Lo sguardo degli altri 01 Collana diretta da Sergio Torsello
Da sempre il Salento è un topos letterario. Dall’epopea del Grand Tour fino alla stagione meridionalista sulla terra abbracciata da due mari si appuntano gli sguardi di medici, eruditi, antropologi e scrittori. Sguardi lucidi, oscillanti tra empatia e distacco, che spesso raccontano pagine di storia ormai dimenticate. “Lo sguardo degli altri” vuole riproporre questi contributi – soprattutto quelli meno noti – come un ulteriore strumento di riflessione e di conoscenza.
Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-44-0 In Copertina: Maria Brandon Albini – Archivio Fondazione “Franco Albini”. © Edizioni Kurumuny – 2010
Maria Brandon Albini
Viaggio nel Salento a cura di Sergio Torsello
Indice
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Prefazione Eugenio Imbriani
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Introduzione Sergio Torsello
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Viaggio nel Salento Maria Brandon Albini
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Appendice
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Bibliografia essenziale Ringraziamenti
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Prefazione Eugenio Imbriani
«La stessa donna che mi recitava nel Salento le strofe dei lamenti funebri in cui sentivo ribattere ad ogni verso il nome di Caronte, mi raccontava due minuti dopo come e perché figlie e nipoti sue emigrino come operaie, nelle valli del Rodano, in Svizzera, dove imparano a difendersi aderendo ai sindacati. E le stesse ragazze che si occupano della cernita del tabacco negli stanzoni dei baroni leccesi, e che spesso fanno sciopero per ottenere aumenti di salario, cantano, per ritmare il loro monotono lavoro, strofe di cinque secoli fa»: sono parole con cui, nelle pagine conclusive di Mezzogiorno vivo (Milano, Ercoli, 1965, opera uscita due anni prima in francese, Midi vivant, Paris, PUF), Maria Brandon Albini affronta un grande tema del meridionalismo, quello della trasformazione sociale e culturale, in particolare delle classi più povere; e lo fa assumendo una posizione critica, articolata, autonoma, una volta che è riuscita a sottrarsi da un lato al fascino dei luoghi e delle persone incontrate nelle regioni del sud italiano che così tanto ama, frequenta, studia, dall’altro a qualche profezia apodittica pronunciata da grandi intellettuali della sinistra italiana, relativa alla morte di quelle pratiche ed espressioni della cultura popolare che
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qualcuno ancora si ostinava a studiare. Brandon Albini legge invece i segnali di grande vitalità di quelle forme, che, oltretutto, nel dopoguerra hanno permesso un formidabile rinnovamento della produzione colta, dal romanzo alla poesia al cinema, che hanno sfruttato con larghezza temi e linguaggi del mondo popolare, riprendendo, peraltro la lezione di Verga, Pirandello, D’Annunzio. Data di discrimine è il 1945, quando finisce la guerra ed esce Cristo si è fermato a Eboli; il memoriale di Levi descrive un mondo trascurato, colpevolmente dimenticato nell’epoca fascista, e lo pone sotto gli occhi miopi o disattenti dei lettori borghesi e cittadini; esso accende l’attenzione, in Europa e oltreoceano, sulla Basilicata e, per estensione, sull’Italia meridionale, povera, contadina, che si direbbe ancorata a modelli di vita arcaici, addirittura precristiani, immersa in un tempo primitivo, circolare, che non impone cambiamenti. Ebbene, è facile cogliere la deriva mistificatrice di questa concezione: il mito dell’immobilismo, ricavato a torto, afferma l’autrice, dall’opera leviana, presente in molta letteratura successiva e nel neorealismo (penso, per esempio, al commento scritto da Salvatore Quasimodo per il film La taranta di Gianfranco Mingozzi), in generale, configura un discorso fatalista, cieco di fronte alle aspre condizioni sociali ed economiche che hanno rallentato o impedito i processi di trasformazione. Sappiamo bene, infatti, che nel dopoguerra il movimento contadino in Lucania era
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caldissimo e molto organizzato, così come in altre regioni del Mezzogiorno; conosciamo l’efficacia e i risultati dell’occupazione delle terre, conosciamo la forza d’urto dell’organizzazione delle tabacchine, particolarmente nel Salento. Per apprezzare queste contraddizioni, il potere e l’incombere dei retaggi culturali, la loro forza sottile e pervasiva e nello stesso tempo il faticoso e duro insorgere dei cambiamenti, bisognava mettersi in viaggio, programmare incontri, intavolare dialoghi con le persone del luogo. La conoscenza prodotta in questo modo, come è ovvio, non è solo libresca, e l’approccio critico tiene conto delle situazioni e dei problemi reali, vissuti. Il Viaggio riproposto in queste pagine da Sergio Torsello rappresenta in modo esemplare un approccio del genere, tanto più leggibile in quanto la scrittura ha l’andamento leggero e il piglio quasi occasionale degli appunti, onestissima, ma non ancora costretta nel rigore analitico, frutto di una rimessa in ordine di annotazioni «prese di giorno in giorno, attorno alle quali si sono annodate le mie riflessioni» non definitive: spunti che meritano altre meditazioni, luoghi che meritano dei nuovi viaggi. All’autrice interessa particolarmente la persistenza di modelli culturali arcaici in un contesto estremamente composito, laddove vecchi linguaggi e strane credenze convivono con realizzazioni di una cultura cittadina molto raffinata, le chiese barocche ospitano varianti di culti mal sottomessi alla dottrina cattolica, le leggende incrociano le
