Orsola

Page 1

Francesca Santucci ORSOLA Orsola brillava per il suo onesto contegno, per la sua sapienza e per la sua bellezza. J. Da Varazze, Legenda Aurea Nel Medioevo, per catturare l’attenzione dei fedeli, strumento essenziale era la predicazione; affidata soprattutto alla tecnica oratoria (efficacissima quella dei domenicani perché grandemente persuasiva), si avvaleva dell’uso di manuali di ars praedicandi e di modelli di sermones, destinati a diverse occasioni, trovando il suo culmine nell’exemplum, la narrazione di storie sorprendenti, spesso riferite all’aldilà, e di racconti leggendari e agiografici, come quelli della “Legenda Aurea” del frate domenicano Jacopo da Varazze (o Giacomo da Voragine/Varagine). L’opera, scritta tra il 1255 ed il 1266, in latino, intitolata “Legenda Sanctorum”, ma conosciuta come “Legenda Aurea” grazie alla volgarizzazione di un anonimo toscano, raccoglie circa centocinquanta vite di santi, narrate con accattivante tono narrativo ed immerse in un’aura favolistica; destinata ai religiosi, perché vi attingessero, appunto, per la predicazione, divenne, poi, fonte d’ispirazione per gli artisti, soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento. Ed è appunto da quest’opera, nel capitolo intitolato “Le undicimila vergini”, che apprendiamo del triste martirio di una principessa bretone (e del suo seguito), Orsola, personaggio in sospensione tra storia e leggenda, santa molto amata e celebrata soprattutto nel Medioevo per la sua fermezza nella fede, per l’intrepida difesa fino al martirio delle sue scelte, ispiratrice di composizioni letterarie e di numerose opere d'arte, dal pittore fiammingo Memling (1430-1494) a Carpaccio (1460 circa 1525/1526) a Tintoretto (1518 - 1594) a Caravaggio (1571 – 1610). Orsola era una bella principessa, figlia di un re cristiano della Britannia (Noto o Mauro). Oltre che bella, era onesta e sapiente e la sua fama era giunta persino al prepotente re d'Inghilterra, pagano, che la voleva come moglie per il suo figlio unigenito, pure desideroso di sposarla, ma lei, segretamente, si era consacrata al Signore. Il re, sia con tono conciliante che minaccioso, mandò molti messaggeri al padre della fanciulla che, pur temendone le ire, non voleva dare in sposa ad un pagano sua figlia, cristiana, ma Orsola, ispirata da Dio, consigliata da una visione avuta in sogno, non rifiutò il matrimonio, anzi, convinse il padre ad acconsentire, a condizione che il re d’Inghilterra le concedesse dieci vergini sceltissime per esserle di compagnia e consolazione e per accompagnarla in un devoto pellegrinaggio, che assegnasse mille vergini a lei e a ciascuna delle altre, che preparasse le navi per mandarle, che le accordasse tre anni di tempo per prepararsi alla nuova vita, e che il futuro sposo si convertisse alla fede cristiana (sperando, in cuor suo che, una volta convertito, il giovane avrebbe compreso la sua vocazione e l’avrebbe lasciata libera). Le condizioni furono accettate, il futuro sposo subito si battezzò e cominciarono i preparativi per quanto la giovane aveva chiesto. Da ogni parte della terra le vergini del seguito accorsero e si raccolsero sotto la guida di Orsola, e si radunarono anche gli uomini che dovevano scortare tutte quelle donne, persino molti vescovi, infine il variopinto corteo si mise in viaggio, varcando il mare d’Inghilterra con una flotta di undici navi, approdando ad un porto della Gallia e da lì risalendo il corso del Reno fino alla Svizzera. Orsola si concentrò nella preghiera e riuscì persino a convertire le compagne pagane, e a Colonia fu visitata dall'angelo del Signore che le annunciò che proprio in quel luogo avrebbe ricevuto la corona del martirio. Poi, sempre su indicazione dell'angelo, si mossero tutti verso Roma, dove furono accolti con grandi onori da papa Ciriaco, originario della Bretagna, che, fra le vergini al seguito di Orsola, aveva molte parenti.


