La Britannia dalle origini all'arrivo dei Normanni INDICE I. INTRODUZIONE. ……………………………………………….
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1. I CELTI 1.1 LA BRITANNIA DALL’ERA PREISTORICA AI CELTI ……….. 1.2 SOCIETÀ E COSTUMI CELTI ………………………………… 1.3 RELIGIOSITÀ ED ARTE CELTICA ……………………………. 1.4 ECONOMIA E POLITICA CELTICA …………………………... 1.5 MONDO CELTICO E MONDO ROMANO ……………………..
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2. IL DOMINIO ROMANO 2.1 ROMANI E BRITANNI: UNA COMUNE DISCENDENZA ……… 2.2 DA CESARE A COMMODO …………………………………….. 2.3 DA SETTIMIO SEVERO A TEODOSIO ………………………… 2.4 L’INFLUENZA ROMANA ………………………………………..
p. 13 p. 13 p. 15 p. 18
3. GLI ANGLO-SASSONI E IUTI 3.1 L’ARRIVO DEI GERMANI ………………………………………. 3.2 CARATTERISTICHE DEGLI INVASORI ………………………… 3.3 CELTI CONTRO GERMANI ……………………………………… 3.4 I REGNI ANGLO-SASSONI ……………………………………….
p. 20 p. 21 p. 24 p. 26
4. LA DISSOLUZIONE DEI REGNI ANGLO-SASSONI 4.1 VERSO LA DISGREGAZIONE ……………………………………. 4.2 LA SUPREMAZIA MERCIANA …………………………………… 4.3 I VICHINGHI ……………………………………………………… 4.4 DA EDOARDO IL CONFESSORE A GUGLIELMO IL CONQUISTATORE …………………………………………………… 5. RE ARTÙ E I SUOI MISTERI 5.1 L’ARTÙ STORICO ……………………………………………….. 5.2 ARTÙ NELLE FONTI ……………………………………………. 5.3 LE RIELABORAZIONI DEL CICLO ARTURIANO ……………… 5.4 I LUOGHI ARTURIANI ………………………………………….. 5.5 LA TAVOLA ROTONDA, EXCALIBUR E IL SANTO GRAAL ……
p. 28 p. 29 p. 30 p. 31
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BIBLIOGRAFIA ……………………………………………………. p. 42
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I. INTRODUZIONE Gli storici che hanno affrontato le vicende di Britannia dalle origini all'arrivo dei Normanni non hanno avuto a disposizione molte fonti coeve, e inoltre queste si presentano spesso infarcite di racconti che sconfinano nella mitizzazione. In ogni caso contengono informazioni preziose che hanno consentito, opportunamente vagliate, di ricostruire i diversi momenti del popolamento del territorio e delle dominazioni succedutesi. Faccio qui riferimento a quelle che maggiormente hanno consentito di ricostruire gli avvenimenti. Della biografia del monaco Gildas sappiamo qualcosa da tre sue Vite di periodo tardo. La prima, opera di un anonimo monaco armoricano del XI secolo, segue lo stile classico della agiografia: Gildas, di nobili natali, per il suo impegno di conversione di molti pagani, trascorse un periodo in Irlanda su invito di Santa Brigida; poi fece un viaggio a Roma, passando per Ravenna e per l’Armorica dove, fondato il monastero di St.Gildas- deRhuys, vi si ritirò all’età di sessant’anni. La sua morte, avvenuta nel 570, resta avvolta nel mistero, poiché la barca che ne trasportava il cadavere fece naufragio. Nella seconda Vita, scritta da Caradoco intorno al 1100, le differenze rilevanti riguardano le origini del monaco e il luogo della morte: Gildas avrebbe un’origine pitta, essendo figlio di un re di Scozia, e la sua morte avvenne nel monastero della SS.Trinità a Gladstonbury; qui viene citato un re Artù, responsabile secondo Gildas dell’assassinio del fratello. La terza Vita, tenuta in minor conto delle precedenti, è il “Codice di Parigi” del XIII secolo che raccoglie entrambi le prime due Vite, aggiungendo qualche dettaglio. In conclusione occorre tener presente che l’unico dato certo sulla figura di Gildas è la data della sua morte, il 570, data confermata anche dagli Annali di Cambria, composti da Giraldo Cambrense nel XII secolo. Riguardo alla sua figura, Beda il Venerabile nella sua Storia Ecclesiastica degli Angli lo ricorda come un importante storico dei Britanni e da quel momento la stima a lui attribuita nel corso del Medioevo sarà sempre grandissima. L’opera prima di Gildas è il De Excidio Britanniae che, pur essendo un testo basilare per la nostra conoscenza degli avvenimenti sul suolo britannico del V e VI secolo, non può essere considerato una vera Storia: si tratta invece di una sorta di lettera al popolo dei Britanni, volta a redarguirli sui cattivi costumi imperanti nel periodo di invasione sassone1.
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GILDAS, La conquista della Britannia, a cura di Sabrina Giuriceo, Rimini, Il Cerchio 2005, pp.7-12. Beda, Storia ecclesiastica degli Angli, traduzione di Giuseppina Abbolito, Roma, Città Nuova, 1987, pp.
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Nato nel 672/3, di stirpe anglosassone, Beda fu affidato ancora bambino ai monaci di un monastero della Northumbria, ma lo lasciò presto per trasferirsi in quello gemello di Jarrow, dove rimase fino alla morte, nel 735. La sua opera Historia ecclesiastica gentis Anglorum del 731 circa, dedicata al nuovo re di Northumbria, il pio Ceolwul, salito al trono nel 729, fu qualcosa di profondamente nuovo per la storiografia: nessuno infatti prima di lui, pur avendo scritto storie di genti germaniche, aveva mai redatto una storia ecclesiastica nazionale. Il titolo è illustrativo del contenuto del testo e della sua innovazione: la gens Anglorum esiste solo nella mente dell’autore, ma sta a significare il desiderio di superare le divisioni del mondo germanico, anticipando l’idea di nazione. Inoltre è significativo il fatto che la storia inizi con la dominazione romana e interessi anche i popoli britannici, poiché prova la consapevolezza dell’autore che la unità nazionale della sua patria si potrà realizzare solo con l’apporto di quelle popolazioni, vinte certo, ma non scomparse dalla storia dell’isola2. La Historia Brittonum, opera composta tra l’826 e l’830 d.C. da una serie di compilatori, tra cui spicca il monaco Nennio di Bangor, è una raccolta di fonti miscellanee, a partire dai grandi padri della Chiesa, quali Isidoro, Girolamo ed Eusebio, alle cronache locali di Britannia. È giunta fino a noi in varie edizioni manoscritte (ben 33!), le più importanti delle quali sono oggi conservate al British Museum di Londra. Il testo si divide chiaramente in sei parti: la prima sintetizza la cronologia biblica delle “Età del mondo”; la seconda riassume la Storia del popolo britanno, partendo dalla dominazione romana fino all’arrivo delle genti barbariche; la terza è una breve Vita di San Patrizio; la quarta è quella detta arturiana: in poche righe vengono indicate le dodici battaglie di un “dux bellorum” chiamato Artù di cui l’ultima, quella decisiva, fu combattuta a Monte Badon e assicurò ai Britanni una supremazia di mezzo secolo sugli invasori sassoni; la quinta parte è una genealogia dei sovrani dei diversi regni barbarici che si formarono dopo la fine del dominio romano e l’ultima sezione è un elenco delle ventotto città della Britannia insulare. L’obiettivo della Storia fu certamente quello di voler conservare la memoria di un popolo, quello Britannico, in tempi di grandi sconvolgimenti sociali e politici3.
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Beda, Storia ecclesiastica degli Angli, traduzione di Giuseppina Abbolito, Roma, Città Nuova, 1987, pp. 21-27. 3 NENNIO, La storia di Re Artù e dei Britanni, a cura di A. Morganti, Rimini, Il Cerchio 2003, pp.6-12.
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Sulla biografia di Goffredo di Monmouth si conosce ben poco e non è stato nemmeno possibile accertare se l’appellativo che designa la provenienza significhi che fosse davvero nativo di quella regione; comunque la sua vita di chierico ruotò per oltre vent’anni intorno alla città di Oxford, dal 1129 al 1151. Divenuto vescovo di St.Asaph, nel 1152 fu ordinato sacerdote a Westminster e vescovo di Lambeth. Nel 1136 scrisse Storia dei re di Britannia su richiesta dell’arcidiacono di Oxford Walter, che voleva da lui una versione in latino di un antichissimo codice in lingua britannica. Goffredo decise di accettare questo arduo compito per colmare la terribile lacuna riscontrata nella storiografia contemporanea riguardo ai sovrani di Britannia, tra cui Re Artù, che costituisce la grande attrattiva dell’opera. Ovviamente il vero motivo che spinse l’autore a cimentarsi in questa impresa era legato alla situazione politica del tempo: Goffredo voleva fornire solide basi alle ambizioni dei re d’Inghilterra che, duchi di Normandia ed eredi di Carlo Magno, erano desiderosi di affrancarsi dalla corona di Francia. La prima dedica era rivolta a Roberto duca di Gloucester, figlio illegittimo di Enrico I, sostenitore della causa della futura regina Matilda; poi, dopo la incoronazione di re Stefano, arrivò a dedicare il testo al re in persona. Non si tratta però di una “storia” a tutti gli effetti, in quanto nonostante l’autore citi fonti autorevoli come Nennio o Beda, egli arricchisce il testo con aneddoti e racconti frutto unico della sua fantasia, commettendo vari errori e dedicando a volte numerose pagine ad una singola giornata per poi affrontare interi decenni in poche righe. Fin da subito furono in molti a metter in dubbio la professionalità di Goffredo soprattutto alla luce di due macchie che ne oscurarono la reputazione: la sua ignoranza geografica e il fatto che il manoscritto che affermò di aver tradotto non fu mai trovato. Tuttavia nel XX secolo molti storici e non solo si sono schierati in difesa di questo scrittore ed oggi si è tutti concordi nell’asserire che si servì di fonti veritiere: in primis certamente autori a lui precedenti, quali Gildas, Nennio e Beda e gli Annales Cambriae, una cronaca gallese del X secolo; poi anche vite di santi, tradizioni locali e scritti a lui contemporanei come la Vita di Gildas di Caradoco, la Historia Anglorum di Enrico di Huntingdon o la Gesta pontificum di Guglielmo di Malmesbury. Nonostante le accuse, la Storia ebbe uno straordinario successo fin dal Medioevo: scritta in un latino chiaro e carica di pathos, è stata letta come epica, rielaborata e in fondo amata per il merito di aver fornito ai popoli di origine celtica una “storia” nazionale4.
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G. DI MONMOUTH, Storia dei re di Britannia, Parma, Guanda 1989, pp.VII-XIX.
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CAPITOLO PRIMO
I CELTI
1.1 La Britannia dall’era preistorica ai celti Per gran parte delle epoche preistoriche le terre oggi chiamate Isole Britanniche costituivano un vasto promontorio facente parte della massa continentale e il loro popolamento rimase incostante durante le glaciazioni; solo quando, intorno al VII- VI millennio a.C., la penisola si trasformò in un arcipelago di isole vere e proprie e, venuta meno l’ultima striscia di terra di contatto con la terraferma, si aprì lo stretto della Manica, gli abitanti divennero esperti marinai e sorsero le prime civiltà agricole sedentarie, nonostante la caccia e la raccolta non smisero mai di essere una valida alternativa al sostentamento5. Nel III millennio a.C. la rivoluzione neolitica era ormai giunta al termine e con la scoperta dell’attività metallurgica nascevano l’età del Bronzo e di conseguenza le società guerriere del Wessex; dopo un improvviso momento di stallo l’attività di estrazione riprese con vigore, le tecniche agricole si perfezionarono ulteriormente così come quelle militari, grazie anche all’impiego massiccio del cavallo in entrambi i campi; pian piano il clima di terrore e l’insicurezza spinsero la popolazione a rifugiarsi nelle “hillforts”(alture fortificate)6. Sulla Britannia preistorica pochi indizi possono fornirci i resti archeologici7. Di sicuro la Britannia ad un certo punto fu al centro di invasioni di popoli, i primi dei quali, gli Iberi, penetrarono già tra il 3000 e il 2000 a.C. nella cosiddetta piana di Salisbury. La loro società era divisa in classi, da quanto attestano le diverse manifestazioni sepolcrali8, e dato che la loro principale attività commerciale fu lo scambio di vasellame ottennero l’appellativo di “popolo della tazza”9.
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N. DAVIES, Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’ Irlanda, Milano, Mondadori 2007, pp. 25-26. 6 Ivi, pp. 31-40. 7 Al riguardo si vedano le considerazioni di DAVIES, Isole cit., pp. 45-46. 8 I tumuli , lunghi anche 60 metri, ospitavano separatamente i corpi di nobili e di capi militari e quelli di servi e umili. 9 A. MORTON, Storia del popolo inglese, Roma, Officina Edizioni 1973, pp. 13-15.
