VITA DI BORGATA

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traversamenti | 03 collana diretta da Anna Chiriatti

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie, passioni, percorsi, progetti, memorie. Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, desideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti e incanti di realtĂ . Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Indagano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali. Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi, oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri. Sono tensioni di futuro. Traversamenti.




Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-92-1 Questo libro è stato pubblicato in prima edizione nel 1980 da Nuova Guaraldi Editrice Chiuso in stampa nel mese di febbraio 2013

© Edizioni Kurumuny – 2013


Certo è più facile limitarsi a dire, come anche troppo spesso si sente: questo bambino non è intelligente. Non è giusto. È anzi lo sbaglio supremo che si può fare con un uomo, l’ingiustizia massima che si può usargli, il metterlo con tanta disinvoltura nella categoria delle bestie, senza aver prima chiamato a raccolta tutta l’iniziativa di cui si può essere capaci, tutto il calore umano che uno può avere, per restituire alla vita queste sue parti gelate. Émile-Auguste CHARTIER, detto ALAIN



A Filomena, Mariacarmine, Antonia e Luciano



Indice

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Introduzione di Enrico Fontana

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Prefazione Presentazione Nasce una scuola La scuola è laica Contrasti In campagna Di quel securo il fulmine Una strana Via Crucis Scriviamo al sindaco di Roma Il costo della scelta Scuola e lotta: prima occupazione Maria I ragazzi viaggiano Le pecore di Belisario Nun tengo più gnente, che te devo dà? Lettera ai cristiani di Roma I ragazzi scrivono la cronaca Spieghiamo il sesso Ursa Don Paolo e l’elettricità Il lavoro

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Muore Luciano Leggiamo insieme Non tacere Tentano di chiuderci nel ghetto Artemio Crisi della scuola Sul piazzale delle coppie L’udienza Si parte Dalle case alle baracche

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Postfazione Educare non è come scrivere sulla sabbia

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Appendice I Appendice II

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Introduzione Enrico Fontana*

Appena ho finito di leggere Vita di borgata, in questa sua seconda edizione, mi è venuta in mente una frase rintracciata da don Luigi Ciotti nei diari di Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla Stidda agrigentina il 21 settembre del 1990. Alla fine, scriveva Livatino, «non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili». Lui, giudice ragazzino, come veniva definito in maniera dispregiativa, con una fortissima fede religiosa, sapeva perfettamente quale fosse la differenza tra una formale e ipocrita adesione ai precetti della religione cattolica e l’interpretazione autentica, nella vita di tutti i giorni, degli insegnamenti evangelici. Non era una questione di “credo” ma, appunto, di “credibilità”. E basta scorrere le pagine di questo libro per essere trascinati dai racconti e dalle riflessioni di don Roberto Sardelli, nella sua personale, faticosa ed entusiasmante ricerca di credibilità. Lui, giovane sacerdote fresco di seminario, scopre subito la differenza tra le parrocchie ambite, quelle del centro di Roma, e quelle che era meglio evitare, nelle periferie degli anni Sessanta. E messo alla prova, sceglie il luogo in cui sente più autentica la sua missione: il baraccamento, come si chiamava allora, dell’Acquedotto Felice. Lì, tra quelle baracche, vivendo la stessa esistenza, dura e difficile, di chi le abitava tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, don Roberto costruisce, tra mille difficoltà e altrettante contraddizioni, che non nasconde mai neppure a se stesso, un’esperienza straordinaria di pedagogia popolare, come l’ha de-

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scritta qualcuno, ma che riletta oggi assume più il carattere di una vera e propria pedagogia politica, che farebbe bene a tutti coloro che già svolgono, o intendono assumere, ruoli pubblici. Non c’è nulla di scontato in questa esperienza, raccontata come biografia personale e collettiva allo stesso tempo. Non è scontata la dogmatica classificazione a sinistra, magari rivoluzionaria, dei valori e dei metodi di don Sardelli, a cominciare dalla Scuola 725, dal numero civico della baracca di nove metri quadrati che la ospitava, nata tumultuosamente («all’appuntamento si presentarono circa 50 ragazzi di tutte le classi, dalle elementari alle medie») il «14 ottobre del 1968 alle ore 15,30». Non è scontato che un sacerdote della “liberazione” bacchetti senza mezzi termini l’estremismo fine a se stesso, di quei giovani che andavano a trovarlo proponendogli lotte ancora più aspre, parole ancora più forti e a cui chiedeva dove sarebbero stati e cosa avrebbero fatto il giorno dopo e quello dopo ancora. Non è scontata la reazione dei baraccati, dei giovani che frequentano la 725 e delle loro famiglie, che oscillano tra voglia di partecipare e disillusione. Quella in cui si viene immersi leggendo Vita di borgata è una realtà che ha molto da insegnare ancora oggi, nonostante siano passati oltre trent’anni dalla sua prima edizione e dalla demolizione delle baracche dell’Acquedotto Felice. Un esito nient’affatto scontato, anche nelle sue conseguenze, tra l’entusiasmo di avere finalmente una casa degna di questo nome e l’ansia di sentirsi deportati in un quartiere, la Nuova Ostia, dove manca tutto, a cominciare dall’umanità. Una storia, quella della lotta di liberazione dell’Acquedotto Felice, che «Paese Sera» in quegli anni ha raccon-

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tato molto da vicino, sostenendo l’impegno di don Sardelli e dei suoi giovani, con una cronaca rigorosa, attenta ma mai neutrale. A quegli articoli si fa riferimento diverse volte nel libro, come quando viene raccontata, il 15 dicembre del 1969, la lettera al sindaco, destinata a diventare famosa anche oltre confine: «Si tratta di una denuncia esplosiva dello stato di abbandono morale oltreché fisico, e anche di un messaggio socio-religioso e infine di un monito», scrive «Paese Sera». O quando, il 4 marzo 1972, il quotidiano pubblica il testo integrale di un’altra lettera, scritta da 13 sacerdoti di periferia e rivolta ai cristiani di Roma, presentandola con questa nota: «Queste pagine sono un atto di accusa implacabile condotto sulla realtà di Roma e sul filo dello spirito del Vangelo. Le proposte che questi sacerdoti avanzano non sono utopiche, specie là dove prospettano i cambiamenti da introdurre nel presente assetto sociale. Se le leggi – essi dicono – non consentono una soluzione dei problemi, se ne facciano delle altre. L’uomo è superiore alla legge. Il testo è tanto più impressionante in quanto viene dopo l’appello della CEI. Lo offriamo integrale alla lettura, convinti che esso rappresenti un documento importante del nostro tempo». Non è un caso, insomma, che il «Nuovo Paese Sera», tornato a vivere sotto forma di quotidiano on line e di mensile, abbia chiesto a don Roberto Sardelli di scrivere una rubrica, “Terra e cielo”, in cui ogni mese vengono sollecitate riflessioni, rilanciate denunce, approfondite questioni che interrogano credenti e non, da quelle sulle gerarchie ecclesiastiche alle responsabilità dei partiti e della classe politica romana. Senza sconti, com’è sempre stato nello stile di don Sardelli, sin dai primi mesi della sua missione tra i baraccati di Roma. A chi avesse dubbi

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sulla genuinità di questo impegno consiglio di leggere le pagine dedicate alla critica, radicale, dell’elemosina e quelle, divertenti, sulla ritirata dei salesiani che avevano scelto l’Acquedotto per una Via Crucis letteralmente stravolta da don Roberto e dai suoi ragazzi. Il profilo di don Sardelli emerge con chiarezza anche quando racconta dei suoi burrascosi incontri con le gerarchie ecclesiastiche, dal parroco di allora di San Policarpo al vescovo Canestri («Voi non siete i ministri del coraggio e del rischio. Voi non amate la luce, ma agite nel buio dei vostri templi. Voi siete i ministri del sospetto e non della franchezza»). Ma è significativa anche la semplicità con cui è capace di descrivere un altro incontro: quello con il papa Paolo VI a cui consegna la seconda lettera ai cristiani di Roma, scritta insieme ad altri preti come lui sui mali di Roma, a cominciare, già allora, dalla speculazione edilizia. Ricorda don Sardelli di aver detto al papa che «bisogna fare qualcosa, compiere dei gesti di credibilità. Una città e una chiesa incapaci di farsi carico delle speranze dei poveri, sono come un uccello senza le ali, un mostro». L’obiettivo, ambizioso da raggiungere, era quello di «incidere su una coscienza narcotizzata dallo stigma dell’esclusione. Ridestare dal sonno la coscienza e condurla a mostrare con orgoglio quello che si era nella realtà e non a nascondersi umiliati, coperti di vergogna», come Cesidio, uno dei primi ragazzini incontrati da don Roberto nella parrocchia di San Policarpo, a Cinecittà. A questi giovani, tra mille difficoltà, era rivolta una proposta scolastica tutta particolare, profondamente ispirata dall’esperienza di don Milani e della sua scuola di Bibbiena, che don Sardelli andò a visitare e che è ancora oggi il suo modello di riferimento: «Crediamo che questo

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sia il compito di una scuola: creare una comunità di persone e non individui isolati; educare al servizio degli altri e non all’arrembaggio dei primi posti». Lasciata la parrocchia, o meglio sollecitato ad allontanarsi, don Sardelli decide di andare a vivere lì, tra i baraccati, i suoi autentici parrocchiani, quella che sarà anche la sua personale liberazione: «La ripulitura dell’Acquedotto continuava: non più luogo di scarico della pietà, ma luogo di lotta e di cultura (…). Imparavamo a spogliarci del vestito che ci avevano messo addosso di essere portatori di bisogni e indossammo l’abito di portatori di diritti». Vivrà una stagione intensa di movimenti di lotta per la casa, occupazioni, manifestazioni, cariche della polizia e snervanti trattative in Campidoglio. Oggi quelle baracche dove vivevano cittadini italiani, in buona parte abruzzesi di origine, sono state sostituite altrove da altre baracche, dove vivono altri cittadini italiani ma di un’etnia diversa: i rom. E dalla parvenza di legalità delle murature realizzate tra gli archi dell’Acquedotto Felice si è passati all’illegalità da sgomberare delle lamiere messe insieme a ridosso delle sponde dell’Aniene o nei vuoti urbani, negli spazi abbandonati al degrado, da ripulire senza troppi scrupoli. Se possibile, è cresciuta ancora di più la distanza tra i cittadini di serie A, quelli che vivono nelle loro rispettabili abitazioni, com’erano quelle di via Lemonia a ridosso della baraccopoli dell’Acquedotto, e i cittadini di serie B, invisibili fino a quando non diventano fastidiosi. Così come sono ancora più lontane di ieri dal centro della Capitale le nuove borgate, quelle oltre il Grande raccordo anulare (Gra), dove alle baracche si sono sostituite le case, magari di proprietà, ma continua a mancare sempre tutto: dai servizi sociali alla cultura, dai luoghi d’incontro ai mezzi pubblici.

