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Tigers

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Temple

Temple

zione così forte e così disperato da diventare l’unico significato dell’esistenza? E che quanto più spietato diventava per Baker lo sconforto verso di sé più il suo pubblico pareva comprenderne il senso di morte per andare in delirio come se l’ascoltare la sua musica fosse l’unica azione vitale della propria esistenza.

“Il blues pervade tutti noi” diceva Chet Baker” abbiamo bisogno del blues perché quando sei stanco del blues non hai più niente su cui contare”. Sicuramente questa è stata la frase che ha spinto Van Eijk a innamorarsi di Baker e ad approfondire la vita dell’artista: ne ha scoperto il fascino musicale vulnerabile sul palcoscenico e l’egoismo che lo divorava nei suoi rapporti personali con uomini e donne sempre sporcati, sempre feriti in un desiderio di dissoluzione senza fine.

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Il protagonista Steve Wall ha assecondato la discesa all’inferno del suo personaggio facendone un lento ritratto d’incanto e di dolore; lo ha accompagnato nei tratti, nei modi, nelle pieghe di sofferenza del suo volto e dei suoi interrogativi.

Il finale pare ricongiungere il personaggio, l’attore che lo interpreta e l’investigatore in una chiusura del cerchio da cui non può uscire nessuno: si può solo restare padroni della propria sofferenza nell’esaltazione della propria solitudine, schiacciato sull’asfalto di una sporca strada di Amsterdam.

FaBrizio Moresco

di Ronnie Sandahl

MMartin Bengtsson è un giovane calciatore svedese che all’età di 16 anni viene acquistato dall’Inter per giocare nella squadra Primavera. È il sogno che aveva dall’età di tre anni quando con suo padre, che si è fatto una nuova famiglia, vedeva le partite del campionato italiano. Ma la vita con i compagni di squadra e lo spaesamento causato dal non conoscere una parola di italiano lo fanno progressivamente entrare in una depressione da cui fatica a trovare una via d’uscita. Sembrano essere tutti coalizzati, con un’eccezione, contro di lui e pronti ad umiliarlo e non passargli la palla tutte le volte che è possibile. L’allenatore e lo staff tecnico non sembrano accorgersi di nulla. La situazione viene un po’ edulcorata grazie alla figura di Galli, il dirigente che sembra avere più chiari gli obiettivi, ma per il resto viene rappresentata la Primavera come una gabbia in cui i compagni di squadra si trasformano progressivamente in tigri pronte a sbranarsi, capaci magari di qualche sporadica solidarietà verso chi perde il controllo, salvo poi abbandonarlo al suo destino.

Durante una delle serate nei locali a base di alcol e droghe, Martin conosce Vibeke, una ragazza di Stoccolma. La ragazza fa la modella, ma non ha mai sognato di diventarlo e non sa cosa vuole fare della sua vita. Lei è vivace, impulsiva, spensierata mentre Martin è metodico, freddo, calcolatore. Tra loro inizia una tenera relazione e la ragazza diventa per Martin una inammissibile deviazione dal percorso su cui sta viaggiando, come se questo fosse segnato da dei binari. Martin, dopo essere stato retrocesso agli under diciassette, viene promosso e convocato per giocare la prima vera partita con la Sampdoria. È il suo debutto, la tensione sale al massimo, la dedizione deve essere totale. Tuttavia il prezzo per seguire i binari è troppo alto per Martin, che è costretto ad allontanarsi da Vibeke e comincia a deragliare. L’ambiente attorno a lui lo consuma e la pressione e il sacrificio si trasformano in estrema solitudine, divorandolo. La sua salute mentale vacilla nel vortice ossessivo in cui entra, fino ad arrivare ad attacchi di panico e di autolesionismo, per cui arriva a staccarsi da solo l’apparecchio per i denti. Fuggito di notte dal dormitorio viene investito da un camion. Quasi miracolato, se la cava con tre costole rotte e qualche ferita non grave. Per giustificare l’accaduto però la dirigenza della squadra farà in modo che da alcuni indagini mediche risulti che il ragazzo abbia avuto una crisi epilettica. Martin, dopo

Origine: Italia, Svezia, Danimarca, 2020 Produzione: Piodor Gustafsson, Lucia Nicolai, Marcello Paolillo, Birgitte Skov per Black Spark Film & TV AB Regia: Ronnie Sandahl Soggetto: libro autobiografico “Nell’ombra di San Siro” di Martin Bengtsson Sceneggiatura: Ronnie Sandahl Interpreti: Erik Enge (Martin Bengtsson), Alfred Enoch (Ryan), Frida Gustavsson (Vibeke), Maurizio Lombardi (Galli), Lino Musella (Luca), Alberto Basaluzzo (Allenatore Panelli), Gianluca Di Gennaro (Tonolli), Daniele La Leggia (Dario), Antonio Bannò (Walter), Antonio Zavatteri (Medico sociale), Liv Mjönes (Karin), Johannes Kuhnke (Peter), Henrik Rafaelsen (Padre di Martin) Durata: 116’ Distribuzione: Adler Enteretainment Uscita: 22 luglio 2021

aver parlato con la madre, come se avesse finalmente preso coscienza, scappa dall’ospedale, va al dormitorio a riprendere le sue cose e torna a casa. Dai titoli di coda sapremo che Martin diventerà uno scrittore.

