Alla periferia dell'impero. Viaggio fotografico nel Salento del Ventennio

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Roberta Pappadà

ALLA PERIFERIA DELL’IMPERO Viaggio fotografico nel Salento del Ventennio


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 9788898773541 In copertina: Gruppo di fascisti. Propr. Giovanni Guido, Lecce. Progetto grafico di copertina: Alberto Giammaruco. Editing fotografico: Alessandro Sicuro. Stampato presso Arti Grafiche Panico – Galatina (LE), nel mese di aprile 2016. L’editore si professa a disposizione per le immagini delle quali non è stato possibile rintracciare eventuali aventi diritto. La realizzazione di un libro comporta per l’autore e la redazione un accurato lavoro di revisione e controllo delle informazioni contenute nel testo, dell’iconografia e del rapporto tra testo e immagine. Nonostante il costante perfezionamento delle procedure di controllo, è quasi impossibile pubblicare un libro del tutto privo di errori o refusi. Per questa ragione ringraziamo fin d’ora i lettori che vorranno segnalarli alla Casa editrice.

© Edizioni Kurumuny – 2016


Indice

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Presentazione di Alessandro Natalini

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Introduzione

CAPITOLO PRIMO Il Salento nel Ventennio tra oppressione e libertà 17

Il contesto europeo

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Il fascismo in Puglia e nel Salento

CAPITOLO SECONDO Le immagini Fascismo e politica dell’immagine 51

1. Quando mancasse il consenso, c’è la forza Salento 1919-1925: lotte politiche e avvento del fascismo

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2. Per l’impero delle camicie nere Le gerarchie del regime

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3. Kundu corpu pianni Le organizzazioni giovanili fasciste nel Salento

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4. Le cose mutano come per incanto Opere pubbliche e realizzazioni del regime nel Salento


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5. Lecce città d’arte Lecce e provincia, fotogrammi fuori dal regime

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6. La nostra volontà di conquista Le guerre del fascismo La campagna d’Etiopia tra rappresentazione del regime e liberi fotogrammi La guerra d’Etiopia nelle immagini di Costantino Durelli Quando l’Italia non ripudiava la guerra: le immagini dell’orrore La Seconda guerra mondiale L’otto settembre 1943 nel racconto di Brizio Tommasi

CAPITOLO TERZO Dai sali d’argento al codice binario 203

Quali storie raccontano le fotografie

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Bibliografia essenziale

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Ringraziamenti


Presentazione di Alessandro Natalini

Un libro di storia e di fotografia, una raccolta di documenti e testimonianze, una narrazione originale e partecipe. Le pagine che state per leggere, sfogliare, consultare sono tutto ciò, ma sono anche un atto d’amore per la propria terra. Un Salento di cui si raccontano le vicende grandi e terribili che l’hanno segnato e che non furono meno grandi e terribili, se accaddero alla periferia dell’impero, in un impero di periferia. Avvenimenti che invece rischiano di scomparire, come le persone in carne e ossa che vi furono coinvolte, dentro le retoriche della grande storia, nelle inevitabili gerarchie che si disegnano nel tempo e nella memoria. Eppure è proprio questa la scommessa difficile da vincere per chiunque cerchi di custodire la memoria: ridare senso e dignità ai diversi protagonisti, restituendo a ciascuno e a noi che leggiamo il senso delle loro vite. È ciò che l’autrice con sapiente leggerezza è riuscita a realizzare. Ne è testimonianza la cura con cui ogni fotografia è stata scelta, collocata, opportunamente presentata con un rigoroso e documentato apparato didascalico. Un lavoro paziente e certosino che si è dilatato per un arco temporale ampio e che anche da questa complessa genesi trae la sua forza. Il suo nucleo ri-

sale a un tempo – quello dei sali d’argento e delle fotografie artigianali – che, alla luce delle recenti accelerazioni, sembra collocarsi davvero in un’altra epoca. Questo sguardo lungo rende ancora più credibile il racconto proposto, non è infatti figlio di fascinazioni momentanee, piuttosto è il faticoso punto di equilibrio raggiunto, incrociando lavoro di ricerca sul campo e letture ragionate. Un punto di equilibrio solidamente argomentato che permette al lettore di orientarsi prima nella vasta produzione storiografica di riferimento e poi di procedere in un percorso autonomo, di cui l’autrice ha segnato i confini, ma che non è certo obbligato. È infatti esplicito il punto di vista antifascista che innerva l’opera, ma proprio perché onestamente dichiarato, è la migliore garanzia della correttezza metodologica con cui la ricerca è stata condotta. Sin dal titolo della prima sezione fotografica “Quando mancasse il consenso, c’è la forza” è esplicita la chiave di lettura, ma scorrendo immagini e didascalie la complessità di quella stagione, le contraddizioni interne al nascente fascismo, gli errori e i limiti di un’opposizione che immaginava ben altre soluzioni, i diversi scenari sono tutti presenti. È ampia anche la panoramica di come il sistema di potere che il re-

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gime andava costruendo sia stato più articolato e fragile, a un tempo, di quanto comunemente si creda. Una complessità resa visivamente nelle sezioni dedicate alle gerarchie del regime, alle sue organizzazioni giovanili e alle opere pubbliche che realizzò e che trova nell’ironico focus su Lecce, complice la voce narrante di Verri, il suo completamento. Il viaggio nell’oscurità del Ventennio non poteva che concludersi con la disamina di quella che ne fu la tragica cifra – la guerra che l’aveva generato e che finirà con l’inghiottirlo – vista, però, da una prospettiva particolare, quella di Costantino Durelli e di Brizio Tommasi. In un libro che pure è sempre denso, sono forse le pagine più intense, anche per la riuscita sintesi tra quelle che solitamente si indicano come macro e microstoria. L’impianto narrativo proposto permette dunque di comprendere meglio sia fatti storici noti ma su cui è ancora fondamentale interrogarsi, sia quella dimensione “esistenziale” che rimane la più difficile, ma anche la più affascinante da indagare. Accompagnati da una gradevole prosa il libro ci guida al confronto con questioni che conservano un’evidente attualità, prima fra tutte quale sia stata la vera natura del cosiddetto consenso in quegli anni. Tema sempre sensibile, ma mai così centrale come oggi, in un’epoca di formazione e informazione continua e mainstream.

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Dall’analisi dell’autrice emerge, in particolare, la debolezza culturale, prima ancora che politica delle classi dirigenti di origine liberale, la loro disponibilità ad adattarsi ai nuovi equilibri, a conferma di un’innata tendenza al conformismo. Una prassi da cui fu tutt’altro che immune la cosiddetta rivoluzione fascista, in particolare al sud. Una dinamica che dà ancora più valore a quell’antifascismo esistenziale che persistette tra gli strati popolari, come i più recenti e completi studi su quegli anni con sempre maggiore nettezza sottolineano. Un’interpretazione questa che l’autrice richiama e valorizza, perché non rimuove la pesantezza del contesto degli eventi, dando così consistenza a quella felice immagine – “l’urto elementare” – con cui già Roberto Battaglia, nei primi organici studi sul moto resistenziale, restituiva al Meridione il suo posto nel processo di liberazione e rinascita dell’intero paese. Fin dal titolo l’equilibrio tra la documentazione di ciò che per semplicità chiamiamo i fatti e una molteplicità di suggestioni è una delle caratteristiche di questo lavoro, che non ha mai la pretesa di essere ciò che non potrebbe – un libro di una storica professionista, perché l’autrice non lo è secondo i canoni prevalenti – ma che nondimeno offre riferimenti chiari e completi per orientarsi, incuriosirsi e comprendere. Una selezione ragionata e fedele


Introduzione

Entravo nelle case, spiegavo il mio lavoro, chiedevo le foto. Venivo ascoltata con diffidente attenzione, poi le foto arrivavano e insieme alle foto i racconti. Talvolta erano poche immagini sparse, a volte interi album: le poggiavo su una sedia in cortile o alla luce di una finestra o su una loggia, dipendeva dalla casa e da come era il tempo quel giorno. Fotografavo con una piccola Fuji. Tornavo, chiedendomi cosa era rimasto impresso sul negativo. Maneggiavo con sacra cautela la pellicola impressionata, l’immagine concepita, da mettere in gestazione e portare alla luce. Quante cure! Il buio totale, i bagni alla giusta temperatura, i tempi misurati. Tutto restava insaputo, all’oscuro fino a quando guardavo le pellicole stese al filo. Valutavamo il negativo, i contrasti, la grana, anticipavamo l’esito della qualità della foto. Sotto l’ingranditore iniziava una specie di ulteriore travaglio, dal bagno di sviluppo l’immagine infine si rivelava, punti scuri comparivano sul foglio bianco; evitavo il cronometro, contavo a mente i secondi di esposizione, mi sembrava così di avere più potere nel decidere quando la foto era pronta, completa, giusta. La

osservavo nel bagno di fissaggio, la scrutavo e in quel rapporto segreto, intimo, solitario l’ascoltavo, l’amavo. La riproduzione di un originale mi sembrava unica, irripetibile come l’originale stesso. Il risultato dipendeva dalla mia perizia tecnica, ma anche da tante casualità connesse alle circostanze della ricerca, non ultimo l’incontro con i proprietari, il loro atteggiamento, la loro disponibilità, la fiducia che riuscivo o meno a farmi accordare. Passavo le notti in camera oscura, il procedimento alchemico mi restava misterioso, non ero proprio io a fare l’immagine, i grani d’argento agivano con autonomia e precisione, rivelavano le immagini sotto i miei occhi dopo che la luce aveva alitato, come un ánemos, a ciascuna la sua propria vita. Non agivo in maniera molto diversa da chi aveva prodotto l’originale. Alla fine ogni singola fotografia prendeva posto insieme alle altre, in un disordinato insieme, sulle piastrelle del bagno, ad asciugare. Si guardavano e si riguardavano durante il laborioso processo alla fine del quale avrebbero lasciato il rude laboratorio casalingo per trovare collocazione in un discorso, in una narrazione, in un contesto.

