Lettura del Terzo canto del Purgatorio

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LETTURA DEL TERZO CANTO DEL PURGATORIO di Marco Gallarino Tenuta per la Lectura Dantis Sammaritana Il terzo canto del Purgatorio offre diversi spunti di approfondimento teorico ed esegetico; tra di essi, mi soffermerò in particolare su alcuni, i quali presentano una particolare rilevanza filosofica. Una prima riflessione può essere condotta sull’uso, particolarmente ricorrente nella prima parte del canto, di sentenze proverbiali o di espressioni che mostrano il ricorso ad una saggezza connessa agli aspetti pratici della vita quotidiana; si tratta di un accorgimento in armonia con l’atmosfera generale del canto: le anime purganti, ben diversamente da quelle che Dante aveva incontrato nel corso del viaggio infernale, si mostrano particolarmente mansuete, docili al percorso di purificazione al quale sono condotte dalla virtù divina. La saggezza proverbiale e la morale pratica immediata che essa veicola contribuiscono a delineare i toni di quest’atmosfera, a ribadirli, anche attraverso il suggerimento di un paragone tra l’utilità della saggezza nel percorso di perfezionamento morale dell’individuo durante la vita terrena e l’attitudine penitente delle anime del purgatorio. Espressioni che si possono ricondurre, più o meno esplicitamente, a tale atteggiamento di fondo sono soprattutto tre. Ai versi 7-9, Dante descrive velocemente il rammarico di Virgilio per aver a proprio giudizio mancato, nel corso degli avvenimenti narrati nel canto precedente, al suo ruolo di maestro e di guida nei confronti del discepolo, essendosi lasciato incantare dalla dolcezza del canto di Casella e avendo indugiato nell’ascolto; il poeta mantovano si era così sentito degno del rimprovero che Catone aveva rivolto alle anime purganti, che dovevano affrettarsi a dirigersi al loro percorso di purificazione:

Lo mio maestro e io e quella gente ch’eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch’esser non lascia a voi Dio manifesto». Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l’usato orgoglio, se cosa appare ond’ elli abbian paura, subitamente lasciano star l’esca, perch’ assaliti son da maggior cura; così vid’ io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa, com’ om che va, né sa dove rïesca; né la nostra partita fu men tosta.1

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Purgatorio, II 115-­‐133. I testi della Divina commedia sono citati conformemente all’edizione curata da Giorgio Petrocchi.


Così descrive Dante l’atteggiamento compunto di Virgilio:

El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscïenza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso!2

Si nota qui come queste parole accompagnino al riferimento alla saggezza pratica che informa tutta la vita dell’uomo sapiente una definizione del ruolo del maestro e dei doveri morali che gli competono; introdotta dai versi precedenti, questa terzina offre, attraverso il punto di vista della coscienza morale di Virgilio, quale essa traspare dall’espressione del volto del poeta, una descrizione fulminea ma precisa, ampliata poi ai versi 22-24, dell’atteggiamento che il maestro deve tenere nei propri rapporti con l’allievo, del quale deve sempre essere guida virtuosa, salda e sicura. Espressioni di gusto proverbiale emergono anche altrove. Al verso undicesimo, in cui si fa riferimento alla fretta «che l’onestade ad ogn’ atto dismaga»3 e al verso settantottesimo, nel quale Virgilio, dopo aver chiesto ad una schiera di anime purganti in quale direzione si possa trovare un agevole accesso al monte del purgatorio, nota che «perder tempo a chi più sa più spiace»4. Ma, del resto, è da notare come anche in parti del canto teoreticamente più impegnate ritornino modalità espressive dal sapore più o meno vagamente proverbiale, come per esempio ai versi 34-36 e 133135, quasi a richiamare, in maniera discreta e quasi impercettibile, le movenze poetiche e tematiche di fondo del canto. Al trentaquattresimo verso inizia una serie di terzine assai nota e densa di motivi filosofici rilevanti: Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato.5

2

Purgatorio, III 7-­‐9.

3

Purgatorio, III 11.

4

Purgatorio, III 78.

5

Purgatorio, III 34-­‐45.


