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Andrea Kerbaker Milanesi con il pedigree

Naviglio Ticinese, Milano, 2016, olio su tela, 150×123 cm.

Alle pagine seguenti: Palazzo Pelli, Milano, 2016, olio su tela, 150×107 cm.

Diventare grandi a Milano

FRANCO GUIDI

Ceo Lombardini22

Abitavamo in via Spartaco con la nonna Adele. Io mi ricordo poco, forse niente, se non fosse per qualche fotografia in bianco e nero che riprende me e mio fratello con un triciclo sul terrazzo. Mi ricordo però del trasloco: in periferia, aveva sentenziato la nonna, che si sarebbe trasferita con noi in via Fezzan, nel condominio costruito in cooperativa, dove ci aspettava un bell’appartamento al piano terra. Me lo ricordo il trasloco perché ero troppo piccolo per partecipare ed ero stato affidato alle cure della zia Antonietta. Mi rivedo in piedi su uno sgabello per arrivare al telefono nero attaccato al muro del loro appartamento in via Nerino e per ricevere il primo racconto della nuova casa. Sarei rimasto lì dal 1958 fino alla fine del 1980 e sarei stato testimone dell’evoluzione di un pezzo di città. Via Fezzan è una via corta, ma è in continuità con via Tolstoj e via Fornari che partono da via Giambellino e arrivano a piazza Gambara. Quando siamo arrivati noi in via Tolstoj non c’erano case, ma cascine. Andavamo lì con la nonna per recuperare il letame per concimare i gerani. C’erano prati tutti intorno, con greggi di pecore di passaggio. Andavamo alle elementari in via Scrosati, di fianco al quartiere Grigioni. Ho sempre pensato che il nome fosse legato a una certa cupezza dei condomini del complesso anche se qualcuno faceva riferimento al cantone svizzero. In realtà hanno preso il nome dalla società di costruzione che li ha realizzati. Andavamo a piedi naturalmente, in grandi gruppi di bambini, curandoci a vicenda. Una totale libertà che ci consentiva di andar per prati per accorciare i percorsi e fare ricerche di scienza. La più interessante fu la cattura di un orbettino, un serpentello, che arrivò a casa e poi misteriosamente scomparve tra l’ironia generale, anche se oggi sospetto un intervento genitoriale di liberazione dalla cattività.

I grandi gruppi di bambini caratterizzavano la nostra zona. L’urbanizzazione e la costruzione di condomini proseguiva senza sosta. Gli appartamenti venivano occupati da giovani famiglie e crescevamo con tanti amici della stessa età. Il nostro condominio non era diverso e ogni pomeriggio ci si ritrovava nel cortile per giocare, tutti insieme, pericolosamente. Il cortile era ragionevolmente piccolo, ma ospitava un campo di calcio, una pista per biciclette o pattini a rotelle e zone di gioco protetto sotto i balconi, due dei quali erano nostri. Dai balconi arrivavano le provviste di cibo, le merende a base di pane burro e zucchero o pane e cioccolato, ma soprattutto l’acqua. Mi ricordo turbe di bambini sudati che si rivolgevano a mia mamma: «Acqua signora, acqua» e mia mamma con pazienza allungava bicchieri pieni di acqua rigorosamente del rubinetto per la gioia degli assetati che potevano riprendere i giochi. Il frastuono collettivo che riuscivamo a sviluppare era tale che non potevamo scendere in cortile prima delle tre del pomeriggio. Ma la voglia era tale che si formava una coda di bambini seduti sulla scala, in attesa che la signora Luisa, la portinaia, aprisse la porta del nostro regno. Mio padre si era meritato la nostra gratitudine perché nell’assemblea di condominio si era opposto alla pavimentazione che anni dopo avrei scoperto si chiamasse opus incertus, in favore di una bella cementata.

Questo favoriva sicuramente pattini e biciclette, ma il vero colpo di teatro era una grande struttura di assi di legno che copriva un grande buco da dove si accedeva al locale pattumiera. Nei condomini di quegli anni c’era una colonna nel vano scale dove i condomini gettavano la pattumiera, che arrivava per gravità in questo locale. Senza questa copertura i giri in bicicletta sarebbero stati impossibili e il campo di calcetto con il buco non sarebbe stato lo stesso. Il verde era stato relegato ai bordi del cortile, così la nonna aveva potuto sostituire la sua terrazza in centro piantando ortensie e rose ma soprattutto un nespolo giapponese che oggi svetta imponente. Non è cosa da poco considerando le pallonate che regolarmente potavano gli arbusti, anche se qualche volta il mondo vegetale reagiva bucandoci i palloni, che all’epoca erano molto più rari e preziosi di oggi.

Ma la vita non era solo nel cortile. A poco a poco si usciva: prima per obbligo di recupero del pallone che aveva superato i muri del cortile ed era finito nel condominio di fianco, o nel cortile del Don Orione, dove il recupero era molto più complesso. Avevamo in ogni caso bisogno di esploratori e negoziatori in grado di convincere a farci entrare in questi luoghi privati e consentire il recupero con promesse vane che non sarebbe più successo. Poi si usciva per crescita naturale, per il desiderio di conoscere nuovi spazi e nuovi giochi. Prima le zone abbandonate davanti a casa, che presto sarebbero diventati nuovi condomini, poi i giardinetti di piazza Tripoli, dove il verde era estetico e non calpestabile, poi il campo di calcio di via Strozzi e l’oratorio. Eravamo sempre in gruppo, ci muovevamo da soli con una libertà oggi impensabile. Ci sbucciavamo le ginocchia, perché i pantaloni erano corti, distruggevamo le scarpe belle, perché non ne avevamo altre. Nel frattempo via Tolstoj cresceva a vista d’occhio. I campi diventavano via Ronzoni e non c’era più soluzione di continuità nell’abitato fino a via D’Alviano. Per non parlare di viale San Gimignano, Bande Nere, Caterina da Forlì e della metropolitana in piazza Gambara.

Adesso che la metropolitana arriverà in piazza Frattini e lungo via Lorenteggio, questo quartierone avrà raggiunto quella dimensione urbana che sarebbe piaciuta alla nonna Adele. Ci sono voluti 60 anni ma è bello vedere come questo pezzo di città abbia mantenuto le sue caratteristiche fondamentali con un bel mix di residenze e verde. Peccato per l’occasione sprecata con lo sviluppo degli uffici della Provincia, oggi Città Metropolitana, in via Soderini, ma forse è proprio la riprova che la città ha i suoi tempi, che le diverse zone hanno una loro vocazione e che bisogna tenerne conto. Oggi è bello sapere che i nipoti hanno preso il posto dei nonni negli appartamenti ed è continuato quello sviluppo lento ma inesorabile che caratterizza la nostra Milano e di cui ho avuto il piacere di essere testimone. Un’ultima nota, sempre nel 1958, davanti al nostro condominio e quindi perennemente sotto il nostro sguardo sorgeva un bellissimo condominio, diverso dagli altri, che chiamavamo il “Palazzo di Vetro”: era il primo edificio progettato da Angelo Mangiarotti con Bruno Morassutti. Qualcosa, evidentemente, mi ha lasciato dentro.

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