IL TEMPO DEL BAMBINO E DELLA STELLA

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Giandomenico Curi

Il tempo del bambIno e della stella come cantavano gli italiani il natale


Edizioni Kurumuny Sede legale: Via Palermo, 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa: Via S. Pantaleo, 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-88-4 Illustrazione di copertina: Francesco Cuna, ispirata dalla foto di Renato Morelli Progettazione grafica: Alessandro Sicuro Concept: B22 Remastering ADD Corrado Productions – Supersano (Le) Chiuso in stampa nel mese di novembre 2012 © Edizioni Kurumuny – 2012


A Eva, Danchiu, Mengji e Lenuca “Tutsa� bambini rom senza stelle, bruciarono vivi l’11 agosto 2007 sotto un cavalcavia alla periferia di Livorno. & A Raul, Fernando, Sebastian e Patrizia bambini rom bruciati vivi a Roma domenica 6 febbraio 2011 nella loro baracca sulla via Appia. Nanniseddu nanniseddu no zuchete manteddu no zuchete corittu in tempus de vrittu no narat titia dormi vida e coro reposa a ninnia. (Ninna-nanna di Natale sarda). (Bambino piccolino/ non ha pannolino/ non ha giubbino/ in questo tempo freddo/ non si lamenta/ dormi vita e cuore mio/ riposa e fai la nanna).



Indice

Capitolo primo 9

Da dove vengono i canti di Natale 1.1. Da dove vengono i canti di Natale 1.2. Perché non si canta più nemmeno a Natale? 1.3. Dove ce sta Gesù se sona e canta 1.4. Presepi e zampogne 1.5. Cosa cantano gli italiani a Natale

Capitolo secondo 31

Natale a Napoli: da sant’Alfonso alla Cantata dei pastori 2.1. La trasformazione della scena napoletana 2.2. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori 2.3. La cantata dei pastori

Capitolo terzo 45

La Novena in Sicilia, nel basso Lazio e in Veneto 3.1. La Novena di Natale 3.2. La Novena siciliana 3.3. La Novena nel basso Lazio 3.4. Cantar Natale (la Novena in Veneto)


Capitolo quarto 70

Il ciclo delle feste e i canti di questua nel centro-nord Italia 4.1. Di alcune usanze e significati del ciclo annuale delle feste 4.2. Origine, struttura e forme del canto di questua a Natale 4.3. Questua della Pasquella

Capitolo quinto 88

Feste a centro-sud e isole 5.1. Le Befanate 5.2. Canti di questua del Capodanno: bambini, gobbule e impreviste ridistribuzioni di beni 5.3. Il canto della questua a sud: strine, ‘nferte e altri canti di Capodanno

Capitolo sesto 118

La questua con la Stella 6.1. La tradizione della Stella e i Sacri canti 6.2. Le zone e le modalitĂ del canto e del rito


Capitolo settimo 137

Antologia dei canti di Natale 7.1. Cosa cantano gli italiani a Natale 7.2. La scena napoletana 7.3. Le Novene 7.4. Canti di questua nel centro-nord 7.5. Canti di questua nel centro-sud 7.6. I canti della Stella

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Bibliografia essenziale

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Presentazione dei brani contenuti nel CD

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Ringraziamenti



Capitolo primo

Da dove vengono i canti di Natale Per la notte di Natale in ogni casa si pone sul focolare un Zocco o ciocco che si tiene acceso per tre giorni… Si crede che ad ogni focolare la Madonna vada a riscaldare il suo bambino… Dopo i tre giorni l’avanzo del ceppo portasi nella vigna o nel campo perché siano liberi dalla tempesta… (Da un antico lunario contadino stampato a Forlì). Mia cara madre sta pe’ trasì Natale/ e a stà lontano cchiù me sape amaro./ Comme vurrìa allummà duje o tre biangale/ come vorria sentì nu zampugnaro.// A ‘e ninne mieje facitele ‘o presebbio/ e a tavula mettite ‘o piatto mio./ Facite quann’è ‘a sera d’‘a vigilia/ come si ‘mmiez’a vuje stesse pur’io. (Bovio-Buongiovanni, Lacreme napulitane).

1.1. Da dove vengono i canti di Natale Da dove vengono i nostri canti di Natale? Come sono arrivati fino a noi i testi e soprattutto le melodie (quelle che sono arrivate)? Molte cose sono state affidate alla tradizione orale e popolare, altri documenti hanno trovato il conforto e la protezione del testo scritto, dell’armonizzazione di maestri appassionati, e poi le antologie, i fogli volanti, e soprattutto la pratica esecutiva, il fatto cioè che molti canti continuano ad essere cantati e riproposti di anno in anno, per cui oggi si continua a intonare Tu scendi dalle stelle, Fermarono i cieli, Rallegratevi pasturi, O verginella figlia di sant’Anna e così via, allo stesso modo 9


dei nostri nonni e bisnonni. è cambiato semmai il suono, l’accompagnamento, il cosiddetto arrangiamento: per esempio alle volte sparisce la zampogna, ma resiste l’organo, e altre cose del genere. Ma da dove vengono i canti di Natale? Il Vangelo dice che i primi a cantare il Natale furono gli angeli, discesi dal cielo in terra per annunciare e festeggiare la nascita del Redentore. Ma ben presto anche gli uomini e le donne si sono messi a celebrare il Natale cantando. La gente aveva voglia di cantare, anche in tempi per niente allegri. E così canti e laudi hanno cominciato a riempire le chiese, tutti ad annunciare la Buona Novella e la Grande Speranza della Natività. Nel cuore dell’inverno, in giro per i villaggi, nei castelli, dentro le case e le capanne, la gente, tutti, ricchi e poveri, cantavano per allontanare le paure delle interminabili notti invernali. Forse all’inizio le storie di Natale si confondevano con storie più antiche e pagane. Quando non c’era ancora il Natale, in quella data del 25 dicembre i Romani festeggiavano il “sole invitto”, cioè il sole che ricominciava ogni giorno a risalire sull’orizzonte e a regalare più luce e calore alla terra. E poiché per i cristiani il Messia è il “sole di giustizia”, la “luce vera”, era facile sovrapporre le due feste. La gente aveva voglia di «uscire dalle tenebre per andare verso la luce vera» con canti e balli, canzoni che ricordano la nascita di Cristo ma anche l’amore per la natura che torna a nascere, per la vita che riprende. Poi con gli anni i canti di Natale sono cresciuti, sono cambiati, si sono moltiplicate le tradizioni, gli stili, i modi e i moduli. E ancora oggi, nonostante tutto, sono il modo migliore e più bello di interpretare e trasmettere lo spirito del Natale. 10


