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LETTERE Lorenzo Valentino Presentazione
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Presentazione
LORENZO VALENTINO
Gallerista, pubblicista, saggista
Milano città dentro.
In continuità col progetto Dialoghi di Milano, realizzato nel 2018-19 e ispirato all’idea platonica del “Bene e del Bello”, intendiamo qui presentare un corpo di lettere dedicate alla polis di Milano, scritte da personalità rappresentative dei diversi ambiti professionali. Il carattere dei loro interventi, nella specificità del linguaggio differenziato per sensibilità, visione e gruppo di appartenenza, getterà nuova luce sul “non ancora detto” che la città dissimula nella sua corale essenza di grande madre accogliente. La scelta degli autori non ha seguito criteri propriamente oggettivi, pertanto la platea delle voci narranti, pur se qualificate nel loro genere, non può dirsi esaustiva del principio di rappresentatività.
In questa raccolta di lettere la città viene presentata con accenti per nulla apocalittici, nonostante la crisi pandemica; la sua voce è singolare plurale: ironica, appassionata, fatalista, malinconica, intraprendente, profetica, camaleontica, umanissima, ecc. Segni personali, indicativi di una condizione, di uno status esistenziale in dialogo con altre parti sensibili, coralmente impegnati a produrre un universo di senso che non tradisce lo spirito di una narrazione condivisa: è il fascino paradigmatico della “scrittura collettiva”. Una letteratura di destini temporalmente determinata che esemplifica la storia complessa della polis coniugata al presente.
È la Milano dei quartieri, dai contorni spazialmente estesi e punteggiati da intime suggestioni, legate in parte al paesaggio interiore dei ricordi. Periferie brulicanti di vita, sempre in movimento, colorate di umanità ma prive di una propria connotazione identitaria in contrapposizione al centro urbano oramai disamorato della socialità. Questa frattura socialmente non commisurata impone l’urgenza di un centro abitativo dialogante con le periferie a raggio crescente, per raccogliere suggestioni e sfide capaci di contenere le spinte centrifughe e produrre decisioni, senza esclusione dell’altro, nel processo di rigenerazione urbana. È la Milano che s’immedesima organicamente con i propri luoghi simbolo: il conservatorio Giuseppe Verdi, sede di sperimentazione musicale e relazioni sinergiche con la poesia, la pittura e l’architettura; l’Accademia di Brera, cuore artistico della città; la magia di San Siro e le nuove torri, che hanno ridisegnato lo skyline di Milano del terzo millennio, con il “torracchione” della Velasca come contraltare.
Milano scrigno che serba preziose testimonianze di scrittura; traccia esteriore che oggettiva la fisicità dell’esistenza (volti, ambienti, organismi pulsanti) e, al contempo, segno di ri-memorazione interiore che accresce potentemente la sua presenza creativa per il tramite di forze socialmente orientate. Compresenza di energie produttive che aprono l’orizzonte sociale alle relazioni di senso e arricchiscono la sfera del linguaggio urbano nelle sue molteplici manifestazioni espressive. Eccedenza ideativa che la città indossa come naturale foggia culturale. L’invisibilità di questo Bene, sottratto alla forma dell’entità, crea una struttura di plusvalenze che il corpo cittadino dissimula come supplemento sostituito all’originaria forza collettiva assente, col risultato che la differenza appare, nel sistema delle significazioni, come ciò che rimane sempre al di là dell’immanenza visibile.
In conclusione, quest’opera collettiva di scrittura si è svolta secondo una linea plurale di intersezione narrativa che nella sua circolarità ha reso possibile manifestare l’intima trascendenza del volto cittadino, aperto alla finitezza dell’altro, nella prossimità complice di una parola etica che ha accolto le differenti testimonianze riferendole a un contesto di verità storicamente determinato.
Un grazie di cuore ai relatori che hanno partecipato di persona al progetto Dialoghi di Milano, all’artista Marina Previtali e ai suoi lavori sulla complessa e stratificata realtà cittadina, ai singoli autori richiamati dalla fascinazione di scrivere una “Lettera a Milano” e agli editori, nelle figure poliedriche e lungimiranti di Vera Minazzi e Sante Bagnoli.
A fronte: Torre Velasca, Milano, 2017, olio su tela, 151×111 cm.
Lucciole milanesi
MONICA COLPI
Astrofisica
A Milano la luna sorge sopra i profili dei palazzi, a volte opaca a volte brillante, a spicchio o a palla. Mancano invece le stelle: nulla che mi permetta di percepire dalla città la mia appartenenza al cosmo. Ma in questi giorni di lockdown, gironzolando verso sera e nei dintorni di casa è diventato un gioco osservare le tante finestre illuminate. Sono le mie lucciole milanesi che raccontano storie di casa. Amo la loro luce calda perché circondata dal buio delle strade come lo sono le stelle immerse nel buio cosmico. La luce di tutte queste lucciole si diffonde nel cielo che si tinge di chiaro e le stelle diventano pallide al punto di svanire.
