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Giuliana Nuvoli Bisogna conoscere la tua storia, per amarti

Milano da abitare

UGO LA PIETRA Architetto, designer, artista

«Viviamo affollate solitudini»

Con questa definizione ho cercato di spiegare ormai da tempo il fenomeno sempre più crescente dei milanesi che esprimono il bisogno di stare insieme.

È ormai sotto gli occhi di tutti la necessità dell’individuo urbanizzato di trovare momenti di collettivizzazione.

Il numero crescente di singol, la famiglia sempre meno unita, la perdita delle relazioni di quartiere (dovuta a sempre più importanti presenze di gruppi sociali disomogenei) ha fatto crescere il bisogno di “stare insieme” negli spazi collettivi.

Milano negli ultimi anni ha dato alcune risposte in questo senso: dagli spazi occasionali per le “cene in città” ad aree nuove o ristrutturate come la Darsena, piazza Gae Aulenti fino alla crescita sempre più esponenziale di locali di ristoro che accolgono un numero sempre più alto non solo di abitanti ma anche di turisti.

È un fenomeno che all’apparenza è percepito come un fatto positivo, ma dietro questa immagine di animata e rinnovata capacità di “accogliere” si celano grandi problemi mai affrontati e quindi ancora da risolvere.

1. Architetti e amministratori ci invitano ad abbandonare l’idea di un parco urbano contemporaneo e ad assistere al cambiamento delle stagioni guardando il verde sui grattacieli, o accontentandoci di veder crescere le palme nel grottesco giardinetto di piazza Duomo (su modello dei giardinetti urbani di fine Ottocento).

2. Milano è l’unica città europea che non ha mai avuto un progetto di illuminazione urbana. Ogni strada ha un proprio tipo di lampada/lampione, proprio come l’infinità di tipologie di dissuasori che caratterizzano le nostre strade e piazze.

3. Da quando è nata, all’inizio degli anni Ottanta, la disciplina dell’Arredo urbano è anche stato istituito l’Assessorato all’arredo urbano. Per ora gli elementi che caratterizzano lo spazio urbano sono quasi sempre “segnaletica e attrezzature” che segnano violenza e separatezza.

4. Milano è l’unica città al mondo che ha destinato una vasta area del proprio territorio urbano al commercio all’ingrosso, generando traffico di mezzi per il carico e lo scarico (negozianti di tutta Italia vengono ad approvvigionarsi ogni giorno, anche il sabato e la domenica, dai grossisti collocati nel centro della città). Tra l’altro sarebbe buona cosa non chiamare più via Paolo Sarpi “isola pedonale” visto che tutte le mattine è interamente occupata da furgoni che riforniscono i tanti negozi all’ingrosso della via.

5. Milano è una città radiocentrica ed è per questo che le nostre piazze non hanno nulla a che fare con le “piazze italiane”; sono, di fatto, un insieme di incroci (di vie e di tram) che producono un’infinità di isole pedonali impraticabili. Sarebbe un bel tema progettuale per i giovani progettisti delle nostre facoltà di Architettura.

Altri temi importanti sarebbero da affrontare ma il più sentito da troppi anni, soprattutto dal mondo culturale, è il bisogno di costituire gruppi di operatori in grado di proporre “programmi culturali” per l’arte, per l’ambiente e per la comunicazione.

Il fenomeno “spontaneo e aggressivo” del “Fuori Salone” è l’espressione più evidente di una città che non vuole o non sa darsi delle regole, che non riconosce la sua vera natura (città orizzontale e città delle acque: si costruiscono grattacieli, si coprono i navigli) che non guarda con attenzione alle potenzialità (ai valori), alla periferia, che non riesce a fare sistema utilizzando il grande patrimonio culturale (vedi la vecchia idea fine anni Sessanta del Prof. Russoli sulla “Grande Brera” ripresa da un progetto La Pietra/Magistretti negli anni Ottanta e mai realizzata).

Che infine non riesce a sfruttare queste nuove tensioni in merito ai gruppi sociali che hanno sempre più bisogno di spazi per socializzare dando alle nuove generazioni strumenti e occasioni progettuali per abitare la città (espandere la personalità dell’individuo e/o del gruppo sociale, dare identità e significato ai luoghi). Una pratica progettuale che non sembra interessare gli architetti (impegnati sempre più a celebrarsi con grandi strutture), ai designer (impegnati a produrre un sempre più ampio numero di oggetti da consumare), agli artisti (ormai solo ed esclusivamente presi dalla scalata al “sistema dell’arte”).