Ma da dove vengono i canti di Natale? I primi canti di Natale erano canti di chiesa, oppure inni liturgici, sempre rigorosamente in latino. Poi pian piano negli anni al latino subentra la lingua volgare, o direttamente il dialetto. La tradizione popolare, che non ha troppa dimestichezza con il latino, se ne impadronisce a modo suo, trasformando testi e musiche di generazione in generazione. Tutto avviene molto lentamente e nel più grande anonimato. I primi canti di Natale, di cui si ha memoria, risalgono al Medioevo, ma è a cavallo tra Seicento e Settecento che cominciano ad apparire i brani di cui si ha una qualche certezza storica. è certo, per esempio, che la maggior parte delle canzoni natalizie utilizzassero arie di canzoni molto antiche. Per esempio quelle del Settecento riprendevano moduli e melodie precedenti, del Cinquecento, del Seicento. Solo un piccolo gruppo aveva ed ha una melodia tutta sua. Perché una volta l’originalità di un brano musicale non era importante. La musica era fatta per essere cantata dalla gente, insieme a un testo. I testi viaggiavano sui fogli volanti, la musica sul passaparola, attraverso i musicisti e i cantanti di strada e le mille risorse della diffusione orale. E quando serviva, bastava poco a trasformare la melodia di una canzone d’amore in un canto di Natale. Si cambiavano le parole, e la rima serviva ad aiutare la memoria. è così che funziona la musica popolare, non si pone troppi problemi di pertinenza o di diritti d’autore. E il Natale con il suo rituale è soprattutto un fatto popolare. Proprio a cominciare dai canti, che raccontano le storie della nascita di Gesù in modo molto semplice, diretto, pittoresco, ingenuo. Esprimono un sentimento religioso, laico e popolare, mai una liturgia ortodossa. 11


E questo succede almeno a partire dal Cinquecento, quando finisce il teatro religioso sotto i colpi della critica luterana, che accusa la Chiesa cattolica di abbindolare i suoi fedeli più semplici attraverso feste, riti, pratiche superstiziose e teatrali, cioè pagane. La risposta della Chiesa è una riforma, poi sancita dal Concilio di Trento, che stabilisce una netta separazione tra il sacro e il profano. E di profano ce n’era molto (il corpo, la comicità, la libera parola, la fantasia, l’irruzione del quotidiano e dell’istinto). D’ora in poi la liturgia ufficiale sarà riservata al clero, e le forme devozionali al popolo, ai laici. Questo non significa però che gli ecclesiastici non prendessero in considerazione dei momenti di espressione profana, riciclati in chiave morale e didattica, e magari in chiave anti-protestante, come succederà per esempio con i Canti della stella. Sono le cosiddette “laudi a travestimento spirituale”, che hanno lo scopo dichiarato di divulgare anche fra il popolo la giusta dottrina della Chiesa. Che significa, per quanto riguarda il canto, una serie di testi a carattere religioso e morale adattati e ricantati sulla melodia di famose canzoni profane, in modo che la gente possa impararle con maggiore facilità. E proprio i canti di Natale hanno un grande successo. Perché hanno un’immediatezza e una dolcezza diverse, avvicinano la gente al mistero dell’Incarnazione, rendendo così uomini e donne un po’ più buoni almeno a Natale. Questo succede soprattutto con s. Alfonso de’ Liguori, che trasforma le “laudi a travestimento spirituale” nelle sue famose canzoncine spirituali. E sempre dal santo napoletano arrivano, 12


subito dopo, anche le prime grandi pastorali (un misto di musica cantata e strumentale), che viaggiano, attraverso le novene, dalle canne degli organi delle chiese a quelle delle zampogne di strada. Ma tutti i canti di Natale, quale che sia la loro origine e la loro bellezza, hanno questo strano potere di invitare la gente al raccoglimento e insieme alla gioia. Hanno un che di infantile e di struggente insieme. Qualcosa che fa tremare la voce e il cuore. E soprattutto, attraverso questi canti, sembra ogni volta farsi strada, a Natale, la dolcezza del mistero e della speranza, di una salvezza (in tutti i sensi) ancora possibile.

1.2. Perché non si canta più nemmeno a Natale? «Vive ancora in Italia, – scriveva Paolo Toschi in La poesia popolare religiosa in Italia, Loschi editore, Firenze 1935 – cresciuta sullo stesso terreno della religione cristiana, una ricca messe di leggende, di preghiere, di canti, di tradizioni religiose, nata per opera spontanea del popolo». E Maria Adelaide Spreafico, parlando delle canzoncine devote raccolte in Brianza, e che lei definisce “canzonetta de ben” o “storî”, aggiunge: «Di tutta la produzione popolare, la canzone religiosa è senza dubbio una delle più interessanti e delle più caratteristiche perché in essa sfocia tutta la poesia dei sentimenti di fede, di morale e di superstizione che costituiscono il ricco patrimonio spirituale delle nostre umili popolazioni». Le umili popolazioni della brava Spreafico non ci sono più. Ci sono altri umili, più o meno poveri e disperati. Ma non cantano. Gli umili di allora sono diventati masse di persone, indiffe13


renziate e globalizzate, sparse tra la città e la campagna (quella che una volta era la campagna). Tutta gente figlia, chi più e chi meno, dei mass media, del cellulare e del miracolo berlusconiano, che a volte sembrano anche felici, ma che, con ogni probabilità, hanno dimenticato per sempre i suoni e le parole che hanno fatto la loro identità e il loro passato. E tra questi suoni e queste parole ci sono anche i canti di Natale, che si stanno allontanando sempre più dal nostro orizzonte religioso, o comunque antropologico o di costume. E allora ecco qualche altra domanda: che fine hanno fatto i canti di Natale, con il loro immaginario popolare e devoto che da sempre si portano dietro? Perché tende a sparire dalle nostre feste anche quell’“odore di Gerusalemme” di cui parlava Fabrizio De André? E, più in generale, perché questa disarticolazione precisa e metodica di un’esperienza di popolo, di cui parlava già Pasolini negli anni Cinquanta? E perché la stessa Chiesa tende a prendere le distanze da una tradizione che, certo, non è la liturgia ufficiale, ma comunque rappresenta il senso autentico di un’esperienza di fede popolare? Intanto va subito fatta una premessa, piccola ma importante. E cioè che la tradizione dei canti popolari sacri (soprattutto quelli di Natale) è ancora abbastanza radicata nel nostro paese. Solo che non si sa, non si dice. C’è una sorta di distrazione (o di rimozione), dovuta probabilmente all’ignoranza (ma non solo), per cui del canto popolare religioso si sa poco, ha difficoltà ad essere messo in scena, forse perché dura un pregiudizio legato probabilmente, da una parte, a una pratica chiusa 14


