Interviste sul tarantismo

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Sergio Torsello

INTERVISTE SUL

TARANTISMO


Con il patrocinio di

Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-39-8 © Edizioni Kurumuny – 2015


Indice

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Per Sergio Prefazione di Gabriele Mina

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Introduzione

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Nota editoriale

Interviste a 17

Clara Gallini

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Amalia Signorelli

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Donato Valli

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Antonio Prete

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Mario Marsella

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Marino Niola

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Giovanni Pizza

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Luigi Chiriatti

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Chiara Samugheo

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Eugenio Imbriani

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Appendice Per una nuova tarantologia

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Nota bibliografica



Per Sergio prefazione di Gabriele Mina

Pochi mesi fa Sergio mi aveva inviato le bozze di questo libro, chiedendomi di scrivere qualche riga di prefazione. Aveva avuto le consuete parole affettuose e avevamo scherzato – ricordo – citando improbabili titoli latini di dissertazioni sulle tarantole, scambiati per anni e anni. Avevo scritto quelle righe e ora riapro il file, scorro i verbi e passo dal tempo presente al passato, perché nel frattempo Sergio non c’è più, è morto improvvisamente ad aprile, lasciando smarriti quanti gli hanno voluto bene, quanti – migliaia e migliaia, davvero – hanno potuto apprezzare l’intelligenza e l’umanità di un uomo generoso e schivo, impegnato, privo di ipocrisie. Qualità che si avvertivano subito, nei suoi gesti discreti, nel suo porsi un passo indietro per valorizzare l’altrui, nel suo modo di sorridere, nel suo esserci sempre. Correggo dal presente al passato, però vorrei dire: il lavoro imponente di Sergio ha un senso ora e continuerà ad averlo. Tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di collaborare con lui siamo convinti, senza esitazioni, che debbano vedere la luce i progetti in cantiere, così da continuare ad alimentare i vari dibattiti con la sua voce, i suoi documenti, le sue istanze culturali. In comunione laica dei morti e dei vivi. Sergio Torsello, nella sua lunga e multiforme attività intellettuale sul territorio, spesso privilegiò due approcci che evidenziano bene alcuni caratteri della sua figura di studioso: l’intervista e la bibliografia, entrambi presenti in

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questo libro. L’intervista per Sergio era qualcosa di più di uno strumento tecnico del giornalista: era un’interlocuzione che cresceva nel tempo, che nasceva dalla frequentazione delle persone e dei temi. Per lui era anche uno strumento di costruzione di dialoghi allargati, di promozione culturale, nella ferma idea che il coinvolgimento di differenti voci – comprese quelle meno note – fosse un passo essenziale per l’arricchimento collettivo. Grazie a questi dialoghi e alla sua rara capacità, riconosciutagli da tutti, di porre in luce il valore dell’altro – si colga, nelle interviste qui trascritte, la sua attenzione al giudizio di chi aveva di fronte, allo sguardo interpretativo – Sergio riuscì a «tessere una tela» (espressione a lui cara) fra le generazioni e le diverse scuole, fra osservatori e osservati, fra puristi e contaminatori, fra il Salento e il mondo. L’altra strategia, quella bibliografica, tradisce la sua passione per il documento e per l’infinito gioco dei rimandi nelle fonti. Sentiva il bisogno, per sé e per gli studiosi, di dare ordine alle inesauribili liste di titoli (dai trattati eruditi al più piccolo intervento su una rivista locale), un poco esorcizzando la vertigine bibliografica che talora coglie chi lavora con la storia. La sua cura nella ricostruzione cronologica dei testi, per quanto concerne il tarantismo, si appuntava in particolare all’Ottocento, un secolo assai fecondo di osservatori apuli «sul campo» che – scrutando nelle case dei contadini o catalogando specie di ragni e di veleni – continuavano ad alimentare la fortuna di un tema che, fin dal Rinascimento, aveva coinvolto filosofi e scienziati di tutta Europa. Mi piace pensare che Sergio, in modo ironico, sentisse l’eredità di quegli etnografi che battevano il territorio, paese per paese, interrogando chicchessia, accumulando dati e scrivendo missive alle accademie. Ora, per una volta, siamo noi a fare un passo indietro e a mettere in luce lui, leggendo qui le

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sue domande puntuali sull’identità dei luoghi e sulla reinvenzione della memoria, riconoscendo fra le sue note dettagliate la vocazione dell’antropologo militante.

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Introduzione

Et noi vediamo hoggidì, che per via della Musica si oprano cose meravigliose: imperochè tanta è la forza de i suoni et de i balli contra il veleno delle Tarantole, che in brevissimo tempo risana coloro, che da esse sono stati morsi: come si vede ogni giorno per esperienza nella Puglia, paese abondantissimo de tali animali. Gioseffo Zarlino, Istituzioni harmoniche, Venetia 1623 Venenum ictus tarantulae mirabiles effectos producit. Hoffmann. Med. syst. rat.t. II [Citato in Agostino Fantoni, De tarantulismo. Dissertatio inauguralis, Ticini Regii 1847].

