Luigi Chiriatti
Racconti (s)pizzicati a sud di Santa Marina
Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-45-7 In copertina acquerello di Egidio Marullo © Edizioni Kurumuny – 2010
Indice
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La leggenda del ragno Argonauta La leggenda del violinista barbiere La melagrana Il Menhir degli Elfi La Specchia del Diavolo L’ultima ronda Figlia di mercante e mercantÏ Il mago della luna San Paolo di Galatina e dintorni Note spizzicate dal diario di un suonatore di pelli e rami Salento per mari In viaggio con Antonio a Finibusterrae Il lago rosso del pellegrino Suoni
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La leggenda del ragno Argonauta
C’era una volta un piccolo ragno. Tanto piccolo che poteva nascondersi fra due granelli di sabbia. Viveva in un paese, lontano lontano. La sua terra era piatta e senza colline; qualche albero, qualche bosco e mare, tanto mare. Argonauta, così si chiamava, amava vivere in piccoli, anzi piccolissimi spazi. Gli bastava un metro quadrato di sabbia ed era a posto. La sua più grande preoccupazione era quella di difendersi dal grande sole; umido, opprimente, mortale, che splendeva nella sua terra e nel suo piccolo metro quadrato di sabbia. In questo il ragno Argonauta era bravissimo. Studiava a fondo il cammino del sole, i suoi spostamenti e le sue bizzarrie, riuscendo a sopravvivere nascondendosi fra due granelli di sabbia, coltivando la conoscenza del territorio in cui viveva e delle usanze di tutti quelli che stavano intorno a lui. Ma un metro di terra per vivere è poca cosa. Il piccolo ragno lo sapeva. E poi la noia. Una volta scoperti tutti i segreti del suo territorio, lo prendeva l’ansia di sapere, di vedere cose nuove, suoni e colori di altri luoghi della sua terra. Ma come fare, così piccolo, dove e come poteva spostarsi? E con il grande sole come poteva fare? Allora chiese aiuto al vento. E il vento gli offrì la sua collaborazione. Spiegò al piccolo ragno che di tanto in tanto in quella parte del mondo veniva un vento, Refulu, che soffiava improv-
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viso, umido, arrogante. Ecco, se si fosse lasciato trasportare da quel vento poteva spostarsi con lui senza la paura di essere seccato dal sole. Il ragnetto ci pensò su e accettò il consiglio del vento. E si mise ad aspettare Refulu. Passarono mesi e giorni e anni. Finalmente un bel mattino il ragno si accorse che qualcosa di nuovo c’era nell’aria. Una piccola colonna di vento si avvicinava verso la sua casa. Non ci pensò due volte. Appena il vento si avvicinò, Argonauta, con un gran salto, salì sopra e si fece trasportare. Vola, vola e vola, quando il vento finì la sua corsa depositò il ragno in un piccolo terreno. E nuovamente Argonauta cominciò l’esplorazione, a sentire i suoni e i ritmi della sua gente, del suo paese. Com’era felice ora che aveva scoperto come visitare senza paura tutto il suo territorio. Attento sempre a non bruciarsi, nascosto fra due granelli di sabbia, esplorava la sua terra. Quando pensava di conoscere tutti i segreti di quel posto, aspettava Refulu e si faceva trasportare in un altro posto. Così per molti e molti anni. Era felice Argonauta. Felice e non più solo. In un posto vicino al mare aveva trovato la sua compagna e con lei girava e viaggiava. Passò molto tempo e molti anni. Avevano accumulato un tesoro di notizie sulla loro terra, più di quante tutta la sua specie avesse avuto la possibilità di raccogliere in tanti anni di vita sedentaria, a tessere e ritessere la propria tela. Vedevano equinozi incrociarsi nelle finestre delle grandi torri; i ninfei delle fate con le fonti. Percorrevano sentieri profumati di boschi e pianuri sacri e mitici e insieme si dondolavano e si ninnavano ai raggi dei Benben.
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Ma Refulu insieme alla bellezza della loro terra portava anche soffi di morte e disperazione; ansie e paure, distruzione e oblÏo delle cose piccole della vita. E quando queste buie foscule e carrare riempivano di umori l’esistenza, allora era tempo di rimettersi in viaggio, per vedere, sentire, e raccontarsi del loro posto e delle sue storie e delle sue leggende. Prima che tutto fosse buio. Poi un giorno, senza colori e rumori, Refulu depositò Argonauta e la sua compagna, per sempre, nel campo delle pietre rotolanti.