e devozionale, e dall’altra a un folclorismo troppo facile, e comunque vecchio e ormai inutile. Perché, dicono, il Natale è cambiato, profondamente, soprattutto a partire dal dopoguerra, dagli anni del boom economico. Fino ad allora era veramente la festa più importante dell’anno, la festa (o le feste) per eccellenza. Poi è arrivata la modernità, come dicevano gli anziani di allora, «è arrivata la radio e la televisione, ci hanno rubato i canti e le canzoni». E anche tutto il resto, Novene e zampogne, pastorelle e chiare stelle. Anche il prete in chiesa preferisce il CD di White Christmas, invece di quelle belle pastorali di una volta, quando la gente cantava. Perché il canto e la musica erano i primi segnali dell’Avvento, i primi annunci dell’avvicinarsi dell’inverno e del Natale. La musica popolare che dava il senso vero dello spirito religioso e povero della Natività, quella che arrivava da zampogne e ciaramelle, ma anche, sempre per strada, da altri strumenti tradizionali come organetti, mandolini, fisarmoniche. A Roma li trovavi un po’ ovunque, agli angoli delle strade, vicino alle immagini della Madonna (“madonnelle”) e ai presepi, naturalmente a piazza Navona. Ma anche fuori Roma, per le strade che portano ai Castelli, cominciavano a farsi vedere i “pasquellari”, che, secondo la tradizione, intonavano canti di questua in onore del Bambinello, sul ritmo di un saltarello benaugurante che passava di porta in porta, di casale in casale. Ma i primi a farsi vivi erano gli zampognari, come ricorda Costantino Manes nel suo diario romano del 1893: «Questi zampognari scendevano dalle loro montagne d’Abruzzo per suonare davanti alle Madonnelle romane… Percorre15


vano, numerosi, le vie e dando fiato al clarino e alla zampogna facevano udire ariette villerecce e le patetiche note delle loro nenie Pastorali… All’arrivo dei pifferai, al musicale tremolio delle ciaramelle, la gioia si spandeva nelle case di tutta Roma…». Altri tempi, che hanno ben poco a che fare con quelli che stiamo vivendo. E allora una prima risposta alle nostre domande sta proprio qui. Quella era una musica (non solo quella di Natale) che nasceva dal popolo ed era destinata al popolo. Funzionava all’interno di un preciso contesto culturale e religioso. Non funziona invece per un consumo di massa indiscriminato. Oggi c’è una secolarizzazione che contagia tutto e tutti. A cominciare dai cattolici praticanti e dallo stesso ceto ecclesiastico. Oggi anche per gli eventi in Vaticano si chiamano le rockstar invece degli zampognari. Eppure le zampogne dei pastori sono come un organo portatile che ha dato solennità e bellezza a tante celebrazioni religiose. La gente diceva che il suono della zampogna era la voce di Dio (mentre quella dell’organetto o del tamburo era la voce del diavolo) e Roberto De Simone in un suo racconto scrive che le quattro canne della zampogna rappresentano le quattro età dell’uomo. Benedetto XVI vuole tutelare la tradizione alta, a cominciare dal gregoriano e dal latino. Ma a Betlemme c’era sì il sublime canto degli angeli, ma anche quello molto più umano dei pastori. E nel repertorio dei canti natalizi ci sono, per esempio, le canzoncine spirituali di sant’Alfonso, che non solo è l’autore di Tu scendi dalle stelle (la prima vera canzone popolare italiana, il cui successo valicò i confini del Regno di Napoli per raggiungere l’intera nazione), ma sant’Alfonso è un vero apostolo della fede, 16


colui che, con la dottrina e il sentimentalismo delle sue “canzoncine spirituali”, ha tentato di rendere più pii lazzari e cafoni.

1.3. Dove ce sta Gesù se sona e canta Ma al di là della connotazione polemica, quello che ci interessa è l’Italia che stava (e in parte ancora sta) dietro a questi canti, l’Italia contadina, ma anche piccolo-borghese, che si ritrovava a Natale, a cantare insieme. Una voglia di canto che contagia tutti, forse perché per i credenti (ma non solo) il canto di Natale non è più soltanto d’attesa, ma è anche di gioia per “l’avvenuta profezia”. E si può finalmente esultare alla «capanna santa: Dove ce sta Gesù se sona e canta» (come dice un canto marchigiano, Natu natu Nazarè). C’è qualcosa di commovente in questo umile attaccamento popolare al fatto di Betlemme. In un’altra canzoncina, sant’Alfonso ci racconta come i pastori, «pigliata confidenza, se miettettero a sonare, e a cantà co’ l’angeli e co’ Maria», e come ci sia quasi una sovrapposizione tra l’annuncio della buona novella del Messia e i canti della Novena di preparazione al Natale. E se uno si mette ad ascoltarla, questa musica, scopre cose sorprendenti anche laddove non lo avrebbe mai immaginato. Anche in una Befanata (canto di questua un po’ scanzonato che si esegue la notte dell’Epifania), raccolta dal modesto e metodico Giannini sui monti della Lucchesia, ci si imbatte in alcune strofe che fanno pensare, e non solo i credenti. Come quando il cantante del gruppo della questua annuncia che 17


Quel bambin che per no’ nacque/ da Maria vergine e madre/ figlio uguale al Divin Padre/ che incarnarsi si compiacque// fu dal Padre a noi mandato/ per divin decreto eterno:/ per salvarci dall’inferno/ ed aprirci ‘l ciel serrato.

Che è quasi un piccolo trattato teologico. E subito dopo, raccontando il viaggio dei Re Magi (perché di questo trattano le questue della Befana), basta una strofa di ottonari per darci esattamente il senso di un’incertezza e di una paura che passano attraverso l’oscurarsi della stella cometa nel momento dell’arrivo alla reggia del terribile Erode: Quella intanto è guida e luce/ nell’orror di stagioni cruda./ Giùnti essendo a’ re di Giuda/ il bell’astro più non luce.

La musica è allegra, da questua, ma questo nulla toglie alla concentrazione e all’intensità che riesce man mano ad accumulare. Abbiamo parlato poco sopra di musica di popolo, e questo è un altro elemento costante che emerge da questi canti natalizi. C’è come l’idea, continuamente, di un grande paesaggio in movimento, affollato di persone, di vita, di facce, di storie, di fede. Ma è una fede di tutti giorni che leggi nella serenità e nella contentezza della gente per strada. Sarà anche il riferimento alla inevitabile presenza del presepio, ma le storie di Natale, i fatti della Natività (spesso ampliate dalle notizie prese dai Vangeli apocrifi) hanno sempre questo contesto brulicante e allegro di persone, animali, strade, case, voci, canti, suoni e musiche. «Nei giorni che precedono il Natale, suonatori ambulanti d’organetti, di chitarre, di cornamuse e di acciarini scacciapensieri fanno la Novena innanzi alle porte delle botteghe per poi riscuotere un tenue compenso» 18