Nei versi precedenti a queste terzine, Virgilio si è impegnato a tranquillizzare Dante che, non vedendo che un’ombra sola proiettata a terra, temeva di esser rimasto privo della sua fida scorta. La guida gli spiega come gli spiriti dei trapassati siano dotati, naturalmente fino al definitivo ricongiungimento con il corpo risorto, di corpi aerei, capaci di soffrire tormenti, caldi e geli, ovviamente in conformità a quanto disposto dalla volontà divina per le anime dannate e purganti. Virgilio nota altresì come le modalità di un simile fenomeno siano occulte, perché inaccessibili alla mente umana. Ne risulta che, come il poeta pedagogo espone nel brano in questione, gli uomini si devono attenere al quia, senza pretendere di accedere a contenuti conoscitivi superiori, perché con ciò si attuerebbe l’insano tentativo di percorrere speculativamente la via infinita dell’agire divino, tentando di attingere il suo principio imperscrutabile. Ma il quia cui si accenna non si riduce al nudo dato fenomenico che dev’essere rilevato: rientrano in quest’ambito accessibile alla speculazione anche le dimostrazioni della filosofia, condotte a partire da ciò che è evidente alla conoscenza umana. Il complesso delle scienze e della filosofia sono dunque aperte all’attività conoscitiva dell’uomo, mentre ciò che riguarda la sfera soprannaturale e la trascendenza dell’azione divina rientrano in un ambito in cui è insania addentrarsi, se non fino al punto in cui è consentito dall’autorivelazione di Dio. Ritornano in mente, a tale proposito, altri passi del poema. In primo luogo si ricorda il ventiseiesimo canto dell’Inferno, nel quale si racconta il tragico naufragio di Ulisse6, evento che, secondo molti esegeti, rappresenta la punizione divina per un atto di tracotanza intellettuale, ossia per la pretesa dell’eroe greco di accedere a contenuti conoscitivi che gli dovevano rimanere preclusi, verosimilmente perché connessi con le realtà soprannaturali relative all’economia della salvezza, sebbene, a mio parere, l’interpretazione tradizionale e vulgata di questo canto debba essere ampiamente corretta, soprattutto in considerazione della collocazione di Ulisse tra i consiglieri fraudolenti, elemento che ritengo debba essere più accortamente valutato per comprendere la reale fisionomia psicologica e morale del personaggio e delle sue azioni. In secondo luogo, viene in mente un passo meno famoso ma altrettanto e forse ancor più importante: il ventinovesimo canto del Paradiso, nella seconda parte del quale Dante si scaglia lungamente e veementemente contro chi pratica una teologia che, discostandosi dal nucleo profondo e schietto dell’annuncio salvifico, si perde in elucubrazioni infondate, a danno della santità del popolo di Dio7. Proseguendo nella lettura del passo in questione del terzo canto del Purgatorio, si nota che le parole di Virgilio giungono a dimostrare perché il desiderio di conoscenza dei grandi filosofi quali Platone e Aristotele sia rimasto insoddisfatto, e anzi costituisca principio di pena nella loro attuale condizione8. Il poeta spiega anche come l’incarnazione stessa debba essere considerata in tale ottica9, sebbene non sia verosimilmente possibile determinare in modo definitivo e preciso il senso dell’affermazione dantesca riguardo all’ignoranza umana come causa dell’incarnazione di Cristo;

6

Cfr. Inferno, XXVI 112-­‐142.

7

Cfr. Paradiso, XXIX 70-­‐123.

8

Cfr. Purgatorio, III 40-­‐44.

9

Cfr. Purgatorio, III 38-­‐39.


mi pare però doveroso scartare tesi interpretative troppo inclini a spiegazioni imperniate sull’intellettualismo etico. L’episodio dell’incontro dei due poeti pellegrini con l’anima di Manfredi occupa l’ultima parte del canto e contiene affermazioni di particolare rilievo riguardo all’autorità della chiesa e alla trascendenza dell’azione salvifica divina10. Proprio in questo si può rintracciare un elemento di continuità speculativa con la sezione del canto poco sopra commentata: mentre prima si affronta il tema della trascendenza dell’agire divino rispetto all’ambito gnoseologico della conoscenza umana, qui tale trascendenza è affermata rispetto a un ambito più pratico e politico, le cui coordinate fondamentali si inscrivono nel diritto ecclesiastico in senso lato:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde, dov’ e’ le trasmutò a lume spento. Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa.11

Il passo è denso di molteplici spunti teorici, nella loro generalità gravitanti, a mio parere, attorno al tema centrale sopra rinvenuto, ossia quello, costante nel canto, della trascendenza dell’azione divina. In esso trova il proprio fulcro anche l’invettiva anticlericale, sfumata in questo canto, ma molto più accesa altrove; sta proprio, infatti, nella trascendenza delle cose divine, misconosciuta spesso nei fatti dall’agire politico delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, il principio in base al quale Dante condanna radicalmente il comportamento di diversi uomini di chiesa. Il voler disporre del potere spirituale per fini politici, e quindi mondani, costituisce essenzialmente un pervertimento dell’ordine delle cose stabilito da Dio: è il mondano a dover essere subordinato al celeste, il temporale allo spirituale, e non viceversa. E questa subordinazione non si risolve in una 10

Cfr. Purgatorio, III 103-­‐145.

11

Purgatorio, III 118-­‐141.


subordinazione politica del potere temporale a quello spirituale, quanto in un ordinamento dell’agire temporale di individui e istituti al superiore ordine sovrannaturale, conformemente alla volontà divina. Nel canto terzo del Purgatorio, quindi, vengono tracciati, nell’ambito gnoseologico e del diritto ecclesiastico, problemi che riguardano una tematica più ampiamente presente e pervasiva nell’universo intellettuale dantesco: quella del riconoscimento di un ordine, che è insieme etico, metafisico e teologico, che ravvisa nella trascendenza divina il suo vertice supremo e inattingibile, come del resto è chiaramente mostrato dall’approdo mistico del viaggio ultraterreno narrato nel poema sacro.


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