VIAGGIO DE LEUCA

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Luigi Lezzi

VIAGGIO DE LEUCA Guida ai luoghi, nonluoghi e luoghi comuni del Salento


Edizioni Kurumuny Sede legale via Palermo,13 73021 – Calimera (Le) Sede operativa via S. Pantaleo, 12 73020 – Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801577 on line www.kurumuny.it mail to info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-35-8 © Kurumuny edizioni – 2009


La pianificazione di un territorio a destinazione turistica è un’operazione rischiosa: le comunità locali dovrebbero essere coinvolte sia nel processo decisionale che nelle fasi attuative dei progetti, affinché si tenga conto delle loro esigenze e dei loro diritti tanto quanto di quelle dei turisti esterni. Maura Cetti Serbelloni, Il Luogo, Lecce, Pensa 2003



Indice

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Prefazione. L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri Premesse

Parte prima Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano 20 20 23 26 88 90 102 110 111 116 120 130 141

Il testo Le edizioni precedenti Questa edizione Testo traduzione e note Dialetto, teatro e viaggio La letteratura dialettale Teatro Viaggio: tempi e luoghi I tempi I luoghi Strade e sentieri L’itinerario del Marciano Un riscontro oggi

Parte seconda Il Salento ieri e oggi: da luogo antropologico a nonluogo della surmodernitĂ 148 151 152 157

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Differenze e analogie La percezione tradizionale dello spazio Un esempio: la casa a corte La percezione dello spazio in conseguenza del processo di modernizzazione Orientamento e pertinenza individuale dello spazio Viaggiare

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Il Salento dei nonluoghi Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore Orientamento e appaesamento in de Martino

Appendice

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Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti) degli anni Settanta

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Riferimenti bibliografici

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Sentieri arcaici sulle serre


Prefazione L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri*

Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, riproposto da Luigi Lezzi in questa rinnovata edizione che per molti aspetti rivede criticamente quella di Michele Greco del 1935, anche alla luce delle successive puntualizzazioni di Mario Marti, Donato Valli e Maria Teresa Romanello, si muove in una prospettiva che, pur partendo dal certo del testo, punta a individuare il vero: quello che, nella prospettiva che qui mi interessa, riguarda il senso antropologico del viaggio intrapreso dal Marciano, da Vanni Passante ed altri amici. Com’è noto agli esperti del settore, ci troviamo di fronte ad un’opera di letteratura dialettale, il più antico testo poetico in dialetto salentino, risalente agli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Ma, ripeto, la portata di tale opera va bene al di là della pur rilevante valenza storica: quella che la collega ad un filone della letteratura dialettale, che va da Il Pentamerone di Giovanni Battista Basile a La Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese, ivi compresa l’opera di un altro salentino, Giuseppe de Dominicis, vissuto tra il 1869 e il 1905, noto come Il Capitano Black. Quello che emerge subito dal racconto del viaggio fatto dal Marciano è la costante attenzione rivolta all’itinerario programmato, da Salice Salentino a Leuca e ritorno, in un arco temporale di quattro giorni, scanditi nelle seguenti tappe: Salice Salentino, Otranto, Vignacastrisi, Leuca, Cutrofiano, con l’ultima sosta a Nardò per la festa dell’Incoronata. Notevoli, per il significato che assumono nella prospettiva di Lezzi, le soste in altre località fra le quali Martano, i Laghi Alimini, Alessano, Galatina. Si tratta di un percorso di oltre 200 Km da cui si fa emergere la valenza antropologica di una narrazione governata da categorie spazio-temporali fortemente permeate di un vissuto intrecciato alla vita quotidiana dei luoghi, alla loro cultura, al loro immaginario, alle loro credenze.

