LA RISCRITTURA OLTREPASSANTE

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Placido Cherchi

La riscrittura oltrepassante Ernesto De Martino e le dialettiche del ÂŤritornoÂť Cinque studi


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832801528 www.kurumuny.it | info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-94-5 © Edizioni Kurumuny – 2013


Indice

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Introduzione

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Mondo magico-Fine del mondo andata e ritorno: le dialettiche di una riscrittura oltrepassante

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Intorno ad alcune perplessità critiche sull’«ethos del trascendimento»

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Il rapporto cultura-natura in Ernesto De Martino: una riflessione sulla «realtà dei poteri magici»

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Latitanze e affioramenti. Qualche ipotesi sul rapporto De Martino-Freud / De Martino-Jung

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Magia e civiltà: un libro quasi dimenticato

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Appendice: Intervista su Ernesto De Martino

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Nota bibliografica



A Ruggero, nel suo primo compleanno, e al fratellino Giaime, qualche anno dopo.



Introduzione

Col proporsi di riprendere su De Martino alcuni percorsi di lettura poco o nulla toccati nei lavori precedenti, la forma «studio» dominante in questo libro si rifà esplicitamente all’idea di «variazione» già presente ne Il signore del limite 1 e ne ripete, su scala meno ampia, la cadenza. Anche adesso, come allora, una certa addizione di articoli lunghi dà come somma un volume e cerca di compensare sulle sintassi del metasenso il sapore di isolamento paratattico che i singoli testi della silloge, a tratti, fanno sentire. Anche qui, come là, ogni singolo «studio» è una sorta di camminata atelestica per luoghi insoliti o un excursus sempre pronto a concedersi alle accezioni del «variare» più corteggiate dalle angolazioni difficili e dalle incognite dei sentieri non mappati. Lo spazio delle analogie con le «variazioni» di allora ha, in realtà, molte conferme e finisce col configurare un insieme di rassomiglianze strutturali tutt’altro che fortuite. Il metasenso a cui la sintassi interna della raccolta si affida è naturalmente quello indicato dal titolo. Il problema della «riscrittura oltrepassante», che occupa quasi per intero il primo e il terzo studio, finisce per essere, di fatto, il problema-crinale inseguito in varia forma dagli aspetti portanti del libro e non ho dubbi sulla possibilità che, malgrado l’andamento inevitabilmente tortuoso di certi suoi passaggi, esso riesca a farsi percepire come centro. È facile

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Placido Cherchi, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli 1994.

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constatare, per esempio, che ne restano riverberati in modo più o meno accentuato anche gli studi che sembrano essere nati sull’onda di altre sollecitazioni e che di fatto si dispongono su versanti intenzionali diversi. In realtà il problema della «riscrittura oltrepassante» (o, se si vuole, il problema delle dialettiche del «ritorno») è innanzitutto il problema della circolarità che lega il Mondo magico e la Fine del mondo – ovvero è il problema che contiene le spinte più segrete della produzione demartiniana – e sarebbe impossibile non pensarlo come un alveo di ampie confluenze. A cominciare – si vedrà – da quelle che nascevano nelle pieghe reversorie di un’«autocritica» precocemente volta a produrre il suo contrario e da quelle che si ingeneravano nel «ri-morso» sempre vivo di un percorso teorico rimasto interrotto. Tornare al Mondo magico, e tornarvi ridimostrando con argomentazioni nuove le tesi poste al centro delle sue straordinarie metanoie, non avrebbe potuto essere solo l’esito delle altezze raggiunte dalla Fine del mondo: il processo che andava preparando la loro riaffermazione doveva essere, per forza di cose, un processo lento e graduale, un movimento a spirale crescente, destinato a trascinare con sé anche gli aspetti che, dall’esterno, nessuno avrebbe detto in qualche modo coinvolgibili nelle strategie del «ritorno» coltivate dal metasenso in questione. Senza dubbio, il modus legendi adoperato adesso può far emergere qualche differenza di registro fra il tipo di approccio dominante in questi Studi e il tipo di approccio che caratterizzava le «variazioni». Se Il signore del limite aveva privilegiato la dimensione dell’ascolto, mantenendosi frontalmente all’esterno del dire demartiniano, i testi di questa Riscrittura preferiscono passare alle spalle di quello stesso dire e interrogarsi, qua e là, sulla natura delle sue presupposizioni trascendentali. In un certo senso, dall’esteriorità oggettiva delle cose che il corpus demartiniano offriva al lettore, essi si spostano tendenzialmente verso la fascia degli entroterra motivanti, non senza accorgersi che il «verso cui» del loro frammentato procedere, piuttosto che un certo ventaglio di temi selezionati

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in quel corpus, è in fin dei conti la coscienza riflessa che De Martino ne ebbe, nel pensarli «prima» e «al di qua» della loro oggettivazione. Non occorre precisare che, una volta divenuta oggetto quasi esclusivo dell’inquirere, questa coscienza riflessa non avrebbe potuto avere sviluppi paragonabili a quelli provocati dai suoi temi di riferimento o dar luogo a trattazioni altrettanto estese. Le differenze su questo piano discendono in qualche modo dalle differenze di taglio e ne spiegano, bene o male, gli effetti. A parte il primo e il terzo studio, che riattraversano tutto De Martino tentando di leggere i lavori dell’«epilogo» come una «riscrittura» dei lavori apparsi nella fase degli esordi, gli altri aderiscono in modo più stretto al carattere contratto della forma-«studio» messa in onda qui e si immergono volentieri nel mondo delle lateralità sopravvissute alle zone d’ombra ingenerate dalle traiettorie tematiche vincenti. Includerei tra questi «altri» anche il secondo, malgrado la contiguità che lo lega strettamente al primo e malgrado la sua insistenza sulle «oltrepassanze» poste al centro della «riscrittura». A farmelo considerare tutto immerso nelle lateralità del particolare puntiforme è la forma prevalente del suo sviluppo, troppo a lungo catturato da questioni di dettaglio non sempre sostanziali e troppo a lungo interessato al gioco polemico delle contestazioni opposte da alcuni interpreti all’idea demartiniana di «ethos del trascendimento». Lo avrei fatto passare con sicurezza negli spazi dell’appendice, se la sua estensione non avesse minacciato di far diventare eccessivo il peso della «coda», sbilanciando a suo favore l’assetto di un libro visibilmente già a rischio nella distribuzione interna dei propri equilibri. Il quarto e il quinto studio, invece, non pongono problemi di collocazione. Rispetto al primo e al terzo, sono decisamente «gli altri». Autonomi quanto basta per non avere nulla da chiedere al senso visibile delle strutture portanti, essi sono soprattutto se stessi, essendo insieme anche luoghi del riverbero: per esempio, accettano facilmente di essere più che sfiorati dalle ali del metasenso,

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quando si voglia restare nell’ambito delle logiche individuate come perimetro dell’insieme: e, di fatto, qualche triangolazione calcolata bene può essere sufficiente a farli ricomprendere senza forzature negli sfondi creati dalle necessità della «riscrittura». Dei cinque scritti, il secondo, il quarto e il quinto sono inediti. Non lo sono, invece, il primo e il terzo. Il primo è il testo della relazione presentata al seminario «Lavori in corso», tenutosi a Roma nel 2009 in occasione del centenario della nascita di Ernesto De Martino (esso è stato pure incluso in un recente volume colletaneo dedicato a lui dall’Istituto di Antropologia culturale dell’Università di Cassino e curato da Floriana Ciccodicola);2 il terzo, senza i passaggi su Gentile aggiunti adesso (2011), è invece il testo della relazione presentata a Napoli nel 1995, all’interno del convegno «Ernesto de Martino nella cultura europea» (come tale esso è stato parzialmente riprodotto negli atti di questo convegno, pubblicati con lo stesso titolo, nel 1997, dall’editore Liguori di Napoli, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio).3 Ringrazio Floriana Ciccodicola e Clara Gallini, per aver rispettivamente acconsentito alla ripresa, qui, dei testi corrispondenti, appunto, al primo e al terzo «studio». Accanto ai cinque studi compare, in appendice, la forma originaria dell’Intervista su De Martino che, nel 1990, Pietro Angelini fece allo scrivente per «Lares», in vista di un articolo – De Martino: grandi spazi, tempi angusti 4 – che ne avrebbe allargato di molto il senso. Tornare vent’anni dopo alla forma-prima di quell’intervista

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Si tratta di Aa.Vv., Ernesto de Martino: storicismo critico e ricerca sul campo, a cura di F. Ciccodicola, Domograf, Roma 2010. 3 Aa.Vv., Ernesto De Martino nella cultura europea, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Liguori, Napoli 1997. 4 Pietro Angelini, De Martino: grandi spazi, tempi angusti. Conversazione con Placido Cherchi, in «Lares» 2, 1991.