Queste interviste sul tarantismo, raccolte lungo l’arco di un quindicennio, sono la testimonianza di un importante segmento del mio personale percorso di ricerca sul tema. Un itinerario che prende il via alla fine degli anni Ottanta e si consolida a metà degli anni Novanta, quando il tarantismo, dopo un lungo periodo di oblio, torna al centro di un clamoroso interesse scientifico e culturale. Esse rispondono a una duplice esigenza emersa a più riprese e in diversi momenti della ricerca: da un lato la necessità di verifiche, chiarimenti, approfondimenti, ulteriori messe a fuoco di particolari aspetti del fenomeno; dall’altro l’importanza del dialogo tra accademia e studi locali, di un fertile confronto tra «teoria antropologica e conoscenza locale», come dice uno degli interlocutori di questo libro, Gianni Pizza. Non si sorprenda dunque il lettore nel trovare uno

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accanto all’altro nomi prestigiosi della ricerca etnoantropologica italiana impegnati nello studio del tarantismo e del suo recupero contemporaneo, esponenti di spicco della cultura locale e figure di rilievo del mondo popolare salentino come l’organettista Mario Marsella. Le interviste riguardano in molti casi temi ben precisi: l’analisi storico antropologica, la storia degli studi e le alleanze tra studiosi, la figura e l’opera di Ernesto de Martino, le mutevoli forme di reinvenzione che caratterizzano il recente revival della pizzica e del tarantismo, la mancata ricezione salentina de La terra del rimorso, il primo reportage fotografico sul fenomeno, la memoria dei protagonisti del rituale. L’immagine che ne deriva è quella di una fitta rete discorsiva, una tela infinita che continuamente si disfa e si ricompone, nella quale convivono osservatori e osservati, sguardi e punti di vista differenti che tuttavia offrono stimolanti spunti di riflessione su alcuni nodi cruciali della discussione contemporanea sul tema. Proprio perché legate a momenti particolari di un più ampio itinerario di ricerca che attraversa il recente dibattito sull’argomento, ho ritenuto opportuno mantenere la stessa successione cronologica nella quale le interviste sono apparse e lo stesso taglio pensato per la sede che le doveva ospitare. Le interviste sono state quasi tutte pubblicate in volumi, quotidiani e riviste (talvolta in diverse versioni), tranne l’ultima, a Eugenio Imbriani, che è inedita, e quella a Marino Niola che qui viene pubblicata nella sua versione integrale. Vorrei qui ringraziare pubblicamente per la cortesia e la disponibilità tutti gli intervistati: Clara Gallini, Amalia Signorelli, Donato Valli, Antonio Prete, lo scomparso Mario Marsella, Giovanni Pizza, Marino Niola, Chiara Samugheo, Luigi Chiriatti, Eugenio Imbriani. Per il costante dialogo sul tarantismo degli ultimi quindici anni e per la duratura ami-

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cizia sono riconoscente in particolare a Luigi Chiriatti, Giovanni Pizza, Gabriele Mina, Vincenzo Santoro, Eugenio Imbriani. Un ringraziamento particolare, infine, desidero rivolgere a Giovanni Chiriatti, delle Edizioni Kurumuny, per la fiducia incondizionata con la quale accoglie da sempre i miei lavori nelle collane della sua casa editrice.

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Clara Gallini

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Clara Gallini (1931), allieva e poi assistente di Ernesto de Martino nell’ultimo periodo della sua vita, ha insegnato Antropologia Culturale a Cagliari, Napoli e Roma. È autrice di studi fondamentali sull’argia sarda, sul magnetismo e sull’opera di Ernesto de Martino. Dell’etnologo napoletano, in particolare, ha curato la pubblicazione di molti inediti e la riedizione di quasi tutte le opere più importanti.

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Quarant’anni fa veniva pubblicata La terra del rimorso. Per l’impianto interdisciplinare e per la tensione etica che lo animava il libro segnò una svolta nel campo delle indagini etnoantropologiche. Cosa resta oggi di quell’esperienza? Io credo che di quell’esperienza resti molto, se rivista con quanto di nuovo oggi abbiamo acquisito nel campo della ricerca etnoantropologica. È uno straordinario punto di riferimento rispetto al quale misurarci per capire quanto sia stato importante e anche quanto le cose siano cambiate da allora e quanto sia da riscoprire nella ricchezza di questo testo. Le opere di de Martino si caratterizzano come opere stratificate, non solo leggibili da angolature diverse ma anche a diversi livelli di profondità di analisi. La domanda sollecita una risposta di carattere storico. Il primo trentennio del dopoguerra in Italia è stato caratterizzato dalla guerra fredda e da attentati alla struttura democratica del paese. Un periodo che vide messa in discussione la figura dell’intellettuale, che allora si propose come “intellettuale critico”, egualmente impegnato sia nella ricerca che nel tentativo di collegare ricerca a prassi politica. In anni come i nostri, in cui il disinganno è forte e lo scollamento tra politica e costruzione critica delle coscienze molto avanzato, queste figure ci sembrano distanti come la luna, e credo anche che le guardiamo con una certa nostalgia. Probabilmente allora si pensava ancora all’intellettuale come personaggio magari accademico, capace di distinguersi per la sua unica dimensione di pensatore. Oggi forse ci va un po’ stretta una figura di questo genere. I processi di diffusione dell’intellettualità nel sociale, anche con lavori intellettuali impensabili rispetto a cinquant’anni fa, ci portano a ridefinire in qualche modo la figura più con la mente che con i muscoli. Ciò detto, si pongono degli interrogativi, spesso

