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Alessandro Mendini Di Milano mi interessa più la rappresentazione che la realtà

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Carlo Sini Milano

Carlo Sini Milano

Vergine, con la sua serena tranquillità e con una punta di concentrata serietà, imponga alle figure circostanti un controllo sui gesti e sulle espressioni, mentre i personaggi che si trovano ai lati appaiono progressivamente più animati man mano che ci si allontana dal centro della scena. In questa Madonna mi pare che si possano riconoscere motivi desunti da Dürer, così come nella rallentata gestualità, nel ritmo calmo e meditato dei tre Magi e di san Giuseppe. Queste considerazioni farebbero proporre un’esecuzione tedesca per questa scultura. In tal caso, penso che si debba fissare l’esecuzione entro il 1528, autentico annus horribilis per l’arte tedesca, che segna la fine della grande stagione del rinascimento teutonico e dell’esecuzione di altari lignei. Nell’area milanese esiste un solo altare ligneo tardogotico paragonabile a quello di San Nazaro: il polittico proveniente dalla chiesa parrocchiale di Annone Brianza, opera di una bottega di intagliatori anversesi, depositato presso il Museo Diocesano, completo in ogni sua parte ma realizzato alcuni decenni più tardi rispetto al presepio di San Nazaro.

E così, tra Porta Romana e Porta Ticinese, ricomincia il nostro giro alla scoperta delle antiche origini del “Natale a Milano” e della festa dei Magi.

Comporre Milano

MAURIZIO CUCCHI - FILIPPO DEL CORNO - GIACOMO MANZONI

MAURIZIO CUCCHI Poeta

Uno dei mali più gravi del nostro tempo è l’analfabetismo: si pensa che chiunque possa esprimersi senza prima aver acquisito le competenze linguistiche necessarie. Sul piano della musica, e della musica leggera in particolare, la cosa appare più evidente. Il confronto tra una qualsiasi partitura di Cole Porter o del nostro Giovanni Danzi con una di quelle più diffuse tra i giovani, evidenzia la scarsa qualità di queste ultime: una marmellata linguistica con rime da Corriere dei Piccoli e con un accompagnamento musicale non coerente. La definizione “pop” alla musica leggera rinvia all’aggettivo “popular” ma la creatività del popolo una volta sapeva inventare cose mirabili nel campo della musica. Si trattava di un’elaborazione continua avvenuta nei secoli partendo dal basso, senza coinvolgere gli intellettuali; oggi, invece, avviene il contrario: il popolo subisce quello che i mass media gli impongono sulla base di preordinate strategie commerciali. Nella trasmissione di una cultura anche popolare, la formazione del gusto è invece fondamentale. Oggi ci si abitua a un livello estetico sempre più scadente in cui si scambia la semplice espressione delle proprie emozioni con la poesia, senza prima aver acquisito le competenze più elementari del linguaggio che una tradizione creatrice ha elaborato e affinato nel tempo. È triste vedere come non solo ci si arrenda a tale scadimento ma che anche lo si trasformi consapevolmente in moda, per raggiungere settori sempre più ampi del pubblico, in una sorta di circolo vizioso deteriore. Il successo di pubblico non è certamente connesso alla scarsa qualità di un’opera come dimostrano i capolavori musicali del secolo xix, ampiamente diffusi tra il popolo. Il mercato di oggi, tuttavia, indirizza l’interesse del pubblico su prodotti puramente commerciali, venduti come arte. Domina un conformismo generalizzato in cui ci si crede originali, indossando la stessa divisa preconfezionata e si scambiano dilettanti quasi analfabeti per autentici poeti.

FILIPPO DEL CORNO Assessore alla cultura di Milano

Sul piano culturale, nella distinzione tra apocalittici e integrati proposta da Umberto Eco, mi colloco personalmente tra questi ultimi. La mia argomentazione si articola su tre livelli, l’ultimo dei quali tocca il tema di Milano, oggetto della nostra comune riflessione. Il primo livello riguarda la distinzione e la gerarchia tra generi, fondamentale nella storia delle arti. Già il compositore e teorico Paolo Castaldi, affermava che l’espressione “musica leggera” non gli piaceva perché supponeva una musica “pesante”, che era il campo del suo lavoro artistico. Preferiva invece dividere la musica tra composizioni scritte secondo il gusto dell’autore da quelle elaborate secondo il gusto di chi la ascolta.

Un’opera d’arte è tale quando esprime un pensiero e un linguaggio autonomi dal giudizio che ne verrà dato in seguito, in quanto espressione del punto di vista originale del suo autore; qui si collocherebbe il discrimine che distingue una creazione artistica “alta” da una commerciale. Al contrario, un’opera composta astraendo da una specifica volontà espressiva del suo autore ma tenendo conto di chi la ascolterà è un prodotto d’uso destinato espressamente a un pubblico. Si eviterebbe così la contrapposizione gerarchica che stabilisce la superiorità di certi linguaggi rispetto ad altri e si potrebbe adottare quello sguardo plurale che permette un maggiore equilibrio nella valutazione, lasciando anche alla storia il compito di selezionare il meglio della produzione in una prospettiva di lunga durata. Dell’imponente produzione delle tragedie greche in realtà ci è rimasto solo un florilegio di Eschilo, Sofocle ed Euripide; non conosciamo gli altri testi che costituivano il contesto in cui è emerso il valore dei più grandi tragici. La storia qui ha avuto la funzione di selezionare le opere ritenute qualitativamente migliori.