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non è forse inutile: fornisce qualche traccia sugli anni cagliaritani di De Martino, rimasti oscuri e quasi del tutto sconosciuti alla maggior parte dei suoi biografi. E di questo ringrazio ancora una volta l’intervistatore.

Avvertenza Da un po’ di tempo, nell’uso della critica, il nome di Ernesto De Martino, dal punto di vista grafico, non è più lo stesso. Molti autori, seguendo l’esempio olografo messo in copertina dalle edizioni demartiniane della Argo di Lecce, preferiscono far passare in minuscolo la preposizione patronimica De e scrivono ormai Ernesto de Martino. Nel testo e nel corpus delle note, quando è stato bibliograficamente necessario, ho di volta in volta rispettato questa scelta. Ma, in continuità con i miei libri precedenti (sempre conformi alla originaria consuetudine editoriale di scrivere De Martino), questo lavoro non rinuncia alla vecchia grafia e si ostina ancora sulla forma Ernesto De Martino. La disomogeneità che ne risulta non è effetto di reiterate sviste, ma esito anch’essa di una scelta e dell’attuale coesistere delle due grafie. Inoltre, nel testo e nel corpo delle note – quando non sia necessario tener conto delle esigenze bibliografiche – i titoli demartiniani, secondo un’abitudine rintracciabile nello stesso De Martino, vengono di solito abbreviati o adattati grammaticalmente al tessuto del discorso. Così, per esempio, Il mondo magico può figurare come «il (al, dal, del, nel, col) Mondo magico»; La terra del rimorso come «la (alla, dalla, della, nella, con la) Terra del rimorso»; La fine del mondo come «la (alla, dalla, della, nella, con la) Fine del mondo». Mentre, dopo una prima indicazione completa, i testi dal titolo più lungo vengono abbreviati e indicati solo con la parte iniziale. È il caso, per esempio, di Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini o di Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, che diventano rispettivamente Angoscia territoriale e Crisi della presenza. Salvo indicazioni specifiche o casi particolari, questi criteri vengono applicati a tutta la produzione demartiniana utilizzata nel corso del presente lavoro.

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Mondo magico-Fine del mondo andata e ritorno: le dialettiche di una riscrittura oltrepassante

La metafora «ferroviaria» che intitola questo testo non è solo un gioco di assonanze. È anche il tentativo di trovare una formula sintetica per cominciare a introdurre il discorso sul rapporto di circolarità che lega a livelli poco visibili Il mondo magico5 e La fine del mondo.6 Nelle dilatazioni che portano l’opera incompiuta a ripiegarsi continuamente sul libro del ’48 e a tentare di riproporne sotto altra forma gli ardimenti, c’è – la si veda o no – una circolarità cogente, una logica di rimbalzi ripetuti, che varrebbe la pena esplorare e proporsi di rendere esplicita. Se si continua con la metafora, è naturalmente scontato che il movimento di «andata» debba esser fatto coincidere con la progressio fisiologica raccontata dallo sviluppo della produzione demartiniana e dai ritmi cronologici del suo divenire: meno scontato,

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Ernesto De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. La seconda edizione è del 1958: riproduce inalterata la prima, ma vi aggiunge una seconda prefazione, un saggio del 1951 (Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini), le recensioni di Croce, Paci, Pettazzoni, Eliade e le “Note conclusive dell’autore” (generalmente note come “Postilla conclusiva”). Le edizioni successive (la terza, del 1967, e la quarta, del 1973) riprendono per intero la seconda ed escono con la Boringhieri. La quarta si segnala per la prefazione di Cesare Cases. È peraltro la sola a restare in circolazione e a risultare facilmente rintracciabile. 6 Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura e con introduz. di Clara Gallini, Einaudi, Torino 1977. La seconda edizione è del 2002. Ma l’introduzione, notevolmente ridotta rispetto alla precedente, risulta cofirmata da Clara Gallini e da Marcello Massenzio.

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invece, è che si possa parlare tout-court di un movimento di «ritorno» del libro del ’77 e vederlo senza mediazioni come un segno della continuità tensionale che ancorerebbe la ricerca sulle apocalissi culturali ai nodi storicistici ingenerati dal libro del ’48, in una sorta di ripresa allargata e risolvente delle loro metanoie. Certo, parlare del libro postumo come di un libro che, in alcune sue parti, «ritorna» con insistenza al libro sul magismo è scelta che rischia di operare molte forzature e di apparire già per questo infrequentabile: non saprei dire se il normale lettore potrà restare interdetto e se, al di là di questa «normalità», anche i lettori più avvertiti possano provare sconcerto. So che l’angolatura privilegiata qui è una mia vecchia ossessione e che essa domina fin dagli inizi i lavori miei dedicati al «maestro». Non ignoro, naturalmente che, fin dagli inizi, questa angolatura ha suscitato perplessità e che ha dato luogo a dissensi e ad argomentate obiezioni. Nella misura del possibile, ne ho preso atto, cercando di essere più preciso. Non tanto per abbandonare un’ottica che continuo a ritenere feconda, quanto per attrezzare meglio la convinzione della sua applicabilità. Anche se impalpabile e sfuggente, la circolarità tra le due opere è idea che continua a corteggiare il pensiero e a imporsi con certa evidenza alla percezione quando diventa prevalente l’interesse a guardare da lontano l’insieme del corpus demartiniano. Tutto diventa forse più trasparente se si cerca di ricostruire i contorni di questa circolarità entrando nelle vicende dell’«autocritica» e tentando di ritrovare la figura di una linea che ritorna su se stessa in cerchio, secondo una dinamica di ripresa-rilancio volta a riammettere i passaggi inizialmente ritrattati e via via sottoposti a «ri-considerazione». Si potrebbe facilmente cominciare a vedere che la Fine del mondo torna davvero al Mondo magico e ai suoi nodi più importanti, rovesciando le forme iniziali dell’«autocritica» e dando crescente consistenza agli aspetti controdeduttivi che avevano cominciato a modificare in modo sostanziale il segno depressivo di quell’autodiscutersi. In effetti, la questione della circolarità

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si connette in modo molto stretto alla questione dell’«autocritica»7 e seguire quest’ultima per tutto il corso del suo divenire dialettico significa trovarsi coinvolti a poco a poco nella spirale del pensiero che torna sui propri passi, accennando in modo sempre più chiaro al cerchio. Poco importa che l’opera postuma resti in qualche modo esterna alla processualità di questo farsi e intervenga sull’insieme come un suggello finale, molto interessato a chiudere da un punto di vista prospettico diverso le tensioni tematiche dell’«autocritica»: quel che conta è che, grazie alla Fine del mondo, il processo si concluda in modo circolare e che il Mondo magico ne esca pienamente riabilitato. Sappiamo che il processo autocritico viene innescato dalle obiezioni mosse da Croce e da Paci a quest’ultimo8 e non si esagera se si afferma che tutta la storia dell’«autocritica» può essere letta come la lunga risposta data da De Martino ai suoi interlocutori. Parlo di «risposta lunga», perché si tratta di una risposta che si articola nel

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Come ho cercato di chiarire nel corso di “L’«autocritica» come problema” (lo si veda in appendice al mio Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’«autocritica», Aìsara, Cagliari 2010), è soprattutto il momento iniziale a far pesare anche sugli sviluppi successivi l’idea di un’autocritica tendenzialmente ripiegata sulla ritrattazione delle grandi metanoie del Mondo magico. Malgrado i capovolgimenti controdeduttivi che si incontrano più tardi, il concetto, nelle valutazioni degli interpreti, resta fortemente segnato dagli aspetti acquiescenti delle prime formulazioni. È probabile che, col rendere poco esplicite le dinamiche controdeduttive della «ripresa-rilancio», De Martino abbia contribuito in modo consistente agli equivoci che avvolgono tutte le pieghe del «problema». Certo è, però, che, dopo La fine del mondo, il senso complessivo dell’«autocritica» si chiarisce nelle sue intenzioni di fondo, e che piuttosto improprio risulta considerare «autocritici» anche i momenti specificamente impegnati nel riscatto teorico delle metanoie ritrattate. 8 A partire dalla seconda edizione (1958) de Il mondo magico, gli scritti di Croce e di Paci a cui sto facendo riferimento sono rintracciabili fra i testi raccolti in appendice.

