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Bjarne Melgaard “Elisabeth and Me” di Roberto Vidali

Bjarne Melgaard “Untitled” 2020, oil paint on canvas, 46 x 38 cm, © Bjarne Melgaard/ ADAGP, Paris, 2020, ph courtesy Thaddaeus Ropac London · Paris · Salzburg

Portrait Bjarne Melgaard by Johann Lindeberg, 2013, ph courtesy Thaddaeus Ropac London · Paris · Salzburg

Bjarne Melgaard (nato a Sydney, il 9 sett 1967, da genitori norvegesi) ha avuto una formazione molto articolata e segnata da continui spostamenti di residenza che quasi richiamano un possibile parallelo con la formazione delle menti più geniali del medioevo europeo (si veda a questo proposito “L’Anno Mille” di Georges Duby, dove si porta l’esempio di Gerberto, il quale, dopo aver iniziato gli studi presso il monastero di Aurillac, andò a perfezionarsi a Vich, a Roma, a Reims). Il Nostro ha infatti coltivato una vita errabonda, iniziando la sua formazione alla Norwegian National Academy of Fine Arts (Statens Kunstakademie, Oslo), passando poi nel biennio 1991/1992 alla Rijksakademie di Amsterdam, per perfezionarsi, nel 1992/1993, alla Jan van Eyck Academie di Maastricht, trasferirsi nel 2009 a New York, e ritornare infine a Oslo nel 2017. I suoi riferimenti vanno dagli epifenomeni del la sub-cultura fino alla musica heavy metal. Questi riferimenti si traducono in installazioni, pitture espressioniste contenenti immagini anche scarabocchiate ed enfatizzate e che spesso contengono testi o frasi messe in evidenza. L’autore è guidato da un principio di incorporazione che conduce a una pittura densa, compressa, tendente a esplicitare i l pensiero più che a sottintenderlo, aderendo peraltro di istinto a una serrata e logica aggressività segnica. Questa carica, questa energia non è assente nella storia occidentale del Novecento. Possiamo pensare a tutto il gruppo di Brücke (con tutta la pulsione espressionista ed emotiva che sale in superficie), poi alla carica energetica di Fluxus che si mischia con il segno informale e col dripping (non solo la macchia come indistinto inconscio, ma anche la casualità accettata del risultato fortuito), al New Dada (l’aspetto materico e coinvolgente della banalità), a Basquiat (il grottesco, il deforme e la grafia), a Paul McCarthy (la miscellanea, l’installazione, la pluralità linguistica), fino ad arrivare giù giù fino a Munch e alla sua “cura da cavallo” per i dipinti che venivano abbandonati per essere successivamente ripresi. Questa non è una semplice lista di nomi (che si potrebbe dilatare con ulteriori righe) anche perché il confronto con Munch (anche lui norvegese e inadatto alla vita borghese del suo paese e della sua famiglia) è un paragone che è già stato portato all’attenzione del pubblico, tanto che nel 2015 il Munch Museet su questo tema organizzò la mostra “Melgaard + Munch - La f i ne d i tutto è già avvenuta”. In qualche modo una consacrazione, perché tradotto in parole povere questa most ra lasciava sot t i ntendere:

dopo Munch (o alla pari di) l’altro artista norvegese è Melgaard. Comunque si sta a parlare di due vite trasgressive (o fuori dall’ordinario) messe a confronto, per un’arte trasgressiva e del tutto straordinaria, in tutta la usa ampiezza espressiva. Ecco, tutti gli elementi fin qui espressi, sono ritornati a galla nella mostra “Elisabeth and Me” (Galerie Thaddaeus Ropac Paris, 9 dicembre 2020 - 13 febbraio 2021). A parte lo spunto narrativo, fornito dalla figura di Elizabeth Wurtzel, scrittrice e giornalista statunitense, e autrice del libro di culto “Prozac Nation: Young and Depressed in America: A Memoir” (pubblicato nel 1994 e dove si racconta in prima persona della sua lotta contro la depressione), tutti gli altri elementi stilistici rimangono in primo piano, ben configurati e ben riconoscibili. La mostra si sviluppava su un continuum narrativo basato su una specie di fondale della quotidianità (con riferimenti al mondo di Elizabeth e realizzato con carta da parati) al quale si sovrapponevano le più tipiche e incisive immagini (pitture a olio su piccole tele) del Nostro: figure umane e animali, in posture caricaturali o potenzialmente elegiache. L’insieme si è trasformato in un’installazione site-specific molto potente e del tutto coinvolgente. Certo, questa sovrapposizione narrativa ci indica anche un dialogo tra riferimenti e citazioni diverse: non solo lo spunto letterario, ma il dialogo evidente tra una cultura visiva sub-metropolitana e una alta. Salta

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all’occhio che non può essere casuale un riferimento stilistico ai ritratti femminili della tarda maturità di Picasso, l’autore che va segnato come pietra miliare della pittura del Novecento, e Melgaard ha osato giocare di sponda, non citando, ma reinterpretando, in un meccanismo ossessivo del “qui e ora”. Certo, Hans Ulrich Obrist, in passato, ci ha fornito ben altre connessioni, ma come si sa i riferimenti e gli spunti possono sempre essere molteplici e aiutarci ad aprire altri orizzonti: “He is especially interested in sub- and subaltern cultures, and does not so much meld as superimpose his innumerable references into installations that situate his paintings and other objects in frenetic, spatialized novels. Melgaard’s vision is singular, but if we look for them, we can see in his paintings a number of influences: the Nordic lyricism of Karel Appel, the political expressionism of Asger Jorn and the amazing physicality of Philip Guston, the latter evident not least in Melgaard’s use of strong, black outlines for his abject alter-egos – like the minipig Les Super”. Quello che è certo è che questo innato desiderio di Melgaard di voler provocare o colpire la più piccina sensibilità del pubblico ordinario si manifestò fin dalla sua prima mostra a New York (2000), quando espose sculture di api impegnate in azioni copulatorie. E come sappiamo le tematiche sessuali non passano mai inosservate. Successivamente un altro scandalo lo coinvolse, quando nel 2013 pensò di interpretare e reinventare “Chair”, “Hatstand” e “Table”, un gruppo di sculture in fiberglass di A llen Jones (opere del 1969, esposte per la prima volta nel 1970 e che ben potevano essere dichiarate maschiliste) dove il corpo della donna, esibito in abiti succinti, fungeva da sedia e tavolino. La versione di Melgaard pretendeva però di spostare l’attenzione dal corpo al colore della pelle (nera) e ciò gli valse l’accusa di razzismo, sebbene l’autore avesse dichiarato che la sua intenzione era proprio inversa: ovvero di aver voluto toccare i temi della differenza di genere, delle politiche razziali e della sottomissione. E qualsiasi persona dotata di buon senso e che abbia la capacità di mettere i n moto i l suo cervello non può che accondiscender e con l’ i n ter pretazione autentica, dando perciò ragione a Melgaard. Purtroppo, troppe volte, la forma distrae il pensiero delle