Oggi ci lamentiamo che il panorama artistico è affollato di prodotti di scarsa qualità ma occorre ricordare che questa produzione non è stata ancora sottoposta al vaglio della storia. La seconda parte della mia argomentazione verte sul riconoscimento che la molteplicità dei linguaggi costituisce una ricchezza straordinaria da salvaguardare il più possibile; essa ci mette in relazione con una grande varietà di linguaggi e di opere d’arte. Oggi possiamo avvalerci liberamente di una vasta gamma di codici espressivi in modo dialettico e costruttivo, pur con il rischio di incorrere in una certa saturazione degli stimoli. In tal senso, si comprende l’importanza di un percorso di formazione che fornisca adeguati strumenti di orientamento attraverso i quali avvicinare i linguaggi più diversi con scelte consapevoli e responsabili. In tal direzione la scuola italiana dovrebbe liberarsi di una visione nozionistica delle conoscenze, e fornire invece strumenti di comprensione critica della realtà in rapporto alla storia del pensiero e delle arti; da questo punto di vista l’espulsione della musica dal quadro dei saperi scolastici è particolarmente grave. Inoltre, andrebbe rivisto il sospetto che grava sul successo commerciale di un’opera d’arte. Si pensi a che cosa rappresentava l’esperienza teatrale di William Shakespeare dal punto di vista dei consumi culturali dell’epoca: lo scrittore si comportava nella creazione quotidiana del proprio repertorio come un autore che oggi definiremmo di blockbuster. Doveva assumersi il rischio d’impresa per sostenere il teatro Globe e per questo il rapporto con il suo pubblico non era non molto diverso da quello intrattenuto dai creatori di successi cinematografici commerciali con il loro. Non sempre il successo commerciale è indice di scarsa qualità dell’opera d’arte. Il terzo livello del mio discorso riguarda la città di Milano delle cui politiche culturali sono in parte responsabile dal 2013. Qui il principio dell’incoraggiamento della molteplicità di esperienze artistiche si rivela particolarmente fecondo. L’esperienza dei Pomeriggi Musicali diretti da Luciano Berio e da Bruno Maderna che in passato ha permesso di aggiornare il pubblico italiano sulle novità della musica contemporanea rivive anche oggi con i concerti di Milano Musica e con la programmazione del Divertimento Ensemble o dell’Ensemble Sentieri Selvaggi. Senza dimenticare gli straordinari interpreti che recentemente hanno eseguito in prima assoluta Finale di partita di György Kurtág. Certo è vero che l’industria del consumo usa strumenti sempre più invasivi che impongono al pubblico prodotti di qualità a volte deteriore, realizzati secondo il gusto di chi è destinato a recepirli. Tuttavia, si tratta di un fenomeno ricorrente nella storia e che oggi appare più negativo per l’invadenza di un sistema mediatico pronto a sollecitare consumi con una imponente dotazione tecnologica. Non tutto ciò che l’industria propone è però costruito per soddisfare bisogni elementari di consumo: la musica rap ad esempio riflette in modo significativo il disagio delle generazioni più giovani; suggerisce ai suoi fruitori un’identificazione che ha una profondità ben più ampia di quella promossa da un consumo indotto, anche grazie a una vena autoriale evidente.

In conclusione, il nostro tempo si caratterizza per una pluralità dei linguaggi artistici che suggerisce un giudizio articolato e non scontato sull’arte contemporanea, basato sulla constatazione che lo sviluppo tecnologico inarrestabile amplierà ancora di più la possibilità di moltiplicare sia i codici espressivi sia gli strumenti per comprenderli. Il compito di una persona di cultura è allora capire e dominare l’epoca contemporanea e le sue espressioni, e non subirle e demonizzarle.

GIACOMO MANZONI Compositore

Milano ha una millenaria storia musicale; in questa occasione mi preme soffermarmi in particolare sul Novecento, secolo in cui ho vissuto più di metà della mia vita. La città è stata un centro di grande importanza musicale, non solo aggiornata alle novità internazionali ma anche capace di contributi originali. A cominciare dal Futurismo, ben rappresentato da Luigi Russolo che, pur non essendo milanese, lavorò a Milano introducendo – ben prima di John Cage – l’idea che la musica potesse essere fatta con i rumori della vita e non con suoni musicali; egli inventò i famosi intonarumori. Le sue innovazioni suscitarono l’interesse di Stravinskij e di altri musicisti che eseguirono suoi concerti anche in Francia, in Germania. Nel 1948, poi, a Milano si tenne un celebre congresso di musica dodecafonica che sollecitò le istituzioni musicali, per esempio i Pomeriggi Musicali, a eseguire musica contemporanea, discretamente messa in repertorio accanto ad autori classici. Per noi giovani costituì un punto di riferimento grazie al quale potemmo apprezzare Hindemith, Schönberg, Webern. In seguito, l’Orchestra della Rai fece conoscere al pubblico milanese musica contemporanea, anche la meno nota. Inoltre, si può ricordare come Milano sia stata la culla della musica elettronica in Italia, quando nel 1955 Berio e Maderna fondarono lo studio di fonologia. La sede in corso Sempione era frequentata da chi, come noi, era interessato alle sperimentazioni: dopo cena vi si potevano vedere al lavoro Berio, Maderna, Stockhausen, Castiglioni, Clementi e imparare da loro. Naturalmente anche La Scala fu molto attenta alla musica contemporanea. Durante la gestione di Antonio Ghiringhelli, fino al 1973, non mancarono nella programmazione non solo Alban Berg, Schönberg, Stravinskij, Prokoviev, Hindemith, ma anche Nono e Berio. Per quanto riguarda la musica popolare, richiamata da Cucchi, va notato che in quegli anni essa assumeva forme che potevano eccellere e rimanere così nel repertorio storico-culturale; poi fu schiacciata dal predominio dei mezzi di comunicazione di massa. Si può dire che la stessa musica colta fioriva su un sostrato popolare: i canti della mala milanese approdavano al Piccolo Teatro grazie alle rielaborazioni di Strehler, Gaber, Dario Fo, Mina che ne valorizzarono originalità e inventiva. Perciò non è escluso che anche oggi la sensibilità musicale popolare possa esprimersi nella produzione di musicisti acclamati dai media. Il mio intervento termina con due perorazioni. La prima riprende

