I semi 01
«Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia». Antonio Gramsci
Fulvio Colucci Lorenzo D’Alò
ILVA FOOTBALL CLUB
Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 9788898773602 © Edizioni Kurumuny – 2016
Per amore del mio popolo non tacerò. Don Peppe Diana
In memoria di Gino Vinci e Franco D’Alò. In ricordo di Berto Pugliese che costruì il siderurgico entrando ogni mattina in fabbrica dall’ingresso del cimitero. Alla rondine.
Prologo
Lacarbonara in porta, agile come una rondine. Ripiano e Papalia difensori centrali dal tackle spietato. De Tuglio e Andrisani terzini infaticabili. Guarino e Catapano a disegnare geometrie nel centro del campo, quasi avessero un compasso al posto delle gambe. Casile e D’Alò sulle ali, sognando Domenghini. De Gennaro e Capozza attaccanti, quando Riva era solo il cognome del bomber del Cagliari e non anche quello del sovrano assoluto della siderurgia italiana. Allenatore: mister Serio, il sergente di ferro. Anzi, d’acciaio. Potrebbe essere questo l’Ilva Football Club, la squadra di undici campioni ricostruita mettendo insieme le “figurine” di due generazioni che a Taranto hanno lasciato gli anni migliori della loro vita sul terreno del campo sportivo Tamburi vecchio: a un passo dalla fabbrica più inquinata d’Europa; a due dal cimitero dove le polveri minerali colorano di rosso le lapidi e quando sbagli un rigore vengono i brividi solo a scavalcare, a cercare la palla finita tra croci, lumini e sagome di ciminiere. Uno spettacolo pauroso e surreale di nuvole tossiche gialle, viola e ocra. Dribbling, tunnel, colpi di tosse. Tutti morti gli undici campioni. Uccisi dal cancro. Protagonisti, negli anni del calcio operaio, gli anni Settanta. Ammazzati dall’aria che respiravano sul terreno di gioco e in acciaieria.
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Perché operai erano anche loro. Finirono ai parchi minerali, ai forni e nelle colate continue. Bastava scavalcare un muretto, tra il campo grigio e ruggine del quartiere e le cokerie c’era solo un muretto. E una maglia. Come quella grigia della Labor che disputò la “Coppa Natale” arrivando in finale nel 1976. Il parroco dotò di una divisa i giovani figli del quartiere. Era grigia e qualcuno disse: – Don Fra’ potevi scegliere un altro colore? Il siderurgico già lo respiriamo, pure sulla pelle lo dobbiamo portare? Un giornalista, nato e cresciuto ai Tamburi, cerca di ricostruire la storia della maglia grigia, cioè la storia del calcio al quartiere operaio. Ripercorre la sua infanzia, l’adolescenza, il primo bacio, unendo i suoi ricordi a quelli di un commerciante che ha speso la gioventù al Tamburi vecchio, il campo rionale, disputando partite interminabili con quei ragazzi, condividendo gol e veleni. Dopo la morte di uno di loro e con il terremoto provocato dall’inchiesta della magistratura sul disastro ambientale, l’ex giocatore si mette in testa di recuperare la memoria individuale e collettiva. E si trasforma in cantastorie della squadra Ilva Football Club. Ricordo dopo ricordo, impagina una specie di album delle “figurine”: le vite, le storie, gli aneddoti anche comici, gli amori, le tragedie. Grida, attraverso il ricordo, il destino di una patria, recita nel suo negozio di bombole del gas e salvadanai di creta la Spoon River della terra battuta. Dai veleni. – Perché tutti devono sapere, perché la nostra mente si rifiuta di pensare che sia tutto finito, perché vorrei riaprire quel campo e togliere i ragazzi dalla strada. Ma quel campo è chiuso per sempre. Murato, vietato. Il terreno è carico di diossina, berillio e altri minerali nocivi. Anche solo sbucciarsi le ginocchia era e resta un pericolo.
