MARIA ANTONIETTA MALAGNINO
ANCHE I FILI D’ERBA Tragicommedie per piccoli eroi
Un doveroso grazie al Ministero della Difesa, per la disponibilità dimostrata in occasione delle ricerche dello zio Francesco. Il 12 dicembre 2013, Francesco Gregorio Malagnino è stato insignito della medaglia d’onore prevista per i militari deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto.
Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-96-9 Progetto grafico di copertina: Lucio Montinaro Stampato presso Universal book – Rende (Cs) Chiuso in stampa nel mese di marzo 2014 © Edizioni Kurumuny – 2014
A Michele, Angela e Vincenzo
Indice
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Prefazione di Italo Montinaro
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Presentazione
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Il vagone fiorito
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Tre cose
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Work in progress
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Il mare e l’onda
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Anche i fili d’erba
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Le luci di Scorrano
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Tutta colpa di Lisbona
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Prefazione
Dopo Milù e il depuratore (2012) e La lumachina Lilli e il Corbezzolo (2013), favole di iniziazione sociale per bambini, Maria Antonietta Malagnino tenta la prova di narratrice per adulti con Anche i fili d’erba, una raccolta di sette racconti teatrali che attingono alla fantasia, ma anche alle esperienze dirette, dell’autrice. In uno stile narrativo, che trae fluidità dalla predilezione per la trama in atti e dalla prevalenza dei dialoghi, si dipanano le vicende dei protagonisti – per lo più donne – “piccoli eroi” costretti a una quotidianità fatta di difficoltà, in “un mondo che va all’incontrario”, che premia le appartenenze e le conoscenze ‘giuste’ al posto del merito, mantiene “le persone sbagliate ai posti di responsabilità”, umilia la cultura, predica le pari opportunità ma nei fatti resta maschilista. La narrazione procede fluida, anche se l’uso sfalsato del tempo e dello spazio costringe il lettore a seguire con attenzione le vicende pena un possibile disorientamento. Fil rouge che lega le diverse storie è il tema dei viaggi, e della loro importanza per “discernere la verità”. Da Tel Aviv a Milano, da Berlino a Hong Kong il viaggio come ricerca, come confronto, come conoscenza diretta, liberata dagli ‘inganni’ dell’informazione di massa. E, accanto ai viaggi, i ritorni. Quando l’autrice si sofferma ad accarezzare i colori e i profumi della sua terra, la Puglia e il Salento soprattutto, al quale è legata da un amore viscerale, allora lo scritto si fa puntuale, attento al particolare, e il continuo suggerimento visivo e sensoriale finisce per condurre per mano il lettore, diventa quasi cinematografico, ricordando molto da vicino il taglio di una sceneggiatura. Nel non accettare le leggi di questo ‘mondo all’incontrario’, nel cercare – e trovare – in se stessi la forza per non arrendersi, per reagire, per reinventarsi, per superare le avversità, c’è dell’eroismo anche nella gente comune. La visione dell’autrice può apparire buonista, fin troppo otti-
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mista, a volte ingenua. Ma, a guardar bene, le cose non stanno così. In contesti storici simili a quello che stiamo vivendo, la chiave per la rinascita – per dirla con il grande economista Vilfredo Pareto – non è nel razionale ma nell’irrazionale: ecco allora l’importanza di diffondere nella gente la fiducia nel futuro, la speranza che le cose possano migliorare, la convinzione che vale la pena impegnarsi e scommettere. Sentimenti, puri stati d’animo. Ma – e chi governa dovrebbe per primo saperlo – è proprio con i sentimenti, che sostengono poi le scelte razionali, che si crea benessere e ricchezza. Dall’esperienza delle favole per i più piccoli è rimasta nella Malagnino l’urgenza dell’attenzione alla funzione didattica dello scrivere, quella morale che l’Autrice a volte mette sulla bocca dei protagonisti, più spesso esplicita nelle pause della narrazione, che riserva a se stessa per riflettere e far riflettere. M. A. Malagnino non può – e non vuole – eludere i rischi ideologici e morali, perché a lei interessa, al contrario, denunciare un problema, una situazione, indurre alla riflessione, polemizzare provocatoriamente. Perché quando una donna scrive, legge e interpreta il mondo a partire da se stessa, una donna appunto, diversa dall’uomo per cultura e per natura. Come donna, l’Autrice ci offre il suo peculiare punto di vista, la sua personale esperienza; e il messaggio di buon senso che vuole inviare, il richiamo ai valori fondamentali dell’esistenza, in un’umanità confusa e disorientata finisce per diventare, nella sua semplicità, anticonformista e rivoluzionario.
Italo Montinaro
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Presentazione
Queste pagine nascono da un dovere. Dovere di affetti e di memoria che scorre nei colori di questa terra, sferzata dal vento e dalla bellezza che incontra l’infinito. Il primo racconto è autobiografico; i tanti protagonisti vi si riconosceranno, lasciando il passo ad altri personaggi che percorrono vicoli che si aprono in scorci dove l’amore e l’amicizia colorano da sempre l’anima. Queste pagine si rivolgono a uomini e donne che amano la giustizia e la libertà del cuore; che non si accontentano delle letture ufficiali ma percorrono sentieri profondi e non evidenti, celati accuratamente sotto traccia, affinché la verità rimanga in una cornice dove il tramonto soccombe inesorabile alle nubi nere.
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IL VAGONE FIORITO
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Personaggi Maria Gianni Chiara Monica Suor Gregoria Laura Rebecca Elia Ruth Muhammad
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nipote di Francesco Gregorio conoscente di Maria fidanzata di Gianni amica di Maria parente di Maria sorella di Gianni nipote di Gianni conoscente occasionale soldatessa israeliana venditore ambulante
ATTO I
Scena I Gianni Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura ... Lui si trovò in una selva, io in un comando di Polizia. Tutta colpa di mia nipote Rebecca l’ebrea, e di Maria, quell’ingrata pinguina. Ma torniamo indietro…
Il coro Una Panda super corre tra i carditi di Brindisi. L’aereo per Roma lo aspetta, destinazione Tel Aviv, per conoscere Ian, l’ultimo nato di sua sorella; poi Sharm, per una meritata vacanza al mare. Prende il borsone che gli ha preparato la nonna, pesa un quintale: pomodorini secchi, melanzane, carciofini, friselle, tarallini al finocchio. Si siede di fronte alla vetrina del negozio di delizie salentine.
Maria, Gianni e Monica –Scusi, può dare un’occhiata alle nostre borse? Dobbiamo andare in bagno. –Sì, ma fate in fretta, stanno già imbarcando. –Il nostro volo ancora no, andiamo a Milano– e posano borse e borsoni accanto alle mie. 13
Quando tornano ascolto i loro discorsi. Una non vuole prendere l’aereo, ha paura. –Faccia come me, io dormo sempre– m’intrometto nel loro battibecco. –È ora, le nuvole ci divideranno... buon viaggio! –Buon viaggio.
Il coro Prende al volo lo zaino di piombo, la sua borsa nera e finalmente il volo è dolce, come dolce è il viso di Chiara, che gli corre incontro abbracciandolo all’uscita 23 dell’aeroporto di Fiumicino.
Gianni e Chiara –Amore, finalmente insieme. Durante il volo per Tel Aviv ci siamo guardati sempre negli occhi. –Voglio vivere con te per tutta la vita– le dico –per tutta la vita. Ma amore, mi raccomando, niente effusioni davanti ai bambini... sono ebrei, non sono abituati a tante sdolcinatezze. –Tua sorella ha cambiato religione?! –No, ma nei modi è diventata ebrea anche lei, seriosa, composta, precisa; mi raccomando, non farmi fare figuracce. –Amore, voglio vivere insieme a te. Non mi basta più questa relazione a distanza. –Devi avere pazienza, tra non molto avrò la destinazione definitiva e vivremo insieme. –Sono tre anni che aspetto. –Pazienza, dopo l’estate sapremo qualcosa. –Anche la scorsa estate hai detto così.
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–Fiducia, pazienza. Chiara, credi che a me piaccia questa vita? Sempre di corsa, a raggiungerti quando sono libero; anch’io sono stanco e stufo di vivere senza di te. In autunno si saprà.
Scena II Gianni, Chiara, Laura, Rebecca, Maria –Ciao sorellina, siamo arrivati in aeroporto, aspettiamo le valigie. Mi raccomando: a Rebecca, che ha la lingua lunga, dille di farsi gli affari suoi perché sono in viaggio di lavoro con una collega, non mettetemi nei guai. Sai come sono i colleghi, al primo litigio ti passano sopra col carro armato! –Che bella Tel Aviv!– esclama Chiara guardando dal finestrino del taxi –Quanti musei... sembrano tutti in vacanza, sembra Miami! –Adoro la città bianca– tre lunghi baci volano sul lungomare –adoro le feste psy-trance sulla spiaggia. –Ciao Laura, sorellina, e… i miei adorati nipoti! Appaiono uno dietro l’altro Miriam, Sarah e Davide. –Lei è Chiara... e dov’è Ian? –Dorme. –Ma come sono belli i miei nipotini! Davide, tu somigli allo zio Gianni: hai gli stessi occhi color smeraldo, come la baia di Porto Badisco, i capelli color riccio di Porto Selvaggio e le guancette color sabbia rosa del Mirante. –Dov’è il Mirante? –Verso Campomarino, vicino alla cappella della Madonnina, dove d’inverno vado a fare surf.
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–Zio, mi ci porti? –Sì, la prossima estate. Sorellina, ti trovo in forma! Se avessi la tua laurea e i tuoi master sarei capo di governo... I piccolini fissano Chiara, devo inventarmi qualcosa... meno male che non c’è Rebecca. –Nello zaino mamma e nonna hanno messo di tutto; noi andiamo via subito, domani abbiamo il volo per Sharm. –Ma non vuoi salutare Rebecca? Sta per arrivare con suo padre. –Perché non rimaniamo?– s’intromette Chiara –non avrai solo portato il cibo a tua sorella! Voglio conoscere Rebecca e Andrea. –Voglio farti immergere nella vita notturna di questa città– e intanto sbircio nella cameretta di Ian. Poi, d’improvviso, appare lei. –Ciao a tuttiii! Oh, zio bellissimo, benvenuto! Come stai? Quanto rimani? –Tesoro mio, sono di passaggio... ma tra poco verrà l’estate e quando tornerete in Salento per le vacanze ti porterò alle Maldive, la tua spiaggia preferita. –Sì, che bello! E intanto Chiara riprende a chiacchierare. In quel preciso istante squilla il cellulare. Numero sconosciuto; magari è nonna, rispondo. –Mi chiamo Maria Malagnino. All’aeroporto di Brindisi lei ha preso la mia borsa e io la sua; lì c’è tutta la mia vita, ci sono le ricerche di trent’anni. Intanto Rebecca si presenta da sola. –Come ti chiami? –Chiara. –Hai la pistola? –No, non ho una pistola. –Perché non ce l’hai? –Perché dovrei averla? –Non sei collega di zio?