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lungo periodo e perché passa attraverso fasi differenti. Ma è bene tener presente che, formalmente, essa – salvo che nella fase delle ammissioni acquiescenti – non è quasi mai una risposta esplicita e diretta e che la funzione-risposta viene perlopiù affidata alla capacità assertiva delle cose. Che si tratti tuttavia – e comunque – di una risposta, viene detto bene dalla natura quasi puntualmente speculare del ventaglio tematico-argomentativo scelto da De Martino nel suo lungo e controdeducente ripensare i termini della discussione sorta allora, quando il Mondo magico era ancora fresco di stampa: questo ventaglio sembra essere rimasto sintonizzato per anni sulle tensioni autodifensive messe in movimento da quegli stimoli lontani e non c’è difficoltà a convincersi che il punto di partenza non è stato mai dimenticato o che, sia pure sottotraccia, il dialogo con gli interlocutori di allora non è mai venuto meno. Qualche notazione-spia presente nella Fine del mondo 9 continua a confermarlo in modo meno indiretto nella fase più tarda, sebbene, a quel punto, non esista più la necessità del contendere e le tensioni autodifensive abbiano ceduto il passo, già da un po’, alla piena consapevolezza del «rilancio» realizzato. Ma andiamo per ordine. Converrà ricordare, innanzitutto, quali erano i termini del punto di partenza a cui ci stiamo riferendo e a quali rilievi di Croce e di Paci le vicende – ritrattatorie e no – dell’«autocritica» abbiano cominciato da subito a rispondere. Del Mondo magico, non erano piaciuti a quei primi lettori né il tentativo di ricondurre alla storia la genesi del Sé, né il pensare il magismo come l’inizio della storia, né la messa in causa del nostro concetto di realtà. Se l’ultimo punto non emergeva in forma molto

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Si veda, per esempio, la nota 349 a p. 642.

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esplicita e andava a mescolarsi agli altri due, era poi sull’analisi di questi altri due che reagivano con forza le radicate convinzioni socio-etnocentriche dell’«Einstellung culturale dell’occidente» riproducentisi nell’ottica ontologizzante dei due autorevoli lettori. Stranamente, proprio il creatore dello «storicismo assoluto» trovava inattendibile e teoreticamente poco giustificata la «storicizzazione delle categorie», sostenendo che non si potesse mettere in causa la dimensione del categoriale senza confermare l’apriorità della stessa o senza portare acqua al mulino della sua necessità ontologica. Tentare di «storicizzarla», facendola nascere nel caos ancora informale della processualità empirica, voleva dire non aver tenuto presente il valore del suo essere principio formante e dunque finire in modo inevitabile nella pericolosa paradossia della sua inversione logica. In forma non molto diversa, peraltro, l’assunzione del magismo come età storica presupponeva lo stesso tipo di inversione e poteva essere considerata come la prima conseguenza degli adynata illusoriamente osati sul piano delle categorie. A distanza di tempo, e dopo tanto parlare di questi nodi, è probabile che oggi non si abbia più la percezione del microdramma che stava accadendo. Sicuramente ci sfuggono la portata e la forza di impatto delle obiezioni mosse allora da Croce, e forse ancor più ci sfugge la complessità dello sconcerto che De Martino può aver provato. Se nei suoi tratti prolegomenici il Mondo magico si era proposto di radicalizzare lo «storicismo assoluto» e di ottenere dai suoi ardimenti metanoetici gli strumenti più adatti per rovesciare nel contrario la nozione di «realtà» prodotta dall’«Einstellung culturale dell’occidente», le obiezioni di Croce si allineavano inaspettatamente proprio con il formalismo razionalistico di quell’Einstellung, determinando lo snervamento degli aspetti «critici» più qualificanti del libro. In sostanza, venivano colpiti i tratti che erano molto piaciuti a qualche solitario hegelo-marxista del momento (penso a Renato Solmi, grande estimatore di quella lettura demartiniana del magi-

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smo),10 ovvero finivano per essere liquidate tutte le strutture portanti dello storicismo radicale posto alla base del progetto prolegomenico. In effetti, nei rilievi di Croce, la straordinaria angolatura storicistica dell’insieme si accartocciava attorno al vizio formale di un non-senso e non consentiva che qualcosa, del suo apparato, potesse continuare a sopravvivere in forma dignitosa. Era come se le pagine più oltrepassanti dell’opera appassissero di colpo e diventasse impensabile ogni tentativo di restituirle al loro slancio. Per De Martino il senso di solitudine e di abbandono deve essere stato sconfinato. Come nel caso delle sindromi deiettive messe in movimento da quel «conflitto del profugo» di cui avrebbe parlato Hamer molti anni più tardi...11 Certo, se De Martino avesse avuto meno stima di se stesso, nulla lo avrebbe salvato dagli esiti marasmatici a cui quel conflitto può dar luogo. Le condizioni c’erano tutte. A salvarlo può essere stata la reazione megalomanocentrica scatenata da quell’improvviso sentirsi voce solitaria nel deserto. Ovvero il constatare di avere attorno a sé sordità e inadeguatezza o, a dirla in altri termini, di essere in anticipo sui tempi. Almeno su quelli, piuttosto vischiosi e lenti, della cultura italiana. Vergognosi, talvolta, persino delle proprie potenzialità, come stava dimostrando la «salmodiante» regressione scolastica in cui aveva appena finito di prodursi il padre dello «storicismo assoluto». Secondo alcuni – Cases12 e, più

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Renato Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie, «Il Mulino», A. I (1952), n. 7, pp. 315-327 e, più tardi, Introduzione a Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, p. LIII. 11 Ryke Geerd Hamer, Il cancro e tutte le cosiddette «malattie». Breve introduzione alla Nuova Medicina Germanica, «Amici di Dirk» Ediciones de la Nueva Medicina, Alhaurin el Grande (Spagna) 2004. 12 Cesare Cases, “Introduzione” a De Martino, Il mondo magico (1973), passim e, in particolare, p. XXXV.

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recentemente, Angelini13 – De Martino, nel suo rapportarsi a Croce, non si è mai posto in quella posizione di discepolato subalterno che altri sono portati ad attribuirgli. Anzi. Si potrebbe parlare semmai del contrario, e la probabilità che la reazione di cui sto parlando abbia qualche fondamento contribuirebbe, e non poco, a dimostrarlo. In tal caso bisognerebbe cercare proprio qui la prima radice del lungo processo «riparatorio» (il termine è anche in questo caso di Hamer) messo in atto dalle dinamiche terapeutiche dell’«autocritica». A parte il traslato hameriano di cui mi sto servendo, molte altre cose potrebbero aiutare a tradurre in questo senso il controllo testimoniato dall’autore del Mondo magico nel gestire la situazione apertasi immediatamente a valle dei rilievi crociani. Il fatto che, in antitesi alla più normale tentazione marasmatica di rinunciare a tutto, De Martino scelga la possibilità dialettica di non rinunciare a nulla, accettando naturalmente l’obbligo di mediare adeguatamente le condizioni di questa scelta, è già un dato che parla in modo significativo del suo proposito di non demordere e di continuare a mantenersi all’altezza degli hasards teorici del libro sul magismo. Croce è certo un ingombro inaggirabile e, per il momento, la possibilità di procedere per la strada intrapresa passa in modo necessario attraverso la metis dell’acquiescenza. Ma si tratta di un’acquiescenza sostanzialmente formale. Quando affiora, è solo ufficialmente dichiarata e di fatto non si accompagna a qualche forma di acquiescenza in grado di condizionare le angolazioni storicistiche della ricerca. In realtà, nessun lettore demartiniano ha mai percepito il venir meno di qualche cosa o il flettersi dei registri che reggono il taglio metanoetico del Mondo magico.

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Pietro Angelini, Ernesto de Martino, Carocci, Roma 2008, p. 50.