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Intorno al 700 a.C. la prima ondata di invasori celtici si riversò in Britannia andandosi a mescolare con i predecessori Iberi e riuscendo ad imporre la loro organizzazione tribale. Ma chi erano i celti? Da dove venivano? Erano una popolazione omogenea? Quello che sappiamo sui celti emerge per vie indirette attraverso mediatori illustri, greci e romani; tra i primi, storiografi come Ecateo di Mileto e Erodoto di Alicarnasso, Polibio, Strabone e Pausania li chiamavano Keltói o Galatai , tra i secondi Cesare, Livio e Tacito parlano di loro come Celti o Galli10. Pur non essendo ancora chiusa la questione, sembrerebbe essere stata individuata come loro nucleo originario di provenienza la regione dell’alto corso e dagli affluenti del Reno, del Rodano e del Danubio; e ci si è fatti una sostanziale idea dei loro spostamenti nel corso del tempo. Ebbene dal “cuore celtico” così chiamato essi seguirono tre direzioni, semplificabili con questo schema:
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verso sud, oltre le Alpi, andarono a popolare la poi detta Gallia Cisalpina; perfino i Romani subirono in Italia il saccheggio da parte dei celti invasori quando i galli senoni, guidati dal capo Brenno, attaccarono la città etrusca di Chiusi, a nord di Roma.
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ad oriente arrivarono in Grecia, in Bitinia e in Macedonia dove giurarono fedeltà ad Alessandro. Alla morte di quest’ultimo per lungo tempo furono al servizio, come mercenari, dei vari regni in lotta creatisi dopo la disgregazione del vasto impero macedone; per esempio, da quando Attalo I si rifiutò di pagare loro il tributo in denaro devoluto dai suoi predecessori, lo scontro tra i popoli galati e i sovrani greci di Pergamo fu inevitabile11.
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Isole del nord e ovviamente le Isole Britanniche. Sarebbe sbagliato considerare però i “galli insulari” come un blocco omogeneo, infatti furono diversi rami celti a raggiungere le isole e spesso le tribù vicine erano in lotta fra loro. Del resto la popolazione dell’Isola dell’Eire (moderno termine irlandese derivato dal più antico Ierne o Hibernia con cui gli antichi chiamavano l’Irlanda) si differenziava da quella dell’isola di Albione12, la Gran Bretagna attuale. Quest’ultima poi, a nord, ospitò per
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A. DEMANDT, I celti, Bologna, Il Mulino 2003, p.13; si veda anche DAVIES, Isole cit., p.60. La vittoria arrise ad Attalo I che la celebrò con due statue in bronzo, di cui possediamo oggi solo copie in marmo: “il Galata morente”, conservato ai Musei Capitolini e “il Gallo che uccide se stesso e la moglie”, della collezione Ludovisi a Roma. 8 Il nome celtico Albion farebbe riferimento alle “bianche scogliere di Dover”. 11
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secoli tribù di popoli “pitti”, non ancora assimilati nell’ambito celtico e ribattezzati tali per la loro consuetudine di dipingersi il corpo prima di dare battaglia (picti =dipinti)13. Volendo fare delle distinzioni accurate dovremmo ricordare che i primi celti ad invadere le isole furono invero i Gaeli, poi fu la volta dei Britanni e infine, intorno al 100 a.C., di Belgi e Teutoni dalla Gallia settentrionale14. In effetti lungo il I sec. a.C. i “galli delle isole” e i galli veri e propri furono interessati da un progressivo avvicinamento di carattere culturale, economico ma soprattutto politico: cercavano di creare una dura corazza contro il comune nemico romano. In conclusione, abbandonandoci alla forza dell’immaginazione, proviamo a risalire a come la Britannia doveva presentarsi agli occhi dei primi uomini celti che la abitarono. Le poche descrizioni a nostra disposizione sono contenute in tre opere: l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, l’Historia Brittonum di Nennio e il De Excidio Britanniae di Gildas15. Si tratta di quelle frasi introduttive, con lo scopo di inquadrare l’oggetto della ricerca da un punto di vista fisico-geografico, che sono parte integrante di quel procedimento obbligatorio della storiografia latina, noto come positis locorum o situs terrarum. La isola di Britannia è tale per esempio per Goffredo e Gildas, ma è Bretagna per Nennio, e il monaco Beda, scrupolosamente, ci ricorda che un tempo era ribattezzata Albione. Tutti gli autori sopra citati concordano sulla sua posizione nell’Oceano e sulla sua estensione: 800 miglia in lunghezza e 200 miglia in larghezza, escludendo le numerose insenature e promontori. Se Nennio è poi alquanto didascalico sulla ricchezza naturale dell’isola, gli altri ce la dipingono come una terra verde e rigogliosa, colorata da fiori di mille colori, irrigata da sorgenti argentate e ricca nel sottosuolo di metalli preziosi. 1.2 Società e costumi celti Il panorama politico del mondo celtico comprendeva una miriade di popoli, i più numerosi raggiungevano le 200.000 unità, i più piccoli 50.000. I celti non hanno mai ambito alla realizzazione di una compagine statale uniforme, ognuno cercava di sottomettere il nemico più debole e praticamente ciascuna popolazione esercitava una propria sovranità. 13 14
Sulle migrazioni dei celti si vedano: DEMANDT, I Celti cit., pp. 22-28; DAVIES, Isole cit., pp. 61-62.
MORTON, Storia cit.,p.16. G. DI MONMOUTH, Storia cit., p.5; GILDAS, La conquista cit., p.27; NENNIO, La storia cit., p.20.
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Nonostante ciò ci sono buone possibilità di credere che i celti fossero consapevoli di appartenere ad un unico popolo e in alcuni casi, mettendo da parte le ostilità, riuscirono ad allearsi temporaneamente contro i nemici comuni. I grandi popoli si dividevano in tribù (tribus, pagus) le cui unità fondamentali erano i gruppi di parentela; la società celtica era caratterizzata da una struttura verticale e gerarchica suddivisa in tre parti così sovrapposte: la nobiltà, il popolo e gli schiavi che, come a Roma, non partecipavano alla vita politica ed erano degli strumenti nelle mani dei loro padroni16. Una istituzione sociale che ha attirato molto l’attenzione dei romani ai tempi e degli studiosi in generale era il corpo scelto dei “cavalieri”; questi ultimi, che giuravano fedeltà al loro capo fino alla morte e vivevano separati dal resto della tribù, si potrebbero considerare i prototipi di re Artù e dei suoi cavalieri, celebrati molti secoli più tardi17. La famiglia, unità base delle tribù, era rigidamente patriarcale e gli uomini avevano diritto di vita e di morte su donne e bambini. La donna nel mondo celtico viveva una condizione diversa da quella riservata a Roma o in Grecia. Le donne celtiche potevano succedere al potere, in Gallia addirittura si pensa potessero deliberare in assemblea sulla guerra e sulla pace, assistevano ai simposi, in caso di necessità prendevano parte alla battaglia ed erano temibili avversarie; potevano inoltre dare il proprio nome ai figli facendo discendere la famiglia da un antenato femminile, godevano di una certa libertà nel scegliere i propri consorti e spesso, anche da sposate, concedevano il loro corpo in cambio di determinati favori, senza che nessuno trovasse l’atteggiamento sconveniente come accadeva a Roma. Nonostante l’avvenenza delle donne celtiche, gli uomini praticavano la pederastia, che avevano appreso dai Greci ed era invece vietata tra romani e germani18. Donne ed uomini prendevano parte a simposi organizzati con dovizie di particolari, dove si trascorreva il tempo intrattenuti da giullari e musicanti. Questi ultimi sono i famosi bardi che, dopo un lungo praticantato orale, cullavano gli ospiti con i loro canti e racconti, accompagnati dal soave suono dell’arpa. I celti non solevano sdraiarsi per mangiare, ma sedevano su dei sedili disposti tutt’attorno alle pareti o attorno a tavoli rotondi19.
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DEMANDT, I Celti cit., pp. 67-68. MORTON, Storia cit., p. 81. 18 DEMANDT, I Celti cit., pp. 52-54. 19 Ivi, p. 56. 17
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Ma come erano i celti fisicamente? Come si presentavano? La descrizione tipica del celta non è del tutto lusinghiera: erano uomini alti, biondi e dalle pelle chiara come il latte (Gallia forse da gala=latte), dallo sguardo torvo, rissosi ed irruenti, che erano soliti farsi crescere i baffi e tingersi i lunghi capelli di rosso con il sapo (da cui deriva la parola sapone). Erano guerrieri temuti fin dai tempi di Platone che li definisce bellicosi e senza legge; amavano l’alcol e le armi, soprattutto spade, scudi e giavellotti che portavano sempre con loro, mentre archi e frecce erano per lo più riservati alla caccia. I celti erano soliti spaventare, e scandalizzare, i loro nemici entrando in battaglia gridando al suono dei corni e i guerrieri delle prime schiere erano completamente nudi! Inoltre, unici tra i popoli dell’antichità indossavano sul campo di battaglia monili preziosi, come collane a spirale o decorati bracciali. Il tipico abbigliamento celtico comprendeva calzoni lunghi da cavallo (bracae), mantelli a manica lunga (mantum) e stivali da soldato (il termine romano caligula è un termine celtico)20. 1.3 Religiosità e arte celtica Quando i romani vennero a contatto con il pantheon celtico si convinsero di riconoscere loro dèi in quest’ultimo, e se la cosa può essere vera sotto certi aspetti sono però innegabili le differenze a partire dalla concezione della divinità; gli esseri divini celti avevano quattro poteri: primo quello della trasformazione, cioè la possibilità di assumere sembianze animali all’occorrenza, secondo la triplicità, cioè potere magico del numero tre, terzo la possibilità o meno di aspirare ad una posizione divina maggiore in base ai loro fallimenti e infine la capacità di apparire sia con fattezze maschili che femminili21. La cosmologia celtica, come quella greca e romana, postulava l’eternità del mondo, soggetto alle forze del fuoco e dell’acqua; i celti credevano nella metempsicosi (reincarnazione), ma sembrerebbe comunque attestata l’idea di una prosecuzione della vita delle anime negli Inferi, in quanto Diodoro Siculo afferma che i celti avrebbero gettato sul rogo dei loro morti delle lettere per i defunti dell’oltretomba22. La religione si basava sulla esistenza di un mondo di esseri soprannaturali, di sortilegi e maledizioni, popolato da una miriade di divinità, dove i riti e le cerimonie avevano l’unico scopo di tramutare la magia malefica in magia benefica. 20
Ivi, pp.33 e 61-65. DAVIES, Isole cit.,p.78. 22 Diodoro Siculo, Biblioteca Historica ,V,28. 21
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Tutte le cerimonie erano presiedute dai druidi (sacerdoti della quercia). Questi ultimi erano la massima autorità sacerdotale e, con i cavalieri, costituivano la nobiltà gallica; godevano di privilegi, come l’esenzione dai tributi o dal servizio militare, ma dovevano studiare per oltre vent’anni. Custodi della tradizione orale della tribù riunivano in sé molti ruoli: erano all’occorrenza sacerdoti, giudici, maghi, stregoni, sciamani e guaritori, bardi e profeti. Regnavano nei boschi sacri noti come nemeton ed impartivano ordini perfino a re e guerrieri. Cesare nel suo De Bello Gallico sottolinea che essi si esprimevano per indovinelli o immagini e i precetti da loro impartiti dovevano essere trasmessi solo oralmente, decisione dettata unicamente dal desiderio di evitare la profanazione dei miti, dato che i celti si servivano comunemente di un alfabeto. Proprio la mancanza di testi e di reperti scritti non fa che accrescere il mistero che avvolge questa antica ed affascinante cultura. I Romani vietarono invano ai celti e ai cartaginesi due pratiche, considerate barbare e funeste: il culto delle teste e la persistenza di sacrifici umani. Poiché si credeva che l’essenza di un uomo fosse nella testa, i nemici catturati venivano decapitati e le têtes coupées23 (teste mozzate) di quelli più temibili esibite come trofei di guerra. Per quanto attiene ai sacrifici essi erano giustificati dalla credenza che gli dèi dessero la vita solo in cambio di un’altra, perciò prima della guerre si sacrificavano donne e bambini e solitamente le forme di omicidio rituale, che non risparmiavano nemmeno re e capitribù, riguardavano la morte per impiccagione o per annegamento24. Per quanto riguarda l’arte celtica non c’erano vere e proprie forme raffigurative ma si privilegiavano forme astratte e stilizzate, forme essenziali come spirali, intrecci, greche e croci uncinate. La musica del telen, cioè l’arpa celtica, era una delle forme d’arte più rinomate assieme alla poesia dei bardi. Anche i celti conoscevano le lettere greche; non erano infatti analfabeti e la linguistica distingue due forme di celtico: il celtico Q, che mostra una stretta parentela con il latino ed è detto anche goidelico in Eire, e il celtico P o brittonico in uso in Albione e nella Gallia25.