Eppure vi è un luogo, o meglio vi era un luogo, nella mia giovinezza, dal quale si poteva osservare il cielo, ma da una prospettiva diversa. Lo avevamo chiamato, Gabriele e io, kfa, ovvero il Kapannino For Astrophysics per emulare con un pizzico di ironia il Center For Astrophysics (cfa) di Harvard, scambiando una C con una K per evitare erronee e troppo fantasiose associazioni. Il kfa era una palazzina prefabbricata a due piani che si trovava nel cortile del Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano, in via Celoria. Agli inizi fungeva da deposito per la strumentazione dismessa dai laboratori. Ma nel tempo fu trasformata in kfa, ovvero nel centro studi di Astrofisica di Milano! Mi consideravo fortunata: stavo al primo piano perché i teorici stavano lì. Davvero molto fortunata perché il piano terra occupato dagli sperimentali era ancora più triste. In inverno faceva freddo nel mio piccolo ufficio. La finestra di ferro non si chiudeva bene e nelle rare giornate di vento si spalancava senza avvertirmi. Avevo cercato di arredarlo con un minimo di cura rubando alcuni fascicolatori color beige che stavano al piano terra e scambiandoli con quelli color grigio-ferro disseminati un po’ ovunque. Li avevo posti ai lati di una scrivania beige e sopra c’era un bellissimo cubo, il Macintosh 128K. Alle pareti, una stampa di Miró – L’oro dell’azzurro – con i colori del cielo e delle stelle portava allegria. Avevamo al primo piano una biblioteca tutta per noi, grigia e con le ante a scorrimento di vetro impolverate, zeppa di volumi di The Astrophysical Journal, la rivista più prestigiosa che arrivava puntualmente ogni mese insieme a Nature. Ogni tanto passava a trovarci Beppo Occhialini. Aveva scoperto insieme a Patrick M.S. Blackett e in seguito con Cecil Frank Powell il positrone e mesone π, particelle che gironzolano fra i raggi cosmici la cui scoperta è stata fondamentale per risalire alla natura delle interazioni forte e debole che danno luce alle stelle. Due scoperte da Nobel ma solo per Blackett e Powell perché Beppo aveva sempre sofferto del clima creato dal regime fascista e in seguito sostenuto idee di sinistra, molto di sinistra, ed era il tempo della Guerra fredda. Beppo era un signore piccolo e un po’ curvo, dallo sguardo penetrante e dall’intelligenza acuta, raffinata, pungente. Veniva a trovare Laura e Aldo, i miei mentori. Noi eravamo i piccoli appartenenti alla terza generazione e lo temevamo moltissimo per paura di essere smascherati dal grande fisico, quale Beppo era. In questo luogo, Gabriele, Alberto, Franca e io, insieme a molti altri amici di avventura, stavamo benone perché studiavamo, pensavamo al cielo per ore e ore e lavoravamo con passione ed entusiasmo. Il tempo delle grandi scoperte – dei quasar, delle pulsar e della radiazione cosmica di fondo – era passato ma c’era comunque ogni giorno una scoperta inattesa. Il mio compito era quello di trovare un nuovo processo fisico per fare emettere più luce ai buchi neri super-massicci immersi fra le polveri interstellari delle grandi galassie. Gabriele, invece, doveva indagare la natura di quei getti di luce potentissimi emessi da alcuni quasar e Alberto, che veniva da Pavia, doveva capire se le galassie, nell’atto di collidere e accoppiarsi, avessero trascinato al loro centro buchi neri per farli diventare sorgenti di onde ancora da scoprire: le onde della tessitura dello spaziotempo. Poi c’era Peppo, il Peppo con la P che ci calava nella realtà astronomica facendoci vedere le bellissime fotografie in bianco e nero dell’ammasso di galassie nella costellazione della Vergine, prese con il telescopio di Monte Palomar. Peppo provava una profonda sensazione di bellezza nel vedere tutte quelle galassie, bellezza che trasmetteva a tutti noi, incantati dalle loro forme così eleganti. Imparavamo da lui il mestiere di osservare da remoto il cielo, raccogliendo i dati che venivano dai grandi telescopi. Cresceva in noi il sentimento, intenso, di appartenenza al cosmo, costellato da centinaia di miliardi di galassie con le loro stelle e i loro pianeti. Anche Foglia, il cane di Peppo, tutto nero, magrino e simpaticissimo sembrava partecipare al gioco: era il nostro cane astronomo! Insomma, il kfa era la nostra piccola casa, la casa delle idee e del cielo altrimenti invisibile. Oggi il kfa non c’è più. Al suo posto si trova un edificio altissimo: ospita il nuovo Dipartimento di Scienze dell’Informazione e io sono andata via. Ma il kfa è stato sicuramente un luogo del cuore e tutto milanese.