l’accorato invito di Cucchi e Del Corno a promuovere la formazione musicale della cui importanza mi sono reso conto anni fa, quando in metropolitana ho sentito un adolescente chiedere a un coetaneo chi mai fosse tale Johann Sebastian Bach, storpiandone peraltro il nome. La seconda è un mio chiodo fisso, e chiede la realizzazione di una grande mostra sulla storia della musica a Milano, dal Canto ambrosiano alle esperienze sperimentali degli ultimi anni del Novecento. Lo dico con un filo di imbarazzo perché non c’è oggi una istituzione stabile a Milano che con continuità proponga la musica contemporanea. Le pur nobili iniziative in questo campo sono in realtà poca cosa in confronto con quanto si fa nel resto d’Europa. Come compositore, mi rammarico che nessuno si sia preoccupato di ovviare al criminoso scioglimento dell’Orchestra Rai nel 1992. Mi sembra quasi un’umiliazione per la nostra città che uno dei maggiori centri di Europa non abbia un complesso stabile con orchestra e coro – a parte La Scala. Spero che gli amministratori locali possano presto ridare alla musica quel posto che merita a Milano, iniziando magari proprio dall’allestimento di questa mostra che invano propongo a politici e personaggi della cultura, senza sortire purtroppo alcun effetto.

Comicità e opera

ENRICO BERUSCHI - ROBERTO BRIVIO

ENRICO BERUSCHI Comico

L’altro giorno raccontavo a mia nipote dello sfollamento a Milano durante la guerra, non avevo ancora 4 anni e abitavo in via Tibaldi. Su dei carri carichi di mobili la gente partiva per la campagna per evitare i bombardamenti. Io andavo invece nella casa dei miei nonni, tutti i giorni, finché non l’hanno demolita per fare spazio a una nuova costruzione… Racconto queste cose di Milano perché trovo sia utile per i giovani conoscere com’era la città subito dopo la guerra. Un disastro unico, chiese, case, sventrate, strade squassate, piene di polvere. Si respirava nell’aria odore di polvere da sparo per quante bombe erano state lanciate su Milano. C’era tanta miseria in giro che sembrava di stare ai tempi grigi dei Promessi Sposi. Eppure nel ricordo di quei terribili momenti mi vedo giovane, con tanta voglia di vivere e di ricominciare.

ROBERTO BRIVIO Attore, regista, drammaturgo

Contrariamente a Beruschi ho 60 anni di teatro alle spalle. Ho iniziato nel ’59. Beruschi ha citato i Promessi Sposi, io ho sostenuto un esame per passare dalla Cattolica alla Bocconi, superandolo brillantemente per aver parlato di come Manzoni sia stato tradotto in teatro. Il Ghislanzoni scrive: «Fra due catene di continui monti serpeggiando selva di come il lago, di limpido rumor perenne fonti, in esso come splender lucente riflettono l’imago (???)». Citando questi versi, che nessuno conosceva, sono riuscito a superare l’esame.

Quali teatri ho aperto a Milano? Il Refettorio, il Cabaret in San Maurilio. Al Refettorio ho fatto delle cose fantastiche a inizio anni ’70, inaugurando i cabaret letterari. Allora era difficile. Come quando ho portato in giro per l’Italia i canti goliardici, i canti più sporchi che si possono trovare nelle canzoni popolari. Sono canzoncine rifatte che parlano di sesso. Portavo in giro la mia compagnia con gli attori che indossavano magliette bianche con scritto “pene al pene”. Quando vado in tournée porto sempre in tasca dei proverbi milanesi. Il napoletano è simpaticissimo, il romano è duro, il siciliano è meno comprensibile, il veneto corre, ma il milanese ha un humus particolare. È lapidario e ogni parola ha il sale dell’umorismo. Mi sono reso conto che col passare degli anni non riesco più a scrivere in italiano. Se devo fare un pezzo per Il Giorno lo penso e lo scrivo in milanese. Da quando ho iniziato a lavorare ho fatto anche tanti spettacoli. L’altro giorno mi è capitato in mano il curriculum di un attore e ho letto «ha lavorato con…, con la regia di…» e mi sono reso conto che nella mia vita ho costruito sempre tutto io. Ho fatto regia, ho scritto commedie, le ho recitate, ho aperto teatri. Ho comicizzato un po’ tutto.

Non parlo mai di intelligenza, non mi sono mai detto di essere intelligente. Se guardo questi quadri di Marina Previtali, penso che siano straordinari ma non dico che la pittrice è intelligente. Dico che ha passione, che fa le cose col cuore mettendoci la testa. Lavora con professionalità. Vorrei stare sul palcoscenico almeno fino a 120 anni con la forza e il coraggio che ho adesso. Quanti attori sono arrivati all’età di 90 anni recitando? Tanti. Tempo fa mi ha telefonato Il Giorno dicendomi che il comune di Milano voleva togliere i tram e sostituirli con autobus ecologici. Mi hanno chiesto cosa ne pensassi io che avevo scritto una canzone Quando sono morto voglio un codazzo di tram. Ho deciso di scrivere un’altra canzone sul comune di Milano e di fare un disco da vendere insieme al Giorno. Il disco è uscito e la canzone è stata pubblicata. Un mese dopo mi ha telefonato il direttore Sandro Mayer e mi ha chiesto di curare una rubrica in milanese. Unico giornale in Italia che pubblica articoli in lingua dialettale. Posso dire di essere un milanese arioso, parlo il milanese come prima lingua e il friulano come seconda. Ho sposato una milanese ma sull’altare ho detto “sì” in friulano e sono felice così.

“La lettura” del quotidiano

GIANLUIGI COLIN - GIANGIACOMO SCHIAVI

GIANLUIGI COLIN Art director

Tutti conoscono il legame strettissimo tra il Corriere della Sera e Milano. In questa città il Corriere è nato. E via Solferino, sede della redazione, è da sempre autentico sinonimo di Corriere. Basta dire a un qualsiasi tassista di farsi portare in via Solferino 28 e lui risponderà subito: «Deve andare al Corriere?». Ho rivisto recentemente alcune foto del primo Novecento, prima che i Navigli fossero coperti e sono stato avvolto da una emozione intensa pensando alla magia di quei giorni in cui grandi chiatte al Tumbun de San Marc portavano alla tipografia le enormi bobine di carta, pronte per essere stampate. Il Corriere della Sera ha raccontato, come nessun altro quotidiano, la vita e la storia di questo tormentato Paese; lo ha fatto attraverso lo sguardo e la penna delle sue firme, con la sensibilità dei suoi straordinari inviati speciali, con l’indiscutibile qualità dei suoi cronisti e soprattutto con una completezza d’informazione che non aveva pari in Italia. Il Corriere è sempre stato una istituzione e si è consolidato nel tempo come un giornale che ha saputo cogliere lo spirito, la forza ideale, ma anche le tensioni e le contraddizioni dell’intera società del nostro Paese. Un giornale che ha sempre saputo coniugare tradizione e spinta verso la modernità.