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Molto spesso le teste mozzate erano appese alle selle dei cavalli, agli stipiti delle porte e dei templi; oppure, imbalsamate con olio di cedro, riposte in casse ed esibite agli ospiti in diverse occasioni. 24 Sui druidi si vedano: DAVIES, Isole cit.,p.80; DEMANDT, I Celti cit., pp.44-50. 25 DAVIES, Isole cit., p.65.
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1.4 Economia e politica celtica La vera forza della economia celtica era la attività metallurgica, che ebbe nuovo slancio dopo il ritrovamento in Cornovaglia di bacini di stagno, indispensabile per realizzare il bronzo. Il metallo più importante era però il ferro e le spade celtiche26 erano per manifattura migliori di quelle realizzate nello stesso periodi dai romani. La superiorità dei celti nell’artigianato emerge sotto molti aspetti; furono loro a trasmettere ai germani il tornio da vasaio, i romani presero dal celtico molti nomi di armi, carri e tessuti e inoltre abbiamo (seppur poche) prove del loro forte senso artistico in manufatti in legno e cuoio, dove prediligevano motivi decorativi astratti, figure fantastiche e geometriche e un naturalismo stilizzato. Oltre alla estrazione mineraria i celti praticavano una agricoltura rudimentale ed arretrata soprattutto di cereali e leguminose; nonostante ciò conoscevano il sistema della rotazione, nella fase del maggese concimavano non solo con lo sterco ma con il concime artificiale ottenuto con calce e marna e introdussero nel paese l’uso dell’aratro. Il commercio era diffuso e copriva anche lunghe distanze: si esportava stagno dalla Cornovaglia, salgemma e cristallo di rocca dalle Alpi celtiche, in Italia erano richiesti carne salata, mantelli, suntuosi abiti in lino, materassi e cuscini che sarebbero stati inventati proprio dai galli e nondimeno schiavi e mercenari. Dati tutti questi traffici si sa che i celti passarono ad una economia monetaria a partire però solo dal 400 a.C. circa: essa fu un bene e un male insieme, in quanto portatrice del sistema di credito e di tutto ciò che esso comporta, come l’indebitamento e la riduzione in schiavitù degli insolventi27. I celti vivevano in villaggi e, attestati a partire dal VI sec a.C., anche in insediamenti fortificati su alture detti hillforts. Non essendo abili a lavorare la pietra, per costruire le abitazioni utilizzavano la tecnica del “murus Gallicus”28, che però aveva lo svantaggio di creare muri facilmente infiammabili.
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Deriva proprio dal celtico la parola latina per spada, gladius; il gladiolo è un iris dalle foglie a forma di spada. 27
MORTON, Storia cit., p.18; DEMANDT, I Celti cit., pp.29-36. Cesare, De Bello Gallico, VII, 23: “si ponevano delle travi l’una accanto all’altra perpendicolarmente all’andamento del muro; si ricopriva la fronte del muro con blocchi in pietra e si riempivano di terra gli interstizi”. 28
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I nomi delle città celtiche hanno caratteristiche comuni: molte terminano in –acum (Mogontiacum), altre in –magus (Rigomagus) o ancora derivano dal dio Mercurio Lug (Lugdunum cioè Lione). La forma di stato più antica propria di tutti i popoli indogermanici è la monarchia. Il re celtico si chiamava rigs ed era praticamente un capo militare; di norma il regno era trasmesso di padre in figlio, ma a volte anche le vedove o le figlie salivano al trono e superavano i loro predecessori maschi in quanto a tenacia ed abilità. Il re doveva essere integro fisicamente senza deformità e rivestiva anche funzioni sacerdotali. Era coadiuvato nel governo da due istituzioni: il consiglio (senatus) dei capi della stirpe, cioè nobili di sangue e l’adunanza generale (concilium)29. 1.5 Mondo celtico e mondo romano Nel 55 e nel 54 a.C. Cesare intraprese due campagne militari in Britannia, ma la vera conquista di questa terra da parte dei romani iniziò propriamente solo nel 43 d.C. con l’imperatore Claudio, come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo. Quello che a noi interessa constatare ora è quanto la cultura celtica sia stata intaccata dal processo di romanizzazione e come abbia fatto a sopravvivere. Dato certo è che nella Britannia romana la cultura celtica ebbe una diffusione limitata e solo nelle zone periferiche si continuava a parlare celtico. A partire dal IV secolo d.C. la Britannia fu sottoposta ad attacchi di pirati irlandesi e sassoni e nel V cadde nelle mani dei germani; allora molti celti britannici fuggirono nella Aremorica30, ribattezzata poi Britannia Minor , e là la loro cultura poté continuare a vivere. Il mondo celtico, affascinante e misterioso, è stato rivitalizzato in modo spettacolare a seconda dei secoli: nel secolo scorso in particolare l’interesse quasi smodato per i celti ha assunto forme bizzarre; basti pensare ai Pagans neopagani che tutt’ora celebrano annualmente la festa del solstizio d’estate a Stonehenge o alle numerose fiere di musica celtica, che in tutto il mondo attirano milioni di persone (in Italia il Bustofolk o il capodanno celtico al Castello Sforzesco di Milano)31. 29 30
DEMANDT, I Celti cit., pp.71-88. È la attuale Bretagna, regione nord-occidentale della Francia.
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Sul successo della mitizzazione celtica si vedano: DEMANDT, I Celti cit., pp.113-121; DAVIES, Isole cit., pp. 86-97.
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CAPITOLO SECONDO
IL DOMINIO ROMANO
2.1 Romani e britanni: una comune discendenza La maggior parte dei libri di storia segnano come incipit della storia di Britannia l’arrivo dei romani. Nennio e Goffredo di Monmouth sottolineano come questi ultimi vedessero legittimo e appropriato un loro intervento in quella terra straniera dove, sostenevano, era necessario ripristinare l’ordine presso i britanni imbarbariti, in nome della comune discendenza. Il concetto di “fratellanza” tra romani e britanni, difficile da cogliere, risale addirittura alla guerra di Troia: Bruto, discendente dell’eroe troiano Enea, come predetto da un indovino non solo causò la morte della madre alla nascita, ma, accidentalmente, uccise suo padre con un colpo di freccia e per questo misfatto, bandito dall’Italia, dopo molte peregrinazioni per mare raggiunse un’isola che prese il suo nome: la Britannia appunto32. Questo racconto dal sapore mitico, a cui è impossibile assegnare alcuna credibilità storica, è tuttavia indicativo del tentativo fatto dagli antichi, non solo di accettare la venuta dei dominatori, ma anche di legare la gloriosa epica dell’Urbe alla storia delle loro Isole. 2.2 Da Cesare a Commodo Nell’estate del 55 a.C. Giulio Cesare, dopo aver conquistato la Gallia, compì una prima invasione in Britannia per scopi per lo più strategici: voleva impedire ai guerrieri britanni di venire in soccorso degli ultimi ribelli galli, sia attraversando la Manica sia dando loro ospitalità e rifugio sull’isola. Cesare impose un ultimatum ai nemici che però seppero opporre una fiera resistenza e, guidati dal loro capo Cassivellauno (o Cassibellauno), riuscirono a respingere i romani. Dopo qualche anno, tornato per vendicarsi, il condottiero romano fu vittima di uno stratagemma molto efficace che lo costrinse nuovamente ad arretrare; infatti la sua flotta si 32
G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 6-7; NENNIO, La storia cit., pp. 21-22.
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incagliò a causa di alcuni pali di ferro e legno che Cassivellauno aveva fatto impiantare nell’alveo del Tamigi, sapendo che i romani avrebbero cercato di risalire il fiume per arrivare alla città di Trinovanto33. Solo ad un terzo tentativo finalmente Cesare colse la vittoria, riuscendo ad istituire un protettorato informale sulle tribù britanniche che, di tanto in tanto, pagavano tributi e con le quali Roma intesseva fiorenti traffici commerciali34. Probabilmente Augusto aveva messo in conto un intervento in Britannia ancor prima di uscir vincitore dalla definitiva battaglia di Azio nel 31 a.C.; in seguito, assorbito da altre questioni, rinunciò all’impresa, ma riuscì ad intrecciare rapporti diplomatici con Cunobelino, re dei Catuvellani. Questo precario equilibrio si ruppe con l’intervento di Caligola che, dopo aver offerto asilo al figlio cacciato da Cunobelino, minacciò l’intera Britannia di invasione dopo averle intimato di sottomettersi a Roma35. Assassinato Caligola, il nuovo imperatore Claudio, desideroso di farsi accettare dall’Urbe, sbarcò in Britannia approfittando del fatto che, morto il re, questa versasse in condizioni difficili nelle mani dei violenti fratelli Carataco e Togodumno36. L’apparato bellico dell’imperatore era imponente e le tecniche di combattimento sicuramente più efficaci; i britanni infatti avevano la meglio solo attraverso le imboscate, in quanto sul campo essi non avevano né carri da guerra né corazze e nel corpo a corpo le loro lunghe ed affilatissime spade erano inutili e scomode da maneggiare. Alla fine del 47 d.C. Claudio riuscì nel suo intento di conquista e da quel momento la carica di governatore di Britannia, riservata solo ad ex-consoli, divenne molto ambita37. La situazione sfuggì di mano ai dominatori negli anni del regno di Nerone (54-68 d.C.) quando scoppiò la rivolta degli Iceni e i Trinovanti capeggiata dalla famosa regina dai capelli rossi Boadicea o Boudicca. Quest’ultima era moglie del re degli Iceni che, fidandosi dei romani, alla sua morte aveva affidato metà dei suoi beni all’imperatore credendo di proteggere in questo modo la sua famiglia; invece la risposta romana fu molto dura e, come di fronte alla resa di un nemico e non di un alleato, essi confiscarono le terre del re, imposero pesanti tributi, la regina venne frustata e le figlie violentate. Boadicea e i suoi diedero filo da torcere ai dominatori che per poco non rischiarono di perdere l’intera 33
Odierna Londra. MORTON, Storia cit., p.20; DAVIES, Isole cit., p.104; K.O. MORGAN, Storia dell’Inghilterra, la Gran Bretagna da Cesare ai tempi nostri, Milano, Bompiani 1985, pp.16-17. 35 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.18-20. 36 Guiderio ed Arvirago in G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 66-72. 37 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp. 21-22; DAVIES, Isole cit., p.105. 34
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provincia; l’ordine fu riportato definitivamente solo dopo la risoluzione della guerra civile del cosiddetto “anno dei Quattro Imperatori” che nel 69 vide prevalere Vespasiano, fondatore della dinastia Flavia. Qualche disordine e segno di arretratezza nella provincia si ebbe a partire dall’impero di Traiano, poiché tra il 115 e il 120 d.C. furono numerosi gli scontri armati tra romani e tribù britanniche settentrionali38. Adriano è certamente l’imperatore romano che appare legato materialmente più di ogni altro alla terra di Britannia: egli, compresa l’importanza di consolidare i confini dell’impero su tutti i fronti, si recò sull’isola nel 122 e vi edificò un vallo, che ancora oggi resta la più chiara prova archeologica della conquista romana dell’Isola. Il Vallum Hadriani aveva la funzione di marcare il confine tra la provincia romana e quella terra a nord che, oggi chiamata Scozia, un tempo era la Caledonia o la Pictland (terra dei Pitti). Accanto a questa fortificazione in pietra i legionari, che dimoravano in vici, cioè in insediamenti urbani a ridosso del vallo, dovevano vigilare affinché nessun barbaro entrasse nella provincia senza aver prima spiegato le sue ragioni e pagato un pedaggio39. Nei secoli successivi la pressione ai confini si faceva assai forte e, sebbene fosse riluttante ad ammetterlo, la verità è che l’impero aveva ormai perso le sue mire espansionistiche, puntando piuttosto a proteggere ciò che ancora era possibile. Dopo la morte dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio nel 180 d.C. si interruppe la successione che aveva portato al trono uomini moderati ed ingegnosi; suo figlio Commodo, giovane esaltato e disturbato con manie di onnipotenza, segnò un periodo di dura guerra perfino in Britannia, che si protrasse ben oltre il suo assassinio nel 192 fino all’inaugurazione, nel 197, della dinastia dei Severi. 2.3 Da Settimio Severo a Teodosio Settimio Severo e la sua dinastia parvero ridare stabilità e importanza ad una provincia, quella di Britannia appunto, che, a conti fatti, sembrava essere stata alquanto trascurata: la
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MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.25; DAVIES, Isole cit., p.106.
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Ivi, pp.28-29; Ivi, pp.110-111 e 118-122.