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Credo che si possa capire tutto questo se si entra un istante nello spazio della metis e tra le pieghe che nascondono le sue astuzie.14 Entrare qui vuol dire, peraltro, entrare tout-court negli spazi dell’«autocritica» appena avviata e imbattersi subito nella fase che altrove chiamo «depressiva». Si tratta della fase iniziale, ovvero della fase che ha fatto pensare a un De Martino remissivo e molto propenso a rientrare senza resistenze nei territori dell’ortodossia crociana di provata fede. Non è un caso che i segni di tale «autocritica», quando appaiono, abbiano proprio il sapore autosacrificale degli auto da fé e consentano di parlare di una resa senza condizioni. Sebbene in modo ancora implicito, vi si imposta la decapitazione delle metanoie più avanzate della radicalità storicistica di quei «prolegomeni» e cominciano a dispiegarvisi le ritrattazioni apertamente riconosciute più tardi da alcuni testi appartenenti alla fase successiva. Accanto e al di là delle tesi che assumevano la magia come inizio della cultura e della storia, è sicuramente la «storicizzazione delle categorie» il nodo metanoetico più sottoposto ai processi di smantellamento messi in cantiere da questo sacrificale ritrattare. La fase di cui stiamo parlando può essere fatta partire dall’introduzione a L’origine dei poteri magici di Durkheim, Hubert e Mauss,15 uscito nella «collana viola» nel ’51, e può essere data per chiusa nel ’56, anno di apparizione di Crisi della presenza e reinte-

14 Il termine metis ricorre con frequenza nelle mie letture demartiniane. Con esso ho sempre inteso riferirmi agli aspetti aggiranti e, in qualche modo, «astuti» delle tessiture argomentative che strutturano la maggior parte della produzione sorta a valle del Mondo magico. Non a caso lo traggo da Marcel Detienne e Jean-Paul Vernant (Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1978) che mostrano come, nel linguaggio dei classici, la parola metis, accanto alle «astuzie dell’intelligenza», designasse anche accortezza, senno, capacità di destreggiarsi con abilità nelle situazioni difficili. 15 Emil Durkheim, Henri Hubert e Marcel Mauss, Le origini dei poteri magici, Einaudi, Torino 1951.

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grazione religiosa,16 che segna l’inizio di un’altra fase. Non è dunque una fase breve: anzi, proprio perché è la fase che va preparando in silenzio il piano strategico delle fasi successive, essa è necessariamente lunga e laboriosa, oltre che tormentata. È per eccellenza la fase della metis, o almeno la fase in cui la metis parla il linguaggio ufficiale dell’abiura e, implicitamente, della «depressività». Qui De Martino investe molto sul piano tattico: a parte i mea culpa indiretti espressi nell’introduzione del ’51, direi che egli ricorre senza mezzi termini a forme di acquiescenza molto esplicita, mostrando di aver fatto tesoro di quel surplus di ortodossia storicistica impartitogli da Croce. È quello che accade, per esempio, nel tessuto di Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto,17 del ’53-’54. Difficile non vedere quanto, in questo testo, De Martino tenda a collocare sotto il segno della più pura tradizione crociana le pieghe del proprio storicismo. Addirittura le fa coincidere con quelle dello «storicismo assoluto». Dubito molto, infatti, che la presenza di questa locuzione nel titolo voglia essere un rimando solo a Croce e non anche alle posizioni che egli va mostrando di sé. Rinunciare al proprio radicalismo, al fine di ritrovare credito sul piano di quella ortodossia, non è cosa che abbia da restare segreta: direi anzi che, all’interno di queste pieghe, è la funzione manifesta più destinata a diventare ufficiale. Ora però, se nei passaggi ritrattatori che stiamo attraversando la funzione manifesta più visibile ha da essere questa, è innegabile che il suo senso debba essere rintracciato più in là. Senza una ragione

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Ernesto De Martino, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut-aut», 6, 1956, pp. 17-38. 17 Ernesto De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 24-25, 1953-54, pp. 1-25. Lo si veda ora in Ernesto de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di Marcello Massenzio, Argo, Lecce 1995.

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«altra» – decisamente altra da quella ufficialmente dichiarata – resterebbero enigmatiche (e abbastanza prive di direzione) le premure che De Martino mostra di avere nei confronti di quel suo mettersi in posa accanto a Croce. Tanto più che ci si potrebbe immediatamente chiedere perché mai, in vista di un obiettivo così modesto, l’autore del Mondo magico, accetti di pagare un prezzo così alto. In realtà, la cosa che veramente conta non sta in questo dar da vedere di essere rientrato nei ranghi: sta semmai nella ragione che rende strategicamente necessaria questa visibilità dell’apparire. Dietro la funzione manifesta di cui stiamo parlando, c’è di fatto la funzione latente delle sue ragioni più vere, lo scopo inespresso di questo sacrificale allinearsi. Esso è dato dal bisogno di evitare il naufragio di quella parte del Mondo magico che era uscita stranamente indenne dalle letture recensorie dei suoi primi interpreti e che sopravviveva al naufragio di tutto il resto, in una situazione di buona autonomia, ancora suscettibile di sviluppi fecondi. Non si trattava, certo, di una parte inequivocabilmente «blindata» e tale da allontanare da sé le occhiute ronde della critica. Intrisa com’era di apporti fenomenologici e di suggestioni heideggeriane, De Martino sapeva bene quanto poco bastasse per ritrovarsela tra le mani come oggetto incriminato e messo in causa in quanto prova di irrazionalismo: nel clima di caccia alle streghe che avvolgeva la cultura italiana di quel secondo dopoguerra (e lui stesso, non meno di Vittorini, ne aveva già fatto esperienza), non era pensabile l’idea di lasciare senza adeguata tutela un insieme ermeneutico così delicato. Occorreva trovargli subito un ricovero sicuro, uno scudo protettivo di provata efficacia: soprattutto occorreva cercare di battere sul tempo i possibili detrattori: che potevano essere molti e nient’affatto imprevedibili: oltre che dagli spazi della sinistra zdanovista, le accuse di irrazionalismo potevano arrivare dagli spazi dello stesso crocianesimo. Da questo punto di vista, Fenomenologia religiosa è un testo esemplare: oltre che paradigma della fase «depressiva», esso è una eccellente dimostrazione della dialettica che si viene a instaurare

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tra la funzione manifesta di quel ritrattatorio ritorno a Croce e la funzione latente che esso mira a realizzare. Le prove di crocianità esibite qui hanno lo scopo di proteggere le posizioni ermeneutiche di De Martino dal rischio di poter apparire come una posizione fenomenologica assimilabile al fenomenologismo delle posizioni di van der Leeuw, che costituiscono l’oggetto-pretesto del saggio. Devono cioè costituire la sponda di appartenenza teorica in grado di legittimare il gioco di distanziamenti che il discorso tende a mettere in luce tra un «capire fenomenologico» storicisticamente consapevole (quello che De Martino attribuisce a se stesso) e un «capire fenomenologico» esposto al rischio della «partecipazione mistica» (quello che viene attribuito, invece, al fenomenologismo di cui van der Leeuw è sostenitore). La funzione latente di quel «crocianeggiare» demartiniano risponde dunque al bisogno di stornare dalla parte del Mondo magico rimasta incolume (a cui implicitamente si allude) quelle stesse accuse di irrazionalismo che l’autore del saggio sta muovendo a van der Leeuw. Ma qual è la parte del Mondo magico di cui stiamo parlando e di cui, in concreto, non abbiamo detto ancora nulla? Che cosa spinge De Martino a ritenerla irrinunciabile e a tentarne a tutti i costi il salvataggio? Questa parte, come verrà chiarito dalla «postilla conclusiva»18 che chiude la seconda edizione del libro (quella del ’58), è l’insieme dell’apparato ermeneutico che accompagna il nesso «crisi della presenza-riscatto»: anzi, è tout-court quest’ultimo. De Martino, per distinguerlo dalle parti ritrattate, lo chiama il «nucleo valido», ovvero la parte ufficialmente ancora futuribile di quel progetto prolegome-

18

Quelle che si usa ormai chiamare «postilla conclusiva» sono le «Osservazioni conclusive dell’autore» che chiudono la seconda edizione (1958) de Il mondo magico. Le si veda qui, alla p. 313.

