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Lorenzo Viganò «Si muore un po’ per poter vivere»
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi»: così recita il Manifesto Futurista, e nella pittura nuova di Boccioni la città si fa, a pieno titolo macchina straniante. Se ancora la città della “vie moderne” impressionista è scenario confidente dell’uomo, qui, così come per altri versi nel sogno di natura perfetta degli espressionisti tedeschi, il divorzio dell’arte europea dalla città si fa irrevocabile.
In fondo, se di una nostalgia intende ragionare la metafisica di De Chirico, essa è per spazi urbani che, come i rinascimentali, facciano da scenario alla commensuratio dell’umano. Ed è la lezione che colgono i più acuti esponenti del Novembergruppe e del Rote Gruppe tedesco, Grosz, Dix e Beckmann su tutti, i quali ripartono proprio dalla visione metafisica per forzarla a mimesi discrepante dell’urbano, e cogliere la dismisura il senso di violenza che lo spazio esercita sull’uomo: la città è un totale antropico che, alla fine, espelle il suo creatore.
In questa chiave si può leggere, da un lato, sia il raggelarsi visivo della Neue Sachlichkeit tedesca, sia la visionarietà feroce che si traduce in linguaggio cinematografico nel memorabile Metropolis di Fritz Lang, 1926: a sua volta influente sull’arte a venire, a cominciare da Ben Shahn negli Stati Uniti.
La vicenda americana è, nella prima metà del secolo, tendenzialmente diversa. La metropoli è il nuovo mondo, come cantano le fotografie, assai più che i quadri, di un Charles Sheeler erede di Stieglitz, e quelle più note di Berenice Abbott. Ma la città è soprattutto “The Town”, aggregato urbano complice della natura in cui la misura umana è ancora percepibile. The Town and the City di Jack Kerouac, 1950, contrappone perfettamente e con umori hopperiani, in letteratura, il valore della nostalgia regionalista a quanto conflagrazioni urbane come Chicago e New York hanno imposto all’immaginario. E mi piace pensare che Paul Strand, girando per le strade di Luzzara con Cesare Zavattini per fotografare Un paese, 1955, facesse ragionamenti simili a quelli di Kerouac.
Nel secondo dopoguerra lo sguardo cinematografico, e solidalmente quello fotografico, si fanno in effetti arbitri del rappresentare, dunque del trascrivere con ragionamento il mondo circostante, a fronte della lunga stagione non oggettiva della pittura.
La Naked City di Weegee è a un tempo figlia di Grosz e madre degli incubi metropolitani di James Ellroy e Ridley Scott, lontanissima ormai dal mondo di un Walker Evans o dal senso confidente di corpo e spazio di un europeo come Robert Doisneau.
Le generazioni nuove elaborano uno sguardo ormai definitivamente delucidato e slontanato, analitico senza invettiva e senza giudizio, nei confronti dell’idea di città. Maestro della nuova stagione è Gabriele Basilico. «Il fotografo deve stare sempre attento a non contraddire ciò che l’occhio vede, non deve essere influenzato o distorto da sentimenti, da incrostazioni o da ideologie culturali, né da ricordi o da altro, non deve prevaricare né forzare, ma essere appunto contemplativo, con uno sguardo lento, che mette a fuoco e coglie tutte le cose, che si impossessa e rende protagonista lo spazio; l’occhio diventa tutt’uno con il medium fotografico, neutrale e senza pregiudizi come la sua macchina, una macchina anch’essa normale, che non ha bisogno delle dilatazioni del grandangolo o delle compressioni del teleobiettivo né dei colori artefatti dei filtri».
Dagli anni Sessanta, è Basilico ad affermare la nuova misura del rappresentare, senza le implicazioni lucidamente concettuali tipiche di Bernd e Hilla Becher ma con una affine, implacabile oggettività. La scuola tedesca degli Andreas Gursky, dei Thomas Struth, di Candida Höfer, viene dai Becher tanto quanto dalla lezione del grande maestro milanese.
In anni recentissimi lo spazio pare farsi nuovamente barocco, conflagrante, scomposto. La riappropriazione della città avviene per percorsi trasversali. Tra questi emblematico è quello di Krzysztof Wodiczko, il quale usa degli spazi urbani come scenari delle proprie operazioni operando con forte senso politico sulla misura dello spazio urbano. Egli sostiene: «In the 1980s, there emerged influences from critical urban geography and the ideas of uneven development, urban struggle, and cultural resistance. Artists began to think critically about art in relation to development in a city and the lives of its people. Questions of representation also emerged. How should a particular social group or stratum be represented? More artists became directly involved in the lives of the inhabitants of cities».
Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, 1978-1980.
Collezionismo e mercato dell’arte
MIMMO DI MARZIO - GIUSEPPE IANNACCONE - ANTONIO ADDAMIANO Giornalista - Collezionista - Gallerista
MIMMO DI MARZIO: Come nasce la passione per la collezione?
GIUSEPPE IANNACCONE: L’arte è ben presto diventata una passione, ma le origini del mio interesse in questo affascinante ambito sono più legate a una sorta di necessità; l’arte è stata, soprattutto inizialmente, distrazione e cura dell’anima. Le prime visite settimanali ai musei e nelle gallerie alleviavano lo stress che il lavoro comportava giornalmente, appassionatomi sempre di più, ho deciso di voler comprendere meglio il panorama artistico italiano e dedicarmi allo studio dei testi di Storia dell’Arte. Più studiavo, più comprendevo le dinamiche degli attori della storia attuale come di quella precedente, lentamente cresceva in me la voglia di essere un attore attivo di questo ambito specifico; lo studio così, dopo aver capito di cosa mi piaceva circondarmi, si trasformò in acquisizione di opere e in prestiti presso esposizioni pubbliche.
M. D. M.: Qual è il fil rouge che tiene unita la sua collezione?
G. I.: Al centro della mia collezione c’è e rimarrà sempre l’uomo, o ciò che mi piace definire “realismo”, senza la consueta considerazione che se ne fa in ambito artistico; realismo come una ripresa dell’uomo e della donna come fossero dei poliedri dalle mille sfaccettature, da indagare e ammirare, con i loro lati chiari e quelli più nascosti, come lo sono i moti dell’animo e l’intima emotività. Il fil rouge legato all’uomo e alla donna riesce anche adunire magistralmente i due corpus di opere della mia collezione, l’arte dei primi anni del xx secolo e la parte più contemporanea, perché in ogni singola opera si palesa, più o meno chiaramente, la necessità di esprimersi e di far emergere le gioie, le sconfitte, i bisogni e le angosce dell’anima di ogni essere vivente.
M. D. M.: Com’è cambiata oggi la “caccia amorosa” agli artisti rispetto a ieri?
G. I.: Non credo di poter sostenere che la caccia amorosa sia cambiata, per essere tale, deve condensare su di sé una certa dose di passione, tenacia, studio e, non posso nasconderlo, un po’ di sano disincanto, tutte caratteristiche presenti trent’anni fa come ora. Se la caccia amorosa rimane una costante, sono però cambiate le modalità, un tempo era più complicato capire dove fossero le opere e il mio nome, ancora sconosciuto, non mi permetteva di aprire le porte giuste. Ora, essendo uno dei pochissimi collezionisti dell’Espressionismo italiano degli anni Trenta, le opere mi vengono proposte più facilmente e mi è relativamente più facile prendere una decisione. Certo, riuscire a far comprendere ad alcuni collezionisti che il valore di mercato è ben diverso dal valore storico, e affettivo, è complicato, a volte ci riesco, a volte no. M. D. M.: Per acquisire un’opera d’arte ci si affida a un gallerista o si compra all’asta? G. I.: Entrambi, ma è difficile che acquisisca un’opera di un artista mai avuto in collezione in asta; questo perché, collezionando in gran parte giovani artisti, normalmente mi affido alle gallerie per le nuove acquisizioni. Ci tengo a sottolineare l’importanza delle gallerie nel sistema dell’arte, esse sono come i pilastri di un palazzo, che sorreggono e credono in prima persona nel lavoro dei loro artisti.
Il buon collezionismo non può scavalcare il loro grande operato, a meno che non si parli di artisti ancora sconosciuti o senza galleria.
M. D. M.: C’è un quadro che avrebbe voluto avere nella sua collezione ma che non è riuscito a concretizzare?
G. I.: Mi capita spesso di pensare alle opere che avrei voluto ma che, per diverse ragioni, non sono riuscito a conquistare; soprattutto nei miei primi anni da collezionista, una volta individuato il capolavoro, trascorrevo ore al telefono per convincere i collezionisti a cedermi l’opera oppure per coinvolgere i galleristi nella ricerca dell’opera e dei suoi proprietari. Non tutto sempre andava a buon fine, come con l’opera di Scipione Risveglio della bionda Sirena, all’epoca chiedevano una cifra troppo alta e che non mi potevo permettere; poi è passata alla collezione Cerutti per approdare oggi in un luogo magnifico come il Castello di Rivoli; mi arrendo solo di fronte alle istituzioni pubbliche, quella è l’arte di e per tutti e va unicamente preservata. Mi sarebbe piaciuta anche una scultura di Manzù, un capolavoro si intende, ma a oggi faccio ancora fatica a trovarne, di qualità e al giusto prezzo.