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Il contesto in cui portavo quelle immagini era l’Università di Bologna. Arrivavo con le mie riproduzioni fatte in casa, rammaricata perché non erano certo perfette: il materiale era costoso, gli errori diventavano sprechi che non potevamo permetterci. Erano gli anni Ottanta, la fotografia aveva appena fatto ingresso nella storia degli storiografi, il dibattito era nel vivo. Quali significati dare alle immagini del passato? A quali condizioni la foto diventa documento storico capace di rappresentare criticamente il passato? Gli studiosi del settore si confrontavano con la specificità del mezzo fotografico e col particolare rapporto che esso stabilisce con la realtà indagata: «Testimonianza di un passato, il nostro, essa dà l’illusione di poterlo possedere, poiché attraverso di essa è possibile stabilire col passato un rapporto particolare, che ci dà una particolare sensazione di conoscenza e di potere. Il rischio implicito in questo impatto emotivo è quello di giungere a un prodotto esteriormente gratificante, ma scarsamente rilevante da un punto di vista storico.»1 Non sempre coglievo con chiarezza il nesso tra le discussioni accademiche sul “frammento fotografico” e le immagini da me raccolte in un Salento per molti versi ancora senza storia. A Bologna mi accoglieva, distintissimo di seria e squisita galanteria, il professor Massimo Legnani.2 Quando ero nel Salento comu-

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nicavamo per posta, ricevevo le sue lettere scritte a mano: annotazioni, osservazioni e indicazioni di lavoro attraverso le quali, partendo dal materiale fotografico, mettevo a fuoco episodi della realtà salentina e del contesto culturale di allora, ricercavo informazioni sulle realtà locali e nazionali di riferimento, cominciavo a costruire una grammatica dei fatti, a delineare un discorso. Le radici di questo lavoro sono dunque in quell’ambiente culturale e storiografico. La grande attenzione critica verso la fotografia caratterizzò quel periodo e portò presto alla realizzazione di importanti lavori che hanno assunto un proprio valore nell’ambito della ricerca storica. Nel giro di pochi anni la storia d’Italia è stata ripercorsa anche attraverso le fotografie. Contemporaneo a tutto ciò fu l’arrivo del digitale. Ancora prima di scalzare il mercato della tecnologia analogica, le immagini digitali ponevano nuove domande, aprivano interrogativi e confronti col passato e col presente fino ad allora impensati. Il dibattito sull’immagine fotografica si riaccese, radicalizzato, connotato di inedite angolature. Ho ripreso questo lavoro apprezzando nella pratica tutti i vantaggi del riprodurre i fotogrammi analogici in formato digitale e la straordinaria possibilità di fruizione degli archivi storici e delle fonti digitali attraverso il mio portatile: documenti, immagini, testimonianze, in-


CAPITOLO PRIMO Il Salento nel Ventennio tra oppressione e libertĂ



Il contesto europeo

La crisi e la rinascita dei regimi democratico-liberali, la Rivoluzione russa con le sue speranze, i suoi limiti, le sue irrisolte contraddizioni, l’ascesa e il crollo dei fascismi: il profilo del secolo breve1 è tanto noto quanto indefinito. Gli storici indagano ancora quegli anni, ridisegnandone via via i contorni, alla luce di nuove analisi e nuovi filoni di ricerca e tra di essi il Fascismo è sicuramente tra i più dibattuti. Dal “Fascismo eterno” di Eco alla parentesi di crociana memoria, lo spettro delle interpretazioni possibili è decisamente ampio. Fu il figlio legittimo dell’immane carneficina della Prima guerra mondiale e delle contraddizioni del capitalismo o fu la risposta all’accresciuto potere della classe operaia, la reazione delle classi dirigenti davanti alla Rivoluzione russa e al timore che dilagasse? Fu l’ultima involuzione dei sistemi liberali o viceversa si affermò contro lo Stato liberale proprio perché esso tendeva all’uguaglianza e all’apertura verso i nuovi soggetti sociali? E si potrebbe continuare con il pericolo di perdere il filo. Ecco perché nell’economia di questo libro ci è parso funzionale limitarsi alla coppia oppressione-libertà per orientarsi e collocare il materiale fotografico

raccolto. Sia perché è un criterio facilmente leggibile, sia perché disvela la linea di continuità e il debito profondo del Fascismo verso la guerra: è da lì infatti che vennero la legittimazione della violenza e le tecniche di controllo. E che sia stata la guerra a dare il ritmo al Novecento e di come il Fascismo a quel ritmo abbia marciato con il più totale disperato – dal nome più diffuso tra gli squadristi – abbandono è proprio bene non dimenticarlo. Nel gennaio 1925 Mussolini, assumendosi la responsabilità del delitto Matteotti, diede via alla fase di liquidazione e di sostanziale smantellamento dello Stato liberale e delle funzioni del Parlamento, portando il paese verso la dittatura. Di fronte all’avanzare del Fascismo e dei regimi autoritari che a esso si ispiravano le istituzioni democratiche entrarono in crisi in modo rapido e ineluttabile: negli anni tra le due guerre si affermava, con diverse forme e in tempi diversi, in gran parte dell’Europa. Non è però nelle soluzioni individuate, come hanno evidenziato in particolare gli studi sulla dimensione europea del Fascismo, che ne va ricercata la specificità. Nei diversi paesi il processo di fascistizzazione assunse caratteri particolari2 in ragione delle differenti condi-

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zioni storiche: adottò fisionomie modellate, più o meno opportunisticamente, sui vari contesti nazionali, culturali e sociali d’origine. Ciò che lo contraddistinse ovunque fu l’uso di violenza terroristica tesa all’oppressione sociale. Il tabù della violenza in politica, che faticosamente le diverse culture liberali, socialiste e cattoliche – attraverso le elezioni, la partecipazione, l’associazionismo, i sindacati – avevano cominciato ad affermare, dopo l’immane carneficina della Prima guerra mondiale era già definitivamente saltato. Nell’averlo cinicamente compreso e nell’aver agito coerentemente con questo assunto, sta dunque la specificità del Fascismo. Poi, come suggerisce Reinhard Kuhnl, vennero il principio del capo, il partito unico, la creazione di una milizia di partito, l’ideologia elitaria e razziale, il corporativismo di Stato che regola l’economia senza intaccare il principio della proprietà privata,3 ma non furono che l’evoluzione di una scelta di campo: da una parte la violenza, dall’altra le mediazioni politiche che almeno idealmente aspiravano a sostituire al diritto della forza, la forza del diritto. Il dramma fu che i confini del primo campo erano stati così tragicamente dilatati dalla Prima guerra mondiale che per molti fu quasi inevitabile esservi calamitati. Il consenso ai movimenti e ai regimi fascisti venne innanzitutto dai ceti medi urbani o ru-

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rali. La piccola e media borghesia intimorita dalla crisi postbellica, perduta la fiducia nel sistema politico tradizionale, si orientò verso i movimenti nazionalisti e fascisti. Di lì a poco, la distruzione dello Stato di diritto della tradizione democratico-liberale diventerà un fatto costitutivo dell’ideologia e della pratica del Fascismo in gran parte dell’Europa. L’attrazione del Fascismo fu molto forte anche sui giovani, specialmente sugli studenti delle università europee: già prima della Marcia su Roma il 13% dei membri del movimento fascista italiano erano studenti; in Germania, la percentuale variava dal 5 al 10% ed era iscritta al partito dal 1930, prima dell’ascesa di Hitler. Anche gli ex ufficiali provenienti dal ceto medio erano ben disposti al Fascismo. Se è vero che la maggior parte degli uomini che furono costretti a combattere la Prima guerra mondiale aveva maturato un profondo odio verso la guerra, ci fu anche chi aveva vissuto l’esperienza bellica senza ribellarsi e al ritorno dal fronte covava un forte sentimento di superiorità verso chi non aveva combattuto. Per costoro, anche a guerra finita, l’unico valore esistenziale di riferimento rimase la vita militare, con tutto ciò che comportava in termini di spirito di gruppo, esercizio della disciplina, uso delle armi e del loro potere. Aderire alle squa-