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Prima di addentrarmi ulteriormente nella presentazione del testo mi preme fare una precisazione sul carattere oggettivamente spettacolare, per così dire teatrale, di tale racconto, le cui considerazioni, dialoghi, battute, canti, sembrano oggettivamente presupporre la presenza di un pubblico partecipe, attivo, capace di intervenire integrando e commentando. Ma torniamo alle categorie di tempo e spazio già introdotte per rilevare quanto e come esse siano caratterizzate da una sorta di mutua implicazione e cattura, nel senso che non è possibile percepire il senso del luogo senza evocarne la temporalità implicita, quella che gli dà identità nell’ambito della costruzione culturale dei luoghi di cui parla Arjun Appadurai in La modernità in polvere. Il viaggio è, infatti, guidato non da percorsi ufficiali pre-definiti, ma dalla capacità di orientamento del Marciano e dei suoi amici e dal suo continuo riferimento a sentieri, masserie, muretti a secco, cappelle, luoghi consacrati dalla tradizione nella memoria collettiva della comunità. I luoghi parlano, infatti, solo a chi sa intenderli, ne conosce il linguaggio, la semiotica diremmo oggi. È come se, fatte le debite differenze, al soggetto proustiano che ricerca Il tempo perduto subentrasse un soggetto sociale capace di far emergere l’eco del rimosso, il definitivamente sepolto, che può ri-emergere nella direzione di un futuro possibile fondato su una ristrutturazione radicale del vissuto spazio temporale. In questa prospettiva di discorso viene criticamente delineata in questo libro la transizione del Salento da luogo antropologico a nonluogo della surmodernità, con riferimenti concreti a quella realtà culturale di cui si descrive, a mo’ di esempio, la casa a corte col suo corredo di puzzi, uèrti, loggie, pile, scettalòre, cisterne. Insomma, se è vero quanto dice Marc Augé che un luogo antropologico diventa un nonluogo quando da esso si offuscano o cancellano i segni della memoria che lo caratterizzano, ripercorrere oggi, come fa Lezzi, gli stessi itinerari effettuati da Marciano, porta a cogliere per intero il processo di omologazione e, dunque, di espropriazione identitaria subita dal Salento. Non a caso, rileva l’autore, al viaggio inteso secondo i dizionari come un giro più o meno lungo attraverso luoghi e paesi diversi dal proprio, con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere, imparare e divertirsi è stato sostituito, sull’onda di un processo omologante, un

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viaggio del tipo: sette giorni e cinque notti in vip class inclusa la visita ai musei e l’ingresso in discoteca con l’accompagnamento di una guida locale. Lo stesso Ernesto de Martino, peraltro, dopo aver rilevato nei suoi appunti per La fine del mondo che l’orientamento spaziale è alla base di quello generalmente culturale, introduceva la categoria di appaesamento contrapposta a quella di spaesamento, la prima segnata dalla presenza individuale e sociale, la seconda dalla sua pressoché totale scomparsa. Che fare? L’autore non ha alcuna pretesa risolutiva, ma solo quella di segnalare il problema della disidentificazione dei luoghi nella prospettiva di una loro riappropriazione. È questa la condizione per invertire il processo in atto e innescarne un altro che tenga in maggior conto la dignità dei luoghi e quella dei suoi abitanti. Il recupero genealogico dell’attualità di un testo come Il viaggio de Leuche dallo spazio di dispersione in cui era depositato si muove in questa direzione: ha la pretesa di parlare ai soggetti individuali e a quelli collettivi, ai cittadini e alle istituzioni, a quelli che vivono nel territorio e a quelli che lo gestiscono, nel senso della valorizzazione o della degradazione di ciò che è di tutti: res omnium, non res nullius.

*Preside della Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell’Università del Salento.