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Sono 57 le nuove borgate romane, ex abusive, cresciute oltre il Gra, secondo uno studio, “Periferie di mezzo”, realizzato nel 2010 dall’Associazione italiana casa e dall’Unione borgate. Qui vivono oltre 330 mila abitanti, «poveri no, esclusi sì», scrivono i ricercatori. Che non vogliono andare via ma chiedono trasporti pubblici, parcheggi, servizi. E soprattutto vorrebbero vedere quelle ex borgate abusive diventare finalmente quartieri, con luoghi d’incontro e di svago, negozi, scuole, servizi sociali, insomma con gli stessi standard del centro. Nella lettera al sindaco scritta nel 1970 dai ragazzi della 725 la realtà che veniva descritta era drammaticamente diversa: «Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto (…). L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche». Ma anche nelle nuove borgate, dove la casa è spesso di proprietà e si respira quasi sempre aria buona, è la consapevolezza comune che deve fare uno scatto: «Se nelle periferie non si formeranno interessi collettivi, non ci saranno prospettive per migliorare la qualità della vita», spiega al mensile «Paese Sera» (numero 1, giugno 2011), Paolo Iannini, socioeconomista del gruppo che ha curato la ricerca. In fondo è lo stesso percorso avviato tra i baraccati dell’Acquedotto Felice da don Roberto per uscire dalla narcosi dell’individualismo e cercare strade diverse, fatte di condivisione e corresponsabilità. Immerso nelle nuove realtà della Capitale del Terzo millennio e nelle sue contraddizioni, don Roberto Sardelli è sempre impegnato a

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costruire la propria credibilità di sacerdote con la stessa passione di allora. Tanto che sembrano scritte oggi le parole che lui stesso dedica, più di trent’anni fa, alla faticosa costruzione di una speranza e di un progetto di cambiamento per Roma, e non solo: «O noi nelle scuole, nelle sedi dei partiti e dei sindacati, nei centri religiosi e sociali, in un grande sforzo comune riusciremo a elaborare un progetto per il futuro o dovremo piegarci davanti al dominio dell’omertà, della sfiducia, della banalità e del grigiore. Dobbiamo ricomporre i frammenti dispersi della fiducia». Rileggere oggi Vita di borgata aiuta senz’altro a farlo. A me è servito sicuramente. Buona lettura a tutti. Roma, 15 novembre 2012

*Direttore del «Nuovo Paese Sera»

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Prefazione

Dal seminario alla scelta passando per don Milani Fin dagli ultimi anni del seminario, parlo del 1965, mi ha sempre turbato il fatto che la città fosse considerata come strutturata su un centro e una periferia. Si parlava di parrocchie “in” e di parrocchie “aut”. Le prime erano appetibili, di prestigio perché ben servite dai servizi sociali e culturali, perché popolate di gente perbene, dalla borghesia media e alta fino all’aristocrazia. Le seconde, al contrario, venivano descritte come desolate, abitate dal malaffare, da lavoratori abbrutiti e... comunisti. Se qualche seminarista, la domenica, vi si inoltrava, il suo impegno, principalmente rivolto ai ragazzi, non andava oltre l’organizzazione di partitelle sul campo sportivo parrocchiale, intercalate da lezioncine di un catechismo astratto e nozionistico che evitava accuratamente di farsi carico delle condizioni in cui quei ragazzi vivevano. Mi sembra ovvio osservare che a questo tipo di tirocinio pastorale si dedicassero soprattutto i seminaristi meno portati per lo studio e più portati per la pratica. Si trattava di una vera e propria manovalanza ecclesiastica priva di una qualsiasi coscienza dei problemi della periferia di una grande città, con un atteggiamento pedagogico dozzinale e praticone che riduceva l’uomo a un individuo da attrarre con il giochetto del biliardino per portarlo, dopo, al catechismo. Si arrivava al punto di escludere dal giochetto i ragazzi che non frequentavano la messa. L’oratorio era sostanzialmente questo.

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Una visione del genere mi apparve subito come paralizzante e offensiva non solo dei ragazzi stessi, ma anche della mia dignità di educatore. Ricordo con angoscia il giorno che, per la prima volta, fui mandato come viceparroco in una parrocchia della periferia ovest di Roma. Il parroco, prima di darmi il benvenuto, mi si presentò trasmettendomi gli strumenti del mio ministero: mi mise tra le mani un pallone dicendomi che i ragazzi potevano giocare tutti i pomeriggi dalle ore 16 alle ore 18. Io, esterrefatto, prendendo il pallone lo lasciai scivolare per terra. Se il mio impegno era significato da quella traditio instrumentorum io non ero la persona adatta. Era una visione che istintivamente mi ripugnava, ma, non avendo una soluzione di ricambio, tacqui. Mi agitavo interiormente come un pulcino nella stoppa ed ebbi chiara la sensazione che, continuando così, prima o dopo ne sarei rimasto soffocato. Come uscirne? Non si poteva che partire da quella situazione. Rimuoverla non avrebbe risolto l’interrogativo. E decisi di collocarmi nel solco della ricerca di una risposta. Occorreva compiere delle scelte e trarne tutte le conseguenze. Bisognava smettere di parlare dei poveri come se fossero dei vasi vuoti da riempire perché non avevano nulla da offrire. Nella migliore delle ipotesi erano considerati come destinatari della beneficenza elargita dagli appagati. Per me si faceva sempre più chiara l’idea che bisognava farla finita con catechismi anacronistici intrecciati con partitelle a pallone e biliardini accompagnati dalla proiezione di squallidi film parrocchiali. Occorreva aprire una pagina completamente nuova che restituisse dignità alla scelta di un prete e dignità

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alle persone cui egli si rivolgeva. Altro che pallone! La ricerca mi portò a Barbiana del Mugello, dove c’era un prete che gridava, don Milani, il cui nome non poteva essere pronunciato in un almo seminario dominato dai linguaggi vellutati e perbenisti, dove prevaleva il fascino e la legge del “rosso serico sacerdotale”.

Andare oltre Dopo quell’incontro decisi di salire ancora più in alto e mi inoltrai nella grande città come un Giona attraverso Ninive, e arrivai nella baraccopoli dell’Acquedotto Felice. In una baracca di 9 mq aprii la Scuola 725, cosiddetta dal numero civico della baracca. Ai ragazzi che la riempirono all’inverosimile non proposi le facezie del genere parrocchiale che forse si aspettavano da me, né catechismi posticci lontani dalla loro condizione; non detti loro nemmeno il sospetto che stessi lì per fare il proselitismo d’accatto cui erano abituati. Posseduto da un lampo di follia creativa, proposi lo studio come leva per uscire da una situazione umiliante in cui la città del centro li aveva gettati. Non fu facile, né potevo pretendere che capissero subito. Puntai tutto sull’orgoglio, sulla loro potenziale intelligenza che aveva bisogno di una spinta dall’esterno per potersi manifestare, sul riscatto come conquista e non come elargizione dall’alto. Studio a tempo pieno: non si trattava solo di recuperare gli anni perduti in una scuola pubblica che li considerava ragazzi perduti. Si trattava di aiutarli a prendere coscienza della situazione che li aveva discriminati e in cui si trovavano a vivere non per loro scelta. Bisognava passare al contrattacco

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e, da ultimi, superare i primi. Cosa facile a dirsi, ma poiché io ne ero convinto non ci restava che osare. Rendersi conto, giorno per giorno, di ciò che ci accadeva. Fu questo il mio lavoro più duro, perché mirava a incidere su una coscienza narcotizzata dallo stigma dell’esclusione. Ridestare la coscienza dal sonno e condurla a mostrare con orgoglio quello che si era nella realtà e non a nascondersi umiliati, coperti di vergogna. Tutto questo potetti farlo sulla base della mia opzione. Abbandonai ogni tipo di copertura clericale, ogni privilegio, e iniziai a testimoniare una condivisione della loro esistenza, delle loro incertezze, delle loro speranze, delle loro lotte per costruire l’exit di cui noi tutti insieme dovevamo essere gli artefici. La solidarietà, molto avara a questo punto, era la benvenuta, ma sulla base del nostro impegno e della nostra critica alla città dominante.

Il mondo in una baracca In quel piccolo, umido e freddo spazio di 9 mq non imparammo solo a leggere, a scrivere e a far di conto, ma ogni sera, al lume di una tremolante candela, giornale alla mano imparammo a riflettere su quanto ci accadeva intorno, su quanto accadeva nel mondo ed entrava nel nostro spazio angusto: le fragili mura venivano abbattute e sotto gli archi dell’Acquedotto che ci sovrastava risuonavano le voci del mondo, della rivolta di Battipaglia, della sofferenza del Vietnam, dell’I have a dream di Martin Luther King, del Satyagraha del mahatma Gandhi. Fu una fatica perché bisognava tutti uscire da un’educazione centrata sull’individuale per costruire in

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noi stessi una dimensione dove prevalesse l’afflato collettivo. La causa dell’altro è la mia causa. Le relazioni con gli altri dovevano acquisire un peso crescente nella nostra formazione e così scoprire la componente pedagogica del nostro parlare e del nostro agire. Dov’era il maestro? Dov’erano gli alunni? Ognuno diventava docente dell’altro. In un primo momento il mio ruolo fu prevalente, e non poteva essere diversamente in una situazione in cui la cultura dominante aveva giocato pesantemente e aveva creato diffusi stati di apatia e di sfiducia in se stessi. Sapevo bene che l’ideale sarebbe stato che gli interessati avessero loro stessi organizzato un percorso culturale e avessero svolto il ruolo sociale e politico che a loro spettava. Ma nel contempo vedevo che un ruolo non poteva essere negato alla solidarietà e alla condivisione che veniva da fuori. Spesso il migrante viene a trovarsi in una situazione caratterizzata dall’estremo disagio fatto di carenze varie, di difficoltà a esprimersi, di assenza di strumenti culturali per potersi fare ascoltare nei suoi diritti. A questo punto hanno bisogno di uno che parli per loro, e qui prende le mosse l’etica del discorso di difesa, che sarà valido ed efficace nella misura in cui colui che parla abbia un fondamento etico e agisca con il massimo e trasparente disinteresse. Insomma, l’incontro con il povero, nell’ambito della proposta evangelica, non lascia inalterate le situazioni personali e strutturali, ma la sua alta carica etica manifesta un mutamento reale che non consente di esaurire tutto nella pratica della beneficenza, ma interroga il palazzo e le sue strutture piramidali e oppressive. Ed è qui che per me nascevano difficoltà con le gerarchie ec-

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clesiastiche che mi invitavano a occuparmi dei baraccati e lasciare ad altri, ai vescovi, il problema della chiesa. Io non mi consideravo in missione, bensì testimone di una scelta. In questa prospettiva l’ambiente che mi circondava, a sua volta, mi diventava maestro, imparavo nuovi linguaggi, creava in me nuove visioni e nuove gerarchie di valori rivoluzionando le precedenti. Non potevo sfuggire a questa stretta. Dovevo uscire dal guscio e, nudo, inoltrarmi sulla strada degli altri. È qui, nello spazio della scuola, che scoprivamo quanto, oltre i linguaggi razionali, avesse un ruolo l’espressione artistica che ci aiutava, attraverso vie sconosciute, a leggere la realtà personale e sociale. Disegnando la triste adolescenza di Malcolm X («Quando mia madre era incinta di me», così iniziava la sua autobiografia) e la sua faticosa ricerca e ascesa, capivamo la nostra condizione, imparavamo a liberarci dello stigma che ci mortificava e ci isolava, imparavamo a spogliarci del vestito di portatori di bisogni, che ci avevano messo addosso, e a indossare l’abito di portatori di diritti. Per la prima volta, da un vecchio registratore Geloso potemmo ascoltare la Sesta Sinfonia di Beethoven. Fu in agosto. Ci trovavamo tutti in campagna per un intero mese, e sotto un grande leccio, tra una discussione e l’altra, introdussi storicamente la Sesta. Per i ragazzi che venivano prevalentemente da una cultura e da un ambiente rurale dominato da sconfinati boschi e frequentato da pastori, il sentir tradotta in musica la loro esperienza esistenziale fu una scoperta meravigliosa che allargava le nostre conoscenze verso spazi impensabili. Mentre ascoltavamo Il temporale e successivamente l’Ecco il sereno!, un passerotto nascosto tra il fogliame del leccio cantò come per unirsi al nostro godimento. In

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quel momento ci rammaricammo di non avere a disposizione un registratore per immortalare l’evento che Beethoven non aveva previsto e che la natura ci donava. Svolgere tutto questo lavoro in un ambiente degradato moltiplicava le normali difficoltà, ma io non desistevo. Ero convinto che le aspettative stimolassero nei ragazzi il risveglio di energie sopite: gli ultimi devono diventar primi, mi ripetevo, devono essere loro a prendere la parola.

Lettera al sindaco La Lettera al sindaco fu il primo documento di scrittura collettivo elaborato in un luogo famigerato che, finalmente, alzava il capo e mostrava di essere quello che era, non più quello che altri volevano che noi fossimo, violentando la nostra identità, congelandoci nel loro cliché di comodo. Da quel documento, che fu tradotto in varie lingue, la lotta per la casa prese nuovo vigore e di lì a qualche anno avrebbe provocato un terremoto politico che mai si sarebbe verificato senza il nostro apporto. Lo stesso convegno sui mali di Roma, organizzato dalla chiesa romana, aveva nella lettera le sue prime radici.