Il fascismo in Puglia e nel Salento

Il Fascismo fu il risultato della complessa crisi che si manifestò in tutta l’Europa alla fine della Prima guerra mondiale. Per la società e le strutture dello Stato italiano le conseguenze del conflitto furono sconvolgenti. Si aprì un periodo di profonda crisi generale, la classe dirigente fu investita da una massiccia ondata di proteste. Il malcontento era diffuso ovunque, tutto il mondo del lavoro era in agitazione. Per l’industria, che la guerra aveva portato a una maggiore concentrazione e a una più forte dipendenza dalle commesse statali, si poneva il problema della riconversione; mentre i lavoratori, che più di tutti avevano pagato il prezzo del conflitto, avanzavano radicali richieste. Speravano in un generale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; in particolare i contadini reduci si aspettavano di diritto ciò che durante la guerra era stato loro promesso: la terra.7 Tra il gennaio 1918 e l’autunno 1919 tornavano a casa più di tre milioni di italiani che erano al fronte al momento dell’armistizio. Essi aderirono perlopiù all’Associazione Nazionale Combattenti; solo una piccola frangia fece riferimento a organizzazioni estremiste. Ma nelle grandi città italiane l’organizzazione

degli Arditi smobilitati raccolse circa ventimila uomini che provenivano dalle truppe d’assalto: avevano goduto di premi, privilegi e immunità e non erano certo disposti a rinunciarvi. Si trattava in gran parte di appartenenti ai ceti sociali più poveri e privi di coscienza politica, sbandati e anche criminali tornati in libertà dopo l’amnistia del 1915 e arruolati nell’esercito. Erano fanatici nazionalisti e sarà proprio il loro attivismo a dare il tono a quegli anni. Gli Arditi parteciparono all’assemblea di fondazione del movimento fascista a Milano il 23 marzo sotto la presidenza del loro capitano Ferruccio Vecchi, insieme ai Fasci futuristi di Marinetti; neanche un mese dopo, il 15 aprile, le squadre del neonato movimento assaltarono e distrussero la sede del quotidiano «Avanti!» di Milano, aprendo così l’ondata di violenza fascista che si scatenerà in tutto il paese negli anni successivi. Ai vertici delle squadre d’assalto erano gli Arditi in camicia nera, adottata ufficialmente dai fascisti alla fine del ’21. La disoccupazione, il rincaro dei prezzi, la crisi generale che investiva l’intera società italiana portarono tra il ’19 e il ’20 a imponenti scioperi. Una serie di agitazioni investì tutti i

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settori, dagli addetti ai pubblici servizi agli operai del nord, ai braccianti della Val Padana; nelle città si moltiplicavano le proteste popolari contro il carovita, represse in modo violento e sanguinoso dalle forze dell’ordine. A ciò si aggiungeva la violenza degli Arditi che «armati di bombe a mano e pugnali, aggredivano pacifici cortei di lavoratori, formati da uomini, donne e bambini che sfilavano per le strade privi di ogni protezione organizzata. A Milano, Roma, Napoli e in altre grandi città, numerosi furono gli incidenti sanguinosi da loro provocati.»8 Mentre al nord, insieme al bracciantato agricolo padano, si organizzavano gli operai delle grandi fabbriche, al centro e nel sud la protesta partì dalle campagne. I contadini reduci, organizzati nelle associazioni costituitesi tra gli ex combattenti, iniziarono l’occupazione delle terre. Diverse erano nel dopoguerra le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori agricoli: la Federterra, di orientamento riformista e socialista e facente capo alla CGdL, raccoglieva il maggior numero di iscritti, soprattutto nel bracciantato; la Confederazione italiana dei lavoratori, guidata dal Partito Popolare, rappresentava soprattutto fittavoli, piccoli proprietari e, in numero minore, braccianti; l’Unione Italiana del Lavoro, del Partito Repubblicano, contava un minore numero di aderenti, in gran parte fittavoli e piccoli proprietari.

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Il governo Nitti, per bloccare il movimento di protesta dei contadini e regolamentare il fenomeno dell’occupazione, emanò il 2 settembre 1919 il decreto Visocchi, attraverso il quale i prefetti avevano facoltà di autorizzare l’occupazione delle terre dietro garanzia che venissero coltivate. Le elezioni del novembre 1919, con l’affermarsi dei due partiti di massa, il socialista e il popolare, portarono a una profonda trasformazione della rappresentanza politica nel paese. Il Partito Socialista, che nella primavera del ’17 si era pronunciato per una Costituente che desse vita a una Repubblica democratica, alla fine del ’18 si orientava apertamente verso la dittatura del proletariato. Il grande successo elettorale concretizzò la prospettiva di una reale rivoluzione; il Partito Socialista, che puntava alla conquista del potere, mancava però di programma, strategie, tattiche e organizzazione adeguati. Anche in Puglia le prime elezioni politiche del dopoguerra fecero registrare un’affermazione senza precedenti del PSI. Dei dieci deputati eletti per l’Italia meridionale, cinque erano pugliesi; nel Salento si registrarono poco meno di 9.000 voti, ma la provincia di Bari elesse due deputati: Nicola Barbato e Arturo Vella; quella di Foggia tre: Domenico Majolo, Luigi Mucci e Michele Maitalasso.


CAPITOLO SECONDO Le immagini



Fascismo e politica dell’immagine

Durante il Fascismo l’immagine, non solo quella fotografica, ebbe finalità propagandistiche e di regime ben più importanti che nei periodi precedenti. Si determinò allora, a livello nazionale, un radicale cambiamento nei modi di produzione e di fruizione della fotografia: la fine del 1920 e l’inizio del ’30 rappresentarono per la cultura fotografica italiana un periodo di svolta: nel giro di pochi anni i modelli di costruzione del racconto per immagini subirono un processo di livellamento che eliminò la diversità degli stili unificandoli in uno solo, quello che si farà portavoce dell’immagine del regime. La dittatura fascista intervenne sulla produzione soprattutto attraverso le agenzie; nei luoghi di lavoro, ma non soltanto, l’immagine divenne per il regime il nuovo potente strumento per ottenere consenso. Dal punto di vista culturale l’Italia degli anni Trenta non era né bigotta né autarchica, fotografi di grande cultura e di indubbio talento contribuirono a qualificare la fotografia italiana a livello internazionale con importanti campagne di documentazione di alto livello.1 Con la Mostra della Rivoluzione Fascista organizzata nel 1932 in occasione del decennale della Marcia su Roma, la dittatura si era ormai

impadronita della fotografia. L’intero sistema dei mezzi di comunicazione di massa era controllato dal regime; anche le immagini e la loro retorica venivano dettate dall’alto attraverso l’impostazione di determinati generi: la fotografia di gruppo, di sfilata, di documentazione del lavoro. La connotazione dell’immagine era quella più funzionale al regime: la ripresa frontale e simmetrica, la veduta aperta, appena un po’ di scorcio per garantire alle parate tutto l’effetto della loro costruzione rituale. Probabilmente i fotografi del regime non dovevano porsi grandi problemi di stile: alcune immagini lo possedevano già di per sé, quello delle coreografie delle grandi parate, delle uniformi, della teatralità dei gesti. Lo strumento fotografico venne usato con semplicità, con esattezza. È questo che gli conferiva credibilità, ma proprio in questo è anche l’inganno: «Una refezione, una mensa, un corso professionale, piccole cose di fronte al bisogno della nazione, davano la sensazione di accadimenti normali, più frequenti di quanto fossero in realtà. [...] Queste manifestazioni del lavoro e dello studio sono dislocamenti simbolici, cerimonie che fingono una realtà inesistente, allestimenti provvisori. Eppure il fatto che questi modelli isolati

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siano fotografati dà loro autenticità [...] poiché la fotografia è già di per sé ciò che è, ossia un pezzo di realtà esistente, ciò che rende assurdo il dissenso.»2 Nell’ambito pugliese e salentino la produzione fotografica del periodo fascista prodotta o commissionata dal regime ricalcò in maniera evidente le iniziative intraprese a livello nazionale. Proprio nel ’32 veniva organizzata la Mostra delle Realizzazioni del Regime in Terra d’Otranto, di cui purtroppo non abbiamo rinvenuto alcun materiale fotografico originale. Assai significative sono le pubblicazioni Puglia in linea, Almanacco di Terra d’Otranto e Realizzazioni del Regime in Terra d’Otranto.3 La prima opera porta come sottotitolo Volume celebrativo della gente e del lavoro di Puglia, ma ciò che presenta, attraverso immagini idilliache e un linguaggio apologetico, è un mondo del lavoro immobile e asettico, in cui l’elemento umano appare anch’esso come una rea-

lizzazione del regime. Le immagini e i documenti presentati seguono l’evoluzione del fascismo, dalle agitazioni del primo dopoguerra all’affermarsi della violenza squadrista e la Marcia su Roma, fino alla caduta del regime; provengono da fonti pubbliche (Archivi di Stato, Musei, Sezioni di partito o sindacato) e private (diretti proprietari, fotografi professionisti o amatoriali). Per le fotografie del regime la committenza e i fini risultano espliciti, nel caso di fotografie raccolte presso privati non sempre è stato possibile risalire al fotografo e alle circostanze fondamentali dello scatto. L’uso di diversi tipi di fonti fotografiche e il loro confronto ha delineato il contesto di riferimento di ciascuna immagine. Con lo stesso intento abbiamo affiancato documenti e immagini già note a quelle inedite, a vantaggio di una più chiara e completa lettura di tutto il lavoro.

1 Luciano Morpurgo con i suoi reportage e con la partecipazione a prestigiose esposizioni in Italia e all’estero; Federico Patellani esordì nel fotogiornalismo partecipando alla guerra d’Etiopia. Infine i due fotolibri di Orio Vergani, 45° All’ombra e Sotto i cieli d’Africa, le cui fotografie si discostano da tante altre dell’epoca e ritraggono la popolazione africana fuori dai cliché del razzismo europeo del tempo, in particolare della cultura fotografica tedesca.