(G.B. Marzano, Usi e costumi in Laureano di Borrello e nei paesi del suo Mandamento). Penso soprattutto allo straordinario repertorio natalizio siciliano (ma non solo), e alle mille voci di cantanti popolari che hanno dato profondità e verità a questi canti, dalla superba Rosa Balistreri (Canti di Sicilia) al meraviglioso Otello Profazio di Gesù Giuseppe e Maria. In questi canti, filastrocche e ninne-nanne, è normale incontrare Gesù Bambino, la Madonna, san Giuseppe o altri santi in momenti qualsiasi di vita vissuta e quotidiana, appena illuminata da una luce nuova e imprevista, come quando la Madonna va al mercato ed è fermata da un gruppo di angeli che, come fossero le vicine di casa, vogliono vedere il Bambinello; oppure san Giuseppe che progetta case meravigliose e celesti per la sposa e il figlioletto con grande tranquillità, come fosse il lavoro di ogni giorno. E senti in queste storie la stessa vivacità di vita che animava i paesi di una volta all’avvicinarsi del Natale, con la gente che ha mille cose da fare ma trova anche il tempo di seguire la liturgia, le Novene, i canti vicino al Bambino, oppure le pastorali delle zampogne che si fanno la sera nei cortili, vicino alle lucine dei vari presepi, che qui si chiamano “li nuveni”. Come scrive Nazareno Fabbretti nella breve presentazione del CD di Profazio, «la fede dei primi ignoti autori di questi canti, individui o gruppi, genera essa stessa il linguaggio poetico, che nasce filtrato attraverso la condizione umana dei poveri, e si fa poesia e canto, quasi mai folklore fine a se stesso. I testi documentano un mondo di vita e di fede straordinario e singolarissimo, e il canto ne esprime stupendamente il clima e le tensioni vitali. Anche 19


certe impennate di linguaggio e di immagini sono la prova della immediatezza con la quale il popolo ha assimilato il destino di Cristo, di Maria e di Giuseppe come il destino stesso di ogni comune famiglia di poveri, feriti e insieme invincibilmente felici». Per non parlare dei rapporti di tenerezza e dolcezza che legano i tre protagonisti. Come quando san Giuseppe si lascia andare ai suoi cattivi pensieri (ha scoperto che la Madonna è incinta), ma quando poi lei gli spiega il divino mistero, lui si pente e c’è un finale appunto di grande amore e tenerezza: Iddhu sentendu ‘stu duci parrari/ a la Madonna cci duna un basuni./ Iddhu sentendo ‘sti duci paroli/ a la Madonna si stringi a lui cori. (E lui sentendo questo dolce parlare/ alla Madonna va a darle un bacione./ E lui sentendo queste dolci parole/ della Madonna si stringe al cuore).

C’è poi l’allegria grande del popolo, quella che si scatena appunto per l’avvenuta profezia, quando arriva l’annuncio che il Dio Bambino è nato in una stalla di Betlemme. E lì c’è come un’esplosione di gioia che prende subito il ritmo del saltarello ciociaro. I ritmi cioè della festa di sempre, i ritmi della tradizione, quelli che accompagnano le grandi ricorrenze, i passaggi di stagione, la fine dei lavori che contano, la vendemmia, la mietitura, la semina, e così via. Ma qui c’è qualcosa di più, perché l’avvenimento è ancora più straordinario. Perché, come dice un canto di Novena siculo-calabrese, Quandu nasci u Bambinellu tuttu u mundu fa tremari/ fa tremari Mungibeddu comu Lucifiru ‘nfernali.

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(Quando nasce il Bambinello tutto il mondo fa tremare/ fa tremare Mongibello come Lucifero infernale).

Per questa gente l’annuncio della nascita di Gesù è una notizia che cambia il mondo, che fa tremare il Mongibello e l’Inferno per intero. E per festeggiare tutto questo, per celebrare la Natività a Natale e a Capodanno, la musica non finisce mai, come il vino. Una sorta di ebbrezza generale che ricorda per certi versi quella di san Francesco, la sua grande letizia di fronte alla nascita del presepe. E come in ogni famiglia si festeggia il bambino o la bambina che nasce, così la gente di questi canti è come travolta dalla notizia che il loro Dio ha deciso di farsi Bambino per prendere sulle sue spalle un po’ del loro dolore, della loro solitudine, del loro sfruttamento, dei loro peccati, della loro fatica di vivere. Per questo festeggiano. Per questo cantano: Voglio cantare la mamma di Dio/ Maria bellezza che in cielo ci sta/ stella regina di grande splendore/ che porta agliu munnu la felicità.

1.4. Presepi e zampogne «Quando ero bambino, più che il Natale si aspettava con impazienza la Befana, che portava quei doni, allora, attesi per un anno intero. Io, con ancora maggiore impazienza, aspettavo gli zampognari; davanti alla porta li accoglievo e mimavo sempre i loro buffi strumenti, mentre il loro suono mi penetrava il cuore. Ogni anno si ripeteva la stessa scena e mio padre lì a domandare: –Ma dove si comprano questi strumenti? Poi l’imprevedibile cammino della vita mi ha portato lontano… Ma la storia, forse, era già scritta». (Antonio Graziosi, zampognaro del gruppo Le Zampogne di Daltrocanto).

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Presepi e zampogne arrivano insieme, e sono (erano) il Natale. La neve, le zampogne, il presepio, il fuoco nel camino fanno insieme parte di quello stupore, improvviso e profondo, che ci mette nell’anima il Natale. Basta un niente. Basta sentirli suonare, basta vederli passare, gli zampognari a due a due, e subito ti viene addosso tutto il Natale nella sua infinita ineffabile leggerezza. Un sobbalzo nella notte, quando, non visti, gli zampognari cominciavano ad avvicinarsi, suonando e cantando, alle nostre case. Le nostre case già segnate dal presepe, e da tutta l’agitazione che comporta. Il presepe. Dal dieci di dicembre cominciano i lavori. Il paesaggio uguale a quello di casa, colline, fiumi, piane, e le case contadine buttate in mezzo al sole e alla neve. E i pastori come quelli che attraversano ogni tanto il paese, preceduti dal branco compatto di pecore e capre. Nel presepe sono più belli, hanno facce estatiche, la fede viva e fiammante del nostro popolo di contadini, di pellegrini, di emigranti, di poveracci. E in mezzo a tutto la Natività, segnata da questa immagine forte di un «bambino… dint’i panni… arravugliato» (come canta sant’Alfonso in Quanne nascette Ninno). Un bambino-Dio sceso dalle stelle al freddo e al gelo per stare vicino agli uomini. E accanto a lui, alla capanna, gli zampognari, con quei poveri cappellacci e i mantelli da prima guerra mondiale, impassibili come le loro scarpe… Loro sono la voce della montagna che canta sempre, anche quando noi non la sentiamo. «Si immagini un paesaggio formato di pietre – scrive Giuseppe Pitré a proposito del presepe siciliano – di rocce, di sugheri misti e attaccati con argilla o con cartoni o coperti di muschio o dipinti con colori imitanti la 22