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–No. –Che lavoro fai? –L’architetto. –E perché sei con zio? –Sono la sua fidanzata! –Fidanzata? Perché, ha lasciato Rosaria? –Chi è Rosaria? –La fidanzata di zio. Si sposeranno a settembre a Tricase, la nonna mi sta cucendo il vestito coi pizzi di Specchia. La valchiria suona nelle orecchie di Chiara mentre mando a quel paese la sconosciuta. –E io chi sono?– silenzio di tomba. –Quanto fai schifo– e mi lancia addosso la telecamera. La situazione mi sfugge di mano, guardo Rebecca: –Erode, rinasci. Corro dietro a Chiara, che mi respinge: –Non ti avvicinare, vergogna!
Il coro Il taxi corre verso Begin Boulevard. Il pianto impietosisce l’uomo alla guida; l’aiuta a cercare un alloggio mentre le nuvole sovrastano la città e i tanti passi sulla sabbia lasciano orme, ognuna con la sua storia, ognuna col suo cuore di pietra o di carne. Sotto il sole ci sono tante possibilità e ognuno gioca la propria partita.
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Scena III Laura, Gianni e Maria –Laura! Ho perso Chiara, Sharm, ho perso la mia borsa. Mi ricordo della mia borsa nera. –Stai lontano dalla mia famiglia, Rebecca sta piangendo. –E io? Non pensate a me? Meno male che mi ero raccomandato di farle tenere la bocca chiusa! Con che coraggio andate a pregare ogni giorno in chiesa? La borsa nera, la apro e trovo solo fogli... Già, la tipa dell’aeroporto. Provo a richiamarla. –Alleluia, è da un’ora che chiamo. –Alleluia un paio di balle! Con quella telefonata hai rovinato la mia vita, era tutto perfetto… –Senta, non ho idea di cosa stia succedendo, io rivoglio la mia borsa! Ci sono i fogli della mia ricerca, tra pochi giorni devo essere al Wast di Berlino, rivoglio quei fogli! –Io sono in Israele e sai cosa ti dico? I tuoi fogli e la tua borsa li butto nella spazzatura! Non rispondo al telefono; sento che mi chiama continuamente, ma io penso a Chiara, alla vacanza. Finchè non mi arriva un sms: “La borsa col frustino, le manette coi brillanti e tutto il resto, li consegno a Roma o dove sei aggregato?”. Corro a riprendere la borsa dalla spazzatura. Chiara non risponde, le ho mandato cento sms, non possiamo gettare via la vacanza in Egitto. In compenso, mi chiama sempre la tipa. –Cosa c’è ancora? –Dove possiamo vederci? Domani arriverò in Israele. –Non lo so, ma che c’è di così importante da farla venire fin qui? 18
–C’è la mia famiglia. Ho ereditato un dolore. Apro di nuovo la borsa: agende, fogli scritti in tedesco, lettere del Ministero della Difesa e la foto di un soldato in motocicletta con su scritto “Brigata Autieri”.
ATTO II Il coro Rebecca piange, mamma Laura si è collegata su skype in modo che la nonna possa coccolarla; sullo schermo appare anche la cagnetta Bianchina e il bisnonno Giuseppe agita il bastone, cercando di farla sorridere. Ma lu sule, lu mare e lu jentu non fermano le sue lacrime. Lo zio è la preoccupazione di tutti e nonna Teresa esclama: –Tutti ti na ventri, ma no tutti ti na menti.
Scena I Chiara, Elia e Gianni La notte è stata amara per me. Vago per il lungomare di questa città che non mi appartiene, sono stanca, ho bisogno di una panchina su cui piangere. I bambini giocano. Un vecchio signore mi osserva; si avvicina, mi porge un fazzoletto. –Se può aiutarla a star meglio, si sfoghi. Gli parlo, tanto non mi conosce.
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–Sono arrabbiata con me stessa. Che stupida, spariva giorni interi e io a credere alle sue indagini per la Procura! Vede, mi chiama in continuazione. –Mi chiamo Elia e potrei essere suo nonno... Non risponda. A volte, l’amore è a senso unico. –Ma se non mi ama, perché continua a chiamarmi? Legandomi a lui mi ha tolto la possibilità di scegliermi un altro ragazzo. –Ha perso il giocattolo, il suo potere di gratificazione. Le dice quello che vuol sentirsi dire. –Io l’ammazzo… giuro, lo ammazzo. –Così continua a far male a se stessa, finisce in galera per uno che non merita niente, si vede che non si ama! –Ha un’altra, da sempre... Io chi sono? –Quella che da sempre serve a mantenere gli equilibri, una donna di serie B. Mi scusi, ora devo andare; in Israele i figli sono di tutti, devo seguire con lo sguardo quei bambini. Si alza e amorevolmente mi sussurra: –Oggi è un gran giorno! È guarita dalla cecità. Non si vendichi, la vita pagherà il conto e forse lei non lo saprà mai. No, non sono pronta ad accettarlo. Non è ancora tempo... Mi alzo di scatto e, mentre salgo le scale, me lo trovo davanti. –Chiara, tesoro, possiamo parlare in modo civile? –Sei senza vergogna, vai viaaa! Se devo fare l’amante devo sceglierlo io! –Chiara, calmati, per l’amor di Dio calmati! E meno male che vai ogni domenica a messa... Se uno mente è perché dall’altra parte c’è chi abbocca! –Ah, quindi è colpa mia! Invece l’altra, Rosaria, com’è? Dove vive? –Rosaria è a Depressa. –Come, è depressa? –Ehm... sì, è depressa, sì, ho bisogno di tempo. Chiara, io ti amo e voglio vivere con te, ma posso rischiare che lei diventi pazza, che si ammazzi...? Ho una coscienza a cui dar conto.
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–Ah, e se mi ammazzo io? Adesso tu la chiami, ora! E le dici di noi. –Non ho credito. –Chiama col mio. –Ma dai, Chiara, che deve dire, che mi faccio mantenere dalle donne? –Tu sei un mantenuto, chi ha pagato il viaggio a Sharm per tutti e due? Pezzo di merda! –Maleducata, queste parole in bocca a una donna! Mi lascia vicino alle scale, il rumore delle auto lo aiuta a non sentire le mie urla. Ha torto marcio, perché ha infierito ancora?
Scena II Maria, Monica e Gregoria –Buongiorno, c’è suor Gregoria? –Sì, la chiamo subito. La madre superiora ci scruta dall’alto in basso. –Siete le amiche pugliesi di suor Gregoria? –Sì. –Ma perché venite qui a Milano a cercar lavoro? In Puglia ci sono il sole e il mare, qui c’è la nebbia. Perché non rimanete a casa vostra? Monica sta per aprir bocca, ma si trattiene; anche per me è dura rimanere in silenzio. Gregoria arriva dopo venti minuti. –Ciao suor Gregoria, come stai? Questo da parte di mia madre. –Grazie Maria! Scusate, devo fare tanta strada. La superiora mi ha tolto la stanza per affittarla alle studentesse, vivo in un corridoio, il posto più lontano... alla mia età. 21
–Mi dispiace. Questa è la mia amica Monica, domani ha un colloquio di lavoro. –Brava! Di cosa ti occupi? –Decoro torte. –Bene, bene, pregherò per te. Adesso vi faccio vedere la stanza. Gregoria cammina strisciando i piedi; ha scarpe di stoffa, aperte di lato, che lasciano intravedere le dita deformate. –Sai, io devo ripartire subito; un tipo mi ha scambiato la borsa in aeroporto e devo andare a riprenderla, ci sono tutti i documenti di mio zio Francesco. –Francesco, sì, me lo ricordo... Era il migliore, la sua morte ha distrutto la sua famiglia. Sono contenta che dopo tanti anni l’abbiate trovato, povero ragazzo. –Oltre sessant’anni. –Vi lascio riposare, ci vediamo per pranzo. –Che dolce che è... –Siamo lontane parenti. Hai visto che scarpe? –Ho visto, ho visto... Esco in fretta dall’istituto per cercare un’agenzia viaggi, voglio riprendere al più presto la mia borsa. –Signorina Monica? –Avanti, suor Gregoria. Maria è uscita. –Ti ho portato dei biscotti, anche se sicuramente sarai più brava tu. –Veramente le suore hanno delle ricette speciali, grazie. Sono buonissimi… Preghi per me, ho tanto bisogno di lavorare. –Maria mi ha detto che sei stata licenziata. –Lavoravo in una pasticceria da dieci anni... Mi hanno affiancato un ragazzo, gli ho insegnato il mestiere e poi il padrone mi ha licenziata, perché quello lo paga la metà per fare il mio stesso lavoro.