Oggi Sono passati quarant’anni, e se allora ci trovammo a vivere nel pieno della società dei consumi che erodeva la nostra coscienza, oggi ci troviamo a vivere le prime

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fasi del suo drammatico crepuscolo. Le vetrine si vanno spegnendo. In uno splendido giorno di maggio del 2007, 39 anni dopo il primo incontro, ci siamo rivisti tutti all’Acquedotto Felice, ora chiamato Parco degli Acquedotti. Non ci siamo limitati a ricordare, ma partendo dai ricordi le nostre osservazioni si sono allargate all’oggi della città. Usando gli strumenti e il metodo di allora abbiamo guardato la città, attraversata da una gravissima crisi culturale e sociale. Lo scambio di vedute, in quel giorno, si snodava così linearmente che a un certo punto, Fabio Grimaldi, il regista documentarista di Non tacere, che ci seguiva, ci chiese se per caso non ci fossimo incontrati la sera precedente. –No!– è stata la nostra risposta –Ci siamo visti 39 anni fa! Riproporre il percorso della Scuola 725 è certamente reso più difficoltoso, ma non meno urgente. Allora noi speravamo, oggi si dispera. Ma proprio ora occorrono lampi di follia creativa. Purtroppo noto in giro troppe braccia penzoloni e altre pronte a rattoppare i guasti isolati e moltiplicati dalla crisi. Si dirà: meglio i rattoppi che nulla, e ci consoliamo. Ma se anche noi, in quel tempo, ci fossimo rassegnati al rattoppo, e di motivi ce n’erano, oggi non potremmo raccontare la portata del nostro impegno. Io non potrei che parlare in prima persona singolare, invece mi esprimo in prima persona plurale perché fu un popolo a scrivere quella pagina dall’inferno delle baracche, da dove sembrava non potesse nascere nulla di buono. Addormentati dalla cultura amnestica, non siamo più in grado di attingere dal “fu” e di raccogliere quel filo

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rosso che abbiamo lasciato cadere, ma che solo ci permetterebbe di ritrovare la follia là dove, impaurita, si è annidata. Ci resta difficile capire che la profezia ha il suo terreno di cultura nella privazione. Insomma viviamo un tempo triste, ma è anche l’occasione buona per costruire, e la scuola resta lo spazio principe per dare radici al progetto. È un’avventura affascinante che sarebbe bene non evitare.

Ottobre 2012

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Presentazione

Nell’anno 1585, appena eletto al pontificato, Sisto V ideò un grandioso progetto urbanistico che prevedeva, tra l’altro, lo sviluppo di Roma attorno alla zona che oggi circonda piazza di Spagna. Per alimentare di acqua questa zona restaurò l’antico acquedotto di Alessandro Severo (226 d.C.) dandogli il proprio nome di battesimo (da cardinale si chiamava Felice Peretti). Così lo stesso acquedotto che, in alcune zone di Roma, è chiamato ancora “Alessandrino”, in altre, specialmente periferiche, tra l’Appia antica e la Tuscolana, è meglio conosciuto come “Felice”, e Felice è chiamata l’acqua che esso tuttora trasporta. Sotto i suoi archi, tra il 1936 e il 1973, 650 famiglie costruirono altrettante baracche e lì vissero una storia la cui ultima parte (1968-1973) è raccontata in questo libro.

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Nasce una scuola

Far scuola tra le baracche In una domenica dell’ottobre romano del 1968, fui incaricato dal parroco di S. Policarpo di celebrare il matrimonio di persone a me sconosciute. Prima di cominciare il rito, mi rivolsi ai due chierichetti che si preparavano ad accompagnarmi, e chiesi loro: –Dove abitate? Dopo essersi guardati per un istante in viso, uno di loro, esitante e con voce appena percettibile, rispose: –All’Acquedotto Felice, alle baracche. –E come ti chiami? –Adolfo. Poi, rivolgendomi all’altro: –E tu, come ti chiami? –Cesidio. –Come? –Cesidio. Mi era talmente nuovo il nome che dovetti farmelo ripetere due volte. Erano, questi, due ragazzi timidissimi e talmente avari di parole che mi scoraggiarono a continuare il discorso. Dopo la messa riuscii ancora a sapere che Adolfo non andava più a scuola e, a dodici anni, s’era fermato alla quarta elementare. Ora lavorava a “Vini e oli”. Cesidio invece frequentava la quarta ginnasio. –Sareste contenti se venissi a far scuola tra di voi? Mi risposero con un fioco sì, dettato più dalla sconvenienza di dire no a uno che passava per superiore che

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dalla convinzione. La proposta della scuola non è che fosse scaturita improvvisamente dalle mie labbra. Era un’idea che curavo da molto tempo. Ora, per la prima volta, mi trovavo a formularla davanti a due ragazzi. Mi accorsi che il breve e scarno incontro con loro dava alla mia idea due volti. Si trattava di due volti tipicamente meridionali: Adolfo già segnato dal lavoro precoce, Cesidio, ancor fine nei tratti, rifletteva negli occhi una tristezza incarnata e rassegnata.

Primi collaboratori Qualche giorno prima avevo incontrato Enzo, un giovane sui vent’anni, capo di un gruppo giovanile parrocchiale. Egli aveva scelto le baracche quale luogo del suo impegno socio-cristiano. Tranne Enzo, nessuno degli altri giovani della parrocchia intendeva il ruolo di una scuola tra i baraccati. E io cercavo giovani che non si fossero perduti in inutili discussioni da liceali presuntuosi. In questa fase di approccio, non avevo bisogno di collaboratori che pretendessero di discutere ogni mio pensiero e ogni mia intuizione, ma di gente generosa, pronta a giocare sulla fiducia e non sul sospetto, disponibile ad approfondire e a verificare e non a far chiacchiere da intellettualini. Il metro che avrebbe dovuto misurare noi tutti erano i ragazzi del borghetto.

Numero civico 725 Questi giovani, intanto, avevano comprato una baracca al numero 725. Misurava tre metri per tre e cin-

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quanta. Aveva una porta e, sullo stesso lato, una piccola finestra con un vetro smerigliato. La baracca non era alta più di due metri. Fu ripulita e imbiancata, ma ci rendemmo subito conto della sua insufficienza ad accogliere insieme alunni e maestri, quindi ci mettemmo alla ricerca di un altro ambiente. Natalino, al numero 601, ci offrì una sua baracca abbandonata che cominciammo subito a ripulire. Era lunga e stretta, buia e terribilmente umida, senza finestre e con una porticina sgangherata che, per entrarci, bisognava piegarsi. Avrebbe potuto essere benissimo una grotta per la coltivazione dei funghi. Ma non c’erano altre possibilità di scelta e dovemmo fare di necessità virtù. Vi sistemammo una vecchia stufa a legna. Per arredare didatticamente questi ambienti prendemmo dalla parrocchia dei tavoli, delle panche e una lavagna inutilizzati. Con l’aiuto di alcuni ragazzi più grandi sistemammo tutta questa ricchezza nel miglior modo possibile. La lavagna la inchiodammo a una parete della baracca 725; alla 601, con tutta quell’oscurità non sarebbe servita. Il 14 ottobre del 1968, alle ore 15,30 cominciammo a far scuola. All’appuntamento si presentarono circa 50 ragazzi di tutte le classi, dalle elementari alle medie. Non sapevo dove mettere le mani e mi lasciavo trascinare un po’ dalla logica dei fatti. Ogni piano che avevo concordato con i giovani saltava senza riguardo e pietà alcuna. La volontà non mancava, ma c’era anche una grande confusione. Dividemmo i ragazzi tra i due ambienti. Io non facevo altro che passare da una baracca all’altra per vedere come procedevano le cose. Mi resi conto che non potevano procedere.

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Il problema dello spazio ci condizionava e ci innervosiva tutti. Accanto a queste difficoltà oggettive, bisognava calcolarne altre: né i ragazzi né i giovani che li aiutavano avevano un’idea di come potesse funzionare una scuola. I primi, approfittando di trovarsi insieme in uno stesso piccolo luogo, scaricavano tutte le tensioni e davano libero sfogo alla vivacità senza porsi minimamente il problema dello studio, della necessità di creare il clima perché si potesse studiare. Con rare eccezioni, dipendevano totalmente dal giovane al loro fianco. Per ogni parola, per ogni rigo, per ogni problema, per ogni lettura, avevano bisogno di chiedere. Qualcuno dei giovani si faceva in quattro per rispondere a tutte le domande che si accavallavano l’una all’altra. Le ragazzette più grandi facevano cerchio intorno al giovane che, nella loro mente, rappresentava il miglior partito disponibile.

Mi fija nun è scema! Mentre facevo la spoletta tra una baracca e l’altra, verso le 18 mi venne incontro una delle mamme delle ragazzine. Mi assalì, con un fiume di parole, ad alta voce: –A don Robè io mi fìja nun ce la manno più a la scola, aoh, du’ ore per faje fa’ na paggina de bastoni! E che mi fija è cretina, e che l’avete presa proprio pe na scema mi fija? Annate affanculo, mi fija nun ce la manno più a la scola! A li mortacci loro, aò co’ du’ ore a faje fa na paggina de bastoni! Io, questa benedetta “fija” non la conoscevo. Chiesi che classe frequentasse e mi rispose che faceva la prima elementare. Al che, quasi impaurito, risposi:

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–Ma se non ci capiamo un po’ tra di noi, io solo non riuscirò a fare nulla. Non vedi che confusione? Non riusciamo a seguire tutti, non conosciamo nemmeno il nome dei ragazzi, se poi ci facciamo venire i nervi non arriveremo a concludere proprio nulla. –Don Robè voi parlate bene, ma mi fija nun è scema e io a la scola nun ce la manno più. Se ne andò dicendo così, forse esasperata e sconfitta nelle sue speranze, tra cui non rientravano i “bastoni”. Per un istante rimasi lì, impalato, come chi viene a conoscenza improvvisa di una sgradevole realtà. Ebbi la tentazione di fuggire subito via. Mi frenai, mi superai. Verso la stessa ora, si dovettero accendere le candele che avevo portato dalla parrocchia. L’operazione elettrizzò ancora di più i ragazzi. Non facevano che far scorrere sui tavoli la cera liquefatta, se ne modellavano delle palline e se le lanciavano reciprocamente. Dopo circa due ore di confusione indescrivibile, i più piccoli li mandammo a casa. I più grandi non avevano ancora terminato i loro compiti scolastici. Era chiaro che in quelle condizioni non avremmo raggiunto nemmeno lo scopo minimo: far svolgere ai ragazzi i compiti della scuola di Stato. Dopo qualche giorno, avendo notato l’assenza di alcuni ragazzi più grandi, chiesi: –Perché non sono venuti? –I genitori non vogliono mandarli più perché qui non si studia– risposero alcuni ragazzini. Capii che la situazione andava presa decisamente in mano. Lasciarla a se stessa, in attesa che i ragazzi e i giovani avessero compreso, era un rischio che ci avrebbe portato a porre termine all’iniziativa di lì a qualche giorno.

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Verso le 18,30, con i ragazzi e le ragazze dalla quinta elementare in poi, ci ritrovammo nella baracca 725 che era la più accogliente. Quando ci fummo pigiati, io mi sedetti su una sedia sotto la lavagna e cominciai a parlare. Forse avrei dovuto cominciare a leggere qualche cosa sulla loro vita, ma avrei incontrato le stesse difficoltà. Forse avrei dovuto far parlare loro, ma l’avrebbero fatto? Credo di no. Non esistevano i presupposti per poterlo fare.

Americani e Viet-cong Non feci certamente il bilancio della giornata; sarebbe stato inutile poiché tutti l’avevano sperimentato. Era meglio cominciare immediatamente con qualcosa di nuovo, per fare intendere a tutti che una scuola nelle baracche non poteva limitarsi ai compiti della scuola di Stato, non poteva essere di serie B perché esistente in un ambiente di serie B. Proprio in quei giorni infuriava la guerra in Vietnam. Aprii un libro che avevo portato con me, Americani e Viet-cong. Cominciai a leggere. Non guardavo, né mi interessavano i giovani studenti. Essi possedevano già tutti gli strumenti per capire. Guardavo i ragazzi e mi accorgevo che non seguivano. Si distraevano tra loro con scempiaggini varie. Avvertivo la loro estraneità alla mia lettura. Le parole cadevano in quel piccolo spazio senza che interessassero o venissero accolte da qualcuno. Notavo solo visi indifferenti e, nella migliore delle ipotesi, interrogativi: –Ma che vuole questo?

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–Che cosa sta leggendo? –Ma che ce frega a noi de sta roba? Continuai a leggere così, a lume di candela, ancora per una decina di minuti. Poi non ne potei più. Mi fermai come davanti a un muro. Era come se un peso calasse lentamente sulla mia testa e un senso soffuso di scoramento mi fiaccava. Mi ripresi dall’attimo di smarrimento, dal momento critico che presagiva un passaggio, un salto. Chiesi che cosa significasse la parola “Viet-cong”: nessuna risposta. –E guerriglia?– nessuna risposta. –Dove si trova il Vietnam? Chi è Diem? Silenzio. Tra le mani avevo un libro per privilegiati. Per i ragazzi dovevo parlare un’altra lingua. Forse avrei dovuto cominciare a leggere qualche cosa sulla loro vita, ma avrei incontrato le stesse difficoltà. Forse avrei dovuto far parlare loro, ma l’avrebbero fatto? Credo di no. Non esistevano i presupposti per poterlo fare. Avevo provato a leggere qualche passo di antologia sui baraccati scritto da Moravia, ma mi rivoltò lo stomaco e lo scartai senza rimpianti. Ora bisognava continuare a leggere? E come? Con quale scopo?

