La Casa del Sale

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Il vero raccolto della mia vita quotidiana è qualcosa di altrettanto intangibile e indescrivibile dei colori del mattino e della sera. Ăˆ un po’ di polvere di stelle afferrata, un segmento di arcobaleno che abbiamo preso con una mano. da Walden ovvero Vita nei boschi Henry David Thoreau



WILMA VEDRUCCIO

LA CASA DEL SALE Storie di un altro Salento In appendice tre racconti di Lucio Toma



A Faustina, a tutti i cari giovani che conosco.


Un doveroso grazie a Marcello Gaballo, Francesco Cappello, Fausta Genziana Le Piane, Wanda Montanelli, Rita Russo, Teresa Gentile e a tutti coloro che hanno condiviso la lettura dei singoli racconti nel corso della loro stesura.

Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-93-8 Foto di copertina: Rita Russo nel 1960 Stampato presso Stampasud spa – Mottola (Ta) © Edizioni Kurumuny – 2013


Indice

RITRATTI 13 15 17 19 22 24 26 28 30 32 34 36

I capelli biondi di Carmela Il bimbo di Lotto Il correttore di bozze La Casa del Sale La domenica di un laico solitario La Gianna La Rossa Maria Paillettes e zagareddhe Prima del sole Randagio Si fa occhi la pietra

FANTASTICHERIE 41 44 46 48 50 53 55 57

Delle colombe il non volo Il divino pittore Il ramo nudo La coccinella giallina Le sirene non sanno sospirare Madonnina del crocevia Soffio di vento Vita da mitilo

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NATURALIA 61 63 65 67 68 70 72 74 76 78 80 82 84 86

Cielo stellato Colto di sorpresa Rose d’inverno Muri a secco Al di qua del mare Orti e ortolani Ostinata a fiorire Paesaggio dell’anima Paglia, effimera e per sempre Pensieri di luna Sinfonia d’autunno Sos terra Terra d’approdo Sì, si festeggia ancora

ISTANTANEE 91 93 95 97 100 102 104 107 109

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Lungo il sentiero delle Saline Capelvenere Luvigi te l’ove Il guardiano dei tacchini Il panecotto e l’Abele Il piccolo lattaio L’estate del Padre Sul biroccio Nei giorni di pioggia mio padre era felice


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Signorina Don-Don The drummer boy

MISCELLANEA 119 121 123 126 128 130 132 134 136 138 141 143 145

Angelo di Dio Ascoltando l’Adagietto dalla Quinta sinfonia di Mahler Borgagne Grumi di memoria Per Madonne il canto Plenilunio di fine ottobre Santo delle periferie Saudade o malesciana Senza soluzione di continuità Sotto la calcina Sto ad ostium et pulso Tim – free message Tito Schipa canta Che farò senza Euridice

LUCIO TOMA LA GRAMMATICA DEL CACIOLO 151 155 161

All’ombra del Grande Fico La veglia marina Ipotesi d’un Dio plausibile

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RITRATTI



I capelli biondi di Carmela

Non era nata bionda, i suoi capelli eran stati castano scuro come di una donna del sud che si rispetti, poi vari tentativi seguendo le mode degli anni... ora sono biondi, color miele. Gli anni non son passati innocui senza lasciar traccia, hanno registrato con protervia l’avanzata del bianco in proporzione diretta all’uso di tinture. Ma non è importante la storia, piuttosto quanto sono biondi ora. Biondi e belli, vi assicuro. Lunghi, un po’ crespi, appena un po’ legati in alto perché non cadano sulla fronte, sugli occhi, a infastidire i gesti. Sì, perché Carmela ha sempre tanto da fare, vivace, in movimento tutto il giorno, non può stare a tirare via le ciocche dalla fronte passandosi i capelli dietro le orecchie, anche se lo fa con gesto svelto mentre parla e ride divertita. Divertita di che? Direte voi. Di tutto ciò che è fatto quotidiano che la riguardi o che riguardi voi che le parlate. Di ciò che proverà a cucinare sapendo di ricevere le critiche dei familiari, difficilmente soddisfatti, delle fantasie dei vecchi di casa che si sforza di accudire, di te che le racconti le tue disavventure, dei gatti di casa e dei gatti del balcone, delle loro stagioni d’amore, delle battaglie che sostengono di notte nel giardino e che lei si prova a dirimere, arbitro, educatrice, crocerossina nel mondo dei felini. Torniamo ai capelli e al riso di Carmela. Brillano le sue ciocche e tu non sai se è il sole che le illumina, appena uscito da una nuvola minacciosa, o la sua risata aperta, divertita, che li fa oro color

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miele... eppure inequivocabili fili bianchi si intravedono nell’ordito della chioma, ben mimetizzati. Ride dei suoi capelli Carmela, che crescono veloci e bianchi all’attaccatura sulla fronte, tanto veloci da render vana la perizia del parrucchiere. Ride. Tu la stai ad ascoltare, le sue storie ai margini della credibilità, divertenti, ma gli occhi, i tuoi occhi sono attratti, invischiati dal magnetismo del miele d’oro dei suoi capelli e nel frattempo una nuvola nera ha ingoiato il sole ma tu non te ne accorgi, sei impegnato a inseguire il suo arguto sorriso che si spande sul mondo a tutto tondo. Vi farò conoscere Carmela.