2 AA. VV., L’immagine fotografica 1845-1945. Storia d’Italia, Annali 2, Einaudi, Torino 1979, 177. 3 AA. VV., Puglia in linea. Volume celebrativo della gente e del lavoro di Puglia. Bari, settembre XVII, ed. Ettore Padoan, Milano 1939; Emidio Scarfoglio Ferrara, Almanacco di Terra d’Otranto. Emidio Scarfoglio Ferrara, Realizzazioni del Regime in Terra d’Otranto, ed. Salentine F. lli Spacciante, Lecce 1934.

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1. QUANDO MANCASSE IL CONSENSO, C’È LA FORZA Salento 1919-1925: lotte politiche e avvento del fascismo



«Dopo la conclusione vittoriosa del conflitto l’Italia compirà un grande gesto di giustizia sociale. L’Italia darà la terra ai contadini, con tutto ciò che ne fa parte, affinché ogni eroe che ha combattuto valorosamente nelle trincee possa costruirsi una vita indipendente. Sarà la ricompensa che la patria elargirà ai suoi coraggiosi figli.» Discorso del Presidente del Consiglio Antonio Salandra, in Ignazio Silone, Il Fascismo, Mondadori, Milano 2002, 97. 1. Soldato in posa con la madre. Indossa la divisa dell’esercito di fanteria, con stellette sul colletto e bottoni cromati sulla giacca, pantaloni larghi fino al ginocchio, 1918. Propr. Assunta Colagiorgi, Merine.

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La propaganda promossa dalle alte gerarchie militari e dalla Presidenza del Consiglio tra i soldati in trincea dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) divenne ancora più efficace e mirata. Bisognava limitare le defezioni e riorganizzare l’esercito. Venne rinnovato l’equipaggiamento, aumentato il vitto, facilitate le licenze e l’assistenza alle famiglie. Ma la promessa più grande del governo ai contadini in armi fu l’assegnazione della terra. 2. Fante salentino, 1918. Propr. Assunta Colagiorgi, Merine.

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Le squadre si raccoglievano intorno a un capo che emergeva per carisma, spregiudicatezza, violenza. Giuseppe Caradonna fondò nel 1920 i Fasci di Combattimento di Cerignola. Nel 1921 fu eletto deputato, guidò le squadre d’azione della colonna meridionale alla Marcia su Roma. La sera del 27 ottobre le squadre di Caradonna provenienti da Napoli occuparono Foggia, s’impossessarono delle ferrovie, della pubblica sicurezza della centrale elettrica poi, lasciata la città al buio, occuparono la prefettura, la posta, il telefono. Con procedure analoghe i fascisti occuparono prefetture e uffici delle città d’Italia. 17. Giuseppe Caradonna (1891-1963). In Alberto Malatesta, Ministri Deputati e Senatori d’Italia dal 1848 al 1922, ed. Tosi, Roma 1946, vol. I.

«A Lecce una sparuta squadra di due o tre decine di studenti, alla cui testa si erano posti alcuni individui equivoci, si sgolavano a cantare in giro per le vie della città, gridando “Eja” e minacciando di tagliare la barba a Bombacci. La gente li osservava con curiosa indifferenza, attribuendo alle loro manifestazioni il carattere di chiassate studentesche. Questo perché Lecce è città tranquilla, non industriale, dove si vive del lavoro artigianale, del commercio e della produzione agricola del retroterra.» Pietro Refolo 18. Squadra “La Disperata”, Lecce. Propr. Giovanni Guido, Lecce.

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Organizzatore delle prime leghe di resistenza dei contadini salentini, coordinò insieme a Carlo Mauro e Vito Maria Stampacchia le Camere del lavoro nel basso Salento. Venne arrestato insieme ai principali dirigenti salentini del movimento politico e sindacale, nell’autunno del 1924 quando tentarono invano di ricostituire la Camera del lavoro di Lecce. 19. Pietro Refolo (a sinistra) con l’amico Corrado Rinaldi, tipografo, e Fortunato Caracciolo, capolega dei muratori. Foto Campagnoli, anni ’20, in Cosimo Giannuzzi, Saluti da Maglie, Coop. Obiettivo Giovani, Maglie-Galatina, 1999.




2. PER L’IMPERO DELLE CAMICIE NERE Le gerarchie del regime



Il processo di legalizzazione della violenza politica iniziò subito dopo la Marcia su Roma. Il 16 novembre 1922 Mussolini tenne il suo primo inervento da capo del governo alla Camera dei Deputati. È il famoso discorso del “bivacco di manipoli”. L’Italia era ancora uno Stato di diritto, il Parlamento era formato da liberali, socialisti, popolari e vi sedevano solo trentacinque deputati fascisti, e tra di essi numerosi squadristi se non mandanti di omicidi politici. Tale Parlamento avrebbe potuto e dovuto decretare il disarmo e lo scioglimento delle squadre d’azione in quanto organizzazioni paramilitari del partito fascista; ne decretò invece la legittimazione. Il 18 novembre la Camera approvò le deliberazioni del governo Mussolini con 306 voti a favore, 116 contrari, 7 astenuti; il 24 novembre concesse a larghissima maggioranza i pieni poteri a Mussolini “allo scopo di ristabilire l’ordine”; il Consiglio dei ministri gli accordò il potere di agire come meglio credeva contro “coloro che sono promotori di turbamenti”. Mussolini dunque libero di emanare provvedimenti legislativi, il 28 dicembre per decreto, trasformava le squadre d’azione in Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Un anno dopo il Regio Decreto n. 31 del 14.1.1923 sanciva tale riconoscimento legale. Nel 1924 la milizia veniva integrata nelle Forze armate.

L’opera di istituzionalizzazione della violenza e di persecuzione degli oppositori era indispensabile al regime per procedere all’organizzazione del consenso. Alla milizia era affidata l’istruzione premilitare resa obbligatoria (R.D. 29 novembre 1930 n. 2008) per i giovani dai 18 anni in su e l’educazione fascista della gioventù tramite l’Opera Nazionale Balilla. Uno dei primi compiti affidati alla milizia fu quello del controllo politico. L’Ufficio Politico di Investigazione (UPI) presente in ogni Comando di Legione fu la prima delle molte polizie parallele agli ordini del duce. L’UPI sorvegliava gli oppositori, teneva aggiornati gli schedari dei “perturbatori dell’ordine” e degli oppositori politici al confino e nelle colonie penali. Nel 1926 Mussolini consolidò anche il suo potere nel partito assumendone la direzione, dichiarò decaduti i parlamentari aventiniani, sciolse i cosiddetti partiti sovversivi e privò della nazionalità italiana i fuoriusciti. Eliminò i sindaci in tutti i capoluoghi di provincia sostituendoli con i Podestà. Procedette alla nomina politica di molti prefetti. Istituì il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. E a seguito dei due attentati falliti alla sua persona reintrodusse la pena di morte per chiunque attentasse alla vita del re e del capo del governo.

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Procedeva dunque il processo di compenetrazione tra Stato e partito, ma gli equilibri diventavano difficili e, malgrado la capillarità e l’imponenza dei mezzi utilizzati, molte contraddizioni rimasero irrisolte. «Il dualismo tra prefetti e federali e tra le istituzioni che facevano capo agli uni e agli altri perdurò negli anni di guerra sulla base di una ambiguità di fondo: per Mussolini i federali erano dei funzionari fuori ruolo della prefettura. Ma se i prefetti erano i capi del partito in provincia, i federali non sapevano più se rispondere al segretario del partito o alle direttive del prefetto. Così i prefetti di provenienza politica legittimati dallo Stato e dal partito, rispondevano contemporaneamente al sottosegretario dell’Interno e al segretario del Pnf.»7 All’interno di questo quadro i protagonisti del fascismo salentino, federali, prefetti, consoli e podestà furono tutti scrupolosi esecutori degli ordini del duce. Messe a tacere ormai da tempo le voci del dissenso interno tutto si svolgeva nel più rigido conformismo. Giovanni Maria Formica, prefetto di Lecce dal 1° luglio 1928, «uomo giusto ma inflessibile, buono ma non debole, riesce – nel volgere di poco più di tre anni – a infondere nel nostro popolo tale

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fiducia da esserne idolatrato».8 Dagli atteggiamenti, dalle dediche sulle fotografie, dalla stessa composizione dei gruppi in occasione delle manifestazioni ufficiali, nelle immagini che proponiamo in questa sezione, traspare fin troppo l’orgoglio e il compiacimento di chi sta dalla parte dei vincitori, dei protagonisti, di coloro che si fanno interpreti del nuovo. I gerarchi locali organizzavano milizie, corsi premilitari e sindacati, i prefetti nelle relazioni ufficiali oscillavano tra toni ossequiosi e rassicuranti e timide affermazioni riguardo il dissenso presente nelle campagne; nel contempo erano gli uomini che realizzavano le opere del regime in Terra d’Otranto, inaugurando scuole rurali, ospedali, colonie estive, acquedotti. Con forte convinzione incarnarono ruolo e retorica del regime, pronti a credere che quello che si andava costruendo nella milizia, nel partito, nei municipi e nelle prefetture fosse uno Stato forte e non un potere che aveva legittimato se stesso con la sopraffazione e la violenza. Pronti a obbedire con la coscienza leggera di chi ha rinunciato alla propria autonomia di scelta e alle proprie responsabilità, pronti a combattere dentro e fuori il paese per l’impero delle camicie nere.