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Amalia Signorelli

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A quarant’anni dalla morte di Ernesto de Martino, avvenuta il 6 maggio 1965, il revival demartiniano non conosce battute d’arresto, consacrando sempre più l’etnologo napoletano come uno «dei maggiori intellettuali del Novecento italiano», per usare le parole di Clara Gallini. Non sempre infatti le sue anticipatorie posizioni furono capite e condivise (celebre in tal senso la tagliente “recensione in quattro parole” che Paolo Toschi dedicò nel 1962 a Furore, simbolo, valore: «Furore molto, valore poco»); un atteggiamento che, dentro e fuori il mondo accademico, durerà per lungo tempo dopo la morte. Allievo di Adolfo Omodeo all’Università di Napoli, poi crociano inquieto, marxista irregolare e intellettuale costantemente impegnato a coniugare attività scientifica e passione civile, de Martino fu autore di opere come Il mondo magico, Morte e pianto rituale, Sud e magia, considerate ormai dei classici della tradizione antropologica italiana. Nell’estate del 1959, nel corso dell’inchiesta sul tarantismo, sperimentò proprio nel Salento un raffinato e innovativo metodo di indagine multidisciplinare dei fenomeni culturali. Un’esperienza fondativa per l’antropologia italiana, dalla quale scaturì poi, due anni più tardi, La terra del rimorso, un libro di culto, che il revival della pizzica ha trasformato in un’icona del nuovo rinascimento salentino. Ad accompagnarlo in quel viaggio (con l’etnomusicologo Diego Carpitella, lo psichiatra Giovanni Jervis, il fotografo Franco Pinna, l’antropologa Annabella Rossi, Vittoria De Palma e Letizia Jervis) c’era anche la giovanissima Amalia Signorelli (1934), oggi docente di Antropologia Culturale all’Università Federico II di Napoli. Autrice di studi e ricerche sull’emigrazione, sulla condizione femminile e sull’antropologia delle società complesse, Signorelli ha curato la pubblicazione degli inediti relativi a La terra del rimorso presso l’editrice Argo di Lecce: un’occasione importante per tornare a riflettere sulla complessa eredità demartiniana.

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Professoressa Signorelli, come ha conosciuto de Martino? Incontrai de Martino nel più ovvio dei modi: andando a sentire una sua lezione. Era l’anno accademico 1954-55 e de Martino, in qualità di libero docente, teneva un corso di Etnologia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Folgorata fin dalla prima lezione che ascoltai, inserii il suo esame nel mio piano di studi. Come esame complementare in verità, giacché pensavo di fare l’archeologa. Il corso demartiniano era sul lamento funebre lucano; il programma d’esame, oltre alle dispense sul lamento funebre (che anticipavano parti di Morte e pianto rituale), comprendeva il secondo capitolo de Il mondo magico. Non eravamo più di quattro o cinque studentesse a seguire le sue lezioni. Ancora oggi sono convinta che siano state le più belle e le più formative che io abbia mai ascoltato in tutta la mia vita, non solo all’università. Il fatto è che in ogni singola lezione de Martino metteva in gioco quella che poi, con gli anni, ho imparato essere la sua costruzione teoretica: ad ogni lezione, ad ogni presentazione di materiali etnografici, de Martino riviveva e faceva vivere a noi lo scandalo dell’incontro etnografico. Scandalo intellettuale ben prima che morale o politico, scandalo dell’insufficienza della ragione occidentale egemone, scandalo della reciproca cecità e sordità, che ci impegnava già fin da allora, ben prima che il concetto fosse da lui stesso formulato, alla pratica dell’etnocentrismo critico e all’elaborazione di un ethos dell’«andare oltre la datità della situazione». E poi c’era il linguaggio demartiniano. La mia opinione è che il linguaggio, lo stile, la scrittura demartiniana sono originali e adeguati. Originali perché adeguati, adeguati perché originali. Adeguati, anzi continuamente in corso di adeguamento all’espressione di un pensiero che si alimentava in modi ugualmente rigorosi di riflessione teo-

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Donato Valli

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A lungo docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università del Salento, già Magnifico Rettore dell’ateneo leccese, Donato Valli (1930) è stato uno dei maggiori protagonisti del dibattito culturale del secondo Novecento salentino. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul revival della pizzica, il rifiorire degli studi sul tarantismo, la cultura popolare, la riflessione identitaria locale.

