ATPICOVE Jesi ricorda. Mostra dedicata al Marchese Attone Pini Colocci Vespucci
ATPICOVE Jesi ricorda. Mostra dedicata al Marchese Attone Pini Colocci Vespucci Palazzo Colocci Atelier e appartamento privato Si ringraziano i prestatori che hanno permesso la realizzazione della mostra: Armando Reitano Doriano Duca Maurizio Longhi Carlo Benedetti Quinto Bussolotto Leandro Paoletti Paolo Cirioni Carlo Dolci Ilenia Compagnoni Katia Memè Gianluca Laghezza Franco Cecchini Paolo Filonzi Stefano Riccitelli Giampiero Paccagnini Un ringraziamento speciale va a Francesco e Alessandro Grilli per la collaborazione e la generosa donazione di opere di Atpicove.
Comune di Jesi -Polo Culturale La Rete del Sollievo – Ambito TS 9
In uno dei palazzi patrizi più belli di Jesi abitò fino al 1998, anno della sua scomparsa, l’ultimo esponente della nobile famiglia dei Colocci Vespucci, Attone Pini Colocci Vespucci. Non è questa la sede deputata a tracciare una seppur sintetica storia della casata, la cui vicenda si intreccia indissolubilmente con quella della città a partire dall’alto medioevo fino all’età contemporanea. Nel periodo risorgimentale e poi nelle tumultuose fasi della storia italiana a cavallo tra il sec. XIX e il sec. XX la famiglia Colocci rivestì un ruolo non secondario, soprattutto con le figure di Antonio e Adriano. Attone, figlio della compianta Marchesa Cristina, che al Comune di Jesi lasciò una consistente porzione del palazzo e l’archivio storico della famiglia, dimostrò fin da ragazzo una certa propensione ad atteggiamenti di non conformismo, di insofferenza alle regole e al “dispostismo della consuetudine e della rispettabilità”, non inconsueti tra i membri del patriziato jesino. Del resto, chi apparteneva a una stirpe tanto antica, le cui memorie storiche risalivano indietro nei secoli fino al periodo longobardo, poteva permettersi di esibire, con ironica e spesso caustica disinvoltura, uno stile di vita fatto di distacco e indifferenza, a volte terremotato da improvvisi scoppi di insofferenza. Attone, come fosse il prodotto o meglio il precipitato ultimo di una gloriosa storia familiare costellata di uomini d’arme, alti prelati, raffinati umanisti e inquieti viaggiatori portati all’avventura e al “beau geste”, ereditò da questo impasto di geniali talenti spesso inclini all’originalità la passione per l’arte e la pittura, che egli praticò da autodidatta,
esprimendo il suo visionario e tormentato mondo interiore attraverso quadri coloratissimi e astratti. La figura di Attone Colocci Vespucci trova pertanto nella mostra a lui dedicata e nel presente catalogo, sorta di epitome postuma della sua produzione, un giusto riconoscimento, all’interno del più vasto progetto di studio e valorizzazione di personaggi che hanno segnato la storia di Jesi: Antonio Colocci, Adriano Colocci e Angelo Angelucci. Un progetto di recupero e di divulgazione storica ideato e realizzato con grande impegno da alcuni dei più importanti istituti culturali della città come la Pinacoteca Civica, la Biblioteca Plaettiana e il Museo Diocesano, da sempre impegnati in questa paziente e preziosa opera di ricerca, di studio e di salvaguardia del nostro patrimonio e della nostra memoria storica. Ci piace ricordare infine che le opere della mostra sono state raccolte grazie a un pubblico appello rivolto ai piccoli collezionisti, agli amanti dell’arte e sopratutto agli jesini in genere che in buon numero hanno risposto alla chiamata dimostrando, con questo contributo collettivo, l’affetto e il legame della città all’ultimo erede di Amerigo Vespucci, Attone Colocci Vespucci in arte AtPiCoVe. Massimo Bacci Sindaco di Jesi Luca Butini Assessore alla Cultura
CHI ERA ATPICOVE? Atpicove è l’acronimo di Attone Pini Colocci Vespucci, figlio del duca Pini di San Miniato e della Marchesa Cristina Colocci Vespucci. Atpicove nasce il 3 novembre del 1944 a Jesi. L’ambiente familiare stimolante in cui viene educato sviluppa in Attone una sensibilità artistica che lo porta ad avvicinarsi alla pittura. Oltre a contare su celebri membri della famiglia che in epoche diverse si dedicarono a pratiche artistiche, i suoi genitori vengono ricordati l’una come miniaturista e l’altro come pittore d’interni. Lo studioatelier di Atpicove si trovava nel palazzo di famiglia dove il giovane Colocci amava ritirarsi a dipingere solitamente la notte al ritmo assordante del Rock and Roll. Egli raccontava “...dipingo nella speranza che coloro i quali guardano i miei dipinti siano capaci di vedere in essi i loro sogni”. La ricca produzione di Atpicove infatti è caratterizzata da una forte carica emotiva ricavata da un libero flusso di coscienza tradotto in saggi cromatici. I suoi paesaggi dell’inconscio rivelano una personale rielaborazione tecnica che porta ad interessanti risultati coloristici pronti a rivelarci gli stati d’animo più intimi del pittore. Ambientazioni naturali divengono il punto di partenza per l’espressione di un inconscio che sa riconoscersi ogni volta in colori diversi esteticamente combinati. Atpicove inizia a esporre nel 1969 in ambito cittadino, nel 1971 esporrà a Roma alla Bottega Tiziano e nello stesso anno sarà presente a Senigallia a Palazzetto Baviera. Dal 1973 inizia la sua attività espositiva all’estero infatti nel 1973 espone a Goteborg (Svezia), nel 1975 a New York e nel 1976 a Montecarlo (Principato di Monaco) Attone Pini Colocci Vespucci muore prematuramente nel 1998 in un incidente stradale. Simona Cardinali
DON ATTONE CHISCIOTTE Attone Pini Colocci Vespucci, nato a Jesi il 3/11/1944 da Duca Pini di S. Miniato e dalla Marchesa Maria Cristina Colocci Vespucci, leggo da un opuscolo che ne raccoglie fatti salienti della carriera artistica. Non ho mai conosciuto Il Marchese Attone Pini Colocci Vespucci, me lo hanno descritto, raccontato... io mi sono formato un’immagine personale, probabilmente lontana dalla realtà, come se ne distanzia l’immaginazione pur mantenendo un vincolo con la conoscenza, con l’esperienza da cui diverge, si estranea, ne contraddice il senso, per caso urtando frammenti di verità. Immaginario rabdomante per interpretare, nel modo imperfetto di cui sono capace, un personaggio immaginifico, che sento ora immanente più di quanto lo fosse su questo pianeta. Ecco in tale dimensione mi appare la figura di Attone, fisica ed eterea, presente ed ombrosa, ingombrante ma vibratile come una foglia diurna sospinta dal vento, priva di una meta che non sia l’ineffabile errare. Ecco l’Attone notturno, nottambulo, un veicolo immobile in viaggio perpetuo, come una meteora che deve cedere la propria reticenza inerziale alle forze cosmiche che ne costringono la traiettoria. Meteora che non trova senso in se ma nell’energia indecifrabile ed incommensurabile che la circonda, che la sorveglia e sospinge nelle notti ad attraversare spazi siderali. Quelle notti in cui Attone riversava materia colorata sulle tele nel vortice di un’orbita gestuale e rituale. Meteora, Apticove, stella terrena fra le stelle celesti. Nella visione del mondo una stella cadente. Eppure nella profondità della notte, nell’oscurità interiore, nelle tenebre dell’incoscienza, quando la visione crediamo ridotta, il bagliore abbacinante di una fonte luminosa sorgiva, un’epifania. Attone dipingeva di notte, dipingeva la luce nella notte, ed io ho immaginato il rapporto viscerale con il cosmo durante l’azione espressiva, lo stordimento di colui che desidera abitare il vuoto infinito
ed ancora obbligato dalla gravità sulla terra lo riproduce nello spazio virtuale e spirituale della pittura. Ho ascoltato vari commenti sull’Attone artista, spesso non lusinghieri. Nella mia paradossale immaginazione, ho creduto di averlo visto stremato dalle fatiche espressive, per aver udito nel silenzio un segreto inconfessabile, percepito nel rumore assordante della musica che accompagnava la solitudine di quel pellegrinaggio creativo; aver percorso un tratto di universo dal proprio studio osservatorio ed aver perduto un po’ della propria materia umana, essersi fatto più leggero, perso il contatto con il suolo e levitato di qualche millimetro, Che nessuno nel nuovo giorno poteva rilevare, ma già il Marchese era un po più inafferrabile del giorno precedente. Me lo sono immaginato come un Don Chisciotte del tempo odierno o di sempre, compreso nella propria personale, nobile, contesa contro un nemico invisibile, le vele centrifughe di molti mulini dell’uomo, in cui principio e fine coincidono nell’eterna ripetizione circolare. Le macine temibili delle menti, polverizzano la diffidenza e l’indifferenza disperdendola nel mondo, a cui solo le spore astrali mosse dai colpi inferti del pennello, strumento eminente di difesa, possono porre argine. Don Attone Chisciotte, spirituale, spiritato, spiritoso, vaga ancora per i ciotoli di Jesi, afferrarne l’ombra colorata è virtù del nostro desiderio, sola ombra, avendo depositato tutta la propria luce nelle opere lasciate ai nostri occhi offuscati, pronto a difenderci, instancabile, dalla nostra inettitudine, insensatezza, dai nostri pregiudizi. Scrivendo, affacciato dalla finestra della mia scuola, una lieve ombra come una brezza mi ha accarezzato. Apticove? Chissà... Prof. Nicola Farina Liceo Artistico Edgardo Mannucci di Jesi.