1. Gruppo di fascisti. Alessano, novembre 1924. Propr. fam. Licci, Calimera.

“Alla forte milizia di Alessano affettuosamente e con orgoglio. Seniore A. Filippi VII Novembre Anno II”. Il grado di Seniore corrispondeva a quello di maggiore dell’esercito. A due mesi dalla Marcia su Roma il governo decretò l’istituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Con il Regio Decreto n. 31 del 14 gennaio 1923 le squadre d’azione divennero un vero e proprio corpo militare riconosciuto dallo Stato, alle dipendenze del Partito Nazionale Fascista. Il 4 agosto 1924 un regio Decreto stabiliva l’appartenenza della MVSN alle Forze armate dello Stato.

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2. Il corpo premilitare di Galugnano, 1928. Propr. fam. Licci, Calimera.

Uno dei compiti più importanti della milizia fu quello di educare ideologicamente e militarmente la gioventù fascista. Anche il piccolo paese di Galugnano aveva il suo corpo premilitare. “Alalà” era il grido di battaglia dei soldati opliti greci, reinterpretato dal poeta in chiave contemporanea; “Eia” è un’espressione italiana di esortazione o meraviglia. Insieme le ritroviamo nel ritornello de La Canzone del Quarnaro, scritta da Gabriele D’Annunzio nel ’17. L’aneddotica ci dice che nel 1917 in occasione dei “grandi voli” di Pola e del Cattaro, il poeta aveva così concluso il discorso ai suoi uomini: «Per frate focu che non ci brucerà, per sora acqua che non ci annegherà, Eja eja eja alalà». Lo slogan che diventerà grido di battaglia fascista nasceva dalla verve nazionalista del vate che aveva inventato l’equivalente italico dello “Hip hip hurrà” inglese. Chi sa se il corpo premilitare di Galugnano dedicando il suo poderoso alalà ne conosceva l’origine.

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Il reclutamento nella MVSN era volontario e retribuito nel caso di spedizioni militari estere e coloniali. Dal 1930 furono reclutati soprattutto giovani appartenenti ai Fasci di combattimento, durante la celebrazione della leva delle camicie nere. Erano costantemente mobilitati nell’istruzione militare ordinaria, in manovre ed esercitazioni annuali, in parate militari. Non fu soltanto la fede negli ideali fascisti a determinare la grande affluenza di giovani nelle CCNN: appartenere alla milizia significava anche fruire di una serie di benefici come assistenza sanitaria, sussidi, premi e agevolazioni, trasporti pubblici gratuiti, un’intensa attività sportiva, possibilità di lavoro oltre a decoro e considerazione sociale. 3. Fascista salentino. Prop. fam. Licci Calimera.

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4. Il seniore Luigi Briganti insieme ad altri miliziani. Propr. fam. Licci, Calimera.

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3. KUNDU CORPU PIANNI Le organizzazioni giovanili fasciste nel Salento



Le organizzazioni giovanili avevano lo scopo di inquadrare le nuove generazioni e garantirne la formazione nella ideologia fascista per assicurare al regime durata e stabilità. Dal 1923 una serie di provvedimenti inquadravano la gioventù in un sistema educativo di tipo totalitario. Secondo un’inchiesta dell’epoca (Lombardo Radice, 1923) solo il 60% della popolazione infantile nazionale frequentava la scuola elementare. Tale percentuale diventava molto più bassa nelle aree rurali soprattutto meridionali, e in particolare tra la popolazione femminile. Le famiglie più povere erano costrette a impiegare precocemente i figli nel lavoro e l’istruzione di base per le bambine non era comunque ritenuta necessaria.9 L’organizzazione scolastica era pessima e fortissime le differenze all’interno del paese: dal 95% di iscritti in Piemonte si passava a neanche il 60% nelle regione del sud. È indubbio che il regime si impegnò in un grande sforzo di edilizia pubblica per la costruzione di scuole, biblioteche, residenze per la cura e la villeggiatura dei Balilla, campi sportivi, ma non certo per amore della cultura quanto per imporre un ben preciso disegno educativo e ideologico. La riforma dell’insegnamento, la cosiddetta Riforma Gentile, dal nome del filosofo Giovanni Gentile che ne fu l’ispiratore, venne rea-

lizzata con una serie di leggi, tra la fine del 1922 e il 1923. Negli anni successivi attraverso la trasformazione dell’assetto istituzionale, il disciplinamento e l’epurazione degli insegnanti, la marcata ideologizzazione delle materie d’insegnamento e il supporto delle organizzazioni giovanili alla scuola venivano imposti in modo organico l’ideologia fascista e una struttura paramilitare. Nel 1926 il governo fascista istituì l’Opera Nazionale Balilla (ONB). Era organizzata su base gerarchica: i comitati provinciali facevano capo a un consiglio nazionale formato da delegati locali, esponenti della milizia e delle diverse armi e da un membro del clero, nominati dal capo del governo e dal segretario nazionale dell’Opera. Dopo dieci anni di vita l’ONB contava cinque milioni e mezzo di iscritti, la maggior parte nelle provincie del nord e del centro, il sud si poneva agli ultimi posti. In ogni caso l’influenza ed il controllo esercitati dall’Opera Nazionale Balilla sulla scuola furono pesanti. L’appoggio incondizionato del corpo docente era necessario alla strumentalizzazione politica e ideologica, gli insegnanti dovevano incarnare le nuove idee e i nuovi compiti richiesti dal regime: dalla revisione dei programmi scolastici all’esaltazione degli ideali nazionalisti e fascisti. A partire dal 1928 venne adottato il libro unico per la scuola elementare.

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Dopo il 1934, all’ONB venivano iscritti anche i bambini e le bambine dai sei agli otto anni, inquadrati come figli della lupa. Le attività dell’ONB integravano e completavano l’azione della scuola pubblica attraverso una serie di iniziative parascolastiche: gestione dei padronati, scuole rurali, scuole materne e, naturalmente, attività premilitari. Importanza fondamentale venne attribuita alla divisa, alle ricorrenze, alle adunate, alle campagne propagandistiche del regime. «Ho fatto la prima, la seconda, poi la terza; se volevi andavi se no non andavi. Noi eravamo otto di casa, allora la mamma aveva bisogno di aiuto, io ero utile quando si faceva il pane a casa, un quintale. A scuola non sono andata più, in quei tempi nessuno faceva la quinta, nessuno, perché non c’erano soldi, perché non c’erano le scarpe nuove, perché insomma... Allora io con la terza sapevo più delle altre. Poi ho preso il diploma di Domestica del Fascio di Combattimento di Calimera, per essere stata al galoppo, il governo ci faceva lavorare e sfruttare.» Testimonianza orale di Addolorata Castrignanò, rilasciata a Martina Pappadà e Marilù Tommasi, Calimera, luglio 2010. 5. Figlia della lupa, seconda metà anni Trenta. Propr. fam. Licci, Calimera.

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«A proposito di attività premilitari destinate ai fanciulli, a Calimera si ricorda ancora l’episodio secondo il quale a un piccolo Balilla, durante un’esercitazione, venne chiesto di quante parti si componesse il moschetto. Alla domanda egli rispose in griko e senza esitazioni: “Kundu korpu pianni”, letteralmente, dipende da come prende il colpo, intendendo che le parti in cui si sarebbe rotto il moschetto dipendevano dall’urto che avrebbe preso cadendo. Testimonianza orale di Silvano Palamà, direttore della Casa museo della civiltà contadina e della cultura grika, Calimera, 18 luglio 2010. 5. Figlio della lupa, seconda metà anni Trenta. Propr. fam. Licci, Calimera.

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6. Interno di una scuola leccese, anni Trenta. Propr. Alvino, Lecce.

«La prima cosa che mi colpì, frequentando l’Istituto, fu che i rapporti scolastici non erano più con un solo professore, ma con più insegnanti ognuno dei quali insegnava la sua particolare materia. Ciò consentiva una minore trattazione dei motivi di “vita fascista”, che invece erano gli argomenti di fondo delle ore di “educazione fisica” e delle manifestazioni e degli incontri “culturali” che venivano organizzati nelle ore extrascolastiche.» Vito Maurogiovanni, Eravamo tutti Balilla, Adda, Bari 1970, 70. Il controllo esercitato dall’ONB sulla scuola era totale. La scuola diventò il più efficace strumento per l’organizzazione del consenso di massa, il primo gradino di un lungo processo d’indottrinamento il cui obiettivo era quello di formare futuri soldati, ciecamente pronti a “credere, obbedire, combattere”.

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4. LE COSE MUTANO COME PER INCANTO Opere pubbliche e realizzazioni del regime nel Salento


Le fotografie di questa sezione, eccetto la n. 1. e la n. 2., sono tratte da AA. VV., Puglia in linea. Volume celebrativo della gente e del lavoro di Puglia, Bari, settembre XVII, ed. Ettore Padoan, Milano 1939.

Le realizzazioni fotografiche di quest’opera sono dovute in massima parte al Cav. Uff. Michele Ficarelli. Collaborarono anche gli studi fotografici di Bari, Tondi di Foggia, Priore di Taranto.