Scene teatrali e architetture metropolitane

ITALO ROTA Architetto

Oggi la cosa più interessante da fare con le persone con cui condividiamo un destino è operare pensando. Innanzitutto, si tratta di vivere sempre nuove esperienze per poi dare forma alle idee: ritengo che il “progetto” sia un’espressione tipicamente culturale che è in via di estinzione. Oggi realizzare un’idea segue un processo completamente diverso dal percorso logico necessario a realizzare un progetto, anche nella sua veste di formulazione. In questo momento storico è molto importante “imparare facendo”: i problemi che si presentano sulla scena sono nuovi, e il 99% delle conoscenze finora accumulate dall’esperienza non è utile per risolverli. Si crede che far evolvere delle soluzioni che già conosciamo e che abbiamo già sperimentato sia la scelta vincente. In realtà, questo insistere sul “già dato” implica un grande spreco di energie e una minore creatività; creatività che invece è essenziale per risolvere i nuovi problemi.

Questa mia convinzione risponde a un’altra “piccola” questione: come è possibile risolvere i problemi di urbanistica e di architettura all’interno di uno spazio fortemente antropizzato? È una domanda sollecitata oggi dal desiderio di salvaguardare eticamente il nostro operato. Ci chiediamo se continuare a costruire sia ancora lecito in un mondo così densamente edificato, o se invece non si debba sentire l’obbligo morale di non fabbricare. Per ottemperare a tale esigenza, non solo bisogna essere creativi e conoscere le nuove tecnologie, ma si devono pensare anche gli “esseri umani” come parte integrante della costruzione. Si parla a questo proposito di architettura sociale, non intendendo tanto una visione sociologica dell’architettura, quanto il pensare lo stesso corpo umano come “materiale” di edificazione. In Europa questo problema è poco sentito perché gli spazi urbani non sono così densamente popolati, ma è sufficiente visitare un’esposizione fieristica a Milano, la domenica mattina, per comprendere come la concentrazione di tanti corpi costituisca essa stessa un’architettura. A ciò si aggiunge un’altra considerazione, il nostro pianeta vive un momento particolare; il pianeta sta lavorando in toto per cercare di costruire la propria intelligenza. L’intelligenza del pianeta è basata sui dati che sono le nostre vite; questo è qualcosa di altamente problematico. Il legame tra la nostra intelligenza e quella del pianeta sta accelerando il processo di evoluzione, determinando il futuro dell’umanità. Probabilmente questa relazione tra intelligenze ci permetterà di costruire il cambiamento biologico necessario alla sopravvivenza degli umani sulla terra. Fra trenta anni, se i dati confermeranno le tendenze in atto, non ci sarà più futuro per la nostra specie. Potremmo, allora, progettare “un bel ricordo” per la specie che ci succederà.

Tutto ciò esercita chiaramente una grande influenza sul “fare” la città e l’architettura. Una prima conseguenza consiste nella sparizione dello spazio esterno, inteso come geografia, estensione incognita, e nella convinzione che si viva continuamente in uno spazio interno. Non potendo più uscire dal pianeta, essendo questo sempre più piccolo e sottoposto a controllo, anche la cartografia è costretta a riprodurre la realtà in scala reale e, in conseguenza di ciò, l’architettura ha perso il senso della relazione fra la dimensione interna e quella esterna degli spazi.

L’evoluzione degli elementi dell’architettura ci ha portato a immaginare processi innovativi. Si possono elencare alcuni elementi architettonici che, innovando, si sono aggiunti agli elementi classici, dall’antichità alla modernità. Ad esempio, la porta girevole: quale organizzazione degli spazi suggerisce una porta che gira? Qual è l’interno e l’esterno? È una barriera che, però, introduce in un interno il mondo esterno, producendo un cambiamento negli stessi rapporti umani. Non è strano che un’invenzione che nasce per l’interno non si prenda cura della relazione interno-esterno? Un altro esempio è costituito dalla scala mobile, che annulla l’idea di livello. Noi ci spostiamo nello spazio in tre dimensioni. L’idea di spostarsi in uno spazio tridimensionale è diventata fondamentale nella sua semplicità: abbiamo l’alto, il basso, la destra e la sinistra, ma anche il sopra e il sotto. Le architetture più innovative lavorano sulla capacità delle nuove generazioni di muoversi istintivamente in queste dimensioni. Pensiamo alla “grande scatola” creata dall’elettricità che ha avuto effetti sorprendenti sull’umanità: ha allungato il giorno e ha creato una zona intermediaria nella nostra mente. Altro elemento è l’effetto “sandwich” indotto dalla climatizzazione che si crea sulle nostre teste; essa contiene luce, energia, strumenti contro gli incendi, ecc.

