adatta. Mi spiego meglio. Anche in seguito all’esperienza del placement, mi sono resa conto di come esiste una strisciante confusione fra arte e archeologia, data dal fatto che spesso per ritrovare un insediamento altomedioevale si debba scavare; proseguendo, spesso nei musei che conservano reperti altomedievali un gran dispiegamento di tecnologie punta sulla didattica e con accurate ricostruzioni storiche e sceniche tenta di ricostruire il giacimento di ritrovamento e l’epoca da cui gli oggetti riaffiorano, ma la forte sensazione che ho è che il senso estetico di tutto venga perso, perchè non si riesce a leggere lo stesso reperto sotto la luce del duplice punto di vista archeologico e storico artistico? Come una fibula è stata ritrovata, di che periodo è, come è stata realizzata è archeologia, l’analisi del cosa c’è inciso, che stile è, da dove deriva, quali sono le caratteristiche dell'incisione è arte. Spesso ci si dimentica il concetto di bellezza. Una soluzione potrebbe essere recuperare la differenza fra estetica ed esteticità. Se l’estetica è lo studio delle forme, di come un’idea si fa immagine, essa rientra di diritto nei parametri da tenere in considerazione nello studio di un reperto altomedievale; che forse, a volte, un oggetto come una fibula longobarda, così legata al concetto di funzionalità e sicuramente lontana dal nostro ideale di bello e dalla nostra estetica, manchi di esteticità e quindi di bellezza delle forme è un’ altra storia. Estetica come scienza delle forme. Esteticità come storia formale delle forme, legata al concetto di gusto e critica.

240


BIBLIOGRAFIA

APPENDICE

241


BIBLIOGRAFIA

San Vincenzo al Volturno ANNI

TIPO DI INTERVENTO

1947 1957

Recupero d’interesse Relazione di Cesare Brandi (in particolar modo per accertare lo stato di conservazione dei dipinti murali) Primi scavi Viene chiesto l’intervento dell’ ICR Scavo archeologico Realizzazione della trincea Pronto intervento Realizzazione pavimento radiante Completamento dell’intervento progettato dall’ICR Accelerazione impressa dall’ intervento della Regione Molise Raccolta frammenti di intonaco dipinto e loro restauro Si organizzano gli spazi dell’ex pretura Nasce il nuovo complesso museale

Anni ‘60* 1979 1980 1981 1983 1985 1987 1994 1999-2004 2001 2004

*La fonte G. Basile, “Il restauro delle decorazioni murali della cripta dell’abbate Epifanio e degli ambienti attigui all’abbazia di San Vincenzo al Volturno”, in Arte Medievale, 2, serie 11, 1997/1999, ½, non offre dati più precisi. S. Sofia a Benevento ANNI

TIPO DI INTERVENTO

1950 1952 1955 1957 Anni ‘90

Restauro della pianta da parte dell’ing. Rusconi Restauro della pianta da parte dell’ing. Rusconi Restauro della pianta da parte dell’ing. Rusconi Collaudo dell’intera chiesa Campagna di rilievo tridimensionale

Tempietto sul Clitunno ANNI

TIPO DI INTERVENTO

1984-1985 Restauro dell’edicola marmorea e delle pitture murali

242


BIBLIOGRAFIA

San Salvatore – Santa Giulia a Brescia ANNI

TIPO DI INTERVENTO

1882 1895-1952 1958-1971 1958-1960* 1975-1979

Inaugurazione del Museo Cristiano Campagna di scavo nella proprietà Artigianelli Campagna di scavo e restauro Ricerche di Panazza e Peroni sul cantiere pittorico altomedievale Precisazione del programma museale individuato a fine Ottocento

*Si precisa che le pubblicazioni in merito sono datate al bienni 1960-1962 Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli ANNI

TIPO DI INTERVENTO

1842 1859-1860 1893 1918 1976-1980

Progetto di restauro dell’ing. Cabassi Restauro del Valentinis Collaudo accesso pensile Scavi del von Kashnitiz Restauro di Degani