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Premesse

Modi di viaggiare C’era una volta nel Salento, ma anche altrove, un modo di guardare al territorio molto più rilassato di quello attuale. Chi ci viveva si accontentava di conoscere minuziosamente i propri luoghi abituali e di esplorare occasionalmente qualche località vicina. Dei luoghi abituali sapeva tutto: gli angoli più adatti a questo o a quest’altro tipo di coltura, quelli con più spessore di terra rossa, quelli infestati irrimediabilmente dalla gramigna, dall’erba-pepe o dalla cannazza, o quelli troppo battuti dal vento di tramontana. Mio padre, da ortolano che ogni anno doveva prendere in affitto un fondo diverso, senza aver mai preso visione di una cartina geolitologica dell’area circostante la città di Lecce, aveva un’idea chiara e generale anche del suo sottosuolo, della sua consistenza e della sua stratigrafia. Forse si aiutava con l’esperienza acquisita come aiutante nelle cave durante la sua adolescenza, oppure curiosando negli scavi urbani per le canalizzazioni fognarie. Sta di fatto che, dando uno sguardo ad un campo, riusciva a intuire se sotto c’era del bolo, del cretaccio, una fossa consistente di terra ferrosa o dei cuti che avrebbero rotto i vomeri e gli attrezzi per sarchiare. Se un dato tipo di terreno era in grado di conservare l’umidità o se ai primi raggi del sole si sarebbe screpolato tutto come avviene negli uadi del deserto. Tutte queste conoscenze gli erano indispensabili perchè lui coltivava a secco, cioè senza fare affidamento ad altra irrigazione che non fossero le piogge (se venivano) e l’umidità notturna e stagionale. Senza questo intimo rapporto con il territorio avrebbe buttato via i suoi semi, il suo lavoro e quello del suo cavallo e forse io non avrei avuto la possibilità di mangiare. In occasione di qualche festa grande che comprendeva magari anche una fiera del bestiame, oppure per devozione verso qualche santità particolarmente sentita, si spostava dall’area in cui viveva e affrontava, in trainella (un carretto leggero), un viaggio giornaliero.

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Eccezionalmente andava in Calabria, con un gruppo di soci, per comprare più a buon mercato cavalli e pecore da riportare passo passo a Lecce. Questo, naturalmente, era un viaggio che richiedeva diversi giorni, la capacità di orientarsi e di relazionarsi congruamente con le persone che incontrava. Sul finire del diciassettesimo secolo un viaggiatore nostrano descrisse in versi (e in dialetto) una sua passeggiata a cavallo da Salice Salentino fino a Leuca. Dal Viaggio de Leuche si desume un modo di viaggiare sostanzialmente simile a quello che emerge dai racconti estemporanei di mio padre. Curiosamente, poi, anche il mio modo di viaggiare in autostop nel corso degli anni Settanta assomiglia molto più a quello appena descritto che non a come si viaggia oggi. I cambiamenti radicali che hanno portato all’attuale concezione del viaggio strettamente connessa con le categorie di turismo e di mercato, infatti, qui hanno avuto luogo solo a partire dai primi anni Ottanta. Il Salento, dopo aver percorso per un paio di decenni la via dell’emigrazione, solo allora usciva decisamente da un’economia tradizionalmente agricola e si avviava ad abbracciare quella basata sul turismo che lo caratterizza ancora oggi. Così facendo sceglieva anche, più o meno consciamente, di adeguare l’aspetto del suo territorio alle nuove esigenze e di dotarlo sempre più di quelle caratteristiche che l’antropologo Marc Augé ha elencato per definire i nonluoghi. Questi cambiamenti hanno comportato anche, per gli abitanti, un diverso modo di guardare al territorio e hanno contribuito a diffondere anche qui quel senso di disorientamento e di spaesamento che caratterizza tutto il mondo occidentale postmoderno. Può il disorientamento territoriale (la reale perdita della bussola) essere alla base di comportamenti individuali e sociali di natura patologica (schizofrenie e deliri)? A lanciare per primo un segnale di allarme in questo senso è stato Ernesto de Martino, nei suoi appunti per La fine del Mondo; allarme che, come noteremo, oggi non è assolutamente rientrato, ma assume sempre più quegli aspetti apocalittici annunciati e paventati dallo studioso napoletano. Commenteremo la lettura del Viaggio de Leuche con l’intenzione di contribuire alla nascita di un’organica antropologia dello spazio come strumento capace di rendere coscienti delle conseguenze di questo mutato rapporto con il territorio e con i cambiamenti che quotidiana-