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Un’ordinanza del sindaco impedisce ai bambini del quartiere Tamburi di giocare all’aperto, ma i bambini sfidano il divieto. In un passaggio ideale del testimone con quei campioni e con tutti quelli che, come loro, videro nel rapporto tra calcio e fabbrica una sorta di riscatto sociale. Non è mai arrivato quel “giorno migliore” strombazzato dalla Settimana Incom nei cinegiornali dei primi anni Sessanta, quando furono inaugurate le case per gli operai, a ridosso della fabbrica. Di Ilva Football Club, di formazioni con i nomi dei caduti per inquinamento o per lavoro, se ne potrebbero creare decine e a loro restituire voce e memoria. Come quella del maestro, l’allenatore ammalatosi in officina e che dal male costruì il suo percorso d’insegnamento e di vita dedicato ai giovani con l’obiettivo di farli crescere, dar loro dignità e coscienza di cittadini attraverso lo sport. Gino Vinci è morto un anno fa. La sua testimonianza appare oggi più preziosa. Ai giovani del quartiere e a quel primo e unico bacio dato a una ragazza il cui nome riposa ora nel vento, al gioco che continua, nonostante il disastro ambientale e umano provocato dall’inquinamento dell’Ilva, sono dedicate le ultime immagini del libro. La disperata vitalità dei Tamburi, l’amore che resiste e si attacca ai ricordi cercando di sopravvivere. Infine la contraddizione: il nodo insolubile ai cui estremi ci sono salute, ambiente e lavoro. E la provocazione: perché l’Ilva i tarantini la ricostruirebbero, non potendo fare a meno del totem malefico che ancora li illude.
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Rondini e palloni
La mia è una storia di rondini e palloni. La racconto perché da ragazzo amavo scrivere e giocare al calcio. Il calcio viene dopo la scrittura: sognavo di fare il giornalista. I miei primi articoli sono, in realtà, liste: di cose da fare, vedere, provare. Di calciatori: le figurine dell’album Panini da scambiare. Ma anche i nomi dei compagni da coinvolgere nelle partite in strada, tra le vie dei Tamburi, il quartiere-fabbrica attaccato all’Ilva di Taranto: Pinuccio, destro fortissimo; da chiamare subito, sfonda le reti. Le reti ce le hanno regalate i pescatori e le abbiamo adattate su pali e traverse di fortuna negli spiazzi del rione. Stile lapidario. Frasi brevi, telegrafiche, su un foglio di carta. Un rito a inizio e fine giornata. Capita di addormentarmi con l’ultima lista in mano da completare. Le più divertenti? Quelle delle parole che non conosco o di cui voglio approfondire il significato. Giorno per giorno, una scoperta. Pronuncio le sillabe succhiandole come ghiaccioli colorati e corro sul vocabolario per poi ricopiare diligentemente l’ultimo termine in fondo alla lista. Ron-di-ne: nome comune degli uccelli passeriformi. Ho un cassetto di appunti in un mobile dimenticato. Un vecchio comodino nella stanza in fondo al corridoio. Le liste
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sono chiuse lì in un fascicolo serrato da un elastico; mi sembra, così, di metterle al sicuro da tutto. Passo in rassegna le parole, le tengo al riparo anche da quel vento nero che soffia e imbratta ogni cosa le mattine di tramontana. Soffia forte e dalle sue ali scivola una polvere che finisce ovunque: sulle case, le strade, gli uffici, le piazze, anche tra i fogli e le lenzuola; la sua ombra è dappertutto. Una patina incancellabile: pulisci ma non scompare mai. Sembra una peste, un contagio. Ritorna, indelebile, invincibile: un tatuaggio che portiamo addosso – uomini e cose – qui al quartiere Tamburi. Il vento, il fumo, la polvere, insegnano molto. Impariamo in fretta; c’è la bandiera tricolore dell’Italia: il rosso, il bianco, il verde; c’è la bandiera tricolore del quartiere: grigio ciminiere, rosso minerale, nero cokerie; colori che coprono, sommergono, occultano, ma siamo contenti di agitarla come allo stadio. Sopra c’è scritto “benessere”. Tutti partecipano allo scempio dei Tamburi, dove pascolavano le pecore; nessuno escluso. E con orgoglio tutti in campo, tutti