persone e Sergej Michajlovič Ėjzenštejn in qualche modo ci aveva già messi in guardia riguardo a questo pericolo: l’occhio dello spettatore non deve essere traviato da immagini troppo forti, altrimenti il sentimento e la capacità di comprensione ne risentono. E il Nostro, procedendo in maniera inversa, a forza di pugni nello stomaco, non può esimersi (per urgenza interiore, per dare forza al grido) dall’immagine forte e di grande impatto. Ma possiamo pure dire che ne è passata di acqua sotto i ponti e l’impulso chiamato a spezzare le righe e l’ordine costituito cerca col lancio del sasso nello stagno proprio di far sì che degli schizzi di fango ci debbano cadere addosso, e questo perché per avere una voce di verità e non solo una sonorità melliflua bisogna assecondare le parole del Giovanni Battista, là dove afferma: “Conviene che noi compiamo ogni giustizia”. E la forma non può essere discriminatoria: la forma – quando serve – può anche urlare e lacerare gli animi, nel senso che il fine precipuo non è quello di allietare gli animi o di fare un’arte gastronomica (cioè da degustazione), ma all’opposto di permettere con un colpo ben piazzato di porre l’uomo davanti al suo dolore. Per Melgaard i tempi di una fiacca eloquenza grafica sono finiti: ora si debbono vivere i tempi di una rumorosa e vigorosa affermazione di principi emozionali e psicagogici. A questo proposito, nel voler cercare un riferimento conclusivo, suonano come illuminanti le parole di Patricia G. Berman: “Melgaard’s referential work – visual, acoustic, and textual – with its images and sounds drawn from Black Metal music and culture, NAMBLA (the North American Man/Boy Love Association), and other referents, all woven into a deep web, have triggered responses that ranged from the closure of his exhibitions, to the indignation of child protection advocates, to a global calumny regarding race and power”. E questa mostra, nella sede parigina di Ropac, ne è stata una ulteriore e ben azzeccata conferma.

Installation view from Bjarne Melgaard exhibition (“Elisabeth and Me”, 9 December 2020 - 13 February 2021), ph Charles Duprat, courtesy Galerie Thaddaeus Ropac London · Paris · Salzburg

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Sarah Wren Wilson Suspended Fragments by Valeria Ceregini

Sarah Wren Wilson “Lets Attach” 2020. Acrylic and oil bar on canvas, 120 x 90 cm. Ph credit and courtesy the artist and ARTIQ, London

Sarah Wren Wilson “As the Kite Flies” 2020. Acrylic and ink on canvas, 45 x 35cm. Ph credit and courtesy the artist and SO Fine Art Editions, Dublin

More than ever, we all are like suspended fragments in this alienated world where we are living a discontinued and liquid life due to pandemic. This isolation is becoming part of our everyday life, and it is affecting all levels of our society, but, probably the artists are the ones best suited to face solitude. Indeed, every artist like every literate needs their own time to think about, internalizes emotions and translate them into art. This is part of being an artist, a creative and imaginative person capable of alternatively performing reality. Sarah Wren Wilson’s body of works selected for her artist book titled A Snake, A Ladder (Linenhall Arts Centre, Dublin: Plus Print, 2021) demonstrates how an artist, and in this specific case a painter, was able to turn into paintings made by colours and forms, pigments and brushstrokes what was surrounding and influencing her during the latest lockdown. Her most recent works are so indirectly and inevitably responding to the urgency to react creatively at these times.

Sarah Wren Wilson’s oeuvre consists of synergic paintings where the colour finds the body in every thickness, and its intensity is determined by the artist act after act, idea after idea like a sequence of letters that are composing a word and even more a sentence. This comes from a dialogue between the artist and her painting like a sequence of words and thoughts. It is a narrative process that comes to her mind constantly involved in the research of inspiration, a suggestion, an idea able to release emotions on the canvas perpetually responding and repeating variations in colours and forms. Each painting, even if it is a wholly autonomous work, is indeed part of a series of interlinked artworks as a sort of continuation of a bigger and deeper storyline between the artist and her art. This flow of thoughts is comparable with the stream of consciousness well known in the Irish literature, thanks to James Joyce, who was one of the pioneers of this narrative method. Here we are in front at something quite similar, Wren Wilson’s painting process is subjected to many external stimulations, visual and acoustic catalysts, and personal emotional experiences of whom she always takes note. These notes represent the first step for the artist to start a new painting, the representation in colours and forms of her words and experiential world. This mix of happenings and feelings – tidily collected day by day in her everyday life – have an essential role in the dialogue between the artist and her painting, a soliloquy that represents the research of looseness, to

