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Sergio Ubbiali Tu Milano e l’intraprendente verifica del possibile

Particolare, Velasca gialla, Milano, 2017, olio su tela, 141×107 cm.

A fronte: particolare, Velasca – via Larga, Milano, 2017, olio su tela, 172×143 cm.

La bellezza suprema che non ti aspetti

ANGELO CRESPI

Giornalista, scrittore, critico d’arte

Cara Milano, se mi fermo anche per un solo istante, nel centro del centro che è piazza Duomo, centro topografico e simbolico della città, proprio di fronte alla cattedrale e alle sue tremila cinquecento statue addossate le una alle altre, e chiudo gli occhi, sento palpitare intorno la bellezza dell’arte e mi conforta questa prossimità, quasi che la potessi abbracciare tutta con un semplice gesto e farla mia; mi sovrasta, mi atterrisce la magnificenza di questo patrimonio di cui spesso non siamo consapevoli, neppure noi di Milano, tanti capolavori concentrati in uno spazio così piccolo e, mentre con la mente divago intorno, le mani, sembra, possano toccare le opere tanto mi sono vicine: giusto pochi metri sulla destra, nel palazzo dell’Arengario, dentro il museo del Novecento, percepisco nella sua frenetica immobilità, immotus nec iners, il bronzo di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, sento il rigore delle tele metafisiche di de Chirico, mi esalto con Modigliani, scorgo in tralice il soffitto illuminato da Lucio Fontana, e se vagheggio sulla mia sinistra, oltrepassando d’un balzo la galleria, in piazza della Scala, nelle Gallerie d’Italia ritrovo Canova, Hayez, Segantini, Previati, e ancora Boccioni, Fontana, ma basta continuare su via Manzoni, per altri 50 metri, e al Poldi Pezzoli mi si parano la commovente Madonna del libro di Botticelli, il profilo sinuoso del Ritratto di giovane Dama del Pollaiolo, il San Nicola di Piero della Francesca, e poi se insisto altri pochi metri, in una via parallela, al Bagatti Valsecchi, ecco la Santa Giustina di Giovanni Bellini, e basterebbero altri due minuti per arrivare a Villa Reale, in via Palestro, ancora Canova, Hayez e il suo algido Ritratto di Matilde Juva Branca e quello conosciuto di Alessandro Manzoni, e poi una conturbante Cleopatra di Mosè Bianchi, un paesaggio di Segantini, alcune tele di Angelo Morbelli, le sculture di Medardo Rosso, e ancora il Novecento di Balla, Boccioni, Casorati, Marino Marini, Carrà, Sironi, Morandi.

Se però lascio questa direttrice e dal punto in cui sono in Duomo mi volto invece verso via Dante, anche solo con la mente, a volo, posso sognare giusto pochi metri da me le sale dell’Ambrosiana con la canestra di frutta di Caravaggio, la più celebre natura morta di sempre, il musico di Leonardo e, impagabile, il cartone della scuola di Atene di Raffaello. Nel castello Sforzesco, di cui posso misurare i merli e le torri, mi inginocchio davanti alla Pietà Rondanini di Michelangelo, esempio tardo della grandezza dell’artista che non finendo la propria opera forse presagiva la modernità. Poco più in là, proseguendo lungo corso Magenta da una porticina entro nella chiesa di San Maurizio, tutta affrescata da Bernardino Luini, magnifica nella sua ritrosia, che preannuncia giusto cinquecento metri più in giù, i fasti di Santa Maria delle Grazie e al suo interno il Cenacolo, l’affresco di Leonardo da Vinci, nella sua primigenia evanescenza mito dell’arte di tutti i tempi. Ma riprecipitando al Duomo, posso lanciare lo sguardo oltre la galleria questa volta però in direzione Brera e in cinque minuti a piedi, se lo volessi, potrei raggiungere l’Accademia e, salutato nel cortile l’imponente Napoleone in effige d’Apollo di Canova, ammirare al primo piano il Cristo Morto di Mantegna, la Pietà di Bellini, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Cena in Emmaus di Caravaggio, la Pala Montefeltro di Piero della Francesca. Ma pur stando fermo, qui davanti al Duomo, girovagando in tondo posso godere, immaginando, lo spazio curvo della Scala del Piermarini, gli affreschi festosi di Giovanbattista Tiepolo a Palazzo Clerici, o farmi beatamente ingannare dal finto coro disegnato da Bramante in Santa Maria presso San Satiro, in via Torino, capolavoro assoluto della prospettiva rinascimentale. Potrei in pochi istanti raggiungere Sant’Ambrogio, austero esempio dell’arte romanica, oppure la monumentale basilica paleocristiana di San Lorenzo alle Colonne, spingermi in pochi istanti fino a Sant’Eustorgio e fermarmi nella cappella Portinari, esempio magnifico dell’architettura del Rinascimento.

Tutto così compresso, affastellato, un patrimonio assoluto, altre migliaia di opere d’arte antica e moderna, centinaia di luoghi di cultura, tra teatri e chiese, monumenti e palazzi, biblioteche, tutte in così poco spazio, una circonferenza di neppure un chilometro. Ed è la grandezza da scoprire di Milano, la sua bellezza meno celebrata, che nessuno esalta, perché ci siamo abituati, abituati a non vantarci nel pieno spirito meneghino, a non dirlo, perché parlare – dalle nostre parti – è fiato. Eppure è tutta questa bellezza che ha generato creatività, che è stata la scintilla dei settori in cui Milano è capitale internazionale della contemporaneità, di quel made in Italy che qui trova giusto mezzo tra arte e industria, e che ci permettono di stratificare ulteriore bellezza e senso, alla Triennale per esempio, il luogo più prestigioso al mondo per il design e l’architettura, al Piccolo Teatro, uno dei più importanti teatri d’Europa, al Museo della Scienza, luogo mitico che conserva memoria della nostra capacità anche nei settori più distanti dall’arte, ma non da essi separati.

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