UNA STORIA CHE COLLEGA ALLA STORIA “L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo.” Banksy “Esistono due modi per non apprezzare l’Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.” Oscar Wilde Attone Pini Colocci Vespucci, conosciuto e nominato nella provinciale cittadina marchigiana come Atpicove, è stato un pittore jesino, uno di quella comunità di giovani che erano soliti fare “le vasche” lungo Corso Matteotti che, attenti bene, era magicamente accorciato dalla chiesa delle Grazie alla allora Farmacia Grilli (ora Moretti) con qualche sconfinamento sino alla “Piazza”. Nei rari dopocena il luogo d’incontro era “sotto le logge”, lì c’era il bar di Daniele che diventava “salotto di discussione” magari bevendo una birretta o un gelato o anche qualcosa di più forte da parte di qualche ragazzotto più audace e magari con qualche lira in più. Questa era la Jesi di fine anni sessanta e poco più in là. Attone era un personaggio originale tanto che diventa facile immaginarlo nel suo essere nel gruppo di quella Jesi sempre pronta alla canzonatura, ma anche attenta, come ogni madre. In Attone era sicuramente presente una certa predisposizione artistica “geneticamente” comprovata dalla sua storia familiare. Infatti, sia la mamma, la contessa Maria Cristina, che il padre, il duca Pini di S. Miniato, erano inclini alla passione artistica, la contessa dedita alla scrittura e al disegno mentre il padre, era stato decoratore di interni. Ecco quindi, come da Attone ci si “trasforma” in Atpicove artista. In questa Jesi sempre ricca di idee e con la volontà di crescere esisteva allora un affascinante
fermento nell’ambito delle arti visive grazie ai “vecchi” artisti Jesini e anche alla Galleria il Centro dove avevano esposto dei bei nomi dell’Arte Contemporanea. Oggi ritrascriverei il significato di quelle iniziative che vedevano coinvolti anche i neofiti della pittura, come un qualcosa di veramente educativo nel senso più largo del termine e quindi come un sentimento di “sicura appartenenza” dove si avvertiva un’affettività, mai espressa direttamente (siamo marchigiani, anzi papalini) ma Atpicove era uno dei personaggi jesini che nell’Arte si era calato forse più per una sua necessità intima che non per ambire ad alte mete artistiche, desideroso di travasare in quello spazio bianco i suoi colori così innocentemente violenti, quasi allucinatori, resi con una frenesia e una forza a volte incomprensibile. Ma l’arte può essere spiegata? Una sorta di action painting alla Pollock, verrebbe da dire, anche se collocare Attone anzi Atpicove (così la sua firma da artista) in una qualche corrente, significherebbe già ridurre a schema la sua immagine di artista, invece di conservarla nella sua originalità magari, a volte, anche bizzarra. Atpicove non è né questo né quello, lui è così e basta, lasciamogli intatta almeno questa sua libertà, questo suo modo di essere dentro quei colori e quei segni “senza senso” a volte anche paurosi, sempre frenetici che tanto ci raccontano di lui non solo, come artista, ma soprattutto come essere umano.