tatuati dalla polvere. Al ritorno dalla spiaggia, in auto, mio padre indica sempre gli impianti industriali: – Guardate la fiamma della raffineria! Guardate le ciminiere dell’Italsider come sono alte! – e quasi grida, rivolgendosi a me e a mio fratello. Italsider, il vecchio nome dell’Ilva. Noi, stanchi, affamati, intontiti dal sole osserviamo in silenzio però... Però pensiamo che davvero c’è da essere orgogliosi di quei colossi, ma la cosa più importante è che i fumaioli offrano la confortante certezza: siamo arrivati a casa, tra poco pranzeremo e poi via a giocare. Si faceva scempio del quartiere con la lieta, oggi straziante, soddisfazione del “benessere” prodotto dall’acciaio, dal fuoco acceso come torcia olimpica, dai camini instancabili nel loro suono d’oltretomba,
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Il sopravvissuto
Peppe siderurgico poggia la palla sul dischetto, tornando con lentezza sui suoi passi. Si volta e lancia uno sguardo oltre il piccolo muro di cinta del campo di calcio: verso le gru, le montagne di minerale, le ciminiere dell’Ilva lontane uno sputo. Lunare il paesaggio sullo sfondo del Tamburi vecchio: la dura realtà della fabbrica, la sua vicinanza, la sua brutale distanza dal rettangolo di gioco. Tutto il resto rimane sogno nel sogno. Peppe sembra stordito dal contesto, quasi sia un peso insostenibile tirare il rigore. Sbagliare non può, chissà il capoturno, i rimproveri: – Ora sconti quello e il resto. Ti ho fatto dormire, ieri notte, invece di lavorare. Perciò, se fallisse il rigore, crudele al varco, lo attenderebbe il dopo partita. Ma avverto una sua sottile, misteriosa, ostinata resistenza al richiamo stregato delle ciminiere. Dalle acciaierie arriva odore di sgomento. Inarrestabile. A fredde folate spazza il piano di carico dei pensieri. Ma non sa dirlo, Peppe siderurgico. Non può, non riesce. Come se gli mancasse la voce. L’immagine della fabbrica diventa via via paurosa e inafferrabile. Dritta, di fronte agli occhi, col ghigno quieto del
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capoturno, il bagliore delle colate di ghisa, la tuta sporca di polvere rossa. Quel rigore sa di notte e di alba a 1800 gradi, il gelido inferno. I bambini si aggrappano ai tubi Innocenti e, dalla tribuna, urlano spazientiti: – Mae’ e tiralo ‘stu rigore! Peppe punta la scarpa sulla terra battuta, più nera di un vulcano spento. Prende tempo. Non vuole darla vinta al disagio infilatosi tra le linee dei pensieri, per colpa del siderurgico seduto lì, poco distante a fumar tranquillo, a rosolare la città e il quartiere Tamburi, ad attendere il suo errore. Già si vede infilzato dalle ciminiere come un pollo allo spiedo. Mi guarda e riconosco gli stessi occhi del giorno in cui confidò a mio padre che avrebbe voluto mandare al diavolo l’Ilva, la tuta blu, dopo poche settimane dall’assunzione. Tentare l’avventura agonistica in qualche squadra. Fare il salto tra i professionisti del calcio. Sapeva, Peppe, di avere qualche chance. Sapeva, però, anche il rischio: restare a mani vuote. Né calcio né fabbrica. Giornate lunghe di niente e contrabbando. Da folli. Solo ora mi accorgo di un taglio al ginocchio dopo un contrasto di gioco. La gamba è impastata di sangue e polvere dal colore indefinibile. Brillante, luminosa e nera. Bruciava il ginocchio, come la gola. Quelle montagne a due passi di carbone e ferro: i parchi minerali. Peppe siderurgico è preoccupato: come batterà? Il portiere intanto tesse la tela, sembra un ragno velenoso. Tutti lì a godersi lo spettacolo di un operaio quasi al patibolo. Si avverte nell’aria quel senso di auto condanna a sbagliare perché l’immagine della fabbrica ammalia e uccide come un serpente. L’Ilva ha avuto tutto: gli onori, le autorità, le benedizioni dei vescovi. I carabinieri col pennacchio. Grandi cerimonie,