243


BIBLIOGRAFIA

DATE

San Vincenzo al Volturno

S. Sofia a Benevento

Tempietto sul Clitunno

San Salvatore a Brescia

1859-1860

1957

Restauro del Valentinis per la preservazione del Tempietto Valutazione di Cesare Brandi sullo stato di conservazione

1958-1971

Campagna di scavo nel perimetro del monastero e di restauro per la riqualificazione museale del S. Salvatore

1976-1980

1979

1983

Restauro di Degani dopo il terremoto del 1976 Intervento dell’ICR per la conservazione in situ delle pitture Pronto intervento per l’adesione e coesione delle pitture

1984-1985 1999-2004

2001 2004

Tempietto a Cividale

Restauro pitture murali Raccolta e restauro dei frammenti di intonaco dipinto Si organizzano gli spazi dell’ex pretura Nasce il nuovo complesso museale 244


BIBLIOGRAFIA

Apparato iconografico

245


BIBLIOGRAFIA

San Vincenzo al Volturno

246


BIBLIOGRAFIA

Foto storica dell’abbazia nuova

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno

247


BIBLIOGRAFIA

Abbazia di San Vincenzo al Volturno, decorazione della cripta con Sante

248


BIBLIOGRAFIA

Particolare della decorazione della cripta di Giosuè

Veduta generale degli affreschi della cripta di Giosuè

249


BIBLIOGRAFIA

Affreschi all’interno di una sepoltura

Cripta di Epifanio – Mano dell’Eterno

250


BIBLIOGRAFIA

Pavimentaizone della basilica di San Vincenzo Maggiore

Cripta di Epifanio – La crocifissione ed il ritratto di Epifanio

251


BIBLIOGRAFIA

Cripta di Epifanio – Particolare del martirio di Santo Stefano

Cripta di Epifanio – Il martirio di San Lorenzo

252


BIBLIOGRAFIA

Cripta di Epifanio, Madonna in trono

La Madonna Regina

253


BIBLIOGRAFIA

La cripta durante gli scavi nel 1982

La cripta di Epifanio negli anni ‘70

254


BIBLIOGRAFIA

Interno del magazzino

Il laboratorio di restauro

255


BIBLIOGRAFIA

Dettaglio delle gambe e dei piedi di un Profeta

Frammenti di affresco

256


BIBLIOGRAFIA

Frammenti di affreschi

Uno dei volti dei Profeti 257


BIBLIOGRAFIA

S. Sofia a Benevento

258


BIBLIOGRAFIA

La piazza in un’immagine di inizio secolo

La facciata su Piazza Matteotti

259


BIBLIOGRAFIA

La facciata durante i restauri del 1951

La facciata di S. Sofia a Benevento

260


BIBLIOGRAFIA

Il chiostro in una foto di inizio Novecento

Il chiostro di S. Sofia a Benevento

261


BIBLIOGRAFIA

L’interno in forme barocche

L’interno di S. Sofia oggi

262


BIBLIOGRAFIA

Vista delle volte in una foto storica

Vista delle volte oggi

263


BIBLIOGRAFIA

Schema architettonico cronologico

La zona absidale dopo la rimozione delle cappelle settecentesche

264


BIBLIOGRAFIA

Particolare degli affreschi a S. Sofia a Benevento

Particolare degli affreschi a S. Sofia a Benevento 265


BIBLIOGRAFIA

Il Tempietto sul Clitunno

266


BIBLIOGRAFIA

Veduta d’insieme del Tempietto sul Clitunno

Il Tempietto sul Clitunno, veduta laterale

267


BIBLIOGRAFIA

Il Tempietto sul Clitunno,, veduta laterale

Veduta dall’abside del Tempietto to sul Clitunno

268


BIBLIOGRAFIA

La facciata del Tempietto sul Clitunno

Il tempietto del Clitunno, facciata 269


BIBLIOGRAFIA

Particolare delle colonne in facciata

Particolare del Chrismon sopra l’arco

270


BIBLIOGRAFIA

Cristo benedicente (dopo il restauro del 1931-1933)