Il giudizio positivo sulle opere pubbliche del Ventennio persiste ancora come luogo comune, oltre che in certa storiografia e pubblicistica. Lo abbiamo riscontrato anche nei ricordi degli anziani, al di là degli orientamenti politici e spesso in assoluta buona fede, la stessa di chi allora operava credendo onestamente che il fascismo fosse la soluzione. Ma c’è anche chi racconta di allora la mancanza di libertà, l’estrema povertà e la fame ataviche, e allora «il fascismo cose buone ha fatto, però...». Forse vale pena di ricordare le condizioni di vita del sud prima del regime per comprendere il perché di questi ricordi contrastanti. Nel Salento all’inizio del ’23 il numero dei disoccupati ammontava a oltre un terzo della forza lavoro complessiva (7.700 unità su 19.000). La provincia di Lecce risultava la più estesa della regione; sul suo territorio a grossi centri rurali si alternavano distese disabitate. Erano più che mai evidenti i segni di un secolare sottosviluppo. Ecco come l’inviato de «La Gazzetta del Mezzogiorno» ha visto quelle zone prima che venissero bonificate: «Migliaia di ettari che danno l’impressione di non appartenere a questo mondo; dove la malaria impera con la lunga falce della morte. Si sente che qualcosa di misterioso e terribile

ha arrestato l’opera produttrice degli uomini. È uno spettacolo miserando. Volti gialli sparuti nella fanciullezza e già avvizziti nella giovinezza, vecchiaie precoci dal ventre gonfiato e cascante sopra esili gambe, sguardi inebetiti e andature incerte di corpi in deperimento. Tutte le energie sono fiaccate, tutte le attività depresse, tutte le giovinezze sfiorite prima di sbocciare, tutta la bellezza umana intristita è resa vile e dispersa come i rottami di un immenso naufragio della vita, tutta l’operosità umana arrestata davanti alla zolla incolta, al solco interrotto, alla terra improduttiva. [...]»11 Settant’anni di unità non avevano certo risollevato il sud. Per questo era difficile rimanere indifferenti di fronte alle grandi opere pubbliche realizzate dal fascismo. E quando nel 1932 il P.N.F. di Lecce inaugurava per il decennale della Marcia su Roma la Mostra delle Realizzazioni del Regime in Terra d’Otranto non era difficile forse partecipare anche all’esaltante narrazione di come il regime innalzava i suoi monumenti: ospedali, sanatori, scuole, strade, acquedotti; e forse non era difficile credere che anche nel Salento «con l’avvento del fascismo, le cose mutano come per incanto.»12 Erano gli anni delle bonifiche integrali e delle colonizzazioni, vaste zone della Puglia ricominciavano a produrre grano e frumento. Per ciò stesso i gerarchi non avevano difficoltà

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ad accreditarsi come i propugnatori dei diritti del Mezzogiorno e della Puglia e come gli interpreti della rinascita della regione. Il commissario straordinario all’Acquedotto Postiglione vigilava affinché i lavori procedessero speditamente pressando il governo con continue richieste di fondi. Il primo collegamento aereo Brindisi-Atene-Costantinopoli lanciava un «ponte verso l’Oriente». Nel 1928 si inaugurava La grande Fiera del Levante, Brindisi e Taranto diventarono provincie, il prefetto di Lecce Antonio Maria Formica attraversava la penisola per inaugurare luce elettrica, scuole rurali, colonie estive. «La Gazzetta del Mezzogiorno», nel cui Consiglio di amministrazione figuravano Achille Starace e Araldo Di Crollalanza, inneggiava quotidianamente agli straordinari successi del regime. In verità furono anni assai difficili quelli che vanno dal ’27 al ’34, per tutta la campagna meridionale il fatto più importante fu la Battaglia del grano. Avviata col sostegno tecnico e finanziario dello Stato fu poi abbandonata e drasticamente ridotti i fondi destinati all’agricoltura, a favore delle crescenti necessità della finanza pubblica e delle richieste dell’industria. Nel Salento le sfavorevoli condizioni del terreno e del clima non impedirono che «l’esercito dei nostri rurali obbedisse al comandamento del Duce affrontando la Batta-

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glia del grano non solo col maggiore entusiasmo, ma anche col proposito di portarvi un prezioso contributo.»13 I terreni coltivati a grano passarono, nel periodo 1926-32, dal 9% al 13,6% di tutta la superficie agraria della provincia. L’aumento fu dovuto alla crisi olearia e alla contrazione della coltura del tabacco e di altre colture tipicamente locali. La peronospera e la fillossera mettevano in crisi la produzione viticola, mentre la produzione di olio di semi favorita dal governo, danneggiava fortemente l’olivicoltura; la coltivazione del tabacco che era in progresso, veniva minacciata dal divieto di esportazione, dalla riduzione delle anticipazioni statali e dai bassi prezzi che i concessionari corrispondevano agli agricoltori. Di fatto il ritorno forzato alla coltura granaria restituì ruolo economico di primaria importanza alla grande proprietà, affossò progetti e sforzi di diversificazione colturale e riportò in uso le diverse forme di colonìa parziaria e di compartecipazione. Entrarono in crisi alcune produzioni locali tipiche come l’olivicoltura e la viticoltura. Le difficoltà della piccola proprietà vitivinicola furono il segno del più generale impoverimento di tutto un ceto di piccoli e medi proprietari; peggiorarono anche le condizioni delle masse contadine e bracciantili, aumentarono disoccupazione e sottoccupazio-


L’acquedotto pugliese terminava sul promontorio del Capo di Leuca. La cascata monumentale, che si estende tra il verde della pineta e la colonna eretta nel ’39, ne ricordano il completamento. L’opera inaugurata il 10 settembre del 1939 ne rappresenta il punto terminale. La costruzione iniziata nel 1906, fu interrotta a causa della Prima guerra mondiale, i lavori ripresero a fine conflitto. Alla cerimonia d’inaugurazione era atteso Mussolini, che impegnato a Roma delegò il Ministro Bottai. Erano presenti il vescovo di Ugento e Santa Maria di Leuca, Mons. Ruotolo, il podestà dell’epoca e tantissima gente. 11. e 12. La cascata monumentale dell’acquedotto di Santa Maria di Leuca nel giorno dell’inaugurazione.

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13. “Bitumatura di strada provinciale”. 14. “Lecce. Le lucide strade provinciali tra i secolari ulivi del Salento”. 15. Costruzione della fognatura. 16. “Impermeabilizzazione della superficie stradale del viale della stazione”.

L’AA.SS. provvide alla sistemazione di tutta la viabilità salentina: nel ’32 tranne il tratto Maglie-S.Maria di Leuca, tutta la rete stradale del Salento era completata, tanto che «oggi, il percorrerne le arterie, più che un piacere materiale, costituisce un godimento dello spirito.» Emidio Scarfoglio Ferrara, op. cit., 146.

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17. “Opera Nazionale per i Combattenti Bonifica di Porto Cesareo. Planimetria”. 18. e 19. “Bonifica di Porto Cesareo, Lecce. Bacino a Marea”. 20. “Bonifica di S. Cataldo (Lecce). Sistemazione idraulica”.

In materia di bonifiche «un esempio tipico di ciò che nel senso mussoliniano della parola devesi intendere per bonifica integrale, lo ha offerto l’Opera Nazionale per i Combattenti.» A Porto Cesareo, sui terreni lungo il litorale ionico, l’O.N.C. procedette alla disinfestazione della zona malarica con la costruzione di quattro bacini direttamente collegati al mare attraverso opportuni emissari e creando dei bacini peschieri per una superficie di 14 ettari. A San Cataldo la bonifica comprendeva terreni paludosi e malarici che si estendevano lungo il litorale adriatico leccese per 38 km. L’O.N.C., che aveva in concessione due delle tre zone comprendenti quei terreni, lavorò alla costruzione di 36,105 km di strade, alla sistemazione di 15,5 km di canali vecchi e alla costruzione di 10,5 km di nuovi canali e inoltre alla realizzazione di 29,5 km di acquedotto e 15,7 di linee elettriche.

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5. LECCE CITTÀ D’ARTE Lecce e provincia, fotogrammi fuori dal regime



Lecce, capoluogo di provincia, una città piccolo-borghese abitata prevalentemente da commercianti, artigiani, professionisti, all’inizio degli anni Trenta «è una città roboante e spavalda, falsa e al tempo stesso pigra e sonnacchiosa, ironica e bella. Tra tante belle donne e culastrisce in paglietta, tra tante bizzarrie parolibere e vecchi trucchi tardo-futuristi, salette di caffè civettuoli e teatri sempre pieni, Lecce ancora una volta splende e rinnova la sua gloria tra preti poeti e medici pittori, cotognata Cesano e Libro e Moschetto. E tutto questo mentre il divario tra Lecce e la sua provincia è divenuto abissale. Fuori Lecce vi sono tanti problemi e non poco dissenso. Si ride, si mangia di meno e si va poco a teatro.»16 Così descrive la città Antonio Verri nelle sue riflessioni su quegli anni. «Siamo condannate a morire di fame – si legge in un esposto al prefetto del 3/7/1936 – se la ditta SACIT cerca di portare lo tabacco noi tutte verremo a Lecce a piedi e ci presenteremo alla Eccellenza vostra e ci dovrete dare pane e lavoro [...] possiamo fare a meno di una veste, delle scarpe e di tutto, ma non possiamo fare a meno di mangiarci un pezzo di pane.»17 Questo il grido delle operaie di Galatina. Ma il dissenso non aveva canali di espressione. Una straordinaria macchina di censura e di propaganda sottoponeva a strettissimo controllo tutti i mezzi di comunicazione di

massa, le disposizioni del governo erano quotidiane, veline dettagliatissime indicavano le notizie e le fotografie da pubblicare o censurare, i fatti cui dare rilievo e quelli da oscurare. La propaganda creava un’immagine artificiale del Paese, dove ogni cosa sembrava funzionare a dovere. La versione fascista diffusa dai media attraverso gli ordini di stampa è quella di un Paese laborioso e ordinato. Dalle Alpi all’Italia insulare un popolo giovane, sano, entusiasta e virile si affidava fiducioso e felice all’uomo della Provvidenza. La realtà però era altra, anche a Lecce e nella sua provincia non è difficile comprenderlo se si va oltre la narrazione ufficiale. Di questa costruzione dell’immaginario è un ottimo esempio il servizio pubblicato da «Il Corriere della Sera» il 25 febbraio 1930, secondo il quale nel Salento «si può vivere piacevolmente e comodamente» perché tutto funziona a meraviglia. Nessun cenno al lavoro massacrante nei campi, alle durissime condizioni di vita della maggior parte della popolazione, che invece migliorano secondo il cronista dato che «l’interesse del capoluogo per i centri rurali e per le sorti della campagna in genere è così premuroso». Anche nel Salento, punta estrema dell’Italia continentale era il Minculpop a dipingere attraverso la propaganda un’immagine del sud fedelmente rispondente all’ideologia del regime.