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città di Londra per esempio venne riedificata, dotata di mura difensive e di un porto efficiente, ma perse alcune sue prerogative governative a favore della città di York40. Settimio Severo trovò la morte proprio a York e autori come Goffredo o Nennio ci narrano della sua discendenza in Britannia. Alla sua morte i romani e i britanni si divisero in lealtà tra i suoi due figli: i primi elessero loro re Geta, figlio di madre romana, i secondi Bassiano, di madre britanna. Nello scontro armato tra i due fratelli vinse Bassiano che divenne re a tutti gli effetti. A questo punto della storia entra in scena la figura del nobile tiranno Carausio. Questi dapprima si mise al servizio del Senato romano, promettendo di fare gli interessi dell’Urbe sorvegliando con una flotta le coste della Britannia, in seguito, montato in superbia, convinse i Britanni a farsi eleggere re dopo aver ucciso il predecessore41. L’impero sembrava ormai sull’orlo del baratro nel periodo noto come dell’”anarchia militare”(235-284d.C.); eppure sotto Aureliano per esempio la Gallia fu ripresa e la Britannia tornò sotto il governo centrale, poiché il tiranno Carausio fu sconfitto dal legato Allecto mandato dal Senato. Ma a cambiare definitivamente il volto dello Stato romano con l’intento di rafforzarlo fu l’organizzazione tetrarchica voluta da Diocleziano, imperatore dal 284 al 305 d.C.: alla base del vertice imperiale vi era d’ora in poi un collegio di quattro monarchi, due Augusti e due Cesari, questi ultimi destinati a succedere automaticamente ai primi42. Diocleziano e Massimiano furono gli Augusti di Oriente e di Occidente e i loro Cesari rispettivamente Galerio e Costanzo Cloro; a loro volta divenuti Augusti questi scelsero in qualità di Cesari Massimino e Severo, ma ad un certo punto il meccanismo apparentemente così perfetto si inceppò. Costanzo, spedito in Britannia per riportare l’ordine, aveva sposato Elena, figlia di Coel, re di Colchester da cui era nato un figlio di nome Costantino. Alla morte di Cloro a York l’esercitò nominò re proprio questo giovane, riaffermando prepotentemente la volontà di ritorno al principio dinastico nella successione. A questo punto l’impero risultava affidato ad Oriente a Costantino e ad Occidente a Massenzio, figlio di Massimiano, che non aveva certo aspettato, visto il precedente, a reclamare il trono. La sete di potere di Costantino non era però stata placata e, poco tempo dopo, sbaragliati i nemici, divenne unico imperatore. 40
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.33-34. G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 74-76; NENNIO, La storia cit., p.28; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.36-37. 42 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.37. 41
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L’”età dell’oro” della Britannia romana, iniziata nella prima metà del quarto secolo ebbe però termine dopo la morte di Costantino nel 337, poiché l’impero si divideva definitivamente in due tronconi, uno ad Occidente e uno di Oriente, affidati ai tre figli dell’imperatore perennemente in lotta fra loro. Il primo accordo raggiunto fra i fratelli risultò assai precario fin da subito, al punto che Costanzo, rimasto solo, chiamò ad amministrare l’Occidente un suo lontano cugino di nome Giuliano43. Dopo varie vicissitudini ad Oriente e ad Occidente presero la porpora nuovamente due fratelli, Valente e Valentiniano e a seguire Teodosio e Graziano. La situazione nel frattempo si andava complicando soprattutto in Occidente, attaccato ormai alle frontiere da popolazioni barbare. Nel 367 Franchi e Sassoni assalirono la Gallia, Attacotti, Scoti e Pitti la Britannia, costringendo Valentiniano a mandare sull’isola una poderosa truppa d’elite guidata da Teodosio, nonno di Teodosio il Grande44. Nel 382 un ufficiale spagnolo di nome Magnus Maximus45, ottenuta la fiducia delle truppe dopo una gloriosa vittoria sui Pitti, riuscì a farsi eleggere imperatore, uccise Graziano e per ben cinque anni regnò sulla Gallia, la Spagna e la Britannia fino alla sua sconfitta da parte di Teodosio il Grande. Intorno a questa figura circolano voci contrastanti e ciò è riscontrabile nelle fonti: Goffredo, il quale indica Maximus come Massimiano, lo ritiene fautore addirittura della nascita della Bretagna (“piccola Britannia” o Armorica), dove insediò molti dei suoi uomini sotto il governo di un certo Conan Meriadoc. Gildas nel suo sermone intitolato De Excidio Britanniae mette in evidenza solo il carattere negativo e puramente illegale della sua ascesa al trono, mentre la tradizione gallese lo esalta al pari di un eroe. La morte di Teodosio nel 395 d.C. segnò un punto di svolta decisivo per la sorte dell’Impero romano: il regno fu diviso tra Arcadio, a cui toccò l’Oriente, e Onorio, cui toccò l’Occidente, i due figli ragazzini dell’imperatore che dallo stesso erano stati affidati alla tutela del generale di origine vandalica Flavio Stilicone. Questi nel 398 riuscì a bloccare temporaneamente l’avanzata dei barbari in Britannia, ma nel 402 portò con sè l’intera guarnigione in Italia per combattere i Visigoti, lasciando per la prima volta l’isola
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Flavio Claudio Giuliano (331-363 d.C.), conosciuto anche come Giuliano il Filosofo o dai cristiani ribattezzato Giuliano L ‘Apostata, poiché cercò di restaurare la religione pagana. 44 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.46-48. 45 Su questa figura si vedano: G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 81-90; NENNIO, La storia cit., pp. 2930; GILDAS, La conquista cit., p. 37 e nota 55; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.49-50.
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senza alcuna protezione46. Invano e più volte le popolazioni britanne chiesero l’aiuto dei romani; Gildas e Goffredo raccontano entrambi di una lettera implorante soccorso inviata ad un certo Aezio o Agizio47, il cui nome sembra richiamare quel generale Ezio, chiamato da Gallia Placidia a reggere le sorti dell’Occidente al posto del suo giovane figlio Valentiniano III. L’impero di Occidente vedeva ormai avvicinarsi la sua fine e la Britannia, rotti i rapporti con Roma, rimase per anni in balia degli invasori e di “tiranni” usurpatori che tentarono di colmare il vuoto di una autorità legittima. 2.4 L’influenza romana Resta da chiedersi quanto il dominio romano abbia influenzato il modo di vivere delle popolazioni britanne, quanto radicati furono i costumi e sistemi romani e la lingua latina o fino a che punto il cristianesimo attecchì in una terra dove l’elemento celtico era ancora predominante. Dal punto di vista strutturale è probabile che la Britannia civile fosse una pallida copia della Gallia. Era più piccola, più lontana e meno popolosa, ma soprattutto agli inizi aveva una grande guarnigione militare, una buona rete stradale, diversi centri imponenti e una società rurale consolidata basata sul modello delle villae. Si importavano vino, garum (condimento a base di pesce), defrutum (sciroppo d’uva), ma si esportava grano di cui l’isola era assolutamente autosufficiente. Le classi abbienti si romanizzarono completamente, trasformando i loro capi tribù in ufficiali romani, lo stesso fenomeno non interessò però la massa della popolazione rurale. Una conferma lampante della integrazione tra romani ed indigeni si ha invece nella religione. La Britannia romana era una miscellanea di riti in cui alla venerazione degli dèi classici e al culto dell’imperatore si inserivano culti provenienti dall’Oriente e ovviamente quelli celtici. La archeologia ci da prova di questa commistione anche negli stili architettonici: un esempio è il complesso termale di Bath nel sud della Inghilterra e i “templi romano-celtici” riconoscibili per la loro pianta quadrata o circolare spesso circondata da muri di cinta, ospitanti un tempo boschetti sacri di epoca preromana. 46
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.50-51; DAVIES, Isole cit., p.130.
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G. DI MONMOUTH, Storia cit., p. 94; GILDAS, La conquista cit., p. 45 e nota 70.
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Per quanto concerne poi il cristianesimo è ormai assodata l’attribuzione puramente leggendaria dell’anno 167 quale anno della famosa conversione, mediata dall’imperatore romano e dal papa Eucharisto, del re britannico Lucio48. Recenti studi concordano nell’ammettere una scarsa diffusione del cristianesimo in Britannia fino al quarto secolo, seppur essa conobbe nel terzo secolo i suoi martiri, primo fra tutti Sant’Albano49. Due momenti cruciali per la intera cristianità, quindi anche quella britanna, furono rappresentati dalla promulgazione nel 313 d.C. del celebre “editto di
tolleranza” di
Costantino il Grande e nel 380 dell’ “editto di Tessalonica”, con il quale Teodosio faceva del cristianesimo l’unica religione di stato50. Secondo varie ipotesi la prima chiesa cristiana di Britannia sarebbe stata un avamposto della ormai consolidata Chiesa della Gallia; a supporto di questa tesi sta il fatto che Pelagio il teologo (350-425 circa) e il vescovo Patrizio (372-460 circa), due colonne portanti della cristianità britannica, trascorsero parecchi anni nei monasteri della Gallia. L’arrivo, dopo la fine del dominio romano, di popolazioni barbare ebbe risultati diversi a seconda delle zone e del credo dei nuovi dominatori; la maggior parte di essi comunque, eccetto i Franchi, erano cristiani ariani ma quelli della Britannia addirittura pagani. In conclusione, sarebbe utile soffermarsi su quanto la Britannia romana sia entrata a far parte, alquanto impropriamente, della tradizione inglese. Tutti i bambini inglesi a scuola imparano che la terra in cui vivono un tempo fu abitata dai Romani, ma nessuno fa notar loro che ai tempi di Adriano o Antonino Pio gli antenati degli inglesi erano ancora in Germania, gli “scozzesi” ancora in Irlanda e che né Inghilterra né Scozia esistevano ancora!51
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NENNIO, La storia cit., p. 27 e nota 17. Sul martirio di Sant’ Albano: BEDA, Storia ecclesiastica cit., pp.45-49. 50 DAVIES, Isole cit., pp.128-129. 49
51
Ivi, p.132.
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CAPITOLO TERZO
GLI ANGLO-SASSONI E IUTI
3.1 L’arrivo dei germani Se si volesse fissare una data di fine del dominio romano sulle Isole forse si potrebbe scegliere il 410 d.C.: in quell’anno Roma venne saccheggiata dai Visigoti di Alarico e l’imperatore Onorio, assediato, ignorando le richieste di aiuto dei capi locali romanobritannici, li abbandonò a se stessi segnando la fine della autorità imperiale su quelle terre52. Per il periodo che segue la ritirata delle legioni romane, gli storici hanno poche fonti a cui fare riferimento e le date certe si contano sulle dita di una mano53. Più testi però concordano nel mettere l’arrivo dei dominatori sassoni in relazione alla vicenda del tiranno Vortigern. Gildas afferma che, dopo un breve momento di pace accompagnato tra l’altro negativamente da ozio e sfrenatezza, i vecchi nemici, Scoti e Pitti, si fecero avanti e per fermarli fu indetto un consiglio, presieduto dal capo tiranno Vortigern. Quest’ultimo persuase gli altri ad accogliere benevolmente quei popoli germanici appena giunti con le navi sull’isola per servirsi del loro aiuto e vincere una volta per tutte i popoli del Nord54. Il monaco Nennio scrive in poche e concise righe che dopo la fine dell’Impero dei Romani il popolo visse nel terrore per ben 40 anni, regnando allora il tiranno Vortigern che, temendo Pitti e Scoti, accolse benignamente i fratelli sassoni Horst e Hengist, spediti in esilio dalla Germania55. Goffredo di Monmouth invece, assai più attento ai dettagli, si dilunga sulla modalità della presa del potere da parte del tiranno in questione. Costantino II, fratello di Aldroeno re 52
DAVIES, Isole cit., p. 130. Sulle fonti del periodo post-romano si vedano: DAVIES, Isole cit., p.26; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.55; MORTON, Storia cit., p.26. 54 GILDAS, La conquista cit., p.51. 55 NENNIO, La storia cit., p.31. 53
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dell’Armorica, divenuto re di Britannia ebbe tre figli: Costanzo, Aurelio Ambrosio e Uther. Alla sua morte il console Vortigern adulando il giovane Costanzo riuscì a metterlo sul trono, ma poi, ordito un tradimento, lo fece assassinare prendendo per sé la corona. Nel frattempo tre navi salpate dalla Germania portarono a corte i giovani fratelli Orso ed Engisto, che vi ottennero protezione. I Britanni, preoccupati dell’avanzata minacciosa degli stranieri, sollecitarono il loro re a cacciarli; al suo rifiuto nominarono re il figlio di Vortigern, Vortimer, il quale, pur combattendo strenuamente contro i nemici, fallì. Vortigern tornò sul trono, ma scoprì che, saputo della morte di Vortimer, Engisto stava allestendo una flotta per sbarcare in Britannia. Il re montò in collera, ma alla fine acconsentì ad un incontro di pace con i Sassoni per sentire le loro ragioni. In quel giorno avvenne il famoso “tradimento dei coltelli”; infatti all’ordine di Engisto i Sassoni, sfoderati dei coltelli che avevano nascosto sotto le vesti, uccisero quanti più Britanni poterono, imprigionarono Vortigern e, dopo aver avuto da lui ciò che volevano, lo liberarono permettendogli di trovare rifugio in una zona del Galles56. Insomma per i tre autori appena citati fu per colpa di un tiranno che la Britannia fu invasa, in quanto furono gli stessi Britanni a rafforzare i loro nemici, promettendo loro ricchezze e terre e legittimando di fatto la loro presenza sull’isola. Se le cose andarono veramente così è ancora difficile a dirsi, però una cosa certa c’è ed è la venuta massiccia, a partire dagli anni 430-440, di un gran numero di invasori germanici. Perciò, racconti e tiranni a parte, è tuttavia possibile ricostruire la storia di Britannia del V secolo scandendo una sequenza di eventi principali e definire “periodo anglosassone” quello che segue la rottura con la supremazia romana. 3.2 Caratteristiche degli invasori Cercheremo ora di capire chi fossero questi invasori, come vivessero e da dove provenissero. Il nucleo principale degli invasori apparteneva alle tribù germaniche degli Angli e dei Sassoni, affini nella lingua e nei costumi, che vivevano alla foce dell’Elba e nella Danimarca meridionale. Il terzo gruppo di dominatori invece, gli Iuti, erano tribù franche del Basso Reno57. 56 57
G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 97-111. MORTON, Storia cit., p.26.