natura. Qua e là un monte o una catena di monti, ora ripidi, ora scoscesi, ma grati a guardarsi, sui quali si arrampicano capre e buoi guidati dai pastori. Là una valle, ove pecorelle van piluccando qualche fil d’erba. Laggiù una grotta o una capanna, con entro dei pastori, quale a mungere pecore, quale a dimenare una caldaia di latte e quale a far fuoco sotto di essa. In luogo solitario e ospitale è un pastore che si cava una spina conficcataglisi nell’un di piedi. Verso la valle ove finisce una collina è un ruscello con limpide acque, ovvero un fiume che ne bagna i piedi, sul quale provvidamente è stato alzato un ponte». è un presepe molto povero, quello siciliano, fatto di tela e colla, ma che riesce tuttavia a dare grande consistenza ai suoi personaggi (la tela passata alla colla diventa quasi legno, dando un aspetto vivo e armonioso ai vestiti delle figurine); e soprattutto riesce a creare una profonda umanità nei tratti del viso e nei gesti dei personaggi più umili. Il maestro, colui che ha indicato la strada a tutti gli altri mastri artigiani, è lo scultore Giovanni Matera. «Le sue creature – scrive Giuseppe Cocchiara in Le immagini devote del popolo siciliano – rifanno, quasi, un cammino ideale che è quello dell’umanità. Accompagnano la prima tappa del cammino di Gesù. Esprimono la gioia. Cantano il dolore, come le figure delicate della strage degli innocenti». Naturalmente stiamo parlando del presepe dei ricchi. Perché invece quello dei poveri utilizza i soliti più modesti pastori di creta, come in gran parte dei presepi italiani. Presepi spesso di proporzioni meschine, magari senza lucine né trapunte di stelle, con statuine vecchie e consumate, a volte senza un braccio o una gamba. E tuttavia, agli occhi di chi si dedica alla costruzione del presepe con affetto e devozione, quei poveri bam23


bocci di argilla acquistano un valore unico e luminoso. Personaggi che naturalmente sono sempre gli stessi, e che bene o male rappresentano tutte le varie classi sociali della società: ci sono i tre Re Magi che portano i regali al bambino, ma soprattutto c’è una quantità di personaggi più umili che invadono letteralmente il presepe, e la cui presenza non è meno importante dell’oro, dell’incenso e della mirra dei tre re d’Oriente. Ed è proprio in questa sua umile popolarità, in questo suo farsi popolo, che il presepe acquista forza, suggestione e affetto a livello di immaginario di massa. Stessa cosa con il presepe per eccellenza, cioè quello napoletano, che però si muove in tutt’altro contesto. Qui l’immagine d’insieme è dominata dal classico scoglio e da una prospettiva che lavora con primi piani, secondi piani e le cosiddette lontananze. I personaggi che animano le diverse scene sono più o meno gli stessi (la Natività, l’annuncio ai pastori, l’arrivo degli “orientali”, la taverna, la capanna e così via). Poi, come abbiamo accennato, c’è un’esplosione della fantasia popolare, che moltiplica protagonisti e situazioni, ma rimanendo sempre bene ancorata al contesto napoletano. Per cui attorno alla capanna del Bambino c’è un vero e proprio schieramento di nuovi personaggi: la castagnara, l’arrotino, la zingara, il poveraccio, il cieco, lo storpio, il macellaio e così via. Tutti insieme fanno il gruppo dei poveri, ai quali anche qui è contrapposto il mondo orientale dei magi, con il loro sfarzo, luccichio d’oro e altri lussi. E vicino al presepe non può mancare la zampogna, che rappresenta il grande suono del Natale, lo strumento che tradizionalmente accompagna con la sua musica le feste natalizie. Perché non esiste presepe 24


senza musica. Fin dall’inizio, dalla sua invenzione, il presepe ha avuto la sua colonna sonora. Si racconta infatti che il primo inventore del presepio, san Francesco di Assisi, quel giorno a Greccio, dopo aver ricomposto la storia della Natività in un presepe, si sia messo a cantare. è il suo stesso biografo a riferirlo, Tommaso da Celano: «Francesco, rivestito dei paramenti diaconali, si mise a cantare il santo Vangelo con la sua voce forte e dolce, limpida e sonora, con lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile». Ma, dicevamo, per anni è stata la zampogna lo strumento principe del Natale. E così è tuttora vissuta nell’immaginario di molte persone. E questo prima di tutto perché la zampogna era lo strumento più importante della vita e della cultura nelle comunità pastorali. Lo zampognaro era infatti un pastore che con la musica del suo strumento, decideva gran parte del tempo e dell’esistenza dei suoi compaesani. «La gente di Maranola – racconta lo zampognaro Salvatore Minghella intervistato da Sparagna – ha sempre preferito le zampogne. Le zampogne si suonavano sempre in ogni circostanza, le suonavano in chiesa, le suonavamo quando dovevano accompagnare le spose… Si suonavano principalmente il sabato sera, quando i pastori scendevamo dalla montagna, e si portavano le serenate, la sera… E la domenica si suonava dentro le cantine e si ballavano ballarelle… Quando andavamo a mietere il grano, le zampogne stendevano le sonate e le donne stendevano le canzoni. Queste donne avevano una voce che si sentiva dappertutto nella montagna, loro cantavano e le zampogne rispondevano… L’unico periodo in cui a Maranola non si suonava era durante la vigilia di Pasqua, quando si attaccavano le campane. Ma appena 25


il prete “dava la gloria”, le zampogne suonavano con le campane e sentivi per tutto il paese un suono continuo di zampogne fino all’alba…». Ma il periodo in cui erano veramente protagonisti era durante il periodo delle Novene, quando gli zampognari scendevano dai monti nel loro tipico abbigliamento pastorale, e, seguiti da bande di ragazzini, cominciavano a percorrere le strade di paesi e città, spargendo intorno aria e melodie natalizie. Andavano sempre in coppia, un vecchio e un giovane, come a segnare una continuità, il rinnovarsi di un ciclo della vita… In realtà si va in due perché è così che è nata la polifonia di base, quella più semplice: grazie a un suono fisso (la zampogna) e un altro che modula (la ciaramella). La zampogna ha fatto scuola. Ancora oggi, in tante chiese in giro per l’Italia ci sono antichi organi del Settecento e dell’Ottocento che hanno mantenuto un registro che imita il suono delle zampogne. A tutto questo c’è poi da aggiungere un elemento di tipo religioso, irrazionale e misterioso, ma che ancora oggi viene continuamente ricordato tra i suonatori di zampogna: il fatto cioè che «il primo suono che è uscito è stato quello suonato dalla zampogna perché le zampogne le suonava Dio quando faceva il pecoraro» (Giuseppe Minghella, zampognaro di Monte San Biagio). Sarà per questo che nel presepio di Maranola lo zampognaro occupa un posto di prima fila: vicino alla grotta, dalla parte della Madonna, e con gli occhi rivolti in alto, a cercare la stella cometa… o la voce di Dio. E ancora ci sono, sulla zampogna, tutte le citazioni che arrivano dalla mitologia greca e latina, dalla storia della ninfa Siringa a quella delle Nereidi, da Pan a Dafne, e le loro infinite metamorfosi e la crudeltà 26


delle loro storie d’amore. E ancora quelle letterarie, a cominciare da Gabriele D’Annunzio che, nella novella La vergine Orsola, parla a lungo della musica delle zampogne come di una «religiosa e familiare letizia», che addirittura riporta in vita una donna gravemente malata. E poi il Belli con i suoi sonetti in romanesco, tra cui, popolarissimo, quello sulla Novena di Natale: E a mè me pare che nun zii Novena/ si nun zento sonà li piferari:/ co cquel’annata de cantasilena/ che sserve, bbenemio!, sò ttroppi cari.