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–A volte le fregature servono per ricaricarsi e ripartire... –Mio marito è morto l’anno scorso, una malattia se l’è portato via. Abbiamo pregato tanto... Dio non l’ha voluto guarire, sono arrabbiata con lui, sono nata sfortunata. –Non dire così... hai per le mani un mestiere, pensa a chi per emergere deve andare via da questo paese, dove contano solo le amicizie e le parentele. Se Dio non ti ha esaudita te lo dirà un giorno, è l’antica domanda del dolore nel mondo. –Si vede che siete parenti... anche Maria è così, non si arrende mai, è stata lei a portarmi qui. –Coraggio, vedrai, domani troverai lavoro... anche se non è più la Milano di un tempo, anche qui si chiude per trasferirsi all’estero dove la manodopera costa meno. –Speriamo bene. Maria ritorna come un fulmine. –Partirò domani, ho trovato il volo per Tel Aviv. –Mi lasci sola? Non so come muovermi a Milano. –Senti, Monica, io credo solo in due cose: il Vangelo e i mezzi pubblici di questa città. Sono perfetti e il personale è gentile, se chiedi informazioni. Non puoi perderti. Io devo recuperare la borsa, altrimenti salta l’appuntamento di Berlino, salta il lavoro di tutta una vita! C’è suor Gregoria, qualsiasi cosa chiedila a lei. –Non so se sarò capace. –Siamo tutti capaci e protagonisti della nostra vita, non cominciare a lamentarti. Le paure vanno affrontate. Come per l’aereo, hai visto? Dopo hai avuto il coraggio di guardare le nuvole dal finestrino. –Quando parti? –Domani mattina prestissimo. Ho il computer, ci possiamo vedere su skype. –Ma io non ho mai preso la metropolitana. –E domani la prenderai, come tutti.
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ATTO III
Scena I Gianni, Muhammad e Rebecca Devo risolvere con Rebecca, mia madre non sa più come insultarmi... mi fermo al primo bar. –Sei italiano? –Sì, perché? –Italiani grandi amici– mi offre da bere –vuoi collane per tua moglie? –No, per carità! –Non hai moglie, bambini? Io alla tua età avevo due mogli e sette figli. –Da noi già sopportarne una è un’impresa... –Sai perchè? Perché leggi sbagliate, ma quando in Europa ci sarà grande califfato le cose cambieranno... voi cristiani non fate figli e noi saremo il futuro. –Sono cristiano solo sulla carta, nella vita sono musulmano. –E allora? Sei senza identità. –Per questo non mi sposo, le donne italiane hanno perso la dolcezza: se gli dai un dito si prendono tutto! –Nostre donne sono da sposare, con califfato cristiani si convertiranno. –Mah, la religione è un aspetto della vita, per chi ci crede. Dio ci ha lasciati liberi, anche di sbagliare. –Tu sei fuori strada, sei ignorante. Noi abbiamo il dovere di convertire, falso amore e falsa libertà sono dannosi.
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–E quando arriverà il califfo? –Molto, molto tempo... –Allora io sarò morto. Corro alla scuola di Rebecca. La faccio chiamare dal maestro, quando mi vede fa per voltare le spalle. –Rebecca, mi devi delle scuse. –Veramente tu devi chiedermi scusa. –Perché, cosa ho fatto? –Ti abbiamo sentito dire quella frase cattiva. –No, io non ho detto niente– mi studia in silenzio, poi incalzo: –Rebecca, io ti voglio bene, anche se vai ogni giorno a pregare al Muro del Pianto. –Che c’entra adesso il muro del pianto? –Ci vanno gli ebrei e tu sei per metà cattolica. –Zio leggi, informati, prima di parlare. –Comunque... se mi chiedi scusa ti regalo...– e mostro la bambola Dolly. Prende la bambola in mano, la guarda... è fatta. –È bellissima. Ma l’amore non si compra– e la butta per terra. –Sei proprio una poppita! Esco più arrabbiato di prima. Ormai è chiaro, le donne sono la mia rovina. –Laura, che educazione stai dando a tua figlia? Ti rendi conto di come parla? –Non sei degno di una risposta. –Tale madre tale figlia.
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Scena II Gianni, Maria e Ruth Il cellulare squilla ancora. –Sono all’aeroporto, dove ci vediamo? Dico il nome di un bar. Dopo mezz’ora compare l’artefice di tutti i miei guai. –Sono Maria, piacere. La mia borsa? Faccio un cenno con lo sguardo; lei con un balzo la apre, controlla i fogli uno a uno. –Come mai puzzano? –È l’aria inquinata, l’aria di Tel Aviv. –Questa è la tua borsa. –Guarda che non c’è niente da sorridere, hai rovinato tutto con quella telefonata, sei stata la mia sciagura. Dovevo essere a Sharm... ma come hai fatto a trovarmi? –Ho ritrovato un morto, figurati se non trovo i vivi. Ti va un caffè? –Non ho soldi. –Non importa. Mentre sorseggio, arrivano tre soldatesse: –Possiamo prendere queste sedie? Hanno enormi occhi scuri, labbra carnose; che belle queste israeliane, belle e giovani. Una di loro guarda la foto: –Chi è? –È mio zio... era un soldato, un imi. Finì in un campo di concentramento tedesco ma è morto dopo la guerra, pare in un lazzaretto, a Berlino… –La guerra semina dolore ovunque. –Ruth, piacere. –Maria. 26
Cominciano a parlare, Maria fa vedere quei suoi fogli. Sono troppo belle e io sono in un angolino, devo inventarmi qualcosa. –I miei avi erano toscani; nonno è morto da partigiano, nonna è sopravvissuta ad Auschwitz– racconta Ruth. Mi siedo al loro tavolo di prepotenza: –Posso offrirvi da bere? Maria, tuo zio era un imu? –Imi, non “imu”. I militari italiani che non si piegarono a Hitler furono deportati, dopo la guerra diventarono lavoratori civili coatti. –Questo sui libri di storia non l’ho mai letto. –Neanch’io, è stata una mia ricerca personale. –Quanti anni avete?– mi rivolgo alle soldatesse. –Diciotto. –Come mai questa scelta? Nessuna risposta, avverto il loro fastidio. Maria m’ignora e si mette a parlare in inglese. –Perché quello che avete subito lo state facendo ai palestinesi? –Hanno perso la guerra... voi che avete perso alcune regioni e isole, perché non ve le riprendete con le bombe? Noi non abbiamo deportato nessuno, ci difendiamo. –Sì– m’intrometto –hai perfettamente ragione, sai? La religione ebraica mi affascina, anche se sono cattolico praticante. –Sei venuto qui per studiare la cabala? Molti italiani vengono qui per questo. –Brava, ma come sei intelligente, infatti io sono venuto per questa cabala– Maria si alza. –Devo andare, domani devo essere a Berlino, sarà dura per me. Le abbraccia e a me dice: –Buona fortuna, camaleonte! –Come vi chiamate? Posso avere il vostro numero di telefono? Magari mi suggerite cosa visitare a Gerusalemme o a Tel Aviv. –Vai dovunque e renditi conto delle differenze. I cristiani in Israele vivono bene; qui puoi permetterti il tuo stile di vita. Noi
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israeliani non abbiamo paura. Voi lo dimostrate ogni giorno, siete senza identità... pensaci. –Ancora ‘sta storia dell’identità. Comunque io sono venuto in Israele perché mi attrae la sua storia... un popolo forte, mi sento come a casa mia... e il numero? –Dobbiamo andare, buona fortuna– e rimango solo con la mia borsa. Non mi arrendo, chiamo Maria per vederci la sera; chiedo se verranno anche le ragazze, mi risponde di sì. Ci incontriamo sul lungomare di Tel Aviv. Sembra Rimini: ragazze in minigonna con le flip flop che ascoltano la musica, miriadi di skateboard, pattini a rotelle e monopattini dappertutto... scegliamo una pizzeria italiana, il proprietario ci viene incontro. –Benvenuti, qui la pizza è speciale, chi entra qui a mangiare torna di sicuro. –Napoletano? –No, ma proprio stamattina mi sono arrivate dall’Italia le mozzarelle di bufala e funghi specialissimi. –Noi prendiamo quella ai funghi– dicono le soldatesse in coro. –Per me pomodoro e mozzarella– dice Maria. –Anch’io voglio quella ai funghi, e birra a volontà– dico, cercando di eludere lo sguardo del proprietario che mi fissa. –Hai fatto colpo– dice Ruth. –A me non interessa, ho altre preferenze. –L’abbiamo capito– e ridono di gusto. –Pensavo che non ci fossero gay in Israele. –Israele è l’unico paese dell’area mediorientale dove i gay hanno pieni diritti. Qui le minoranze religiose vengono tutelate, ricordatevelo quando buttate fango su di noi. Piuttosto, le vostre femministe? Hanno smesso di lottare per i diritti delle donne nel mondo? –Ruth, lo so, è di moda parlar male di Israele. E poi in Italia siamo buonisti con i problemi degli altri, finché non ci toccano personalmente, nel nostro privato.
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Arrivano le pizze, belle colorate e fumanti; ma perché il tipo mi fissa ancora? Non passano venti minuti che Sarah avverte mal di pancia. –Sto male, mi accompagnate in bagno? Passano dieci minuti, Maria si preoccupa e va alla toilette. –Stanno male, hanno conati di vomito, forse è meglio andare in ospedale. Anch’io sento male allo stomaco, forse mi sto facendo suggestionare? Corro in bagno, è occupato dai nostri vicini di tavolo... che succede? Arriva il proprietario. Quando realizza che i bagni sono insufficienti per i problemi di tutti, ci invita a salire sul rimorchio di un trattore. –L’ambulanza per attraversare il lungomare ci impiegherà un quarto d’ora, fra i sensi unici e i semafori... Col mio trattore ci mettiamo cinque minuti, il retro del pronto soccorso è alle nostre spalle. I camerieri ci buttano sul rimorchio, uno sull’altro, doloranti; a dieci all’ora, il trattore arriva al pronto soccorso, carico di pupille dilatate. Gli infermieri non credono ai loro occhi, venti deportati che chiedono aiuto. Ci troviamo tutti con una cannuccia in bocca, è la salvezza. –Ma quanto danno fanno ‘sti ebrei– Ruth non mi ha sentito, e in ogni caso è sempre colpa loro. Maria è l’unica che non ha avuto problemi... già, i funghi! Il proprietario è preoccupato che la polizia gli chiuda la pizzeria: nel suo locale chi entra torna, ma con la cassa da morto!