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Beda il Venerabile nella sua Storia ecclesiastica degli Angli con precisione riporta che la popolazione del Kent e dell’isola di Wight sono di origine Juta, dal paese sassone sono venuti i Sassoni orientali,occidentali e meridionali; dal paese degli Angli, cioè la terra tra gli Juti e i Sassoni detta Angulus, sono venuti gli Angli orientali e di mezzo, i Merciani e l’intera popolazione di Northumbria. La suddetta divisione etnica proposta dal monaco per i regni dei suoi giorni (VII secolo) appare però ormai smentita dall’archeologia in quanto troppo netta58. Solitamente, per comodità, si tende a dare un nome unico a questi popoli; per gli abitanti delle Isole, sia la Britannia che l’Eire, i nuovi arrivati erano i sassoni; nei vari testi di storia a volte ci si riferisce a loro come anglosassoni o, anacronisticamente, Inglesi. In realtà andrebbero chiamati tutti semplicemente germani e, nel periodo in cui essi combatterono i celti nativi per il controllo delle Isole, queste potrebbero legittimamente definirsi “Isole germanico-celtiche”59. Le nuove genti erano sicuramente meno civilizzate dei Romani, ma avevano comunque delle istituzioni solide; in generale l’organizzazione sociale era tribale come quella celtica e fondamentali erano l’appartenenza alla stirpe e i legami familiari. L’onore poteva essere soddisfatto con un wergild, un indennizzo dell’uccisore ai parenti della vittima ed esso era proporzionale al rango. Era tributata grande lealtà dai germani ai loro signori; ebbero dei re, ma in battaglia erano guidati da capi militari elettivi. Per quanto attiene alla sfera religiosa, non ci sarebbero a ben vedere molte differenze rispetto alla religione dei britanni pagani sotto dominio romano. Anche i Germani veneravano pietre, boschi e fonti; le loro divinità, di cui Thor è certamente la più illustre, erano sottomesse alla suprema dea Eoster (Easter cioè Pasqua), da cui poi prese il nome la principale festa cristiana60. I primi invasori erano una popolazione non urbana, ma la credenza che li vede nutrire un timore superstizioso verso le antiche abitazioni romane non è verificabile. Anzi è risaputa la loro conoscenza del termine ceaster, anche se è vero che i centri romani, pur non venendo abbandonati, morirono come città. Insomma la Britannia romana venne cancellata molto più velocemente della Gallia romana e questo è spiegabile soprattutto alla
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MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.56-57. DAVIES, Isole cit., p.152. 60 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.57-58. 59
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luce della diversa natura dei futuri dominatori: Franchi e Visigoti erano assai più familiari con i costumi romani che gli Anglosassoni61. Dai tempi più antichi gli stanziamenti dei germani furono caratterizzati dal dualismo: da una parte abbiamo il borgo, entità locale non vincolata al nucleo parentale e dall’altra lo iugero, forma caratteristica della tribù, indicante la proprietà di una normale famiglia contadina. Non si trattava ancora di proprietà privata poiché non era vendibile e il suo uso era limitato da restrizioni di vario genere e del resto era sotto il controllo esclusivo del capo famiglia. In teoria chi possedeva uno iugero, ed era perciò detto ceorl, aveva anche il compito di andare a combattere. Quando le guerre erano frequenti però accanto al ceorl c’era il thane, colui che otteneva dal re o da proprie risorse una proprietà assai più cospicua e a cui di fatto spettava l’arte della guerra. Potremmo quindi sostenere che inizia da qui la rozza divisione , alla base del sistema feudale, tra colui che lavora la terra e solo in caso di estremo pericolo prende le armi e il guerriero professionista62. Fin dall’inizio della società “inglese” ci fu una aristocrazia terriera strettamente legata al sovrano: i suoi seguaci lo seguivano in ogni missione e facevano vita comunitaria dimorando nella cosiddetta “aula regale”, un luogo di ritrovo, di riunioni conviviali e di declamazioni poetiche. Proprio in questa stanza un attento uditorio ebbe probabilmente la fortuna di ascoltare la storia dell’eroe epico Beowulf. Il protagonista incarna il modello dell’eroe per eccellenza, possente e coraggioso,instancabile vincitore di draghi e mostri di ogni genere al servizio del re Danese. Il mondo in cui vive è però instabile e dominato da una rozza lealtà e dalla faida; alla fine nemmeno lui può sfuggire alla morte, ma viene seppellito in un tumulo di fronte al mare accompagnato da ricchi tesori63. Il risultato principale della invasione germanica, con i suoi incessanti stati di guerra e di disordini, fu di mescolare conquistatori e conquistati. Sui rapporti tra germani e popolazioni indigene ancora non si è arrivati ad una risoluzione interpretativa, ma si possono fare alcune considerazioni. Vi fu una diminuzione catastrofica della popolazione, la distruzione di città e la riduzione delle aree coltivabili ed è quindi naturale supporre che gli abitanti rurali britannici siano stati colpiti numericamente da queste calamità. Un tempo si pensava da un lato che i britanni fossero stati sterminati e dall’altro che una esigua minoranza di germani si sia mescolata alla popolazione locale; ora sembra però più 61
Ivi,pp.61-62. MORTON, Storia cit., pp.31-33. 63 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.64-65. 62
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ragionevole concludere che per lo meno le regioni orientali fossero nelle mani dei conquistatori e che qui i britanni venissero ridotti in schiavitù. Più ci avviciniamo alle aree occidentali maggiore diviene invece la proporzione di Britanni nella popolazione64. L’idea di una perenne lotta dicotomica tra i celti e i germani andrebbe inoltre ridimensionata, apparendo ormai evidente che i celti combatterono invero altri celti per il potere e i territori, così come i germani altri germani65. 3.3 Celti contro germani Il concetto di “resistenza britannica” presume che l’avanzata germanica fosse al tempo considerata una minaccia per l’intera isola e che i governanti britannici fossero preparati a scendere in campo per opporsi. Vari elementi ci portano a credere che i britanni lottarono prima di sottomettersi, ma da queste considerazioni a sostenere che i celti ebbero un loro campione nella figura di re Artù c’è il rischio di spiccare un volo pindarico66. Quel che è certo è che sassoni e britanni si scontrarono più volte sul campo di battaglia senza che venissero decretati né vinti né vincitori; almeno fino alla famosa vittoria di Mons Badonicus del 500 d.C., con la quale i britanni suggellarono la loro supremazia sugli invasori per almeno mezzo secolo67. Nennio e Goffredo si dilungano sulle vicende precedenti all’epico scontro di Mons Badonicus, riprendendo il discorso sulla vita del tiranno Vortigern e arricchendo la storia di particolare fantastici e favolosi. Vortigern, costretto a nascondersi dai nemici sassoni, ordinò ai suoi uomini la costruzione di una inespugnabile fortezza. I muratori si misero subito all’opera, ma ogni notte tutto il loro duro lavoro veniva distrutto, come inghiottito dalle viscere della terra. Seguendo il consiglio dei suoi maghi, il re, trovato un ragazzo senza padre, era pronto a sacrificarlo; ma il giovane si salvò dimostrando al sovrano che il vero impedimento alla costruzione era la presenza di uno stagno sotterraneo. Entrambi gli autori sopra citati riferiscono di una profezia recitata al cospetto del re, che non è altro che un excursus temporale sul futuro della Britannia: due draghi, uno rosso e uno bianco, si affrontano; il primo, simbolo del popolo di Britannia, giace sconfitto dal 64
DAVIES, Isole cit., p. 170-171; MORTON, Storia cit., pp.29-30.
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DAVIES, Isole cit., p.155. Ivi, p.169. 67 Ibidem; MORTON, Storia cit., p.28; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.59. 66
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secondo, rappresentante i sassoni invasori. Poi arriva il Cinghiale di Cornovaglia, personificazione di Artù, in grado non solo di schiacciare il nemico, ma di spingersi a conquistare terre lontane e a minacciare la potenza di Roma. Dopo un periodo di splendore però il drago bianco risorgerà e rimarrà vincitore fino all’arrivo del vento del nord, ossia dei conquistatori normanni68. Proseguendo la lettura di Goffredo veniamo a sapere di altre predizioni per il re, rivolte a metterlo in guardia dai figli di Costantino, Uther e Aurelio Ambrosio, desiderosi di vendicare il proprio padre usurpato. I due fratelli, valorosi e intrepidi, dopo aver ridotto in cenere la dimora di Vortigern con lui all’interno, vennero a battaglia con i nemici sassoni schierati da Engisto e non solo ne uccisero il capo, ma li costrinsero ad indietreggiare oltre il fiume Humber69. Aureliano regnò da Londra, ma visitò York e Winchester per procedere alle ricostruzioni dei luoghi interessati dal conflitto. Fu proprio lui, si narra, a mandare il fratello Uther in Irlanda a prendere le famose pietre dell’Anello dei Giganti, megaliti dai poteri curativi che appunto dei giganti a detta di Merlino avrebbero portato nella verde isola da remote aree dell’Africa. L’obiettivo era quello di innalzare un monumento commemorativo ai molti consoli e principi britanni uccisi a tradimento da Engisto nella “notte dei coltelli”. Secondo alcuni studiosi questi blocchi costituirebbero il celebre complesso megalitico di Stonehenge, ancora oggi visitato da milioni di visitatori tutto l’anno nella piana di Salisbury. La pace conquistata con tanti sacrifici durò ben poco: il figlio di Vortigern, Pascenzio, fuggito in Germania ottenne l’aiuto del re d’Irlanda Gillomanio per tramare contro il re. Un complice di nome Eopa fu spedito in qualità di medico alla corte di Aureliano, avendo imparato la lingua e i costumi britanni, e una notte somministrò al re un veleno letale al posto della sua medicina. Morto il fratello e salito al trono, Uther da ora detto Utherpendragon (testa di drago) poiché scelse come stemma due draghi dorati, portò i britanni alla vittoria uccidendo entrambi i nemici traditori e sbaragliando anche i sassoni che, animati da Octa, figlio di Engisto, stavano cercando di ostacolarlo. Da qui in poi il testo prosegue concentrandosi sulla figura di Artù, figlio di Uther e Igerna, a partire dalla notte del suo concepimento70. Solo negli ultimi capitoli, abbandonate le imprese eroiche del re, Goffredo segue brevemente le vicende legate alla sua successione, dandoci un elenco di nomi e luoghi da indagare. Della fine di Artù si sa che avvenne in battaglia 68
G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 111-128; NENNIO, La storia cit., pp. 36-39. Ampio estuario che forma parte del confine tra nord e sud dell’Inghilterra. 70 G. DI MONMOUTH, Storia cit., pp. 129-146. 69
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contro il traditore Modred nel 542, anno in cui in oriente regnava l’ormai unico imperatore Giustiniano (527-565). Costantino, cugino del re defunto e figlio di Cador duca di Cornovaglia, prese la corona e continuò ad infierire sui Sassoni fino alla morte. Suo nipote Aurelio Conano ottenne il trono con un fatto di sangue (aggredì suo zio, cioè il legittimo successore), perciò entro due anni morì per giustizia divina. Dopo due re, Wortiporio e Malgo, ci fu Caretico sotto il quale l’isola subì l’invasione del tiranno Gormundo, re degli Africani, chiamato dai sassoni in loro aiuto. Lo scontro perenne tra sassoni e britanni proseguì tra Ethelberto, re del Kent, che aveva radunato un vasto esercito con la complicità in primis di Ethelfrido, re dei Northumbri, e Cadauno, eletto capo da tutti i principi britanni. Ethelfrido e Cadauno strinsero però un accordo di pace che i loro figli, rispettivamente Edwino e Cadwalone, riuscirono a mantenere fino a quando il primo negò al secondo la concessione di un regno tutto suo. I due fratelli vennero allo scontro armato e Cadwalone, avvalendosi anche dell’appoggio degli uomini di Salomone, re dei Britanni Armoricani, ebbe la meglio, diventando unico re. Sotto suo figlio Cadwaladro (da Beda chiamato Elidualdo) l’isola fu colpita da una terribile carestia e pestilenza da indurre gli abitanti a rifugiarsi in massa nella vicina Armorica; l’Isola, praticamente abbandonata, vedeva così tramontare il dominio britannico a favore di quello anglo-sassone, poiché questi popoli ebbero da allora via libera al suo popolamento71. 3.4 I regni anglo-sassoni L’arrivo dei conquistatori germani influenzò in modo netto molti aspetti della vita delle isole e portò alla ridefinizione o alla nascita di nuovi regni. La Scozia del VI secolo è ancora in gran parte pittica sebbene gli insediamenti di Irlandesi, i futuri Scoti, avessero dato vita sulla costa occidentale al regno autonomo di Dalriada; il Galles era la maggiore enclave britannica, mentre Somerset, Devon e Cornovaglia formavano il regno di Dumnonia72. L’Inghilterra era poi divisa in vasti reami: Kent e Sussex popolati dai Sassoni meridionali, Wessex dai Sassoni occidentali, Anglia orientale e Essex dai Sassoni orientali, Mercia comprendente gli Angli di mezzo e Northumbria comprendente Bernicia e Deira. 71 72
Ivi, pp. 202-222. MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.60.