Il mio ruolo principale al Corriere è stato quello di costruire l’architettura delle notizie. Potremmo dire che per più di trent’anni ho “vestito” il Corriere: ne ho disegnato la struttura visiva, scelto le foto, costruito i modelli di titolazione e definito le gabbie per le gerarchie delle notizie. Insomma, ho fatto quello che oggi si definisce “art director.” E ho sempre cercato di svolgere questo compito con passione, ben consapevole della responsabilità che quel lavoro implica.

Qualche nota biografica? Arrivo a Milano nel 1979, a 23 anni. Vengo da Pordenone, dalla redazione del Piccolo di Trieste, dove da anni faccio la migliore scuola di giornalismo: la gavetta. Entro in redazione a 17 anni, come fotografo di cronaca, mentre studio ancora al liceo. Finito il liceo mi iscrivo ad Architettura a Venezia ma continuo a collaborare: imparo tutto guardando come lavorano i colleghi, la strada. E la vita di redazione insegna a capire che cosa significa fare un pezzo rapidamente e cosa significa davvero “costruire” un giornale. Imparo la pratica in redazione, faccio titoli, impagino, continuo a fotografare, sviluppo le foto e dopo averle stampate le porto in stazione consegnandole al capotreno affinché possano arrivare in tempo alla redazione centrale. È una stagione oggi inimmaginabile, in qualche modo avvolta da una cornice epica, densa del mito del giornalista che detta il pezzo a braccio e che racconta il mondo sull’onda di una visone appassionata e romantica: non ci sono macchine fotografiche digitali, non ci sono telefonini, non c’è soprattutto internet.

A Milano arrivo nel 1979 per puro caso alla redazione milanese de Il Piccolo illustrato (allora gruppo rcs), un

redattore viene beccato a rubare una macchina per scrivere. È licenziato in tronco. Così, da un giorno all’altro, proprio quando non vedevo prospettive nella mia redazione friulana e avevo deciso di trasferirmi a Venezia per laurearmi in Architettura, mi viene proposta la tanto desiderata assunzione, a Milano. Mi do molto da fare: oltre al Piccolo collaboro al Mattino, quotidiano di Napoli.

Talvolta i meccanismi di assunzione nei giornali hanno qualcosa di imperscrutabile. È anche il mio caso. Che può diventare un monito e un insegnamento per le nuove generazioni. Un caporedattore, che conoscevo solo di vista, un giorno mi vede mentre entro in via Solferino 28, giocherellando sul marciapiede tra i panettoni con la valigia in mano. Mi sono sempre chiesto come mai scelse me per l’assunzione. Qualche anno dopo, rispondendo alla mia curiosità, rispose: «Uno che entra nel posto di lavoro così felice, non mi romperà mai le balle». Solo molti anni dopo, quando mi sono trovato a dover scegliere il profilo giusto tra chi assumere, ho capito davvero la brutale verità di quella risposta.

Francamente non avrei mai pensato che sarei entrato al Corriere della Sera più per il mio buon carattere che per la mia professionalità. Comunque, nel tempo a seguire, spero di aver dimostrato che qualcosa ero capace di fare… Un’altra nota curiosa: Franco Di Bella, il primo giorno di lavoro, mi squadra e sorridendo dice: «Finalmente una faccia pulita in questo giornale». Il paradosso vuole che solo dopo tre mesi sia costretto a dimettersi per le inchieste sulla loggia massonica P2.

Questa è la breve storia del mio approdo al Corriere: ho portato con me lo stupore e la passione di un ragazzo di provincia, ma anche il senso di responsabilità e la coscienza del privilegio di lavorare nel tempio del giornalismo italiano. Una cosa che mi ha sempre emozionato è la consapevolezza che il quotidiano, ogni quotidiano, costruisce il grande racconto dell’oggi. Me lo ha fatto capire soprattutto Alberto Cavallari, grande direttore chiamato da Pertini alla direzione del Corriere dopo lo scandalo della P2. Era uno dei grandi inviati, che con Biagi, Montanelli, Corradi, per citare solo qualche nome, avevano fatto grande la storia del quotidiano di via Solferino. Cavallari aveva un’esperienza internazionale, ma era in verità un giornalista col passo dello scrittore e con una sensibilità e una visione etica davvero unica.

Io avevo l’età dei suoi figli e dei suoi studenti della Sorbona. Dopo la chiusura dell’Illustrato, ho lavorato alla redazione Interni, dando una mano a impaginare e titolare. Un giorno Cavallari mi incrocia, mi convoca nella sua stanza e mi fa un piccolo esame: mi chiede quale fotografia avrei pubblicato in prima pagina. Io rispondo con l’incosciente e sconsiderata sicurezza che si ha a vent’anni. «Da domani vieni a lavorare con me in prima pagina», mi dice il direttore. Tutto quello che so lo devo a lui. Per tre anni gli sono stato a fianco in uno dei momenti più drammatici del Corriere della Sera. Erano i giorni di quella che è stata definita la “Battaglia di via Solferino”, del governo Craxi e degli attacchi scomposti e personali alla figura del direttore, c’era l’amministrazione controllata, Scalfari in quei giorni chiedeva la chiusura del giornale e la sua messa in liquidazione, mentre Cavallari firmava con assegni del suo conto corrente l’acquisto dell’inchiostro per la stampa. Anche la politica milanese attaccava il giornale, accusandolo di essere un covo di comunisti, cosa peraltro non vera. Il clima che si respirava a Milano negli anni ’80, anni del terrorismo, è stato molto duro e formativo. Erano gli anni di piombo: non c’era giorno che non si dovesse trattare la notizia di un assassinio. Venivano uccise personalità della politica, della cultura, del sindacato, delle forze armate, dello stesso giornalismo. E non dimentichiamoci che un lutto l’abbiamo vissuto in casa: Walter Tobagi è stato assassinato proprio in quegli anni. In quel clima avere una barra dritta era fondamentale e Cavallari era la persona giusta per tante ragioni. Tra i suoi molti libri, aveva scritto un illuminante saggio che raccoglieva le sue lezioni alla Sorbona, pubblicato poi da Feltrinelli, dal titolo La fabbrica del presente che raccoglie delle lezioni d’informazione pubblica. Quelle lezioni hanno rappresentato per me una vera guida all’etica del giornalismo e una chiave per comprendere la complessità dei meccanismi dell’informazione.