Milano è una città che ha un suo fascino nascosto: i chiostri interni di alcuni palazzi e le sue chiese romaniche dall’eleganza sobria. Quando vivevo negli Stati Uniti, a Cornell, mi mancavano molto questi luoghi del silenzio. Mi mancava il soffermarmi per alcuni minuti, come faccio spesso anche oggi, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, alla ricerca della quiete. Ma forse il luogo di Milano che ho amato di più è stato uno studio di via Leopardi. Lì ogni giorno, per molti anni, un signore elegante con il suo farfallino e il sorriso dolce e insieme ironico andava al lavoro: lo zio Fausto, o meglio Tato – scultore. Spesso veniva a trovare la nonna a Rovereto ed era gran festa quando arrivava perché portava aria di città e non solo. Papà con la sua Lancia Flavia ci portava qualche volta a Milano per andare a trovare gli zii Melotti e Pollini. Ero piccola e ricordo che questo studio, un vero studio d’artista, era zeppo di fili che volavano leggeri, piume, palline, campanelle, spicchi di luna e pendoli che oscillavano su e giù. A volte lo zio li componeva per creare contrappunti musicali così che mille suoni potessero echeggiare fra i vuoti e i pieni di una narrazione scultorea vibrante, lieve e leggera, dove regnava l’armonia. A volte, invece, li combinava per creare storie dal sapore greco come “Orfeo dimentico”, “Pasiphae e il Minotauro”, “Il canto di Femio”. Poesia. A volte immaginava universi geometrici dove ellissi, le ellissi di Keplero, creavano giochi d’ombra. Ho visto una luna in viaggio su un carro dialogare in allegria con triangoli e cerchi o cullarsi in cielo sopra le dune arancio del deserto. Più in là, un Sole guardava con sguardo benevolo la Terra racchiusa in una scatola, quasi volesse trattenerla a sé per l’eternità affinché non potesse vagare errabonda fra le stelle del cosmo. Un filo verticale sosteneva una retta anch’essa filiforme che terminava con un ricciolo: lo zio Tato aveva chiamato questa scultura Scultura C (infinito), come se volesse imbrigliare l’infinito che scivola lungo una linea avvoltolan-
dolo all’insù: un sottile gioco fra convergenze e divergenze. Ma spostando lo sguardo verso il fondo, lo studio si era trasformato in un luogo dove dimorava la sola geometria, una geometria nuda. Poi, sparsi qua e là si trovavano vasi giganti dai colori stupefacenti che potevi abbracciare, vasi a forma di gallo o di luna, korai, visi stilizzati di donne avvolti in drappi dalla forma barocca e piccole sculture, cavallini e cavalieri di reminiscenza minoica. Era un vero incanto, come era dolce il sentirmi coccolata da uno zio, uno zio sapiente che sapeva essere fanciullo. Milano cara, mi hai regalato due luoghi del cuore. Oggi sei una lucciola immersa in un mondo interconnesso e aggrovigliato, serbatoio di infinite storie, mondo che curiosamente si può esplorare anche restando a casa. Vi è infatti un luogo un po’ speciale, un quai Branly in miniatura che con il pensiero mi porta verso Oriente in terre lontane dove Apsaras danzano sulle pareti dei templi dalle geometrie bizzarre, immerse in una natura fiabesca. È un interno di via Melchiorre Gioia dove si trova un signore gentile di nome Mario, viaggiatore e mercante. Era appena arrivato da Bali un grande baule zeppo di cose, quando mi chiamò, e fra quelle cose si trovava un vero, antico teatro delle ombre – wayang kulit — dove principi dai nomi stravaganti e guerrieri valorosi narrano storie millenarie arrivate sulle sponde dell’isola di Java dall’India antica. Raccontano di come Rama, settimo avatara di Vispu, protettore del Dharma, dell’ordine cosmico che sostiene il mondo, avesse lottato contro il crudele Ravana per liberare Sita, la sposa, con l’aiuto di un esercito di scimmie! Un’epopea fantasiosa della lotta fra il male e il bene, fra armonia presente nell’universo e caos nefasto. Il fatto curioso è che questo teatro delle ombre si trova oggi nella mia casa e che una lucciola può rivelare a chi osa o desidera sbirciare dentro: Duryodhana, Déwa Ruci… insieme a Gadyon l’elefante, Garuda l’uccello e Macon la tigre a occhi di sogliola vi accolgono danzando al suono di gamelan per portarvi in terre lontane.In