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Nel 1961 apparve La terra del rimorso, il testo di Ernesto de Martino che raccoglieva i risultati della celebre inchiesta sul tarantismo pugliese. Come fu accolto il libro nel mondo intellettuale salentino? Veramente non ci fu una grande accoglienza. Anzi, la presenza di de Martino passò quasi inosservata, nel senso che non si aveva ancora piena coscienza del problema in tutti i suoi aspetti. In quegli anni il tarantismo era considerato un fenomeno passivo di pura e semplice manifestazione popolare tramandato dall’antichità, intendo dire senza implicazioni di natura sociologica o di cultura antropologica. Anche per questo il libro, che era in un certo senso rivoluzionario rispetto a tale concezione, non ebbe grande diffusione nel Salento. Non solo, ma non ricevette neppure la dovuta attenzione presso gli intellettuali più sensibili e accorti. Si doveva giungere agli anni Settanta perché si facesse strada una consapevolezza diversa. Io ho avuto la possibilità di conoscere de Martino all’epoca del suo arrivo in Salento nel 1959. Una delle prime tappe della sua équipe di studiosi fu alla biblioteca provinciale, dove io in quel periodo lavoravo. Allora la biblioteca era diretta da Teodoro Pellegrino (che tra l’altro de Martino scambia con Teodoro Bernardini, N.d.R.). Ma neppure la stessa biblioteca era in possesso di una documentazione bibliografica soddisfacente. Eccetto il testo di Nicola Caputi e pochi altri autori salentini minori, non fummo in grado di approntare una bibliografia che potesse soddisfare appieno le richieste di de Martino. Ne è prova il fatto che La terra del rimorso è un libro che venne scoperto molti anni dopo, per esempio attraverso Maria Corti che cominciò a parlarne nell’università. Un ruolo importante infatti va attribuito all’università che qualche anno più tardi si aprì verso espe-

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rienze francesi attraverso l’incontro con Georges Lapassade, uno dei ricercatori più attenti al fenomeno dopo de Martino. Per quanto mi riguarda personalmente, io ero giovane e non ebbi un’esatta percezione del problema. Ricordavo episodi di tarantismo ai quali avevo assistito nella mia infanzia, nell’immediato dopoguerra, al mio paese, Tricase. Ricordo ancora i suonatori, le danze, le crisi delle tarantate, ma non attribuivo grande importanza al fenomeno; né avrei potuto farlo data l’età. Anche quando incontrai de Martino sapevo che era un grande studioso di storia delle religioni, ma niente di più. Credo che questo sia stato all’epoca un atteggiamento diffuso tra gli intellettuali salentini.

Secondo alcuni autori, La terra del rimorso sarebbe uno straordinario romanzo sulla condizione del Mezzogiorno. Un’opera letteraria più che un classico dell’antropologia. Non crede che in questo giudizio ci sia il tentativo di decostruire l’importanza etnografica, storica e metodologica di quell’esperienza? Non credo che ciò sia dovuto a pregiudizi di natura ideologica consapevole. Credo, invece, che questa interpretazione debba essere riportata a tre elementi sicuramente determinanti. Primo, la mancanza di una cultura consolidata in questa direzione. Gli scarsi studi al riguardo, in quegli anni, sono quasi tutti di natura descrittiva, non interpretativa e sociologica. Secondo, anche la cultura nazionale, o soprattutto quella nazionale, accettava acriticamente il semplice atto del fenomeno come pura espressione di arcaiche sedimentazioni psichiche e mentali. Terzo, una certa responsabilità va attribuita al libro stesso, il quale a una prima lettura affascina per il suo stile di scrittura, tra

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Antonio Prete

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Da sempre il mito della taranta stimola l’immaginario creativo di poeti e scrittori. Basti pensare che già il Berni, nel Cinquecento, dedicava alcuni suoi sonetti alla tarantola di Puglia. Docente di Letteratura comparata all’Università di Siena, traduttore, autore di importanti saggi di critica e teoria della letteratura, Antonio Prete, salentino di Copertino, ha dedicato alcuni brevi racconti al tarantismo.

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Ne L’imperfezione della Luna ci sono due brevi racconti dedicati al tarantismo. Memoria, mitografia, immaginario. Cosa sono per lei il tarantismo e la cultura popolare salentina? Sono anzitutto un ricordo. Sono le immagini di alcune scene alle quali da bambino m’è accaduto di partecipare. Quelle immagini me le sono portate con me nelle perenigrazioni per città e in mezzo a culture altre: gli studi a Milano, i soggiorni parigini, l’insegnamento nelle università francesi e in quelle di altri paesi. Sono immagini che hanno rappresentato, in un certo senso, il mito dell’infanzia, mescolate con altri elementi. La luce abbagliante, le ombre forti, i traini carichi di uva in coda dinanzi alle cantine sociali, la vita di strada dei bambini finita la guerra, la nonna vestita sempre di nero, gli zii tornati dalla guerra, le tante partenze di emigranti. La ragazza stesa sulla coperta e la musica che la muove, i suoi occhi persi, la sensazione di assistere a un evento che è insieme malattia e rito, tutto questo ha sì rappresentato un elemento della mia terra d’origine, ma accompagnato, e spesso sommerso, da molti altri elementi: voci di personaggi del paese, facciate di chiese, distese di ulivi, scogliere, dune, ragazze bellissime che ti hanno procurato i primi affanni amorosi. L’altrove – le città dove sono vissuto – è molta parte della mia vita, quel “prima” è l’infanzia, l’adolescenza, il prima della partenza. Se esco dal ricordo, posso rispondere alla domanda cos’è il tarantismo. Ma posso rispondere attraverso i libri, i filmati, i resoconti, le canzoni: materiali di una storia divenuta un po’ memoria un po’ folklore, un po’ narrazione identitaria e un po’ discorso antropologico vulgato e dissipato. La cultura popolare salentina ha un passaggio importante nel fenomeno del tarantismo, ma, come si sa, va