Cavallari mette in luce, scardina e analizza il sistema del “fare un giornale” e ci rivela i più nascosti meccanismi. La sua tesi è che qualsiasi racconto giornalistico è sempre filtrato da insospettabili “campi di forza”. Ogni titolo, ogni articolo, tutta la struttura editoriale non è altro che conseguenza di questi invisibili campi che condizionano la linea politica del giornale, la sua struttura editoriale, il suo stesso linguaggio. Così, la proprietà, la pubblicità, la formazione ideologica del direttore, la politica, l’economia, tutto questo insieme concorre a definire la strategia editoriale in cui si identificano i lettori ideali.

Così si comprende che la totale indipendenza di un giornale è una vera utopia. La stampa cerca di inseguire una visione di libertà, verità e indipendenza, ma anche quando cerca di inseguire l’onestà intellettuale, non è mai davvero libera dai poteri e dai condizionamenti.

Tutti i giornali subiscono condizionamenti, legati soprattutto agli spostamenti degli assetti azionari delle proprietà, quindi del mondo dell’economia e ovviamente alle innumerevoli trasformazioni degli equilibri della politica. Ma quello che desidero sottolineare è che bisogna sempre saper valutare con attenzione i messaggi celati nelle pagine. Dovremmo avere sempre un’attenzione particolare ai dettagli apparentemente marginali: a chi firma gli articoli, a come sono trattati i temi sociali, a come il giornale si schiera su argomenti caldi, su quelli di carattere etico o sociale. Dal tema dell’immigrazione alla Tav, dall’eutanasia alla discussione sulla fecondazione o sul matrimonio gay, per fare solo qualche esempio. Su questi temi importanti, dalla forte connotazione ideologica, si misurano i “campi di forza”.

Basti ricordare come nel passato La Repubblica, giornale punto di riferimento della sinistra, (come ci appaiono lontani quei giorni) ha subito un notevole calo di copie proprio quando al governo c’era D’Alema. Il quotidiano fondato da Scalfari sembrava aver perso ogni mordente e il lettore, che si aspetta dal proprio quotidiano una dimensione critica, se n’è accorto subito, rimanendone deluso. Oggi, questo fenomeno si sta manifestando in modo ancor più potente con il cambio di proprietà, essendo passato dal gruppo Espresso alla famiglia Agnelli e con una conseguente linea politica più moderata. Parlando del Corriere della Sera, è più difficile definire una precisa linea politica. Il Corriere non è mai stato un “giornale-partito”. Per sua storia e tradizione il Corriere si è sempre posto come un giornale “istituzionale”, vicino alle posizioni del governo, ma mantenendo sempre una autonomia di critica e difendendo sempre una posizione di libertà sulla possibilità di pubblicare ogni tipo di notizia, anche le più scomode. Sono le stesse pagine del giornale a confermarlo. Il giorno in cui arrivarono i nomi delle liste della P2, in cui c’erano i nomi dell’editore e dello stesso direttore, fu proprio Di Bella a dire in riunione, di fronte all’imbarazzo dei colleghi: «Pubblichiamo tutto». Oppure, quando, nel 1994, presidente del Consi-

glio Silvio Berlusconi, il Corriere non esitò a pubblicare lo scoop dell’avviso di garanzia proprio nel giorno in cui Berlusconi apriva il G8 a Napoli. E ricordo ancora: durante una riunione Ferruccio De Bortoli, di fronte a una notizia particolarmente delicata, disse a tutti: «Facciamo nostro il motto scritto accanto alla testata del The New York Times: “All the News That’s Fit to Print”, tutte le notizie che meritano di essere pubblicate».

Fino ad ora abbiamo parlato dell’osservatorio privilegiato all’interno del quotidiano di via Solferino. Mi è stato chiesto di accennare anche alla mia ricerca artistica, di fatto naturale prosecuzione della mia attività di art direrctor, di giornalista e inventore di immagini. Vorrei condividere un passo di un testo di John Berger, grande scrittore, storico dell’arte, raffinato intellettuale. L’ho intervistato alcune volte e nel tempo è maturata un’amicizia feconda. Berger ci parla di un quadro dipinto da Hieronymus Bosch: il Trittico del Giardino delle delizie, o Il Millennio, conservato al Prado: «L’orizzonte è del tutto assente. Non c’è continuità tra le azioni, non ci sono pause né percorsi, non c’è un disegno, un passato, un futuro. C’è solo il clamore di un presente contraddittorio e frammentario. Le sorprese e le sensazioni sono ovunque, ma manca una qualsiasi via d’uscita. Niente porta a niente: tutto si interrompe. Siamo di fronte auna specie di delirio spaziale. Confrontate questo spazio con quello dell’inserto pubblicitario standard, o del notiziario tipo della cnn, o di qualsiasi commento alle notizie del giorno proposto dai mezzi di informazione di massa. La stessa incoerenza, la stessa giungla di emozioni sconnesse tra loro, lo stesso parossismo. La profezia di Bosch annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media sotto l’impatto della globalizzazione, con il suo criminale bisogno di vendere incessantemente. Somigliano entrambe a un puzzle i cui miseri pezzi non stanno insieme». La lettura di questo testo mi ha confermato la necessità di riflettere anche artisticamente sul sistema dei media.