Conca absidale, Cristo benedicente

271


BIBLIOGRAFIA

L’angelo a sinistra, prima del restauro

Particolare dei dipinti murali, angelo

272


BIBLIOGRAFIA

Particolare dei dipinti murali, San Paolo

Particolare dei dipinti murali, San Pietro

273


BIBLIOGRAFIA

S. Salvatore/S. Giulia a Brescia

274


BIBLIOGRAFIA

Veduta del complesso architettonico del monastero benedettino femminile di Santa Giulia in Brescia

Chiesa di San Salvatore, interno

275


BIBLIOGRAFIA

Interno della chiesa di San Salvatore con le colonne romane di riutilizzo e la base del campanile con i dipinti di Romanino

Particolare dell’interno della chiesa di San Salvatore

276


BIBLIOGRAFIA

Basilica di San Salvatore

Cripta

277


BIBLIOGRAFIA

Veduta del complesso architettonico del monastero benedettino femminile di Santa Giulia in Brescia

Ingresso al museo del monastero di S. Giulia in Brescia

278


BIBLIOGRAFIA

Scavi nel complesso architettonico del monastero benedettino femminile di Santa Giulia in Brescia

1- Brescia, San Salvatore, cripta, sottarco e pennacchio di sud-ovest con i due strati pittorici 2- Brescia, San Salvatore, cripta, sottarco di nord-est con decorazione pittorica

279


BIBLIOGRAFIA

Brescia, San Salvatore, la navata centrale dopo i lavori: 1961. Visibili i resti della prima chiesa e dell’edificio romano

Brescia, San Salvatore, navata mediana, il primo registro della decorazione nella parete nord dal riquadro 7 al riquadro 10

280


BIBLIOGRAFIA

Il Tempietto a Cividale del Friuli

281


BIBLIOGRAFIA

Il Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli

Ingresso al Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli 282


BIBLIOGRAFIA

L’interno del Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli

Stalli lignei nel Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli

283


BIBLIOGRAFIA

Gli affreschi della volta

La decorazione ad affresco e stucco sulla parete ovest interna 284


BIBLIOGRAFIA

Decorazione a stucco con tralcio vitineo nella ghiera sopra la porta d'ingresso

Particolare della decorazione ecorazione a stucco con tralcio vitineo nella ghiera sopra la porta d'ingresso

285


BIBLIOGRAFIA

Decorazione a stucco con tralcio vitineo nella ghiera sopra la porta d’ingresso

Iscrizione dedicatoria ad affresco

286


BIBLIOGRAFIA

Teoria di sante e martiri in stucco nel registro superiore della controfacciata

Teoria di sante e martiri in stucco nel registro superiore della controfacciata

287


BIBLIOGRAFIA

Il cantiere di restauro poco dopo la metĂ del XX secolo

Lavori negli anni'20 del XX secolo con la rimozione del pavimento e gli scavi nel presbiterio

288


BIBLIOGRAFIA

La parete nord dell'aula ula prima dello stacco degli affreschi

L’angolo nord- ovest dell’aula con la decorazione ad affresco

289


BIBLIOGRAFIA

Affresco di santo militare sul registro mediano della parete nord

Volto di Cristo nell'affresco della lunetta sopra il portale d'ingresso

290


BIBLIOGRAFIA

L’arcangelo Michele nell'affresco della lunetta sopra il portale d'ingresso

Particolare dell’ arcangelo Michele nell'affresco della lunetta sopra il portale d'ingresso

291


BIBLIOGRAFIA

Gli affreschi sul registro mediano della parete occidentale ai lati della ghiera

Resti della decorazione in stucco sulla ghiera dell'arcone della parete meridionale dell'aula

292


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A Liam

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