Durante la notte papa Ciriaco (personaggio in realtà mai esistito) ebbe la rivelazione divina che avrebbe ricevuto, insieme a tutte le vergini, la palma del martirio e, così, dopo averle battezzate, quando fu il momento della partenza, si unì a loro, rinunciando al pontificato, suscitando il biasimo di tutti, che pensarono che fosse ammattito accodandosi a quelle “donnette pazze”, perdendo onori e favori, cancellato dalla lista del clero e disprezzato dalla corte di Roma. Intanto Massimo e Africano, capi dei soldati di Roma, vedendo crescere una gran moltitudine di fedeli, temettero che la religione cristiana potesse diffondersi troppo, allora inviarono dei messaggeri a Giulio, principe del popolo degli Unni, affinché annientasse quelle cristiane; infatti, appena giunte a Colonia, assediata dagli Unni, i barbari le assassinarono tutte in un solo giorno, ed uccisero anche papa Ciriaco ed Eterio, il promesso sposo di Orsola, che, avvertito dal Signore che a Colonia avrebbe avuto la palma del martirio insieme alla sua sposa, era corso da lei. Quando arrivò il turno di Orsola, Attila, il famigerato capo degli Unni, colpito dalla sua bellezza, promise di risparmiarle la vita se avesse acconsentito a sposarlo, ma la fanciulla rifiutò, e subì l’identica sorte delle compagne: morì trafitta da una freccia che lui stesso le scagliò. Per la storia narrata nella “Legenda Aurea” (nutrita di altri personaggi inventati, soprattutto maschili, come papa Ciriaco) Jacopo da Varazze s’ispirò ad una leggenda derivante da una Passio del X secolo, la “Fuit tempore vetusto”, che riferiva di una giovane bellissima, Orsola, figlia di un re bretone, che aveva consacrato a Dio la sua verginità ma che si era piegata alla ragion di stato, evitando una probabile guerra, accettando di sposare Eterio (Aheterius), figlio di un re pagano, con la promessa che si sarebbe convertito alla fede cristiana. Consigliata da un sogno, la giovane aveva chiesto di dilazionare di tre anni il matrimonio e la conversione del futuro sposo; trascorsi i tre anni, si era imbarcata dalla Britannia con una flotta di undici triremi con undicimila compagne, ma una tempesta aveva spinto le imbarcazioni sulla costa e poi nel fiume Waal, un ramo del delta del Reno, che avevano risalito fino a giungere a Colonia; qui, consigliata da un’altra visione, Orsola e le sue compagne si erano recate a Basilea, quindi in pellegrinaggio a piedi a Roma. Intanto Colonia era stata conquistata dagli Unni e quando, compiendo l’inverso percorso a piedi, il corteo aveva fatto ritorno a Colonia, Attila, il capo degli Unni, si era invaghito di lei, ma, al rifiuto della vergine, che voleva mantenere intatta la sua scelta di fede e castità, l’aveva trafitta con una freccia, ed anche le compagne erano state barbaramente trucidate. Dopo questo martirio, però, gli Unni erano fuggiti e la città era tornata libera. A ricordo del sacrificio delle giovani vergini, che avevano determinato la liberazione della città, i cittadini avevano fatto erigere un tempio, in seguito fatto ricostruire da papa Clemazio. Autore di questa “Passio” sarebbe, secondo alcuni, un monaco di nome Enrico di San Bertino, ma una “Passio” simile, chiamata “Regnante domino”, apparve anche nel XI secolo, con nuovi personaggi, come papa Ciriaco (sconosciuto alla storia) e nuove situazioni (come il viaggio a Colonia, compiuto pure dal pontefice per accompagnare le giovani), e di nuovi sviluppi si arricchì pure la versione della mistica Santa Elisabetta di Schönau (1128-1164), che nel suo “Liber revelationum de sacro exercito virginum Coloniensium” riferì le rivelazioni ricevute da Sant’Orsola, e cioè i dettagli del martirio, i nomi delle compagne trucidate e le vicissitudini della loro sepoltura, all’amica Hildegarda di Bingen, che scrisse le musiche per l’Ufficio e per la Messa della festa di Sant’ Orsola e delle giovani martiri. La leggenda del martirio di Orsola e delle altre vergini ha, comunque, un fondamento storico. Nell'VIII secolo, a Colonia, presso una chiesa dedicata ad alcune vergini fino ad allora sconosciute, furono ritrovate le reliquie di giovani donne e, tra i nomi femminili, era annotato anche quello di Orsola, una bambina di undici anni, in latino undecimilia, erroneamente trascritto con un piccolo segno sul numero romano XI, così da trasformare il numero delle compagne in undicimila ed originare la nascita della leggenda delle undicimila vergini (Wilhelm Levison, nel suo libro sulla leggenda di Sant’Orsola, ben spiega l’errore: Nei manoscritti il trattino posto su una lettera significa ora che bisogna prendere la lettera come un numero, ora che tale numero deve essere