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mente vengono operati su di esso all’insegna della riqualificazione e dell’adeguamento. La lettura del poemetto, in verità, ci ha portati a soffermarci anche su altri cambiamenti intervenuti contemporaneamente nel Salento e, primo fra tutti, su quello riguardante la lingua. Il dialetto salentino, considerato fino agli anni Ottanta (alla stregua di tutte le altre parlate regionali) un retaggio del passato da mettere da parte a favore della lingua nazionale, è diventato curiosamente, nell’ultimo ventennio, oggetto di una riscoperta giovanile che non perde occasione di sbandierarlo orgogliosamente. Fanno uso del dialetto i numerosissimi interpreti della “neopizzica” (la colonna sonora delle estati turistiche salentine) e sono composti in dialetto i testi del raggamuffin locale (con in testa i Sud Sound System) e quelli di diversi cabarettisti locali e nazionali (Ciceri e Tria, La Gegia, Andrea Baccassino). Allo scopo di assecondare questa riscoperta del dialetto può essere certamente utile il primo documento di poesia dialettale, il Viaggio.

Il Viaggio de Leuche Un pomeriggio tardi, di fine luglio dell’anno 1692 una piccola comitiva partiva da Salice Salentino, un paese a una quindicina di chilometri a nord di Lecce, con l’intenzione di raggiungere l’estrema punta della penisola per partecipare, il primo di agosto, alla festa solenne della Madonna te Finimunnu. Il gruppo era composto da quattro amiconi che viaggiavano a cavallo e da due inservienti che li seguivano a piedi, per badare alle bestie e per dare una mano in caso di bisogno. Tre erano per certo sacerdoti; uno anzi, anni prima, era stato pure arciprete per sette anni a Guagnano. Si chiamava don Geronimo Marciano, ma tutti lo chiamavano lu Mommu te Salice e a lui stava bene così. Al momento della partenza aveva più o meno sessant’anni, ma si sentiva ancora nel pieno delle sue forze, pronto ad affrontare le fatiche di quel viaggio che, fra andata e ritorno, era più lungo di duecento chilometri! Partiva con l’intenzione di annotare tutto quello che sarebbe successo perché voleva farne un racconto in poesia. Lu Mommu era di estro artistico; nel paese lo sapevano tutti che gli piaceva comporre poesie e

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scenette. Sotto Pasqua le faceva rappresentare ai giovani, nella piazza, con costumi e tutto. Dicevano che, per queste cose, aveva preso dalla buonanima di suo nonno Girolamo, gran sapientone che conosceva tutti i peli della Terra d’Otranto e della sua storia. E infatti c’erano ancora, a casa sua, cataste di carte, libri, appunti e descrizioni. Per dire la verità, però, il nipote era diverso dal nonno, perché a lui non piaceva passare per uno scrittore serioso, per uno che usa le parole difficili per fare colpo sugli altri studiosi come lui. Ormai i tempi richiedevano altro. Voleva, si, fare un poema, ma il suo sarebbe stato un poema comico, scritto addirittura in dialetto, con quelle frasi che escono dalla bocca a chi non lo conosce proprio l’italiano. A Napoli, la capitale del Regno, altri scrittori stravaganti avevano già cominciato a fare queste cose e i loro componimenti andavano forte in tutte le riunioni di corte. Un altro della comitiva poi, pure lui prete, si chiamava don Vanni Passante ed era l’amico più stretto di don Geronimo. Fra una messa, una confessione e una funzione, tutti e due trovavano sempre il tempo di parlare di quest’idea del poema da scrivere in dialetto. E come si scaldavano sulla novità della cosa! Andavano alla ricerca delle parole e delle frasi più efficaci e si compiacevano della sorpresa che avrebbero prodotto una volta stampate su un libro. La cosa li appassionava ancora di più quando arrivavano alla fine del boccale di vino che si mettevano sempre davanti a ogni discussione. Qualche volta si riunivano con tutta la compagnia pure nella chiesa, e facevano musica a modo loro. Cominciavano suonando certi divertimenti musicali di un maestro tedesco, che di nome si chiamava Giovanni Sebastiano ma di cognome, dicevano loro, faceva proprio Bacco, come il santo Martino dei Romani. Poi si riempivano il bicchiere col passito della messa e passavano a cantare le arie contadine di Salice. Alla fine la giravano sempre a tarantella, si tenevano le sottane con la punta delle dita e muovevano i piedi in onore di santo Paolo. Sapevano che il vescovo non la approvava quella musica nella chiesa ma, dicevano, quello che stavano facendo era sempre un gesto di-vi-no, perciò non c’era peccato. E poi, comunque, per quanto si lasciassero andare, la loro voce non arrivava certo fino a Lecce, dove stava il vescovo. A quel tempo preti e monaci erano quasi tutti malandrini, più degli altri, perché con la scusa della tonaca che indossavano potevano anche entrare più in confidenza con le femmine. Quelle sposate si sapevano