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ATTO IV
Scena I Luglio 1968, Maria e Angela –Nonna Angela, rimani con noi tutto il giorno? –Sì, tutto il giorno. –E vieni con me al mare? –No, devo finire il maglione per Francesco. –Ma dai, nonna! Zio Francesco è morto, sta in cielo, non gli serve il maglione. –Gli serve, gli serve, ha sempre freddo– poi sente il rumore di un aereo, esce in giardino e guarda in alto. –Sono loro, stanno andando a salvare Francesco, stanno andando al campo. –Ma nonna, che dici? La guerra è finita... dai, andiamo al mare. –No– piange –Maria, mi prometti che lo troverai? –Sì, te lo prometto, quando sarò grande lo troverò. –So che solo tu lo troverai, lo troverai quando nevicherà. –Nonna, perché è finito in un campo di concentramento? –Era tornato a casa, aveva due giorni di congedo. Fu una festa. La notte che partì i tedeschi lo catturarono sul treno, a Trento. Non è più tornato. –Che sfortuna! –Poi nonno Michele per il dolore ebbe una paralisi a tutto il corpo, rimase a letto fino alla morte e io dovetti lavorare in campagna. Allora lo Stato non aiutava chi aveva un malato in casa... avevo anche Palmo che era disabile, Immacolata era malata e non
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avevamo soldi per curarla. Anche tuo padre fu costretto a lavorare e quindi niente scuola. –Papà suonava la fisarmonica con lo zio? –Sì, gliel’aveva insegnato Francesco, tuo padre avrebbe voluto fare il maestro di musica. –Oh, nonna! Sì, te lo prometto, lo troverò... –Maria, ricordati del maglione e di dirgli che lo abbiamo sempre amato...– poi, quasi a se stessa –Chissà quali saranno stati i suoi ultimi pensieri... –Sì, nonna, quando lo troverò... Nonna, sai cosa faccio quando la mamma mi chiama per andare a casa? Esco dal mare, faccio finta di cadere per sporcarmi di sabbia, e così sono costretta a ritornare in acqua... la mamma si arrabbia tantissimo, lo faccio per due tre volte! –Birichina!– poi ridiventa seria –Ma la tua amica, quella con cui vai al mare, è tedesca? Non capisco quando parla. –Ingrid? No, è... è... francese. –Allora può entrare in casa. Ingrid è la mia amica del cuore, le ho detto di non venire a casa, non voglio vedere la nonna piangere. –Nonna, ieri sono andata in campagna con papà, abbiamo raccolto i melograni dall’albero di zio, quello dove aveva fatto la magia! –Innesto, si chiama innesto. –Metà melograno e metà pesco, è bellissimo, nessuno ce l’ha un albero così! Nonna corre in giardino, vede i melograni sul tavolo, ne accarezza i chicchi rossi. –Il mio cuore è come te– poi alza la testa e urla a un deltaplano. –Ehi giovane, mi senti? Giovane, trova il mio Francesco e portagli il maglione… Ha sempre freddo, il mio Francesco.
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Scena II Il coro Monica ritorna all’Istituto dopo il colloquio di lavoro. Si chiude in camera, spegne il cellulare. Il pianto sommesso lo ascoltano le mura bianche.
Monica e Gregoria –È permesso? Com’è andata? –Male, suor Gregoria, non mi hanno presa. –Ma come mai? –Mi hanno offerto cinquecento euro al mese, non ho accettato... poi mi hanno detto che le decorazioni facevano pietà... Dicono che gli italiani non vogliono fare alcuni mestieri, ma perché non scrivono la verità? Che assumono solo chi accetta stipendi da fame? Come si fa a vivere a Milano con cinquecento euro al mese? Ho mal di testa. –Non ti scoraggiare, fammi vedere le decorazioni, disegnamele. Monica disegna su un foglio la torta con due valigie che rappresentano il viaggio di nozze; le ha decorate come due bauli, con sopra gli sposini. –Io non avrei messo gli sposini, ci vuole più fantasia, bisogna stupire... –E cosa avresti messo? –Il sole e la luna che scappano insieme! –Ah, sei fantastica! Sei sprecata come suora... oh, scusa, non è che ti ho offesa? –No, Maria me lo dice sempre. Senti, se vuoi ti do lezioni di fantasia, così tu domani ritorni in pasticceria e chiedi un altro colloquio.
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–No, ormai è andata... che penseranno di me? –Se ti fermi a quello che pensano gli altri, di te avrai sempre un’immagine negativa. Su, coraggio, al lavoro! –Ma vogliono pagarmi poco. –Se dimostri le tue qualità devono pagarti il giusto. Sennò arrivederci, devi essere tu a dettare le regole. –Posso farti una domanda personale? –Certo. –Perché ti sei fatta suora? –Gesù mi ha scelta. –Ah... e ti ha mandato l’angelo messaggero?! –Più o meno... avevo sedici anni, quando un sacerdote amico di famiglia venne a casa e mi disse: sento che Dio ti chiama, vieni in convento. Mi portò dalle suore sue amiche; per la verità andavo ogni giorno in chiesa, ma le suore le conoscevo poco. Feci una breve esperienza e mi trovai bene, ci sono rimasta. –Così riempivano i conventi. –Sei troppo dura, è stata una mia scelta. –Le suore non le ho mai sopportate, all’asilo mi picchiavano. –Prima si educavano così i bambini, con le botte. –E Gesù dov’era? –È un cammino per tutti. A volte i laici sono più vicini a Dio di quelli che portano l’abito. –Tu sei diversa, perché? –Sono stata molto amata. –Adesso capisco. Gregoria disegna tantissime decorazioni, che solo una grande maestra può inventare sul momento; per tutta la notte disegnano, fino alle cinque del mattino. –Devo andare a pregare, senza la preghiera siamo tutti persi. Chiudo gli occhi con le immagini dei pupazzi creati dalla mia amica, mentre dalla chiesetta vocine silenziose pregano il mattutino davanti al crocifisso.
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–Monica, ti ho chiamata mille volte, com’è andata? –Così… oggi ho un altro colloquio. –Ah, fammi sapere! Ho ripreso la mia borsa, ho il volo domani mattina. Non passo per Milano, vado direttamente a Berlino. In bocca al lupo, e salutami Gregoria! –Hai un’amica eccezionale. –Tutte le mie amiche sono eccezionali.
Scena III Maria, vecchio signore e Monica Arrivo al Wast di Berlino all’orario di chiusura. Non sono riuscita ad essere puntuale all’appuntamento. Avremmo parlato di eventuali effetti personali di Francesco. Forse è una fortuna, non mi sento pronta per una cosa del genere. La ricerca di Francesco è durata per due generazioni, finché, nel 2011, ho scoperto dove è sepolto. Zehlendorf. Già il nome del cimitero mi fa paura. Il cielo è sereno, ma una nuvoletta mi segue. Con la piantina in mano cerco il numero, la fila. Il cammino è eterno, come eterna è stata la mia ricerca. Attraverso un vialone raggiungo il quadrato bianco con il nome “Ma la gn ino Fr ance sco”. M’inginocchio. –Ciao, ti ho portato un regalo. Tiro fuori un maglione, lo poso sulla tomba. Le lacrime spuntano da sole, chiudo gli occhi... Francesco è un cumulo di ossa che languono. Sento un gran freddo, mi scuoto mentre comincia a piovere e il vento fa turbinare la polvere. In pochi minuti la tempesta di grandine e neve ammanta il cimitero di un bianco lucente. Mi
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alzo per ripararmi, non vedo più niente, non so dove andare. Un vecchio signore mi prende per un braccio. –In questi posti non si viene mai da soli. Corriamo via, lasciando il maglione. –Padre Luigi mi ha lasciato questo, non è riuscito a consegnarlo ai tuoi nonni. –Chi sei? E chi è padre Luigi?– poi ricordo di aver mandato email a mezzo mondo, alla missione cattolica, alla Croce rossa... in tanti sanno che sono a Berlino. Prendo in mano una lettera, è di Francesco. –No, non ce la faccio. –Monica, scusa se ti chiamo ma sto male, non riesco a respirare, sto male! –Ma come, tu che mi dai sempre coraggio! Stavo per chiamarti... vai in ospedale, fai qualcosa! –Non riesco a respirare... –Tranquilla, respira piano, dai... Ho trovato lavoro, magari questo può aiutarti a star meglio, e voglio comprare un paio di scarpe a Gregoria, che dici? –Sì, sì... comunque non preoccuparti, non sono sola. Mi accorgo che Monica è così felice per il lavoro che non percepisce la mia difficoltà. Ma dov’è il vecchio signore? Chi era? Sono sola col mio dolore, cerco un taxi, voglio andare via.
Monica e la Madre Superiora Monica corre all’istituto; all’ingresso, la superiora chiede di Maria: –È a Berlino.
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–Peccato... suor Gregoria le ha lasciato questa– mostra una scatola. –Tornerà domani, credo. –Puoi dargliela tu? Suor Gregoria è morta stamattina, dopo la messa.
Il coro Monica rimane immobile con le scarpe in mano, immobile come quei ramarri che splendono sulle pareti bianche appena profumate di calce. Le ritornano in mente i suoi consigli, la forza delle sue parole... non aveva mai sopportato le suore, ma con lei aveva capito molte cose. Con le lacrime agli occhi, chiede di vederla. È sorridente, le rughe piene di bontà e bellezza, senza scarpe.
Monica e la Madre Superiora –Potete metterle queste? –Ha scelto la povertà, non ne ha bisogno. –Ma scusi, superiora, lei di dov’è? –Di Genova. –E perché non è rimasta a Genova invece di venire a mettere in croce queste povere suore? Avrei voluto parlarle, dirle quanto era stata importante la sua lezione di fantasia. Nella scatola c’è una bellissima corona del rosario. È tutto quello che ha lasciato in eredità. Voglio rimanere sola con i miei pensieri, forse è ora di liberarmi delle stampelle. Ripenso a mio marito, a Gregoria... non so come mai, ma li sento vicini. Sì, sono vicini a me.
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ATTO V
Scena I Il coro È ora di tornare. Chiara soffre ancora, ma gli schiaffi di questi giorni le hanno aperto gli occhi. L’importante è capire, l’importante è salvarsi.
Chiara Sognavo Sharm, invece per distrarmi guardo i gioielli di Stern, in attesa del volo per Roma. Un bambino con il kippah in testa corre e cade ai miei piedi. –Ti sei fatto male? Piange, un altro bambino gli corre incontro e gli fa una carezza; il padre lo chiama, tenta di consolare quelle lacrime rotonde come chicchi d’uva. Ho capito chi è Dio, è un bambino che corre a consolare tutti... poi da adulti seguiamo quello che ci fa comodo, quello inventato dal nostro bisogno di potere. Devo uscire dalla prigione della vendetta, devo guardare oltre... Bambino che piangi, bambino che consoli, aiuto, non voglio diventare grande!