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La “fascistizzazione” dello Stato e la burocratizzazione del partito erano al culmine, l’ideologia fascista aveva permeato leggi e mentalità, istituzioni e costumi, vita quotidiana e coscienze. Erano gli anni della segreteria Starace, (’31’38), il gerarca salentino esaltava con abnegazione e senza risparmio il culto del capo, il suo rapporto con le masse, i principi di gerarchia e la mobilitazione costante, promuovendo una forsennata partecipazione degli italiani alla vita del partito e dello Stato. La cittadinanza non era più un diritto acquisito per nascita, ma per appartenenza ideologica: era la dichiarata fede fascista che consentiva la partecipazione alla comunità e alla vita pubblica. Chi si opponeva veniva escluso in quanto antinazionale e antipatriottico. Oramai lo Stato-partito determinava i rapporti sociali in modo così penetrante da rendere scontata o apparentemente apolitica la partecipazione alle innumerevoli iniziative pubbliche. Di fatto, ufficialmente, non vi era spazio per nessuna altra forma di vita civile. La voce del dissenso viveva solo nelle occasioni d’incontro informali o clandestine, nei circuiti mondani privati, nelle riunioni culturali e artistiche dei salotti altoborghesi insofferenti alla demagogia e alla tracotanza del sistema fascista. Come esemplifica l’irridente ritornello dedicato a Starace: “Lecce città d’arte se ne frega quando arriva e quando

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parte”. Ma non era vita facile, per chi si opponeva apertamente la condanna al carcere o al confino era sicura18. La polizia agiva con violenza, l’azione repressiva colpiva in modo indiscriminato, la delazione era diffusa in tutti i ceti sociali e rappresentava una minaccia continua. L’organizzazione di un’opposizione clandestina era difficile. In campagna il dissenso si manifestava con rivolte spontanee, soprattutto nei primi anni ’30 quando si fecero sentire anche in Italia gli effetti della crisi del ’29 e della politica autarchica agraria del regime con la Battaglia del grano. Il ritorno forzato alla coltura granaria rinvigorì il latifondo, comportò un calo delle produzioni locali tipiche e un impoverimento dei piccoli e medi proprietari; per i braccianti significò disoccupazione e sottoccupazione. Intanto in città, ci ricorda ancora Verri: «Le giovani signore leccesi cominciano, nei trasporti d’amore, a rivolgersi all’amico o all’amante chiamandolo Bebi, le meno giovani corrono da Giovanni Stano, che ha lo studio in piazza Sant’Oronzo, a farsi fare il ritratto. Le troppo magre non escono di casa: è scoppiata anche a Lecce la battaglia contro la donna fiammifero. Sono molto in auge commediografi e drammaturghi dall’accento ovviamente italiano e con tanto di buono moralità. Giuseppe Palumbo, fotografo di vecchie pietre e bianche cittadine, ma anche di nobili dame e



13. Famiglia Piccinni, Alessano anni ’30. Propr. fam. Licci; 14. Brizio Antonio Colella, Strudà anni ’30. Propr. fam. Colella. 15. Uomo, anni ’30. Propr. fam. Licci; 16. Domenica Fasiello, Strudà anni ’30. Propr. fam. Colella; 17. Domenica Fasiello con un’amica, Strudà anni ’30. Propr. fam. Colella; 18. Donna, anni ’30. Propr. fam. Licci.


6. LA NOSTRA VOLONTÀ DI CONQUISTA Le guerre del fascismo


In questa sezione, senza alcuna pretesa di esaustività, raccontiamo due passaggi chiave dell’avventura fascista: la guerra d’Etiopia e la Seconda guerra mondiale, attraverso documenti privati e d’archivio e attraverso le storie di due

uomini: Costantino Durelli, che ha vissuto e documentato con le sue fotografie entrambe le esperienze belliche, e Brizio Tommasi, protagonista e testimone delle tragiche vicende che segnarono l’Italia dopo l’8 settembre 1943.


La campagna d’Etiopia tra rappresentazione del regime e liberi fotogrammi La campagna d’Etiopia (3 ottobre 1935 – 5 maggio 1936), con la quale l’Italia aggrediva uno Stato sovrano membro della Società delle Nazioni, venne propagandata dal regime come necessaria a soddisfare i “bisogni vitali del popolo italiano”, a onorare i “destini imperiali di Roma”, a imporre anche fuori dalla patria lo “stile fascista”, l’“arditismo e la virilità della Nazione”.24 Dietro le mistificazioni retoriche del regime, vi erano le reali motivazioni legate alla situazione interna del paese nei primi anni Trenta, in piena crisi economica mondiale: crollo degli investimenti e della produzione industriale, calo crescente dei livelli di occupazione, cui si aggiungeva la chiusura dei tradizionali canali migratori. Il malessere si andava allargando dagli strati operai e contadini alla media e piccola borghesia cittadina. Di fronte al rischio di perdere consenso il fascismo vide nel riarmo e nella guerra la soluzione alle difficoltà del momento: i preparativi bellici avrebbero ravvivato l’economia, accresciuto i guadagni e fornito posti di lavoro. La campagna d’Etiopia è dunque leggibile anche come l’alternativa alla mancata riforma agraria, sociale ed economica, come mezzo per

occultare la crescente sfiducia e rinsaldare il consenso delle masse e, all’estero, innalzare il prestigio del duce, del governo e del paese intero. L’attivismo, il militarismo, il nazionalismo aggressivo avrebbero veicolato la mistificazione a tutti i livelli. Propagandata attraverso tali slogan, l’avventura coloniale sembrava poter accontentare tutti: le commesse belliche statali necessarie al riarmo garantivano sicuri profitti per le industrie. Alle masse emarginate dal mondo della produzione, alle quali lo Stato fascista non aveva mai offerto garanzie, la guerra avrebbe dato impiego tacitando il crescente malcontento popolare. Ai ceti medi sfiduciati e disorientati avrebbe restituito slancio ideologico e psicologico. Eppure, alla luce dei fatti storici, la scelta di perseguire un nazionalismo militante ebbe conseguenze dal punto di vista fascista non salvifiche ma funeste, e non si spiega compiutamente se, oltre alle ragioni economiche, non si indaga anche il nesso guerra-fascismo che accompagna tutta la storia del regime. La scelta mussoliniana di fondare il prestigio personale e quello del paese su uno Stato

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fortemente militarista lanciato in una politica estera aggressiva, non solo sembrava funzionale dal punto di vista dei conti ma, togliendo al paese ogni residua speranza di uno sviluppo pacifico, di fatto dava inizio, secondo alcune interpretazioni storiche, alla Seconda guerra mondiale, riproponendo la politica dell’espansione come “soluzione naturale”. La guerra d’Etiopia è stata infatti indagata dalla storiografia più recente anche per aver svelato il progetto espressamente oppressivo e violentemente imperialista che era intrinseco alla dottrina fascista e nazista e che di lì a poco avrebbe condotto alla Seconda guerra mondiale. Mettere a fuoco quest’aspetto descrittivamente ideologico obbliga a interrogarsi su come il rapporto di dipendenza tra fascismo e nazismo, con Mussolini maestro e Hitler allievo, sia stato tale anche riguardo la strada da scegliere per mantenere il potere, oltre che, come già riconosciuto, nel prenderlo. Non stupisce pertanto, se quest’ipotesi è corretta, che la guerra d’Etiopia sia stata così spesso rimossa dal nostro immaginario collettivo o narrata come un episodio sganciato dalle dinamiche che avrebbero portato al secondo conflitto mondiale. Interessarsene avrebbe costretto a indagare tanto le responsabilità più generali del fascismo, quanto la sua natura profonda intrinsecamente violenta. Senza un

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nemico cui dare la colpa dei propri insuccessi o contro cui scagliarsi, la funzione retorica della propaganda sarebbe emersa prima e non avrebbe instillato quell’ingenua fiducia con cui si guardava all’Africa come al nuovo Eden e che spiega più di tanti ragionamenti quanto la macchina propagandistica del regime avesse annichilito ogni residuo spirito critico. In questa chiave, i documenti fotografici e le testimonianze che incrociano i destini del Salento con quelli del paese africano assumono una particolare rilevanza, perché contengono la stessa contraddittoria alternanza, dal punto di vista interpretativo, tra una narrazione che rappresenta la guerra in Etiopia come poco più di un’avventura esotica e la crudezza di un evento bellico che non soltanto anticipava il dramma del conflitto mondiale, ma ne dispiegava già la spietata brutalità. I volti di donne e uomini etiopi fotografati dai giovani militari e le immagini delle teste tagliate sono la scioccante sintesi di una schizofrenia politico-esistenziale ancora irrisolta. La feroce realtà della guerra d’Etiopia, per quanto spesso sottovalutata prima delle più recenti e documentate ricostruzioni, emerge incontrovertibilmente dallo sconcertante automatismo con cui quella guerra faceva sprofondare la coscienza collettiva di un paese nel più efferato imperialismo, pur continuando a essere vissuta come se non fosse guerra.