moltiplicato per mille. XI, che dovevano significare undici, hanno finito per essere letti 11000),1 ma già nei martirologi del IX secolo compaiono tutti i nomi delle 11 vittime (Orsola, Marta, Saula, Brittola, Gregoria, Saturnina, Sambazia, Pannosa, Senzia, Palladia, Saturia, con le varianti di Clemenzia e Grata) e 11 sono le fiammelle presenti nello stemma della città di Colonia. E, sempre a Colonia, a poca distanza dalla Stazione Centrale, si erge, sulla Ursulaplatz, una chiesaromanica dedicata a Sant'Orsola, ricostruita nel 1106 e segnata da posteriori rimaneggiamenti gotici e barocchi; durante i lavori di ricostruzione, dopo le distruzioni della II guerra mondiale, sotto l’abside, tra le macerie, furono rinvenute le fondamenta di un’antichissima chiesa del III-IV secolo, costruita su un antico cimitero romano con una tomba–reliquario con undici loculi, che dovevano aver custodito resti umani dopo l’esumazione. Murata nel coro della chiesa, c’è un'antica epigrafe latina risalente al IV secolo, che così recita: Spinto a parecchie riprese da raggianti visioni divine e dalle virtù della grande maestà del martirio di vergini celesti, Clemazio, uomo illustre venuto dall’Oriente, ricostruì dalle fondamenta questa basilica a proprie spese, su terreno proprio, per adempiere un voto che aveva fatto. Segue, poi, l’invito a seppellire in quell'area sacra per il futuro solo vergini. Clemazio (Clematius) era un uomo di rango senatoriale di origine orientale che, giunto a Colonia, secondo le notizie date da quell'iscrizione, era stato spinto da una serie di visioni (divinis flammeis visionibus... admonitus) a ricostruire una basilica nel luogo ove alcune sante vergini avevano versato il loro sangue in nome di Cristo. Scavi archeologici hanno testimoniato che in quel perimetro preesisteva un campo cemeteriale romano e nelle vicinanze della chiesa c’era un camposanto (Ager Ursulanus) dedicato proprio alla sepoltura delle vergini menzionate nell'iscrizione, probabilmente martirizzate sotto la persecuzione di Diocleziano, attorno al 304. Clemazio, dunque, non solo rinverdì la memoria di quelle martiri, ma riedificò pure il santuario distrutto dai Franchi durante le loro razzie. A ricordare il martirio di Orsola e delle sue compagne non ci sono, comunque, soltanto la chiesa romanica edificata a Colonia, i testi letterari e religiosi (la rappresentazione sacra elaborata nel quattrocento da Castellano de‘ Castellani, la tragedia “Maeghden”, Vergini, del poeta olandese, nativo di Colonia, Joost van den Vondel, scritta nel 1639), le composizioni musicali (solo il veneziano Carlo Agostino Badia nel seicento compose ben tre oratori in onore della Santa), le varie confraternite, a partire da quella antichissima delle “Orsolashifflein” (navicelle di Orsola), sorta in Germania fra il XII e il XV secolo in onore della Santa, alla Compagnia delle Orsoline fondata da Sant’Angela Merici nel 1535, soppressa in età napoleonica e rinata nel 1864, che onorano e perpetuano la sua scelta di fede e purezza, e le innumerevoli donne che, soprattutto nel nord Europa, portano il suo nome (Ursula/ Orsola, piccola orsa/ forte) ma anche una ricca documentazione iconografica. Affreschi, busti lignei, miniature, dipinti, variamente la rappresentano, secondo almeno tre modelli; il primo è il ciclo narrativo in cui, come nei teleri di Carpaccio, viene ripercorsa la trama delle passiones, narrandone la vicenda nei vari momenti della vita (il sogno, l'incontro con papa Ciriaco, il viaggio, il martirio); il secondo modello la raffigura giovane e bella, in veste da principessa, con abiti ed attributi regali, il diadema sul capo, vessilli bianchi segnati da croci rosse, ad indicare la vera vittoria del martirio, la barca (di qui il nome delle “navicelle di sant‘Orsola“); nel terzo modello iconologico Sant’Orsola viene proposta come una Madonna, una Madre misericordiosa dispensatrice di protezione celeste, che entro il suo largo mantello avvolge non solo le vergini compagne, ma anche i devoti ed i membri delle confraternite. Simboli spesso presenti nelle rappresentazioni sono anche la freccia, la palma del martirio e la colomba bianca, che avrebbe rivelato il luogo della sua sepoltura a Colonia a San Cuniberto. Hans Memling, nella cassa Reliquiario di Sant’Orsola (1489) a forma di tempietto raffigurò su un lato la Madonna col Bambino, cui corrisponde sul lato opposto Orsola, con in mano la freccia, strumento del suo martirio, insieme alle compagne e a papa Ciriaco, riconoscibile dal triregno (che spunta da 




























