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Scena II Gianni e Don Guido Torno a casa, devo ritornare. Rosaria è la donna della mia vita, devo sposarla perché voglio un figlio. Mi aspetta un’altra parte da tenere. Le prospettive non sono buone, mia madre mi ha mandato un messaggio: “Non vogliamo essere complici”. La porta a vetri dell’aeroporto del Salento si apre davanti a me. Intravedo Rosaria e mia madre, con due facce da killer. Rientro di corsa e chiedo di uscire dalla parte opposta, dal retro posso sgattaiolare verso il parcheggio. Vicino alla mia Panda, il nonno impugna il bastone quasi fosse una spada. Il suo Ape è di traverso; impossibile non riconoscerlo, sul parabrezza ha lo stemma di Francesco II di Borbone. Mi vengono in mente le parole che ripete ogni giorno, come un mantra: –Per invidia e per il potere, ci ha distrutti e lo chiamano pure eroe… Siamo buoni solo per pagare le tasse, il mondo va al contrario. Bianchina si agita. So che il nonno lascia sempre le chiavi nel quadro; di soppiatto entro nell’Ape, e via, verso la libertà. Il nonno mi urla qualcosa dietro, Bianchina abbaia come una forsennata. La mia corsa finisce a un rondò... ed eccomi al commissariato. –È stato uno scherzo– provo a convincerli. Ma ecco don Guido, la mia salvezza. –Don Guido, di’ all’ispettore... –Le chiavi dell’Ape, sono venuto a prendere Bianchina. Sei indifendibile anche davanti a Dio. –Ah, bravo, chi non ha peccato scagli la prima pietra! Don Guido esce senza voltarsi. Cosa ci faccio qui, tra questi ragazzini in sala d’aspetto, che figura! Per la prima volta, mi ritrovo dall’altra parte. Arriva l’ispettore:
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–Tuo nonno ha ritirato la denuncia. Esco in fretta e vado verso il centro. Sono stanco, ho mal di testa. Mi siedo alla fermata dei mezzi pubblici... ma no, è meglio camminare, non ci sono gli orari esposti e non voglio ritrovarmi con la barba lunga aspettando l’autobus. Entro in chiesa per cercare don Guido, mentre il sagrestano sta chiudendo il portone: –Devo chiudere, il sacerdote non c’è. –Ho bisogno di pregare. –Va bene. Mi fermo davanti alla statua di san Pio... no, non va bene, lui urlava in chiesa se qualcuno aveva tradito la moglie! Più avanti c’è san Giuseppe, lui sì che mi piace, il santo del silenzio. E poi con lui gioco in casa, è il santo protettore del mio paese. Il pensiero corre a Chiara, all’ultimo affronto per farle pagare la mia dipendenza da lei. –Ma chi sono?– penso a voce alta. –Un verme! Mi volto di scatto... e il sagrestano mi toglie un verme dalla giacca.
Scena III Il coro Maria è finalmente serena. Nei giardini vicini all’Istituto di suor Gregoria, con l’amico Marco, aspetta che Monica torni dal lavoro, dal suo terzo giorno di lavoro. Prima di leggere la lettera dello zio, si segna sul braccio un numero. 27081946.
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Maria e Marco –Che cosa significa? –È la data della morte di zio Francesco. Sei pronto? Apro la lettera che lo zio ha lasciato a don Luigi Fraccari. –Sei tu che devi essere pronta! Attraverso la fessura del vagone ho incontrato i tuoi occhi belli come il cielo. Non aver paura, aspettami, presto ti libererò. Pur di rivederti venderò il mio prato di melograni per suonare con la fisarmonica il lamento dei miei occhi davanti al tuo cuore. Non aver paura, aspettami, presto ti libererò. Pur di rivederti venderò il mio vigneto per comprare una nuvola e liberarti dal campo. Ho un debole respiro. Non aver paura, presto ti libererò. Pur di rivederti venderò l’amore della mia famiglia per farti sopravvivere a questa follia, poi correrò veloce attraverso i volti dei miei fratelli per dire al mondo che solo l’amore ci salverà. Ho solo un debole respiro. Non aver paura. Non vedo più il volto di mia madre, ho solo un respiro, non vedo più i volti dei miei fratelli, non potrò più liberarti... Non aspettarmi, ho venduto il mio ultimo respiro per te.
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TRE COSE
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Personaggi Cataldo Marta Lucia Alessio Morgana Ivan Gabriela
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farmacista collega di Cataldo collega di Cataldo nipote di Cataldo sorella di Cataldo rapinatore suora
Prologo
Taranto, febbraio 2001 –Cataldo, figlio mio... Sto per tuffarmi in paradiso, figlio mio adorato. Ricordati di tre cose... –Papà, non voglio che tu muoia. –Figlio, qui siamo di passaggio, come nuvole... Ricordati di tre cose. Prima di tutto, non voltarti mai indietro. Secondo: futtatinni. La terza... devi scriverla tu.
ATTO I
Scena I Taranto, aprile 2013 Avevo dodici anni quando papà volò in cielo, la leucemia se l’era portato via in pochi mesi. Io e mia sorella Margherita, detta Morgana, rimanemmo orfani del papà più buono del mondo... ma perché non era morta la mamma che era una strega? Mah! Oggi è un giorno bellissimo: il mio primo stipendio, ed è anche
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il mio compleanno, 24 anni suonati. –Catà, ti ho stirato la camicia... ma quando te ne vai da casa? –Mamma, che fai, mi cacci? –Trovati una fidanzata, non hai mai avuto una fidanzata! Tua sorella ha un anno meno di te ed è già al secondo matrimonio. –Lasciamo stare... Alessio quando deve andare a Milano per il controllo? –Il mese prossimo, lo devi accompagnare tu ché Morgana deve mettere su casa! –Va bene, ciao mamma, ci vediamo per pranzo. Col papillon sono proprio originale, mi piaccio, tutte le ragazze mi guardano; ne cambio uno al giorno, me li sono regalati per la laurea. La farmacia è chiusa, sono sempre in anticipo. Arriva Marta, la mia collega preferita. Vorrei tanto invitarla a uscire, ma quando sto per aprir bocca arrossisco e cambio discorso. –Buongiorno Marta, bella giornata, oggi è san Paganino! –Eh già, ma abbiamo il turno di notte. –Sì, lo so, l’ho segnato sul calendario della cucina, così mamma mi prepara il termos col latte per domattina. Il dottore arriva e inizia la nostra bellissima giornata lavorativa. È bello lavorare, consigliare la gente, misurare a tutti la pressione... sono proprio fortunato ad avere un lavoro nella mia bella città di Taranto. –Marta, vorrei dirti se... se ti... sai, hai dei bellissimi occhiali! –Grazie, anche tu hai un bellissimo papillon. –Ti piace davvero? –Sì, sei unico... un po’ antico, ma unico. –Ehi, ti... ti piacerebbe... cambiare la disposizione delle scarpe della vetrina? –Se ne occupa Lucia, non spetta a noi. –Già, hai ragione.
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Il turno sta per finire; il dottore mi ha dato l’incombenza di chiudere bene la farmacia, sono l’unico maschio tra tante donne e devo difenderle. Quando ormai siamo alla chiusura della cassa e mi avvio verso la porta principale, alle mie spalle sento un urlo e parole del tipo: “Le chiavi della cassa o l’ammazzo!”. Continuo a chiudere la saracinesca che scende lentamente, mentre avverto lo sguardo meravigliato e insistente di uno sconosciuto, sento le urla di Marta: –Dottore, la chiave della cassa! Mi avvio al primo piano per verificare che tutto sia a posto, che le finestre siano ben chiuse; sento ancora urla, ma perché sono così agitati all’ora di pranzo? Quando ridiscendo al piano terra, noto l’ambulanza in cui stanno caricando Marta, i carabinieri che trattengono un omone tutto muscoli... Sta’ a vedere che oggi farò tardi, i ceci con le cozze si raffredderanno. Lucia mi urla contro come una forsennata: –Perché non hai dato la chiave a Marta? Il rapinatore la stava ammazzando e tu hai chiuso tutti dentro, ma cos’hai in quella testa? –Dottoressa, io non mi volto mai indietro. Ma... allora ho chiuso in farmacia un rapinatore... sono un eroe, sì, un eroe! Ho catturato un rapinatore, dottoressa, si ricordi che ho salvato la cassa. –Me ne frego dei soldi! Marta è svenuta, non pensi alle colleghe? –Sì, a lei ci penso, e spesso, ma... ma... dottoressa, futtatinni! Il giorno dopo ero su tutti i giornali. Titolavano a grandi caratteri che un farmacista coraggioso aveva catturato un pericoloso delinquente. Processo per direttissima, il tipo era già uscito di galera; ma l’importante nella vita è essere visibili e grazie a lui tutti in strada mi salutavano. L’unica ad aver da ridire era mia madre: –Catà, sei proprio un coglione. Hai rischiato la tua vita e quella degli altri per soldi che non sono nemmeno tuoi... quello appena esce ti fa un mazzo così!
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Scena II Al lavoro nessuno mi parla. Dovrebbero ringraziarmi: reagire freddamente è un deterrente per i futuri rapinatori, ne sono sicuro, non verranno più con la pistola. A volte le donne non capiscono subito... Stasera voglio andare a trovare Marta in ospedale. Niente di grave, ma è rimasta in osservazione. –Lucia, stasera vado a trovare la dottoressa, vuoi venire con me? –No. –Tu che sei sua amica, sai che tipo di fiori le piacciono? –I crisantemi. –Davvero? Non so se riuscirò a trovarne in questo periodo, ma grazie per il consiglio. Sono venuto al lavoro con la mia Fiat 126; era di mio padre, veramente. In genere prendo l’autobus, ma stasera voglio essere puntuale per Marta, le porterò tutti i giornali che parlano della rapina. Tutti si complimentano con me in farmacia, tranne la signora Mariuccia che mentre le misuravo la pressione mi ha detto: –Dottò, a te ti manca qualche rotella! Non le ho risposto, è una consorella della confraternita della Madonna del Carmine e tra qualche mese dovremo prepararci per la Settimana Santa. Alla fine del turno nessuno mi saluta. Le donne, chi le capisce? Attraverso i vicoli della città vecchia arrivo al porto, dove ho parcheggiato la mia macchinina... ma dov’è finita la mia 126? Ripercorro la via in lungo e in largo, sì, l’avevo lasciata vicino alla chiesa di San Giuseppe, a chi può interessare una vecchia auto? È chiaro, l’hanno rubata! L’ospedale è dall’altra parte della città, l’orario delle visite sarà terminato, per fortuna non ho comprato i fiori... Cammino triste sul lungomare, pensando alla mia piccolina mi dirigo verso il mio quartiere, Santa Rita.