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nico. È sicuramente il versante più nuovo e più spiccatamente demartiniano del libro, e anche dal punto di vista terminologico appare come una creazione straordinariamente ricca di risorse analitico-interpretative: non stupisce che, già per questo, l’autore potesse volerne in modo strenuo la durata. Del resto, la problematica della «presenza», che verrà dispiegandosi senza sostanziali mutamenti sulla maggior parte della produzione data alle stampe, incontra proprio qui la messa a punto che la ha resa celebre, o almeno la definizione che comincia a proporla nella forma più organizzata. È evidente che chiamarla solo «nucleo valido» significherà limitarsi a designarla solo in rapporto alle cose che cadono e schermirsi sul valore reale della sua portata: ma certo non è senza senso che, nella critica, tale designazione sia riuscita a sopravvivere alla banalità della propria forma e a diventare tout-court l’equivalente del contenuto che designa: vuol dire che la pregnanza del contenuto ha avuto il potere di impregnare di sé quell’involucro e a caricarlo di una forza evocativa in grado di oltrepassare le dissimulazioni riduttive dell’originario schermirsi. Forse non è inessenziale notarlo, se ci preme far risaltare anche in modo indiretto l’importanza di questi aspetti. Tuttavia si farebbe torto proprio a questa importanza nel caso non si portasse il discorso sul terreno delle cose che la spiegano. Il farsi magico della «presenza» è già dentro il nodo della «storicizzazione delle categorie» e anzi, dal punto di vista teorico, ne costituisce il presupposto di fondo, sebbene, sul piano pratico, si configuri come il primo effetto di quella impostazione metanoetica. Per poco che si entri tra le maglie dell’insieme, si capisce subito, per esempio, che nello schema fondamentalmente hegeliano del libro esso funziona come il punto di inizio del racconto che mette capo al Sé. In realtà, è proprio dalle incerte dinamiche di questo faticoso «farsi» che incomincia il distacco dalla immersione coinonica nella natura. Tutto ruota attorno al fulcro di questa «presenza-problema» e il «dramma magico» si dispiega per intero sotto il segno delle sue vicende «critiche», fino a disegnarsi come l’incipit di qual-

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che elementare abbozzo di «storia». È l’incunabolo di una genesi: di quella dello «spirito soggettivo», se si torna alla Fenomenologia di Hegel; di quella del «Sé in via di formazione», se si resta a De Martino. Il suo ruolo nel progetto di «storicizzazione delle categorie» è evidente, e si capisce come i suoi primi interpreti possano aver colto prima di tutto il senso proiettivo di questo ruolo, prestando poco interesse alle condizioni «accidentali» del suo progettarsi. E non a caso. Va infatti notato, come aspetto importante, che il «problemapresenza» si sviluppa in modo sempre più intenso sui versanti del nesso «crisi-riscatto» e che i suoi tessuti costitutivi si formano di preferenza nelle situazioni più caratterizzate dalle dialettiche reiterative delle funzioni simboliche. Gli effetti più vistosi sono, da una parte, l’impressione di un relativo sganciamento del nesso «crisi-riscatto» dal piano teorico più direttamente convergente sul tema delle categorie, dall’altra, l’impressione di una lateralità separata di tutta la parte dominata da un linguaggio che è già quello storico-religioso riservato al mondo del mito (e poco importa che si tratti ancora di micromitologie). Accade così che, se il processo del distacco metacoinonico appare strettamente legato alla metanoia destinata a cadere, la vicenda messa in campo dalla «presenza-in-crisi» comincia invece a svilupparsi in una sua autonomia, ritagliandosi spazi che non verranno trascinati nel gorgo delle ritrattazioni. Negli sviluppi della metis questa circostanza assume un rilievo nevralgico. De Martino sfrutterà a fondo lo spazio-differenza che consente ai due versanti del «problema-presenza» di non coincidere in toto. Affidandosi all’involucro di un’apparenza che nessuno ha ancora pensato di lacerare, egli cercherà di trasferire sul «nucleo valido» del Mondo magico le dinamiche storicizzanti delle metanoie che ha accettato ufficialmente di ritrattare. E si deve all’uso ininterrotto di questo «nucleo» se gli effetti dell’«autocritica depressiva» non arriveranno mai a diminuire la qualità decisamente alta delle cose demartiniane apparse a valle di quelle ritrattazioni. Qualcuno ha addirittura sostenuto che la realtà di queste ritrattazioni sta solo nei

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passaggi demartiniani che ne parlano ufficialmente: per il resto, neppure i testi che avrebbero dovuto restarne più segnati ne conservano qualche visibile traccia. La cosa, a mio avviso, è in gran parte vera. Tuttavia, che l’operazione di trasferimento sia riuscita bene non deve appiattire in un eclissamento il gioco delle ritrattazioni: la stessa operazione del trasferire le presuppone in modo necessario. Dopo le notazioni critiche di Croce, esse non avrebbero potuto non esserci: sia dal punto di vista di un inevitabile dover tornare sui punti incriminati, sia dal punto di vista dei percorsi tattici che la metis aveva cominciato a elaborare, il loro prodursi si era presentato da subito in forma cogente. La sola via d’uscita, in quel momento, poteva esser data dalla possibilità di trasformare in «virtù» le strette di un passaggio obbligato. Resta il fatto che il «nucleo valido», senza modificare nulla della propria struttura, diventa a poco a poco un Ersatz o un provvisorio luogo di tramite-continuità incaricato di far passare sotto altra forma le cose che non potevano più essere dette nel linguaggio delle metanoie messe al bando. È dunque per questo che De Martino si precipita a metterlo in salvo e a rafforzarlo sui lati che avrebbero potuto esser presi d’assalto. La sua funzione di ponte diventa insostituibile e tutta la fase dell’«autocritica depressiva» lavora con certa alacrità alla sorveglianza armata di questo ponte. A questo modo, dunque, cominciano a sbloccarsi le impasses della prima ora e a diventare sempre più numerose le «fermate» che segnano il procedere del movimento di «andata». Tutta la stagione che va dal ’48 al ’56 è ricchissima di prepotenti affermazioni del «nucleo valido». Si pensi a cose come Note lucane,19 Angoscia

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Ernesto De Martino, Note lucane, in «Società», 5, 1950, pp. 650-667. Ora anche in Furore Simbolo Valore, Il Saggiatore, Milano 1962.

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territoriale,20 Note di viaggio,21 o a cose come quelle destinate a confluire nel libro sul lamento funebre: delle metanoie rigettate non c’è più traccia, ma non se ne sente neppure la mancanza: segno che la capacità di riempire quel vuoto, da parte del «nucleo valido», ha una consistenza reale. Ma, se il lettore non avverte disagio e vive questo «andare» come un prolungamento del Mondo magico, De Martino freme. Anche se generoso e ricco di risorse nel suo sforzo di traghettare il senso mutilato, il «nucleo valido», su questo piano, è pur sempre un Ersatz. Gli mancano gli orizzonti della teoria. Allude più di quanto non dica e, in questo doversi limitare solo ad alludere per non poter anche dire, sta la sua debolezza. Le cose cominciano a cambiare, però, nel ’56, quando appare Crisi della presenza e reintegrazione religiosa. Il testo della «svolta». Qui l’«autocritica» compie un salto di una certa importanza: dalla fase «depressiva», passa a una fase che potremmo chiamare «controdeduttiva». Se è vero che il controdedurre è generalmente un opporre argomenti ad altri argomenti, è sicuramente di natura controdeduttiva il tipo di discussione che De Martino contrappone alla discussione recensoria dei suoi primi interpreti. Dopo aver ammesso in termini espliciti (cosa del tutto nuova) la «fondatezza» dei rilievi sollevati dai suoi recensori, dimostrando ancora una volta acquiescenza e ampia concessività, l’autore del Mondo magico imbocca un sentiero argomentativo che non è frontalmente contestatorio, ma comincia ad avanzare considerazioni destinate a

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Ernesto De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini. Contributo allo studio della mitologia degli Aranda, in «Studi e materiali di Storia delle Religioni», XXIII, 1951-52, pp. 51-66. Lo si veda ora nella seconda edizione einaudiana (1958) de Il mondo magico e nelle successive pubblicate dalla Boringhieri. 21 Ernesto De Martino, Note di viaggio, in «Nuovi Argomenti», 2, 1953, pp. 47-79.