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Il bimbo di Lotto

Nell’angolo in basso a sinistra, nella Pala di Santa Lucia di Lorenzo Lotto, due figure non necessarie alla storia raccontata, neppur secondarie, piuttosto marginali... ma che attraggono l’occhio di chi osserva e lo catturano, facendo quasi trascurare l’episodio rappresentato. Una bambinaia di colore che trattiene a stento un bimbo, curioso e desideroso di accorrere sulla scena, di partecipare all’incredibile che avviene tra la folla, quasi fosse attirato da forze magnetiche. I piedi del bimbo quasi si intrecciano coi piedi della giovane donna, che, neri e nudi, sembra traccino la strada alla creatura che sta imparando i primi passi, pare che esprimano la volontà di sostituirsi a quelli del bimbo, di far tappeto ai suoi passi, protettivi comunque. Il corpo del bimbo è tutto proteso in avanti come una freccia pronta nell’arco e l’arco è la giovane negra, le sue braccia robuste frenano appena l’irruenza del piccolo mentre lo sguardo abbraccia la scena nello sforzo di capire quanto possa lo slancio, quanto la fede, vincer la paura. Il piccolo dunque, dalle membra fresche e robuste, è tutto in avanti, le braccia, la rotazione del polso e le dita indicano la meta, la torsione del collo, volitiva, suggerisce il tentativo di convincere la bambinaia a osare per essere presenti e protagonisti anch’essi, si sentono quasi le semplici parole ossessive del piccolo, da lallazione, il suo capriccio ad andare nella mischia ma anche il tono della voce gentile, da infante.

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Pare improbabile che simili gambocce siano sorrette dai piccoli piedi, ma la forza del bimbo è impressa nei piedini con le caviglie sottili e propulsive: chissà dove arriverebbe se lasciato libero di andare. La bambinaia esprime incredulità, i pochi anni che la fanno più grande del piccolo son sufficienti a tenere a bada l’attrazione verso il prodigio, se non con la comprensione, col timore e con la prudenza, innati in lei assieme al color della pelle che l’arancio del suo vestito fa risaltare. Due figure minori, si diceva, che attraggono la tensione del quadro (una scheggia in movimento contrapposta a l’inamovibilità della santa) e lo rendono ancor più incredibile ad occhi semplici e più credibile ancora a semplici cuori.

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Il correttore di bozze

A fine giornata l’ultimo appuntamento, quello con se stesso, davanti a un bicchiere di rosso, seduto al tavolo della cucina. Ha corretto bozze tutto il giorno, letto cose senza senso, pagine e pagine di ovvietà, ha costretto i suoi occhi a far le pulci ad argomenti insulsi che qualche errore avrebbe reso meno noiosi, quegli errori che pare siano fatti apposta, voluti per strappare un sorriso, una trasgressione linguistica spontanea, piccoli gioielli, lapsus di una intelligenza astratta che si prende la ripicca sull’argomentare arzigogolato, logico, coerente dell’autore. Buono questo primitivo, tornerò a prenderne ancora. Oggi la caccia all’errore che diverte è stata poco fruttuosa, il tizio deve essere un pedante, ma non si poteva comunque tralasciare di riguardare ogni singola pagina: questione di rigore. Il mestiere ha le sue regole che vanno rispettate comunque, una vita intera a far questo lavoro non permette di essere allegri o superficiali nemmeno se chi scrive è un asino. Due tre sorsi per mandare via quel puzzo d’inchiostro; sì odora di buono questo vino, ricordo quella volta... ma quanto tempo fa? Un’eternità di anni. Ricordo che ero seduto in quella trattoria fra i vigneti, in compagnia... oddio, non ricordo più che nome avesse ma era bella. Era bella con i capelli tirati su e la nuca nuda, aveva quel modo di piegare la testa per ascoltare e io parlavo, parlavo perché era bello vederla così col capo piegato. Questo vino ha lo stesso sapore del suo bacio. Non l’ho più vista, nemmeno per caso. È inutile pensarci ora, a cosa serve? Ricordati che non avevi da of-