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create her compositions out of flat basic elements. These arrangements of forms are not in turn organized into representational associations, but they follow an order imposed by the sequence and connection between colours. «A painting is essentially a flat surface covered with colours in a particular arrangement» declared in 1890 the French painter Maurice Denis, and this demonstrates the primacy of painterly means over their representational function. In Wren Wilson’s paintings, the painted colours and forms ultimately manage without the reference system of the exterior world of objects but in relationship with personal experiences and so the fourth dimension. It becomes a journey into the artist’s world. For Sarah, painting become an instrument to express and expand time, to blur the slighted and switching borders of her paintings to f ind always a new development of this painting tour. Ever y artwork is therefore the blank page of an artist’s journal where every mark is related to each other as an innovative tale of forms. Sarah Wren Wi lson’s traditional basic colours have both tacti le and translucent quality, spatial and visual property, and they are a pivotal part of this intuitive, apparently randomized, decisional process of telling simply the essence of suspended fragments through her abstract narrative compositions.

Sarah Wren Wilson “A Haze, A Wonderment” 2020. Acrylic and oil bar on canvas, 40 x 30 cm. Ph credit and courtesy the artist and The Linenhall Arts Centre, Co. Mayo

Sarah Wren Wilson “Which Way” 2020. Acrylic and oil bar on canvas, 120 x 90 cm. Ph credit and courtesy the artist and ARTIQ, London

cross over the restrictions of time and space. During this conversation, what is outcoming is an organic process made by a series of accidental struggles and frustrations, and deliberate marks and colours in a perpetual tension researching the equilibrium between the aesthetic and the awkward spontaneity of the artistic gesture. It seems like she is unlearning to paint as many masters did before her, like Pablo Picasso. He stated that he spent his lifetime painting like a child, therefore to pursue it, she is taking many risks to realize seemingly odd and intuitive paintings. Actually, each choice and act is the result of her own thought out action based on her pragmatic experience and knowledge. Sarah’s ambitious aim leads her to delve deeper into a personal and peculiar visual vocabulary where intense colours, irregular frames, overlapped forms and asymmetric geometric compositions animated the common flat surface of a canvas which becomes an intrigued place where colour takes form. Her impactful pictorial language possesses a powerful colour scheme. The canvas becomes the bearer of colour, and Sarah’s compositions convey a completely unique experience to viewers. Moreover, the colours take on a previously unknown dynamic of their own. Her colours appear to flow on the surface and to find their arrangements as if by chance. With this type of process, the reverberations of abstract expressionism can also be felt in Wren Wilson’s work, but above all, her work is influenced by the dissolved reality. It is a battle between control and uncontrol, the overlapping and fading of borders and categories. Fundamental i n her work is also t he mater ial it y of paint, plastered pigments create a concrete texture, an embodied surface where each mark is meaningful of an unknown world. Her painterly elements stand first and foremost for themselves, acting upon the viewer as suspended fragments of sense. Her non-objective paintings

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Spray

Eventi d’arte contemporanea

Michele Tocca “Verticale terra” 2021, olio su tela, 15,2 x 25,2 cm, ph Sebastiano Luciano, courtesy Z2o Sara Zanin Gallery, Roma

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Richard Mosse “Pool at Uday’s Palace, Salah-aDin Province, Iraq” 2009, © the artist and Jack Shainman Gallery, New York. Courtesy Fondazione MAST, Bologna