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Mario Marsella

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Mario Marsella, (1934-2012), organettista e fisarmonicista, all’epoca di questa intervista era uno degli ultimi musicisti ancora in vita ad aver suonato, con diversi organici strumentali, per le tarantate. La sua attività si è svolta soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, concentrandosi in un’area ristretta ma estremamente significativa qual è Muro Leccese, un piccolo centro nel cuore della penisola salentina, e il suo circondario. Contadino, muratore, emigrante in cerca di lavoro negli anni Sessanta, Marsella ha curato con il suono del suo organetto decine di “vittime della tarantola”, diventando ben presto uno dei suonatori più richiesti per esperienza e perizia delle esecuzioni. Meno noto e celebrato di Luigi Stifani (1914-2000), l’interlocutore privilegiato di Ernesto de Martino nella celebre inchiesta del ’59 sul tarantismo salentino, Marsella è tuttavia una delle figure più emblematiche della cultura popolare salentina e in particolare del microcosmo di Muro Leccese, dove si registrano singolari persistenze di stili strumentali, procedure devozionali e pratiche simboliche legate al fenomeno del tarantismo.1

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Quando hai iniziato a suonare per le tarantate? È successo molto tempo fa. A Muro c’era un suonatore più anziano di me, un certo Mesciu Pippi Benegiamo2 che mi portava con lui. Io suonavo l’organetto e la fisarmonica ma ero molto giovane, non potevo suonare per le tarantate. Però a un certo punto lui capì che sapevo suonare... All’epoca c’erano molti suonatori delle tarantate, perché queste volevano molta musica: due, tre giorni, molte ore, insomma. Mesciu Pippi era già grande di età e non ce la faceva a suonare per giorni interi. Quando mi sentì suonare disse che mi avrebbe chiamato e alla fine mi chiamò. Anche perché io ero più giovane e riuscivo meglio a scazzicarle 3.

In quale anno sei nato? Sono nato a Muro Leccese il 1° gennaio del 1934.

Hai sempre vissuto a Muro? Sì, quasi sempre. Però sono stato anche emigrante per un breve periodo in Svizzera e Germania.

C’erano molte tarantate in quegli anni a Muro? A Muro erano tante, ma anche a Sanarica, a Giuggianello.4

Chi suonava oltre a te?

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Io e una suonatrice di tamburello, a volte, una a volte due e persino tre.

Chi erano i suonatori di tamburello? La Cristina Stefanizzi, poi altre: la Concetta Caprarica, la Leonide Pedìo, poi c’era un uomo che suonava.5

Tu compari nelle registrazioni del 1959 di de Martino e Carpitella. Hai avuto modo di conoscerli? Sinceramente non me ne ricordo.

Ci sono le tue foto sul libro... Lo so. Ma non me ne ricordo. Però quelle che ci sono in queste foto non sono tarantate. Perché a Muro vennero due volte degli studiosi che cercavano qualcuno che ballasse e le pagavano, non so quanto ma le pagavano... Quella che c’è nel libro non era tarantata, faceva la tarantata. Erano due che dicevano di essere dottori, mi lasciarono anche il numero di telefono in modo che li potessi chiamare se c’era una tarantata. Dissero che stavano a Galatina però non li chiamai mai... A Santa Maria di Miggiano (una località di Muro, N.d.R.) balla la mamma mia. Allora fecero finta che mia madre era stata pizzicata dalla taranta e ci chiamarono; c’ero io, Cristina Stefanizzi, e Ucciu Cancelli. Suonammo un po’ e girarono questo film.6

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Marino Niola

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Antropologo della contemporaneità presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Marino Niola (1953) è autore di raffinati studi sul tarantismo e le metafore del corpo in epoca barocca. Curatore della rubrica Miti d’oggi su «Il Venerdì di Repubblica», è da sempre un attento osservatore della realtà salentina.

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Alcuni tuoi studi, ad esempio Il corpo mirabile, hanno posto in evidenza come in epoca barocca il tarantismo sia stato un tema cruciale, declinato attraverso le categorie del corpo come luogo in cui si «traducono le metamorfosi incessanti del reale». Cosa resta ancora da scoprire secondo te dal punto di vista della ricerca storico-antropologica? Bisogna oltrepassare il piano, pur interessante, del particolare erudito, per guardare invece al ruolo di un fenomeno come il tarantismo nella costituzione di una episteme complessiva, nel profilo complessivo di un’epoca. Interrogandosi per esempio sul perché la «danza della piccola taranta» susciti attenzione in letterati come Giambattista Marino, Giacomo Lubrano, scienziati come Andrea Mattioli, iconologi come Cesare Ripa. Siamo in un momento in cui le metafore della letteratura, ma anche della scienza, convergono nell’identificare l’equilibrio dell’essere come movimento e non come omeostasi. Dalla scoperta della circolazione del sangue alle leggi della gravitazione dei corpi celesti e terrestri, dalla meccanica delle forze alle dinamiche del potere, dal melodramma come macchina delle emozioni alla resa del movimento in pittura. In questo senso il tarantismo non appare più come un relitto ma, al contrario, come un riflesso della modernità. Ecco perché in un modo o nell’altro ci rimorde ancora.

Il tarantismo (il Salento) è sempre più un topos letterario al centro di una produzione che riscopre il luogo incontaminato, incorrotto, contrassegnato dalla sopravvivenza di riti ancestrali, un luogo rivalutato per la sua autenticità. Non si corre il rischio di un nuovo esotismo?

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Giovanni Pizza

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Tra i primi a introdurre nel dibattito salentino la nozione di “patrimonializzazione”, Giovanni Pizza (1963), allievo di Alfonso M. Di Nola e Tullio Seppilli, oggi docente di Antropologia medica e culturale all’Università di Perugia, è autore di importanti studi sul tarantismo e le politiche della memoria culturale nel Salento contemporaneo.

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Cinquant’anni fa apparve La terra del rimorso, il testo di Ernesto de Martino, dedicato al tarantismo pugliese. Un testo chiave non solo per la storia culturale del Salento ma più in generale per l’antropologia italiana. Cosa resta oggi di quel libro? Forse non basta dire che La terra del rimorso è un libro che resta. Perché si tratta di un’opera che, sul piano scientifico e politico-culturale, ha prodotto molto più che letture e riletture, nelle diverse epoche trascorse negli ultimi cinquant’anni. È piuttosto un libro che ripensa se stesso nel tempo. Lo vediamo oggi nelle pratiche sociali e culturali salentine che ruotano intorno a La Notte della Taranta, fenomeni che vanno ben oltre la lettura. Questo accade soltanto ai classici, cioè a quelle opere la cui vita sociale è costante, permanente nel tempo, propulsiva, capace di trascendere il carattere per così dire “libresco” del libro. A conferma dell’importanza classica di questo libro, poi, accade che tutti ne parlino e pochi lo leggano. In realtà il compito di (ri)leggere i classici è quasi un dovere della memoria. Un gesto che nel presente ripensa il passato per immaginare il futuro. Solo rileggendo si demoliscono stereotipi creati nella tradizione del “sentito dire”, e si aprono spazi nuovi e inesplorati. Per l’antropologia italiana La terra del rimorso fu il libro più bello mai scritto, bello «per forma e contenuto», come recitava l’incipit della recensione che il grande storico Arnaldo Momigliano le dedicò. Si tratta di una monografia etnografica tipicamente italiana, quindi per certi versi periferica rispetto al mainstream antropologico mondiale coevo, ma proprio per questo tuttora originale. La traduzione inglese del 2005 ha avviato, anche se tardivamente, un dibattito nuovo in campo internazionale, sulle figure storiche e contemporanee della possessione

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Luigi Chiriatti

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Luigi Chiriatti (1953) è una delle figure piÚ emblematiche della ricerca sulla cultura popolare salentina. Protagonista del folk revival degli anni Settanta con il Canzoniere Grecanico Salentino, ha pubblicato numerosi studi e ricerche sulle tradizioni musicali locali, i giocattoli popolari e soprattutto sul tarantismo. Nel 2002 ha fondato la casa editrice Kurumuny, specializzata in pubblicazioni riguardanti la documentaristica antropologica italiana degli anni Sessanta e la musica di tradizione orale pugliese.

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Mai come nel tuo caso l’attività di ricerca si confonde con il dato biografico. Nel senso che per lungo tempo sei stato considerato non tanto uno studioso ma quasi un “testimone” della cultura popolare salentina. È vero, forse perché, lo dico senza retorica, sono davvero figlio della cultura popolare di questa terra. Sono nato a Martano, nella Grecìa salentina1, 58 anni fa, da padre artigiano e mamma contadina, due condizioni sociali che hanno influenzato molto la mia conoscenza della cultura tradizionale del territorio. Mio padre, muratore girovago nella provincia di Lecce, mi ha permesso di conoscere le diverse declinazioni della cultura popolare salentina nei luoghi in cui svolgeva la sua attività (Lecce, San Cataldo, masserie come Ciccu Russu, Macchie Chiuse, Curti Russi, Boncore). Mia madre2 invece è depositaria di un sapere culturalmente più omogeneo, di una cultura contadina intrisa di riti, miti e storie magiche. La frequenza delle scuole medie nel Seminario arcivescovile di Otranto, il liceo classico a Maglie e a Lecce, quindi la laurea in Filosofia e Storia hanno formato la base per i miei studi sulla cultura popolare salentina. Il cantare come memoria, ma anche come momento esorcizzante del mal di vivere e dell’insidia della morte, è stato forse il legame più forte della mia famiglia. Canti alla stisa 3, stornelli, storie di striare 4 e scanzamurrieddhi 5, insieme al poco cibo, sono stati una presenza costante nella mia infanzia e anche oltre. Quando la mia famiglia non era in movimento, si stabiliva a Kurumuny, un piccolo appezzamento di terra di proprietà dei miei nonni, dove una composita umanità dava vita a una sorta di colonia socialmente autonoma. Lì vivevano le prefiche di Martano e alcuni grandi cantori che nel loro percorso di vita sono stati intercettati dall’antropologia audiovisiva na-

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Chiara Samugheo

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Nata a Bari nel 1935, da anni residente a Nizza, Chiara Samugheo ha attraversato sessant’anni di storia della fotografia – dal Neorealismo alla fotografia di denuncia, fino ai celebri ritratti di stelle del cinema – con uno stile inconfondibile, innovativo e raffinato che ne ha fatto una delle icone più luminose del fotogiornalismo italiano. Nel 1955, nel fervido clima di “scoperta del Mezzogiorno” che mobilitò ampi settori della cultura progressista italiana, realizzò un pionieristico servizio sul tarantismo salentino per il quindicinale «Cinema Nuovo». Scattate nel giugno del 1954 a Galatina, dentro e fuori la chiesa di San Paolo, le foto ritraggono per la prima volta – con immagini nitide, forti, intense – i gesti, gli sguardi e le posture dei protagonisti di un fenomeno ancora misterioso e sconosciuto. Sono immagini di eccezionale valore storico, se si considera che prima della Samugheo si registrano solo le quattro foto della “danza con la fune” pubblicate nel 1908 da Francesco De Raho nel saggio Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza. Con sensibilità etnografica, la Samugheo intesse una narrazione in cui le immagini, per la loro potenza evocativa, sovrastano lo stesso commento scritto, firmato da Emilio Tadini e incentrato su due categorie descrittive: quella ripresa nel titolo (non proprio felice) Le invasate, che richiama l’invasamento delle menadi danzanti al seguito di Dioniso, e quella dell’isteria, che colloca il tarantismo nella sfera dell’interpretazione medica. Un approccio comprensibile, considerato che il ricorso agli antecedenti mitici e la riduzione del tarantismo a malattia erano all’epoca i più diffusi paradigmi interpretativi del fenomeno. Com’è noto, sarà poi de Martino a inaugurare la prospettiva dell’analisi culturale dimostrando, proprio contro la tradizionale interpretazione medica, come il tarantismo fosse un dispositivo di salvaguardia della “presenza”, minacciata dall’insorgere del negativo nei momenti critici dell’esistenza. Inspiegabilmente, però, l’importante servizio della Samugheo non comparirà nella bibliografia de La terra del rimorso (de Martino scriverà che l’interesse per il tarantismo era nato dalla visione delle foto scattate da André Martin nel 1957), e solo nel 2002 sarà ripubblicato da Luigi Chiriatti in un volume di immagini del tarantismo.

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Com’è nata l’idea di un reportage fotografico sul tarantismo? Sono sempre stata molto sensibile alle problematiche sociali. In quegli anni ero interessata a documentare la condizione delle donne. Sono curiosa e volevo vedere con i miei occhi cosa fosse quel fenomeno.

Qual è stato l’impatto con le tarantate e i loro familiari? In quello stato isterico le tarantate facevano cose incredibili, come salire sull’altare o gettarsi per terra, a volte rimanevano in vestaglia bianca e quando erano per terra si vedevano le gambe, le mutandine, e i familiari allora cercavano di proteggerle dagli occhi indiscreti e da se stesse. Quando i familiari delle tarantate si accorsero che le stavo fotografando, all’inizio mi trattarono con indifferenza; poi, mentre ero al posto del coro e stavo facendo i miei scatti dall’alto, hanno cominciato a inveire contro di me con improperi. Forse la colpa di tanta aggressività è da ricercarsi negli abiti sgargianti che indossavo, tali da attirare l’attenzione delle invasate. Mi avevano detto che certi colori potevano irritarle. Ho quasi rischiato di essere linciata.

Nel recente volume Etnografia del tarantismo che raccoglie i materiali inediti della spedizione demartiniana in Salento, si legge che una tarantata di Matino era restia a farsi intervistare perché era stata fotografata dalla Samugheo e le foto, riprese da un settimanale francese, erano state viste da alcuni emigranti provocando uno scandalo in paese. Ricorda qualcosa in proposito?

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Eugenio Imbriani

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Eugenio Imbriani (1958) insegna Antropologia culturale presso l’Università del Salento. I suoi interessi sono rivolti al folklore, alla scrittura etnografica, alle relazioni tra memoria e oblio nella produzione di discorsi sulle identità locali. È uno dei maggiori studiosi di tarantismo e di tradizioni popolari dell’area pugliese.