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La leggenda del violinista barbiere
Un giorno, come ormai facevo da diverso tempo, mi recai a Nardò, piccolo paese del Salento, dove viveva Stifani, barbiere violinista che andava in giro per il Salento a suonare per delle donne che durante il mese di giugno avevano strani malori e malesseri e potevano guarire solo con la musica del violino. Ma quando arrivai al salone da barba rinominato dal barbiere Studio di tarantolismo, lo trovai chiuso. Strano, anche se vecchio, il barbiere era sempre lì, a pizzicare corde, a intonare trilli e fare qualche barba agli amici. Mi diressi verso casa. Man mano che mi avvicinavo si sentivano i tocchi delle campane. Suonavano a morto. L’espiazione. Qualche altro che aveva smesso di vivere, pensai, con occhi melanconici. Arrivato alla casa del barbiere, che viveva con la sola figlia, trovai quello che non mi aspettavano: il barbiere violinista era morto. Morto il giorno della festa di san Paolo, protettore di tutte quelle donne che il barbiere violinista guariva. Ma come, proprio il giorno del santo? E perché ora e non prima e non dopo. Che disperazione. La banda dei suoi amici marinai suonava una musica lenta e triste e il buon Gigi, così si chiamava il violinista, era portato a spalla verso la sua nuova destinazione. L’ultima. Allora mi sedetti sotto una palma e cominciai a ricordare di Gigi barbiere.
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Ogni anno usciva di casa il 28 giugno. Alle 16,15. Portava il violino sottobraccio nella sua custodia vecchia. Dignitosa. Andava a Galatina. Dalle spose di s. Paolo. Le trovava sul piazzale della chiesa grande e senza indugi o tentennamenti tesseva il suo filo di note e lentamente le conduceva nella casa del santo, nella piccola cappella dove potevano unirsi al loro sposo. Dove potevano soddisfare, in ultimo, il loro bisogno di disordine totale, fisico e mentale per poter poi ritornare alla quotidianità. Gigi con la sua musica riusciva a saldare, momentaneamente, le due coscienze spezzate, dilaniate, avvelenate. Ogni anno lo faceva senza ricompensa in quel giorno. Era, questo, un atto d’amore alla sofferenza del Salento. Anche quest’anno, per l’ultima volta, Gigi è uscito per il suo viaggio alla stessa ora. è andato da s. Paolo, morte e festa insieme. Si era perso, Gigi, intorno al 10 maggio – così diceva sua figlia. Improvvisamente. Era entrato in uno stato di coscienza e conoscenza tutta personale. Difficile capire cosa pensava e quanto soffriva Gigi in quel periodo. Unico filo conduttore e fonte di conoscenza e comunicazione con la quotidianità erano le sue mani, le sue dita. Sempre in movimento, sempre a tessere trame musicali, a musicare storie. Gigi ha ritmato gli ultimi giorni della sua vita con le dita. Alla fine gli hanno dovuto sfilare la fede nuziale. Tambureggiava costantemente e ossessivamente le dita contro le sbarre del letto di contenimento, senza tregua. Giorno e notte. Senza sosta. Stava lì nel suo lettino con il suo libro: Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate e quando non suonava lo strappava a strisce sottili. Tutte uguali. E chiedeva a tutti chi fosse l’uomo della copertina.
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Prima l’aveva letto il suo libro. Gli era piaciuto ed era contento. Com’era contento. Girava per le vie del paese con il libro e si guardava intorno cercando consensi e gratificazioni. Forse anche per questo ha anticipato il suo viaggio per incontrare il santo, di cui aveva visto tanti miracoli e tante malefatte. Ma nel quale credeva. Forse è morto anche per questo. Può averlo ucciso una forte emozione – comunicava il medico – può aver risvegliato un vecchio male congenito, un male con il quale maestro Stifani ha convissuto dalla nascita. Un male forte e difficile da tirare fuori, come il male del Salento, il tarantismo. Maestro Gino suonava sempre, forse si curava in questa maniera, e, avendo sperimentato su di sé l’opera guaritrice della musica, lo faceva poi con gli altri, attraverso il sistema misterico-musicale del tarantismo salentino di cui conosceva ogni piccola piega, ogni recondito nascondiglio. Stifani era uno qualunque, ma gli era stato affidato un dono: la musica di un popolo. Nelle sue mani e nel suo strumento si sintetizzavano millenni di storia, rituali antichi e magici che scaturivano solo e soltanto quando le sue dita pizzicavano il violino. Quel violino che tanti anni prima aveva comprato, a rate, per due lire e mezza. Allora stendeva una ragnatela che avviluppava completamente trascinandoti in un luogo senza spazio e senza tempo, in cui scorrevano le immagini di un popolo, la sua sofferenza, le pietre, i colori, gli odori del Salento. Depositario del ritmo e dei suoi segreti li dipanava e tutto assoggettava a un rituale di cui solo lui conosceva i tempi e le modalità.