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frirle un bel niente e alle ragazze da marito, si sa, l’amore non basta. Avrà trovato poi l’amore o una sistemazione? Chissà. Dovrei invitare il pensionante a bere un sorso insieme questo prossimo Natale, un buon bicchiere, qualche noce, due croste di formaggio, una fetta di panettone... potremmo fare una partita a carte, tirare fuori qualche ricordo, così, tanto per scaldare il cuore. Ma lui poi beve e non sa fermarsi, non sa dire basta e finisce che mi tocca trascinarlo via. No, non mi va di fargli da angelo custode o forse dovrei fare una buona azione? Per Natale? Il fondo del bicchiere è il più aromatico e pastoso, questo goccio alla fine va dritto al cuore... oh mi è caduto sul polsino... dovrò mettere una camicia pulita domattina, non ci vorrebbe altro: andare al lavoro con macchie di vino sul polsino e magari con gli occhiali appannati. Per oggi basta così, bisogna andare a dormire e speriamo che domani ci siano errori per sorridere un po’ di tutte quelle bestialità che mi tocca leggere e riguardare.

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LUCIO TOMA LA GRAMMATICA DEL CACIOLO



All’ombra del Grande Fico

Il Cardo, dopo il mattino trascorso a ruotare su se stesso, nella follia del pomeriggio s’era gettato nella terra secca tra i sassi e il formicaio, proprio sul sentiero del topo, a piangersi addosso, a sputare lamentazioni verso le cicale ingolfate. –Che ne sarà di me?!– si lagnava, –Sarò una focaccia? Mi salteranno con l’aglio? Dei miei sentimenti nessuno s’allarma? Incontrò la Lepre inquieta per la stagione di caccia e quando il Cardo la intravide, sperò fino alla sua foglia più tenera che le chiedesse delle sue ansie, ma non fu così. Ne soffrì così tanto che rotolò fino all’ombra del Grande Fico che s’ergeva sonnacchioso al centro del mondo. Qui trovò ristoro al suo voltolarsi. Per poco riuscì a non pensare alle sue foglie, ai suoi petali perfetti, al suo pistillo odoroso. C’era tanta quiete sotto il Grande Fico, come fosse un altro luogo e non quel mondo dove lui si struggeva. Guardava il sole sbirciare oltre le sue ampie foglie, c’era un fresco piacevole alla sua ombra e una vista meravigliosa. Tutto poteva vedere dal trono del Grande Fico, poiché s’ergeva su una piccola collina, proprio al centro del mondo. Le aveva anche detto di come coceva, che di lì a poco sarebbe stato completamente bollito, a causa del sale amoroso che imperversava nelle sue vene. Ma lei niente, non poteva accettare la sua corte, sarebbe stato come se la regina gloriosa sposasse il misero contadino. Margherita fu sdegnosa, impietosa, rigida, altezzosa e così spezzò il cuore al Cardo che vagava disperato nei campi, rotolandosi nella terra secca, invocando una voce amica. Lasciata l’ombra del Grande Fico gli parve di finire su una padella sfrigolante e s’agitò tarantato fino a sera, voltolandosi nella

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terra, scontrandosi col Lombrico e col Biacco, bisticciando con la Lumaca e lo Scarafaggio. Nella notte insonne gli fece visita l’Allocco che lo sfidò, fissandolo negli occhi, a chi scappava prima il riso. Il Cardo vinse, poiché la sua tristezza era senza limite e l’Allocco fuggì lanciando nella dolcezza della notte una stridula promessa di vendetta. Ancora lui non sapeva davvero come sciogliere il nodo, non gli passava per il ciuffo di dimenticarla, sebbene fosse l’unico saggio consiglio ad aver ricevuto. Il Gran Gufo glielo disse, nella notte insonne, quando si aggirava nel bosco traboccante di speranza, con gli occhi lacrimanti di desiderio e le radici umide di sogni di felicità. Gli apparve su un solido ramo, i suoi occhi scintillanti nell’oscurità, la figura imponente e la calma di chi ha respirato le vette. –Non mi sembri uno che fugge– gli disse. –Infatti non fuggo.– rispose il Cardo. –Allora qual è il tarlo che ti spinge? Emicrania? Tasse? O sete? E il Cardo narrò il fatto al Gran Gufo e non capì se ascoltasse o meno, perché il suo aspetto era impassibile e quando ebbe finito il Gran Gufo così gli rispose: –Meglio che dimentichi Margherita. Cogli nel tuo campo se non vuoi soffrire. Ma il Cardo non la prese bene, insultò il Gran Gufo, che non parve soffrirne e si allontanò perdendosi nel bosco sul cavallo impazzito della sua disperazione. Aveva tentato di farle dei doni, di cantarle una romanza, aveva perfino tentato di spacciarsi per il Papavero, perché venne a sapere che per lui aveva un debole. Ma niente aveva funzionato. Maledisse sua madre e suo padre che gli diedero natura di cardo, si concentrò perfino al punto che il suo stelo sanguinò, nello sciocco tentativo di mutare aspetto. Margherita vibrava a un lieve scirocco tra le sue amiche. Parlavano del proprio colore quel mattino, del riverbero dell’erba che