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indebolire – e non poco – i presupposti teorici di quei rilievi. Un innocente (in apparenza) e neutro «tuttavia», posto alla fine del discorso concessivo, avverte il lettore che il senso di marcia si sta invertendo. E per quanto De Martino lo faccia in modo attenuante e molto garbato («tuttavia», come avverbio avversativo, è sempre quello che vorrebbe avversare di meno e smussare di più), la svolta che si determina assume già da subito il sapore di una virata decisiva. Si modifica di molto, per esempio, lo scenario delle condizioni entro cui la discussione sul Mondo magico si era svolta. Se Croce e Paci avevano prevalentemente parlato della categorialità del Sé riferendola a un soggetto individuale assoluto (a un «soggetto senza mondo», avrebbe detto Heidegger), De Martino, senza abbandonare del tutto l’ambito di questo soggetto individuale, sposta il discorso sui fronti della cultura e della storia, scegliendo di entrare criticamente nel terreno presupposto all’ottica dei loro rilievi. Ovvero lo fa convergere proprio sui luoghi in cui, ben più acquisito e più consolidato che nella cultura magica, il Sé si sente realizzato o, a dirla con Hegel, «si sente a casa propria». Il primo passo «controdeduttivo» muove, naturalmente, in direzione di questo nodo. È un modo di dare continuità logica alla esposizione del contenzioso riguardante il libro del ’48 e di situare il discorso nello spazio delle sintonie frequentate dai due interlocutori. Sicuramente, però, è anche un modo di agganciare il tema del Sé per cominciare a fletterlo verso un altro punto di vista e sottrarlo, così, all’angolatura prospettica dominante in quelle sintonie. Nelle osservazioni di Croce e di Paci, una contraddizione del modo demartiniano di porre il problema della «presenza» era data dalla sua «pretesa» di farla nascere come risultato del suo stesso agire, ovvero come sintesi a posteriori di un’esperienza che, per poter essere tale, non avrebbe potuto fare a meno di presupporla. A vietare la possibilità di questa inversione e a farla diventare una paradossia, c’era il fatto che l’unità della presenza non è separabile dalle forme del suo articolarsi e che impensabile sarebbe l’idea di

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un «taglio» fra il centro cosciente di questo articolarsi e le sue articolazioni. Anche se detto in modo implicito e dentro argomenti di natura prevalentemente logica, il sostegno ontologico di queste osservazioni non era certo dissimulato. Come lasciavano ben capire le insistenze sulle prerogative categoriali del Sé, esso finiva per essere – anzi – il dato teorico più rilevante di quell’argomentare e sappiamo che il sacrificio delle «pretese» metanoetiche del Mondo magico si era in gran parte compiuto sull’altare delle istanze aprioristiche fatte valere dai due illustri lettori. Restava però nell’ombra, in tutta la fase «depressiva» dell’acquiescenza demartiniana, la questione del «taglio»: a essa la concessività degli episodi autocritici che abbiamo attraversato non sembrava accordare una esplicita attenzione. È vero che in qualche passaggio indiretto (per esempio, nell’introduzione del ’51) De Martino aveva mostrato di essere acquiescente persino su questo punto, tuttavia il consenso alla tesi sull’impossibilità di questo «taglio» sembrava essere tale solo sul piano logico e non sembrava estendersi anche al piano delle sue implicazioni ontologiche. Formalismo per formalismo, benché ambiguo e poco definito, il silenzio sull’impossibilità ontologica di quel «taglio» c’era e poteva essere constatato. In tutti i casi, quale che fosse lo status del suo consistere, l’assenza di un pronunciamento esplicito in questa direzione era adesso la cosa che occorreva di più: gli consentiva di non restare impigliato in un mea culpa imbarazzante e di tornare all’argomento quasi ex novo, come se quel punto non avesse mai fatto parte delle cose ritrattate. Glissando un po’ sulle vecchie compromissioni, De Martino deciderà, non a caso, di far partire da qui l’autodifesa «controdeduttiva», cercando di ribaltare a suo favore una delle argomentazioni a carico più stringenti. Crisi della presenza fa dunque fulcro su questo particolare nodo e contrattacca gli argomenti dei due interlocutori, ponendo qualche domanda. Ma il procedimento del contro-argomentare si presenta significativamente rovesciato: dall’individualità della persona ma-

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gica si sposta all’individualità del soggetto messo in campo dagli apriorismi di Croce e Paci. È proprio vero che l’unità del Sé e della sua autocoscienza non patiscono i «tagli» lamentati a proposito del Mondo magico? O meglio, si è sicuri che, anche nelle situazioni pensate come le più solide, non esista il pericolo della estraneità del Sé a se stesso? In antitesi alle sicurezze ostentate dalla sicumera del Sé socio-etnocentrico, le scienze del psichico parlano proprio del contrario e lasciano capire quanta fatica costi mantenersi all’altezza dell’unità trascendentale dell’autocoscienza. Da Janet a Freud, l’ampiezza delle dissociazioni a cui si può essere soggetti è una continua smentita del linguaggio categoriale entro cui l’enfasi del Sé-divenuto ama raccontarsi, e non c’è dubbio che, in luogo di una «presenza» rocciosamente stabile, si abbia perlopiù una «presenza» a rischio. Anche quando non si mostra palesemente in atto, il «taglio» continua a essere una minaccia incombente e nulla può garantire l’approdo definitivo a una condizione di fuori pericolo. Di fatto, se ci si guarda attorno, non occorre molto per accorgersi che la supposta solarità del Sé categoriale è più velata di quanto non si pensi, o per accorgersi che basta davvero poco per oscurare del tutto la sua luce. Del resto, al di là della malattia mentale vista come rischio accidentale, Hegel aveva già individuato nella normale fisiologia dello Spirito la presenza di dinamiche dissociative e alienanti. La fissazione nella particolarità che può impigliare il «sentimento di Sé» (la «presenza»), impedendogli di oltrepassare la situazione critica polarizzante, è già un «taglio» che interrompe la comunicazione dialettica del Sé con se stesso e la rende impermeabile al mondo. Perché stupirsi, allora, se nell’età magica la «presenza» in fieri viene vista come una condizione bilanciata tra momenti di precaria conquista e momenti di riflusso nel coinonico? Quest’ultima domanda è nelle intenzioni di De Martino, ma non viene posta. La strategia «controdeduttiva» del saggio non prevede passaggi tattici di scontro frontale e preferisce tessere trame di lento avvolgimento aggirante. Alla disontologizzazione dei termini coin-

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volti in quei problemi, il controdedurre sceglierà di arrivare a piccoli passi, disinnescando e smontando dall’interno, piuttosto che tentando di trarre già da subito le conclusioni del suo tessere. Fin qui, dunque, il problema della «presenza» e della sua storicizzabilità, oggetto, l’una e l’altra, del primo passo «controdeduttivo». A questo punto, naturalmente, il secondo passo. Quello in direzione della storia e della cultura. Il paesaggio cambia in misura sensibile, ma il nodo da sciogliere non è diverso: continua a essere ancora quello del «taglio» e della sua impossibilità ontologica. Legate come sono alla dimensione-tempo, nemica irriducibile della metafisica, la storia e la cultura non parlano quasi per nulla il linguaggio dell’ontologia: in modo puntuale e inoppugnabile ne smentiscono anzi la sicumera, provando che il «passo eroico» della storia che avanza è un passo continuamente minacciato dal rischio di possibili regressioni. Parlare della storia vuol dire parlare soprattutto della sua «debolezza» e neppure per le età notevolmente divenute o apparentemente esenti da problematiche drammatizzazioni dell’«in-esserci» è possibile parlare di qualche ragionevole distanza dalle sindromi di questa «debolezza». Forse, l’idea di progresso che accompagna normalmente la nostra idea di storia ci aiuta a mascherare in qualche modo e a rimuovere gli elementi che parlano della sua precarietà: né è forse un caso che la cultura occidentale si sia attribuita apotropaicamente un destino di crescita lineare fatto apposta per accordare poco spazio alla possibilità del contrario: il telos che nasceva sotto segno cristiano, prima che un segno di trionfo, era forse già il segno di una necessità esorcistica. Di fatto, come prova l’ecumenicità del bisogno di metastoria che caratterizza le culture umane, il bisogno di compensare in cielo ciò che è carente in terra non è cosa che possa deporre a favore dell’impossibilità ontologica di un «taglio». La ricerca di una protezione mitico-numinosa della condizione quotidianamente immersa nelle incognite del tempo dimostra, anzi, che l’Erlebnis più frequente della mondanità è proprio quella che nasce dal senso di una fini-