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L’equilibrio di potere non era mai ben definito e ancora oggi ci si interroga sulla funzione dei Bretwaldas o super-re, ossia dei re di singoli regni che riuscirono, anche se per breve tempo, ad esercitare la loro autorità sull’intero territorio anglosassone73. Un grande cambiamento interessò questi nuovi regni a partire dal VII secolo, secolo in cui si può decretare riuscita la missione della Chiesa di Roma di riconquistare il paese paganizzato. Anche se il Galles era sempre stato fedele al cristianesimo abbracciato sotto la dominazione romana non fu da qui che ebbe inizio la conversione dell’Inghilterra, poiché tutto è da ricollegare ad una iniziativa del papa in persona. Nel 597 papa Gregorio Magno mandò in missione un monaco romano, Agostino, alla corte del re Ethelberto del Kent, che aveva contratto delle nozze con una donna franca di fede cristiana. I successi si susseguirono copiosi: non solo il re si convertì, ma Agostino fondò un monastero a Canterbury di cui divenne nel 601 primo arcivescovo. La conversione del Kent fu seguita da quella del’Essex e dell’Anglia orientale. Nel 625 Edvino di Northumbria sposò una principessa del Kent e fu Paolino, primo vescovo di York, ad accompagnarla nel suo viaggio verso nord. La vittoria del cristianesimo era stata rapida e clamorosa , ma fragile e costruita su basi precarie. Ben presto i Sassoni orientali abiurarono e scacciarono il loro vescovo, il re degli Angli orientali, Raedwald, benché battezzato, mantenne un atteggiamento ambivalente e Beda riferisce che disponeva sia di una chiesa che di un santuario pagano. Nella Northumbria re Edwin accolse benevolmente il missionario Paolino, ma alla sua morte i suoi seguaci abiurarono e questi fu costretto a fuggire per aver salva la vita. Strano a dirsi, se la missione gregoriana zoppicava e faticava a trovare solidi consensi, contrariamente la timida chiesa celtica otteneva risultati strabilianti. L’ethos della missione romana contrastava decisamente con quello della missione celtica: i convertiti germanici di Agostino avevano adottato la nuova religione pensando di ricevere in cambio vantaggi politici e materiali, invece il Cristianesimo celtico con la sua semplice pietà scevra di ambizioni si radicò molto più profondamente in quel rude popolo nordico di contadini-guerrieri. E’ probabile inoltre che i Cristiani del Galles e della Cornovaglia esercitassero una certa influenza sugli Inglesi. Agostino, che a quanto pare era un uomo piuttosto orgoglioso e privo del senso dell’umorismo, offese i vescovi gallesi e ne risultò una mancanza di cooperazione.
73
Ivi, p.62.
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Ottenne cospicui risultati fra gli Inglesi del Nord la missione giunta dall’ Irlanda in Scozia e da qui in Northumbria. Grazie a San Patrizio e ai suoi seguaci, all’inizio del VI secolo, l ‘Irlanda era in gran parte cristianizzata; in Scozia Columba convertì i Pitti settentrionali e attorno al 563 fondò un monastero sull’isola di Iona. Nonostante questi successi però, affinché il Cristianesimo risultasse davvero vincitore, la Chiesa celtica dei regni inglesi doveva sottostare alla disciplina del centro della cristianità. Nel 664 i Cristiani romani e celtici si riunirono a Whitby per risolvere le loro controversie, di cui la più significativa riguardava il giorno di celebrazione della Pasqua. L’interpretazione romana infine prevalse grazie soprattutto all’ appoggio accordatale da re Oswy di Northumbria, ma il cammino verso la unità sarebbe stato ancora lungo ed accidentato74. CAPITOLO QUARTO
LA DISSOLUZIONE DEI REGNI ANGLO-SASSONI
4.1 Verso la disgregazione La apparente stabilità guadagnata a fatica dai regni germanici in Britannia era minacciata da più parti, al punto che in breve tempo il mondo anglosassone si avviò alla disgregazione. La precaria organizzazione in ambito religioso era manifesta in primis nella esiguità dei vescovi e nella loro non sempre ortodossa consacrazione. Nel 669 il papa inviò il nuovo arcivescovo Teodoro a sistemare le cose e quest’uomo, dalle spiccate doti di amministratore, seppe invero razionalizzare la questione delle consacrazioni e delle strutture diocesane; con le sue iniziative la nuova Chiesa romana veniva incontro alle esigenze di quella celtica, creando un connubio davvero promettente75. Sebbene alcuni, tra cui il potente vescovo di York, Wilfrid, non approvassero questi cambiamenti, i re ora aiutavano la nascente Chiesa in cambio della legittimazione al potere, sentendosi rappresentanti di Dio; non a caso da lì a poco le incoronazioni dei sovrani sarebbero state assimilate ad una investitura episcopale. 74
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp. 67-69; DAVIES, Isole cit., p.172; MORTON, Storia cit., p.33.
75
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.69-70; BEDA, Storia ecclesiastica cit., pp. 230-245.
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La diffusione del cristianesimo portò con sé anche una maggiore alfabetizzazione e i re se ne poterono giovare per rendere efficiente la giustizia e promulgare raffinati codici di leggi; la priorità per un buon sovrano non era più eccellere nell’arte della guerra, ma apparire un saggio amministratore e nomoteta76. Proprio per iniziativa dei re del VII ed VIII secolo furono fatti nuovi progetti edificativi e le prime città inglesi cominciarono finalmente a popolarsi. Le chiese e i monasteri, costruiti sempre all’interno di mura romane, divennero il fulcro della vita quotidiana, attirando servi, mercanti e artigiani; al loro interno poi l’arte di miniare i manoscritti superò ogni aspettativa. La monarchia inglese era tuttavia scossa da profondi dissidi interni tra sovrani ed un regno inglese unito sembrava ancora un miraggio.
4.2 La supremazia merciana Il VII secolo vide la supremazia del regno di Mercia, poiché un documento descrive il sovrano Aethelbald “Re non solo dei merciani, ma di tutte le province designate con il nome generale di inglesi meridionali”. È però suo figlio Offa (757-796) che il celebre re dei Franchi, Carlo Magno, definisce in una lettera “carissimo fratello” e che, a quanto sembra, per primo si fregiò dell’appellativo di “re degli Inglesi”. Probabilmente due erano i veri re a quei tempi: Offa di Mercia e Ethelred di Northumbria. Offa nel 787 fece incoronare suo figlio re dei Merciani con una solenne cerimonia ma, dopo di lui, la successione non seguì il principio dinastico: il re era ancora scelto tra i migliori membri della stirpe reale77. I motivi scatenanti della ascesa della Mercia sono per certi versi ancora oscuri; indubbiamente a suo favore giocarono la numerosa e prospera popolazione delle Midlands e l’esperienza militare acquisita in campo contro i Gallesi78; inoltre con Offa ebbe inizio la vera economia monetaria inglese, poiché il penny da lui coniato soppiantò le precedenti emissioni, sia le rozze monete d’argento dei re del secolo appena trascorso sia il novus denarius franco79.
76 77
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.71. Ivi, p.73.
78
MORTON, Storia cit., p.37.
79
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.75.
28
La storia politica di quegli anni ruota attorno alle alterne fortune di quattro regni e dei loro sovrani: Kent, Mercia, Northumbria e Wessex, a prova che il potere di ogni singolo re era tutt’altro che unanimemente riconosciuto. L’autorità del re era minata dagli ecclesiastici, che ricorrevano ad ogni espediente per ottenere proprietà terriere80, e l’aristocrazia stava ormai abbandonando l’aspetto di una classe di guerrieri in favore di un ceto di noblemen di campagna. Appartiene inoltre a questo periodo la costituzione, accanto alla “folkland”, della “bookland”: la prima era una sorta di proprietà comune sottoposta a diritti consuetudinari e popolari, la seconda invece era una terra assegnata ad un signore mediante un “libro”, ossia un contratto81. L’ottavo secolo fu un secolo duro per la Chiesa; Aethelbald, Offa e il successore Cenwulf di Mercia presero disposizioni serie contro la rilassatezza di costumi di cui si lamentava, tra gli altri, il grande Beda: ai monaci venne proibito di vivere come nobili laici e di abbandonarsi a serate tra alcol e canti profani nel segreto dei monasteri. 4.3 I vichinghi La potenza merciana non sopravvisse a lungo ad Offa; il suo successore, Cenwulf (796821), mantenne il Kent e il Sussex, ma perse il Wessex: era l’inizio della ascesa di una nuova dinastia di regnanti, quella dei Sassoni occidentali82. Mentre questi avvicendamenti interessavano i troni di Inghilterra, nel 789 sull’isola sbarcarono dei nemici stranieri, come riporta la Cronaca Anglosassone: si tratta dei Danesi e dei Norvegesi, definiti Nordici o Vichinghi, cioè pirati, dalle loro vittime. Il motivo della loro venuta è soprattutto legato alla volontà di saccheggio; si trattava di popolazioni povere che avevano imparato a costruire navi veloci e robuste grazie all’utilizzo della scure di ferro per il disboscamento83. Sconfitti una prima volta da re Egberto nel 838 i Danesi trovarono la loro fine nello scontro con i suoi due figli, Aethelred ed Alfredo. Quest’ultimo regnò dal 871 al 899 e riuscì a guadagnarsi un posto d’onore nella storia anglosassone, sfruttando la debolezza
80
Le Charthers,cioè i documenti costitutivi di quell’epoca, sono soprattutto donazioni e concessioni terriere a chiese e monasteri. 81 MORTON, Storia cit., pp. 35-36; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.74. 82
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.78.
83
Ibidem; MORTON, Storia cit., p. 38.
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delle altre dinastie, i suoi straordinari successi militari e guadagnandosi la fiducia del suo popolo data la sua ammirevole prudenza84. Dopo di lui, il pacifico regno di Edgar ( 959-975) provò che era stato creato, grazie alla casa reale del Wessex, qualcosa di più che una semplice potenza militare85. Nonostante questi successi la morte del re fece sprofondare nuovamente l’Inghilterra nel baratro: Edoardo, il maggiore dei due eredi, fu assassinato poco tempo dopo la sua salita al trono forse dai seguaci del suo stesso fratello, Aethelred, che passerà alla storia come “the Unready”(l’immaturo). A complicare le cose arrivò, inaspettata, una nuova minaccia dal mare tra il 970 e il 980: re Aroldo Dente azzurro, impossessatosi di Danimarca e Norvegia, sbarcò con un formidabile esercito sulle coste dell’isola. Re Aethelred, convinto che l’unico modo per ostacolare i nemici fosse quello di sbarrare loro la strada verso i regni vicini, stipulò un accordo nel 991 con re Riccardo di Normandia, affinché nessuno dei due aiutasse i nemici dell’altro. Il governo fu preso in seguito da un immenso sconforto in previsione di una terribile sconfitta, al punto che, nel 1002, il re e il suo consiglio ordinarono senza mezzi termini di uccidere tutti i danesi viventi in Inghilterra. Ad un certo punto anche gli stessi inglesi, scontenti di come stessero procedendo le cose, arrivarono ad abbandonare i loro re; non riconobbero infatti Edmondo, figlio di Aethelred ,ma in molti si inchinarono all’autorità di Cnut o Canuto che, appena salito al trono scandinavo, si ritrovò nel 1016 sovrano di Inghilterra86. Egli regnò comportandosi non tanto da conquistatore, ma da legittimo re: sposò la vedova di Aelthelred, ma mandò a morte un gran numero di maggiorenti inglesi, suscitando paura e scontento per la sua crudeltà d’agire. Alla morte di suo fratello, nel 1019, ereditò un vasto impero nordico di cui l’Inghilterra era solo una piccola parte. Dovendo assentarsi per lunghi periodi e per amministrare meglio il regno inglese, lo divise in 4 parti assegnate ad altrettanti conti: Northumbria, Anglia orientale, Mercia e Wessex. Queste disposizioni non facevano altro che intaccare la solidità ed unità della monarchia dando inizio a separatismi locali. Alla fine del suo regno i personaggi di maggior spicco erano: Siward di Northumbria, Godwin conte di Wessex e Leofric conte della Mercia, la cui moglie era la famosa Lady Godiva87.