 1

Das Werden der Ursula-Legende, Köln 1928.


dietro), con a sinistra la prima storia, cioè lo sbarco a Colonia della giovane principessa con tutto il suo seguito; come secondo episodio, al centro, il pellegrinaggio verso l’Italia, poi l’arrivo in nave a Basilea e l’attraversamento delle Alpi a piedi; nel terzo episodio, a destra, c’è l’arrivo a Roma di Orsola, con il corteo accolto da papa Ciriaco che benedice la Santa; all’interno dell’edificio si celebrano il battesimo degli uomini del seguito e delle compagne. Carpaccio, attingendo alla “Legenda Aurea”, intrecciò le complicate vicende della Santa in un ciclo pittorico, conservato nella sua integrità anche se non più nella sede originaria (che pure esiste, a fianco della basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia), ricco di suggestioni e dettagli, attraverso architetture, personaggi, abiti, oggetti, immersi con sottile ambiguità in un mondo in sospensione fra storia e fiaba, in equilibrio fra realtà e fantasia, svolgendo, in una città lagunare da favola, la romantica e triste vicenda della bellissima principessa, passando da scene di toccante intimismo a scene severe, a partire dal nunzio dell’Angelo, che sorprende la Santa, dolcemente addormentata, nell’intimità della sua camera da letto per portarle non l’annuncio di una nascita ma di una prossima morte: Ecco qui un’altra annunciazione, dove la Vergine non è la Vergine, dove l’angelo porta un messaggio di morte e non di fecondità, dove il sì è latente sotto il cancello del sonno. Orsola dorme nel chiarore primo dell’aurora. Letto senza cortine, imposte inclinate, porte e finestre aperte. Gli occhi chiusi girati verso l’Est. La Leggenda aurea riporta che lei sogna. Il quadro a sua volta implica una leggenda. Sotto il cuscino, come sospesa alla sua frangia, una sferetta bianca per metà nell’ombra presenta la parola infantia.Ma non scritta tutta di seguito, bensì divisa in tre sillabe: IN-FAN-NTIA. Attraverso la ripetizione della N. Colpo di genio. Orsola è giovane, certo, ma fidanzata; non è, o non è più un’infante. Così, questa è la chiave della visione. Il sogno riguarda l’infanzia. Il sogno riguarda la parola, questa parola divisa in modo tale da dire la parola detta e l’impossibilità di dirla. IN, il negativo nell’ombra, e FAN, ciò che è pronunciato o annunciato, nella luce. Lei sogna e ritorna all’infanzia, al linguaggio e al nonlinguaggio. Esatto modo d’intendere ogni sogno. È un’annunciazione e non lo è. È un’enunciazione e non lo è.2 L’impianto del ciclo pittorico è narrativo, scandisce le fasi salienti della vicenda: l’apparizione dell’angelo; gli ambasciatori che consegnano la lettera in cui si chiede la mano della principessa per il principe ereditario inglese; Orsola che, nella propria stanza, enumera al padre le condizioni per il matrimonio (mentre la vecchia nutrice, ai piedi della scala, sembra già presagire il martirio futuro); il commiato degli ambasciatori, il loro rimpatrio, la folla dei curiosi assiepati sulle banchine che assiste alla partenza; l’incontro dei fidanzati e la partenza per il pellegrinaggio, con numerosi ritratti di persone probabilmente davvero allora esistenti (sempre in mescolanza di elementi reali e di fantasia ma anche con tocco umoristico, come la presenza di una scimmietta); l’incontro con il papa (scena particolarmente solenne per il convergere dei due cortei, le compagne di Sant’Orsola e i prelati al seguito del papa Ciriaco) verso lo spiazzo in cui incontra e benedice i fidanzati in ginocchio; l’arrivo a Colonia assediata dagli Unni; il martirio e le esequie di Sant’Orsola, con la mesta cerimonia del funerale; infine l’apoteosi della Santa. Particolarmente rilevante nell’arte, e nel suo percorso di artista e di uomo, fu l’interpretazione del martirio di Sant’Orsola offerta da Caravaggio, che rivoluzionò la pittura con un’intuizione fondamentale, la nuova dualità luce-ombra, la luce che squarcia la scena come un lampo, che irrompe come una sciabolata nella materia pittorica ed illumina anche l’angolo più buio, un volto, una ruga, un panneggio, la piega d’una veste, proprio come il divino può illuminare la vita dei 




























