E infine l’immancabile Giovanni Pascoli, con la sua poesia che tutti abbiamo imparato a scuola, Le ciaramelle. Ricordate? Nel cielo azzurro tutte le stelle/ paion restare come in attesa;/ ed ecco alzare le ciaramelle/ il loro dolce suono di chiesa;// suono di chiesa, suono di chiostro,/ suono di casa, suono di culla,/ suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla.

Quel suono che accompagnava la Novena di Natale, e come un “organo dei poveri” invadeva tutto, case, strade, chiese, fino a entrarti nell’anima. «Comme vurrìa sentì nu zampognaro…!», canta il protagonista di una celebre canzone (poi diventata “sceneggiata” con lo stesso titolo), Lacreme napulitane, quando si ritrova solo ed emigrato in America la sera della vigilia di Natale. E in quel suono della zampogna, come già in Pascoli, è racchiuso non solo la festa di Natale, ma tutta una storia, una famiglia, una comunità, una città intera, come Napoli, Palermo, Roma, Milano e così via.

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1.5. Cosa cantano gli italiani a Natale Gli italiani cantavano molto a Natale. E in parte anche adesso. Si cantava molto a nord, a sud, soprattutto nelle isole. La Sicilia, per esempio, ha conservato un repertorio straordinario, grazie al lavoro immane fatto da studiosi appassionati come il Pitré, il Marino e il Favara. Molti i rituali del periodo Natale-Epifania che ci arrivano dall’Italia settentrionale. I materiali di base e le contaminazioni sono più o meno gli stessi in ogni parte d’Italia: da una parte i testi presi o sviluppati dai Vangeli apocrifi (avvento, nascita e infanzia di Gesù); dall’altra la lunga fila di più laiche richieste di beni in natura, che ci arrivano invece dal repertorio delle questue, anche qui in un intreccio di storie legate alle disavventure di Giuseppe e Maria, dei pastori e dei Re Magi, attraverso un labirinto complicato di stelle comete, cori di Cherubini, inverni bianchi e rigidi, cammelli, doni, sabbia, stragi di innocenti e misteri non solo d’Egitto. E insieme ai canti c’è anche tutto un repertorio di suoni, di ritmi di accompagnamento, di pastorali. Zampogne, cornamuse, clarini, organetti, violini, qualche volta anche flauti e ghironde, che ricordano non solo il canto e le sonate dei pastori alla capanna di Gesù Bambino, ma anche la musica di strada, i canti della Buona Novella che, su invito degli angeli, i pastori (ma non solo) hanno portato per le strade del mondo. La tradizione popolare e contadina ha conservato una quantità notevole di canti legati alla tematica religiosa. C’è di tutto, inni, ballate, poemi, canzoncine. Ci sono straordinarie e improbabili vite di santi, romanzate dalla fantasia popolare che le ha ricamate con storie edifi-

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canti e tutta una serie di grandi (e piccoli) miracoli; e poi ci sono i canti legati alla grande liturgia cristiana e alle sue feste principali: il Natale, l’Epifania, la Pasqua, e così via. è un repertorio enorme, che certo non ha la compattezza e la vastità struttarata dei “villancicos” spagnoli (le canzoni della gente semplice di Spagna, quella dei piccoli centri, che con il tempo hanno formato un corpus a parte, legato esclusivamente al «misterio de la Navidad»), ma che comunque negli anni ha riempito l’Italia di storie, melodie e ritmi sorprendenti. Da noi il paese era meno unito, con un nord e un sud che da sempre seguono percorsi culturali e musicali diversi, nei testi, nelle melodie, soprattutto nell’esecuzione, nel modo cioè di usare gli strumenti e la voce. Nel nord Italia la pratica di questi canti è (in certi casi) ancora attuale, oppure è scomparsa solo in tempi recenti, più o meno a partire dal dopoguerra e dagli anni del miracolo economico. Mentre la loro origine è spesso molto antica: risale indietro nei secoli fino al Medioevo, o alle origini della Chiesa cattolica, e anche a prima del Cristianesimo, a quel rapporto speciale tra natura e divinità che ha condizionato profondamente la cultura contadina del nord Italia, fino a contaminare in maniera pesante il nostro cattolicesimo popolare che, come scrive Roberto Leydi, «in sé conserva in modo spesso drammaticamente esplicito elementi pre-cristiani, pagani, extra-religiosi, e così spesso si confonde con il magico». E tuttavia, a differenza dei canti meridionali, le storie del nord, le storie di Gesù Bambino, Giuseppe e Maria e quelle dei Re Magi, quasi tutte cantate nei vari dialetti locali, cisalpino-padani, hanno spesso un rapporto forte con il resto dell’Eu29


ropa centrale (pensiamo per esempio al ciclo della stella), che a sud non esiste. A sud influenze e contaminazioni hanno preso altre strade, che portano verso il Mediterraneo, l’Asia Minore, il nord dell’Africa e il sud della Spagna. Comunque la passione, la devozione, la magia di questi canti (e dei loro esecutori) sono le stesse, a nord come a sud: la stessa religiosità , immediata e profonda insieme, degli italiani e delle italiane; lo stesso rapporto antico e tenacemente uguale che lega la loro vita religiosa ai tempi e ai ritmi della terra.

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Presentazione dei brani contenuti nel CD

01. Novena dell’Immacolata

dur. 3’ 55’’

Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo Tratto dal CD Stella Cometa (2002)

Un brano tradizionale, molto conosciuto nell’Italia centrale, soprattutto dagli zampognari che lo eseguivano, per le strade e nelle case, nei giorni della Novena dell’Immacolata. Esistono diverse versioni, da quella napoletana a quella abbruzzese. Questa di Trotta e Gioielli con i Musicanti del Piccolo Borgo fa riferimento a versioni laziali e molisane. La voce è quella di Mauro Gioielli, che al Natale molisano ha dedicato ricerche e CD.

02. Novena / Tu scendi dalle stelle

dur. 4’ 16’’

Zampogne del Cilento

Nel Cilento la musica popolare è musica di pastori, ed è la zampogna lo strumento più amato. Una storia che forse è nata in Lucania, forse addirittura nella Magna Grecia. Sta di fatto che in nessun’altra parte d’Italia vi è una così alta concentrazione di suonatori e costruttori di zampogne e ciaramelle. Le Zampogne del Cilento sono un gruppo che fa riferimento soprattutto ai maestri storici di due famiglie cilentane, i Citera e i Cortazzo, coordinate da Tommaso Sollazzo, polistrumentista da sempre vicino alla tradizione. Il brano, che vede schierate due zampogne (a tre e a sei palmi) e due ciaramelle (una delle quali di controcanto), è un pezzo strumentale live, tratto dal repertorio delle Novene cilentane.