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tudine «tagliata» e «gettata nel mondo», preda all’evenemenzialità più rischiosa e alla morte. In fondo, con le sue risorse suturanti, la religione è forse il documento più testimoniale dei «tagli» esistenziali sofferti dalla storia. La «reintegrazione religiosa» di cui parla il titolo del saggio ha il suo correlato più reale in una «crisi della presenza», che non è più solo di natura soggettiva, ma si estende alle strutture intersoggettive della cultura e della storia. A patire la precarietà dell’«esserci» non è solo l’individuo isolato: prima di lui e attraverso di lui anche gli insiemi collettivi e comunitari fanno drammatica esperienza della fondamentale insicurezza che inerisce al semplice trovarsi trascinati senza difesa nel flusso del divenire. Non per nulla gli approdi agli orizzonti della metastoria che hanno segnato le culture umane sono sempre stati di tipo collettivo e hanno parlato il linguaggio, tutt’altro che privato, di un «male di vivere» di volta in volta specifico e diverso solo per l’accento. Verrebbe da chiedersi a questo punto se, piuttosto che della impossibilità ontologica del «taglio», non si debba parlare più propriamente della ontologia che lo fa essere, sempre e dovunque, un ineliminabile incombere. Ovviamente, anche qui, come nel caso della possibile qualità esorcistica del telos occidentale, De Martino non pone domande esplicite: ma certe valenze sporgono con forza dalle traiettorie del suo dire e chiedono di trovare il loro completamento nella mente del lettore. La tecnica di un suggerire che dica «più in là» della parola aperta è parte sostanziale del regime tattico che accorda allo sviluppo del saggio solo percorsi calcolatissimi ed essenziali. Tutta la parte dedicata alla «reintegrazione religiosa» è, senza dubbio, sotto questo segno tattico e entra in campo come un aspetto di grande peso metaforico. Quanto più dice di sé (e si tratta, è bene notare, di uno dei luoghi demartiniani più riusciti per ciò che riguarda l’esposizione del nesso «crisi-riscatto»), tanto più essa dice del «taglio» che segna l’esperienza depressiva della storicità. E agli argomenti che, dalla «crisi della presenza» individuale, erano passati alla «crisi della presenza» della/nella storia, essa ag-

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giunge un surplus argomentativo particolarmente ricco di autonoma pregnanza. Come se dovesse appartenerle il potere di riuscire a tenere aperto il problema della «debolezza della storia» anche nel caso che una certa quantità di prove contrarie tentasse di riportare il discorso alla falsa coscienza di cui si è spesso nutrita l’enfasi del «passo eroico». In realtà, il discorso storico-religioso si discosta di molti gradi dal discorso ingenuamente ontologico dell’umanesimo più compiaciuto di sé e sa di potergli contrapporre quella consapevolezza della «criticità» del mondo che i retaggi antropocentrici della tradizione egemonica occidentale hanno messo in ombra. Probabilmente non è un caso che l’interesse di De Martino per le problematiche religiose diventi, a partire da qui, sempre più forte e si faccia determinante nella scelta disciplinare che lo porterà a volersi più storico delle religioni che etnologo. Di questa consapevolezza, il saggio demartiniano del ’56 è profondamente permeato e certo non potrà sfuggire che le eccedenze di questo surplus ricadono senza perdite sull’oggetto del primo passo «controdeduttivo». Che è un luogo importante – come abbiamo visto – della strategia volta a ristabilire le condizioni legittimanti della ritrattata «storicizzazione delle categorie». Malgrado la forma ancora ellittica, il cerchio di questo controargomentare si chiude, lasciando al lettore demartiniano un forte sapore di autodifesa e, al tempo stesso, di riavvio. Ma torniamo sui nostri passi. Sul piano dell’«autocritica», che prospettiva si apre dopo questa svolta del ’56? Ovvero, sotto il suo peso, accade qualcosa di rilevante nel percorso di «andata» a cui fa cenno la metafora ferroviaria del nostro titolo? Direi di si. Qualcosa di importante comincia ad accadere. Per come si muove e per il tipo di intenzionalità che lascia avvertire, Crisi della presenza consente di affermare che la forma del suo «andare» è già un andare che volge al «ritorno». La forma, sappiamo, è ancora molto cauta e implicita, ma non così cauta e così implicita da impedire che si in-

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travedano qua e là le céntine che annunciano il tornare su di sé, in «cerchio», del movimento lineare dell’«andata». La Fine del mondo è certo lontana, ma il percorso di «ritorno» su cui verrà a rovesciarsi tutta la sua capacità di risarcimento è in gran parte già presente nelle dinamiche «controdeduttive» di questo saggio. Uno strano documento indiretto dell’importanza reversoria di Crisi della presenza è la «postilla conclusiva» che chiude la seconda edizione (1958) del Mondo magico. La si ritiene, generalmente, uno dei luoghi più «confessi» dell’«autocritica», soprattutto perché drastica e senza mezzi termini vi risulta la ritrattazione delle metanoie più importanti del Mondo magico, ma sorprendente appare e psicologicamente enigmatica l’assenza di dramma che si accompagna a una dichiarazione così grave. È vero che De Martino sta rendendo diretta e ufficiale un’ammissione già più volte fatta in forma indiretta e ufficiosa, tuttavia quell’assenza di trasalimenti continua a porre problemi e ad apparire essa stessa un movimento tattico della metis. Senza le soggiacenze di quest’ultima, in effetti, sarebbe difficile spiegarsi la «tranquillità» di un passaggio ritrattatorio di quella portata. In realtà, i termini del nodo che complica la «postilla» sono già in gran parte noti e andrebbero semplicemente richiamati dai contesti che li contengono. Da una parte, nel suo dare molta visibilità a un sacrificio destinato a proteggere il «nucleo valido», la «postilla» è una sintesi brachilogica di Fenomenologia religiosa; dall’altra, nel suo riferirsi senza dramma a questo sacrificio, essa ha dietro di sé le sicurezze di Crisi della presenza. È come se i due aspetti dell’autocritica – quello «depressivo» e quello «controdeduttivo» – si combinassero qui in una sintesi-bilancio del processo in corso e cominciassero a chiarirsi l’uno dentro l’altro (non è un caso che sia stato proprio l’obbligo ermeneutico imposto dalla «postilla» a stimolare il tipo di lettura che abbiamo applicato a Fenomenologia e a Crisi). Quel che cambia – e che costituisce la vera novità delle «Osservazioni» del ’58 (il titolo vero della «postilla» è appunto «Osservazioni conclusive dell’autore») – è il tono, l’aumento di vo-

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lume che lo fa salire sensibilmente. Perduta gran parte delle velature che lo rendevano sommesso nei testi precedenti, esso ha ora la chiarezza di una progettualità definita. L’impianto tecnico di questa progettualità deriva quasi per intero da Fenomenologia religiosa e continua a parlare il linguaggio depressivo-aggirante di quella metis, ma la sicurezza dell’investire sull’Ersatz del «nucleo valido» ha dietro di sé le risorse «controdeduttive» di Crisi della presenza e sa già di poter trovare altra via per tornare senza perdite ai luoghi di partenza. Da questo punto di vista, lo schema tattico della «postilla» sta nel ripiegare su Fenomenologia per poter proseguire meglio Crisi e andare anche più in là delle sue posizioni. In sostanza, perciò, il rammarico dei lettori demartiniani della prima ora (si pensi a Solmi) non può essere anche un rammarico di De Martino. Il tutto, per lui, è già dentro una traiettoria aggirante – e al tempo stesso di «ritorno» – e poco senso avrebbe esigere da lui un dramma vero o diverso da quello di una compunzione che può essere utilmente recitata. Dicevamo di un tono nuovo, ma dovremmo anche parlare di ciò che lo rende tale e lo fa essere diverso. Dovremmo, per esempio, non trascurare la dimensione proiettiva che lo regge e che lo motiva nella sua progettualità. Direi che in quel Mondo magico 1958, quasi contemporaneo peraltro all’uscita di Morte e pianto rituale, i termini di un possibile movimento di «ritorno» sono già qualcosa di più che un semplice abbozzo progettuale. È come se cominciasse già a esistere l’attesa di un momento opportuno, di un kairòs ophélimos adatto alla ripresa-rilancio delle metanoie decapitate e pronto a gettarsi senza vincoli sui sentieri del «ritorno». Rispetto a Crisi della presenza, è forse proprio questo senso di un kairòs intravisto la cosa che costituisce la vera novità. Esso ha certo molti debiti col testo del ’56 e sicuramente non sarebbe riuscito a ingenerarsi se le pagine di due anni prima non gli avessero aperto il varco: ma, in decisione e determinatezza, lo scarto in avanti che si viene precisando ora non è di poco conto: produce, se non altro,