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Oggi il tarantismo è al centro di una vasta produzione saggistica, ma contestualmente si assiste a una sempre crescente confusione sul reale significato che si è attribuito attraverso i secoli al fenomeno. Come spiegherebbe in breve e nel modo più chiaro possibile cos’è il tarantismo? Si tratta di un fenomeno molto complesso, di cui è possibile individuare un nucleo fondamentale, purché si tenga conto che nel corso dei secoli molte pratiche si sono modificate nel tempo e che, in aggiunta, le stesse variano a seconda dei luoghi in cui è attestato. Si aggiunga che le fonti antiche spesso non sono attendibili, perché riprendono descrizioni e narrazioni di altri autori coevi o precedenti, e molte delle più recenti difettano nel metodo, sono spesso imprecise e sovraccariche di giudizi e pregiudizi, spacciati magari per ipotesi interpretative. Il tarantismo fornisce un modello risolutivo di stati di malessere attribuiti solitamente alla puntura di un animale, identificato come un ragno, la tarantola, particolarmente attraverso la danza, eseguita con il supporto di musiche e canti graditi alla persona che è stata colpita. Tuttavia, conviene ribadirlo, le forme attraverso cui il tarantismo è stato rilevato nel corso del tempo comprendono numerosi elementi – il culto di san Paolo, il pellegrinaggio a Galatina, il manifestarsi alla vittima dell’animale colpevole, il ritorno periodico del male, l’abbigliamento dei danzatori, l’allestimento del luogo della terapia coreutico-musicale, i repertori utilizzati – non sempre ugualmente presenti. I maggiori studiosi recenti del fenomeno ne hanno parlato in termini di transe di possessione e di culto di possessione, seppure in versione particolare, non riconoscibile come tale dalla Chiesa neanche nei secoli in cui era possibile ricevere gravi accuse di peccato e di eresia o stregoneria. Io sono convinto che il

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Nota bibliografica

Il testo chiave per addentrarsi nella complessa fenomenologia del tarantismo resta la monografia di Ernesto de Martino La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961, recentemente ristampato a cura di Clara Gallini (Il Saggiatore, Milano 2008, libro più Dvd allegato). Più recentemente hanno visto la luce i preziosi materiali etnografici della spedizione salentina, Ernesto de Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di Valerio Panza e Amalia Signorelli, Argo, Lecce 2011. Nella notevole mole degli studi apparsi dopo La terra del rimorso, con un significativo incremento negli ultimi quindici anni, vanno almeno citati, per un quadro del dibattito più recente, i saggi raccolti in Quarant’anni dopo de Martino. Il tarantismo. Atti del convegno di Galatina del 24 e 25 ottobre 1998, 2 voll., Besa, Nardò (LE) 2000; e quelli pubblicati in Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Aramirè, Lecce 2002, che offre un compendio del dibattito contemporaneo sulle relazioni tra tarantismo, riflessione identitaria e revival della pizzica. Su questo tema si veda anche Vincenzo Santoro, Il ritorno della taranta. Storia della

Dalla presente nota bibliografica sono esclusi i titoli già citati nelle note a corredo delle interviste.

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rinascita della musica popolare salentina, Squilibri, Roma 2009. Per una rassegna bibliografica ragionata, Gabriele Mina-Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia sul tarantismo mediterraneo dal 1945 al 2006, Besa, Nardò (LE) 2006 (seconda edizione rivista e aggiornata), con una sezione dedicata agli studi demartiniani dopo il 1986. Ho pubblicato un’integrazione della sola bibliografia diacronica dal 2007 al 2014 con il titolo La tela infinita 2.0. Bibliografia sul tarantismo mediterraneo. Integrazioni 1945-2014, sul sito di Vincenzo Santoro, www.vincenzosantoro.it. Sulle relazioni tra tarantismo e letteratura, si veda la raccolta di racconti Mordi e fuggi. Sedici racconti per evadere dalla taranta, introduzione di Marino Niola, Manni, San Cesario (LE) 2007, e il più recente lavoro di Alexandra Rider, Il (neo)tarantismo in letteratura. C’è sempre un morso nella Terra del rimorso, in Gianni D’Elia et alii, Sui patrimoni immateriali del Salento e del Gargano: problemi e prospettive, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Squilibri, Roma 2010, pp. 73-104. Tra gli studi più significativi apparsi nell’ultimo decennio si segnalano inoltre: Gino L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo nel XVIII secolo, Olschki, Firenze 2006; i saggi raccolti in Storia e memoria del tarantismo, in «Medicina e Storia», a. XIII, n. 3, n.s., Edizioni ETS, Pisa 2013; la nuova edizione del classico di Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, Squilibri, Roma 2015, a cura di Paolo Apolito; il recente lavoro di Gianni Pizza, Il Tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura, Carocci, Roma 2015. Tra gli strumenti utili per accostarsi al pensiero demartiniano vanno segnalati almeno alcuni contributi: Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000 (ed. or. 1958) con introduzione di Clara Gallini; Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2001 (ed. or. 1959) con introduzione di Umberto Galimberti; La fine del

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mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio (ed. or. 1977). Si vedano inoltre Placido Cherchi, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori, Napoli 1994; Clara Gallini-Marcello Massenzio, (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997; Riccardo di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Manifestolibri, Roma 1999; Clara Gallini-Francesco Faeta (a cura di), I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Gennaro Sasso, Ernesto de Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001; Pietro Angelini, Ernesto de Martino, Carocci, Roma 2008; Giordana Charuty, Ernesto de Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010 e la raccolta di saggi a cura di Floriana Ciccodicola, Ernesto de Martino: storicismo critico e ricerca sul campo, Domograf, Roma 2012.

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Questo libro è stato fatto da

Luigi Chiriatti Art director Alessandra Avantaggiato Redazione, bozze Aldo Azzari Illustrazione di copertina Alberto Giammaruco Progetto grafico di copertina Laura Casciotti Ufficio stampa Arti grafiche Panico Stampa tipografica Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile




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