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infastidiva i loro occhi e di certe api scostumate. Ma non una parola sul Cardo. Se lo avesse saputo ne sarebbe morto. Si martoriava il povero Cardo al pensiero che lei dicesse qualcosa su di lui, sperava, sognava, ma la realtà era secca come la zolla al mezzodì d’agosto. La luce rosa abbracciava la campagna. Il Cardo passò accanto alla Malva e alla Viperina che risero di lui e persino l’Ortica gli lanciò una burla pungente. Volle sentire il Riccio, di lui si fidava, perché non si dava arie e non prendeva in giro. Era buono il Riccio, cauto, a modo, non scherniva, molti lo definivano ingenuo, ma in fondo tutti lo rispettavano e lo invidiavano per la sua disponibilità. E lo ascoltò, con sincera attenzione e pazienza, ma non seppe dargli un consiglio, poiché erano intrighi che lui non aveva mai conosciuto, tanto era buono e candido, tanto era zucchero e pudore, con quegli occhi carichi di vergogna che parevano dire: –Scusatemi per le mie spine. Potessi me le strapperei. Se ne dispiacque il Cardo, ma non ebbe rancori verso il Riccio, che svanì a testa bassa tra l’erba alta. Lo scirocco si fermò improvvisamente, il giorno calava, un intenso odore di prato conquistava l’aria, come l’aroma di pasticcio squisito sgattaiolato dalla cucina. Il gran corpo dell’estate faceva le fusa a se stesso, riverberando la sua immacolata indolenza. Margherita si preparava alla sera, i suoi petali erano più morbidi, deliziosi da baciare, quanto il Cardo non avrebbe mai saputo. Non guardava oltre la sua zolla, aveva la sua vita di fiore di cui andava fiera. Il Cardo molte volte s’era domandato a quali pensieri elevati pensasse un essere così grazioso e mille volte s’era martoriato ripetendosi: –Penserà a me in quest’ora così lieve? No, lei pensa al Papavero! Me l’ha detto il Calabrone! Era la sera e Margherita sonnecchiava al soffio di una debole brezza marina. E mentre il cielo s’imbeveva di nero, e lì, nella placenta soffice della notte, con la luna gibbosa che emanava una fle-

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bile luce di ghiaccio, il Cardo si specchiava nello stagno dove ronzava assetata la Zanzara. Osservò le sue foglie spinose, il suo aspetto suonato, il suo ciuffo scomposto. Forse fu la stessa notte a suggerirgli cosa fare. Rotolò un’ultima volta nell’umidore dell’erba, tagliando la strada alla distratta Cavalletta, finché si fermò. Con mestizia e un barlume di dignità, piantò le radici ai piedi del Grande Fico che s’ergeva al centro del mondo.

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La veglia marina

Se ne accorse per primo il Granchio. Pensò: –Sta scherzando stamattina… Lo vide fare un mezzo mulinello nell’acqua, poi tornare indietro e galleggiare quasi a pancia sopra. Il Granchio quel mattino era di umore gagliardissimo. Aveva sgambettato fin presso la riva a passo svelto. L’acqua era di un tepore piacevolissimo, il mare era calmo, uno specchio immenso che sorrideva. Solo a riva piccolissime onde che ripetevano: –Tutto va bene, tutto è bello stamattina. Camminava con tale frenetica allegria che il Pesce Serra, che nuotava veloce a pelo d’acqua, intravedendolo inchiodò di colpo e pensò: –Guarda come corre il Granchio stamattina, sarà questo tepore piacevolissimo dell’acqua a farlo correre così…– poi ripartì veloce come un dardo. –Che fa stamattina? Balla?– pensò il Granchio, che s’era fermato, ma vitale com’era zampettava a destra e a sinistra. Il Cefalo aveva i grandi occhi persi nel vuoto e seguendo le piccole onde faceva mezzi mulinelli per poi tornare indietro. Il Granchio spazientito si avvicinò e gli diede un pizzicotto. Il Cefalo non reagì affatto. Allora il Granchio lo pizzicò più forte, ma niente. –La smetti o no di scherzare?! La Capota ha trovato una cosa che luccica, andiamo a vedere!– e si rimise a zampettare impaziente a destra e a sinistra. Il Cefalo non disse nulla. Di solito diceva sempre qualcosa. Avrebbe potuto dire per esempio quel giorno –Che hai stamattina? Hai visto l’Orata che sei così vitale?

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