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un’idea più nitida e più organizzata dei percorsi che è ancora necessario fare per arrivare senza strappi clamorosi alla riabilitazione totale delle parti ritrattate. L’attesa di un kairòs imminente è diffusa in tutta la «trilogia» e si accompagna in modo molto stretto all’uso del «nucleo valido» come Ersatz. Per esempio, in risposta al bisogno di non far sentire la mancanza delle cose cadute, le prove fornite da Morte e pianto rituale 22 e dalla Terra del rimorso 23 sono straordinariamente efficaci e, anche se nel primo di questi due e in Sud e magia 24 non mancano ritorni alla concessività, si avverte bene che la funzione dialettica della loro dinamica autocritica è sotto il segno delle disinvolture senza dramma che definiscono le consapevolezze della «postilla». Tuttavia, la ricerca del kairòs è forse più presente nelle cose che la dichiarano di meno che non nelle cose interessate a renderla visibile. Il caso dell’infittirsi degli aspetti tematici legati al problema della «debolezza della storia» è, da questo punto di vista, esemplare. Sembrerebbe che il tratto dominante di questi versanti sia solo quello riguardante lo smantellamento dell’ontologismo che si era voluto contrapporre alla «storicizzazione delle categorie», piuttosto che non anche quello riguardante il bisogno di trovare il passaggio più giusto per far esplodere la frontalità «controdeduttiva» del progetto «ripresa-rilancio»: ma, se ci si rifà ancora una volta alla distinzione tra funzione manifesta e funzione latente, non è difficile

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Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958. La seconda edizione è del 1975 ed è boringheriana. Per espresso desiderio dell’autore, essa esce col titolo modificato in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria. 23 Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961. Sono numerose le riedizioni, tra le quali va segnalata la terza, del 1976, per l’introduzione di Giuseppe Galasso. 24 Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959.

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accorgersi che la dominanza della funzione smantellamento altro non è che il travestirsi della funzione latente aperta dal kairòs. E questo potrebbe essere constatato facilmente anche per altri nodi. Non può non apparire strano, perciò, che, nonostante la presenza di un kairòs sentito come imminente, la piena messa a frutto degli argomenti «controdeduttivi» impostati nel ’56 venga ancora rimandata. Di fatto, nella situazione venutasi a configurare immediatamente a valle di quel Mondo magico 1958, l’operazione di rovesciamento sembrava poter essere già da subito tentata e nulla sembrava opporsi all’impressione che il «rilancio» stesse per aver luogo. Perché mai, invece del passo atteso, troviamo la lunga dilazione che abbiamo sotto gli occhi? Che cosa potrebbe averla determinata? È forse questo il punto che, da qui in poi, ci catturerà di più. La risposta a questi interrogativi non è per nulla semplice e sicuramente finirà per voler essere anche una risposta alle domande che verranno a porsi a proposito della difficile collocabilità «autocritica» di tutta la fase compresa tra quel ’58 e le prime soglie della fase-epilogo. Intanto, però, è forse opportuno fermarsi ancora un istante negli spazi ermeneutici che la «postilla» si era creata attorno, per chiederci se davvero, in quel momento, le condizioni per l’avvento del kairòs fossero così mature e se davvero mancasse così poco per poter incoccare tout-court le frecce del «rilancio». All’idea di un «rilancio» già possibile allora, può essere ragionevolmente contrapposta un’idea del contrario e, a parte le prove offerte dall’oggettività, non mancano argomenti per sostenere che, se il ribaltamento era già nei fatti, sul piano teorico tutta la questione del contenzioso nato a ridosso del ’48 si presentava ancora irrisolta. Di fronte alla necessità di cominciare a riempire questo vuoto, non era forse inessenziale dare ancora sviluppo alle attenzioni volte a consolidare il «nucleo valido» e insistere sulle strategie della metis. Peraltro, dal punto di vista delle dinamiche «controdeduttive», la «debolezza della storia», nella sua posizione di argomento nevralgico, avrebbe gua-

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dagnato in efficacia se lo si fosse portato anche più in là, spingendolo con decisione sul versante religioso. In sostanza, è assai probabile che, in quel momento, De Martino ritenesse tutt’altro che compiuta la tessitura delle precondizioni destinate a introdurre e a rendere sufficientemente logici gli scarti ribaltanti del kairòs. A compierlo in quella fase, senza aver allargato ulteriormente i margini di sicurezza, il salto nella teoria avrebbe forse rischiato di apparire immaturo e precoce. E si spiega, allora, perché, sotto il segno della «postilla», i lavori della «trilogia» abbiano un costante sapore di prolungamento e lascino avvertire la presenza della lineametis inaugurata dai testi teorici che precedono il ’58. Lo si può dire per la linea-metis che rimanda a Crisi della presenza, ma lo si può dire altrettanto bene per la linea-metis che ha il suo punto d’origine in Fenomenologia religiosa: il fatto che le due linee si presentino spesso intrecciate e rendano difficile il lavoro di distinzione non è cosa che possa diminuire la percezione globale del loro peso: è anzi cosa che ha il potere di accrescerla-confermarla. Se si guarda all’arco della «trilogia» – che è poi l’arco compreso tra il momento della «postilla» e l’«epilogo» –, si direbbe che il «nucleo valido» ne campisce quasi per intero l’estensione, costituendosi – non meno che nel Mondo magico – come condizione insostituibile della corretta intelligenza degli oggetti di volta in volta esaminati. Da Morte e pianto rituale alla Terra del rimorso, il lettore demartiniano si imbatte di continuo in analisi che, sulle capacità ermeneutiche del «nucleo», riescono a dire cose straordinarie e in grado di spostare anche più in là la soglia quasi insuperabile del Mondo magico. Personalmente, per ciò che riguarda il nodo «crisiriscatto», non esiterei a indicare la «trilogia» come il luogo demartiniano più alto o almeno come il luogo dei discorsi, in tal senso, più riusciti. È importante notare, peraltro, come, nel suo proporsi di essere una «storia religiosa del Sud», essa non esiti a cercare i suoi campi d’indagine sui versanti folklorici più manifestamente inclinati in senso religioso. È un modo di investire nella direzione

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indicata da Crisi della presenza e di lavorare a favore delle tesi sulla «debolezza della storia», accumulando altre prove. Che si tratti del lamento funebre mediterraneo o della bassa magia cerimoniale lucana o del complesso mitico-rituale tarantistico, al di là dell’immediato interesse storico-religioso per i singoli fenomeni c’è sempre, anche se in forma mediata, l’interesse disontologizzante per la «debolezza della storia». Il senso del prolungamento è chiaro, e non lo è di meno quello della dilazione. Anche qui, come in tutti i passaggi delle dinamiche «controdeduttive» che abbiamo attraversato, lo spaccato di questo procedere mette in luce un’idea del «rilancio» come cosa pensata nei termini di un ribaltamento speculare delle ritrattazioni dichiarate e come ripresa integrale delle metanoie lasciate cadere. L’oggetto di questa complessa e delicatissima operazione di recupero, naturalmente, è sempre l’apparato storicistico del Mondo magico. A questo punto, però, attenzione. Se tutto questo vuol dire che i dintorni dialettici della «postilla» restavano ancora compresi nello spazio teorico del libro sul magismo, non può non colpire il fatto che, tra le cose che seguono, non siano poche quelle che sembrano implicare uno scarto. Intanto, per esempio, è lecito chiedersi quale fosse (o quale potesse essere) la reale tenuta del progetto «rilancio» in una situazione che andava dilazionandolo indefinitamente e spingendo sempre più in là l’avvento del suo kairòs. È lecito chiedersi, cioè, se questa dilazione non implicasse qualche perplessità e se, a partire da una certa data, l’idea del «rilancio» non cominciasse a essere pensata al di là del Mondo magico. Non è possibile che – ferme restando le metanoie da rilanciare – il Mondo magico, come tessuto argomentativo, cominciasse ad apparire insufficiente e a esigere una riesposizione arricchita delle sue tesi? Rispetto alle ampiezze messe in luce da Crisi della presenza, la nozione di «cultura» circolante nel libro del ’48 si presentava ancora molto contratta e, in questa forma brachilogica, non sembrava

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