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Manuela Bertoli Senza troppo rumore

Milano: grande fucina di esperienze e relazioni

MASSIMO DONÀ

Filosofo, musicista

Meglio dirlo subito: non sono milanese, anche se a Milano lavoro dall’inizio del Ventunesimo secolo. Da quando, cioè, è stata fondata la facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele (più precisamente, dall’autunno del 2002). Sono veneziano e vivo nella terraferma veneziana da sempre. Ma da quasi vent’anni la mia vita trascorre tra Venezia e Milano.

Devo dire che i primi anni milanesi, per quanto animati da grande slancio e curiosità, mi hanno leggermente deluso. Per un certo tempo ho preferito, e di gran lunga, la magnificenza della capitale. Roma stava attraversando un periodo di grande fermento, e non solo culturale (stavano nascendo tante nuove realtà: il Maxxi, la Città della musica, il nuovo Festival della filosofia… e tanto altro). Mentre a Milano pareva esserci spazio solo per il business, la moda, gli affari, e, al massimo, l’editoria. Insomma, la vita quotidiana, i luoghi della cultura, erano sostanzialmente stanchi, asfittici, laterali o soffocati dal brusio tipico del mercato; di ogni mercato. Generato da uno scambio sempre affannoso e ansiogeno. In virtù del cui abbraccio neppure ci si guarda negli occhi; anche se si contratta e si cerca di farla franca.

Milano era una città tutto sommato abbastanza grigia. Mi aggiravo tra le sue vie sostenuto più che altro dalla memoria di quel che doveva esser stata. La Milano degli anni Cinquanta e Sessanta. Una città in fibrillazione, in cui i bar, i locali e i teatri ospitavano il meglio di tutto quello che avrebbe lasciato un segno in Italia e in Europa almeno sino alla fine degli anni Settanta. La Milano del jazz, dei cantautori, del cabaret, degli artisti che animavano la zona di Brera. La Milano delle grandi gallerie d’arte, dei grandi scrittori e dei grandi poeti. Buzzati e via Solferino. Piero Manzoni e gli incontri al Jamaica. Lucio Fontana e gli amici spazialisti. La Milano di cui tanto avevo sentito raccontare. Ecco, quella Milano non c’era più. Era un po’ come essere a Trieste, che viveva e continua a vivere quasi solo dei ricordi della tanto favoleggiata Mitteleuropa.

Ma dopo l’Expo tutto sarebbe cambiato. Milano, senza che me ne accorgessi, stava lentamente cambiando volto; da alcuni anni, importanti lavori in corso erano visibili sia in zona Garibaldi che vicino a Porta Genova. E non solo. Stava crescendo una Milano inaspettata. Ricca di bei locali, interessanti librerie, teatri e iniziative culturali; anche la Triennale avrebbe ripreso ad attivarsi come un tempo. Per non parlare della Manhattan milanese: corso Como e le strade più chic di quella zona, frequentate da chiunque volesse farsi notare. La nuova sede della Fondazione Feltrinelli, Eataly, dove un tempo c’era il mitico teatro Smeraldo. Le grandi boutique, quasi come in via Montenapoleone.

Per non dire delle stradine laterali che alimentano come tanti affluenti il grande corso Buenos Aires, con i loro mille negozi e mille locali – per tutti i gusti. Per non dire della zona strapiena di ristoranti etnici vicino a Porta Venezia. Milano avrebbe cominciato a staccare Roma, avviata invece verso un lento e inesorabile declino. Il sorpasso era stato sancito dal grande evento Expo. Tanto temuta e criticata, la grande Esposizione universale avrebbe in realtà funzionato da volano per una strepitosa rinascita.

La zona di Milano che ho più assiduamente frequentato in tutti questi anni è stata comunque quella delle stradine laterali che si dipartono da corso Buenos Aires. I ristorantini e le pizzerie frequentati almeno una sera alla settimana durante la mia permanenza milanese. Da anni, infatti, mi fermo a Milano il martedì e il mercoledì. Dormo almeno una sera alla settimana in questa ormai sfavillante metropoli, e riesco a fare un sacco di cose. Vedo tanti amici, incontro colleghi, frequento feste, serate a casa di amici, salotti letterari come quello dell’amico e scrittore Roberto Caracci. Per anni ho partecipato alle favolose cene di Fiorella La Lumia, nella sua strepitosa abitazione in zona Lancetti. Una casa del Cinquecento, pare di proprietà degli Sforza e frequentata all’epoca anche da Leonardo da Vinci. Fiorella La Lumia è stata una grande protagonista della Milano dagli anni Sessanta agli anni Duemila, con la galleria Studio Lattuada ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i più grandi artisti del mondo. Le cene da Fiorella erano ogni volta una sorpresa; io ci andavo con studenti, dottorandi e colleghi del San Raffaele e poi invitavo qualche amico, mentre Fiorella reclutava ogni volta le personalità più interessanti e stravaganti della città. Avvocati, artisti, critici d’arte, scrittori, cantanti, musicisti, spesso anche stranieri, che avevano qualche motivo per venire a Milano e andare a trovare Fiorella. Ospite fisso di queste cene era un artista iraniano, Ali Farahzad, anche lui organizzatore di eventi e performance memorabili nel suo loft vicino a Porta Nuova. Ma anche cene persiane rimaste nella memoria di tutti coloro che hanno potuto parteciparvi. Artista raffinatissimo che, insieme a Lucia Pescador (altra raffinatissima artista milanese), è stato ospite fisso delle serate organizzate da Fiorella. Ricordo una bellissima cena che ha visto seduto a tavola anche Flavio Caroli, importante critico e storico dell’arte italiano. In galleria da Fiorella, in via dell’Annunciata, abbiamo poi organizzato più di qualche mostra con il figlio Flavio, cicli di conferenze e molti altri interessanti eventi, che hanno visto capitare negli spazi della galleria una quantità non indifferente di persone.

Ma poi, sempre a Milano, ho passato serate piacevolissime ed esilaranti con il filosofo Giulio Giorello (amico del cuore per tanti e tanti anni), con l’attore e pubblicitario Carlo Giudice (ora anche produttore di vino; caro amico che, un tempo, da giovane, viveva nella mia città, a Mestre), con l’amico collezionista Gianni Bolongaro, oppure a casa del grande jazzista Claudio Fasoli, amico fraterno che mi ha fatto l’onore di suonare il sax in tre brani nel mio penultimo cd.

A Milano ho anche avuto modo di suonare, ogni tanto, la tromba; ossia di presentarmi in pubblico non solo come filosofo, ma anche come jazzista e leader di un trio jazz. Ricordo quando, alle Scimmie, abbiamo presentato uno dei miei primi cd; ricordo ancora in prima fila uno dei miei primi maestri di Jazz: Giorgio Gaslini. Ma ricordo anche Franco Fajenz, importantissimo critico di jazz milanese.

Con Gaslini, in effetti, avevo scoperto Milano per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, quando con altri amici veneziani frequentavo i corsi di jazz tenuti da Giorgio Gaslini presso il Conservatorio Giuseppe Verdi. Ricordo ancora qualche indimenticabile session nei locali fumosi del Capolinea, mitico locale che ha ospitato per anni i più grandi jazzisti del mondo.

Ma la più importante esperienza umana e culturale milanese è stata sicuramente quella che mi ha visto sin da subito – da quando ho cominciato a insegnare al San Raffaele – frequentare Carlo Invernizzi, un grandissimo poeta che mi ha segnato nel profondo, conosciuto grazie a Luca Massimo Barbero, importante curatore e critico d’arte veneziano. Carlo è stato un poeta sublime – secondo me non ha davvero nulla da invidiare ai grandi del Novecento. Ma conoscere, dialogare e discutere con Carlo Invernizzi ha significato anche cominciare a frequentare tutta la sua straordinaria famiglia: anzitutto il figlio Epicarmo, gallerista tra i più rigorosi e raffinati dell’ambiente italiano (e non solo milanese), che, nello spazio in via Benedetto Marcello (sempre in zona Buenos Aires), cioè nella galleria A Arte Invernizzi, mi ha consentito di conoscere alcuni degli artisti e degli intellettuali più interessanti della Milano di questi anni e non solo. Anche grandi e importanti artisti stranieri, per i quali ho avuto l’onore di scrivere e che ho potuto conoscere e frequentare sempre grazie alla famiglia Invernizzi. Una famiglia composta anche dalla moglie di Carlo (cuoca da capogiro) e dall’altro figlio Sostene, importante avvocato milanese, che ha proseguito l’attività del padre. Sì, perché Carlo è stato anche un grande avvocato della Milano di qualche anno fa. Certo, a lui non interessava più di tanto il mondo dei tribunali e delle preture; preferiva quello della fisica, della filosofia e della poesia; a lui interessava interrogare la vita e corrispondere al mistero da essa comunque custodito. Sentendosi chiamato solo da quell’infondo senza fondo che risuona in ognuna delle sue mirabili creazioni in versi (pubblicate per intero, abbastanza recentemente, da La nave di Teseo). Anche le cene da Carlo, insieme a filosofi, artisti e amici di varia provenienza – ricordo, tra tutte, la presenza costante del grande amico, superlativo critico e storico dell’arte, Tommaso Trini –, sono rimaste scolpite nella mia memoria. Anche le mostre che Epicarmo mi ha chiesto di accompagnare con delle presentazioni o degli scritti ad hoc sono state per me una importante occasione di crescita. Ma ricordo con grande gioia anche i cicli di conferenze filosofiche che Epicarmo e la moglie Tiziana hanno voluto ospitare nei bellissimi spazi della loro galleria. Non molto tempo fa, peraltro, Epicarmo mi voluto come curatore di una mostra (L’occhio filosofico, nel 2018), all’interno della quale ho anche avuto modo di esibirmi con il mio trio jazz. Insomma, la Milano dei miei secondi dieci anni di insegnamento al San Raffaele è stata un continuo flusso di esperienze stimolanti, creative e apportatrici di grandi emozioni culturali e umane. Ricordo anche le serate affollatissime in cui, con Massimo Cacciari e Germano Celant, abbiamo ragionato su questioni legate all’arte contemporanea presso gli spazi della Fondazione Prada. O gli eventi artistici che mi hanno visto protagonista grazie agli inviti, sempre graditissimi, di Gianni Maimeri. Così come ricorderò senz’altro le iniziative che mi hanno visto protagonista insieme all’artista veneziano Marco Nereo Rotelli; o le molte serate, le molte conferenze tenute in altri importanti spazi artistici e culturali della Milano più vivace. Ad esempio gli spazi della fondazione Mudima in via Tadino o quelli del Teatro Franco Parenti.

Insomma, Milano: grande fucina di esperienze e relazioni sempre culturalmente stimolanti. Una vera e propria “fortuna”, di cui devo essere grato a Massimo Cacciari, che, se non mi avesse chiamato a insegnare nella sua Università, non avrebbe neppure reso possibile questo racconto.

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