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guardare e si fermavano dove volevano; le giovani, invece, era più facile che restassero imbrigliate nei cordoni e nelle stole. La Chiesa sapeva tutto; minacciava scomuniche e sospensioni a divinis, ma la storia continuava. Ad ogni modo, quel pomeriggio di fine luglio si decisero a partire e, strada facendo, trovarono proprio le cose di cui andavano in cerca. Tavole imbandite per mangiare e bere a laudaddìo e incontri con belle figliole alle quali rivolgere qualche battuta e qualche occhiata. Inoltre si presentarono loro tante occasioni per conoscere gente forestiera e per incontrarsi con certi compari che non vedevano da anni. E poi finalmente don Geronimo nipote poté vedere con gli occhi suoi tutti quei luoghi descritti nelle carte di suo nonno: le masserie con i pareti alti, i giardini ombrosi e profumati, le pietre che parlavano del passato, gli oliveti secolari, i palazzi signorili e le marine col pesce fresco, che quello è sempre desiderato. Vide interi paesi di grotte abbandonate dove, a tempi antichi, i monaci greci avevano abitato e detto pure messa. E poco ci mancò che cadesse da cavallo su certe carrare strette che salivano sulle serre, piene di tante pietre che in tutta la zona di Salice, Guagnano, Campi e San Pancrazio non ne troveresti neanche la centesima parte; che lì è tutto cretaccio buono per le vigne. In tutto il viaggio non si presentò mai l’occasione di dire questo non vale. Don Geronimo rimaneva sempre a bocca aperta come un bambino. La Terra d’Otranto era come un paradiso per lui, tutto era meraviglioso: le case, la gente, l’odore dei tumi calpestati dai cavalli, le linee spezzate dei muretti di campagna e, oltre, la linea rotonda e azzurra del mare. In ogni nuovo quadro che si presentava davanti ai suoi occhi vedeva la mano di Dio! E, in quei momenti, non si chiedeva neanche se si trattava del Dio suo, oppure di qualche altro Dio. Passo dopo passo si sentiva sempre più orgoglioso di vivere in quella terra, e aumentava pure il desiderio di raccontare agli altri l’esistenza di quelle bellezze. All’occorrenza, ci avrebbe pensato lui ad aggiungere alle cose qualche poco di sale in più, se serviva. Fra quello che vide e quello che si figurò, alla fine compose tre canti: uno raccontava la strada fatta da Salice fino a Otranto, un altro da Otranto a Leuca e l’ultimo parlava del ritorno. E poi andò lui stesso a recitarli di persona in tante occasioni. Li compose davvero in dialetto, come aveva pensato, e la cosa suscitava curiosità e allegria nella gente. Tutti ridevano, bevevano alla sua salute e gli battevano pure le mani.

