POLVERE. La verità delle parole non dette

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Danny H. Cortese

POLVERE La veritĂ delle parole non dette


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-02-2

In copertina e all’interno illustrazioni di Salvatore Coluccia © Edizioni Kurumuny – 2014


Ad Anna Maria per una, nessuna, e centomila ragioni



Indice

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Quel ch’io vi debbo posso di parole pagare in parte... Gaetano Aronica

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PRIMO QUADRO

Semina Prologo 39

SECONDO QUADRO

Mietitura e spigolatura 49

TERZO QUADRO

La cena 53

Epilogo



Quel ch’io vi debbo posso di parole pagare in parte... di Gaetano Aronica

Polvere sugli occhi di lei, Polvere nei ricordi, sulle strade ingiallite dal tempo come fogli di carta dispersi, su baci mai dati, sussurri, preghiere, promesse, parole non dette e lacrime d’inchiostro rosso... Ho voglia di camminare lungo questo corridoio dove dietro ogni porta c’è almeno un inganno... Chi sei tu, amata immortale, chi sono io che ti canto, se non conosco la mappa dei tuoi nei, se non mi fido delle tue mosse al gioco degli scacchi, se mi sei apparsa di bianco vestita, sospesa con passo ieratico, e ti ho confusa nel silenzio delle mie insonnie, con un cuscino vuoto o una dama di Versailles tra mattoni e catrame... Perché questa maschera nera se tremo e ne ho tanto terrore?

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Chiudi gli occhi, ascolta... e saprai di me e delle mie segrete rivoluzioni, del mio viaggio, delle lunghe attese, della sofferenza degli ospedali e della brutalità delle guerre, di relitti umani agli angoli delle strade e delle fiabe che posso ancora raccontare... Che ne sarà di questo nostro tempo senza poesia dove anche i poeti hanno tradito, che ne sarà di noi che non ci siamo mai incontrati, del nostro amore perso come un bimbo nella notte scura, del tuo sguardo candido come un mattino boreale, gelido come l’inverno, buio. Che ne sarà della mia vita e dei miei ricordi colorati da Matisse (forse un gatto?), se tu non ci sei più, se non ci sei mai stata?

Il poeta è un fingitore... Il poeta sussurra all’orecchio di lei le parole che non le ha mai detto, ripercorre una vita vissuta nella sua assenza. E lei è dovunque, lei è un

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incubo, lei è dolore, giudice superbo del bene e del male. Lei, maschera iridescente in continua metamorfosi, si trasmuta in metafora del tempo inesauribile, inesorabile, mentre il tic tac di un orologio da taschino si dilata in una macchia rossastra di inchiostro o di vino, in un’emozione soffocata, nel rutilante galoppo dei tori a Pamplona, che macerano ogni occasione perduta. La vita del poeta è fatta d’amore e all’amore negata. Più di seicento anni addietro un grande artista scrisse la sua pericolosa Vita, perché niente andasse perduto, e concludeva con queste parole: Poiché mi è stato impedito il fare, è così che mi sono messo a dire. Danny H. Cortese è un uomo del fare. Ho parlato a lungo con lui, ho assistito ai suoi spettacoli, conosco quel meraviglioso fuoco che lo agita, quell’incantamento. La sua ispirazione è autentica, il suo candore poetico ha dolorose origini, il suo spirito è nobile e fanciullesco. Ha costruito la sua casa dentro un teatro e lì ha de-

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ciso di vivere per sempre, con i suoi velluti rossi e l’odore del legno, le quinte cadenti, i tendaggi, i tappeti, i meravigliosi costumi, la macchina del tempo... Ho pensato alla sua Polvere su un palcoscenico vuoto. E ho immaginato il poeta soffermarsi davanti a una poltrona vuota, parlare con gentilezza alla dama da sempre dipinta, porgere omaggio alla statua del vecchio signore appoggiato al suo elegante bastone; l’ho visto, sì, l’ho visto scambiare due chiacchiere mondane con un gagà inamidato di rosa, incipriato come una cocotte. Danny ha una parola gentile per tutti, accompagna sulla carrozza la bella signora e fa un cenno al cocchiere perché ne abbia cura, una carezza ai cavalli e poi via... Con una pesante barra di legno chiude il portone massiccio che cigola pericolosamente. Dentro il teatro, il silenzio. La notte e i fantasmi. Amleto, il suo teschio, i cavalli del Fantasma del Re, Riccardo III claudicante con la lanterna in mano, il signor

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Ciampa che non fa che parlare (nessuno l’ascolta), mademoiselle Else e la sua amica Giulia, lo Stalliere, l’Amante, le Tre Sorelle, il Portiere del Macbeth, la Lady insanguinata (non basterebbero mille profumi d’Arabia a detergere queste mani...), Tito Andronico, il cavalier Laudisi, Ofelia poverina e Giulietta suicida con il suo bel Romeo, Paolo e Francesca, l’Innominato, il Cigno bianco, il Cigno nero… Il teatro è ancora denso dei loro respiri, dei loro passi. Il poeta sa dare a ogni cosa un volto, a ogni oggetto una storia. Vaga, nella penombra, sperduto dinanzi allo specchio dei ricordi, osserva il palcoscenico vuoto, aspettando che il mistero si compia. Raggiunge con passo leggero le stanze muliebri, si inebria al profumo delle ciprie, apre la porta d’avorio, scivola nel camerino di lei. Ecco la fila degli abiti, trucchi e parrucche, corsetti, ciglia sparse sul pavimento, ancora l’assenza. Ma il poeta è un fingitore, cosa importa che lei sia lontana, che non ci sia mai

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stata, che sia un abito o un corpo, che abbia mentito, che non abbia capito, lei è lì. Chiudi gli occhi, ascolta... C’è un’isola scaldata dal sole che esiste soltanto in un posto che so io... Se hai una polaroid o un Uniposca, puoi immortalare il nostro bacio sui titoli di coda; scrivi, se vuoi, la parola FINE.

Ed era come se avessi perso e continuassi a perdere qualcosa a ogni nuovo movimento… Il poeta è custode di segreti. Non gli è concesso di rivelarli, non è con le parole che può arrivare all’essenza. E forse in questo dimezzamento, in quest’uomo di carne e d’aria, c’è tutto il suo dramma. È costretto a dire sapendo di non poter dire. In Polvere, il poeta ci avverte di esserne consapevole; di seminare a un vento di tramontana i respiri che fra le parole si insinuano, dando loro senso, a un tempo negandolo. Perché...

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Felice è colui che semina, pur senza alcuna certezza, confidando nel domani. Poiché solo il povero di spirito, si domanda, se chi ci sarà dopo di lui, tratterà con rispetto e amore, il frutto del lavoro ottenuto con il sudore della fronte. Ma il poeta vuole intervenire, la sua rabbia non è solo quella di non essere ma anche di essere e di non poter essere altro di quello che è. Le sue parole dovrebbero rotolare come pietre e demolire quanto intorno a noi sembra così assurdo, apocalitticamente assurdo, mentre, come diceva Machiavelli, il poeta può sì e no voltare qualche pietra e scoprire i vermi che ci stanno sotto. Il dubbio, almeno il dubbio ci assale, che stiamo sbagliando tutto; che si stia compiendo quanto da sempre è scritto: la distruzione dell’uomo per opera dell’uomo. Attraverso la devastazione delle idee, degli alberi e delle acque, l’uomo ritrova se stesso e sfiora tragicamente l’essenza.

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Ma non è il caso di prenderci troppo sul serio. C’è un baule pieno di ricordi e c’è una nonna, lenzuola fresche di bucato e Biancaneve persa nel bosco, un cuscino caldo, una penna d’oca, una casa di zucchero, una canzonetta buona per una sola estate. Polvere è ciò che rimane di un tramonto ionico, di un caffè in un bistrot, di mani che si cercano sotto la pioggia, di parole non dette, di un treno giocattolo che si perde nella nebbia. Polvere è ciò che resta del tempo che non tornerà, il respiro caldo all’orecchio di lei che abbiamo amato e ameremo sempre, malgrado lei, malgrado tutto. Polvere è quello che resta di noi, la traccia dei nostri passi, il futuro disegnato a pastello su un foglio di sabbia che alla prima onda scompare. Polvere è una ballata sul quarantacinque giri di un juke-box, poco importa se all’idrogeno o no, ognuno può suonarci la propria canzone, Polvere è un’acrobatica capriola all’indietro.

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Il poeta sa che siamo nell’era della riproducibilità, del niente originale, dell’eterno deja-vu. Sa che Monsieur Duchamp ha esposto uno scolabottiglie in una galleria di New York e Mr. Andy Wahrol ha moltiplicato i volti di Marilyn come fossero barattoli Campbell. Sa che non c’è arte senza profanazione, provocazione, rivoluzione. Così l’immagine di un uomo che muore può diventare un cartoon. Tragico; due volte: per la morte, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo, e per i barattoli Campbell. Ma tu sei ancora qui, dolce compagna. Ora che tutto finisce, posso davvero guardarti, mentre perdi le tue ciglia. Io non posso più voltarmi indietro aspettando che i tuoi occhi possano distinguermi fra le ombre... quanta bellezza sul tuo viso, quanto incanto dentro te... Apri gli occhi! Sono io la maschera nera.

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Anche tu sei l’amore. Sei di sangue e di terra come gli altri. Cammini come chi non si stacca dalla porta di casa. Guardi come chi attende E non vede. Sei terra che dolora e che tace. Hai sussulti e stanchezze, hai parole – cammini in attesa. L’amore è il tuo sangue – non altro. Cesare Pavese

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Primo Quadro

SEMINA Prologo

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Chiudi gli occhi... Ascolta. Ti parlerò del cielo, degli arcani dei moti di rivoluzione, della scia delle comete, dei pianeti e costellazioni lontane, della montagna che si specchia nel lago, del verso del gabbiano, delle lancette del mio orologio da taschino. Ti parlerò del vento di tramontana, della sua sinfonia, del freddo che ti fa entrare nelle ossa, e di un’isola scaldata dal sole, che esiste soltanto in un posto che so io. Ti parlerò di corridoi d’ospedale, dei profumi del mercato di Ballarò, dei silenzi del guardiano del faro, delle stanze d’ospizi, pregne d’abbandono.

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