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03. La santa allegrezza

dur. 3’ 31’’

I MusicaStoria Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)

Un canto popolare molto famoso, appartenente alla tradizione musicale del Natale napoletano. La sua origine è sicuramente riferibile al Settecento, e, secondo alcuni, potrebbe essere vicino alle canzoncine natalizie di sant’Alfonso. Esprime l’allegria di tutto un popolo che si ritrova nella sua tradizione, e, attraverso la tradizione, nella fede. A proporlo sono qui i MusicaStoria, un gruppo di Vietri sul Mare, da anni schierato dalla parte della musica popolare, sia della Campania che di tutto il sud d’Italia.

04. La notte de Natale quandu usciste

dur. 2’ 07’’

Maestro Carmelo di Otranto (Le)

Canto tradizionale pugliese, raccolto da Gianni Bosio e Clara Longhini l’11agosto del 1968 dalla voce del Maestro Carmelo, cestaio. Un canto che mischia l’argomento amoroso con quello religioso del Natale, su uno schema musicale molto utilizzato nel canto meridionale monodico (nel doppio senso di una sola voce e di una sola melodia di base). Una straordinaria essenzialità vocale, che esalta ancora di più una sorta di poetica della luce che sovrappone la bellezza della donna amata allo spendore della chiesa illuminata nella notte di Natale.

05. Rosa d’argento e rosa d’amore

dur. 3’ 00’’

Nando Citarella e la Compagnia la Paranza Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)

Canto tradizionale napoletano di origine ottocentesca, recuperato da Roberto De Simone per La cantata dei pastori. Un brano molto simile a una Ninna-nanna 177


di Sant’Anna, riportata da Luigi Molinaro del Chiaro in Canti popolari raccolti in Napoli (1882). Molti versi sono identici, così come il senso, e il contesto simbolico ma leggero e godibile. Resta la devozione, ma con uno spostamento evidente verso la favola di tradizione contadina e il teatro di figura. Cantano e suonano Nando Citarella con la Compagnia la Paranza: un’interpretazione ritmica e luminosa che esalta proprio l’aspetto gioioso, magico e contadino del brano.

06. Quanno nascette Ninno

dur. 7’ 30’’

Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo Tratto dal CD Stella Cometa (2002)

Una pastorale poetica e ispirata, in cui il dialetto gioca un ruolo fondamentale sia dal punto di vista della messa in scena realistica che della suggestione nuova che riesce a creare. L’autore è sant’Alfonso, che probabilmente la compose, dopo aver ascoltato le zampogne del Cilento, dove era stato a fare apostolato tra cafoni e pastori. Si comincia con la ninna-nanna, poi una prima parte più melodica, e infine il recupero del vecchio modulo pastorale: voce, canto e ciaramella.

07. Sonata dei pastori

dur. 2’ 30’’

Zampogne del Cilento

Ancora un brano tradizionale che ci arriva dalle montagne del Cilento. Zampogna e ciaramella. Andavano sempre in coppia come in un rito: un anziano e un giovane, a significare il perpetuarsi di una tradizione e il rinnovarsi della vita. In realtà si va in due perché è così che è nata la polifonia di base, quella più semplice e facile: un suono fisso (la zampogna) e un altro che modula (la ciaramella). E perché, come dicevano i pastori cilentani, la ciaramella con la

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zampogna è come moglie e marito. Suonano, dal vivo, Francesco Citera Junior (zampogna) e Tommmaso Sollazzo (ciaramella).

08. Nascette lu Messia

dur. 3’ 11’’

I MusicaStoria Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)

Canto tradizionale napoletano, raccolto nella zona di Castellamare di Stabbia. Sicuramente era, all’inizio, un canto di questua, poi riadattato alle esigenze della Cantata dei pastori. Tuttavia almeno nell’ultima strofa ha mantenuto la vecchia dizione del commiato e dei saluti per la Santa Notte (E mò nce resta voce/ pe' ve cercà licenzia/ pe’ dà ‘sta bona audienza/ 'a Santa notte). Ce la ripropongono i MusicaStoria, in una versione che mette zampogna, organetto e voce (Angelo Santucci) su una percussione fonda, da strada.

09. Celesti tesoru

dur. 3’ 36’’

Elena Ledda Tratto dal CD Cantendi a Deus (S’Ardmusic, 2009)

Un canto natalizio sardo, raccolto nella provincia di Nuoro, tuttora usato come ninna-nanna per addormentare i bambini, soprattutto nei giorni di Natale. Una volta si cantava anche in chiesa. Anzi in molte parrocchie era il brano che apriva la messa di Natale di mezzanotte (missa ‘e puddu). Un brano di grande dolcezza e bellezza, che Elena Ledda e Mauro Palmas rendono con straordinaria sensibilità e modernità, trasportandoci ben oltre la tradizione, dentro un universo senza tempo di suoni ed emozioni. Con Ledda e Palmas, sono da ricordare anche Simonetta Soro (voce), Marcello Peghin (chitarra), Silvano Lobina (basso) e Andrea Ruggeri (percussioni). 179


10. La canzone di Razzullo

dur. 3’ 22’’

Nando Citarella e la Compagnia la Paranza Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)

Un brano da La cantata dei pastori che pesca a piene mani nel repertorio popolare napoletano, mettendo insieme due temi tipici di quella tradizione: da una parte la retorica della Natività e dall’altra il tema della fame e della sopravvivenza quotidiana. Ecco allora che “mamma” fa rima con “famma” (fame), “nato” con “sventurato”, “‘nfasciare” con “cantare”, e così via. Tiene insieme tutto (storia, ritmo e canto) la voce inconfondibile e coinvolgente di Nando Citarella, con la collaborazione della Compagnia la Paranza.

11. La notti di Natali

dur. 3’ 13’’

Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo Tratto dal CD Stella Cometa (2002)

è un canto rituale natalizio, diffuso in molte regioni del sud. Lo spartito musicale originario è molto noto, e in genere viene attribuito alla grazia e al genio di sant’Alfonso dei Liguori. La versione proposta da Trotta e Gioielli con i Musicanti del Piccolo Borgo è quella siciliana, sicuramente la più famosa grazie anche all’interpretazione potente e indimenticabiole di Rosa Balistreri. Qui la voce è quella di Marika Spiezia, meno accorata e trascinante, ma non meno autorevole e suggestiva.