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Parte Prima

Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano

Quando accumuliamo religiosamente le testimonianze e i documenti del passato, in effetti, stiamo cercando di decifrare ciò che siamo alla luce di ciò non siamo più. M. Augé

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Il testo È il più antico testo poetico in dialetto salentino finora in nostro possesso. Risale agli anni a cavallo fra il 1600 e il 1700 e dunque ha all’incirca 300 anni. Le notizie relative a questo scritto e al suo autore si devono ai curatori delle edizioni critiche del testo e agli studiosi di letteratura e di dialettologia che negli anni se ne sono occupati.

Le edizioni precedenti In ordine di tempo, la prima edizione a stampa del poemetto la troviamo nel volume che raccoglie l’annata 1935 della rivista bimestrale di Arti, Scienze e Lettere «Rinascenza Salentina», diretta da Nicola Vacca. La dobbiamo a Michele Greco responsabile, allora, della Civica Biblioteca “Marco Gatti” di Manduria, cittadina situata fra Taranto e Lecce. Ricoprendo tale incarico, egli dice ebbe «la ventura di rintracciare una copia manoscritta del poemetto posseduta da Giuseppe Pacelli», l’erudito manduriano vissuto tra il 1764 e il 1811 che fin da giovane aveva iniziato a raccogliere e a trascrivere una grande quantità di materiali letterari salentini o, comunque, riguardanti il Salento. Il testo che Michele Greco rintracciò non era un autografo dell’autore ed era stato redatto da mano ignota, diversa anche da quella del Pacelli. Purtroppo, se ne lagna lo stesso Michele Greco, «è da considerarsi una copia, abbastanza errata e trascurata, dell’autografo del Marciano – che presenta – difformità e irregolarità della grafia – e addirittura – alterazioni del testo tanto da renderlo, in molti punti, oscurissimo e di difficile interpretazione». Ridottissime risultano, in quest’articolo, le informazioni sull’autore, quasi tutte desunte dallo stesso testo. Né queste informazioni diventano più consistenti quando, nel 1954, il testo viene pubblicato, con variazioni minime, dal linguista Oronzo Parlangeli, in appendice al volume Ottocento poetico dialettale salentino curato da Ribelle Roberti per l’editrice Pajano di Galatina. In questa appendice, aperta dall’intestazione Raccolta di testi dialettali salentini, si tralascia espressamente di entrare in merito alle problematiche relative ai vari testi pubblicati e dei quali si intende offrire solo

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una panoramica cronologica e una prima antologia. Il Viaggio del Marciano risulta introdotto da poche righe nelle quali è evidenziata la sua maggiore importanza rispetto agli altri documenti riportati «perché la lingua nel quale esso è scritto si rivela profondamente vicina al dialetto che nel Salento doveva essere parlato sulla fine del XVII secolo». Se ne riporta il testo in maniera scarna, senza traduzione e senza fornire alcuna nota circa l’interpretazione delle sue parti oscure, pur segnalate dal precedente editore. Altrettanto indefinita resta la figura dell’autore e del contesto nel quale si verifica la composizione, per le cui notizie il Parlangeli rimanda interamente alle poche righe riportate dal Greco. Nel 1956 l’emerito dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs pubblica il primo volume del suo Vocabolario dei dialetti salentini nel quale tiene accuratamente conto anche di tutte le voci che compaiono nel poemetto del Marciano rilevando anche, nelle note introduttive, che l’edizione del Greco alla quale egli si rifà, contiene “molti errori di stampa”. Trent’anni dopo si occupa del Viaggio Maria Teresa Romanello, assegnando al documento il posto che merita nel panorama della produzione letteraria dialettale del XVIII secolo. Ella vi individua, infatti, il primo instaurarsi di un modello letterario che troverà conferma e continuazione nella successiva produzione dialettale salentina fino alle soglie del Novecento. Il suo volume Per la storia linguistica del Salento (Edizioni dell’Orso, Alessandria 1986) raccoglie e mette a confronto tutti i testi dialettali fioriti nel Settecento in questo “estremo lembo della Penisola”. Si citano, accanto al Viaggio de Leuche, la commedia La Rassa a bute, il componimento satirico La Iuneide, o sia Lecce strafurmata, la farsa pastorale Nniccu Furcedda accanto ad altri testi coevi di minore estensione. La Romanello non riporta integralmente il testo del Viaggio, né se ne occupa in termini critici, lasciando così insoluti tutti i dubbi interpretativi espressi dal Greco nella sua prima edizione e anzi confermando, nelle citazioni, alcune grossolane sviste del copista denunciate dal Rohlfs come “errori di stampa”. Quando a interessarsene è Mario Marti, nel volume riguardante il Settecento della sua Letteratura Dialettale Salentina (Galatina, Congedo