Il ruolo delle parole Per la prima volta ebbi la consapevolezza dell’importanza delle parole. Come seguendo un intuito, mi alzai, mi avvicinai alla lavagna e scrissi su di essa, a caratteri

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maiuscoli, la parola “Viet-cong” e iniziai a spiegarla. Quindi prendemmo in esame la parola “guerriglia” e ci consultammo sia con il libro stesso che con un giornale. Si cercò di capire la differenza tra guerra e guerriglia. La ricerca filologica entusiasmava i ragazzi, ma io non mi arrestavo davanti ai primi risultati. Esigevo che si arrivasse al possesso della parola in tutte le sue implicazioni. La scuola cominciava così, pedantemente. E siccome avvicinarsi alla parola significava anche apprenderne l’evoluzione storico-sociale, alcuni giovani presenti si scandalizzarono.

La piega politica Essi dicevano: –Se l’indagine sulla parola assume tali dimensioni non può non sfociare in un’analisi di carattere politico e quindi la scuola esce dai suoi propri binari. –La scuola non può non essere politica– rispondevo –perché solo così essa diventa strumento di educazione per tutti. Non dobbiamo separare la scuola dalla vita di questi ragazzi, ma cercare tra di loro i nessi profondi. Le parole nascono dall’esistenza e da questa assumono il loro significato, che diventa chiaro nella misura in cui l’adesione della parola alla vita si fa piena. Le parole ci servono per lottare. Io non voglio essere soporifero per nessuno, né per i borghesi, né per i baraccati, né per i ragazzi, né per voi, né per me stesso. Non sono una dama di san Vincenzo. Man mano che la scuola si legava al borghetto, i giovani che non vedevano di buon occhio tale processo di

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identificazione e che vedevano male la mia fermezza, ci lasciavano. Spesso andavano a lacrimare in parrocchia alimentando la polemica contro di me. Il viceparroco don Geremia non li ascoltava, ma il parroco si impensieriva. La scuola, per lui, prendeva una direzione imprevista. Essa usciva dagli schemi della beneficenza parrocchiale. Il bello era che simile coro di cornacchie si stava autoeleggendo paladino della libertà dei ragazzi. Si affermava che non potevano essere forzati a riflettere sul Vietnam o su altre cose del genere. E alzavano la voce soprattutto coloro che da anni avevano lasciato che la gente morisse nella libertà delle baracche.

La storia di Adolfo1 Sono un ragazzo del borghetto, mi chiamo Adolfo, ho tredici anni, non studio, lavoro. Lavoro ogni giorno meno che la domenica. Porto sulle spalle, con una grande borsa, boccioni di vino, bottiglie di birra, aranciate ecc. Porto questa borsa all’Appio Claudio: fino qui ai cantieri. Porto vino e acqua frizzante per le case dei signori che non si scomodano a venire al vinaio e nemmeno a darmi la mancia. Certi la danno, ma sono solo cinque o sei. Faccio questo lavoro dalle otto e mezza di mattina fino alle

1 In questo, come al termine di ogni altro capitolo, sarà riportato un brano tratto dal ciclostilato «Scuola 725», settimanalmente compilato dai ragazzi.

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due e mezza. Poi stacco e riattacco alle quattro e mezza per finire alle nove. Per tutto questo lavoro prendo tre sacchi e mezzo (3500 lire) alla settimana. Adesso vi dico una cosa che mi è successa: avevo trovato un lavoro migliore del vinaio, era l’idraulico al Tuscolano, ma mi hanno rifiutato perché ero troppo piccolo. Io vorrei interessarmi della scuola, ma se lavoro non studio e se studio non lavoro e del lavoro ho bisogno. (Dal numero 2 di «Scuola 725», 1969).

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La scuola è laica

L’iniziativa della scuola poneva a me, prete, dei problemi relativi all’impostazione della scuola stessa. La tentazione di scavalcare i ragazzi e di imporre loro degli schemi dai contenuti incomprensibili, era grande. Spesso mi trovavo in difficoltà tra l’essere fedele alla lenta maturazione dei ragazzi e il timore che la fedeltà a questo processo ingenerasse in loro delle idee sbagliate sulla scuola, che, a lungo andare, sarebbe stato impossibile rimuovere. È vero: ai ragazzi e all’ambiente bisognava immediatamente dare l’idea che quello che si voleva fare non era il doppione della scuola istituzionale, ma era altrettanto vero che bisognava rispettare le tappe del loro processo conoscitivo. Una simile convinzione ebbe la sua prima conseguenza: i giovani che fin dall’inizio non volevano che all’iniziativa si desse una chiara impronta politica, ma che si conservasse nel solco del rudimentale neovincenzianesimo della parrocchia, abbandonarono le baracche per continuare a suonare le trombe contro di me. Rimasero ad aiutarmi Rosario, Enzo, Grazia, Alberto, Paride, Vincenzo, Maurizio e Saro. Con loro il discorso si fece più sereno e omogeneo, e ciascuno si dava il cambio per darmi una mano. La domenica pomeriggio ci incontravamo per discutere insieme vari problemi, tra cui quello della spiegazione del Vangelo ai ragazzi e la celebrazione della messa.

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Il Vangelo Qualcuno era contrario a che si spiegasse il Vangelo a scuola e aveva le sue buone ragioni da far valere. Io pensavo che simili ragioni fossero di carattere eccessivamente intellettuale: date le circostanze, non si poteva privare i ragazzi della comprensione di un libro di cui avrebbero sentito parlare altrove e, spesso, non correttamente. Anche se personalmente potevo essere condizionato da una lettura regressiva della Bibbia, nella decisione di leggerla con i ragazzi avevo presenti questi punti: 1) il contesto culturale dei ragazzi, da cui non ci si doveva astrarre. Ripetevo spesso che, se mi fossi trovato a far scuola in un ambiente musulmano, pur essendo cristiano, avrei spiegato il Corano ai ragazzi, riservando ad altri spazi l’annuncio del Vangelo. Per me, nella scuola, il Vangelo era cultura e null’altro. 2) In quanto operazione culturale, il Vangelo non andava letto alla luce dei dogmi o dell’infallibilità interpretativa. Questo punto mi permetteva di non considerare chiusa nessuna questione. Esempio: che Maria fosse la madre di Gesù era cosa che appariva chiara nel Vangelo, ma che fosse fisicamente «vergine prima, durante e dopo il parto» erano affermazioni magisteriali che io spiegavo per far conoscere, ma accennavo anche ad altre spiegazioni non meno autorevoli di quelle della Chiesa Cattolica. Non vincolavo l’adesione dei ragazzi a una data affermazione o a un’altra, ma a conoscere tutte le affermazioni che si potevano fare su un determinato argomento. Altrimenti avrei trasformato la Scuola 725 in un’aula di catechismo.

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La messa Rimaneva il problema della messa. Si sarebbe potuto fare il medesimo discorso del Vangelo, ma qui andava salvaguardata una specificità dell’eucaristia che è oggetto di fede responsabile di chi crede. Mi rifiutavo di ammettere che i ragazzi potessero emettere un atto di fede responsabile. Io celebravo la messa in parrocchia e quindi per qualche tempo si andò avanti così. Poi ci ripensai, anche perché era venuto a stare con noi don Sergio. Data questa circostanza, in modo certamente frettoloso, dovuto alla nostra deformazione professionale, si decise di celebrare la messa nella scuola. Ma non l’avrei celebrata io, e nemmeno avrei predicato. I ragazzi più grandi, se avessero avuto problemi di coscienza per la partecipazione alla messa potevano liberamente assentarsi. I più piccoli no, perché la loro assenza avrebbe significato rifiuto del pungolo all’interesse e alla partecipazione.

Una visita Un pomeriggio, verso gli inizi del 1969, tre signorini mi si presentarono alla scuola col magnetofono. Chiesero di poter conversare con noi e di registrare. Acconsentii, ma li pregai di attendere un po’ fuori perché dovevamo terminare i compiti della scuola di stato. Appartenevano a un gruppo studentesco cattolico che, in quegli anni, aveva avuto una grande diffusione a Milano: era l’atto primo di Comunione e Liberazione. La conversazione fu accesa, ma ci lasciammo con chiarezza e senza rancore, almeno da parte nostra. 43


Dopo qualche mese essi riferivano su un loro giornalino i risultati della visita: La prima cosa che ci colpisce non è certamente un crocifisso. Non vogliamo essere troppo simbolisti, ma pensavamo che potesse esserci: così, forse un pensiero semplice. Ma ci colpisce un grande manifesto arancione ombreggiato di nero, che ripropone la fisionomia di Ernesto Che Guevara. Accanto un altro manifesto, e ve ne citiamo il titolo: Camillo Torres, il prete guerrigliero. Guardando su un’altra parete vediamo due grandi manifesti (manifesti di questo genere qui trovano sempre posto, anche in una stanza molto piccola) riproducenti gli atleti neri, alle olimpiadi del Messico, che fanno il saluto del Potere nero. E, scendendo nei particolari di questo piccolo mondo rurale, vediamo subito una scritta di mano infantile sull’arancione del cartello di Che Guevara: “Viva Mao”. Qualche ragazzo sa ben disegnare, e su doppio foglio strappato da un quaderno ci sono due disegni: Gandhi e Mao Tze Tung. Non capiamo quale nesso possono avere le due figure se non che tutti e due hanno cambiato qualcosa, ma in maniera totalmente opposta. Senza entrare nel merito artistico, notiamo i voti: Gandhi 9, Mao 10. Forse è pura coincidenza, ma l’abbiamo notato. “Viva Mao” era scritto ancora su altri cartelli sempre da mano infantile, sempre con grafia minuta. Ma questi ragazzini hanno già qualcosa di tremendo nelle loro mani: i semi dell’odio e della violenza. E il prete, il prete che è lì a loro servizio, dice loro che devono acquistare una coscienza di classe nella lotta contro i padroni, e che l’arma di questa lotta è la rivoluzione interna. Dice loro questo, e chissà se ha

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mai letto e spiegato loro il discorso della montagna. Caro don Roberto: a quei poveri ragazzini, che oltre ad avere la sventura di tanti acciacchi economici e familiari hanno avuto anche quella di incontrare lei, insegni il Padre nostro, invece che parolacce. E vedrà che diventeranno rivoluzionari. Ma rivoluzionari sul serio.

Scrissero queste e altre amenità. Mi piacque soprattutto quel consiglio di ricorrere al Padre nostro come efficace allucinogeno della nostra tensione sociale. Questi censori dell’impegno altrui non avevano capito che, quando io parlavo di scuola laica, non intendevo riferirmi solo alla professione di fede cristiana, ma anche a qualsiasi altra fede. Per esempio, io non ho mai inteso legare la scuola alla violenza o alla non violenza. Per me, anche rispetto al Vangelo, queste sono due ideologie che, come tali, non devono essere assolutizzate. Ma c’era qualche visitatore che capitava mentre stavamo leggendo la vita di Gandhi e ci prendeva per pacifisti, altri, che capitavano mentre stavamo leggendo l’autobiografia di Malcolm, ci prendevano per violenti. Nessuno dei due generi di visitatori si preoccupava di informarsi, ci catalogava e basta. In genere essi ignoravano tutto il lavoro che giornalmente ci impegnava per scoprire e leggere le pieghe più nascoste della vita dell’Acquedotto. L’apatia di molti, il desiderio di integrazione nel modo di vita borghese dei più giovani, l’aspirazione alla casa, la solitudine dei vecchi abbandonati, il lavoro, erano tutti argomenti che entravano nella scuola attraverso la testimonianza dei ragazzi.

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Una scuola nella bufera sociale Appena ci addentrammo in questa lettura dell’ambiente, la scuola entrò nella bufera. Non potemmo rimanere distaccati osservatori, divenimmo interpreti e partecipanti. I ragazzi maturavano le loro convinzioni umane e sociali più che in ogni altro luogo e più che in ogni altro momento. Evitammo sempre le scelte di partito. In quello scorcio del 1968 venivano a trovarci molti studenti. Sul viso di alcuni di loro notavo un segno di meraviglia e anche di contrarietà a vederci tanto impegnati nello studio: –Ma come, il mondo brucia sotto il nostro avanzare, siamo all’alba della rivoluzione, e voi chiusi in una baracca a studiare. In genere rispondevo che non mi interessavano le manifestazioni dove chi parlava era il solito figlio di papà. Mi interessavano le manifestazioni dove la parola sarebbe stata presa dagli operai, non da imberbi che avevano scoperto la politica e pretendevano di tener banco come bimbi impertinenti e, per giunta, impreparati e cinici. Ecco, anche in queste circostanze non volemmo essere confessionali, ma additavamo a tutti il duro itinerario del sapere e fummo tra i primi critici del movimento della contestazione giovanile, giudicandolo superficiale e non radicato nella realtà delle masse proletarie e sottoproletarie.

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La nostra scuola La nostra scuola è diretta da un sacerdote aiutato da alcuni giovani. Noi vi andiamo alle tre e mezza. Fino alle sei e mezza ci facciamo i compiti per la scuola statale. Dalle sei e mezza in poi discutiamo di politica. Ma noi per politica intendiamo i fatti importanti del mondo come la guerra, la fame, il lavoro e la lotta tra operai e padroni. Poi critichiamo questi fatti. Questa scuola ci insegna soprattutto il risveglio degli operai. Ogni settimana ciclostiliamo un giornale che diamo a tutti i baraccati. In questo giornale scriviamo quello che si discute nella scuola. Sono venuti a visitarci anche dei giovani (studenti) che hanno detto di impegnarsi per noi, ma non l’hanno fatto. (Dal numero 3 di «Scuola 725», 1969).

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Contrasti

Ero geloso dei ragazzi Cominciavo ad amare i ragazzi. Entravano nella mia vita e mi sentivo coinvolto in una reciproca rigenerazione. Io, per loro, finivo di essere un impersonale “padre” e cominciavo a essere un familiare “don Robè”. Loro, per me, cessavano di essere un gruppo anonimo e diventavano Luca, Anna, Paola, Luigino, Maurizio, Francesco, Cesidio, Domenica, Quirina, Massimo, Lucio, Sabatino, Nicola, Luciano, Loreta, Maria, Paolo, Angelo e poi Emidio, Marcella, Lorenzo, Zimicco, Franco... Man mano che mi inserivo nella loro esistenza non potevo fare a meno di assumerla tutta, mettendo in pericolo la mia stessa autonomia. Non potevo porre delle riserve mentali a questo processo di identificazione. Una loro lacrima era anche la mia, una loro gioia diventava anche la mia, un’offesa recata alla loro dignità rimbalzava sulla mia persona. Diventavo quasi geloso e non volevo che altri osassero alzare la voce su di loro. Se avevano da fare osservazioni avrebbero dovuto comunicarle prima a me. Non potevamo essere in tanti a intervenire sui ragazzi: bastava uno solo. Avrei dosato io gli interventi, tenendo conto della condizione familiare e personale del ragazzo.

La corsa di Luca Un pomeriggio del febbraio 1969, come al solito, alle quindici e trenta ero già nella scuola baracca ad atten-

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dere i ragazzi. Man mano che essi entravano si sedevano e svolgevano i compiti della scuola statale. Io mi rendevo conto della quantità dei compiti e li stimolavo a far subito. Poi mi portavo sull’uscio per sollecitare i ritardatari. Non sopportavo che camminassero con andatura flemmatica e li sgridavo perché fossero più svelti e decisi. Quel giorno, Luca si avvicinava con andatura insolente. Arrivato vicino alla scuola non entrò e, con passo molto incerto, passò oltre. Io chiamai: –Luca, perché non entri? –Nun ci ho i compiti da fare! –E che novità sono queste? Mica qui si viene a fare i compiti, queste cose le stiamo dicendo da quattro mesi... –Sì, ma io nun ci ho da fare i compiti... –Vieni lo stesso, aiuterai i tuoi compagni, leggerai, farai altri lavori e poi discuteremo insieme... –No, nun vengo... –No, tu verrai perché queste sono le regole che tutti dobbiamo rispettare, io per primo. Non ti permetterò di fare il comodo tuo. Luca aveva dodici anni. Era un immigrato dalla Sardegna. Aveva due occhi vivacissimi e neri. Intelligente, ma incostante e incoerente. Ci stava sempre vicino. Con me aveva stabilito un rapporto di particolare simpatia. S’era fatto un piccolo quaderno dove appuntava le parole nuove che sentiva da me durante la discussione. Vi aveva segnato sopra “sciopero”, “cottimo”, “guerriglia” ecc. Accanto a ciascuna parola aveva scritto il significato. Quel pomeriggio non voleva entrare nella scuola. Non insistetti perché entrasse subito, ma gli dissi: –Luca, se vuoi, pensaci pure un po’ sopra, ma prima o dopo dovrai entrare. Passò circa mezz’ora e Luca rimaneva fuori appoggiato a un palo. Allora decisi di essere più fermo: 49


–Adesso finiamola con questi capricci... E così dicendo mi avvicinai a lui, che si spostò di quattro o cinque metri. Lo seguii dicendogli: –Puoi andare dove vuoi, ma io ti seguirò per farti capire che non mi arrenderò mai davanti ai capricci. Lo seguivo passo passo, lui davanti e io dietro. La passeggiata durò circa due ore. Ora tra i campi dell’Appio Claudio e ora intorno alla chiesa di San Policarpo. Verso le diciassette e trenta eravamo ritornati sui nostri passi iniziali, stavamo alle muracce di via Lemonia. All’improvviso diedi uno stacco in corsa, stavo quasi per raggiungerlo quando ci trovammo su un burrone. Sotto, tutta dissestata, scorreva via Lemonia. Era buio. Luca con un salto era già in salvo. Io tentai di fare lo stesso, ma ohimè, arrivato sul suolo stradale caddi ginocchioni. Sentii un urlo raccapricciante di Luca: –Don Robertoooo!! I calzoni si erano tutti strappati all’altezza delle ginocchia, che s’erano malamente sbucciate. Dolente stavo per rialzarmi, ma già davanti mi stava Luca che mi tendeva una mano. Mano nella mano, senza proferir parola, ritornammo nella scuola. I ragazzi, al vedermi così conciato, si impressionarono. Io, per il dolore, quasi svenivo. Mentre Cortesa, che abitava accanto alla nostra scuola, mi portava una tazzina di caffè, Luca era alla ricerca affannosa di alcool e di garza per pulire e disinfettare la larga ferita. Terminata l’operazione e riavutomi un po’, mi alzai e, rivolto a Luca: –Non ti do uno schiaffo perché... e perché non dovrei dartelo? Così dicendo gli allungai un rovescio sul viso. Luca l’accettò. Ebbi la sensazione che avesse capito quanto

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per un intero pomeriggio avevo cercato invano di fargli capire. Nella scuola si trovava un giovane settentrionale che era venuto ad aiutarmi per qualche giorno. A vedere lo schiaffo che avevo dato a Luca, si alzò e protestò violentemente in difesa di chi non aveva bisogno di difesa. Urlò: –Non è giusto schiaffeggiare così un ragazzo! E io, alterando la voce: –E chi ti permette di intrometterti nelle nostre cose? Che ne sai tu dei rapporti che intercorrono tra me e i ragazzi e con il baraccamento? Esci immediatamente da qui, presuntuoso! –No, io non esco! Era di quei giovani che, per avere offerto un dito, credevano di avere acquisiti i medesimi diritti di chi dà la vita. Pensava così di essersi procurata la simpatia dei ragazzi, ma allorché mi mossi per uscire io dalla porta, vidi che tutti i ragazzi mi precedevano. Raccolsero i libri dai tavoli e si precipitarono all’uscita. Vista così miseramente finita la sua difesa dell’educazione dei ragazzi, si allontanò.

Gli amici di Giobbe La scuola, le ore che i ragazzi trascorrevano con me, non erano che momenti, forse privilegiati, della nostra vita. Ma poteva la loro vita, la vita del baraccamento, rimanere estranea alla scuola? In pieno inverno del 1969 venne a trovarmi una signora della Croce Rossa. Mi proponeva una scuola più ampia, impiantando un prefabbriccato. La tentazione fu forte, ma ebbi il coraggio di rifiutare. Le risposi:

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–Non ho alcun diritto e alcun dovere di far vivere i ragazzi in un ambiente artificioso. Non devo creare nello squallore delle baracche un angolino di Svezia. Siamo baraccati e tali dobbiamo rimanere. La scuola non deve essere diversa dalle abitazioni. La realtà della vita deve essere, anche visibilmente, la nostra forza e il motivo base da cui prenderà quota la nostra protesta. Che senso ha un paradiso didattico in un inferno? Per gli stessi motivi risposi di no alla proposta di altri di trasferirci in qualche ambiente libero della parrocchia. Accettare certi compromessi in quei momenti di furore avrebbe significato buttare un secchio di acqua su una fiammella che, invece, doveva divampare. Anche questa volta gli amici di Giobbe furono pronti a parlare: –Chi ti autorizza a decidere a nome degli altri? –Tu puoi rinunciare ai tuoi diritti, ma non a quelli dei ragazzi. Essi hanno il diritto di crescere in un ambiente migliore. E i desideri dei loro genitori dove li metti? Il ragazzo durante la sua evoluzione psicofisica ha bisogno di vivere tra mura pulite, bianche, con servizi igienici, calore, altrimenti l’invidia e il rancore ne faranno un eterno esasperato e non lo faranno crescere. E così passavo per un volgare autoritario! Io che avevo scelto questi ragazzi passavo per un mascalzone, e loro, che mai se ne erano ricordati prima, passavano per sentinelle della democrazia e del rispetto dei diritti degli uomini. Ma facendo forza su me stesso, non mi davo per vinto e non accennavo nemmeno a difendermi, attaccavo: –Me ne infischio di questi vostri sentimenti che consentono a voi di dormire al caldo e a questi di crepare nel freddo. Se dipendesse da me vi proibirei di pronun-

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ciare la parola democrazia qui, dove essa non ha senso e la sua esperienza, spesso, si confonde con la morte, con le malattie e con l’oppressione. Io non voglio far rimanere i ragazzi all’umido, ma intendo fare dell’umido una leva di forza per svergognare voi, il vostro mondo, la vostra democrazia puramente formale, il vostro modo di vita e la vostra ipocrisia. Mi sentivo il cuore scoppiare. Soffrivo perché ero consapevole di chiedere ai ragazzi un sacrificio troppo grande. D’altra parte avvertivo il bisogno di chiarire le acque, di mettere ciascuno davanti alle sue responsabilità personali, politiche e religiose. L’elemosina era un’iniziativa disonesta e immorale sotto qualsiasi veste si fosse presentata, era una vera e propria contraddizione dei nostri doveri legati alla solidarietà. I ragazzi non erano tenuti all’oscuro di tutto questo travaglio, da cui pian piano emergeva e si delineava la funzione della scuola. Essi seguivano, ascoltavano, sperimentavano. Ci si cominciava a capire anche con il silenzio. Ci guardavamo negli occhi e ci si capiva. Le inflessioni della voce ci facevano leggere il nostro animo. Tramite i ragazzi, le stesse famiglie venivano messe al corrente degli scontri. Se nei primi giorni qualche baraccato mi si avvicinava per chiedere denaro o raccomandazioni, dopo qualche mese nessuno più si avvicinava a me per cose del genere. Spiegavo che ci andava di mezzo la dignità dei lavoratori e che sarebbe stato meglio attaccarsi alle radici degli alberi piuttosto che abbassarsi a chiedere l’elemosina.

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Non siamo numeri A pochi metri dall’Acquedotto Felice, verso la zona del Quadraro, sorgeva un grande convento delle suore dell’Assunzione. Il convento, con l’annessa chiesa, era stato costruito anche per il munifico dono di uno dei più grossi latifondisti romani, Gerini Torlonia. Per perpetuarne la memoria, le suore si erano premurate di apporre su un muro una grande lapide marmorea con nome e cognome dei mecenati e con un grande Dominus recordatur in calce. Queste suore avevano in viale Romania uno studentato per ragazze bene. Una volta al mese, accompagnate dalle loro insegnanti, le ragazze si presentavano al baraccamento in gruppo di dieci, quindici e si prodigavano a distribuire pacchi alle famiglie che avevano scelto su segnalazione delle suore. Stavo sulla soglia della baracca 725. A un tratto sentii chiamare ad alta voce dei numeri: –Chi è?– chiesi a Luca. –Sono le ragazze delle suore che vengono a distribuire i pacchi. –Ma come, nemmeno per nome ci chiamano? Siamo diventati dei numeri? Forse pensando di ricevere un plauso alla loro iniziativa mensile, vennero davanti alla porta della baracca scuola e chiesero di una ragazzina che avrebbe dovuto farsi fotografare con loro. A questo punto, mi rivolsi alla ragazzina, che già lasciava i libri per la foto, e le dissi di ritornare al suo posto, e alle ragazze: –Andate immediatamente via di qui, noi lavoriamo per la nostra dignità e voi venite a insultarci sfogando sui poveri le manie vostre e quelle delle suore! Le ragazze non si aspettavano una simile reazione.

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Qualcuna accennò a mettersi a piangere, ma non mi feci commuovere, chiusi la porta e continuai a far scuola.