Franco Burattini Jesi, 26 marzo 2015
L’ARTE, LA MEMORIA, L’OBLIO “Attone...io me lo ricordo bene!” Questo pensavo fosse il titolo migliore per questi miei (disordinati) appunti, pensieri e riflessioni. Sarebbero stati ricordi e parole di memoria, sarebbero stati pensieri di un tempo andato, di Attone, uomo bizzarro, a suo modo solitario e malinconico e di un gruppo di ragazzi appena usciti dalla rabbia degli anni ’70, di un bar e di una piazzetta, di un giovane studente di psicologia con un piede ancora a Jesi e l’altro a Padova. Sarebbe stato un lavoro della memoria. Ma sarebbe stata tutta un’altra storia, avrei confuso i miei ricordi personali con la memoria che mai appartiene solo al soggetto ma all’intera comunità. Già, la memoria...ma quale rapporto esiste tra creazione artistica, memoria e oblio? Che rapporto avrà l’arte con il nostro umano vissuto di “vuoto”, di mancanza, di depressione e melanconia? Per esempio, possiamo tranquillamente constatare, al di fuori di facili luoghi comuni e pregiudizi, che molte delle personalità che hanno fatto la storia dell’arte e della letteratura erano personalità afflitte da stati depressivi o sentimenti melanconici. Basta vedere le biografie di Van Gogh, Caravaggio, Jackson Pollock, Giorgio Morandi, Kafka, Leopardi, Beckett...Troviamo quindi una affinità particolare tra creazione artistica e personalità depressivo-malinconica. Ma che cosa ci dice questo fatto, questo nesso? Credo ci dica che l’arte, più di qualunque altra disciplina, abbia a che fare con il “vuoto” e che l’esperienza artistica è costitutivamente in rapporto al vuoto, al “vuoto della tela bianca”. Ma ci indica anche un’altra questione importante: nell’opera d’arte, nel gesto artistico, “c’è traccia di ciò che è indimenticabile, di ciò che del passato non passa, di ciò che è stato traumatico”. Ecco perché l’arte, per certi versi, è l’unica attività a cui un soggetto privo di energia psichica possa riuscire a dedicarsi. L’arte è la possibilità di utilizzare positivamente l’energia
del lutto, in questo senso “l’arte come tale è un lavoro del lutto... La creazione artistica è un lavoro del lutto, è un lavoro attorno al vuoto, cioè attorno alla perdita dell’oggetto”. Quello che definiamo il lavoro terapeutico della rielaborazione del lutto, è un lavoro doloroso della memoria che esige tempo. Il lavoro della memoria è il lavoro che ripercorre il legame con l’oggetto perduto e che ha come effetto una separazione del soggetto dall’oggetto amato e perduto. Perchè al culmine della memoria dovrebbe esserci un’esperienza di oblio, cioè una dissolvenza, un distacco (totale per Freud) dall’oggetto perduto. Spingendoci un pochino oltre su questa riflessione, è possibile indicare il nesso, la dialettica tra la creazione artistica, la memoria, l’oblio e il lavoro terapeutico del lutto, sostenendo che il gesto artistico è un lavoro simbolico “intorno al vuoto”, la creazione artistica è una esperienza che tiene insieme il tempo della memoria e il tempo dell’oblio. D’altronde la vita umana, l’esistenza dell’uomo, è fatta di memoria e di oblio. La nostra identità, il nostro essere, è fatto da ciò che l’Altro ha fatto di noi, siamo quel che siamo perché prodotto e memoria dell’Altro. Fortunatamente però il soggetto può anche emanciparsi, separarsi da questa relazione costitutiva. Il soggetto può vivere l’invenzione che ha come condizione l’oblio, la dimenticanza di ciò che già è stato. In effetti lo esprime bene Nietzsche quando afferma che un artista per poter creare del nuovo deve dimenticarsi della storia dell’arte. In caso contrario il soggetto si sentirebbe oppresso dal “pieno” della storia, inibito nella creazione e invece di inventare il nuovo, darebbe luogo ad una pura e semplice ripetizione di ciò che è già stato. Gilberto Maiolatesi Jesi, 31 marzo 2015
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Le fotografie sono state realizzate dal circolo fotografico “ Massimo Ferretti � di Jesi
Design: 2° Grafica 2015 “ Scuola Internazionale di Comics ” sede di Jesi