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Passando davanti ad una villa del quartiere, noto una 126 che assomiglia alla mia, parcheggiata nel viale vicino al cancello. Mi avvicino per qualche metro e... ma sì… è lei! Le chiavi sono nel quadro. Suono al citofono ma non risponde nessuno: futtatinni, è la mia auto e io me ne vado. È una sensazione bellissima ritrovare qualcosa quando non te l’aspetti. Corro verso via Cesare Battisti e finalmente a casa, quando mi accorgo che sul sedile posteriore c’è un borsone. Mhm, lo apro e... –Oh, Gesù! –Catà, vieni, ché la pizza ai frutti di mare è pronta. –Mamma, vieni! –Maculata Maria... ma è oro, sono gioielli! –Li ho trovati in macchina, me l’avevano rubata. –Corri subito dai carabinieri, ma dov’era ‘sta macchina? –In via... non ricordo. –Catà, qua vai a finire da carceriere a carcerato! –Mamma, vado, ma prima posso mangiare la pizza? –Eh sì, dai, intanto ispeziono io la 126. La pizza è superba, solo mia madre sa fare una pizza così, ci mette pure lo scampo per decorazione. –Mamma sono pronto, vado dai carabinieri, ma cos’è? Un’altra borsa? –Eh sì, ci sono posate d’argento, piatti con le iniziali in oro zecchino, cose mai viste! –Mettiamo tutto dentro, non voglio fare tardi. In caserma mi trattengono per ore; ispezionano la piccolina e mi ripetono le stesse domande per tutta la notte. Il giorno dopo sono di nuovo su tutti i giornali, questa volta con la mia foto e l’indirizzo della casa dove abito. Morgana accoglie i giornalisti, mentre il quotidiano titola in prima pagina: “Ha più fortuna che giudizio”.
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Scena III Sono proprio lusingato. Ho sventato un altro furto, adesso aspetto che i proprietari della villa mi ringrazino. In farmacia nessuno ne parla e anch’io faccio finta di niente, ma non vedo l’ora di andare da Marta. Sto per chiudere la farmacia quando il maresciallo mi invita ad andare con lui in caserma. –Mamma, faccio un po’ tardi, forse mi devono ringraziare pubblicamente. Il maresciallo è serio; io sorrido, ho il papillon del giorno della mia laurea, giallo con i bordi arancioni. L’ho comprato al mercato delle pulci di Amsterdam. –Dottor Cataldo, i proprietari della villa hanno denunciato il furto di ventimila euro, e dai gioielli mancano un collier e alcuni diamanti... ne sai qualcosa? Oltre a te chi ha visto le borse? –Solo io e mia madre. Pensi che abbiamo ammirato quelle portate di piatti e io ne ho preso uno per appoggiare lo scampo, poi però il piatto l’ho lavato e rimesso nel borsone. –Mi dispiace, siete indagati per furto. È un atto dovuto, mancano soldi e gioielli. –Ma io non ho toccato niente! –Dalle telecamere della villa si vedono tre uomini posare una cassetta in macchina. Quella cassetta non è stata consegnata e si vede anche il tuo viso mentre suoni al citofono... chi è il tuo avvocato? –Non ce l’ho, non ne conosco nessuno. Dalla gloria, sono finito nella merda. Nel senso letterale del termine. Pesto tutti i bisogni dei cani sul marciapiede e arrivo a casa triste. Poi, guardo il piccolo Alessio e penso: futtatinni. –Hai letto gli articoli di oggi? –Morgana, non turbare la mia serenità. Piuttosto, Alessio ha la visita venerdì, chi lo accompagnerà a Milano?
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–Io non ho una lira, sto facendo il corso di estetista ma lavoro zero... Dimmi dei soldi, li hai presi tu? –Morgana, ti sembro tipo da rubare ventimila euro? –L’occasione fa l’uomo ladro... Ho bisogno di cinquecento euro, devo fare l’allaccio di luce e gas alla nuova casa, me li presti, fratellino? Quando lavorerò ti renderò tutto. –Il mese scorso te ne ho dati mille per la tinteggiatura della casa, e considera che mi occupo anche di tuo figlio. –Catà, sono sfortunata, il mio ex non mi dà niente per Alessio! Ma con Giorgio le cose stanno cambiando, fra sei mesi ci sposeremo. –Per me le cose non cambiano... i soldi li metto sempre io, e lui? Mai un euro. –Deve dare i soldi alla sua ex, ma te l’ho detto, presto le cose cambieranno. Catà, ti prego! –Va bene, ma devo cominciare a mettere dei soldi da parte, pure io mi voglio sposare. –Ma se non hai la fidanzata! –Dammi tempo, tempo. Il giorno dopo, il dottore mi aspetta fuori dalla farmacia. –Le devo parlare. –Sono tutt’orecchi. –Visti gli ultimi avvenimenti, ho deciso di sospenderla momentaneamente dal lavoro, per tutelare l’immagine di questa attività... –Ma io sono innocente, io... Marta... non ho rubato nulla! Ma mi sospende o mi licenzia? –La licenzio.
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ATTO II
Scena I Il telefono squilla due o tre volte. Non rispondo, devo tornare da mamma, ma non ne ho voglia. Un messaggio: “Hanno incendiato la casa”. –Cos’è successo?– mia madre è in lacrime. –Catà, hanno bruciato la casa. Arrivano i carabinieri, la polizia, i giornalisti, e tutti realizzano quello che mia madre dice da tempo: me la stanno facendo pagare. Non abbiamo più nulla: mobili, effetti personali, tutto bruciato, a parte la 126. Per la prima volta vedo Alessio piangere: non ha pianto neanche quando doveva operarsi alla testa, i suoi lacrimoni sembrano gocce di cristallo. La mamma lo abbraccia: –Alè, non ti preoccupare, ce ne andremo in campagna, forse è meglio per te. Carichiamo il gatto detto Malombra e partiamo subito verso Grottaglie, dove abbiamo ereditato dai nonni paterni una casetta in campagna. Non c’è il riscaldamento, ma il tempo è clemente e una stufa a gas può bastare. –Mamma, mi hanno licenziato. –E perché, cos’hai fatto? Mica c’è solo quella farmacia, cerca nelle altre. –Mamma, tutti pensano che abbiamo rubato i soldi, nessuno mi saluta più in città. –Magari! Averceli, ventimila euro... adesso come facciamo? Io la pensione l’ho data a Morgana perché deve tinteggiare la casa nuova.
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–Ma glieli ho dati anch’io! –Non ho neanche i soldi per la spesa– e piange a dirotto. Più in là c’è una grande masseria e spesso le galline si avventurano anche nella nostra proprietà, così provo a catturarne una. –Mamma, non c’è bisogno di fare la spesa, oggi brodo! Per la prima volta, Alessio ha mangiato con gusto la pastina che odiava tanto. Cerco lavoro dappertutto, ma le porte si chiudono ancor prima di lasciarmi entrare. La confraternita mi ha prestato i soldi per andare a Milano con Alessio, che una volta al mese deve fare i controlli allo Ieo. Il controllo è andato bene ed è l’unica cosa importante. Alessio è tranquillo, gioca felice col gatto, mentre io mi preparo fisicamente per la giornata della passione.
Scena II A Pasqua, la processione a Taranto è una vera scommessa con le proprie forze. Dopo le feste – ho deciso – lascerò la mia città adorata, destinazione Milano. Mia madre mi sta cucendo l’abito bianco col cappuccio, l’altro è andato in fumo con la casa. Ogni tanto Morgana viene a casa, non per vedere Alessio ma per chiedere, chiede sempre: –Mamma, ho bisogno di duemila euro per il vestito da sposa. –Basta! Ti abbiamo dato tutti i nostri risparmi, non abbiamo più niente, lo capisci? Quel grand’uomo del tuo futuro marito dov’è? Devo dirgli due paroline. –Mamma, ha i suoi problemi, deve pagare l’avvocato per il divorzio, ha una figlia minorenne da mantenere.
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–E tu? Alessio è malato e pensi al vestito da sposa... ma con chi ti sposi, con un mantenuto? Stai approfittando della pensione di una vecchia e dei risparmi di tuo fratello: i soldi che ti ha dato erano il suo salario di quando andava a vendemmiare per pagarsi l’università. Vergogna! Non ho mai sentito mia madre parlare così. Morgana è stata sempre la cocca di casa. Io non esistevo, a volte si dimenticava di me e non veniva a prendermi da scuola. Morgana va via tutta rossa in volto, arrabbiata: –Va bene, andremo a rubare! –Andate a raccogliere olive, parassiti! Che parolone, mia madre quando si arrabbia diventa erudita. Anche il mio avvocato ha cercato di rovinarmi la giornata, ma io: futtatinni! Non ho soldi, deve aspettare. Intanto mi preparo fisicamente alla processione; il gran giorno è arrivato, poi saluterò tutti e via, andare.