M. D. M.: Quanti anni dovrebbe avere un’artista per far parte della sua collezione?
G. I.: Non le nascondo la mia particolare attenzione verso i giovani artisti, ma non credo sia mai stata una questione di età, si entra in collezione quando si ha alle spalle una serie di caratteristiche ben definite, in cui l’età dell’artista ricopre importanza fino ad un certo punto. Questa mia propensione può tramutarsi in un’arma a doppio taglio: da un lato la certezza di una buona galleria e di una poetica ragionata e ben studiata, mi garantisce di poter trovare dei capolavori e delle opere incredibilmente rappresentative di quell’artista, dall’altra parte scommettere su un giovane artista, o perlomeno, con alle spalle poca esperienza e pochi riscontri in ambito di mercato, risulta un vero e proprio tuffo nel vuoto. Posso dire però che questo leggero velo d’incertezza fa parte di quel guizzo di emozioni che caratterizza una nuova acquisizione a cui non potrei rinunciare, ed è anche quell’emozione che molti anni fa fece entrare in collezione opere di Kehinde Wiley o di Lynette Yiadom Boakye, oggi ben conosciuti dal grande pubblico ma che allora nessuno conosceva.
M. D. M.: Il suo prossimo impegno, dove lo vede protagonista?
G. I.: Il mio prossimo impegno mi vede attivo alla gam di Torino dove, tra pochi giorni, inaugurerà un’esposizione in cui una settantina di opere della collezione tra le due guerre verranno messe in relazione con le opere
dei Musei Reali e della Galleria di Arte Moderna di Torino. Purtroppo il periodo non ci permette di allestire nuove mostre in studio. Nonostante questo sono molti i progetti che stiamo portando avanti, tra cui, un importante lavoro di pubblicazione sulle opere di arte contemporanea presenti in collezione che, spero, riuscirà a stupire.
ANTONIO ADDAMIANO
Quando ho avviato la mia attività nel 2006, ho scelto gli artisti con cui collaborare secondo dei criteri molto semplici. Fidandomi della mia preparazione, insieme al gusto personale come collezionista e ponendo una grande attenzione alla storicizzazione degli artisti in relazione al loro mercato, ho costruito una squadra che negli anni si è evoluta insieme alla galleria. Nella mia vita lavorativa ancora oggi seguo questi principi; il mio è un lavoro totalizzante e non potrei gestire la mia attività in maniera diversa o troppo distante da quello che è la mia personale visione.
Devo però fare una premessa. Vorrei accennare alla mia formazione, che, sotto un certo punto di vista, è la mia esperienza di vita.
Nella mia famiglia, l’arte e tutto ciò che le ruota attorno, era, ed è, parte della quotidianità. Mio padre, infatti, era docente di pittura all’Accademia di Brera (dal 1977 al 2007). Allo stesso tempo aveva la sua carriera di artista, viaggiava moltissimo. Anche se non li ho vissuti, c’è da ricordare che gli anni ’70 sono stati anni di grande fermento. Nascevano iniziative importanti, che andavano consolidandosi. Ricordiamo che Art Basel è nata nel 1970, e anche la rivista Arte (ai tempi era Bolaffi Arte). Milano e l’intera Italia negli anni ’80 hanno poi vissuto un vero boom del settore dell’arte, tanto che praticamente chiunque poteva acquistare opere per la propria casa o diventare un collezionista. In questo clima, seguendo il lavoro di mio padre tramite mostre pubbliche e private, ho visto produrre libri e cataloghi oltre ad acqueforti e litografie, molto in voga a quell’epoca. La consapevolezza della complessità di questo mondo mi è arrivata piano piano, crescendo con me da quando ero ragazzino. Le persone che mio padre frequentava più spesso, erano diventati volti noti. Piano piano ne comprendevo i ruoli e i caratteri. Galleristi, curatori, editori, direttori di musei e altri artisti, più e meno famosi.