Incontro con le suore Sembrava che l’episodio fosse finito lì. Invece nei giorni seguenti, alcune ragazzine che frequentavano la scuola media delle suore mi riferirono che le loro professoresse le avevano messe in guardia contro di me e contro la nostra scuola. Una sera, con Grazia ed Enzo decidemmo di andare a bussare al convento. Dopo aver risposto alla nostra voce, le suore ci fecero attendere fuori per circa un quarto d’ora. Alla fine fummo fatti entrare nella camera d’attesa e qui si fece trovare anche la madre superiora. Era, questa, una donna sulla mezza età. Nell’affrontare la questione che ci metteva faccia a faccia, mostrava un carattere deciso e molto pratico. Seguiva il discorso con intelligenza e vivacità non comune, specialmente tra le suore. Mi sembrò sincera e leale, virtù rarissime in un convento. La nostra madre Astrid, tale era il suo nome, apparve quasi scocciata dalla polemica delle sue consorelle e dalla loro incapacità di capire che tra i baraccati dell’Acquedotto Felice stava succedendo qualcosa di nuovo: –Don Roberto, dobbiamo andare d’accordo. Ci siamo un po’ impressionate perché l’altro giorno le ragazze di viale Romania sono ritornate quasi piangendo perché lei le aveva cacciate. Sono brave ragazze che cercano di fare del bene ai bambini delle baracche. Risposi: –Vede madre, tra i baraccati, specialmente tra le

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donne, serpeggia una certa psicologia assistenziale. I baraccati, molti, credono di poter vivere di elemosina. Ce ne sono alcuni che posseggono un elenco di sette o otto enti assistenziali e ogni mattina vanno a visitarne uno. Alla fine del giro ricominciano daccapo. Tutte queste persone, bisogna recuperarle a una vita dignitosa. Noi dobbiamo lottare contro questa maledetta psicologia assistenziale che addormenta la gente. La gente così addormentata è funzionale a quegli enti che rifiutano, non a caso, di porsi il problema alla radice e mensilmente danno delle pennellate sulle situazioni di bisogno. La madre Astrid aveva il viso atteggiato tra il perplesso e il convinto: –Ma come fa una Clelia, un Ottaviano, vecchi e malati cronici, a maturare in questo senso! Ormai bisogna prenderli così come sono! –Certo– risposi –per i casi più gravi c’è poco da far discorsi, ma non manca il modo di aiutarli, il più discretamente possibile. L’assistenza è un’offesa e non incide positivamente sul piano dei cambiamenti sociali, anzi, spesso svia il comportamento delle persone facendone degli assistiti e impedendone la presa di coscienza. Se oggi dobbiamo fare qualcosa per Clelia e per Ottaviano, dobbiamo impegnare la nostra speranza per il domani, perché Clelia e Ottaviano non abbiano eredi. –Forse noi dobbiamo capire queste cose– interruppe la madre. –Sì, è ora che si capiscano... Ed ella soggiunse: –Intanto le ragazze di viale Romania non le mandiamo più e cerchiamo di rimanere in buoni rapporti.

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L’odio è una virtù La madre superiora aveva fretta di chiudere, ma non altrettanto io che desideravo chiarire il problema della scuola. Quindi ripresi: –Voi avete tutta la libertà di parlare male di me e della scuola, ma se questa vostra libertà si ripercuote sulle ragazze, allora dovremo fare un altro discorso. A questo punto, sentendosi coinvolta, intervenne la madre preside: –Ma non è che noi abbiamo parlato male di lei, siamo spaventate da come le ragazze si comportano con le altre. Ieri, per esempio, Domenica si è rivolta a una compagna durante la ricreazione e le ha urlato “borghesaccia”. Noi temiamo che in queste ragazze venga instillato l’odio. Con una preoccupazione tra il didattico e il polemico, svolsi questo pensiero: –Guardi madre preside, lei dovrebbe accertarsi se la borghesaccia è veramente borghesaccia. Se fosse figlia di un operaio allora lei avrebbe il dovere di far riflettere Domenica. Se poi così non fosse... allora lasci correre un po’... chissà da quanti anni Domenica deve subire l’arroganza sottilissima delle borghesacce. Per voi allora tutto andava bene, non c’erano problemi, non c’era odio. Ora che Domenica alza la testa ci si straccia le vesti. –Ma l’odio... –Ma che odio e odio, si sforzi di penetrare un po’ i comportamenti di Domenica e scoprirà che l’odio è una virtù che lei, forse, non conosce ancora. Se la conoscesse sarebbe lei stessa a consigliare Domenica a praticarla in grado eroico. Solo allora diventeremo dei santi tra il popolo e non dei santi da nicchia. La parola amore è stata

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talmente manipolata che ormai serve solo alla classe dominante e ai suoi servi per tagliare le ali ai ribelli per la giustizia e per il diritto. Ora finiamola e lasciamo che parli Domenica. Se è l’odio che l’ha portata a prendere la parola, non diamole l’antidoto dell’amore, perché quello che voi chiamate odio, in realtà, è amore e quello che voi chiamate amore è il più subdolo degli odî. La madre superiora che capiva, e capiva anche le segrete reazioni delle suore, mi sembrava preoccupata di evitare polemiche e di chiudere l’incontro. Io stesso non insistetti.

L’Apollon Il padrone dell’Apollon ha un figlio che andava male a scuola. Allora il padre per otto mesi gli ha rifiutato il bacio. Poi, all’ottavo mese, per ricompensarlo di questo enorme sacrificio gli ha regalato una macchina tedesca. Poi, preoccupato per il suo avvenire gli ha anche regalato una fabbrichetta con trecentoventi operai. Cioè l’attuale Apollon. Il figlio ha chiesto anche quattrocento milioni per il mantenimento della fabbrica, ma li ha spesi per conto suo e ha licenziato tutti gli operai. Questi operai, per rispondere alla cortesia, hanno occupato la fabbrica. (Dal numero 4 di «Scuola 725», 1969).

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Ursa

–Sì, sono Ursa, ma non sono Ursa, sono Francesco. Ormai i connotati della mia vita sono talmente cambiati che non mi vedo più nei panni di Francesco. Ursa è entrata nel sangue. Il vedermi sulla carta d’identità maschio per legge, mi dà fastidio. Non le nascondo che quando passo per qualche albergo esito sempre nel consegnare i documenti, non perché mi vergogni del contrasto, ma perché io mi sento Ursa e Ursa sarò per sempre... –Per sempre– aggiunse Ursa dopo una breve esitazione, come di chi vuole uscire con un’affermazione puramente verbale da una sofferenza profonda e con un orgoglio autoimposto. Questa era una delle realtà che mi trovai davanti fin dai primi mesi di vita all’Acquedotto Felice. Viveva qui una comunità di travestiti. Intorno alla loro infelicità brulicava il mondo degli sfruttatori. Questi non solo percepivano le tangenti in cambio della protezione, ma pretendevano di regolare e dominare la vita di questi miei fratelli suscitando, non poche volte, inutili rivolte, anche cruente, che finivano con ulteriori limitazioni della libertà e un rincrudimento dello sfruttamento. Il baraccamento accettava questa presenza senza mostrarsene eccessivamente scandalizzato.

Anche noi abbiamo un’anima La notte del Natale del 1968, poco prima di celebrare la messa, mi si avvicinò Rina. Ella aveva stabilito con i travestiti un particolare rapporto di amicizia:

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–A don Robè, e da questi poveracci nun ce va nessuno a portargli quarche cosa? Avevo capito che stava parlando della comunità dei travestiti. Lì per lì rimasi interdetto e quasi infastidito: la domanda apriva al mio impegno una visione nuova, su cui avevo fatto cadere un pietoso silenzio difensivo. Dopo alcuni istanti di esitazione, risposi: –Rina, io non ho nulla da portare, ma accompagnami da loro. Mi tremavano le gambe: cosa avrei detto? Come sarei stato accolto? Come avrei dovuto rivolgermi a loro, al femminile o al maschile? Entrai in una baracca ben tenuta, salutai e detti la mano a Lucilla, a Massimina e a Katty: –Sono venuto ad augurarvi buon Natale. Non vi ho portato nulla perché non ho nulla, ma prendete la mia presenza come un segno di rispetto. Queste parole servirono a rompere il ghiaccio e si avvicinarono. Quindi si svolse tra di noi un breve dialogo sulla situazione dell’Acquedotto e sul mio impegno nella scuola: –Stia tranquillo, non le daremo fastidio e se ha bisogno di qualche cosa non ha che da dircelo. Andandomene, sull’uscio, si fece avanti Katty, mi salutò e mi disse parole che gravarono le mie responsabilità e mi dettero il senso della fraternità; furono come un vero messaggio natalizio: –Grazie per essere venuto. Si ricordi che anche noi abbiamo un’anima. Per me fu un trauma vissuto con gli occhi della coscienza, spalancati per la crudezza della realtà che erano costretti a mirare. Ora davanti a me si trovava Ursa. Ursa mi invitava all’amore e io ero stato educato ai pregiudizi più reazionari.

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Mi chiamava al rispetto della persona, ma io ero stato educato al disprezzo dell’uomo che non avesse risposto alle regole della normalità. Dopo le prime parole, si creò una pausa di silenzio reso ancora più intenso a causa del mio personale smarrimento. Ma Ursa riprese a parlarmi.

Storia di una diversità Ho sempre pensato di uccidermi e chissà che un giorno o l’altro non la faccia finita. Sono veramente stanca! Lei non potrà mai capire la tristezza di un ragazzo avvolto dall’oppressione della paura sessuale e che, a questo soffocamento, deve aggiungere la sua diversità che avverte come una gravissima colpa che gli impedisce di unirsi spensieratamente ai suoi amici. Lentamente, come una lumaca che si ritrae nel suo guscio, io cominciavo a isolarmi e a cercare nella masturbazione quegli attimi di gioia che l’ambiente mi negava. Non facevo che chiudermi progressivamente, che procurarmi una lenta morte. Dovevo annullarmi. Spesso piangevo in silenzio, accoratamente, soffocando con un cuscino i singhiozzi che salivano dal cuore. Dovevo crescere come una pianta nascosta nel buio. Vedevo intorno a me solo censori e nemici. Oggi ho scoperto che vedevo bene perché, se avessi mostrato la mia diversità, tutti mi avrebbero rifiutato. Pensi: un giorno mi trovavo a passare da solo in un vicolo molto vecchio, con poche case abitate e molte altre abbandonate e fatiscenti. Nella mente mi attraversò un vivo desiderio di entrare in una di queste ultime e già sognavo di farci l’amore con un ragazzo, cosa che fino allora non avevo mai fatto. 175


Ero solo! Ma ecco che, mentre camminavo, ancora incerto su ciò che avrei voluto fare, appena svolto una curva, mi si presentò davanti, con passo deciso e con la sua grossa mole, l’anziano prete della parrocchia vestito della lunga nera veste, con un gran cappello nero sulla testa e un bastone anch’esso nero. Mi domandò: –Dove vai? –Vado qui a trovare Sirio!– risposi improvvisando una bugia. Forse la domanda del prete era la più innocente, ma in quell’istante credetti che egli avesse come rapito e quindi censurato, i segreti pensieri della mia testa e mi sentii avvampare da un tale sentimento di odio che l’avrei ucciso. Non l’uccisi fisicamente, ma da quel caldo pomeriggio estivo, quando penso al censore lo immagino vestito di nero, con cappello e bastone nero. Qualche anno prima frequentavo il catechismo della parrocchia. Un giorno il parroco ci riunì fra i più grandi per parlarci del sesto comandamento. Dopo averci solennemente avvertiti che “gli impuri non vedranno Dio”, ci raccontò che alcuni anni prima, mentre stava a sorvegliare i ragazzi in oratorio, ne notò uno che s’era allontanato per andare al gabinetto. Siccome tardava, lui andò a vedere. Lo trovò morto che stava commettendo un atto impuro. E con voce tonante aggiunse: –Dio lo ha punito. Ecco che cosa è per me la chiesa! Non potrò mai entrarci perché essa punisce e invoca la punizione di Dio su chi cerca un po’ di tregua... Ursa parlava con serenità e le sue parole erano calde e sofferte, venivano dal fondo e da qui prendevano una tonalità bassa e suadente. Sì, ella doveva avvertire il compito di persuadermi a cambiare giudizio. Io ascoltavo interiormente turbato, ma Ursa, come non accorgendosene, continuò il suo racconto: 176


–Quindi Dio poteva scaricare su di me i suoi fulmini, ma la paura di Dio non mi impediva di desiderare il piacere, la felicità. Se egli non mi colpiva con la morte istantanea, c’erano i suoi servi che mi isolavano e mi uccidevano lentamente. Nonostante i miei sforzi non riuscivo a liberarmi dai gravi sensi di colpa: io ero ciò che era peccato. Questa angoscia mi tagliava come in due parti in conflitto disperato tra di loro. Ricordo che stavo volentieri con i miei compagni, ma mi proibivo di frequentarli spesso perché avevo paura di innamorarmene e, non potendo manifestare, con gesti o con parole, i miei sentimenti, mi mettevo nella condizione di soffrire ancora di più. Le energie della mia adolescenza erano totalmente impegnate a nascondermi. Avevo diciassette anni e frequentavo con molto profitto il penultimo anno del liceo classico. Leggevo molto, ma giornalmente la tristezza prendeva possesso di me. Ero arso dal desiderio di un amore insoddisfatto e, forse, proibitomi per sempre. Davanti alla nostra casa, quasi dirimpetto, all’ultimo piano, abitava una famiglia di nostra conoscenza. Era una coppia di giovani sposi americani. Non ricordo per quali vicende erano capitati lì. Gente serena e cordiale. Un giorno ci comunicarono che avrebbero ospitato per qualche mese un loro nipote. L’annuncio mi incuriosì perché, sempre, la conoscenza di un coetaneo faceva scattare in me degli interessi che io mi premuravo di tenere ben repressi. Non potevo, nemmeno per un attimo, dimenticare di vivere in una famiglia borghese dove era severamente proibito ogni riferimento alla sessualità, e tali proibizioni scendevano fino ai livelli più profondi della mia coscienza.