Non siamo sufficientemente consapevoli che viviamo in un mondo in cui a dettare le nostre scelte nel campo dell’architettura sono le serie televisive, come prima lo è stato il cinema. Questi strumenti mediali permettono di viaggiare nel tempo e nello spazio, nelle relazioni interpersonali, ma anche inducono particolari stati d’animo. L’architetto sembra essere diventato inutile perché molto spesso le persone arredano la propria casa in funzione delle suggestioni che ricevono dall’esterno, lasciandosi convincere che arredare il proprio spazio interno da sé sia la cosa migliore che si possa fare. Inoltre, tanti umani dedicano più cura alla propria vita e sono più autonomi, destinando alla sistemazione relazionale degli oggetti la maggior parte del loro tempo.

Queste sono le nuove tendenze che stanno cambiando il mestiere di chi si definisce architetto, tra cui va registrato però anche un ritorno al passato, al periodo precedente alla nascita delle scuole di architettura, perché oggi chiunque può costruire pezzi di città. La conoscenza delle tecniche non è più alla base della realizzazione di una parte di città, non è più essenziale alla realizzazione di un progetto. È interessante sapere che negli anni a venire saranno molti i registi di cinema a cui verrà chiesto di costruire spazi urbani; e non perché capaci di creare scenografie ma perché sanno valorizzare gli ambienti, conoscendo l’animo umano meglio di alcuni architetti. È una verità importante che le scuole devono riconoscere, perché molte di esse si ostinano a insegnare discipline che invece dovrebbero eliminare rimuovendo, con esse, anche la distanza fra allievo e maestro. L’urgenza dei cambiamenti sollecita quindi la creatività e la spinge a risolvere i problemi che si presentano. Tutto questo rappresenta una sfida sostanziale al lavoro dell’architetto come tradizionalmente inteso: molti diventano architetti per il desiderio di costruire adoperando il cemento o disegnando schizzi con una matita. Ma oggi cosa significa “costruire” la città, senza però

edificarla in senso tradizionale, e dove sta il piacere orgasmico di una creatività di questo tipo?

Siamo obbligati a lavorare per sottoscrivere un contratto sociale con gli altri. Bisogna cogliere le nuove forme di vita. Il problema della natura è la vita, non la forma della vita. Bisogna capire nei prossimi anni su cosa si fondi questo contratto sociale. Sono questi i temi alla base della costruzione di una collettività che attualmente non è omogenea, non ha una forma definita, non segue confini amministrativi, politici, storici, ma configura scenari determinanti per gli interessi vitali. Per esempio, quali sono i confini di Milano? Non è certo il confine amministrativo; difatti alcune zone della città potrebbero essere escluse da essa perché semplicemente scollegate. Potremmo con ciò definirci dei piccoli utopisti, intendendo con tale definizione qualcuno che è ottimista senza sapere perché. Il momento presente esige da noi un ottimismo che ci porta a progettare nuovi oggetti, nuove situazioni, soprattutto ambienti che delimitano uno spazio che dev’essere trasformabile, riciclabile, rimovibile; terminato l’uso un terreno deve essere liberato. Oggi non c’è più la necessità di creare monumenti imperituri; non se ne vede più l’utilità. Non a caso i grattacieli appartengono ora alle banche; nessuna industria innovativa sognerebbe mai di erigere un grattacielo perché questa realtà edificativa apparentemente nuova, in realtà, è una forma arcaica della modernità, anche se vi si aggiungono alberi. Il problema oggi non è affidarsi alla migliore architettura che abbiamo conosciuto, ma far leva su qualcosa di completamente nuovo.

Altro tema è quello delle nuove tecnologie che ci consentirebbero di reinventare e utilizzare meglio le enormi quantità di volumi edificati negli ultimi venti anni. Vaste zone delle metropoli contengono ampie parti inabitate perché esse rappresentano un investimento che perderebbe valore, se abitato. A Calcutta c’è una nuova città che è ancora recintata, alla quale, all’esterno, viene dato ogni giorno il suo valore sul mercato, in quanto è denaro in forma di costruito.