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1994), vengono messe sensibilmente più a fuoco tanto la figura dell’autore, quanto altri particolari del componimento, come le circostanze del Viaggio stesso. Don Geronimo Marciano, nome all’anagrafe de Lu Mommu de Salice indicato dal copista come autore del poemetto, risulta essere nipote dell’erudito salentino Gerolamo Marciano (vissuto fra il 1571 e il 1628), noto per il suo Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, pubblicato a Napoli molto tempo dopo la sua morte, nel 1855. Risulta altresì nato nel 1632 a Maruggio, in provincia di Taranto, da Luca Marciano, di professione medico, e da Isabella Manaro, originaria di Salice Salentino. È questo il paese che l’autore elegge come propria patria tanto da farsi chiamare, appunto, Lu Mommu de Salice. Qui infatti la sua famiglia si trasferì presto in seguito alla morte del capofamiglia. Dalle ricerche del Marti sappiamo inoltre che don Geronimo fu arciprete per circa otto anni a Guagnano, località a qualche chilometro da Salice, e che visse l’ultimo periodo della sua vita a Casalenèu, cioè a Manduria, dove morì il 28 febbraio del 1714. Come risulta esplicitamente dalla dedica che apre il componimento, qui egli godette, come altri artisti e letterati suoi contemporanei, della tutela del mecenate don Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria. Quella del Marti è una rigorosa edizione critica che non solo si preoccupa di riportare integralmente il testo, ma aggiunge anche le opportune proposte di modifica e di integrazione alla trascrizione del manoscritto pubblicata per la prima volta dal Greco e mai messa in discussione. Marti presenta, naturalmente, anche una puntuale traduzione che, nel rispetto della lettera, restituisce senza soluzione quei punti oscuri denunciati dalle altre edizioni e, anzi, ne addita di nuovi. A volte la causa di questi costrutti oscuri viene attribuita ad “arditi metaforismi linguistici”; altre volte si avverte il tentativo di risolverli ricorrendo a possibili sviste dell’anonimo copista. Un altro accenno alla personalità dell’autore, soffermandosi soprattutto sul peso che ebbe il suo poemetto nella produzione poetica successiva, lo fa Donato Valli quando si occupa degli inizi della letteratura dialettale nel Salento, nella sua Storia della poesia popolare nel Salento pubblicata a Galatina per l’editore Congedo nel 2003.