Berger, parlando in particolare de Il giardino delle delizie ci mette di fronte all’assenza di un orizzonte, dove il tempo appare convulso e insieme sospeso, non vi è un disegno, un passato, un futuro. C’è solo il clamore di un presente frammentato; le sensazioni di un mondo in divenire sono ovunque, ma manca una qualsiasi via d’uscita. Siamo di fronte a un autentico delirio, non riusciamo a trovare i nostri punti cardinali. Ma non accade così anche quando ascoltiamo le notizie nei telegiornali? Oppure quando sfogliamo un quotidiano? E vi troviamo le notizie di cronaca, di politica, di spettacolo, cultura e sport che si mescolano offrendoci un senso di saturazione e conseguente assuefazione? Tutto appare mescolato in una successione convulsa dove non si coglie più una linea di demarcazione tra finzione e realtà. E dal quale siamo spinti a fuggire. Sempre più siamo parte di un grande puzzle, di un mondo costituito da miseri pezzi. Berger ci ricorda come i tasselli di questo puzzle non stanno più insieme; la loro disposizione crea una mancanza di senso che richiama l’idea di un nuovo ordine che solo la coscienza del lettore può riuscire a dare. Una coscienza che dobbiamo tenere sempre viva.

GIANGIACOMO SCHIAVI Giornalista

Riparto da Cavallari. Ha scritto un saggio intitolato Il grande rumore. L’informazione è un indistinto frastuono che non orienta, ma disorienta. Siamo sotto assedio, bombardati dalle notizie che spesso non sono notizie: sono fake news, pubblicità occulta, casi personali. Siamo passati da Gutenberg a Zuckerberg, dalle Gazzette a Facebook. Il mondo dei giornali è come scartavetrato. Niente è più come prima. La comunicazione è stata rivoluzionata da otto miliardi di schede dello smartphone, più della popolazione mondiale. Il mestiere di giornalista non è più quello di prima. Deve radicalmente ristrutturarsi. Come avvenne negli anni Cinquanta, quando Dino Buzzati nel suo Giornale segreto aveva intuito il cambiamento di una società che voleva “vedere” la comunicazione: ai giornali serviva una comunicazione più visiva con la quale leggere la realtà. Oggi anche i codici degli smartphone sono superati, è il momento di Instagram: siamo arrivati alle foto con didascalie da mettere in rete. Il nostro ruolo di giornalisti, per sopravvivere, deve entrare molto più in connessione con le persone. Non ci sono altre strade. Bisogna creare un contesto in cui la qualità e la profondità si incrociano con l’utenza, cioè il lettore, e incrociandosi si crea il contatto. Questo accade già negli Usa. Nei principali quotidiani americani hanno capito che se non c’è empatia con i lettori e un contatto diretto fra chi scrive la notizia e chi la riceve, viene meno quel rapporto di fiducia che si chiama credibilità. Questa empatia offre un vantaggio competitivo: l’informazione si distacca dai codici promozionali, non è condizionata dal marketing. Oltreoceano è stata fatta un’operazione che è anche un investimento sul futuro: i grandi giornali hanno le competenze estese che servono per creare un prodotto diverso. Allo stato dei fatti non abbiamo tante scelte: un giornalista da solo fa poca strada, deve lavorare in pool. Il cronista solitario o l’inviato speciale non possono più bleffare con l’arte di arrangiarsi. Fino a qualche anno fa ai nostri inviati si chiedeva di portare la croce e dire messa: dovevano scrivere di tutto. Oggi per essere credibili non si può essere generici: bisogna conoscere bene un luogo, i fatti, le persone. Non serve arrampicarsi sui muri, sei scoperto un minuto dopo. Lavorare in un giornale oggi è come lavorare in tv. Si progetta insieme. Lavorare con Gianluigi Colin come art director vuol dire mettere insieme diversi punti di vista, vuol dire modificare, cambiare la trama del progetto. Insieme a noi due ci può essere anche un terzo uomo, non giornalista: anche un cittadino, che poi sarebbe la cosa migliore, perché è più immerso nelle situazioni reali rispetto a chi sta in redazione, attaccato al computer. Oggi la genesi e la sequenza di certe notizie è questa: il mio panettiere scrive su Facebook che Mario Monti ha una macchina francese e si domanda come mai il premier italiano ha comprato una macchina d’Oltralpe. Il dubbio è il seguente: non dovrebbe viaggiare con un’auto made in Italy? La cugina del panettiere legge questa notizia sul web e manda una mail al quotidiano di riferimento dicendo che anche lei è indignata. Un altro aggiunge la parola: vergogna! Partono le reazioni. Uno “smanettone” del web inizia a raccogliere queste suggestioni e le riporta nel suo ipotetico quotidiano online. Poi comincia a condividere. Col passaparola la notizia diventa sempre più attrattiva fino a che arriva all’orecchio di un quotidiano nazionale che la riporta in prima pagina: «Rissa sul web per la macchina di Mario Monti». A questo punto s’innesca un meccanismo che coinvolge anche la politica: gli uffici della Presidenza del Consiglio organizzano un incontro per discutere sulla nazionalità dell’auto di Mario Monti. La smentita rischia di diventare un’altra notizia, e così si crea un corto circuito che tiene tutti prigionieri. L’unico modo per non restare intrappolati è uscire fuori da questo schema e costruire una notizia con altri format. Per fare questo però ci vuole del tempo. Il tempo oggi non esiste per i giornali. Al Corriere, in passato, il lavoro di inchiesta dava risultati pratici in termini di copie. Alfio Russo, direttore dal ’63 al ’68, ne conquistò 80 mila mandando in giro in Italia le grandi firme: Indro Montanelli, Piero Ottone e Alberto Caval-

lari che diventeranno direttori del Corriere, Gianfranco Piazzesi e Giovannino Russo. L’inchiesta sull’Italia delle regioni dura due anni. Sulla Lombardia, ad esempio, vengono pubblicati venti articoli firmati da Montanelli, tutt’ora di grande attualità. Milano viene descritta come un porto franco, una città ricca, una città che non ti chiede nulla, generosa con tutti, un’America senza crudeltà. Per fare questo tipo di lavoro serve tempo, un’agenda con personaggi da intervistare, la capacità di scavare, il gusto della scoperta. A volte per qualificare un giornale basta avere qualcosa di vero e di serio e interessante da leggere. I lettori ne apprezzano il valore e si identificano nelle cronache fatte con la suola delle scarpe.

G. C.: Varrebbe la pena ricordare come nasce ogni mattina il giornale: nella riunione di redazione ogni caporedattore fa la sua proposta, si discute, si presentano le opportune obiezioni poi si manda sul posto un inviato per raccogliere informazioni e fare le verifiche del caso. Il problema per un giornalista è reperire gli strumenti per recuperare le fonti più appropriate, anche perché, nonostante la sua bravura, non avrà mai la possibilità di comprendere appieno quello che sta accadendo, per poterlo raccontare ai lettori. Inoltre, la crisi economica impedisce che si possano investire tempi e risorse sufficienti e impiegare cinque giornalisti per fare inchieste a tutto tondo. Ma non si può neanche investigare la realtà con uno solo.

G. S.: Il problema oggi per i cronisti è questo: quando arrivi sul posto il telefonino ti ha già fregato. Ti sei scapicollato in auto o in aereo ma quando arrivi un cittadino qualunque ha già postato qualcosa su Instagram e ti ha anticipato. Quindi non solo devi raccontare qualcosa che non hai compreso nei giusti termini ma devi soprattutto raccontare dei fatti su cui altri hanno già parlato condividendone le emozioni. È questo il grande rebus. Bisogna sapersi inserire dentro questo meccanismo e saperlo fare bene. Serve uno scatto qualitativo. Trent’anni fa ci si adagiava sul fatto che il giornalista era il primo a sapere e l’unico detentore della notizia; quello che si leggeva sul giornale lo sapeva solo il giornalista, il quale in teoria poteva anche barare. Il tema della credibilità diventa dunque, molto importante. Il giornale così inteso come quello che dà copertura su tutti i fatti, va reinventato a partire dal rapporto fiduciario con il lettore, quasi come fosse un rapporto personale. Per il lettore poter interloquire con te che hai creato la notizia è importante. Vuole capire com’è stata strutturata la notizia, qual è la riflessione che c’è dietro.

G. C.: All’interno di un giornale non c’è la piena consapevolezza delle difficoltà che il nostro stesso mestiere è costretto ad affrontare. Un direttore che ha tentato di scardinare la routine quotidiana è Ferruccio De Bortoli, il quale ha invitato al giornale una serie di intellettuali esterni per promuovere un confronto con altre visioni e mettersi in discussione. Un tempo, invece, il giornale si creava avvicinando un articolo all’altro. Si mettevano delle striscioline di carta che venivano incollate con della cera, in maniera artigianale. Cavallari non era solo un grande intellettuale ma anche uno che amava l’artigianalità; restava fino a mezzanotte a costruire con tutti noi il giornale. Dopo di lui nessun altro direttore è venuto in tipografia; si è creata una linea di demarcazione. È venuta meno, forse, la consapevolezza che fare il giornale non è solo pensiero ma anche psicologia: si tratta di parlare con chi ha trattato le fonti e lavorare con lui a stretto braccio fino a mezzanotte. G. S.: Il giornale ti parla usando il linguaggio della contemporaneità. Se ci voltiamo indietro e riguardiamo le pagine, ci troviamo uno specchio dei tempi. Osservando quello che il giornale scrive ti rendi conto di come nel corso degli anni gli stessi pezzi di città, nello stesso periodo, sono stati raccontati in modo completamente diverso. La denuncia di un giornale è qualcosa che resta. Quando in camper abbiamo fatto il giro per i 24 quartieri di Milano abbiamo registrato la voce di tanti cittadini, ci raccontavano un pezzo della loro città vissuta. La voce di queste persone è stata una fonte importante. Oggi le fonti principali di un giornale sono il Comune, la Regione, la questura, i carabinieri, i pompieri e tutto quello che crea movimento. Ma non basta più. Girando per Milano abbiamo trovato molti nuovi cittadini, quelli che nessun brogliaccio di Questura ti racconta; e abbiamo visto gli aspetti negativi del cosiddetto Bronx di Ponte Lambro. In ogni quartiere abbiamo trovato associazioni di cittadini che si danno da fare. Qualcuno ci ha detto: «Voi raccontate solo le storie di 1.000 persone ma qui ne abitano 25.000». Questo ci ha fatto pensare che molto di quello che si racconta sul giornale è una rappresentazione riduttiva della realtà. Al lettore inondato da troppe notizie, dal grande rumore di Cavallari, il giornalista deve dare una bussola credibile. Torniamo al tempo di lavoro, alla ricerca delle fonti, alla serietà professionale. E alla presentazione delle notizie. Bisogna catturare “le immagini” che diano il senso della realtà nel suo divenire.

G. C.: Va aggiunto che nel giornalismo la fotografia non è una didascalia che accompagna il testo, ma è essa stessa una forma di informazione. Giangiacomo è una persona che ha creduto e crede in una qualità diversa dell’informazione. Infatti, è l’inventore dell’inserto Buone notizie. G. S.: L’inserto Buone notizie nasce dalla volontà di uscire dal cortocircuito informativo per raccontare anche il bene, quello che la retorica giornalistica aveva classificato come notizia minore. Il giornale ti scarica addosso, quasi sempre, solo violenza e negatività. Sono gli stessi lettori a sollecitare più notizie positive. La buona notizia è una pepita d’oro in un fiume di fango. Vale come esempio. Una spinta me l’ha data il direttore de La Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò. Avevo raccontato la storia di un barbone che si era riscattato ed era diventato un angelo della bontà, mettendo in piedi, con le sue sole forze, un servizio di assistenza ai malati di dialisi. Cannavò mi disse: «Non pensi che stiamo sbagliando tutto raccontando solo storie di vite sbagliate? Perché non raccontare altre storie positive?». Cannavo è andato in giro per l’Italia a raccontare storie di riscatto. Ha cominciato con Alex Zanardi: l’addio alle corse, il coraggio di vivere dopo l’incidente, la volontà di mettersi in gioco e affrontare le nuove sfide della vita. Al Corriere la difficoltà iniziale è stata quella di convincere i colleghi: molti sostengono ancora che le notizie positive non sono notizie.