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George Una mattina, mentre mi trovavo affacciato alla finestra, alzai di poco gli occhi e il mio sguardo si posò sul nipote arrivato dagli USA. Era appoggiato a un muro del terrazzo. Una decina di metri appena mi separavano da lui. Guardava davanti a sé, forse non s’era nemmeno accorto di me e fissava i tetti della vecchia Roma. Poteva avere la mia stessa età. Era l’inizio dell’autunno e indossava ancora un paio di pantaloni corti. Aveva i capelli neri che ricadevano sulla fronte pettinati e in disordine allo stesso tempo. Gli occhi erano neri come bruna era la sua pelle. Non era un tipico americano. Mi innamorai di lui e ciò rese più difficile un avvicinamento poiché il sentimento dell’amore mi precipitava in un groviglio di colpe. Una mattina lo salutai dalla finestra con il cuore in gola. Il nipote mi rispose con uno di quei sorrisi propri degli adolescenti. Fatto questo primo passo, si poneva il problema di parlargli. Per caso ci incontrammo sulla strada. Io guardai e dopo esserci incontrati con gli occhi, gli sorrisi e mi sorrise. Ambedue ci fermammo. Per un attimo rimanemmo in silenzio. Tra le altre cose c’era la difficoltà della lingua: come ci saremmo intesi? Spiccicava qualche parola in italiano? Ruppi ogni indugio e lo salutai. Con uno stentato italiano ricambiò il mio saluto. La prima difficoltà era caduta. Fu lui a chiedermi come mi chiamassi. Lui si chiamava George. Il discorso non potè continuare e ci lasciammo con la promessa che ci saremmo rivisti. Continuammo a incontrarci e io lo condussi spesso a casa mia dove, insieme, ascoltavamo dischi. Poi facemmo anche delle lunghe passeggiate in bicicletta. Pur

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negli impedimenti del linguaggio cercavamo di parlare di tutto, di comunicarci le esperienze su Roma. Lo amavo con purezza rara. Mai pensai di possederlo, forse per inibizione, forse per delicatezza, non so. So che l’amavo e godevo della sua vicinanza. Un pomeriggio, mentre si parlava seduti sul ciglio di una stradina della campagna romana, sfiorai leggermente il suo viso con la mia mano. Egli stette alla mia carezza. Volevo semplicemente trasmettergli un sentimento profondo nel silenzio, senza parole che dicono sempre meno di quanto si senta dentro. Venne il giorno della partenza e io lo accompagnai alla stazione. Finì così un tempo d’amore, puro eppur clandestino, che mi gettava in una disperata solitudine. Ero ancora Francesco. Ursa sarebbe nata di lì a qualche anno.

Piazza dei Cinquecento I rapporti con mio padre erano continuamente tesi. Spesso questa tensione esplodeva in scenate, in cui i calci e le cinghiate erano gli strumenti per ridurmi a un silenzio pieno di rancore e di odio. Una sera eravamo tutti a cena. Non ricordo più nemmeno il motivo per cui mio padre cominciò ad alzare la voce. Io, a un certo punto, non ne potei più a sentire quella voce così stridula che martellava nel mio cervello come un martello pneumatico. Mi alzai e gridai: –Non ne posso più! Stai crepando la mia vita. Mio padre si alzò come una belva, ululando cominciò a colpirmi. Io fuggii nella camera accanto, ma lui mi rincorse, mi saltò addosso e con le zampe anteriori e posteriori mi colpiva. Tutti gridavano. Al culmine del linciaggio mi sentii gridare in faccia: 179


–Femmina fottutaaaa! Vattene da casa! Immediatamente si creò il silenzio. Io rimasi curvo, assente, incapace di pensare, incapace di muovermi. Avevo diciotto anni. Quella sera stessa, a piazza dei Cinquecento, nacque Ursa.

Visita a Roma città aperta Martedì scorso siamo andati a visitare la mostra “Roma città aperta”. Essa presentava alcuni episodi della Resistenza romana. Dopo l’armistizio, infatti, l’Italia diventava alleata dell’America contro la Germania. I tedeschi allora, per rappresaglia, hanno cominciato a perseguitare gli italiani ormai nemici. È nato così un movimento popolare contro i tedeschi e i fascisti al quale hanno partecipato soprattutto operai e contadini e, poi, studenti e intellettuali. Essi hanno lottato anche a costo della vita per ottenere un’Italia libera e migliore, come dimostra l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma essi sono stati traditi perché l’Italia di oggi non è come i partigiani speravano. Molti di noi non hanno ancora la casa, sono senza lavoro, e vi è gente che, perché sciopera, viene presa a fucilate. Inoltre la mostra presentava tutti gli ordini che i fascisti davano agli italiani, con fotografie che documentavano i maltrattamenti fatti dai fascisti. Abbiamo visto anche un giornale dell’epoca «Il Messaggero» (giornale padronale) che portava scritto “W l’Italia e gli alleati”. Questo stesso giornale, qualche mese prima (nell’agosto del 1943) scriveva a favore di Mussolini. Questo dimostra che i padroni quando si tratta di comandare sono sempre pronti a cambiar partito. (Dal numero 12 di «Scuola 725», 1969).

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Appendice I Lettera della Scuola 725 al sindaco (Roma 1970)

Premessa Noi mandiamo questa lettera al Sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia dei suoi cittadini vivono nei ghetti. Per scriverla ci abbiamo impiegato dieci mesi. Ogni sera a pensierino si aggiungeva pensierino, si correggevano e si battevano a macchina, c’era lavoro per tutti. Nella lettera abbiamo voluto dire una sola idea: la politica deve essere fatta dal popolo. Al Sindaco di Roma Al Ministro dei LL. PP – Roma Al Presidente della Provincia – Roma E p.c.: Al Presidente della Repubblica Italiana Al Presidente del Senato Al Presidente del Consiglio dei Ministri Al Presidente della Camera dei Deputati Al Santo Padre Paolo VI Al Cardinale Angelo Dell’Acqua, Vicario del Santo Padre per la città di Roma 1 Sindaco, “e-grege” vuol dire fuori dal popolo. Se noi avessimo cominciato in un modo del genere la lettera l’avremmo posta al di sopra di noi, invece lei è come noi. Ciò le fa onore. 2 E neppure “signore” l’abbiamo voluta chiamare. Il Signore è uno ed è morto in croce e certo lei non ci muore. Parliamo della croce dello sfruttamento: questa è già occupata da noi.

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3 C’è rimasta la parola “sindaco”. Abbiamo visto sul vocabolario che essa significa difensore del diritto. Di quale diritto? 4 Di quello dei ricchi o dei poveri? Senz’altro lei dovrebbe essere dalla parte dei poveri. Questa è giustizia. E per due ragioni. 5 I poveri sono da tutti dimenticati e non sanno come difendersi. 6 Lei crede di avere la coscienza tranquilla quando ha trattato tutti allo stesso modo. Invece ciò per noi è ingiustizia. 7 Se ci sono due uomini, uno zoppo e l’altro sano, se il primo viene offeso dobbiamo metterci dalla sua parte e non fare i neutrali. 8 Lei qui all’Acquedotto non s’è mai visto. E ogni giorno che passa, qui si costruisce un ghetto. Lei sicuramente conoscerà il significato della parola, solo perché l’avrà letto sul vocabolario. Noi lo sappiamo perché ci viviamo da quando siamo nati. 9 Solo chi vive ha il diritto di parlare. Chi legge, saprà le cose a memoria, ma è bene che stia zitto e si metta dietro a noi. 10 Andiamo alla scuola borghese. La scuola del mattino ci dimentica. Esistono solo i “signorini” dei palazzi. Infatti i suoi programmi sono fatti dai loro papà per essi. Non per noi. E riescono anche a influenzarci. 11 Un nostro amico abitava da dodici anni all’Acquedotto; ha cambiato casa e ora ride di noi perché abitiamo nelle baracche. Quando andiamo alla scuola di Stato gli insegnanti non pensano a noi, ma a quelli che hanno una casa.

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12 La maestra di Marta l’anno scorso era arrivata quasi alla fine del libro, ma Marta non sapeva ancora leggere la prima pagina. Sabatino faceva la seconda elementare e non sapeva leggere né scrivere. Il maestro voleva mandarlo in una classe differenziale come ritardato. Da noi ha preso coraggio, è stato promosso e ci aiuta a fare il giornale. 13 Gli insegnanti non sanno cosa significa studiare in una baracca, in una cameretta dove c’è cucina, letto e gabinetto, la mamma e i fratellini mai quieti e innervositi. I nostri genitori talvolta sono analfabeti. Qualche papà per pensare ad altro si ubriaca. È la malattia dei poveri. Purtroppo alcuni baraccati accettano questa offesa alla loro intelligenza. 14 La scuola potrebbe svegliarci. Ma essa è nelle mani dei signori. La riforma di questa scuola dovrebbero farla gli operai e i contadini, invece la fanno gli avvocati e i professori. Le persone più contrarie alla classe operaia. 15 Vogliono parlare a nome dei poveri, ma non vogliono insegnare loro a farlo da soli. Hanno paura. Crollerebbe tutto il loro modo di vivere. E poi accettare i poveri come maestri non è facile per i superbi. Il preside del “Plinio Seniore”, detto il barbiere, ha definito bene la scuola di Stato: essa prima di tutto educa all’esteriorità. 16 Codesta è una scuola che appoggia i ricchi. Vi impariamo a imitare i borghesi. Eppure noi con loro non abbiamo nulla a che fare. Noi oppressi, loro oppressori. E andiamo alla loro scuola. 17 Una maestra fanatica di “Canzonissima” ha dato questo tema: scrivi la canzone che preferisci e che ti piace di più. Un’altra volta voleva addirittura che si facesse l’analisi grammaticale

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di queste canzonette. Noi l’abbiamo fatta, ma sulla canzone dei guerriglieri colombiani. Mica hanno dato un tema sull’uccisione dei due operai ad Avola o delle persone uccise a Battipaglia. Due maestri che hanno provato, sono stati cacciati dalla scuola. 18 A Carla la maestra ha dato uno di questi temi che spesso ci assegnano: descrivi il palazzo dove abiti. Carla non sapeva cosa inventare perché aveva vergogna, come molti di noi, di dire che abitava nelle baracche. Ma la vergogna non è nostra. Don Roberto la costrinse a dire la verità. Una delle regole della nostra scuola, infatti, è di non dire e non fare cose inutili. 19 La nostra scuola è in una baracca. Tra noi c’è sempre il prete, e dei giovani che a sera hanno la gioia di ritornare in una casa. A noi questa gioia non è data. Prima i giovani erano molti: venivano soltanto per aiutarci a fare i compiti. Venivano vestiti alla moda. Cercavano di influenzarci. Ragazze truccate in viso e ragazzi che parlavano troppo: credevano di essere rivoluzionari. Avevano letto solo i libri. Alcuni si dicevano maoisti… perché Mao era assente. 20 Parlavano la lingua dei ricchi e non quella nostra. Poi si sono stancati e ci hanno lasciati. Hanno fatto bene. Non si sa mai: chi va con lo zoppo impara a zoppicare! Ed erano zoppi. Difatti alcuni di loro fanno ripetizioni ai figli dei borghesi. Avrebbero una sola via d’uscita: lasciare gli studi e mettersi al servizio della classe operaia. 21 La nostra scuola. La nostra scuola mira a una preparazione politica e a farci conoscere la situazione in cui dobbiamo vivere. Non accettiamo nessun ragazzo che abita nei palazzi. Ne avevamo accettato uno ma è andato via. Non ci ha capiti. Era già storto nella mente. Vestiva e pensava come un fantoccio. Se fossimo stati più accorti gli avremmo dovuto chiedere di lasciare per alcuni anni i suoi studi e di dedicarsi a uno di noi che è indietro.

