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Semina il vento

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Temple

Temple

di lei. Dora scopre che Andrea ha inviato il suo miele al marito della donna che ha investito per chiedere perdono e che avrebbe desiderato un incontro se il vicino fosse stato pronto. Nel frattempo, Monica, ormai delirante, crede di essere in viaggio con la madre. Lucio chiede alla figlia se ricorda la fatidica notte al parco e Francesca lo tranquillizza, affermando di non aver subito alcun abuso, ricordando Renato con tenerezza. Mentre Giorgio sta per lasciare Roma con i suoi figli, Beatrice ha una visione della madre che torna a casa, speranza che non ha mai perso. Dora si dirige di nuovo dal figlio che, forse, è pronto per riappacificarsi con lei.

AAccolto con grande entusiasmo a Cannes, Tre piani sancisce il ritorno di Nanni Moretti al dramma familiare, adattamento dell’omonimo romanzo di Eshkol Nevo di cui, nonostante il cambio di ambientazione da Tal Aviv a Roma, mantiene salda la tripartizione psicoanalitica di stampo freudiano: il primo piano, in quanto Es, sede delle pulsioni più ataviche e degli istinti primordiali (la rabbia di Lucio), seguito dallo spazio di mezzo come Io che ricerca un dialogo tra i desideri e la realtà esterna (la mescolanza tra realtà e finizione di Monica), finanche lo sguardo giudicante di un Super-Io che richiama severamente all’ordine (la rigida educazione di Vittorio).

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Abbandonando l’intercessione di un unico personaggio, Moretti si affida alla coralità di una borghesia chiusa nei propri timori e nelle sue fragilità, definendo un’azione trasformativa in grado di attualizzare la paure latenti racchiuse nelle singole esistenze dei personaggi non con la semplice intenzione di descriverle, ma di coglierne il carattere transitorio attraverso la loro graduale metamorfosi nelle gesta e nelle identità soggettive messe in scena dall’autore.

Di conseguenza, è il corvo che osserva il personaggio di Alba Rohrwacher a esemplificare tale mutevolezza, data la sua simbologia da sempre correlata al concetto alchemico di nigredo, un percorso di trasmutazione verso una ridefinizione della propria esistenza, una forza centripeta funzionale alla controparte centrifuga che prepara il ritorno alla vita su cui il film si conclude. Prima tappa di un percorso nel proprio inferno personale, il corvo catalizza la traiettoria di un soggetto completamente sconnesso e separato da sé (Dora), preda di dubbi incolmabili (Lucio) e popolato da incubi e stati depressivi (Monica), da cui la necessità di una morte simbolica che permetta una rinascita verso una piena unità del Sé. Di conseguenza, è necessario divenire la forma della propria paura per poterla esorcizzare dopo la catarsi nel maelström delle proprie colpe (Lucio), oppure morire a se stessi per abbattere un’identità nullificata e fittizia (Dora) o, in ultimo, attraversare le regioni ctonie dei propri fantasmi e desideri inespressi (l’incontro tra Monica e Roberto durante un significativo blackout) per trascendere la dimensione fenomenica e rinascere nella propria follia e nella definitiva scissione del Sé che, nella sua disfunzionalità, concede l’unica emancipazione dalla claustrofobica domesticità, spingendoci a chiedere al contempo quale sia il costo del ritorno alla vita dopo la traversata nel proprio inferno.

Così come il paesaggio marittimo che concludeva La stanza del figlio armonizzava quell’equilibrio familiare spezzato dalla tragica dipartita del figlio, Tre piani va alla ricerca di una nuova unità individuale più che familiare e di una rinnovata spazialità, che siano zone di transito come l’aeroporto in cui Lucio e Sara salutano Francesca o la stazione in cui Monica vaga nella sua follia, finanche spazi bucolici e illimitati come la campagna in cui Dora ricerca l’approvazione di Andrea.

Moretti ambisce a un incontro con l’esistente e a un ritrovato senso di collettività possibile solamente fuori dalla dimensione domestica, che accoglie i personaggi attraverso l’esemplificativa milonga che invade Roma, invitando ad abbracciare quella vita che, quasi profeticamente, è stata messa in stand by, relegandoci nei nostri ambienti domestici e fantasmi personali.

Leonardo Magnante

DDopo tre anni di assenza, Nica, giovane studentessa di agraria, torna a casa nel suo paese in Puglia. Viene accolta dal padre e trova una situazione complicata. Gli uliveti di proprietà della famiglia sono stati attaccati da un parassita, il padre li ha dati in gestione in cambio di denaro. La madre versa in uno stato di depressione, è chiusa in casa a causa della mancata apertura di un negozio che desiderava gestire. Nica però è fedele ai valori che le ha trasmesso sua

di Danilo Caputo

Origine: Italia, 2020 Produzione: JBA Production, OKTA Film con Rai Cinema, coproduzione Graal Films Regia: Danilo Caputo Soggetto e Sceneggiatura: Danilo Caputo, Milena Magnani Interpreti: Yle Vianello (Nica), Feliciana Sibilano (Paola), Caterina Valente (Rosa), Espedito Chionna (Demetrio) Durata: 91’ Distribuzione: I Wonder Pictures Uscita: 3 settembre 2020

nonna e si porta a casa una gazza tenendola in una gabbia nella sua stanza. Forte è in lei l’attaccamento agli uliveti di famiglia, la ragazza li tocca, li vive, ne sente il respiro. Il padre è rassegnato: l’uliveto è morto, bisogna abbatterlo e chiedere il risarcimento, dice che hanno usato tutti i pesticidi possibili ma il pidocchio che li ha attaccati è resistente. Nica sostiene che la malattia sia sintomo di qualcosa di più grande. La ragazza è arrabbiata per ciò che si vede intorno: si accorge che qualcuno getta l’immondizia nell’uliveto. La mamma la invita a farsi gli affari suoi. La ragazza scopre chi è il colpevole e nottetempo riversa l’immondizia dentro alla villa del responsabile. Nica confida all’amica di aver individuato il pidocchio responsabile della malattia degli ulivi, è un parassita blu (Liothrips Olea): sta cercando l’insetto antagonista capace di mangiarlo ma non riesce a trovarlo. La ragazza è convinta che non sia normale: in natura ogni predatore diventa la preda di qualcun altro. Paola sostiene che lì non ci sia uno stato di natura, poi confessa a Nica che sta per lasciare il paese.

La giovane agronoma continua i suoi esperimenti, ordinando delle larve. La ragazza si scontra con la mamma, accusandola di avere provocato la morte della nonna. Dopo qualche giorno, Nica mostra al padre al microscopio un insetto che mangia il pidocchio degli ulivi: la ragazza è convinta che possano costruire un vivaio. Il padre mostra scetticismo sostenendo che gli servono soldi. Con l’aiuto di Paola, Nica costruisce delle gabbie di stoffa per far riprodurre gli insetti: il padre cerca di dissuaderla, vuole che lei torni all’università perché lui ha già dato in gestione le sue terre. Nica ribatte che quella gente sta buttando solo altri pesticidi. Il padre pensa che la situazione sia delicata e intima alla figlia di non metterci più piede.

Nica ha fatto sviluppare le larve, le racchiude in un velo bianco e le pone nei tronchi degli ulivi. Ma gli antagonisti hanno bisogno di tempo per riprodursi. Nica cerca il padre, gli dice di aver visto che di notte qualcuno scava nell’uliveto. Nica e Paola seguono l’uomo di notte all’uliveto e lo scorgono che fa sversare qualcosa sulla terra. A casa, la ragazza chiede al padre quanti sversamenti deve fare ancora, l’uomo dice che quel camion era della ditta che stava versando concime nuovo, Nica sostiene che non si trattava di concime ma di qualcosa che veniva dalla fabbrica. Adirato, l’uomo picchia la figlia, la gazza ferisce l’uomo sul volto. Nica prepara le valigie, la mamma la invita a riflettere, poi le dice che è uguale a sua nonna: si occupa degli alberi e non le importa nulla delle persone.

In paese sfila la processione di San Giuseppe. Paola invita Nica ad andare dalla polizia, poi serve il prosecco al padre di Nica. Con tono ironico l’uomo brinda a sua figlia che ha scoperto che gli insetti si mangiano tra di loro. La processione termina su uno spiazzo dove gli ulivi vanno a fuoco. Nica si avventa sul padre.

L’ultima immagine mostra gli insetti antagonisti che si sono riprodotti e che mangiano i pidocchi.

II parassiti, reali e metaforici, l’inquinamento delle terre e delle acque ma anche delle teste degli uomini, stato di natura e imperativi dell’economia: il disastro ambientale in nome di un presunto progresso.

Quale scenario migliore per narrare una storia di inquinamento e di parassiti della zona del tarantino? Alberi secolari di ulivi contro il panorama delle fabbriche. La terra dell’Ilva e del virus killer che ha colpito gli ulivi secolari: è tutta cronaca recente il panorama entro cui si svolge il racconto di Semina il vento.

Il regista Danilo Caputo, classe 1984, viene proprio da Taranto e ha sempre avuto davanti ai suoi occhi quel mostro chiamato una volta Ilva: quel panorama ha fatto crescere il lui “la sensazione di una folle ingiustizia ai danni della natura, di una ferita le cui tracce sono ancora visibili”.

Una natura violentata, bistrattata, calpestata e le teste degli uomini di queste terre che hanno subito un pesante condizionamento. Come ha osservato il regista ci sono due forme di parassiti nel film (animali e umani) e due forme di inquinamento: l’inquinamento delle terre e delle acque e quello mentale.

In questo contesto c’è Nica, la ragazza che studia agronomia lontano e che tornando a casa scopre un equilibrio naturale sovvertito. La giovane coraggiosa eredita qualcosa dal passato per costruire qualcosa di nuovo. Nica difende la natura che vede calpestata e uccisa (ma Caputo ci ha tenuto a precisare di aver scritto il suo film anni fa, prima che Greta Thunberg balzasse agli onori delle cronache), Nica vuole costruire per i giovani, forse, un futuro diverso.

La protagonista del film è pervasa dall’amore per la sua terra, per i verdi ulivi, per gli uccelli: le foglie che si muovono al vento, i rami, i tronchi che sembrano far sentire il loro respiro. Forte è l’amore di Nica per l’uliveto malato che però continua a vivere, nonostante tutto.

Semina il vento è un film di ru-

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