G. C.: Si trattava di spezzare la visione secondo la quale non è vera notizia quella di una umanità che si riscatta. Persiste infatti l’idea che un’umanità esista culturalmente solo se c’èlo scandalo a farla emergere come notizia.

G. S.: Biagi ha fatto nell’80 un’inchiesta sul Belpaese. Andava tutto male, e così è andato a cercare qualche notizia positiva. Non sopportava più l’idea che l’Italia fosse solo dipinta con colori neri e bui. Ma questo altro giornalismo va fatto con passione e con il cuore. Bisogna crederci. Altrimenti si fa della retorica e si scrive aria

fritta. La prima buona notizia l’ho scritta per sciogliere il ghiaccio, perché nessuno la trovava. È la storia di un angelo di Milano, l’angelo invisibile. Una persona generosa che, nel completo anonimato, interveniva quando c’erano dei casi irrisolvibili come quello di un disperato che dormiva in auto, malato di tumore. O della pensionata che non ce la faceva più a vivere. O il nonno delle case popolari che chiedeva aiuto per i nipotini. O il neonato che doveva essere operato per una malattia rara. Ogni volta telefonava, risolveva il caso e spariva. Lo ha fatto tante volte. Non cercava pubblicità. Ma era una buona notizia e per questo l’ho pubblicata. È accaduta una cosa pazzesca. La notizia è stata ripresa dai giornali spagnoli, francesi e da tutta Italia hanno iniziato a chiamarmi perché volevano sapere di questo strano Angelo. Il resto è stato facile. Oggi c’è un bellissimo inserto che si chiama Buone notizie diretto da Elisabetta Soglio. Il tema delle good news è esploso. Lo ha ripreso anche il Washington Post con un inserto a parte che viene pubblicato la domenica e inviato a pagamento ai lettori che lo desiderano (il direttore dice che le notizie della domenica devono essere per forza positive dopo sei giorni di notizie tristemente negative). C’è anche un giornale giapponese che dedica due pagine alle notizie positive e questo tiene attaccati al giornale soprattutto i giovani. In sostanza, per fare buon giornalismo bisogna scardinare vecchie consuetudini. Vuoi capire Milano? Devi metterti in viaggio con i pendolari del tram 14. Si scopre sempre qualcosa viaggiando con la gente. Essere curiosi e catturare immagini, come in un quadro. Il giornalismo deve saper guardare e raccontare.

Fatti di lettere

ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI Giornalista, scrittrice

È antica tradizione milanese quella di scrivere ai giornali, tradizione mai davvero andata perduta: sopravvive in buona salute anche nei tempi digitali in nome dei quali si direbbe che in rete si trova risposta a tutte le domande per cui non ci sarebbe più bisogno di apposite rubriche. Per non parlare degli innumerevoli blog, dei forum di conversazione, dei social media che avrebbero potuto azzerare il flusso della corrispondenza. E invece no, il flusso continua, il flusso resiste.

Rispetto al passato l’unica vera differenza sembra stare nel fatto che oggi – da vari anni ormai – scrivono anche le donne che prima affidavano i loro pensieri esclusivamente alle riviste femminili e non ai quotidiani come gli uomini. Addirittura, adesso potrebbero essere la maggioranza le signore che sottopongono le loro questioni ai quotidiani.

E se un tempo la rubrica dei lettori veniva tendenzialmente snobbata, considerata alla stregua della posta del cuore, ora, dopo che l’hanno firmata grandi principi del giornalismo (uno per tutti: Indro Montanelli) è diventata colonna ambitissima per i colleghi e, per i lettori, non raramente in assoluto primo “pezzo” da consultare.

Scrivono dunque i milanesi e le milanesi, in tempi di Covid, di lockdown, di zona rossa anche più di prima. L’obbligo di stare chiusi in casa favorisce gli sfoghi, le arrabbiature, le indignazioni che, mettendole per iscritto, un poco, forse, si attenuano. Inviano (per fortuna) soprattutto mail, e non più lettere a mano o dattiloscritte; magari, se sono anziani – e in maggioranza lo sono, probabilmente perché hanno più tempo dei giovani – mandano dall’indirizzo di posta di un figlio, di un nipote.

Chi nei giornali è preposto a rispondere ai lettori, si sente porre quasi sempre la stessa domanda: come è cambiata negli anni la mentalità dei milanesi? Fondamentalmente, è l’unica risposta possibile, non è affatto cambiata; cambiati sono invece i problemi della città: e cambiati, di conseguenza, sono i bisogni, i desideri, le paure. Inutile dire che al momento, momento in verità ormai assai lungo, le lettere parlano di Covid e, dunque, di tamponi, di vaccinazioni, di mascherine male indossate, di assembramenti a rischio contagio. Però oltre ai messaggi sul Covid (che passerà) non ha mai smesso di arrivare la cosiddetta posta di tutti i giorni, quella dei milanesi che denunciano, per lo più con grande foga, le negatività della metropoli. Che sono, soprattutto, la maleducazione di chi insudicia la città (graffitari in testa), l’arroganza di chi pretende soltanto diritti, l’indifferenza se non la scortesia che capita d’incontrare a certi sportelli.

In primo luogo, dunque, le lettere testimoniano una condivisibile severità nei confronti dei concittadini villani. Segue lo scontento per l’opera dell’Amministrazione: e cioè mezzi pubblici non abbastanza frequenti, verde trascurato, pulizia insufficiente di strade e parchi e giardini, parcheggi introvabili, piste ciclabili che rubano spazio ai posteggi, monopattini troppo numerosi e troppo perico-

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