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22 Qualcuno si è fatto venire i dolori di pancia ascoltando i nostri discorsi. Al prete dicono che la politica non deve farla. E chi non fa politica è un egoista. A noi dicono che non dobbiamo imparare queste cose perché non ne siamo capaci. Dietro queste accuse c’è sempre qualcuno che non vuole impegnarsi col Vangelo né con noi. Molti dei giovani baraccati hanno ascoltato questo consiglio e oggi si ritrovano a parlare solo di sport, di canzoni, di macchine e di ragazze. 23 Abbiamo letto sul giornale che a Castelfranco Veneto un prete fa giocare gli operai e i contadini: così saranno sempre sfruttati. Il suo dovere sarebbe quello di farli pensare. Abbiamo anche saputo che il giornale del Vaticano ha parlato bene di un prete che si è ridotto a fare il calciatore. E ha tradito la sua missione. Il male è che le obiezioni suddette vengono da persone che si piccano di essere educatori. 24 Dicesi educatore colui che crede nella intelligenza dei ragazzi come noi e non viene a insegnarci stupidaggini come la favola di Cappuccetto rosso o la poesia della vispa Teresa o il racconto del gatto che possiede la “serenità di spirito”. 25 Un nostro compagno di terza elementare, sul foglietto dal quale abbiamo ricavato insieme a tutti gli altri questa lettera, ha scritto: alla scuola del mattino (dello Stato) ci fate stare zitti, a quella del pomeriggio (la nostra) invece si deve parlare, leggere, discutere. 26 Noi bisogna essere sempre occupati a fare qualcosa e, tranne qualcuno, nessuno se ne sta scioccamente a giocare. Si studia tutti i giorni dalla mattina alla sera, e tutto l’anno. La parola “vacanza” è da confessare come parolaccia. Il Ministro della Pubblica Istruzione si preoccupa di diminuire lo studio dei ragazzi: noi ci preoccupiamo di aumentarlo. I veri maestri non sono coloro che rendono facile lo studio, ma coloro che lo rendono difficile. 265


27 La nostra scuola è piccola (circa 15 mq). Il silenzio non è obbligatorio, ma quando si studia, tutti quanti cerchiamo di non disturbarci, altrimenti non si capisce niente. 28 Il sabato sera si celebra la messa e per tutto il pomeriggio si legge il Vangelo su un testo greco, latino e italiano. Poi sette giorni su sette, ci si sforza a viverlo. Amandoci. E si sa, la Bibbia è dalla parte dei poveri. 29 Agli studenti invece non importa che gli oppressi abbiano coscienza della propria situazione e rispettino la propria fede. Poverini, credono che noi si abbia bisogno del loro messaggio. Un messaggio che regolarmente prende le ferie quando c’è da fare il libero amore, c’è da andare sulla neve, in palestra o al mare o quando si avvicinano i loro esami all’università. Si dicono rivoluzionari, ma sempre borghesi rimangono. E come borghesi vorrebbero dividere gli operai. 30 Le nostre ragazze sono un po’ pigre. Un po’ la colpa è delle mamme che, mentre lasciano liberi i ragazzi, costringono le ragazze a lavorare in casa o a non venire a scuola. 31 Sono più indifese dei maschi e si riesce a influenzarle di più. Alcune di esse parlano ancora di cantanti e di canzoni. Ma si vergognano di farlo innanzi a noi. Lo fanno di nascosto come per le zozzerie. Perderanno l’abitudine. Qualche altra è andata via perché ha preferito far l’amore borghese piuttosto che far politica. Sono ancora vittime del razzismo di questa società che siamo costretti a digerire con la violenza. Quella nascosta e raffinata che lei deve conoscere. Poverine! Se non si libereranno dalla pigrizia, saranno destinate a fare le servette dei signori e a farsi sfruttare come commesse in qualche grande magazzino. 32 Sul libro di storia della prima media c’è scritto che gli egiziani nelle scuole per i figli dei signori – come vede il peccato

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non è di ora – ripetevano: “l’orecchio del ragazzo sta sulla schiena”. Qualcuno che è passato tra noi, ha pensato male. Non ha capito il significato della frase. Se è andata bene per i signori, ora andrà bene anche per noi. Ma non abbiamo nessuna idea di ripetere le grandi imprese dei signori. 33 Nella scuola e ovunque si deve far politica. I signori ci hanno sempre fregato. Ci hanno detto che la politica è una cosa sporca, ma che solo nelle loro mani diventa pulita. È un modo per tenerci oppressi e per colpire il dono dell’intelligenza che Dio ci ha fatto. È uno dei tanti modi per essere razzisti. Per la nostra scuola tutto ciò che avviene nel mondo diventa occasione per far politica. 34 Anche lo sport che tanto piace agli industriali. La sera noi si apre il giornale e si commenta tutto quello che capita. 35 Così veniamo a sapere che la situazione dell’Acquedotto è la situazione di due miliardi di uomini. Siamo tanti, sindaco! Che accadrà se un giorno la rabbia dei poveri scoppierà? 36 I signori posseggono una grande quantità di armi. Le bombe sono pericolose e possono incendiare l’universo. Essi dicono di volerci difendere così. Hanno messo sotto i piedi di ciascuno di noi ben cento tonnellate di tritolo. 37 Noi abbiamo ragione da vendere. Crediamo nella forza della ragione e non in quella della armi. Come si vede siamo evangelici. Leggendo la vita di Gandhi abbiamo conosciuto una parola che è un programma: “satiagraha”, che significa forza della verità. 38 Gesù prima di Gandhi ci aveva proclamati beati a causa della nostra sete di giustizia. Bisogna lottare per uscire da questo inferno: uscirne tutti insieme, e per sempre uniti a coloro che soffrono, e far politica. La politica è l’unico mezzo umano per liberarci. I padroni lo sanno bene, e cercano di addormentarci.

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Ci portano vino, televisione e giradischi, macchine e altri generi di oppio. Noi compriamo e consumiamo. Serviamo ad aumentare la ricchezza padronale e a distruggere la nostra intelligenza. 39 Perché scriviamo. Ora vogliamo dirle perché scriviamo. Per farle conoscere le nostre idee. Per dirle che esistiamo. Lo so bene, dirà lei, ma lo sa dai libri. Noi da molti anni abitiamo nelle baracche e molte volte è venuta gente a farci l’elemosina. Forse per sentirsi la coscienza tranquilla. Questa gente sono i ricchi. Anche le parrocchie fanno il loro gioco: spendono milioni per fare capannoni per giocare a bocce, o per costruire campi sportivi, magari da affittare a giovani fannulloni. Poi come attività evangelica riescono anche a organizzare i signori per farci beneficenza. E molti di questi sono falsi: dicono che dal loro palazzo, dietro all’Acquedotto vedono solo la polizia. Hanno gli occhi e si rifiutano di vedere. 40 Sarebbe ora di smetterla di trattarci come se fossimo pasticche tranquillanti. Non dobbiamo accettare l’elemosina che viene da simili mani. Alcuni di noi l’accettano e poi arrivano a dire che questi signori sono buoni. Non sanno che quei doni arrivano per offendere la nostra coscienza. Vogliono vederci in ginocchio. 41 Fanno a gara. Le parrocchie come le sezioni dei partiti. Si sono dati il compito di acchiappar gente e voti. Avevano quello di essere maestri. Anche nel nostro inferno avevano messo una sezione. Era del PSI. Mica vi si faceva politica. Vi si riunivano i vecchietti della borgata per bere, come si fa in molti circoli della ACLI. Per attirare i giovani avevano messo anche i biliardini. Alzavano il pugno mentre nell’altra mano tenevano il bicchiere. 42 Baracche, raccomandazioni e case. Sul libro di storia della terza elementare abbiamo letto che nel 3000 a.C. gli egiziani costruivano le loro case con il fango

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impastato con la paglia. Oggi, cinquemila anni dopo, si va sulla luna, ma noi qui, nel ghetto, come gli egiziani. Abbiamo davanti agli occhi le case dei signori con la loro vita egoista. Non si può andare avanti così. E lei neppure deve sopportare se non vuol passare per un sindaco neutrale come quelli che ci sono stati prima di lei. 43 Poi ci hanno detto che lei si professa cristiano. Ora diciamo: la sua religione sarà vuota e senza significato se a chi le chiede una casa lei offre parole. Un nostro compagno ha scritto: quasi ci tenete all’Acquedotto per divertimento. 44 A ogni pipì di gallina danno una casa. Ciò fa nascere delle invidie tra di noi. È come se un padre desse da mangiare a un figlio e non lo desse agli altri. Non si deve giocare a metterci l’uno contro l’altro. Chi divide i poveri è un vigliacco. Approfitta dell’ignoranza. 45 Noi vorremmo darle un’idea: poiché lei e i padroni direte di volerci bene, noi vi si vuole aiutare, perché questo vostro bene non rimanga sospeso in aria, ma scenda sulla terra come fece Gesù, nel fango dell’Acquedotto Felice. Venite ad abitare qui da noi. Unitevi alla nostra lotta. Siamo fatti della stessa carne e delle stesse ossa. Reumatismi a noi, reumatismi a voi. Soffriremo insieme, ci vorremo più bene e lotteremo. Di questo abbiamo bisogno e non di promesse e di pietà. Sindaco, forse questo è l’unico modo perché la nostra situazione venga risolta. 46 La casa è un diritto e non un regalo come l’ha reso la classe borghese. E accusa per quest’ultima è il fatto che la gente per ottenere un tetto è costretta a ricorrere alle raccomandazioni. Si è costruita una civiltà di raccomandazioni. Si è calpestato il diritto. 47 Ci diranno che i baraccati sono gente in arrivo a Roma dal Meridione, senza arte né mestiere. Pur sapendo cosa trove-

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ranno a Roma, si muovono alla ricerca di chissà quali ricchezze. Così credono taluni di incolparci e rimangono incolpati. I soldi si trovano solo al Nord. E a noi è stato comandato di andarli a guadagnare là. Invece si dovevano dividere bene. Purtroppo chi ci governa ha paura di toccare i padroni che li posseggono. 48 Ai nostri genitori ogni mese viene tolta una somma per la costruzione delle case ai lavoratori. Quindi quello che chiediamo è già nostro. E se non l’abbiamo avuto la colpa è anche della nostra ignoranza che non ci permette di organizzarci. Ma un discorso più documentato a riguardo lo faremo in seguito. 49 Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. (Dopo venticinque anni, nel 1970 è arrivata la luce elettrica. L’abbiamo presa con un attacco abusivo. Per questo siamo stati tutti denunciati dal Comune). Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche. 50 Siamo in un continuo pericolo di malattie. Lo sa, sindaco, che durante quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi. 51 Poi c’è l’amore… Le coppie mica vengono a farlo innanzi a lei. Vengono da noi. La sera è pericoloso stare sulla strada. Guardie non se ne vedono. Davanti alle banche ce n’è sempre una. Il denaro del padrone si difende. L’onestà dei poveri no.

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52 Noi bisogna uscire da qui, tutti insieme. Non bisogna rassegnarsi, ma lottare perché il diritto dei poveri sia riconosciuto. 53 Sindaco, noi si dice che tutto il mondo è paese. C’è chi abita lontano, e noi lo conosciamo solo dai giornali, ma gli si vuol bene lo stesso. È per questo che noi qui ci interessiamo di tutti, dei neri, degli americani, dei cinesi, dei colombiani. Ed è giusto che tutti sappiano quello che noi facciamo, in modo particolare quelli che abitano nella nostra città. 54 Aspettiamo. Siamo in attesa di una risposta. La prima l’aspettiamo da lei, sindaco. Poi dai baraccati o dai gruppi di giovani o di sacerdoti che soffrono con loro. Aspettiamo una risposta anche dal Ministro dei Lavori Pubblici e dal Presidente della Provincia. Lavorare da soli può essere buono, ma sarà difficile ottenere ciò che vogliamo. Bisogna lavorare tutti insieme. Noi abbiamo ragione. 55 È per questo che dopo averla mandata a lei, manderemo la lettera ai giornali. Forse ci capiranno solo quelli che vivono come noi. Ma noi si continuerà ugualmente ad aver fiducia nella ragione.

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