Dal 1936, con la creazione dell’Africa orientale italiana, i Regi Corpi Truppe Coloniali di Eritrea e Somalia confluirono nelle Forze armate dell’Africa orientale italiana (1936-1941). I Regi Corpi Truppe Coloniali (RCTC) erano dei corpi delle Forze armate del Regno d’Italia nei quali vennero raggruppate tutte le truppe di ogni colonia, fino alla fine della Seconda guerra mondiale in Africa. 10. Colonna di automezzi in salita lungo le ambe.

I reparti del Genio, ma anche gli operai inquadrati nelle centurie militarizzate fasciste, lavoravano alla costruzione delle strade al seguito dell’esercito, per tracciare o aprire strade sull’altopiano etiopico. 11. Soldati del Genio al lavoro con le pale per la costruzione di una strada. 12. (Pagina accanto). Soldati al campo base in fila per la doccia. 13. (Pagina accanto). Un gruppo di militari durante una pausa per il rancio, in posa a terra, intorno a un bidone: si prepara il fuoco, si lavano pentole e mestoli, si spiumano le galline.

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35. Festa del Maskal ad Addis Abeba. La popolazione indigena esegue danze rituali.


CAPITOLO TERZO Dai sali d’argento al codice binario



Quali storie raccontano le fotografie

Tempo straordinariamente informatizzato il nostro: il mondo ci raggiunge da ogni luogo dovunque noi siamo, in tempo reale, su grandi e piccoli schermi, in caleidoscopici spazi virtuali. E così anche le foto, non solo quelle del passato, viaggiano incessantemente, affrontando nuove derive e inediti destini, sfidano il caotico traffico virtuale cercando di attirare la nostra attenzione; attraversano velocissime i nostri monitor, rimbalzano nei più svariati contesti, mutano di significato. Perlopiù scompaiono. Poche trovano un posto stabile nel nostro immaginifico presente. Eppure la fotografia e la sua storia si legano alla storia stessa della contemporaneità: è difficile separare la storia sociale, politica, militare, dalle immagini irripetibili, esemplari, simboliche che la testimoniano e la ricordano. E ci si può legittimamente domandare come sarebbe la storia del Fascismo se non conoscessimo le immagini propagandistiche del regime. L’arrivo della fotografia sulla scrivania dello storico ha aperto fermenti teorici e metodologici ancora ben vivi. Intorno agli anni Settanta, in tempi tecnologicamente molto lontani, il grande storico Federico Chabod nelle sue Lezioni di metodo

storico affermava: «È vana illusione quella di credere che un documento possa essere pura riproduzione fotografica della realtà»1, come se la fotografia in quell’epoca e ai suoi occhi avesse questo potere di rappresentazione pura del reale. Pochi anni più tardi il dibattito storiografico rivelava la problematicità dell’uso della fotografia in sede storica, e l’obiezione che a essa viene mossa concernerà proprio il suo presunto potere di rappresentazione obiettiva. Il valore supremo di prova attribuito all’immagine fotografica per la sua capacità di riprodurre meccanicamente il mondo reale continuava a suggerirne un uso privilegiato nell’ambito storiografico2, ma la semplice determinazione realistica della fotografia, la specularità meccanica della realtà prodotta dalle immagini non risolve il problema della sua efficacia documentaria. Una foto infatti non necessariamente riproduce la realtà e in ogni caso non è mai solo questo: è sempre anche una rappresentazione/interpretazione del mondo; implica una molteplicità di significati che vengono determinati dall’uso, dal contesto, dalle didascalie che l’accompagnano. Inoltre, allo storico che lavora su fonti diverse da quelle scritte, si pone inevitabilmente

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un problema di traduzione del documento da un tipo di linguaggio a un altro. Da questo punto di vista la fotografia presenta le maggiori difficoltà, innanzitutto nella verbalizzazione del messaggio e, prima ancora, nella sua decodifica. Poiché non esiste un sistema generale definito per la lettura dell’immagine, il codice nasce contemporaneamente al testo iconico.3 Rimane dunque il problema, per lo storico, di come leggere le immagini di un determinato periodo del passato. Se è vero come afferma Susan Sontag che «non è mai la documentazione fotografica che può costituire – o più esattamente identificare – gli eventi»4, allora il valore storico di una documentazione fotografica non va ricercato nel suo potere di nominare eventi o azioni passate, ma nella sua capacità di ricostruire l’atmosfera di una determinata epoca, evidenziandone gli aspetti più caratteristici. Collocare la fotografia nella sua epoca attraverso quei documenti che aiutano a ricostruire nel modo più chiaro la sua vicenda (fonti scritte, didascalie, dediche, annotazioni, date, memoria orale, lettere e altri documenti che spesso l’accompagnano) ci permette di attribuire un significato complessivo all’insieme delle immagini e a scoprire il senso della produzione fotografica di un determinato periodo. Nell’analizzare un corpus di immagini fotografiche nel loro complesso e nel valutarne la qua-

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lità di documentazione, occorre chiedersi, innanzitutto, di che tipo di materiale si tratti e che cosa rappresenti; in che misura si tratti di foto commissionate e, nel caso, quali direttive abbiano seguito i fotografi nella scelta dei soggetti e nei modi di riprodurli; infine, quale giudizio sia possibile formulare sul valore storico delle foto esaminate. Rimane fondamentale, a questo riguardo, il concetto di cultura fotografica proposto dal critico d’arte e di fotografia Max Kozloff: sono i valori sociali veicolati dalle immagini a determinare la cultura fotografica di un’epoca. La storia della fotografia allora non è più legata esclusivamente alle evoluzioni della tecnica, ma comprende la cultura fotografica e i cambiamenti che caratterizzano il rapporto tra fotografia e società; si intende, allora, per fotografia la sua produzione e fruizione, i rituali che l’accompagnano, i significati simbolici che a essa vengono attribuiti in tempi e ambienti diversi. Lo studio della cultura fotografica di un’epoca diventa quindi ricerca dei “valori sociali” al cui servizio la fotografia è finalizzata, delle modalità di lettura e dell’azione ideologica che essa esercitava sulla società dell’epoca. Un approccio che tutela dai rischi di un’analisi arbitraria. Gli studi su quello che è il significato del mezzo fotografico in sé, sui suoi limiti e potenzialità, non solo in sede storica, hanno rappre-


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Ringraziamenti

Le pagine di questo libro hanno un profondo debito di riconoscenza verso alcuni protagonisti che ho direttamente conosciuto e che mi hanno affidato documenti, immagini, racconti, testimonianze: Sandro Campanelli, Addolorata Castrignanò, Salvatore Chiriatti, Assunta Colagiorgi, Giuseppina Cretì, Anna e Elisabetta De Razza, Brizio Antonio Gabrieli. Eguale sentito ringraziamento a chi non solo mi ha consentito di utilizzare immagini e foto dei propri cari, ma ha dimostrato sensibilità e disponibilità rare: Leda Durelli, Paolo Durelli, Francesca Licci, Giusi Palma, Tetti Petrachi, Dino Tommasi e la famiglia Colella. Doveroso poi ricordare Antonio Verri per i suoi affettuosi e ironici insegnamenti, il fotografo Giovanni Guido, che nel suo studio al centro di Lecce affidò racconti e immagini alla giovane laurenda che ero; il prof. Massimo Legnani, punto di riferimento non solo per me ma per un’intera generazione di storici; l’Università di Bologna, l’Opera Universitaria e lo Studentato di via San Leonardo, tutti gli amici con cui in quel periodo ho condiviso l’esperienza bolognese, in particolare Oronzo Marmone, Renato Colaci, Pino Maggiore, Michele Bianco, Carlo Zilioli.

A Craig Allen Kelly e Christian Salmon del Centro di Ricerca sulle Arti e il Linguaggio di Parigi. Un ringraziamento va all’associazione “Pietro Refolo” di Maglie; a Silvano Palamà, direttore della Casa museo della civiltà contadina e della cultura grika di Calimera; a Pati Luceri per i contributi fondamentali e per i documenti messi disposizione; a Marilù, Martina e Mattia per le registrazioni e la lavorazione delle interviste. Grazie a Umberta per la tenacia e il rigore dello studio che allora compivamo insieme e su cui si andava formando una parte di me; a Luigi Chiriatti con cui discorrevo di questo libro quando Kurumuny ancora non esisteva e Giovanni era piccolo, e all’editore Kurumuny di cui ho apprezzato la professionalità e con cui ho piacevolmente condiviso la redazione di questo lavoro; agli amici che strada facendo mi hanno accompagnato: Fabrizio Gemma, Vito Marra, Daniela Duccini e molti altri che sto dimenticando. Naturalmente grazie a mia madre, anche per i suoi ricordi, ai premurosi «Basta» di mia sorella e alla stampante di mio fratello, ad Angela e Giovanni e a tutta la mia famiglia. Infine ad Alessandro, compagno di vita e di libro.

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