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Diana Bracco A Milano

Lettera sulla città

ELIO FRANZINI

Filosofo e accademico italiano

Marx e Baudelaire, pressoché contemporanei, vivono nei medesimi anni le aporie della metropoli, il primo rilevandone gli scarti sociali e il secondo la varietà che annuncia una modernità irriducibile. Entrambi ne colgono la contraddittorietà, inaugurando una tradizione di riflessione sulla città che ancora oggi non si spegne e che ha illustri protagonisti quali Simmel, Benjamin o Bauman. Il fascino è evidente: la città è un insieme di passaggi, o di reti, che generano un’immagine multiforme, in cui è difficile riconoscersi o perdendo se stessi nel molteplice o ritagliandosi una porzione di spazio in cui il soggetto non si senta straniero. Godere della folla, scrive proprio Baudelaire, è un’arte che non tutti possiedono, che forse ha bisogno, per poter vivere, di conquistare il gusto del travestimento e della maschera. In ogni caso, la metropoli costringe ad affinare la capacità contraddittoria, o schizofrenica, di saper resistere sia in solitudine sia in moltitudine, essendo spettatori, o protagonisti, di contemporanei processi di aggregazione e disgregazione.

Milano, in apparenza, o come numero di abitanti, non è una metropoli. Tuttavia, è oggi ben più popolata della Parigi di Baudelaire e ha della metropoli tutte le caratteristiche interiori e, sempre più, esteriori. La città – la piccola città o la città architettonicamente unitaria – è una grande narrazione: le sue strade raccontano una storia, certo stratificata, ma facilmente leggibile, quasi fosse un libro. La metropoli, invece, e Milano in particolare, ondeggia sempre più verso il postmoderno, non solo perché vive una frantumazione che non può essere narrata, ma perché i suoi quartieri mutano in modo vorticoso e parlano, al loro stesso interno, linguaggi irriducibili, e non solo nelle cosiddette “periferie”. Mancano i punti di riferimento, mancano sempre più linguaggi di comune identificazione storica intergenerazionale: il Cinema Rubino (unica sala cinematografica milanese aperta al mattino e dunque luogo elettivo per chi “bigiava” la scuola) o le Varesine sono termini che un quarantenne oggi non comprenderebbe, anche se fanno parte della storia recente di Milano. L’Isola non è più tale e si crea al suo centro una piazza che non è luogo di passaggio, ma il paradosso di un evento cui si accede tramite una scala mobile e che, per di più – vero paradosso urbanistico – volge le spalle alla funzione pubblica, cioè alla Stazione Garibaldi.

Gli esempi potrebbero essere infiniti, e si finirebbe per disputare se Milano sia una metropoli postmoderna (e lo è, una delle poche al mondo, perché in ogni quartiere avveniristico permangono ancora citazioni del passato, e viceversa) o una grande città che sta vivendo, sin dagli anni Trenta del Novecento (si pensi alla pittura futurista), l’unica autentica e profonda “modernizzazione” del nostro Paese. In ogni caso, Milano non si lega – o non si lega più – ed è per questo metropoli, nella sua plurifattorialità stilistica, a uno sguardo unitario e, se proprio lo si cerca, si adatta soltanto a quel processo di azione reciproca che Simmel vedeva come essenza della vita metropolitana. Dobbiamo quindi constatare, con nostalgia, astio o compiacimento, che da quando la modernità, o la post-modernità come sua forma estrema, ha catturato Milano, la città è protagonista (o vittima) di un’esplosione continua, che implica sempre più processi di estraneazione o di non riconoscimento. Una fotografia aerea di piazza Giulio Cesare di quindici anni fa confrontata con la realtà attuale sembrerebbe antica di cent’anni. È scomparso un mito – la Fiera campionaria – ma, come insegna Barthes, i miti d’oggi subentrano l’uno all’altro con grande velocità.

Siegfried Kracauer negli anni Trenta del Novecento indicava come obiettivo dell’intellettuale la distruzione delle forze mitiche, intorno e dentro di noi, cioè le rappresentazioni consolidate e stabili della vita umana che fanno apparire ciò che è storico e contingente come naturale e immodificabile. In questo senza dubbio Milano rivela la sua forza intellettuale e il suo carattere illuminista, dal momento che lo spirito dell’Illuminismo consiste proprio nel condurre una critica sociale per distruggere le forze mitiche. E quindi Milano è rinnovata costruzione di miti, creati ovviamente per essere distrutti. Mithologies di Barthes riprende questa istanza affermando che la semiologia deve essere una semioclastia, cioè un’analisi critica dei segni manipolatori prodotti dalla ideologia. L’analisi semiologica va condotta su oggetti e fenomeni della società: senza dubbio Barthes privilegia le manifestazioni della quotidianità, quindi della vita cittadina. Facile ipotizzare quel che direbbe Barthes se fosse interrogato sul nostro tema: si tratta di smascherare l’ideologia nella sua forma più sottile e pervasiva, quale si mostra nell’ovvietà quotidiana, che fa passare come “naturale” ciò che tale non è, ma è prodotto dell’artificio e della costruzione. Il mito è un meccanismo di mascheramento con cui la società scambia per naturale ciò che è essenzialmente culturale e storico; è un sistema di comunicazione, un sistema semiologico secondo: un segno diventa a un secondo livello (quello del mito) il significante di un altro significato. La significazione mitica svuota i segni preesistenti, facendoli regredire allo stato di forme vuote, pronte ad accogliere le significazioni parassitarie del mito. La falsificazione del mito consiste dunque nell’introdurre nel segno, di norma arbitrario, una motivazione, basata su una qualche forma di analogia. “Tre torri” è analogo alla “Fiera campionaria”. Si tratta comunque di sistemi semiologici secondi.