RRonnie Sandahl, regista e sceneggiatore svedese di Tigers si è imbattuto per caso nella storia del calciatore svedese Martin Bengtsson, promessa del calcio europeo ingaggiato dall’Inter a soli 16 anni. Il regista attingendo dalla stessa autobiografia di Martin Bengtsson, All’ombra di San Siro, ha subito intravisto in quella storia il potenziale per una trasposizione cinematografica, che approfondisse un tema a lui caro: la crudeltà dell’ambiente agonistico gonfiato da incassi stratosferici e caratterizzato da un clima ferocemente competitivo. Tigers non è un film sul calcio, ma un film con il calcio. Al centro c’è la vicenda umana e vera di un ragazzo e la sua solitudine lontano da casa, per inseguire ossessivamente il suo sogno. Un sogno che per essere realizzato non richiede solo delle rinunce, ma un vero e proprio sacrificio. Il film cerca di mostrare cosa vuol dire essere triturati in un meccanismo nel quale si è scelto volontariamente di entrare, come maiali che si presentano davanti alle porte del macello. La pellicola si apre con le immagini del corpo di Martin, giovane calciatore in procinto di trasferirsi all’Inter. Le visite mediche e gli allenamenti pongono l’accento sul suo fisico gracile, ma stimolato dalla ferrea determinazione, che ha come obiettivo il raggiungimento del sogno. Nel calcio però, come in qualsiasi ambito sportivo, alla componente fisica si aggiunge la compresenza, ancor più importante, dell’aspetto mentale, governato da sottili equilibri molto più difficili da allenare. Il ticchettio del timer utilizzato da Martin fa da sottofondo nei primi minuti agli esercizi fisici svolti in casa. È una presenza sonora che si ripete sinistramente nel corso del film e che se da una parte sottolinea la cadenza ritmica del sacrificio, dall’altra avvicina inevitabilmente ad un limite, ad una scadenza. Un suono presago, acuito dal senso claustrofobico delle immagini.

Quella mitologia del successo così a lungo narrata nel cinema, coniugata soprattutto nell’American Dream, viene in Tigers ribaltata, allineando l’ascesa al sogno con la discesa verso l’incubo. Eppure Martin giunge alle porte della massima realizzazione e lo fa tramite le rinunce, sia in termini fisici, allenandosi svariate ore al giorno sin da quando aveva otto anni, sia in termini affettivi e personali. Quello in cui si ritrova Martin è un ambiente colmo di aggressività e dalla scarsa umanità. Domina la freddezza, per cui chiunque ha un prezzo, in base ad esso viene giudicato e può essere venduto in ogni momento. A questa mercificazione si aggiunge un forte individualismo, proprio del sistema capitalistico, che stride con il collettivismo che dovrebbe essere alla base di uno sport come questo. “Dimenticati della squadra. Non è una partita, è solo un’audizione”, gli dice un compagno più esperto. Tramite il racconto personale di Martin Bengtsson dunque, Sandahl veicola l’immagine più industriale e cinica del calcio che spesso rimane nell’ombra, così come le conseguenze sulla mente di giovani ragazzi, ma potremmo allargare il tema anche allo spettacolo, ritraendo le immense ombre che lo avvolgono e mostrando quello che può accadere dietro ai luoghi comuni su ricchezza e celebrità che dominano troppo spesso l’opinione pubblica.

I cancelli dorati che si aprono davanti a Martin si richiudono alle sue spalle diventando una prigione, un’immagine simbolicamente ricorrente nel film e corrodendolo interiormente. Nel suo caso il sacrificio muta in estremo disagio e nella perdita dell’orizzonte psichico, fino a portarlo sul limitare del baratro, costretto anche ad allontanarsi dalla ragazza che per lui rappresentava una delle poche àncore salvifiche. Proprio questa ossessività è al centro della scrittura, fatta di dettagli incessanti e primissimi piani. Sandahl vuole rimanere vicino al suo protagonista, seguirne la vicenda in maniera minuziosa. Come nella metafora della tigre nella gabbia di uno zoo cinese, mansueta per vent’anni e che un giorno ha attaccato l’uomo che le stava dando da mangiare, che dà il titolo al film. Ad interpretare Martin un giovane attore svedese, Erik Enge, che attraverso il suo sguardo intenso ha saputo sfruttare un’apparente fragilità fisica per rappresentarne quella mentale.

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