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storie di santi, si canta la morte con toni, gesti e parole profani. C’era un universo sommerso che conveniva esplorare, sorprendentemente ricco, e la Brandon Albini vi si immergeva lasciandosi orientare da guide sapienti e discrete, intellettuali colti, spesso giovani, studiosi della storia e delle consuetudini locali; ma se pietrefitte e lamenti funebri rinviano a un «mondo immemoriale», a «una eredità di tradizione e di civiltà rurale e magica», ecco che a Castrignano dei Greci, in casa della vecchia Concetta, prefica e maga, proprio lì, si apre il capitolo della lotta sociale, si toccano i temi dell’emigrazione e del lavoro: è lei, infatti, la donna con cui ho aperto queste poche pagine, che appare come testimone privilegiata in Midi vivant, dopo aver ricevuto la visita della scrittrice, raccontata nel Viaggio: «Son tutti emigrati in Svizzera, mi dice una delle giovani nuore di Concetta: ci vanno da marzo a novembre, anche le donne, a coltivare i campi, a potare, raccogliere frutta e legumi, a metterli in cassette, e via dicendo. Guadagnano bene, tornano qui alla fine della stagione, ripartono l’anno seguente. Dei loro salari vive la famiglia. E poi portano qui idee nuove: il sindacalismo, le leggi di difesa operaia… Impariamo a vivere». La realtà degli «interessi presenti» si fa più forte dei meccanismi tradizionali, ed è interessante scoprire giovani donne impegnate a fuggire le pratiche più antiche, la mancanza di istruzione, a cercare maggior sicurezza nel lavoro. Brandon Albini, coglie, insomma, l’avvio di una vera e propria
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rivoluzione, di un cambiamento radicale, di un movimento che subirà una forte accelerazione; le formiche, per citare Tommaso Fiore, non sanno star ferme: esse riescono in imprese che spaventerebbero un popolo di giganti. Alcune leggende parlano della presenza dei giganti nel Salento, ma nessuno di essi è sopravvissuto.
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Introduzione Sergio Torsello
La recente traduzione italiana a più di mezzo secolo dalla prima edizione del diario di viaggio in Calabria 1 di Maria Brandon Albini ha avuto il merito di riaccendere i riflettori su una delle protagoniste di maggior rilievo della letteratura meridionalista del secondo dopoguerra, ingiustamente relegata nell’oblio in poco più di quindici anni trascorsi dalla morte. Nata nei primi anni del ‘900 da una ricca famiglia di proprietari terrieri brianzoli, l’Albini fu una personalità singolare e complessa. Giornalista di razza, saggista, traduttrice, narratrice prolifica e femminista antelitteram costantemente in rivolta contro i riti e i dogmi della società del suo tempo, fu educata dal padre “ad intraprendere la via della ragione e della libera ricerca” come racconterà più tardi in La Gibigianna, delicato romanzo autobiografico apparso nel 1981 rievocando l’ambiente famigliare: “Nella mia infanzia conobbi l’Ottocento, quel secolo che per le famiglie borghesi e agiate della Lombardia uscite dal Risorgimento con tutte le loro illusioni e il loro ardente patriottismo, i loro slanci geniali e le loro simpatiche ingenuità, i loro limiti e una certa signorile e serena bontà, una ferma ma indulgente fede cattolica fu, almeno nei suoi ultimi
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trent’anni il culmine e il punto di arrivo di un lungo periodo di storia patria”.2 Nata nel 1904 a Robbiate si trasferirà con la famiglia a Milano e qui tra il ’26 e il ’36 frequenterà i circoli antifascisti della città3 compiendo un breve ma intenso apprendistato intellettuale che qualche anno più tardi, con l’emigrazione in Francia, si trasformerà in militanza attiva.4 Tra il ’40 e il ’43 l’Albini, a fianco del suo compagno Pierre Brandon, un giovane avvocato comunista, divenne infatti una delle esponenti più in vista della resistenza clandestina nel Sud della Francia (tra Nizza, Marsiglia e Tolosa), un momento fondativo della propria tormentata formazione civile e culturale che più tardi, nel 1978, così rievocherà in un altro bel romanzo, Il paese in esilio: “Dal 1936 al 1939 ebbi il privilegio di conoscere da vicino gli ambienti dell’emigrazione italiana di Parigi e della periferia, per scrivere alcuni articoli per “La Voce degli italiani”, il quotidiano antifascista di Parigi, nato nel 1937, scomparso alla fine del 1939, all’inizio della guerra. Continuai anche oltre la necessità dettatami dal mio compito di redattrice – reporter, via via appassionandomi a quel mondo che andavo scoprendo: così nacque a poco a poco un libro documentario […] la guerra del 1939 e la necessità di essere prudente data la mia recente attività di giornalista antifascista e subito dopo di militante clandestina della nascente Resistenza francese accanto al mio compagno francese, mi costrinsero ad abbandonare il mio scritto nel cassetto. La vita poi per troppi anni velocemente passati anche e soprattutto
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