Che dire allora? Perché, sino a qui, chi ha la benevolenza di leggere potrebbe anche pensare che colui che scrive sta riproducendo l’uomo blasé di Simmel, cioè l’abitante classico della metropoli, disincantato, indifferente, scettico, persino un poco annoiato quando gli si chiede di descrivere un luogo della propria città. Un uomo che non è certo più il “dandy” di Baudelaire perché è consapevole di avere visto troppo per avere molto desiderio di vedere ancora, di costruire nuovi miti. Si tratta solo, in definitiva, di descrivere gli spazi, avendo l’accortezza che tale descrizione non sia frantumazione del senso dello spazio della rappresentazione cittadina, ma solo messa in rilievo di alcuni elementi del suo senso, che concorrono forse a delinearne una essenza, che può manifestarsi soltanto attraverso la descrizione di esperienze soggettive e parcellari.

Non è così o, almeno, non è così soltanto. Ha ancora un senso, infatti, nel disincanto della metropoli, non essere indifferenti e cercare di cogliere alcuni nessi, alcuni nodi, qualche rete, parziali punti di vista, in

grado, tuttavia, di afferrare nuclei di senso delle cose, del nostro modo di vederle, conoscerle, considerarle. Il nostro spazio possiede una sua “forma simbolica”, che allude a orizzonti di senso ancora vivi e viventi.

Il nostro spazio circostante non è allora un mondo da spiegare, né qualcosa da riprodurre con esattezza, o da mitizzare, bensì un senso da interrogare, che sempre qualcosa dice sulla nostra identità.

Così, proviamo a guardare un punto di Milano, apparentemente irriconoscibile – un altro luogo che più della metà della popolazione milanese non riuscirebbe a identificare, e dunque a localizzare, se lo si chiamasse con il suo nome storico: la Centrale del Latte. Oggi, del tutto distrutta, ospita gli affascinanti edifici dell’Università Bocconi ed essi sono uno dei simboli di una verità ormai acquisita: riflettere su Milano significa pensare al Paese intero. Appare qui infatti Milano come motore dell’innovazione, come costante “esperimento” per condurre su territori nuovi e inesplorati. Ebbene, in questo nuovo assoluto, in cui è scomparsa ogni traccia del passato, cerchiamo però, e troviamo, anche l’elemento simbolico che dona identità, la permanenza dell’identità, e dunque fa pensare.

Le persone in coda per un pasto o qualche genere alimentare a Pane Quotidiano (in viale Toscana, a fianco dell’Università Bocconi come prima erano a fianco della Centrale del latte), sono sempre lì, anche se ormai variegato è il colore della pelle e le lingue.

Le code non sono il risultato della pandemia. Abito nella zona da tanti anni e assicuro che vi sono sempre state, anche se con volti diversi. Sono il segnale che dobbiamo guardare, per ricordare l’identità della nostra metropoli, anche a una Milano per troppo tempo obliata o addirittura scotomizzata. Una Milano che muta i suoi segni esteriori, ma che deve mantenere intatta la forza dei suoi simboli.

Il fatto che ora Pane Quotidiano sia a fianco di un’università (quasi fusa in essa), e non di una “fabbrica” (in quella zona, quando ero ragazzino, si sentivano ancora le sirene alle 8, alle 12 e alle 17, che segnavano gli orari di ingresso, pausa e uscita degli operai) induce infatti un pensiero nuovo, forse un nuovo modello di narrazione della città futura, uno scenario in cui innovazione scientifica e solidarietà possano coniugarsi.

Questo è il futuro, un futuro che dovrà far comprendere che una crisi – la crisi che stiamo vivendo ma, più in generale, un’idea di crisi inseparabile dalla mobilità metropolitana – ha elementi di positività solo se stimola sia percorsi di analisi sia processi di sviluppo, gettando semi per nuove idee e nuovi comportamenti. Il tempo del “guarda e fuggi” è finito: bisogna invece cercare rinnovati modelli, osservando i particolari cittadini non con disincanto annoiato, ma come simboli di problemi generali, partendo dalla complessità di Milano e dalle sue contraddizioni, per trasformarle in risorse: investire in ricerca e formazione significa mettere concretamente in campo una rete di solidarietà e sinergie che la crisi deve rafforzare e non distruggere. Milano, al di là dell’apparenza, ha molte forme nuove, ma ancora una voce sola.

A fronte: particolare, Torre Velasca.

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