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nella capitale immorale d’Italia Tomaso Kemeny Lettera a Milano

Milanona

VINCENZO TRIONE

Accademico, storico dell’arte, critico d’arte, giornalista

Milano, la città che sale. Per me, Milano coincide con una delle vette del Futurismo pittorico. In filigrana, espliciti i richiami a un passaggio del Manifesto tecnico, dove si parla di «complementarismo congenito», una sorta di incrocio tra Divisionismo ed Espressionismo: «Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate […]. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali […]. I nostri quadri […] saranno il giorno più fulgido».

La città sale, dunque. Siamo al centro di una danza esaltata da contrasti luminosi tra il rosso e il verde, tra il blu e il giallo. In questa sinfonia del lavoro, della forza e del dinamismo, si succedono filamenti cromatici. Al centro, non c’è uno dei frutti del “nostro tempo industriale” (un’automobile o un treno), ma un impetuoso cavallo, avvolto in una sontuosa criniera, che piega il collo, nello sforzo di trainare un carro, mentre gli operai attaccati alle stanghe sono trascinati dall’impeto dell’animale. La scena è concitata.

Lo spazio è interamente occupato. Viene offerta una ricognizione fatta non di passaggi progressivi, ma di sovrapposizioni tra l’ondeggiamento dei corpi muscolosi e il vortice dei cavalli. Quasi un piano-sequenza cinematografico. Sullo scorcio, tram ed edifici in costruzione. In lontananza, le impalcature.

Di fronte a noi, uomini e cavalli ritratti in differenti posizioni dello spazio? Oppure un gruppo colto in un unico istante?

Boccioni raffigura un insieme di eventi che si succedono nel tempo, combinandosi poi dentro le stanze della memoria. E si fa cronista di accadimenti simultanei. Il suo realismo estremo si dona come grammatica di rapporti mai geometricamente delimitabili. Si fa tripudio della molteplicità, intesa come rete di connessione tra cose diverse. Enciclopedia aperta, che vuole rappresentare la varietà delle relazioni tra le forme, riconducendo differenze in una visione plurima, sfaccettata.

In La città sale, si impone un flusso che sfugge a ogni calcolo. Nel quadro, scorrono situazioni eterogenee. Domina una velocità meccanica. Non esiste alcun atomo indipendente dall’insieme: non vi è un tutto dato per sempre, ma solo il perenne ricrearsi della durata, che non può essere prevista né progettata, ma si configura come dimensione dilatata di attimi distanti. Il cavallo e gli uomini sono ripetuti in diversi punti del quadro: vanno, vengono, rimbalzano, a tratti sembrano protendersi verso lo spettatore.

Boccioni ritrae la vertigine dell’incontro tra personaggi e ambiente. L’approdo è una carrellata serrata. Uno spazio-stato d’animo. Come un canto appassionato e, insieme, tragico, che salda esasperato vitalismo e improvvisi risucchi. La metropoli cui si allude sin dal titolo è la protagonista assoluta del dipinto. Un luogo in eterno movimento, incessantemente proiettato oltre se stesso. Non un monumento compiuto, ma un magma dentro cui crolla ogni persistenza. Si tratta di una città non inventata, ma reale: Milano. Boccioni, in una pagina di Pittura e scultura futuriste: «Per molti oggi l’impossibilità di amare il mondo che ci circonda, la vita che viviamo, le nuove idealità che ci guidano è causa di un doloroso disagio. Specialmente per gli italiani, tutto ciò che è moderno è sinonimo di brutto!...»

Ad esempio si parla di Milano e delle altre poche città italiane che invece della solida gloriosa tradizione hanno un meraviglioso presente e un formidabile avvenire, come di città grossolane e orribili. […] Le officine eternamente deste e ruggenti ispirano ribrezzo all’italiano che per tutta la vita ha concentrato il suo studio e la sua ammirazione sull’ultimo capitello in fondo a destra, di quel tal palazzo, o nella seconda arcata, a sinistra, di quella tal chiesa… monumento nazionale”.

Boccioni è poeta di una Milano che sta trasformandosi nella “Milanona” raccontata da Emilio De Marchi. Il suo occhio non indugia più su permanenze solenni (come in Officine a Porta Romana del 1908). E non si sofferma più su parti fisse: si spinge dentro il caos delle strade, si inebria smarrendosi in giochi di simmetrie infrante. La composizione accoglie incroci e sovrapposizioni tra piani, «come Saturno libera da sé gli anelli» (per dirla con le parole di Roberto Longhi).

Dinanzi alla città oramai priva di centro, la prospettiva non tiene più. Si fa indicativa. Assorbe affetti, impulsi, moti. Architetture, individui e animali precipitano in un abisso. Pur densa, compatta e impenetrabile, la spazialità dell’opera diviene indefinita, voce dell’irrisolta tensione tra impulsi interni e dati oggettivi, tra la testualità delle cose e la loro deformazione, tra naturalismo e slancio lirico.

Si destruttura ogni icona. Il cavallo sembra forare il piano con il suo profilo tagliente. Confonde i suoi contorni in una danza di linee-forza: si frange, per poi dilatarsi, come respinto dall’ambiente che lo ha assorbito. Le sue membra sono disarticolate: deflagrano. Catturato negli ingranaggi dello scenario urbano. Viene ritratto in varie stazioni, mentre trascina dietro di sé tutto ciò che incontra.

Rivive l’epica del nascente paesaggio metropolitano. Sbandiamo. Ci sentiamo tra i rombi della strada. Secondo Longhi, siamo di fronte a «una nuova notomia lirica del movimento». La materia è usata in maniera disinvolta. Si ricerca un “cromatismo marginale”. Assistiamo alla rotazione di parabole e di iperboli: orizzontali, verticali e angoli retti sono sostituiti da coni rovesciati, da spirali dinamiche. È il trionfo della geometria del curvo. La pittura si fa potenza tellurica che, come un’onda, conosce eccitazioni e flussi incontenibili. Affabulazione visionaria generosamente faticosa, quasi il racconto di un naufragio urbano.

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