84
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.79-80. Ivi, p.85. 86 Ivi, pp. 90-91; MORTON, Storia cit., p.45. 85
87
Costei rimase famosa per il suo eclatante gesto di cavalcare nuda per le strade della città di Coventry, solo per convincere il marito ad abolire una pesante tassa.
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La successione a Cnut rappresentò uno spinoso dilemma per il re. Egli voleva che suo figlio Harthacnut salisse al trono dopo di lui, ma il consiglio, il Witan, nominò a sua insaputa reggente il suo secondogenito Aroldo. Intanto i due figli di Aethelred, Alfredo ed Edoardo, rifugiatasi per anni alla corte normanna, fecero ritorno; il primo morì per le ferite inflittagli da Godwin del Wessex, mentre il secondo nel 1042 venne eletto re e sarà ricordato come Edoardo il Confessore (1042-1066)88. 4.4 Da Edoardo il Confessore a Guglielmo di Normandia Sovrano non troppo abile e accorto nelle relazioni con i nobili inglesi, a cui preferì sempre i normanni che lo avevano appoggiato durante l’esilio, Edoardo ereditò e conservò un regno forte e stabile, dotato di un eccellente sistema fiscale e di un tribunale in grado di assicurare la giustizia, affidato ai cosiddetti shire-reeves o sceriffi89. Edoardo nel 1051 venne alla resa dei conti con il conte Godwin del Wessex, volendo vendicare la morte di suo fratello avvenuta per mano di quest’ultimo. Godwin ebbe la meglio con una grande flotta, ma non visse a lungo per poter godere dei risultati della vittoria. Nel 1053 suo figlio Aroldo divenne nuovo duca del Wessex e si discute ancora oggi su un suo possibile viaggio in Normandia alla corte di Guglielmo: per le fonti normanne egli vi si recò nel 1064 in qualità di messaggero di Edoardo a testimonianza di un promessa fatta dalla corona inglese; per gli inglesi invece, come leggiamo dal celebre arazzo di Bayeux, Aroldo cadde per caso nella mani di Guglielmo che lo costrinse a fare giuramento prima di rinviarlo a casa. Comunque sia andata realmente la storia, certo è che quando alla morte di Edoardo, nel 1066, il Witan nominò re Aroldo, Guglielmo preparò una flotta per rivendicare il suo diritto al trono e sbarcò in Inghilterra. La battaglia di Hastings del 14 ottobre 1066 e la incoronazione di Guglielmo la notte di Natale di quello stesso anno nella abbazia di Westminster segnano la definita fine dei regni anglosassoni e l’inizio di una nuova era, quella normanna90.
88
MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.91-92. MORTON, Storia cit., p.64; MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., p.92. 90 MORGAN, Storia dell’Inghilterra cit., pp.97-98; MORTON, Storia cit., pp.46-47. 89
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CAPITOLO QUINTO
RE ARTÙ E I SUOI MISTERI
5.1 L’Artù storico
Il mito di re Artù e dei suoi cavalieri affascina tutt’oggi e sarebbe inutile negarlo; è una leggenda dai sapori magici ed avventurosi che non smette di essere rielaborata, data la sua straordinaria capacità di farci sognare ad occhi aperti. Ebbene tutti ci chiediamo chi fosse re Artù, se un personaggio nato dalla fantasia di scrittori medievali o un capo britanno del V secolo davvero esistito. Dare una risposta esaustiva a questi interrogativi appare a conti fatti impossibile; quel che è certo però è che Artù è l’unico capo britanno a essere ricordato a distanza di secoli e, se veramente visse, la sua storicità col tempo fu offuscata dalla leggenda. Il nostro obbiettivo sarà quindi quello di districare il vero dal fantasioso lasciando parlare le fonti, per svelare la base storica della leggenda di questo straordinario condottiero. La domanda più corretta da porsi non sarebbe se un re Artù sia davvero esistito, ma se fu proprio lui quel re dei Britanni di cui ancora oggi si onorano le gesta. Tralasciando gli aspetti favolosi della sua storia, qualsiasi ricerca meticolosa di un Artù storico deve partire da questa considerazione: ci fu una battaglia memorabile, nota come di Monte Badon, in cui i britanni vinsero i sassoni invasori e colui che li guidò meritò indubbiamente una leggendaria apoteosi; se fosse proprio Artù non si può confermarlo, ma sicuramente un “Arthurian-type character”91. A partire dal nome potremmo cercare di capire da dove veniva quest’uomo quasi senza volto, poiché solo basandosi su azzardate deduzioni potremmo immaginarlo alto, possente e dai capelli biondi92. Vengono proposte due etimologie: una latina e una celtica. La prima, suggerita dal termine Artorius e dal riferimento ad un generale romano Lucius Artorius vissuto nel II secolo d.C., è ormai respinta, vista la persistenza anche nei testi latini della forma invariabile “Arthur”. La seconda invece, dal gaelico Art = orso, sembra trovare 91
M. ROLLAND, Re Artù, Bologna, Il Mulino 2011, pp.19-20. N. L. GOODRICH, Il mito della tavola rotonda. La realtà storica di re Artù e dei suoi cavalieri, Milano, Ed. Rusconi 1989, p.32. 92
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precisi riscontri nel simbolismo celtico, dove la casta dei guerrieri era rappresentata da questo forte animale selvatico, in opposizione al cinghiale, animale per così dire totemico dei sacerdoti druidi93. Ebbene il nome Artù, indipendentemente dalla sua origine, appare per la prima volta in fonti che, per il loro contenuto a volte mitizzante, godono ancora di poco credito presso molti studiosi; eppure sono testi di indubbia validità storica su cui faremo affidamento per rintracciare la figura di re Artù. 5.2 Artù nelle fonti Lo scritto più antico a citare Artù è un poema epico celtico intitolato Gododdin, redatto intorno al 600 d.C. da un bardo britanno di nome Aneirin sulla cui esistenza fittizia ancora si discute94. La tradizione gallese invece è ricca di riferimenti al capo britanno in un paio di racconti, contenuti nel Mabinogion, raccolta di canti gallesi del’ XI secolo, chiamata così solo nel 1834 dalla traduttrice Lady Charlotte Guest. Il più celebre racconto arturiano, Culhwch e Olwen, segue le gesta di un giovane, Culhwch appunto, che, colpito dalla maledizione della sua matrigna volta a costringerlo a sposare la figlia di un gigante, se ne innamora perdutamente, al punto da ricorrere all’aiuto di suo cugino Artù e dei suoi cavalieri per liberarla. Il padre di costei, vittima a sua volta di un sortilegio, sapendo di poter vivere solo fino alle nozze della figlia, ostacola le celebrazioni con richieste di doni impossibili ai cavalieri, ma alla fine soccombe. Il racconto introduce alcuni temi cardine del ciclo arturiano seguente: l’uso ricorrente da parte delle donne del geis, cioè dell’incantesimo, lo schema della ricerca di un oggetto favoloso quale sarà poi il Graal e la figura di un re che al posto di agire preferisce mandare i suoi cavalieri in missione. Il racconto più affascinante rimane però Il sogno di Ronabwy in cui un giovane vive in sogno l’incontro con il grande re prima che si rechi al campo di battaglia. Proseguendo con le fonti celtiche poi le Triadi dell’isola di Bretagna, pur non databili con certezza, parlano spesso di Artù e della sua forza militare, mentre i suoi nemici, tra cui
93
ROLLAND, Re Artù cit., p.15; P. GULISANO, Re Artù, la storia, la leggenda, il mistero, Milano, Piemme 2004, pp.14-16. 94
ROLLAND, Re Artù cit., p.19.
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sicuramente compaiono il tiranno Vortigern e il suo assassino Medrawt (qui non ancora visto come suo figlio), sono elencati nei Tre uomini di disonore dell’isola di Bretagna95. L’Artù tratteggiato dalla agiografia invece è un ritratto del sovrano non molto lusinghiero, ben stridente con l’immagine dell’uomo retto e puro di pensieri a cui siamo abituati. Nella Vita di Gildas di Caradoc il re conduce una guerra impietosa contro il fratello di Gildas stesso e arriva a condannarlo a morte; altrove è spesso descritto come un amante meschino e libidinoso, insomma un donnaiolo della peggior specie. Dalla triade delle Tre dame principali sappiamo che ebbe ben tre spose tutte di nome Ginevra e altrettante amanti di cui conosciamo perfino gli impronunciabili nomi. Inoltre non sempre fu vittorioso nelle contese e spesso arrivava all’obbiettivo per mezzo di azioni riprovevoli: estorceva bestiame ai contadini, minacciava fanciulli indifesi e contrastava il diritto d’asilo dei santuari96. Nella Vita di Gildas, che Caradoco compose intorno al 1100, il nome di Artù appare legato ad un fatto di sangue: Artù sarebbe infatti responsabile dell’assassinio del fratello del monaco. Questo fatto e la certezza che la data della morte di Gildas sia il 570 ci portano a dedurre che non solo il monaco fu contemporaneo di Artù, ma che e ebbe a che fare con lui per una vicenda personale. Eppure leggendo la sua opera, il De excidio Britanniae, non compare mai una volta il nome di Artù: per Gildas il grande condottiero capace di sconfiggere i nemici nella celebre battaglia di Monte Badon fu invero lo zio del grande re, Ambrogio Aureliano97. Anche Beda il Venerabile, da molti ritenuto il primo storico del Medioevo, nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum, parlando dello scontro di Monte Badonico, ne attribuisce la gloria non ad Artù, ma allo zio Ambrogio e annota solo la data dello scontro, il 493, rimandando l’argomento ad un altro momento98. Il primo scritto arturiano in realtà è la Historia Brittonum, opera composta tra l’826 e l’830 d.C. da una serie di compilatori, tra cui spicca il monaco Nennio di Bangor. Il testo si divide chiaramente in sei parti, di cui la quarta è quella propriamente arturiana: in poche righe vengono indicate le dodici battaglie di un “dux bellorum” chiamato Artù di cui l’ultima, quella decisiva, fu combattuta a Monte Badon dove in solo giorno Artù uccise 95
Ivi, p.56. Ivi, p.57-59. 97 GILDAS, La conquista cit., p. 57. 98 BEDA, Storia ecclesiastica cit., p. 61. 96
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ben 960 uomini99. Sulla attendibilità delle battaglie potrebbe venire in aiuto un’altra fonte, gli Annales Cambriae, cronache monastiche redatte prima del 956, contenti le seguenti piccole ma illuminanti citazioni sui due scontri principali della vita di Artù: nel 518 a Monte Badon Artù portò la croce di Nostro Signore Gesù Cristo sulle spalle per tre giorni e tre notti, ed i Britanni furono vincitori; nel 537 ci fu la Gueith (termine celtico per carneficina) di Camlann, in cui Artù e Medrawt si uccisero a vicenda100. Goffredo di Monmouth, chierico di origine gallese, fece della figura di Artù il centro della sua Storia dei re di Britannia, composta nel 1136 su richiesta dell’arcidiacono di Oxford. Alla morte per avvelenamento del re Utherpendragon, i nobili delle province di Britannia nominarono successore il quindicenne figlio Artù. Quest’ultimo, di animo nobile e coraggioso, vinti i Sassoni in battaglia si spinse a conquistare l’Irlanda, l’Islanda, la Norvegia, la Danimarca e la Gallia, dove vinse in un duello il tribuno romano Frollo. Proprio i romani lo sfidarono apertamente mandandogli una lettera in cui il procuratore della Repubblica, Lucio Tiberio, lo minacciava di attacco se non avesse pagato il tributo alla potenza di Roma. Il re rifiutò e partì per il continente, lasciando il regno nelle mani della regina Ganhumara e del nipote Modred. Ottenuta la vittoria sui romani e mentre già si preparava a raggiungere la Città Eterna il re, avvisato del tradimento di Modred che lo aveva spodestato unendosi alla regina, fu costretto a tornare in patria dove, nella battaglia di Camlann, rimase ucciso assieme al nipote. Questo stringato riassunto della biografia del re è arricchito dall’autore ricorrendo a particolari favolosi che, uniti a numerosi errori geografici, hanno portato discredito all’intera opera. Eppure è possibile, correggendo le sue debolezze, considerare se non certe almeno altamente probabili molte affermazioni di Goffredo: è probabile infatti che re Artù, vinti i nemici interni, si sia spinto a conquistare aree limitrofe quali l’Irlanda, l’Isola di Man, la Scozia e i territori britanni che, abitati da Scandinavi o Vichinghi, erano per questo già a quei tempi ribattezzati Norvegia e Danimarca; è probabile che sia arrivato in quella che da lì a poco con Clodoveo sarebbe divenuta Francia e che sia morto nel 542, lasciando il trono al cugino Costantino, ai tempi dell’imperatore d’Oriente Giustiniano101.