Dagli anni ’90 ho iniziato a seguirlo molto, in Italia e anche in Europa. Ho visitato moltissime fiere d’arte, mostre nelle gallerie private e negli spazi pubblici, le case d’asta, oltre, ovviamente, ad alcuni dei grandi musei delle capitali europee. A ogni visita imparavo qualcosa di nuovo, guardando con attenzione tutti i dettagli, non solo delle opere esposte, ma anche cogliendo informazioni da un’etichetta o una pubblicazione. Facendo un salto al presente, le informazioni che può avere un operatore del settore, difficilmente le può trovare un collezionista. Per questo il nostro ruolo (di galleristi) rimane un punto di riferimento di cruciale importanza. La somma delle mie esperienze mi ha portato ad avere una visione chiara di come avrei costruito una collezione. Ovviamente è una visione personale e credo che quello del gallerista sia uno dei mestieri più soggettivi che esista. Deve essere fruibile, cioè una collezione da vivere tutti i giorni, il cui valore aggiunto è sicuramente proprio questo principio della godibilità. La “mia” collezione è quella che proporrei anche a chi inizia. Magari alcuni nomi prima di altri o alcuni “periodi” prima di altri ma, anche se l’attenzione al mercato è il mio secondo imperativo, la mia galleria non ha mai proposto artisti secondo un estremo approccio speculativo, da tenere in caveau o gli “artisti del momento”, ma ho basato comunque le scelte sulla diversificazione con un occhio al rapporto qualità/prezzo. Quindi ritorno alla base, cioè il gusto personale. Indubbiamente nell’arte contemporanea la conoscenza della storia (la storia-critica) degli artisti e delle loro vicende personali, ne influenza la nostra percezione. Parlo di quando davanti a un quadro si esclama “capolavoro” non potendo scindere l’appeal storico da quello estetico.
Rimanendo sulla questione estetica, ci sono poi degli artisti che, a priori, spiccano “esteticamente” su ogni altro, che fanno colpo anche sulla persona meno preparata al mondo dell’arte. Ci sono artisti e opere che hanno “quel qualcosa in più” ma, paradossalmente, non sempre sono poi premiati dal mercato. Però ci sono estetiche che hanno creato delle tendenze, intorno alle quali si sono sviluppati dei gruppi, italiani, europei, mondiali. Quando l’idea è forte, inevitabilmente attrae. Purtroppo, oggi ci sono molti giovani artisti che attingono a piene mani a quelle ricerche del passato che hanno un appeal decisamente contemporaneo, ovvero che hanno un’espressione artistica senza tempo… Questo spesso confonde chi approccia da zero il mondo dell’arte e del collezionismo. Faccio un esempio estremo, che spero non esista ma, è come se un artista di oggi riproponesse il Cubismo, facendo magari dei quadri bellissimi e complessi ma senza valore innovativo, storico, culturale e con riferimenti storici banali, privi di personalità o di una lettura artistica autentica. E qui, chiudo il discorso. Guardando gli artisti che negli anni ho selezionato, ci sono ricerche molto diverse, che spesso abbracciano momenti storici e gruppi decisamente diversi: Zero, Optical, Analitica, Concettuale, Informale… Tradotto in termini meno tecnici potremmo definirli: minimalisti, geometrici, monocromi, astratti o figurativi. Ho impostato la mia galleria come se fosse una collezione sempre in divenire ma il mio ruolo come gallerista è anche quello di fare una scelta ponderata in base al mercato degli Artisti in un determinato momento. Questa frase un po’ astratta cosa vuol dire: come nella costruzione di un portafoglio azionario è buona norma informarsi sullo stato di salute delle aziende da inserire in portafoglio, degli artisti non è sufficiente conoscerne la storia. Individuato quindi un artista o una serie di artisti che incontra il nostro gusto, cosa fondamentale per goderne tutti i giorni, e avere quindi quel valore aggiunto che soltanto l’arte può dare, devo capire se il mio investimento potrà mantenere un valore oppure quanto sono risposto a rischiare.
Da cosa è formato il mercato di un artista? Dalle gallerie che lo rappresentano con mostre e curatori, dalla presenza nelle collezioni pubbliche e private, dalle fiere d’arte dove vengono solitamente proposte le sue opere, dal volume di scambio nel mercato secondario attraverso art dealer oppure case d’asta nazionali ed eventualmente internazionali. Attenzione, questo è puro mercato e non vuol dire che l’artista abbia un valore storico (a supporto del valore economico), comunque questo parametro andrebbe valutato anche ricordandosi dell’età dell’artista in esame. Altre domande o indagini che dovremmo fare sono le seguenti: in quali musei è esposto, in quali mostre storiche è apparso, ha partecipato a biennali importanti o a premi di rilevanza nazionale/internazionale?