Scena III L’abito bianco è pronto. Raggiungo la chiesa del Carmine, i confratelli mi aspettano, emozionati. La processione dei misteri è un rito antichissimo, che dura ore e ore. Sul sagrato della chiesa noto un viso conosciuto; sarà un nuovo confratello, ma adesso che ci penso mi sembra... sì, è lui, è il rapinatore che ho chiuso in farmacia! Che sia venuto a chiedere perdono alla Vergine? Alzo la mano per salutarlo, ma, ohi ohi... ha una pistola! Sgattaiolo in sagrestia e mi vesto in un baleno; col cappuccio non può riconoscermi, l’ho fregato un’altra volta. Il “tracolante” apre la processione. Dopo dieci minuti noto un mazziere incappucciato con le scarpe da ten-
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nis... Dovrebbe essere scalzo, e invece di controllare l’andamento della fila fissa nei buchi dei cappucci... è lui, cerca i miei occhi. Un altro mazziere se ne accorge e lo allontana, stava turbando l’armonia dei nostri passi. La Processione dei Misteri è ordine, silenzio interiore, una musica al ritmo di passi sempre uguali; è una questione di centimetri e il vocio della gente non deve condizionarti né distrarti, la processione richiede pause e attenzione. Ha i tempi lunghi del corteggiamento, dell’attesa, ha il respiro del mare. Mentre avanziamo lenti lungo le strade, il silenzio si rompe a tratti per dare spazio alla meraviglia, poi le parole si spengono all’improvviso. Procediamo verso il centro, il ponte girevole sembra galleggiare mentre i colori delle tuniche si sfogliano come petali su un mare che non conosce tempesta. Taranto è una bellezza non colta, Taranto ha il ritmo lento e morbido della passione; la sua lingua è il suono del vento, il vino rosso che inebria al secondo bicchiere, il profumo della pepata di cozze che si srotola lungo i vicoli della città vecchia; è la porta verso spiagge caraibiche che solo lo scirocco sa piegare come i pini del Mirante. Taranto è passione per i balconi addobbati di damaschi e velluti rossi che si aprono in cortili spettacolari, Taranto è il suo castello sospeso tra terra e cielo e stregato dalla luna, Taranto è il rosa del tramonto e dell’alba, la porta ventosa verso l’infinito. Sono stanco. La processione avanza con maestranze in fila e scatti in bianco e nero, il vento accarezza la nostra stanchezza. Chissà che fine ha fatto Ivan. È finita, la processione è finita; con l’abito bianco della confraternita raggiungo la mia 126, non mi spoglio, meglio evitare brutti incontri. Questi buchini del cappuccio mi lasciano vedere a malapena. Finalmente a casa, sto per chiudere la macchina quando noto un movimento sul sedile posteriore... È lui, il rapinatore; e, all’improvviso, urla.
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Scena IV –Che succede?– mia madre esce di corsa in cortile. –Mamma, non lo so... era in macchina con me, non me ne sono accorto. –Ma chi, chi? –Il rapinatore! –Maculata Maria, adesso ci ammazza... Catà, muoviti, prendi lu cugnatu. Cerco di telefonare e intanto gli chiedo perché stia urlando: –Le spine, sono pieno di spine! –Catà, lu cugnatu! –Ma quale cognato, Giorgio o Daniele? Sto provando a telefonare. –Lu cugnatu, coglione, l’ascia! Sta nel cofano! Ritorno alla macchina e d’un tratto capisco: ho dimenticato di buttar via la spazzatura, c’erano le pale con le bucce dei fichi d’india. Giacché ci sono, prendo anche lu cugnatu. Passiamo il giorno successivo a togliere le spine a Ivan; con la pinzetta, una a una, che fatica! Lui urla sempre e ogni tanto a gesti fa capire che vuole spararci; così noi smettiamo, e lui dice che scherzava. I fichi d’India li raccogliamo verdi in estate e li conserviamo al buio e al fresco, per mangiarne qualcuno durante l’inverno. Mia madre ci fa anche il gelato, Alessio ne va matto. Il fico d’India è spettacolare, inaccessibile; è la parte inquinata della vita, quella che nessuno vorrebbe conoscere, poi quando lo apri cambi idea… È proprio come la vita, bellissima e piena di spine. L’essenziale è non voltarsi indietro, e futtatinni. Ivan ha ripreso le forze; urla di meno, ha fatto amicizia con Alessio, sembra quasi umano. Appena l’ha visto senza capelli ha quasi pianto, ma forse era per via delle spine.
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–A chi appartieni?– chiede mamma impugnando lu cugnatu. –Che significa “a chi appartieni”? –Di chi sei figlio? –I miei sono morti, erano di un paese qui vicino. –E perché rubi nelle farmacie? –Non c’è lavoro. –Se vuoi puoi chiedere al nostro vicino, ha una masseria e cerca uno per governare le mucche. –Ma no, faccio prima con i furti! Se non era per tuo figlio ora stavo a Rimini a godermi i soldi. È gentile solo con Alessio, gli ha pure regalato cinque euro. –I miei genitori sono morti in un incidente e c’era anche mio fratello, che aveva la sua stessa età. –Mi dispiace... senti, oggi c’è brodo di gallina, rimani con noi? –Ma sì, sono anni che non lo assaggio, da quando mia madre non c’è più. Il brodo è una squisitezza. È il sapore antico del sabato, il trionfo della carne genuina che si sposa col formaggio, il pomodoro, il sedano e la cipolla. Dopo pranzo, Ivan ci saluta. È arrabbiato con me, ma alla fine ci dice che siamo una bella famiglia, e ad Alessio regala una medaglia con la madonna di Medjugorje. –Ivà, ma sei stato tu a bruciarci la casa? Non risponde, l’ultimo sguardo è per Alessio.
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ATTO III
Scena I La valigia è pronta. Cercherò nelle farmacie a Milano, farò qualsiasi cosa. I tempi sono duri ma, diceva mio padre, “aiutati che Dio t’aiuta”. Ci metto cinque giorni per arrivare a Milano. Cinque, sì, perché non ho soldi per il biglietto; e sali e scendi, scendi e sali, ci ho messo tutto questo tempo. Faccio il giro delle farmacie: niente di niente, non faccio che lasciare curricula. Nei bar trovo sempre qualcuno che mi offre una brioche, come sono buoni qui al nord! Piove, piove a dirotto. Entro nell’androne di una banca per ripararmi, seguito da una signora elegantissima che sento dire al telefono: –Quando entro io, tutte le porte si aprono. –Signò, scusi– m’intrometto –possiamo entrare insieme, ché appena mi vedono per me le porte si chiudono? La sciura mi squadra dall’alto in basso e prosegue, senza degnarmi di una risposta. Rimango seduto per terra nell’androne, piove da matti; poi mi volto per caso verso la porta scorrevole e vedo una donna sdraiata a terra. –Oh, Gesù! È caduta, non ce la fa ad alzarsi... anche la sciura è per terra... Saranno scivolate, capita. Entro nella banca per aiutare la prima signora, è una suora: –Sorella, si alzi, l’aiuto. Lei sgrana gli occhi, trema, sta per svenire... Diavolo, non posso fare la respirazione bocca a bocca a una suora! Ma cos’è ‘sto silenzio in banca? Mi guardo attorno, sono tutti per terra.
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Mi arriva una sventagliata di proiettili, meno male che mi sono piegato per trascinare via la suora... sì, devo salvarla, la trascino fuori e la porta si blocca alle mie spalle. Già, per me le porte si chiudono tutte, avrei dovuto portare con me anche la sciura vestita di seta. Dall’interno della banca, un uomo incappucciato mi punta contro la pistola; futtatinni, i vetri sono antiproiettile. Io quegli occhi li ho già visti da qualche parte, ma perché l’ambulanza ci mette tanto? Oh Gesù, dev’essere una rapina... incomincio a sudare, mi manca l’aria, se la porta si apre dall’interno questa volta faccio davvero una brutta fine. –Madonna del Carmine di Taranto, aiutami!
Scena II Mi sveglio su una lettiga. Dove sono? E la sorella? Una poliziotta mi sorride: –Come sta? –Sto bene, ma...– qualcuno scatta una foto –Ma che succede? –Ha sventato una rapina in banca. –Ma... ma il rapinatore chi era? –Ivan, un certo Ivan. Svengo di nuovo. Mi danno due schiaffi; il telefono squilla, è mia madre. –Catà sei un coglione, hai buttato le penne delle galline uccise nel cassonetto davanti casa e il vicino mi ha denunciata per il furto di duecento galline. –Mamma, stai parlando con un eroe. –No, Catà, stavolta farai la fine delle galline. Ho mal di testa, non sopporto più nessuno, sto per andare via e la suora inveisce.
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–Ma lei dove ha gli occhi? –Io non guardo mai indietro. Ho rischiato la vita per te e questo è il ringraziamento? Vado via mentre nelle edicole ci sono già la mia foto e quella del rapinatore, e la scritta: “Il gatto e il topo”... Già, ma chi è il topo? Cerco lavoro, devo trovare un lavoro. Dopo ore di cammino mi fermo in un ristorante, mi daranno un bicchiere d’acqua. –Buonasera, vorrei... –Oh, ma lei è quello della rapina. –Sono venuto per chiedere... –C’è un posto di cuoco, venga a parlare con la titolare. –Sono Caterina, piacere. Può iniziare subito... questa è la cucina, mi faccia vedere come sa cucinare gli spaghetti con gli scampi. –Veramente, volevo un bicchier d’acqua. –Prenda pure quello che vuole. Ha quindici minuti per la preparazione. Mi ritrovo con un grembiule e un cappello in testa. Telefono a mia madre: non risponde, sarà andata a dormire. Sono nei casini più neri... ma sì, la suora! Ho i numeri di tutti, me li ha dati la poliziotta.
Scena III –Buonasera, c’è suor Gabriela dei sette dolori? –Sono io. –Sono Cataldo, volevo sincerarmi che stesse bene. Ehm, ma lei... gli scampi, come li cucina? È stato un successo: ho un lavoro! Suor Gabriela mi aiuta, si vede che è una suora: la chiamo a tutte le ore e lei mi consiglia
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sempre gentilmente. Col primo stipendio, le farò un regalo. La mia titolare mi fa i complimenti. Le ho spiegato che, prima di essere cuoco, sono un dottore e so bilanciare gli ingredienti; cerco di contenere i condimenti per limitare il colesterolo cattivo e le ho chiesto di non farmi mai mancare l’alloro. I mesi passano e io continuo a cucinare, i milanesi apprezzano i miei piatti. Dalle farmacie nessuna novità; pazienza, aspetterò tempi migliori. Intanto sono andato a trovare suor Gabriela, è l’unica donna con cui riesca a parlare. –Ciao, ti ho portato questo. –Cos’è? –Un dolce. Con la tua ricetta ho fatto una cozza ripiena. –Grazie. –Ehm… Tu sei felice di non esserti sposata? Io non riesco a trovare una ragazza adatta a me. –Prega Gesù che te la faccia incontrare. –Ma tu sei felice? –Certo, io sono sposata con lui. –Uh, certo. Io... volevo dirti che quando ti vedo mi sento bene... poi, quando ritorno a casa, non riesco più a mangiare... –Io sono impegnata con Gesù. Il mio unico desiderio è farlo felice. –Perché non fai felice qualcun altro, per esempio... me? Penso di essere innamorato di te. Gesù ne ha tante, una in meno neanche se ne accorge! –Cataldo, Cataldo, vai a pregare... Vedrai che ti ha già esaudito. –Ma perché non ti spogli? Lei sgrana gli occhi e poi sviene. –Suor Gabriela... Diventa cianotica e questa volta non posso rischiare, gliela faccio, la respirazione bocca a bocca. Lei poi cambia numero di telefono, le suore mi tolgono il saluto. In fondo le avevo solo chiesto di spogliarsi! Le donne, chi le capisce?