99
NENNIO, La storia cit., pp.45-46. ROLLAND, Re Artù cit., pp.21-22. 101 GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., p.82. 100
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5.3 Le rielaborazioni del ciclo arturiano Goffredo fu il primo a presentarci un Artù dai tratti medievali e propriamente politici: un uomo animato da giustizia ed onore, ma ambizioso al punto da non accontentarsi di sconfiggere i sassoni e da andare sul continente a minacciare la potenza di Roma. Dopo di lui molti autori andarono ad accrescere con le loro opere il corpus arturiano che, seguendo l’espressione del poeta francese Jean Bodel, è stato ribattezzato “materia di Bretagna”102. I romanzi francesi modernizzarono, saccheggiarono e rielaborarono il materiale di Goffredo, creando un improprio collegamento tra la società e i personaggi di una antica Britannia e una realtà storica al limite del meraviglioso, popolata di cavalieri galanti e dame vogliose103. Ed è allora che nella storia compaiono Lancillotto e la sua relazione adulterina con la regina Ginevra, Merlino e la spada nella roccia, la cerca del Graal e il tradimento del figlio incestuoso Mordred: tra i testi più famosi il Lancelot e il Conte du Graal di Chrétien de Troyes, il Joseph d’Arimathie di Robert de Boron, il Tristano e Isotta di Tommaso di Britannia e il Parzival di Wolfram von Eschenbach. Ma l’opera arturiana di gran lunga più conosciuta nei paesi di lingua inglese è la Morte d’Arthur di Sir Thomas Malory. Questi era un cavaliere di nobili natali che collezionò una serie di condanne per violenze, stupri e tentati omicidi da condurre parte della sua vita in una cella della torre di Londra, dove nel 1470 scrisse appunto il testo arturiano. Solo nel 1485 però, anni dopo la sua morte, William Caxton acconsentì a stamparlo, affermando che Malory aveva fatto il grande lavoro di tradurre il lingua inglese i romanzi francesi in prosa104. 5.4 I luoghi arturiani Artù è re dei Britanni e non re di Britannia e questo è del tutto sensato se si considera che il Medioevo non conosceva il concetto astratto di Stato e il re era capo di popoli105. Cercheremo ora di individuare i luoghi che fecero da cornice alla vicenda di Artù, localizzando così il suo regno e i siti delle sue vittorie.
102
ROLLAND, Re Artù cit., p.11. GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., p. 145. 104 ROLLAND, Re Artù cit., p.123-125; GULISANO, Re Artù cit., pp. 81-82. 105 GULISANO, Re Artù cit., p.93. 103
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Oggi possiamo senza dubbi affermare che molte delle famose dodici battaglie di Artù, elencate da Nennio106, furono combattute a Nord, principalmente in Scozia (nelle attuali aree di Glasgow o di Edimburgo)107. Camlann, l’ultimo scontro in cui Artù fu ferito a morte dal nipote/figlio Mordred, deriva forse da Camboglanna (riva o recinto storto) e potrebbe corrispondere al
forte di
Birdoswald sul Vallo di Adriano o alla fortezza di Cadbury108. Artù vide la luce nel castello di Tintagel, le cui suggestive rovine a ridosso sul mare sono ancora percorribili in Cornovaglia; gli studi effettuati hanno stabilito che il sito, abitato fin dai tempi dei romani, prima di essere una fortezza fosse un centro religioso celtico109. Sulle residenze di Artù sappiamo che il luogo sacro che Nennio chiama Monte di Ambrosio divenne poi Arthur’s Seat, oggi ad Holyrood presso Edimburgo; Camelot, ritenuto per anni un nome fittizio, per alcuni farebbe riferimento a due sedi esistenti di fortezze scozzesi (Carlisle e Stirling110), sebbene, secondo Goffredo, la capitale di Artù fosse Caerleon nel Galles meridionale. L’Isola di Avalon, dove Artù morente fu condotto per curare le sue ferite, è stata riconosciuta nell’Isola di Man, sulle cui rosse rocce giace ancora oggi il castello di Peel Castle, battuto dai marosi e avvolto dalle nebbie111. La leggenda vuole che Artù in realtà non sia mai morto, ma che giaccia addormentato fino a quando la Britannia non avrà ancora bisogno di lui. Nel 1191 però i monaci di Glastonbury sostennero di aver trovato nei pressi della abbazia una tomba in cui una croce in piombo (di cui a noi rimane solo un disegno) recitava che si trattasse della sepoltura di Artù e della sua seconda moglie Ginevra. Nel 1276 Edoardo I il Plantageneto inumò i resti dei sovrani e fece solennemente di quel luogo meta di pellegrinaggio; si trattava di un valido espediente attraverso cui il sovrano, che ambiva ad unire tutta l’isola conquistando anche il Galles e la Scozia, strappò ogni speranza di ritorno del condottiero Artù alle popolazioni celtiche che non lo avevano ancora riconosciuto come loro capo112.
106
NENNIO, La storia cit., pp.45-46.
107
GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., pp. 94-97. Ivi ,pp. 347-348; ROLLAND, Re Artù cit., p.23. 109 GULISANO, Re Artù cit., pp. 103-104. 110 GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., pp. 349-360. 111 Ivi, pp. 382-401 e 418-420. 112 GULISANO, Re Artù cit., pp. 100-102; ROLLAND, Re Artù cit., pp.71-73. 108
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5.5 La Tavola Rotonda, Excalibur e il Santo Graal Il mito di Artù è costellato di oggetti mitici e favolosi, ma c’è qualcosa di veritiero e storicamente approvato dietro la spada Excalibur e la Tavola Rotonda? La Tavola Rotonda è un’invenzione dei racconti di lingua francese. Fa la sua comparsa come dono di nozze del padre della regina Ginevra nel Roman de Brut, un adattamento della Storia di Goffredo eseguito verso il 1155 dal poeta Wace. Nel Merlin Robert de Boron afferma invece che fu Merlino a costruire una tavola lignea in onore del padre di Artù, Uther113. Ci sono diverse teorie sulla esatta funzione della tavola e sulla sua collocazione; la prima, la più comune e pragmatica, vede in essa una piccola tavola rotonda attorno alla quale ci si riuniva per mangiare, senza che ci fosse alcuna distinzione di rango. Per altri, collocata non nella sala dei banchetti ma in quella delle udienze, essa rappresenterebbe idealmente un esperimento inedito alla corte reale: per la prima volta i cavalieri saranno chiamati a costruire l’unità della Britannia assieme al loro re, che è Primus inter pares114. La visione idilliaca di una tavola simbolo di uguaglianza viene però subito smentita, se si considera che Lancillotto ad esempio sedeva in posizione privilegiata rispetto agli altri e che i membri del seguito del re erano chiamati servi115. Inoltre l’abitudine di sedere intorno a tavoli rotondi, propria della cultura celtica, non esprimeva un principio democratico, in quanto solo di fronte al posto di maggior rilievo vi era un foro dove veniva posto il cinghiale e tutti gli altri commensali erano disposti in ordine di rango116. Per molto tempo si è creduto di aver ritrovato la famosa Tavola Rotonda a Winchester, una cittadina dell’Inghilterra meridionale. Qui ancora oggi, in un antico castello normanno, è possibile ammirare una tavola di cinque metri di diametro, dipinta di verde e bianco e divisa in spicchi, raffigurante re Artù e i suoi 24 cavalieri. Gli studi con il carbonio 14 hanno però dimostrato l’appartenenza di questa tavola ad un periodo successivo ai tempi dell’Artù “storico” del VI secolo; fu probabilmente voluta dai Plantageneti, ma se ne hanno notizie storiche solo dal 1522, quando Enrico VIII fece
113
GULISANO, Re Artù cit., p.111; GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., p.367; ROLLAND, Re Artù cit., p.74. 114 GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., p. 365; GULISANO, Re Artù cit., pp. 113-114. 115 GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., pp. 365-366. 116 DEMANDT, I Celti cit., p.56.
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sostituire il suo volto a quella di Artù e dipingere al centro di essa una rosa, simbolo della sua casata117. Nel 1720 un archeologo di nome William Stukeley, scoperto un edificio in pietra presso il castello di Stirling, ne fece dei disegni accurati prima che, ventitré anni dopo, il monumento venisse abbattuto per erigere una diga. Gli abitanti locali lo chiamavano “Arthur’s O’on” e lo ritenevano una grande fornace all’aperto (owen), ma si tratterebbe invero di un tempio circolare, sormontato da una cupola, con la funzione di custodire delle reliquie sacre, sul modello del martyrion della Terra Santa. L’ipotesi più credibile è che questo complesso architettonico, in cui Artù trascorse ore in solenne celebrazione religiosa, nel tempo sia stato interpretato diversamente fino a diventare nella letteratura arturiana la tavola rotonda che noi tutti conosciamo118. Nella versione a noi più nota della leggenda, Artù diventa re solo dopo aver estratto la spada dalla roccia. Durante una giostra d’armi tenutasi a Capodanno, il quindicenne Artù, avendo dimenticato la spada del fratello Kay a cui fa da scudiero, gli porta in sostituzione proprio la spada nella roccia che nessun cavaliere era mai riuscito ad estrarre; mago Merlino gli rivela allora il suo brillante destino e dopo pochi giorni Artù viene riconosciuto nuovo re. La spada nella roccia non è però Excalibur; quest’ultima sarà donata ad Artù dalla Dama del Lago e verrà restituita al lago di Avalon alla morte del sovrano. Inoltre Goffredo parla solo di una spada chiamata Caliburnus, dotata di poteri straordinari. Comunque essa si chiamasse, Artù è sempre associato ad una spada come simbolo della regalità, e questo in virtù della sacralità di cui queste armi godevano nell’antichità e soprattutto presso le popolazioni celtiche. I celti erano fabbri esperti, capaci di forgiare spade dalla lama molto lunga, difficili da maneggiare, in grado di colpire non solo di punta ma anche di lato mediante quel gesto noto come fendente; spade non di acciaio forgiato, ma temprato quindi uniche ed adatte solo ai re119.
117
GULISANO, Re Artù cit., pp. 109-110. GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., pp. 369-373 e 375-381. 119 GULISANO, Re Artù cit., pp. 82-87. 118
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Uno dei problemi più spinosi e irrisolti del ciclo arturiano riguarda la cerca del Graal e gli interrogativi iniziano dalla esatta individuazione dell’oggetto in questione. Il termine deriva dal francese cratalis e significa piatto fondo o scodella; il suo scopo era quello di contenere un nutrimento miracoloso dispensato in un festino a cui potevano partecipare solo i degni e puri di cuore120. Col tempo però l’Oggetto misterioso si carica di significati cristiani, diventando in alcune versioni una pietra preziosa, in altre il calice che Cristo usò nell’Ultima Cena o che ne raccolse il sangue dal costato sulla Croce121. Per capire il legame tra i cavalieri e il Graal dobbiamo seguire le vicende di Percival, il giovane che per terzo, dopo Galvano e Lancillotto, fallì nella sua cerca. Nel 1190 Chrétien de Troyes scrisse il Perceval, ou le Conte du Graal dove narra di questo cavaliere che, imbattutosi durante una missione in uno splendido castello, viene invitato ad assistere ad un banchetto, durante il quale ha luogo una strana processione: il Graal viene portato al suo cospetto circondato da una luce mistica, ma Perceval desiste dal chiedere il significato della funzione. Il mattino dopo si sveglia in un castello vuoto e una fanciulla gli svela la verità: quello in cui aveva soggiornato era il castello del Graal ed era stato al cospetto del Re Pescatore, gravemente ferito. Se lui avesse posto la domanda relativa alla natura del Graal avrebbe risanato il re e goduto di straordinari tesori. Chrétien non portò mai a termine il racconto, ma fu lui a dare il via ad una vera e propria letteratura del Graal, tra cui ricordiamo, tra gli altri, il celebre Parzival di Wolfram von Eschenbach, composto tra il 1198 e il 1212122.
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ROLLAND, Re Artù cit., p.77. GULISANO, Re Artù cit., pp. 146-147. 122 Ivi, pp.149-152; ROLLAND, Re Artù cit., p.79-82; GOODRICH, Il mito della tavola rotonda cit., pp. 266-267. 121
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