 2 
M. Serres, Esthétiques sur Carpaccio, 1975.


diseredati così spesso da lui ritratti, portando nell’arte il momento preciso in cui la violenza si attua, immortalando l‘attimo esatto in cui si consuma la tragedia, narratore della violenza presentata e testimone della violenza, personalmente sperimentata, del suo tempo. E, forse, fu proprio la sua vita maledetta, irrequieta, disperata, trasgressiva fino all’assassinio, a condurlo alla rappresentazione di tanti soggetti sacri raffigurati come poveri uomini miseramente vestiti, dalle unghie sporche e dai piedi infangati, rendendolo, paradossalmente, profondamente religioso, in bisogno di cercare ed affermare la necessità della Grazia nella vita del peccatore e la presenza del divino nel ceto più umile. E, curiosamente, è da un pittore vissuto così ai margini, tanto lontano dalla Fede, che ritroviamo anche la più significativa espressione pittorica della presenza di Dio, attraverso vere e proprie istantanee della Storia del Cristianesimo. Nel “Martirio di Sant’Orsola”, opera estrema, collocata fra le ultime di Caravaggio, probabilmente l’ultima in assoluto (in cui è presente anche il suo autoritratto), dipinta a Napoli due mesi prima della morte, nella tarda primavera del 1610, per il principe Marcantonio Doria, figlio del doge Agostino (“Sant'Orsola confitta dal tiranno“, appare intitolato il quadro nel 1620 in un inventario dei beni di Casa Doria), come sempre ignorò ogni precedente iconografia del tema, presentando i personaggi, in coinvolgimento emotivo totale di protagonisti, autore e spettatore, insolitamente ravvicinati fra loro e verso l’osservatore, come a volerlo rendere partecipe in prima persona del tragico accadimento, interessato, mai con tanta evidenza come in questo suo ultimo dipinto, a fissare il momento conclusivo della storia offerta, l‘attimo d‘eternità. Nel dipinto (in cui un intenso raggio di luce che arriva da sinistra a destra della tela, ripercorrendo la stessa traiettoria della freccia scoccata, evidenzia suggestivamente e drammaticamente gli elementi essenziali della scena, ponendo in collegamento i due gruppi dipinti nel quadro, il tiranno da un lato e la Santa con i soldati dall’altro), contro lo sfondo scuro, attraversato da lunghi tocchi di luce e colore, in cui le uniche due figure a essere rilevate con il rosso sono i due protagonisti (lui in forte opposizione alla giovane donna per il gesto evidenziato e l’espressione accentuata), risalta, per il variare dell’incarnato in luce, Sant’Orsola che, a testa bassa, guarda la ferita contro cui tiene giunte le mani; il volto pallido, in contrasto con il sangue rosso vivo che sprizza dal suo petto, non tradisce alcuna espressione di dolore, solo rassegnata consapevole lucidità del martirio. Sant’Orsola è presentata nel momento esatto in cui è stata colpita dalla freccia scagliata dal feroce capo dei barbari, che ancora tiene la mano sulla corda dell’arco dal quale l’ha appena scoccata. Il volto della giovane ha impresso lo stupore, non il dolore e la morte che ancora devono giungere: è il ritratto dell’esatto momento in cui la tragedia si compie. Questa tela, in cui apparentemente quasi non esiste lo spazio, dato dal movimento del tiranno che scocca la freccia (nella realtà sarebbe stato impossibile scagliare il colpo mortale a distanza così ravvicinata), dalla donna ferita, dalla mano di un uomo che cerca di bloccare il dardo senza riuscirci (perché nemmeno un gesto compassionevole può fermare il destino, nemmeno l‘amore può fermare la morte), costituì l’approdo finale di un lungo tragitto espressivo che aveva condotto Caravaggio ad allontanarsi dall’esplosione della violenza, come quella del dipinto “La decapitazione di Oloferne” (1597-1600), in cui aveva spinto ogni elemento della composizione all’eccesso (un viaggiatore inglese, nel 1779, guardando la tela che raffigurava la scena biblica, disse di provare un disagio che si poteva avvertire soltanto di fronte ad una vera esecuzione) o come quella del “Martirio di San Matteo” (1600- 1601), a favore di una narrazione che privilegiava l‘essenzialità. Infine interessò a Caravaggio dipingere non i suoi risultati ma l’atto mentre si avvera, isolandone la sofferenza e la morte in esaltazione della drammaticità dell’evento, concentrandola nel rapporto esclusivo fra la vittima e il carnefice, in sentita partecipazione della lotta fra bene e male, fra persecutori e vittime, schierato, come sempre, dalla parte degli oppressi, in appassionata difesa della libertà individuale. (Francesca Santucci, “Virgo virago”, Akkuaria, 2008, estratto)


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.