BOLOGNA La Fondazione MAST presenta “Displac e d ”, m ostra antologic a del fotografo irlande s e Richard Mos s e, il cui lavoro esplora le possibilità di intersezione tra fotografia documentaria e arte contemp o r a n e a c o n l ’ inte nto di r i ve la r e l ’ in visibile c onf ine lungo il quale si s c on trano i c ambiamenti sociali, economici e politici nell ’ambito di una riflessione etic a incentrata sulle tematiche più at t u a l i d e l l ’e p o c a g l o b a l i z z at a c o m e m ig r a zi o n e , c o nf lit to e c a m b ia m e nto climatico. L’artista, come spiega il curatore Urs Stahel, s c eglie di evidenziare c on le sue imma gini c iò c he pre c e de e c i ò c h e s e g u e il m o m e nto c ulm in a nte e traumatico in cui la violenza acc ade, esprimendo a questo modo una precisa posizione critic a nei confronti delle c onvenzioni nar rative e c omunic ative dei me dia, che inve c e tendono a privile giare at timi e c lat anti in pirote c nic a e spettacolare competizione sul piano dell ’ef f ic ac ia e m otiva . P e r s c ardinare i criteri rappre s entativi della fotografia di guerra, Mosse si av vale delle più a g giornate te cnologie, sp e ss o di deri vazione militare, che permettono di tradurre in immagine (a volte con risultati estetici sorprendenti) informazioni solitamente estranee alle percezioni visive.

Ad e s empio p er il proget to “ Inf ra” l ’artista ha esplorato le miniere congolesi di c o lt an, min e r al e alt am e nte tos si c o d a c u i s i r i c av a i l t a n t a l i o , m ate r i a l e abus ato dall ’industria elet tronic a p er la produzione di smartphone, document a n d o la d e v a s t a zi o n e d e l p a e s a g g i o mediante sc atti su Kodak Aerochrome, una p e lli c o la da r i c o gnizio n e milit are sensibile ai rag gi infrarossi progettata p er lo c aliz zare i s og get ti mimetiz zati. G li s c at ti r e g is tr a n o la c l o r of illa p r e sente nella vegeta zione, trasformando la lussureg giante foresta pluviale in un pae s a g gio surre ale dai toni del ros a e d e l r os s o. N e g li ultimi a nni M os s e ha iniziato a investigare la foresta plu viale sudameric ana, dove p er la prima volta ha spostato l ’interesse di ricerc a dai c onf lit ti umani alle imma gini della natura. In “ Ultra”, c on la te cnic a della fluorescenza UV, l ’ar tista sc andaglia il sottobosco descrivendone minuzios amente la biodiversità tra proliferazione e para ssitismo, voracità e convivenza. E m ili o Vav a r e lla p r e s e nt a a G A L L L E RIAPIÙ la ter za mostra del progetto rs548049170_1_69869_T T (The Other S h a p e s o f M e), v i n c i t o r e d e l l a s e s t a edizione di Italian Council (2019). L’artista, ricerc atore alla Har vard Univer sit y in F ilm and V isual Studie s and Critic al Media Practise, coniugando

inte r dis c ip lin a r it à a r tis ti c a e r i c e r c a teoric a, da sempre nel suo lavoro analiz za le logiche che pre sie dono al f un zionamento di macchine e software (con particolare attenzione alle disfunzionalità) per estrapolarne gli impreve dibili effetti poetici e creativi. Il suo approccio si fonda sull ’atto di collezionare mate riale preesistente per poi riorganizzarlo se condo proce dure plausibili ma paradoss ali, enfatiz zando l ’autosuf f i cienza creativa di processi attivati dalla volontà umana che, incrementandosi, acquisiscono un’imper turbabile esistenza autonoma. Il titolo della mostra f a r if e r im e nto alla p r ima r iga di te s to c he r isult a dalla gen otipiz z a zione del DNA di Vavarella : il pro c e s s o, f inalizzato a determinare le dif ferenze nel genotipo tra individui tramite test biologici, viene qui impiegato con l ’ulteriore intento di ottenere un codice sorgente binario (con valenza sia di origine e sia di elab ora zione) da utiliz zare p er pro grammare una macchina tessitrice jacquard e un telaio elettronico in modo da ot tenere due dif ferenti s erie di ara z zi i c u i p at te r n d e c o r at i v i t r a d u c o n o l a sezione di patrimonio genetico dell ’artista responsabile dell ’espressione dei suoi c aratteri somatici. Gli slittamenti tr a i du e p r o d ot ti, d ov uti a ll e di ve r s e tecnologie da cui dipendono, dialogano Juliet 203 | 95

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