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La sua musica ossessiva, briosa, ritmica, sviluppava un tema preciso in cui tutte le parti della vita, di un’intera esistenza, breve o lunga, si guardano e si osservano, si scontrano e si sovrappongono, senza sosta, senza interruzioni musicali, seguendo sentieri segreti che solo lui sapeva e conosceva. Non permettendo nessun varco o iato musicale in cui si sarebbe potuta infilare la pazzia. Il segreto è morto con lui. Il nucleo magico, l’arte della ricomposizione della coscienza, è morto con lui e Gino anche nella sua morte ha seguito vie arcane, segrete, di difficile interpretazione. è morto il 28 giugno. Il giorno delle tarantate, della festa di s. Paolo, il giorno del ritmo e dell’esternazione della sofferenza del Salento. è morto come i grandi sacerdoti delle antiche civiltà, capaci di orientare la propria morte, così come orientavano la propria vita. I vecchi sacerdoti decidevano di morire in determinati periodi e mentre loro compivano questo viaggio, le sacerdotesse, le elette ballavano nei luoghi sacri e incoronavano il nuovo depositario del sapere. Maestro Stifani ci ha lasciati semplicemente, così come semplice era la sua musica. Semplice e naturale, ancorata alla terra in cui veniva suonata e sviluppata, danzando il ritmo della vita e della morte: ritmando la morte per esorcizzare la vita. Nella sua musica ognuno era libero di trovare il suo veleno, il suo animale, il suo impasto di terra. Era libero di conviverci e di combatterlo, di assecondarlo o di scacciarlo. Non esercitava nessuna pressione, semplicemente stendeva una ragnatela di note, di trilli, di svisamenti capaci di toccare la fojazzeddha de lu core (il luogo segreto del cuore), di equilibrare la gioia e la noia, la paura e la felicità. Non conosceva altro, non sapeva fare altro,
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Stifani. Ma quando lo faceva, per ruolo o per gioco, era avvolto in un’aurea magica, strana, impalpabile, liquida, così come liquida, aerea, soffice, ma nello steso tempo dura e tenace era la sua musica. Ora sono qui. Mi piace pensare a lui che con il suo violino seduce e tenta il consenso dei cherubini; che buca le nuvole rosa su cui si poggiano e li conduce prima in un labirinto di terra e pitture strane e mortali e poi su, su, oltre, dove non lo sappiamo. Non è strano in qualche giorno, luce o notte che sia, sentire o pensare di sentire la sua musica. La musica della gioia e della sofferenza: “l’indiavolata, la sorda, la minore, la balcanica” e lasciarsi trasportare, guidati dal sottilissimo filo d’argento che porta nella profondità della terra e negli azzurri-blu del cielo.
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La melagrana
Refulu condusse Argonauta in un piccolo campo. Tutto pieno di fiori antichi e profumati, alberi vecchi e poderosi: noci, fichi, melograni, mandorli, carrubi, gezzuizzi (gelsi), ciliegi, allori, fichi d’India... In una spianata si dipanavano le vecchie case. Cinque poderosi furnieddhi in pietra. Quasi in semicerchio. Al centro, isolato, uno piccolissimo, scombinato. Si manteneva in piedi per scommessa. Sul sentiero che conduceva ai furnieddhi c’erano le cisterne dell’acqua. Con le vere dei pozzi segnate dalle corde dei secchi. Due grandi massi le coprivano, facendo intravedere l’acqua del fondo. La gioia di Argonauta fu grande. Refulu lo aveva portato nella vecchia campagna dei suoi nonni materni. Da tanto mancava e i ricordi stavano svanendo nella sua mente. Lì Argonauta era vissuto in tenerissima età. Aveva tre o quattro anni. Non di più. Ma per molto tempo l’intensità di quel periodo l’aveva accompagnato e sostenuto nelle varie peregrinazioni che lo avevano portato in tanti posti insieme alla sua famiglia. Si sedette su una pietra e lentamente Argonauta cominciò a raccontarsi di quel posto, dei suoi abitanti. In quella campagna vivevano diverse famiglie. C’erano altri due bambini della stessa età di Argonauta: Luigi e Cosimo, figli di un fratello della mamma di Argonauta. Quante ne avevano combinate insieme. Uno dei passatempi preferiti era quello di
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nascondersi nei posti più impensati e spiare le donne nelle loro parti intime. Ascoltare i loro discorsi più segreti. Durante i periodi più caldi dell’anno il nonno Cesario li allontanava dai genitori e li faceva stare da soli in una campagna adiacente, sentenziando che dovevano cavarsela da “veri uomini”. Dormivano tutti e tre in un furnieddhu con la paglia per giaciglio. Durante il giorno andavano alla cerca di monaceddhi (piccole lumache). Li chiamavano “panetti” perché li davano in cambio di qualche boccone di pane. E quando non ne trovavano digiunavano. Ma non sempre. Una volta dopo due giorni di digiuno i tre decisero di andare a rubare le scisciule (giuggiole) nel giardino del nonno. Belle, grosse e saporite. I grandi erano tutti al lavoro e i tre si riempirono la pancia. Poi ritornarono al loro furnieddhu e si addormentarono. Il risveglio fu drammatico. Il nonno era sull’uscio e con poche parole e pochi gesti li condusse sotto il noce più grande. Aiutato da un parente, li legò con del fil di ferro e li appese tutti e tre a testa in giù. Così restarono fino a pomeriggio inoltrato, fino all’arrivo del padre di Argonauta, che, sfidando l’autorità del vecchio, li slegò e li condusse a casa, fra le lacrime delle mamme che niente avevano potuto fare per loro. Quando le donne infilavano le foglie del tabacco, per farle seccare, raccontavano di una grande sacara (serpe, cervone) che quatta quatta si nascondeva sotto il culo delle galline e quando queste facevano l’uovo la sacara lo ingoiava. Gli uomini dicevano che non potevano ammazzarla perché era stata mandata da s. Paolo a protezione della casa e delle persone. E raccontavano che questa sacara aveva sulla testa due piccole corna e due zampette attaccate al corpo. E ogni volta che ingo-
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iava un uovo cantava. Le donne si facevano il segno della croce e mormoravano: Santu Paulu miu de le tarante, iutaci moi a tutte quante. Ma ai tre poco interessavano tutte queste storie, sapevano solo che c’erano delle uova che potevano essere mangiate senza incorrere nell’ira del nonno Cesario. Così cominciarono a fare la posta alle galline per vedere dove e quando andavano a fare le uova. Un mattino molto presto mentre una gallina stava accovacciata nell’atto di deporre l’uovo, Argonauta allungò la mano per prendere l’uovo. Ma invece dell’uovo si trovò la mano nella bocca della sacara. Per tre giorni rimase a letto con la febbre e con gli occhi sbarrati. Nel mese di giugno passava da quella campagna la Santapaularena. Era questa una vecchietta vestita di nero. E bruna era anche lei, del colore della terra. Veniva su un piccolo carretto tirato da un asino. Portava due cassette. In una c’era, almeno questo diceva lei, della terra di Malta. Buona per tutte le malattie e i malori provocati dai ragni o da altri animali striscianti. La dava in cambio di qualche fico secco, legumi, un po’ di olio..., l’altra era piena di scursuni (serpi nere) da cui ricavava gli antidoti per i veleni, reali o immaginari che fossero. Quando la vedevano arrivare i tre le andavano incontro. Lei domandava se avessero visto delle serpi e chiedeva di accompagnarla. Quando la vecchia stava per catturarli, sa solo dio come faceva, in coro gridavano: lu monacu cu la monaca tutti e doi intra na camisa (il monaco con la monaca, tutte e due dentro la stessa pelle). Questo, i piccoli lo sapevano, non potevano dirlo, perché faceva infuriare le serpi – almeno così raccontavano gli anziani – e faceva arrabbiare s. Paolo. Detto questo se la davano a gambe a combinare altre furfanterie.
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Il periodo più bello era quello della caccia. Ottobre marzo. C’era zio Luigi, abilissimo cacciatore che li portava con lui. Un po’ per iniziarli a questa attività, un po’ perché gli facevano da cani da riporto. Sia come sia erano felici. Si partiva la mattina all’alba. Esploravano un territorio vastissimo e per pranzo lo zio Luigi cucinava fringuelli al cartoccio. Li spennava, li avvolgeva in della carta oliata e li copriva di cenere calda, con un pizzico di sale. Dopo dieci minuti li tirava fuori e si potevano mangiare. Infine concedeva un sorso di vino. A sera, quando si tornava a casa, di solito aveva un ricco carniere fatto di lepri, volpi, gallinelle d’acqua. Di questa selvaggina un po’ restava in famiglia, l’altra parte era venduta alle putee (botteghe) di vino. Il piccolo furnieddhu al centro della casa era la cucina della nonna Cesarea. Piccola e piegata in due. Con il mantile (grembiule) ai fianchi, la gonna colorata, in testa un fazzoletto, legato alla moda dei pirati. In quel piccolo forno Cesarea cucinava dalla mattina alla sera. Lì faceva il pane, arrostiva la poca carne a disposizione, le verdure, i legumi; a sera, verso il tardo tramonto, quando tutti i componenti della famiglia ritornavano dal lavoro, apparecchiava i cibi su una grande pietra rotonda, in pochi piatti di creta, senza posate, al massimo qualche coltello, un grande cerchio di pane e a volte del vino. Dopo cena e dopo le solite chiacchiere, cantavano. Come cantavano. Voci potenti e cristalline quelle delle donne, rauche, basse e sguaiate quelle degli uomini. Canti alla stisa; canti d’amore, leggende di re e regine, di fate e di principi. La durezza della vita li portava ad alienare la loro sofferenza in canti esteticamente perfetti per armonia, esecuzione,
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dai contenuti onirici e favolistici. A controllare che tutto si svolgesse secondo i rituali antichi c’erano i nonni. Altre volte gli uomini raccontavano le storie delle stiare. Di queste donne che sapevano trasformare il proprio corpo in capre, cani, gatti, e se ne andavano in giro durante la notte a incontrare e a fare non si sa bene cosa e chi. Potevano accedere a queste trasformazioni utilizzando le virtù di alcune piante, in primo luogo lu totumaju (titimaglio). Un’erba che fiorisce durante il periodo di maggio e che se recisa secerne un lattice bianco, che, strofinato su alcune parti del corpo, ne altera l’anatomia. Dilata gli occhi e li fa brillare alla luce della luna o della lanterna. Strofinato sui capezzoli li ingrossa e li indurisce, inturgidisce le labbra. Allora queste donne erano pronte per andare, con il tacito consenso degli anziani, che bene conoscevano le loro necessità di incontro con l’altro sesso, ma che dovevano giustificare socialmente per non perdere la faccia. I tre cugini sperimentavano su di loro gli effetti del titimaglio. Prendevano il lattice e se lo strofinavamo sul pisellino. Allora questo si induriva, provocando dolori feroci. E questo durava per alcuni giorni o ore. Fra le risate ammiccanti delle donne. Un’altra volta il padre di Argonauta si presentò a casa tutto eccitato. Aveva comprato una macchina, la Topolino. Aveva dovuto lasciarla in paese perché la strada che conduceva alla masseria non era larga a sufficienza per farla passare. Allora li arruolò e insieme agli altri parenti allargò la strada e la Topolino giunse in campagna. E con essa la consapevolezza che l’isolamento di cui avevano goduto era finito. Orizzonti infiniti e infinite chimere si aprivano agli occhi del padre che da quel momento in poi cominciò a visitare la terra del Salento nei suoi
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più svariati angoli portandosi dietro tutta la famiglia, Argonauta compreso, che da quel momento in poi perse i confini magicorituali della campagna del nonno. Non è che poi le cose fossero sempre felici. C’era tristezza quando arrivava il periodo delle grandi feste: Natale e Pasqua. Stranamente gli adulti invece di essere contenti di smettere di lavorare, diventavano litigiosi, insofferenti; poco inclini all’ironia. Per noi, per Argonauta, erano tempi duri. La mancanza di soldi, della continuità del lavoro, diventava più evidente in questi periodi. Allora il padre di Argonauta diventava intrattabile, spariva da casa per giorni interi e solo dio sapeva dove andava, oltre alla mamma. Allora era Agonauta che doveva andare a riportarlo a casa. Gli altri figli erano già grandi per affrontare una tale vergogna. Lo trovava nelle putee di Martano, La zia Jolanda o da Pici puttana. Ubriaco. Con grande vergogna se lo riportava a casa. Che vergogna e che delusione. L’altro periodo nero era la settimana della Befana. Era dura scoprire che nella calza non c’era nemmeno un pezzo di carbone. Non venivano neanche puniti, il che era sintomo che proprio non c’era considerazione verso la festa del dono. E proprio non riuscivano a mandarla giù questa cosa; tanto che fino a qualche tempo fa Agonauta ha odiato le feste. Il nonno Cesario durante i primi giorni di settembre era in preda a un’eccitazione straordinaria. Parlava sempre ed era sempre gentile con tutti, soprattutto con i bambini. Era il tempo della grande pesca. La notte non dormiva più. Spiava il cielo e quando vedeva comparire la Puddhastra, la prima stella del mattino, infilava le scarpe, si buttava un sacco sulle spalle e andava. Fino ai laghi Alimini, distanti da Martano più di quindici chilometri.
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Si appostava sul canale che collega i due laghi e quando vedeva dei branchi di pesci, cefali, che migravano da un lago all’altro per deporre le uova, lanciava una rudimentale bomba costruita con una buatta (contenitore di latta) di salsa e con polvere nera sottratta alla cava di pietra dei Colapai. Poi scendeva in acqua e riempiva il sacco di pesce. Alle otto di mattina era in piazza a Martano a vendere il pesce. Spesso ne portava a casa e le donne seccavano le uova che servivano per condire la pasta durante i lunghi inverni. Ora questa campagna è in preda alla disperazione. Tutto è rimasto com’era tanti e tanti anni fa. I furnieddhi-abitazione, il furnieddhu-cucina, gli alberi, forse anche la sacara, i profumi, le cisterne, solo l’umanità non c’è più. Ognuno ha percorso strade diverse, ma è possibile che porti con sé un po’ della magia di questo luogo antico. Mentre Argonauta raccontava di queste cose Refulu si era seduto sulla cima del grande noce. Ora cominciava a ingrossare i suoi soffi e Argonauta capiva che era tempo di andare. Con un ultimo gesto Argonauta raccoglie una melagrana rossa e turgida e la odora.
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Il Menhir degli Elfi
Cammina cammina cammina, un giorno Refulu, Argonauta e la sua compagna giunsero nel bosco delle Costantine. Era questo un vastissimo e antichissimo bosco di lecci, cornioli, querce, corbezzoli, situato fra Otranto e Giurdignano. Nel periodo dei funghi fioriva di profumati e deliziosi porcini, diaulicchi, paddhotta, steccherini dorati... Era grande e fitto, ma Argonauta conosceva tutti i sentieri e tutti gli angoli più nascosti del bosco delle Costantine. Erano andati fin lì perché c’era una cosa, bella e unica, almeno per loro: un menhir, che lui aveva chiamato il Menhir degli Elfi. Si trovava, questa grande pietra, alta più di un metro e settanta, con le facce di venti e trenta centimetri, in una piccola radura, sotto alti e maestosi lecci. Ogni volta che Argonauta si recava nel bosco non mancava mai di portarsi fin lì, in quel posto magico, e parlare con quella pietra. C’erano delle volte in cui raccontava dei suoi guai e delle sue pene, delle altre in cui chiedeva delle genti e dei riti che si erano svolti in quei posti, e tutte le volte Argonauta chiedeva che gli spiriti del bosco gli fossero amici e gentili, indicandogli i sentieri dei funghi e dei profumi. E ogni volta, immancabilmente, Argonauta, in quel posto, quasi ai piedi del Menhir, trovava dei grandi porcini o intere famiglie di funghi. Allora ne raccoglieva qualcuno e lo depositava alla base della pietra e aspettava seduto per terra e con le spalle appoggiate a essa. Arrivati che furono si sedettero con le spalle appoggiate alla pietra e Argonauta raccontava.
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