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tragedie enormi, piccole miserie. Scruta tutto, tutto decide. Il rigore no. Peppe non vuol sbagliarlo, non vuol dare la soddisfazione al capoturno, vendere anche l’anima alle acciaierie. Lui aveva varcato con orgoglio i cancelli dello stabilimento, poi si era accorto del progresso dal volto d’inferno, del risultato scritto a tavolino, della sfida persa in partenza di fronte all’immensità della macchina, al suo istintivo divorare l’uomo e alla perfetta solitudine dell’operaio. Se n’era accorto sfogliando un pomeriggio «l’Unità» nella sezione del partito comunista ai Tamburi. Quei numeri agghiaccianti solo a dirsi. All’Italsider come in guerra: centinaia di morti, migliaia di feriti. Un solo ambulatorio non attrezzato, il numero incalcolabile di operai deceduti per malattie gastriche o respiratorie contratte sul lavoro, l’inchiesta del Consiglio di fabbrica. Il Consiglio di fabbrica, già. Che senso aveva giocare a pallone? In troppi hanno rimesso le penne, oltre il muretto del campo di calcio. In troppi a tirar rigori e giocarsi la vita nei reparti. Per Peppe siderurgico era troppo. Ma a chi mai avrebbe potuto gridare tutto questo? La palla è sul dischetto. Il terzino guarda i suoi compagni di squadra, i suoi compagni di lavoro. Un coro muto. Io sono lì a osservare quegli occhi roventi di paura. Mi accorgo di tifare per lui: Peppe non puoi sbagliare. Poi penso: cosa sto facendo? Il pensiero conquista un vantaggio incolmabile sul corpo. La fabbrica sembra un plotone d’esecuzione, le ciminiere fucili puntati sul petto. Peppe prende la rincorsa. Tenta una finta per sbilanciare il portiere che non abbocca. Tira con quel po’ di forza rimastagli incollata al corpo. Una botta violenta, centrale, piega le mani al ragno nero. La palla buca la
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rete, finendo la sua corsa oltre il muretto, dentro l’area parchi dell’Italsider. Gol o no? Mi sveglio di soprassalto. – Ricordi la maglia grigia? – No. – Nemmeno una foto della squadra? – Sto chiudendo bottega. Domani fatti vivo, voglio raccontare.
La bottega di Ciccio Cavallo non è la salumeria di mio padre, però ha finito per somigliarle. Succede a tutti i magazzini nei quali si conserva la memoria. Ho sognato la maglia grigia dopo tanto tempo e lui, Antonio Cavallo detto Ciccio, ha capito. Un cruccio ci unisce: testimoniare il calcio fra le ciminiere. Il suo negozio è diventato un piccolo museo del football di quartiere. I vuoti lo amareggiano, offendono il ricordo: della Labor più nulla. Cancellata. Ma la maglia grigio Italsider avrebbe potuto vestire molte squadre. Io ai Tamburi torno sempre volentieri, però devo stare attento al magone. Mi assale quando vedo la vecchia casa dove abitavo, i muri scrostati color minerale, le scritte “Riva boia”, gli stencil col disegno del teschio e la maschera antigas: “attenzione, città inquinata” lì dove fioriva l’oleandro. I giardinetti proibiti al gioco dei bambini. Tra i salvadanai, le prese elettriche, le bombole del gas, Ciccio conserva centinaia di foto, testimonianze, istantanee, filmati, messi insieme con pazienza infinita. Un po’ amanuense, un po’ cantastorie, un po’ rigattiere. Sul suo bancone si mescolano la vita, le ferite, amore e morte del quartiere.
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Il maestro e la neve
Respirano a fatica i ricordi del maestro nella stanza dove la mia curiosità sollecita la sua memoria. Desidero incontrare Gino Vinci per riassaporare il gusto delle sue parole lucide, schiette, non segnate dalla malattia. E per chiudere un cerchio. – Ti sei deciso? Aspettavo da tanto una visita. – Doveva maturare. – Chiedevo tue notizie, è tempo di ricordare. Una volta promettesti: scriveremo un libro e saranno le “memorie del mister”; il protagonista del libro di quello scrittore lì, com’è il nome? – Osvaldo Soriano. – Sì, ma il mister? – Fernandez. Peregrino Fernandez. Le memorie del mister Peregrino Fernandez. – C’è un tempo per raccontare. Sta scadendo, perciò il momento è giusto. Gino Vinci ha un’immagine sfocata della maglia grigia, casacca fuori dai circuiti ufficiali, fuori dai campionati amatoriali, fuori dalle domeniche piene di tutto: dribbling e lasagne, radiocronache, pasticcini e gol in bianco e nero.