I nostri studi di architettura oggi dovrebbero operare per scelte individuali: ognuno fa quello che ritiene più opportuno in rapporto al destino del pianeta. L’avvenuta dissoluzione dell’architettura ha prodotto frammenti enzimatici, dove per enzimatico si intende quel nutrimento che laddove sia presente produce energia. Ci sono frammenti enzimatici che oggi l’architettura può produrre in certe situazioni, ed è un po’ questa la realtà che io vivo. Il fermento vitale di cui vive il nostro lavoro ci induce ad apprezzare anche le relazioni con persone molto antipatiche, a condizione che esse siano molto intelligenti, dal momento che professionalmente non è necessario uscire a cena o bere un caffè con loro. I problemi attuali sono così rilevanti e complessi che un aiuto, da qualunque parte provenga, è ben accetto. Lavorare con un gruppo di amici non consente spesso di risolvere un problema grave perché si tende a cercare il compromesso tra diverse idee, mentre è invece importante scegliere una soluzione ben definita, che può essere avanzata da persone con diverse competenze. Questa è la mia idea di lavoro in un team dove sono presenti professionisti capaci di multiformi abilità e conoscenze.

In questo quadro l’errore nella nostra attività non è un fallimento, ma è un passaggio necessario alla sperimentazione, è un investimento per un’idea successiva; anche i giovani ne devono essere consapevoli. Il metodo scientifico prevede la possibilità dell’errore, perché questo porta con sé una soluzione futura. L’importante è pensare al benessere delle persone, in funzione del quale ci si deve trattenere dal produrre architetture banali e inutili.

Infine, va rilevato che l’apparenza classica della modernità è finita, nel senso che oggi non è più necessario affrontare un tema con uno specifico linguaggio; lo si può “dire” con infiniti linguaggi diversi. In sé il linguaggio non è interessante: oggi possiamo guardare ad un elemento architettonico classico come una colonna, e reinterpretarlo con un linguaggio totalmente contemporaneo. È quello che ci ha insegnato l’arte concettuale, vedi le zone milanesi Garibaldi e Repubblica.

Il tempo presente propone sfide interessanti. Si pensi ai due miliardi e mezzo di telefonini a cui nei prossimi anni se ne aggiungeranno altri tre miliardi; la maggior parte di questi saranno venduti nelle aree più povere e poco alfabetizzate del pianeta. Come si organizzerà la comunicazione tra le persone attraverso i telefonini, quando ancora una parte consistente di esse sono analfabete (in Italia il 20%)? L’uso dello smartphone può essere associato alla condizione di non saper leggere; e le stesse persone che usano il telefonino senza saper leggere abitano poi la metropoli. La nostra vita sta cambiando e il mestiere di architetto con essa. Ancora, mi sembra intrigante che le differenze fra chi ha 15 anni e chi ne ha 75, fra un italiano e un cinese, si stiano attenuando. Non si tratta della globalizzazione ma di un mondo che è diventato più piccolo, in cui persone diverse ma che vivono nello stesso tempo e nelle stesse condizioni, vivono problemi simili.

Le metropoli cambiano a partire dal basso, perché è così che sono sempre cresciute. La stessa Milano è stata trasformata dalle esigenze dei suoi cittadini, ad esempio da quelle legate alla salute. Tutte le città avanzate hanno un ottimo sistema sanitario fondato non solo sulle prestazioni mediche ma anche su un’idea più ampia di salute che comprende la consapevolezza del proprio benessere. Si avvia così un processo virtuoso per il quale l’individuo cittadino mangia meglio, si prende più cura di sé, esige una migliore mobilità e trasportistica, e vede in tal modo innalzarsi la qualità della propria vita. Le metropoli in movimento positivo si muovono dal basso, anche se sono lontane o guidate da governi nazionali che ne ostacolano la crescita: Shenzen è molto deviante rispetto al governo di Pechino, San Diego lo è rispetto a quello di Washington e il Vaticano rispetto al governo di Roma. Nonostante il disinteresse verso quanto deciso nelle capitali, le disfunzioni e gli elementi di squilibrio, le città non si fermano e crescono. Questo è un qualcosa su cui riflettere.

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