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ATTO IV
Scena I Una sera, mentre torno a casa, me la ritrovo di fronte. –Ciao. –Gabriela! Ma... non sei più una suora? Ti sei spogliata? –Sì, sono diventata laica. Dopo quell’incontro ho avuto una tempesta interiore, sei stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. –È stata colpa mia? Ho sempre avuto il dubbio che tu avessi frainteso quella parola. –No, non sono tonta, sei stato la goccia. –E adesso che fai? –La traduttrice. Conosco bene tre lingue. –Sono contento... posso chiamarti qualche volta? –Questo è il mio nuovo numero. Buonanotte. Quella notte non sono riuscito a dormire. Sentivo il mio cuore battere come i passi della processione dei misteri.
Scena II Carcere di Opera, Ivan –Ivan, mi raccomando. –Tranquilli. A mai più rivederci. Sette anni. Ho finalmente varcato quel cancello, è un capitolo
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chiuso. Adesso mi aspetta un lavoro a Bologna, devo correre in stazione centrale. Mentre cammino verso la fermata dell’autobus una macchina scoppiettante mi si ferma accanto. Tocco ferro... no, non è il dottore. È suo nipote. –Alessio, che sorpresa! –Dai, sali su, ti do un passaggio. –Vado a Milano. –Anch’io! Questo è da parte di zio... come stai? –Sto benone, ma cos’è? –È pasta di mandorla... sai che zio ha cambiato vita? –Sì, mi ha sempre scritto in carcere... io non ho mai risposto, poi un giorno ho preso tutte le sue lettere e le ho lette tutte d’un fiato, cercando una chiave di lettura, come se qualcosa mi spingesse verso uno stile di vita diverso... E ho capito. –Sai che si è sposato con Gabriela e hanno una bambina? –Sì, e anche il ristorante, ma... proprio una pala col fico d’india mi doveva regalare? Io ancora sento le spine! –Ma dai, è pasta reale! C’è una lettera insieme al dolce, leggila. –Non adesso. Parlami di te. –Ci sono grosse novità... Sai la sera della rapina? Giorgio, il compagno di mia madre, era andato a casa per chiedere soldi allo zio, e si era nascosto. Mentre zio mangiava e nonna guardava nelle borse, frugò in macchina e trovò lui la cassetta coi soldi. Mia mamma se n’accorse perché arrivò una decina di multe da Campione d’Italia... era sparito per una settimana con la sua macchina e dovette confessare. Successe l’inferno, ma almeno lei capì chi era Giorgio e quanto era stata ingenua. –E i soldi? –Bruciati al casinò... Mamma si è trasferita a Milano, fa l’estetista. Ogni tanto vado a trovare nonna a Taranto. –Così, una nuova vita per tutti– apro la busta, c’è la locandina di un ristorante con su scritto Lu tata.
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–Alessio, cosa vuol dire “cinca mi tai a manciari lu chiamu tata”? –Lu tata è il nome del ristorante e significa padre, papà. –Cataldo è proprio una macchietta– sorrido e continuo a leggere. Caro Ivan, mi dispiace tanto non poter venire ad Opera. Accetta il regalo preparato con le mie mani: non c’è zucchero per non farti aumentare la glicemia, ma ti posso assicurare che è buono, e puoi mangiare anche le spine, che sono di wafer. Anche se non mi hai risposto, ti voglio sempre bene. Ti auguro di trovare una brava ragazza che ti ami, e siccome sono riuscito a sposarmi perfino io, penso che anche tu abbia una qualche speranza. Voglio scriverti le parole che mio padre mi disse quando volò in paradiso; le ripeto sempre ad Angelica, mia figlia, che ha quattro mesi. Primo: Non voltarti mai indietro. Secondo: Futtatinni. Terzo: lo scrivo per la prima volta... Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo. Questo l’ho capito in età adulta, perché, caro Ivan, li sordi ti lu carrucchiaru si li fotte lu sciampagnoni. Baci, Cataldo.
–Ma cosa vuol dire? –Vuol dire che i soldi di chi risparmia una vita con privazioni se li fregano gli estranei che non meritano niente. –Ciao, caro Alessio. Siamo arrivati in stazione, grazie. –Ho ancora la medaglietta della Madonna che mi regalasti. Buona fortuna... ci sentiamo per telefono, vero? –Certo che sì. Sono arrivato in Centrale che rido ancora. Percorro alcuni metri e rivedo vecchie conoscenze che mi tendono le mani.
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–No, non abbiamo più niente da dirci. –Ma... amico... –Andate via, ho un’altra strada da percorrere. Corro verso il secondo binario, al treno per Bologna. In carcere ho imparato a rilegare libri, una cooperativa mi ha offerto un lavoro. Guardo il cielo e per la prima volta vedo un arcobaleno, così grande da abbracciare il mondo. Chiudo gli occhi, rivedo il piazzale dov’era la mia casa, il volto di mio fratello che mi sorride... Il controllore spegne i miei ricordi. –Dove va? –Verso la salvezza... E mi addormento col fico d’India in mano.
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ANCHE I FILI D’ERBA
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Personaggi Nicola Ramona Ilescu Ilenia Saverio Natalina Pasanina Rita Don Salvatore Clienti vari
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innamorato di Ramona prostituta protettore poliziotta conoscente di Ramona angelo angelo invitata sacerdote
ATTO I Chiesa di San Nicola, Bari –Nicola, vuoi prendere come legittima sposa la qui presente Ramona, per amarla, onorarla e rispettarla in salute e malattia, in ricchezza e povertà, finché morte non vi separi? –Lo voglio. Ilenia e Saverio, i suoi testimoni, gli fanno l’occhiolino. D’un tratto, tre figure compaiono all’ingresso della chiesa. Un tipo con grosse braccia tatuate si avvia deciso lungo la navata, mentre i due che lo scortano – poco più che ragazzi, basco blu in testa – rimangono schierati ai lati del portone. –Io ho da dire qualcosa! Mille occhi si appuntano su di lui, don Salvatore rimane immobile. Nessuno conosce quell’uomo. Nessuno, tranne la sposa. –Ramona, ho bisogno del tuo perdono. Tutti si guardano sbigottiti, poi fissano le labbra di lei. –No... Non è tempo. –Auguri! Che tu sia felice! E l’uomo dai muscoli tatuati ritorna all’ingresso, dove lo aspettano per portarlo via. Il sacerdote riprende subito, per spegnere mormorii e congetture: –Dal libro dell’Apocalisse: “Dio fa nuove tutte le cose...” Dopo la cerimonia, la curiosità dei parenti diventa incontenibile. Si fanno scommesse sull’ipotetico ruolo del giovanotto palestrato: –Ma secondo te, può essere l’ex della sposa? Gli altri due mi sono sembrati finanzieri. –Mamma, per favore, non fare la pettegola; piuttosto, ti sta uscendo qualcosa dal reggiseno.
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–Ah, è la busta coi soldi per il regalo di nozze. –Metterli nella borsa no? –Nella borsa ci sono le buste di plastica, così se avanza qualcosa del pranzo la porto ai miei gatti. –Mamma, mio Dio, siamo nel 2014, non ci manca niente... guarda che cambio tavolo! –Oh, da quando sei andata via da casa sei insopportabile, tornatene a respirare l’aria di montagna della tua città. –La ‘mia’ città mi ha dato credito, mentre a Taranto si muore, in tutti i sensi. –Ma quale credito, che neanche la banca te l’ha fatto perché sei precaria, vattinni và... Comare carissima, come stai? Mi stavo chiedendo chi fosse quel giovanotto, ma mia figlia... ecco, si è allontanata. Mi rimprovera sempre. –Stavo per chiederlo a te, ma come va? –Bene, comare mia, non mi lamento. Niente avevamo e niente abbiamo, io la crisi non la sento. –E tua figlia? –Lei la sente eccome! Dopo la laurea ha trovato un lavoretto a Milano, sopravvive... poveri figli nostri! –È la politica, tutti uguali... Nella mia zona, l’ultima volta che hanno rifatto le strade è stato ai tempi di Mussolini, ma in compenso abbiamo le discariche e alcuni reparti degli ospedali stanno chiudendo... L’unica mia consolazione erano le cozze, hanno rovinato pure quelle. Sai cos’ho fatto alle votazioni? Nella scheda ho messo una fetta di mortadella con su scritto: mangiatevi pure questa. –Ah ah! –E tuo figlio? Ha superato poi il test per entrare a medicina? –Macché. Io questa storia del numero chiuso non la capisco proprio... la selezione è naturale, se la materia non è per te non li superi, gli esami. Stanno facendo di tutto per far scappare le nuove generazioni dall’Italia.
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Maria Antonietta Malagnino
Sette canovacci che raccontano di storie al limite: fra disincanto e sogno, viaggi e ritorni, rovesci e speranza. Con una scrittura leggera ed ironica, l'autrice ci accompagna fra le ordinarie disavventure di un’umanità alle prese con le quotidiane sfide della sorte. «Nel non accettare le leggi di questo ‘mondo all’incontrario’, nel cercare – e trovare – in se stessi la forza per non arrendersi, per reagire, per reinventarsi, per superare le avversità, c’è dell’eroismo anche nella gente comune».
ANCHE I FILI D’ERBA
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Maria Antonietta Malagnino
ANCHE I FILI D'ERBA
Tragicommedie per piccoli eroi