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12. L’unico figlio dell’eterno padre

dur. 1’ 40’’

Un gruppo di stelari (voci miste) di Palù-Val dei Mòcheni (Trento)

Canto religioso, registrato da Renato Morelli nel giugno del 1985 a Palù (Trento), ma diffuso in tutta l’Italia settentrionale. Un brano legato all’antico rito della Stella, che parla del Figlio dell’Eterno Padre, nato in una capanna per metter pace tra Dio e gli uomini. Il cerimoniale prevede che nel periodo tra Natale e l'Epifania, un gruppo di cantori, gli stelari, visitino le case del paese reggendo su un bastone una grande stella girevole di legno e carta colorata e illuminata. Ad ogni tappa il gruppo esegue uno o più Canti della stella, ricevendo in cambio doni di vario genere.

13. La leggenda del lupino

dur. 5’ 40’’

I MusicaStoria Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)

Canto della tradizione natalizia napoletana, recuperato da Roberto De Simone, e reso famoso dall’interpretazione indimenticabile di Concetta Barra. C’è la leggenda del lupino, presa dai Vangeli apocrifi e riferita a un episodio drammatico della fuga in Egitto; e c’è un proverbio napoletano che recita proprio: «Je truvanno a Cristo ‘a dint’ e lupine» (Vado cercando Cristo tra i lupini). La versione dei MusicaStoria viaggia veloce e morbida, tra ciaramelle e castagnette, tirata dalla voce sicura di Gaia Bassi.

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14. Tarantella re li pasturi

dur. 2’ 49’’

Zampogne del Cilento

Brano tradizionale del Natale cilentano, eseguito da una sola zampogna, quella di Pietro Citera. è una tarantella per festeggiare la nascita di Gesù Bambino, e per invitare alla festa e al ballo tutti i pastori presenti. Registrato dal vivo nel Natale del 2009.

15. Goccius de su Nascimentu

dur. 5’ 29’’

Elena Ledda Tratto dal CD Cantendi a Deus (S’Ardmusic, 2009)

Ancora un brano preso dalla tradizione natalizia del Natale in Sardegna. Anche qui la stessa forza espressiva, la stessa capacità di comunicazione. Nella voce di Elena Ledda c’è, intatto e vivissimo, il senso di una passione, che diventa amore profondo per un popolo, per una tradizione, per un modo di cantare. Con Ledda, suonano e cantano Simonetta Soro (voce), Mauro Palmas (liuto), Marcello Peghin (chitarra), Silvano Lobina (basso) e Andrea Ruggeri (percussioni).

16. Dolce felice notte

dur. 1’ 36’’

Un gruppo di stelari (voci maschili) di Carisolo (Trento)

Voci miste. Canto religioso, registrato da Renato Morelli nel maggio del 1988 a Carisolo (Trento). La versione a stampa più antica di questo canto è contenuta nel Libro Primo delle Laudi Spirituali del 1563, dove il canto viene pubblicato con il titolo Laude della Natività di Giesù di Fra Serafino Lazzi. Il testo racconta la nascita di Gesù Bambino nella grotta di Betlemme, un coro di an182


geli che scende dal cielo cantando Osanna e l’annuncio dell’arrivo dei Re Magi dall’Oriente con i doni per il Messia.

17. La Strina calabrese

dur. 4’ 00’’

Nando Citarella e la Compagnia la Paranza Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)

«‘U tempu de la strina è venutu/ a nume ‘e tutti quanti ve salutu» (Il tempo della strina è venuto/ a nome di tutti quanti vi saluto). Così inizia un famoso canto tradizionale calabrese, che si porta in giro durante le feste di Natale, ma soprattutto nella notte di Capodanno. è un canto di questua, benaugurante, che troviamo un po’ ovunque in Calabria (con varianti e caratteristiche diverse), e che appunto prende il nome di Strina. Esecuzione magistrale, affidata al suono della lira calabrese, al tamburello e sopprattutto alle due voci risonanti di Nando Citarella e di Gabriella Ajello.

18. Noi siamo i tre Re

dur. 3’ 18’’

Un gruppo di stelari (voci maschili) di Fierozzo S. Felice-Val dei Mòcheni (Trento)

Canto religioso tra i più diffusi e documentati dell’arco alpino e prealpino, raccolto da Renato Morelli nel giugno del 1985, e legato al rito della Stella. Come gli altri brani del ciclo dell’Epifania, anche questo canto «racchiude emblematicamente lo spirito di quel mondo, la sua genuinità, la sua purezza, il suo sentimento d’intima religiosità» (Novella Del Fabbro).

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19. La Strina salentina

dur. 9’ 06’’

Cantori di Corigliano d’Otranto

Canto salentino di questua, registrato a Corigliano d’Otranto (Lecce) da Luigi Chiriatti nel 1977. Si eseguiva e si esegue tuttora nel periodo natalizio, e soprattutto per Capodanno. A portarlo in giro erano musicanti ambulanti, che giravano per i paesi, e si fermavano vicino alle case e alle masserie. Altre volte vagavano per le campagne a benedire il grano seminato. E alla fine chiedevano due uova, un vasetto di olive, un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio. Formazione molto spartana, popolare e da strada: Luigi Costa canta e suona il cupa-cupa; con lui il fratello Antonio Costa con organetto diatonico.

20. Bambino mio bellissimo

dur. 3’ 11’’

Ambrogio Sparagna e l’Orchestra popolare italiana Tratto dal CD La chiara stella (FinisTerre, 2008)

Un canto di Natale attribuito a sant’Alfonso de’ Liguori, recuperato e messo in musica da Ambrogio Sparagna, qui proposto in una commovente versione live del 2008, affidata soprattutto alla voce di Peppe Servillo. In questa canzoncina spirituale è molto evidente, da parte di don Alfonso, la volontà di utilizzare una metrica molto semplice (quartine di ottonari) e un testo apparentemente facile e sentimentale, ma che in realtà riesce a esprimere, quasi fisicamente, una grande tensione di fede e d’amore a Dio.

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Ringraziamenti Un ringraziamento vivissimo a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo CD, grazie alla loro disponibilità e generosità. Renato Morelli che ha messo a disposizione tre delle sue registrazioni relative al Ciclo della Stella dell’Epifania in Trentino: Dolce felice notte, L’unico figlio dell’eterno padre e Noi siamo i tre Re. Nando Citarella e la Compagnia La Paranza per i tre brani tratti da un loro fortunato spettacolo natalizio Cantata di Natale: Rosa d'argento e rosa d’amore, La canzone di Razzullo e La Strina calabrese. Elenda Ledda, Mauro Palmas e Michele Palmas, responsabile di S’Ardmusic, per i due meravigliosi brani provenienti dal repertorio del Natatale sardo: Celesti Tesoru e Goccius de su Nascimentu. Tommaso Sollazzo, referente generoso per Le Zampogne del Cilento. Loro sono i tre brani strumentali: Novena Tu scendi dalle stelle, La sonata dei pastori e Tarantella re li pasturi. Silvio Trotta che, insieme a Mauro Gioielli e ai Musicanti del Piccolo Borgo, ci ha messo a disposizione tre brani di un loro album dedicato alla tradizione del Natale Stella Cometa: Quando nascette Ninno, La Notti di Natali e La Novena dell’Immacolta. 185



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