questi giorni un po’ strani, gironzolando per la città continuo a cercare lucciole con il naso all’insù, guardando il Dritto, lo Storto e il Curvo. Alle luci del tramonto, le Tre Torri, bellissime, si tingono di arancione e blu, si intravedono le luci di mille lampadari dei palazzi intorno e si sente il suono dell’acqua delle fontane. Il Dritto, lo Storto e il Curvo come ogni torre invitano ad alzare lo sguardo verso il futuro, incerto come lo è sempre stato. Respiri il vento nuovo, il soffio di una rinascita, di una Fenice che dalle ceneri di una pandemia ricostruisce il mondo, oggi lacerato da profonde diseguaglianze e che corre veloce più dei nostri pensieri. C’è spazio attorno alle Tre Torri e così si vede spesso lo spicchio di Luna sorgere ai bordi dell’orizzonte cittadino, la grande lucciola che mi proietta nel futuro. Chissà, forse ci saranno lampare anche lassù e storie di casa quando l’uomo costruirà le prime capanne spaziali. Mi specchio nella Luna e vedo una Milano capace di reinventarsi, partecipando alle sfide che il pianeta Terra, puntino blu nel cosmo immenso, continuerà a presentarci. Mi hai accolto quarant’anni fa, non venivo da lontano – sono di Como – e non avevo la valigia di cartone. Avevo però un sogno e una certezza: i sogni si realizzano a Milano.
Ne avevo avuto la prova qualche anno prima quando – appena ragazzo – battevo le piste di atletica inseguendo il sogno di diventare un campione. E fu una sera di giugno del 1973 che all’esordio sulla storica e magica pista dell’Arena ottenni il tempo minimo per accedere ai campionati italiani prima e alla Nazionale poi. Lo ritenni un segno del destino e trovai quindi automatico tornare a Milano quando, anni dopo, il sogno del campione di atletica lasciò il posto a quello del giornalista.
Non conoscevo Milano e non potendo, per motivi economici, scegliere dove accamparmi mi lasciai scegliere, di questa città ci si può fidare. Mi scelse il mondo di piazzale Loreto e dintorni, via Porpora e quella via Uberti dove entrai con il mio grande amore in un bilocale di quaranta metri quadrati che mi sembravano una reggia. A due passi c’era il luogo – piazzale Loreto – dove la storia aveva lasciato un paio di segni indelebili; poco più avanti, in direzione opposta, dopo Casoretto, la stazione di Lambrate ogni giorno scaricava quel poco che restava della classe operaia del vecchio quartiere industriale. Porpora e Uberti erano una casba umana e architettonica. Ricordo i palazzotti a due o tre piani, una volta ricche residenze fuori porta della nascente borghesia, poi alberghetti a una stella dove consumare mezz’ora d’amore a pagamento; ricordo i palazzi monumentali di inizio Novecento incastonati tra orribili ecomostri degli anni Cinquanta e Sessanta. A occhio nudo, camminando per strada, avrei saputo dire chi abitasse nei primi e chi nei secondi, tanto uomini e donne, in quegli anni di trasformazione sociale, si adeguavano nel loro vestire e incedere all’architettura che abitavano.
E poi le botteghe e le trattorie, che già stavano scomparendo da un centro pronto in rampa di lancio destinazione “Milano da bere”. E poi quelle prostitute gentili sotto casa che se invece di chiamare i vigili, come facevano regolarmente alcune vecchie beghine, le salutavi con un sorriso ti tenevano libero il posto auto quando la sera rincasavi sul tardi. «Sei andato a Milano per fare carriera e ti ritrovi con le prostitute», diceva inorridita mia madre; «Signora, beato lui», le ribattevano col sorriso i miei amici comaschi presenti alla scena.
Questa è stata la mia prima Milano, ne sono seguite altre più belle e prestigiose. Ma il primo quartiere è come la prima donna, il primo amore: dà emozioni irripetibili e ricordi profondi. Forse, come cantato da Roberto Vecchioni con la sua Luci a San Siro, non rimpiango Loreto ma solo i miei vent’anni: «Milano scusa, stavo scherzando…». O forse no, non c’è nulla su cui scherzare. Ora che l’ascensore sociale mi ha portato ai piani alti della città mi chiedo se l’attico sia davvero l’habitat che cercavo o se invece abbia più senso stare in luoghi a me più naturali.
Cara Milano
ALESSANDRO SALLUSTI
Giornalista, scrittore