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Fuori da tutto eppure presente, decisiva, la maglia grigia. Simbolo inconsapevole: – Avremmo vestito la nazionale dei Tamburi – scherza il maestro, accendendo l’immaginazione per quella casacca che oggi sarebbe vissuta come seconda pelle del quartiere ulcerato dalla ghisa, ferito a morte dalla perdita della sua essenza di piccolo paradiso naturale. La maglia grigia ridotta a brandelli, scarto in discarica, vuoto a perdere della grande rimozione collettiva di memoria, pure ancora viva dentro chi ha fatto dell’appartenenza al calcio tra i fumi una militanza sociale, politica e culturale. Una disciplina di vita e cittadinanza. Il maestro non ha mai lasciato i Tamburi. Insegue tanti pensieri diventati pulviscolo nel fascio di luce che taglia la stanza. Ha confidenza con quel raggio di sole, lo ispeziona ogni giorno, mentre cade esausto sul pavimento del tinello. Cerca nella traiettoria del tramonto i suoi ragazzi, ripercorrendo le lunghe chiacchierate sulla tattica, la traduzione del suo pensiero in schemi di gioco. Tutto sfarinatosi in briciole luminose, le lucciole operaie: Gravina, il vigilante dell’Ilva, il centravanti con due scarpe destre e un repertorio di finte stordenti; Cozzolino, anche lui in fabbrica, i suoi tunnel al laser, i suoi gol fulminei; i tiri potenti di Di Vincenzo, che imitava antichi attaccanti uruguagi con il ferro nella punta della scarpa. – Fu chiamato a corte da una grande squadra del nord Di Vincenzo, il suo sogno si spezza sui tacchetti di un compagno in allenamento: rottura del legamento crociato e un destino di stampelle e fabbrica. Così volevano risarcirlo, ma non conoscevano il suo carattere temprato, come quello di tutti i miei ragazzi, giocando sulla neve.
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La voce del maestro trema come il ramo di un albero sotto il peso del vento. La malattia ha reso il suo sguardo febbrile e profondo, insaziabile nell’incrociare l’ordito del tempo alla trama dei ricordi. È come se gli occhi, mai domi, risalissero controcorrente un fiume pensando agli anni della formazione calcistica, formazione di vita, sentimentale, politica. Tutto il suo corpo esile, scientificamente scavato dal male in ogni piega, si tende, con paradossale e testarda armonia, in uno sforzo estremo. Arco dal quale scoccano parole illuminando largamente il sorriso, rendendolo vivo, addirittura contagioso sotto quel ciuffo di capelli che lo fa somigliare a certi allenatori zingari dell’est europeo. – Il calcio ai Tamburi era romanzo collettivo, popolare. Una partita non la giocavi solo sul campo di calcio, ma nelle piazze, ai giardinetti, in ogni spazio possibile. Il calcio era una dimensione importante della vita, la palla non smetteva mai di rotolare. A imprimerle forza, prima i sogni dei ragazzi e poi i piedi. La maglia del centro sociale aveva i colori della Sampdoria. La scelsi pensando che sarebbe piaciuta. Fu così. Niente colori tradizionali, il centro sociale era nato da poco come punto di riferimento per la nascente classe operaia dell’Italsider che abitava case Ina appena inaugurate. Sarà stato il blu mare, così intenso da caricare i giovani, ma da quando scendemmo in campo con quella casacca, non smettemmo di vincere. La forza della squadra nasceva da una contraddizione: io l’allenavo ed ero comunista; il presidente, invece, mostrava simpatie per l’estrema destra. Ma la politica restava fuori dal campo, soprattutto dai discorsi con i ragazzi. Un miracolo? Sì, perché pur azzuffandoci su tutto, cercavamo di trovare
