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Lorenzo Maffioli La Milan dei ghisa, della scighera e dei tram

Milano

CARLO SINI

Filosofo e accademico italiano

Non sono nato qui, dove ancora abito, Milano. Della città della mia infanzia, Bologna, conservo rari, dolci ricordi per lo più immaginari, ma a Milano ho fatto tutte le scuole, dalla prima elementare in poi, con i sabati vestito da “figlio della lupa”, sul piccolo petto la “M” rossa di tutte le nostre sciagure: non potevo saperlo, ma lo avrei imparato e visto coi miei occhi. Così sono milanese di adozione, per non dire, in sostanza, che lo sono di fatto e di diritto, poiché così mi sento. Sono figlio dei gran nebbioni di una volta, dei quali quei pochi come me che ancora li ricordano hanno nostalgia. Fatto incomprensibile per chi non è andato a scuola nelle mattine di ottobre avvolto dalla nebbia, se il caso vuole in compagnia della ragazzina di cui si è innamorati, senza mai il coraggio di dirglielo; oppure nei campetti di periferia dall’erba “stinfia”, come si dice qui, a giocare interminabili partite di pallone. E poi le nebbie delle notti dei bombardamenti, chiusi nei rifugi ad ascoltare tremando il sibilo delle bombe («Quelle non cadranno qui», assicurano i competenti); le nebbie di quando, da giovanotti, si faceva tardi a parlare di ragazze e, tornando a casa, la fronte era nera per lo smog imperversante: la Milano operaia, brusca e corrusca, dove non si sta mai “cunt i man in man”, ma nel contempo umana, generosa, “popolare”. Vedi quanta gente al cinema questa sera! Il pubblico dei milanesi era euforico e contento. Mio padre, bolognese dalla dolce vita, non capiva, si irritava e rinunciava a “fare la ressa”. Mia madre, presto innamorata di Milano, si rassegnava. E poi le partite a San Siro, lo stadio a catino di una volta: ma io fedele al Bologna, causa di baruffe infantili con interisti, milanisti, iuventini e altri diavoli assatanati.

Poi quel giorno, dalla terrazza della cucina: i partigiani che sparano dai giardinetti di Porta Lodovica e dalla caserma (un tempo dei bersaglieri, come mio nonno) che fiaccamente rispondono. Verso sera piazzale Loreto con i genitori e una gran folla (ma i corpi li avevano già portati via). Al ritorno, per corso Buenos Aires, le prime camionette degli “americani” con i preziosi chewing-gum dei quali noi ragazzi andavamo pazzi; a scuola ci imponevano di sputarli: i nostri insegnanti erano stufi di avere di fronte una classe di ruminanti.

Poi la Scuola Musicale, nei pressi di San Babila, dove, adolescente sognatore, immaginavo un futuro di compositore, il loggione della Scala e infine il tempio dei templi: la Statale, dove incontrai i miei maestri (Giovanni Emanuele Barié dapprima, ma poi soprattutto Enzo Paci) che decisero il senso e lo scopo principale della mia vita. Andirivieni urbano di luoghi e di occasioni in cui questa grande, antica, e però sempre nuova città giocava il ruolo della scena, delle quinte, della ribalta, ma in realtà quello della profondità del destino che accompagna e alleva coloro che vi si aggirano e che vi abitano, spesso immemori del loro debito, ma anche tenacemente aggrappati a questa madre nascosta, imponente e silenziosa.

Oggi per me, come per altri, tutto è cambiato, dalla “Milano da bere”, a quella del Sessantotto, delle bombe nella banca dell’Agricoltura e delle brigate rosse, sino alle attuali tragiche circostanze della salute pubblica (che qualche scervellato immagina di contestare). Dove vai Milano, e soprattutto dove andiamo noi se ti arrendi al silenzio?

Ma se provvisoriamente tacciono le pietre parleremo noi, tuoi figli: testimoni incarnati della tua storia. Testimoni memori di una rinascita che nei secoli si è sempre tradotta innumerevoli volte nelle voci e nelle azioni dei suoi tenaci abitanti e nel racconto delle loro storie, che in verità sono le tue, Milano, piccole e grandi, importanti ed effimere. Come questa: piccolo tributo che ferma in un attimo un passaggio ancora vivente della tua realtà millenaria, passata e certamente ancora futura.

Milano, modello di sostenibilità, digitalizzazione e inclusione

MANFREDI CATELLA

Founder & Ceo COIMA

Era il 2005 quando leggendo la recensione del libro Il crollo delle aspettative fui attratto dal conoscere lo scrittore Luca Doninelli che intitolava le sue riflessioni con un apparente senso di negatività, così lontano dalla passione che animava tutti noi nell’affrontare un’avventura tanto straordinaria quanto difficile: Porta Nuova.

Poi lessi il libro e trovai invece uno spirito costruttivo, in sintonia con il nostro; e in più, un inizio di libro che partiva dal grande sterro, lo stesso su cui stavamo lavorando con passione e impegno inarrestabili. Lo sterro di cui parlava Luca, con il quale siamo diventati grandi amici, era quello delle Varesine: simbolo di abbandono e di degrado in una Milano ripiegata su se stessa, dopo anni di crisi anche culturale.

Sembrava un’opera irraggiungibile ma giorno dopo giorno, ispirati dal desiderio di contribuire a una rinascita della città innanzitutto culturale, morale ed estetica, abbiamo continuato con determinatezza superando innumerevoli ostacoli, diffidenze e opposizioni. Eravamo consapevoli che non saremmo stati accolti con sostegno: erano stati troppi gli anni in cui operare sul territorio era diventato un mestiere svalutato da un eccesso di esempi modesti. Era un’eredità da rigenerare e, rimboccandoci le maniche, abbiamo accettato la sfida, guadagnando la fiducia con i fatti che seguivano le parole e i consensi che lentamente iniziavano a prendere forma. Ci sono voluti almeno 15 anni perché Porta Nuova divenisse uno dei simboli riformatori di Milano, ma l’impegno di moltissime persone – che per gran parte della propria vita sono rimaste unite – ha consentito di arrivare in porto. In questi anni Milano ha saputo costellarsi di interventi territoriali straordinari che hanno ridato alla città una bellezza, un dinamismo e una centralità nel dibattito sulla rigenerazione urbana di livello internazionale. Adesso si può iniziare a lavorare su una visione più grande.

La crisi pandemica ha messo in ginocchio l’Europa, ma è in questi momenti di discontinuità storica che si possono affermare nuovi paradigmi e accelerare cambiamenti indispensabili.

Siamo nel 2020, nel mezzo della seconda ondata di contagi: è adesso che a Milano le forze si devono unire proteggendo i risultati straordinari raggiunti e guardando in avanti con vigore. Un modello capitalistico estremo fondato sulla concentrazione non può più essere la risposta alle emergenze del nostro mondo. Crisi ambientale e sociale ci impongono di pensare a equilibri più diffusi, e così anche le città che sembravano competere per dimensione e polarizzazione a scapito di altri territori ora potrebbero lasciare spazio a un modello di sviluppo territoriale più bilanciato. La nostra storia ha le radici nei mille campanili, nelle numerose città straordinarie: se le collegheremo investendo in infrastrutture fisiche e digitali potremo creare un sistema di città vivibili e solidali unico al mondo. Milano deve porsi obiettivi ancora più elevati, prima all’interno dei propri confini per poi diventare un riferimento mondiale per sostenibilità, digitalizzazione e inclusione sociale; la città può dare molto al resto dell’Italia condividendo modelli di sviluppo e risorse funzionali a un’accelerazione del processo di rigenerazione diffusa, che potrà portare a un futuro di qualità per le prossime generazioni. È il momento per ricomporre la classe dirigente del Paese, che non può definirsi tale se non quando più persone qualificate e competenti si uniscono in una missione ambiziosa che metta il bene comune prima di quello personale. Questa è la mia aspirazione per Milano, a cui sono grato per avermi consentito di imparare e per avermi dimostrato che l’impossibile può diventare possibile.

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