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Questa edizione L’edizione che qui presentiamo non ha pretese critiche né filologiche; basa le sue conclusioni sugli studi precedenti testè citati e, per volersi soffermare in modo particolare sul contenuto dell’opera, si ripropone di risolvere a tutti i costi i dubbi interpretativi finora avvertiti e segnalati. A tale scopo non ha esitato a fare ricorso anche all’intuizione che, notoriamente, non è ammessa a chi persegue con rigore una metodologia prettamente filologica o critica. Volendo analizzare il contenuto dell’opera, avevamo bisogno di un testo scorrevole, libero dai singhiozzi interpretativi a cui obbliga un approccio rigorosamente scientifico. Le nostre soluzioni, naturalmente, tengono conto delle questioni riguardanti l’aspetto formale del manoscritto ma si concedono anche la libertà di interpretare a senso quei passaggi oscuri che, per essere sciolti, avrebbero bisogno di maggiori verifiche in una tradizione linguistica di cui, ahinoi!, abbiamo pochi altri documenti scritti. Il senso generale del testo, d’altra parte, ritrova concordi tutti gli editori precedenti, che si limitano ad interpretare in maniera diversa solo alcune probabili sviste del copista oppure la natura di alcuni suoi vezzi grafici che danno luogo all’incertezza circa la natura di alcune vocali, ad una punteggiatura approssimativa e a tentennamenti sia nell’accentazione che nella notazione delle maiuscole. Da parte nostra, per tentare di risolvere con una certa coerenza i passaggi dubbi, abbiamo messo a frutto, oltre alla nostra personale competenza di parlanti dialettofoni, anche i risultati del confronto con la competenza più accreditata di numerose persone anziane originarie dell’area leccese e salicese. Abbiamo sottoposto alla loro attenzione la lettura del testo e abbiamo tenuto in debito conto le considerazioni che ne emergevano. Questa verifica ha portato in diversi casi a delle soluzioni illuminanti che, per il fatto di essere dettate dal buon senso dei parlanti più che da complessi ragionamenti di natura dotta e filologica, appaiono ragionevolmente plausibili e coerenti con le intenzioni dell’autore. Nel commento al testo abbiamo, comunque, dato sempre atto della natura delle nostre proposte esegetiche affidandone, in ogni caso, l’accettazione definitiva ai linguisti e agli specialisti. Il nostro lavoro di interpretazione è stato integrato anche dai dati di

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natura extralinguistica raccolti nel corso di un’accurata indagine sul territorio, effettuata ripercorrendo passo per passo l’intero itinerario descritto nel Viaggio. Questa ricerca, condotta alla lettera sul campo, ha richiesto anche la consultazione di materiali extraletterari, come la cartografia storica, il Servizio Interattivo Territoriale (SIT), messo in rete dalla Provincia di Lecce e le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare (I.G.M.). È risultata altresì utile la consultazione di altri testi che, direttamente o indirettamente, forniscono notizie utili per una verosimile ricostruzione della viabilità antica del Salento e di altri dati riguardanti il territorio. Seguendo il cammino descritto dal Marciano ci siamo soffermati nelle località nominate. In vari punti del percorso abbiamo confrontato i nostri pareri anche con coloro che, per motivi diversi, si dichiarano interessati alla memoria, al dialetto o alle questioni riguardanti i cambiamenti del territorio. Allo scopo di verificare la natura di alcune osservazioni del Marciano abbiamo tentato, per di più, di trovarci nei vari luoghi nella stagione e nelle ore corrispondenti al suo passaggio. Riporteremo più avanti, dettagliatamente, il resoconto di questa nostra esperienza di viaggio che ci ha permesso la puntuale ricostruzione di alcuni particolari del poemetto. Per la traduzione in italiano abbiamo cercato uno stile scorrevole e consono al linguaggio attuale, che volgesse i versi di un dialetto arcaico e obsoleto in una prosa il più possibile piana, tanto dal punto di vista lessicale che del costrutto. Per ottenere questo scopo ci siamo talvolta concessa qualche libertà, sforzandoci comunque di non aggiungere nessun concetto che non fosse già presente (in modo esplicito o implicito) nel testo dialettale. Le note che abbiamo apposto al testo sono molto numerose e, per alcuni, possono risultare anche ridondanti. Ciascuno ne faccia un uso relativo alla propria competenza del dialetto e della cultura salentini, e sia disposto a tollerare il carattere pleonastico di talune osservazioni che si propongono comunque lo scopo di rendere comprensibile il testo dialettale anche a chi ha poca esperienza di questo idioma. Nel chiarire il significato dei termini si è sempre fatto riferimento, naturalmente, agli studi del Rohlfs e, in particolare, al suo Vocabolario dei dialetti salentini (Congedo 1976) al quale si rimanda per ogni dubbio lessicale non sufficientemente chiarito. 24



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