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ciò che ci univa: l’amore per i giovani, la loro crescita, l’educazione sportiva vista come parte integrante della formazione e baluardo contro il disagio sociale. Che poi la politica avesse i suoi simboli, rimane nella storia. Il presidente della Brumel, comunista come me, chiamò così la squadra del quartiere ispirandosi al campione sovietico di salto in alto Valerij Brumel. Il comunismo, in fondo, era nel salto di Brumel, lo vedevamo come l’ideale più alto: l’uguaglianza, il lavoro, la fine delle ingiustizie, dello sfruttamento. Comunista significa tante cose, anche negative. Per me il comunismo è stato leggere, imparare. Riuscire a conquistare un pezzo di conoscenza, non potendo proseguire la scuola dopo le medie. Ai ragazzi non raccontavo certo le ingiustizie subite da mio padre al lavoro. Perché sono state quelle la molla della mia iscrizione al Pci. Comunista vuol dire continuare a lottare contro le disuguaglianze. La prima e più grave, per un giovane: non poter studiare. Un cruccio che viene da lontano. Perché io non ho potuto studiare. Nel calcio vedevo lo studio continuare sotto un’altra forma, attraverso il dialogo con i giovani e il gioco. Dar loro un’opportunità. Non la chiamo speranza, no. La palla la tocchi, la speranza no. Così imparavo anche io; ogni giorno una conquista facendo il maestro, il padre, il fratello, l’amico. Sono diventato comunista perché coincisero due fatti: i soprusi subiti da mio padre sul posto di lavoro; la voglia di studiare comunque, per emanciparmi. Mio padre lavorava all’oleificio ed era sindacalista. Nella commissione interna alla fabbrica rappresentava la Cgil. Soffriva perché l’azienda gli impediva di fare sindacato, di tutelare i lavoratori. Arrivarono a offrirgli denaro perché si licenziasse. Lui incontrava
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di nascosto gli operai. Fu mandato via dopo l’ultima riunione clandestina nella sala caldaie. Qualcuno fece la spia, il padrone non aspettava altro. Quando mio padre perse il posto fu tutto più difficile. Io volevo continuare a studiare. A casa ricordo l’inverno terribile. «Ti tocca la coffa addosso» disse papà con parole dure che facevano male prima di tutto a lui, leggendo la mia delusione, la rabbia, il senso di sconfitta reciproca. Mio nonno pianse, sognava per me un futuro migliore. In realtà io lavoravo già dall’età di sei anni, portavo il latte a domicilio la mattina presto, giravo tutto il quartiere. Battevo strade selciate, all’epoca c’era la pietra viva e mi facevo male, arrivavo a casa con i piedi gonfi. Finivo prima delle otto e poi di corsa a scuola. Con i piedi gonfi e gli occhi bruciati dal sonno. Però la lettura ho continuato a coltivarla e poi mi sono appassionato alla politica. Cominciai a incuriosirmi guardando le pagine del «Corriere dello Sport». Ogni giorno, dopo la scuola, in cortile, un amico di mio padre lo sfogliava. Io lì a sbirciare. Mi attiravano i luoghi dove si svolgevano le gare. Correvo a casa cercandoli sui libri. La geografia mi piaceva, l’idea di esplorare la terra. I libri erano pochi. Sognavo un atlante, un mappamondo, chi li aveva mai visti? Andavo a trovare mio cugino per poter aprire un volume d’enciclopedia e la fantasia viaggiava. Applicavo il comunismo al football di quartiere. No, non distribuivo certo i santini elettorali del Pci ai ragazzi della squadra. Durante gli allenamenti dicevo loro di studiare, pensando a quello che scriveva Gramsci; io ero riuscito a “catturarlo” durante il dibattito con un professore alla sezione. Avevo quattordici anni quando ho allenato la mia prima squadra: fratelli e cugini. Il calcio ai Tamburi non aveva an-
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Indice
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Prologo
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Rondini e palloni Il sopravvissuto Il maestro e la neve
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Epilogo
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Questo libro è stato fatto da
Luigi Chiriatti Art director
Fabio Chiriatti Progetto grafico di copertina e illustrazione
Laura Casciotti Ufficio stampa
Arti Grafiche Panico Stampa tipografica
Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile