L'ombra della Madre

Page 1



PAOLO VINCENTI

L’OMBRA DELLA MADRE


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-32-9 © Edizioni Kurumuny – 2015


Manca la madre cerca la madre



APPENDICE



Il culto di Cibele e Attis cui nel libro si fa riferimento è quello che si praticava a Roma durante i primi secoli dell’Impero. Roma fu molto sensibile all’introduzione di religioni “altre”, estranee alla cultura autoctona, provenienti da altri popoli e civiltà. A partire dal III secolo a.C., Roma conosce una eccezionale esperienza di sincretismo, ricevendo e facendo propri culti che non erano conosciuti prima nella religione romana. Con il termine “sincretismo” si intendono in realtà due cose diverse. Una è la identificazione di due o più dèi, l’altra è la tendenza a mescolare culti diversi. In tutte e due le forme, il sincretismo può avere comunque incoraggiato l’idea che tutti gli dèi siano aspetti di un solo dio. Straordinariamente forte fu il richiamo dell’Oriente. Il trionfo e la diffusione dei culti orientali concludono un processo di penetrazione iniziato in epoca remota, durante il periodo della civiltà etrusca e della splendida civiltà della Magna Grecia. La promessa della salvezza costituisce la caratteristica principale delle religioni orientali. Le divinità, che si credeva avessero conosciuto la morte e la risurrezione, erano più vicine all’uomo di quanto non lo fossero gli dèi della religione di stato, così lontani e irraggiungibili. Il loro culto comportava una iniziazione molto elaborata, in seguito alla quale il neofita era ammesso nella confraternita a praticare il culto, insieme agli altri adepti. Queste religioni esercitavano un fascino particolare, non solo sulle classi più colte ed abbienti ma anche sulle classi popolari, penetrando a fondo nel tessuto religioso, politico e culturale romani. Il fascino maggiore dei culti venuti dall’Oriente era proprio questo: chi era am-

193


messo a parteciparvi entrava in una comunità di fratelli, figli di un dio universale che non conosceva frontiere. Tutti erano sottoposti alle stesse regole, tutti partecipavano alle stesse feste,non vi erano barriere di classe; non vi erano più magistrati, commercianti, cittadini e stranieri, liberi e schiavi, ma solo uomini e donne accomunati da quella esperienza fondamentale. Vi era un altro elemento di fascino. La religione ufficiale adottava un rigido formalismo liturgico regolato nei minimi particolari e il rapporto con il dio assomigliava molto più ad un contratto notarile che a un contatto intimo con la divinità. Le religioni orientali seducevano l’individuo, anzitutto per il mistero che circondava i loro riti. Inoltre, colpivano la fantasia popolare con la pompa delle loro feste e lo splendore delle loro processioni; ammaliavano i fedeli con i loro canti languidi e frenetici e insegnavano i mezzi per raggiungere la beatitudine dell’estasi, sia con la tensione nervosa causata dai digiuni e dalle meditazioni, sia con le danze vertiginose, le musiche ossessive, le bevande di liquori fermentati somministrate dopo lunghe astinenze.1 Agli dèi immortali romani nella loro perpetua gioventù si sostituivano esseri che soffrivano e morivano per poi risorgere. Inoltre, i sacerdoti si dedicavano interamente al servizio del loro dio e vivevano unicamente nel loro tempio, rappresentando per i confratelli un punto di riferimento costante. Mentre i pontefici romani, dopo avere officiato in un giorno festivo, ritornavano ai loro affari, il clero dei misteri orientali formava una casta chiusa, distinta dal resto dell’umanità per le sue insegne, i suoi abiti, i suoi costumi, il suo vitto, le sue regole di vita. Questi sacerdoti erano arbitri della vita spirituale degli adepti; essi giudicavano se

1

AA.VV. Storia antica – Roma, Roma-Bari 1978, pp. 242-244.

194


un nuovo aspirante fosse degno di entrare a far parte della comunità e se la vita dei fratelli fosse ispirata a quella pietas che poteva assicurare loro la beatitudine nell’aldilà. Chi infrangeva le regole comunitarie era sottoposto a dure penitenze: confessioni pubbliche, flagellazioni, mutilazioni. I sacerdoti di Cibele, di Iside, di Mitra, di Baal non erano solo i custodi delle tradizioni sacre, ma proprio i “direttori delle coscienze” dei loro confratelli.

Il termine “misteri”, mysteria in greco, deriva da muein, che significa “iniziare” e questo termine si riferiva, da principio, solo ai misteri eleusini ed indicava una cerimonia segreta accessibile solo agli iniziati, che erano chiamati mysti. Queste cerimonie si tenevano in un luogo chiuso, il telesterion (spelunca, in latino) e, durante la celebrazione, l’officiante pronunciava delle formule, dette legomena, oltre ad esporre il mito e la sua interpretazione (exegesis). Ma, centrale in questi misteri, era l’arcanum, cioè l’obbligo del segreto: chi partecipava a questi riti viveva una esperienza unica ed irripetibile che non poteva comunicare agli altri. Probabilmente per questo, le fonti a nostra disposizione non ci dicono molto su quella che era la parte centrale di queste celebrazioni, nella quale il myste giungeva alla visione suprema,la epopteia. Inoltre, la nostra conoscenza è limitata perché gli autori cristiani, come Clemente Alessandrino, Firmico Materno, Lattanzio, Arnobio, Tertulliano, che sono in molti casi gli unici ad informarci sui misteri, hanno, però, dato una interpretazione fortemente polemica. Successivamente, questo termine si estese ad indicare tutti gli altri misteri del mondo greco e romano. L’apparato accessorio di questi riti – balli, canti, processioni e travestimenti – ossia tutto ciò che non era patrimonio esclusivo

195


degli iniziati, ma era aperto anche ai profani, è forse l’elemento più vistoso e impressionante. L’entusiasmo parossistico che portava l’azione sacra dei misteri dionisiaci era detto orghiasmos, da orghiu, “azione” e questa parola finì per significare ogni manifestazione religiosa di carattere tumultuoso e sfrenato. Queste celebrazioni orgiastiche collettive, come dice N. Turchi,2 servivano a compensare il ritmo troppo uniforme della vita sociale, mediante un’esplosione di gioia e libertà che coinvolgeva il corpo e lo spirito. Si trattava di manifestazioni, anche grossolane: feste caratterizzate da gozzoviglie, luminarie, corse sfrenate, danze e canti, licenza sessuale, che facevano liberare l’energia troppo compressa dalle regole sociali e restituivano l’equilibrio psichico. La parola orghia rimanda chiaramente alla sessualità che doveva avere un ruolo preminente negli oscuri riti notturni. Nelle feste in onore di Dioniso, le processioni recavano un enorme fallo per le strade del paese. Ci sono indicazioni secondo le quali le donne sposate, e non le vergini, potevano diventare baccanti. Livio, sui Bacchanalia del 186 a.C., dice che gli iniziandi subivano violenza omosessuale, “simillimi feminis mares” (39, 15, 9). Nei misteri di Sabazio un serpente di metallo veniva fatto passare sotto le vesti dell’iniziando. Questa era una forma di unione sessuale con il dio, rappresentato appunto dal serpente. Anche se nel culto di Iside mancano riferimenti sessuali espliciti, sappiamo che questo culto esercitava una particolare influenza sulle donne romane. Certamente l’astinenza era un requisito richiesto per la partecipazione a tutti i misteri, ma proprio l’astinenza creava una maggiore attenzione ai segnali sessuali e una pronta sollecitudine

2

Turchi, Storia delle religioni. Secondo volume, Firenze 1954, p. 419.

196


ad accoglierli. La sessualità certamente aiutava quella esperienza non comune, facilitata anche dall’uso di droghe. Sicuramente il ciceone, bevuto ad Eleusi, conteneva un ingrediente, il pulegio, che era un allucinogeno. Ad Eleusi probabilmente si faceva uso della segale cornuta, un fungo che cresce sulle spighe di grano. Inoltre, ad Eleusi, si faceva uso di oppio, poiché il papavero, da cui l’oppio si estrae, assieme alle spighe di grano, è un attributo costante di Demetra. Così a Samotracia, a Cipro e, forse, nel culto di Mitra, ma le prove sono insufficienti. È certo che in tutti i misteri antichi si facevano ricchi banchetti. Il vino scorreva a fiumi, soprattutto negli orghia bacchici, e non mancava la carne arrosto. Insomma, dai misteri ci si attendeva una esperienza speciale, un vero e proprio cambiamento di coscienza attraverso l’estasi.3

Il modello formale dei Misteri è certamente quello dei misteri eleusini, i più importanti misteri greci. Sempre più frequente e drammatico fu, quindi, il ricorso alla mistica esoterica, che consentiva esperienze religiose e illuminazioni soggettive, mantenendo vivo un certo sentimento di comunità, sia pure di comunità di soli iniziati. Per questi motivi, le religioni misteriche si svilupparono anche nel mondo romano. Combattute inizialmente dallo stato romano, che vi vedeva pericolosi elementi disgregatori, esse finirono col prendere il sopravvento e quindi lo stato fu costretto a riconoscerle, nel tentativo di controllarle. Alla comunità dei cittadini romani, con i suoi privi-

3

Burkert, Antichi culti misterici, Roma-Bari, 1989, 4, passim.

197


legi politici e giuridici, si contrapponevano le comunità degli iniziati, non aperte a tutti, ma che assicuravano a tutti di ritrovare in esse garanzie di salvezza. Il periodo di maggiore espansione dei culti orientali in Occidente coincide con il sorgere e il diffondersi del Cristianesimo. Sorge allora il problema dei rapporti fra il Cristianesimo e i culti orientali, con particolare riguardo al loro aspetto misterico e alla matrice orientale, ovvero il Giudaismo, del Cristianesimo stesso. Le somiglianze ed i punti di contatto (che non sono pochi) hanno incuriosito molti studiosi. Le soluzioni a questo problema sono due, contrastanti fra loro. Da una parte, vi sono le tesi di coloro che vedono il Cristianesimo fortemente influenzato, fin dai tempi più antichi, dalle religioni pagane e, in particolare, dalle religioni dei misteri. Dall’altra parte, vi sono coloro che affermano che i misteri pagani costituiscono un fenomeno del tutto diverso rispetto al Cristianesimo. Del resto, come sottolinea il Cumont,4 i culti orientali, favorendo il declino dei culti tradizionali greci e romani e introducendo nuove concezioni e aspirazioni religiose, prepararono essi stessi la vittoria del Cristianesimo.5 A ben guardare, bisogna ammettere che sono molte le analogie fra la religione.

Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Paris 1928, pp. 12 e 20. Come chiarisce Walter Burkert, (Antichi culti misterici, Roma-Bari 1989, p. 16) parlare di religioni orientali è inopportuno, a proposito di questi culti, anche se “Le religioni orientali” è il titolo dell’opera fondamentale di Franz Cumont. Nel senso che, pur provenendo queste religioni dall’Oriente, esse sono giunte a Roma attraverso la fondamentale opera di ellenizzazione compiuta dai dotti greci, per cui sarebbe più corretto parlare di religioni ellenistiche, in quanto esse sembrano riflettere piuttosto il più antico modello di Eleusi o di Dioniso, o di entrambi. 4 5

198


cristiana e i culti misterici.Specialmente il battesimo e l’eucaristia subirono una profonda trasformazione, in quanto, da sacramenti, divennero veri misteri, a cui non tutti avevano accesso immediato, poichè era richiesta una preparazione, una iniziazione appunto, di digiuni, penitenze e purificazioni. I non battezzati (catecumeni) non erano ammessi al sacro pasto del culto cristiano fino a quando non lo fossero diventati. La Chiesa assunse una forma gerarchica a partire dal III secolo e, dopo il riconoscimento ufficiale da parte di Costantino, si avviò ad acquisire un sempre più forte tratto misterico, che infondeva una direzione cristiana alla religiosità di massa. Il termine “mistero” entrò nella teologia cristiana dove “misticismo” cominciò a significare un tipo di conoscenza di Dio non attingibile da tutti.

Il culto della Grande Madre degli dèi e di Attis fu, durante l’Impero romano, in grandissimo favore, non solo a Roma ma anche nelle province. Questo culto dimostra, a differenza di altre forme religiose, la diversità strutturale delle creazioni sincretistiche. La Dea Madre dell’Asia Minore era comunemente chiamata Magna Mater, ma il suo titolo completo era Mater Deum Magna Idaea. Nicola Turchi6 colloca le origini del culto di Cibele in Asia Minore e, per l’esattezza, tra i densi boschi resinosi che rivestono l’altopiano anatolico, soprattutto l’Ida e il Berecinto. Per questo, al nome generico di Madre, la dea aggiunge quello di Berecinta, Cibele, oppure Dindimene, dal monte della Galazia ai cui piedi

6

Turchi, Storia delle religioni. Secondo Volume, Firenze 1954, p. 387.

199


sorgeva Pessinunte, centro privilegiato del suo culto, o ancora Sipilene, dal monte Sipilo, presso Smirne, dove pure Cibele era adorata. Con il nome di Ma (madre) la dea era venerata in Cappadocia e nel Ponto. Secondo il Turchi,7 la dea ha subito maggiormente l’influsso guerresco della Ishtar babilonese piuttosto che quello mistico tracio della Grande Madre di Frigia. Al suo culto in Cappadocia, ci riferisce sempre lo studioso, presiedeva un sacerdote e, durante le grandi processioni, la dea veniva scortata da una “guardia del corpo” di lancieri (hastiferi). I suoi sacerdoti, vestiti di nero, arrivati al culmine dell’eccitazione si tagliuzzavano le membra con un bipenne; il loro sangue schizzava dappertutto e molti lo bevevano. Agli hastiferi seguivano i cistophori, portatori della cista sacra, e le canistrarie, portatrici di offerte. Secondo lo studioso, è proprio in Cappadocia che nacque il rito del taurobolium, poi importato nel culto di Cibele. Per questo suo aspetto sanguinario, a Roma la dea, introdotta da Silla, venne assimilata a Bellona e a Virtus e, data la sua identità di origine con Cibele, fu messa in relazione con questa e la sua processione fissata nello stesso giorno, a marzo. In Anatolia, gli abitanti di questo grande altopiano avevano la tendenza a concepire l’universo come produzione di una grande divinità femminile, ipostasi della natura feconda, alla quale è assegnato il compito principale della creazione di tutti gli esseri, mentre l’elemento maschile vi ha un posto tutto secondario. Questo spiega, secondo Turchi,8 la posizione sempre secondaria di Attis rispetto alla Dea Madre Cibele. Quando i Frigi, verso il 1000 a.C., arrivarono dalla Tracia

7 8

Ibidem, p. 423. Ibidem, p. 388.

200


nell’Asia Minore, trovarono già sviluppati questi concetti e facilmente li recepirono; tanto più che il culto orgiastico di Attis ricordava molto da vicino quello del loro dio Sabazio. Pertanto, è all’Anatolia e non ai Frigi, conclude lo studioso, che spetta il culto originario della Magna Mater, ed è soprattutto sotto l’aspetto frigio, rimasto tale anche quando la Frigia venne colonizzata sotto la dominazione persiana ed ellenistica, che la Grande Madre mosse dall’Anatolia, e precisamente da Pessinunte, alla conquista di tutto l’Occidente Mediterraneo. Anche Giulia Sfameni-Gasparro,9 colloca le origini di Cibele nell’ambiente selvaggio e rude delle montagne anatoliche. Mentre, all’influenza del mito babilonese di Ishtar e Tammuz-Adonis, la studiosa attribuisce il passaggio di Attis da figlio ad amante della Grande Madre. Per quanto riguarda il carattere originario della Dea Madre anatolica, Sfameni Gasparro10 risale all’antichissimo ambiente ittita e alla sua divinità femminile Kubaba, “regina di Kargamis”, città della Siria da cui il suo culto sarebbe poi passato nell’Anatolia. Ma sicuramente i due elementi caratteristici di questo culto, e cioè l’aspetto orgiastico e la presenza di Attis,sono estranei al prototipo ittita e quindi genuinamente anatolici; così anche la iconografia che presenta la dea velata, con il capo cinto da una corona, seduta in trono e recante un leone sulle ginocchia. Questa immagine della dea, dice ancora la studiosa, sembra essere stata creata nelle regioni grecizzate dell’Asia Minore e così viene rappresentata se-

Sfameni Gasparro, Le religioni orientali nel mondo ellenistico-romano, in “Storia delle religioni”- Fondata da Pietro Tacchi Venturi, Volume terzo,Torino 1971, p. 459. 10 Ibidem, p. 461. 9

201


condo il modello elaborato, alla fine del V secolo, dallo scultore Agoracrito di Paro.11 In Grecia ha il nome di Meter Megale o Meter Theon, cioè “Madre degli dèi”. A Roma venne chiamata Cibele, toponimico derivante dal monte Kybelon, presso cui sorgeva uno dei suoi santuari più importanti, oppure Pessinuntis, dalla sua città sacra, come ci riferisce Diodoro Siculo.12 Suoi attributi erano il timpano, il tamburello di pelle di toro, che rimanda all’estasi tipica del suo culto, e la corona merlata, che portava sul capo, come signora della città. La Signora era accompagnata da un giovane, a lei subordinato in posizione di figlio, amante o sacerdote, già presente nel culto preistorico dell’Anatolia.13 In effetti, in tutte le antiche culture dell’Asia Minore è presente una Grande Dea accompagnata dal suo eroe. È certo che Attis fa la sua comparsa accanto a Cibele solo più tardi. Il primo a parlare di Attis è Erodoto. L’autore riferisce una versione evemeristica del mito secondo cui Attis, figlio del re della Lidia Creso, fu ucciso da Adrestos durante una caccia al cinghiale.14 Questa versione è riportata anche da James George Frazer, nel “Ramo d’oro”,15 per mettere in luce le analogie fra Attis e Adone. Frazer riferisce che Attis era per la Frigia quello che Adone era per la Siria. Come Adone, infatti, anche Attis era stato un dio della vegetazione e la sua morte e risurrezione venivano ogni anno piante e salutate con scoppi di gioia all’inizio della primavera.

Momigliano, Cibele, in “Enciclopedia delle religioni” diretta da Mircea Eliade, Le religioni e i mondi religiosi, New York 1986, p. 94. 12 Diodoro Siculo, 3, 58, 1-2. 13 Ibidem, p. 107. 14 Erodoto, Historiae, 1, 34-43. 15 Frazer, Il ramo d’oro, Cambridge 1922, pp. 543-544. 11

202


Quando Adone muore, nascono dal suo sangue dei fiori, le adonidi; così dal sangue di Attis sbocciano le violette mistiche. Frazer inquadra il mito di Attis nella sua teoria degli dèi morenti e risorgenti. Il sonno e la veglia sono due condizioni che ben esprimono l’alternarsi delle stagioni, cioè il morire della natura durante l’inverno e il suo rinascere in primavera e queste caratteristiche si possono attribuire ad un dio della vegetazione quale può essere Attis. Esistono però versioni differenti del mito di Attis.16 Secondo una versione, Attis, figlio del frigio Kalaos, recatosi in Lidia avrebbe insegnato alla gente del luogo ad onorare la Grande Madre. La sua devozione per la dea fu così grande da suscitare l’ira di Zeus che inviò nella terra dei Lidi un cinghiale dal quale Attis fu ucciso. Questa versione è riportata da Pausania (Ermesianatte, 7, 17, 9) e da Luciano (De dea Syria, 15), il quale senza menzionare l’evirazione di Attis, pure ne sottolinea l’aspetto femmineo. L’altra versione è riportata pure da Pausania (Ermesianatte, 7, 17, 10) e da Arnobio (Adversus Nationes 5, 5-7), il quale dice di avere attinto la storia dal teologo Timoteo, membro della potente famiglia degli Eumolpidi ed esperto dei misteri eleusini. Secondo il mito riportato da Pausania e da Arnobio, da una pietra fecondata da Zeus nacque un mostro ermafrodita, Agditis, che gli dèi decisero di castrare. Dal sangue dell’ermafrodito nacque un mandorlo o un melograno. Nana, la figlia del fiume Sangarios, restò incinta mangiando una mandorla e generò un bambino molto bello, chiamato Attis. Divenuto grande, Attis venne chiamato dal re di Pessinunte, Mida, alla sua corte e gli venne data in moglie la figlia, nonostante che la Madre degli dèi ed Agditis fos-

16

Sfameni Gasparro, op. cit., p. 464.

203


sero innamorate di lui. La Grande Madre conosceva il destino del giovane: gli era concesso di vivere purché non celebrasse le nozze. Ella si recò quindi nella città, sollevando le mura con la testa (per questo porta la corona merlata). Attis celebrava le sue nozze con la figlia del re, allorché Agditis, colma d’ira e di gelosia, si introdusse nella sala del banchetto, quando già veniva intonato il canto nuziale, e fece impazzire gli astanti. La figlia del re si uccise e Attis, disperato, si precipitò all’aperto e, sotto un pino, si evirò, gridando: “Agditis, ecco ciò per cui hai suscitato una tale follia!”. Attis esalò l’ultimo respiro ma la Grande Madre nascose i genitali, seppellendoli, e immediatamente germogliarono delle viole con cui ella incoronò il pino, dando così origine al rito, e lo portò in una grotta ai piedi del monte, intonando un lamento funebre. Agditis, disperata, tentò di risuscitare Attis, ma Zeus si oppose e permise soltanto che il corpo di Attis fosse reso incorruttibile: il suo unico segno di vita sarebbe stato dato dalla crescita dei capelli e dai movimenti del mignolo. Per la verità, fra la versione di Pausania e quella di Arnobio vi sono delle differenze. In Pausania, compare solo Agditis, mentre, in Arnobio, anche la Grande Madre e questo è certo un particolare di non poco conto. Il nome Agditis deriverebbe dalla roccia Agdos, secondo Arnobio.17 Ma Marion Giebel18 ci dice che il nome Agditis sembra proprio riferirsi alla Madre degli dèi: il nome infatti significa “dea del monte Agdos”, e sarebbe uno degli appellativi della Madre Cibele, fra i tanti che si conoscevano, come quello, diffusosi successivamente, di “Madre del monte Ida”. In questo senso, Cibele sarebbe al tempo

17 18

Arnobio, Adv. Nat., 5, 5. Giebel, op.cit., p. 110.

204


stesso una dea benigna e maligna. In effetti, secondo il mito frigio originario, la Madre Terra di Pessinunte, in quanto divinità universale, era ermafrodita, dotata con la sua pietra cultuale delle forze del cielo e della terra; infatti respinge il dio Giove che la vuole possedere perché è completa in sé stessa. Allora, questa Signora della Natura, mostra sia il suo lato positivo e materno e sia quello negativo e minaccioso, cioè la sua parte Agditis. Dello stesso parere è Mircea Eliade,19 secondo il quale Agditis e Cibele sono la stessa cosa, e così anche Nana, la figlia del fiume Sangarios viene identificata con Cibele. Agditis, allora, non è che una epifania della Grande Madre androgina e Attis, dunque, è allo stesso tempo il figlio, l’amante e la vittima di Cibele. Firmico Materno,20 che ci fornisce una versione evemeristica del mito, è l’unico autore che parli di un ritorno in vita di Attis, ma è un caso isolato e poco giustificato.

Centro di questo culto, come abbiamo già detto, era Pessinunte, ai piedi del monte Agdos, sulle rive del fiume Gallos, che sfocia nel Sangario, uno dei principali fiumi dell’Asia Minore, poco lontano dalla città. Pessinunte era una città-stato che conservò il proprio prestigio fino all’epoca romana, nonostante tutti i rivolgimenti politici, e riuscì a resistere al Cristianesimo fino al VI secolo d.C. A Pessinunte si trovava l’àgalma, l’idolo della dea

19 Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Volume secondo, Parigi 1976-1983, p. 287. 20 Firm. Mat., De errore profanorum religionum, 3.

205


caduto dal cielo, un meteorite nero.21 In questa pietra era la forza arcana della dea; essendo caduta dal cielo, la pietra possedeva un nucleo astrale, univa in sé la forza del cielo e la forza della terra. Nella pietra si credeva vi fosse la stessa Cibele, indicata come divinità primigenia universale, la Grande Madre, appunto, con tratti al tempo stesso maschili e femminili. Il culto di Cibele, dunque, aveva una storia plurimillenaria e la roccia era uno dei suoi simboli più antichi. Ancora prima di essere introdotto a Roma, quando il culto di Attis e di Cibele si diffuse in Grecia, probabilmente, subì alcune modifiche rispetto alle pratiche di Pessinunte. In Grecia, come a Roma, la repulsione per i riti cruenti di evirazione dei sacerdoti eunuchi aveva tenuto questo culto ai margini della società, nonostante la sua presenza sia attestata da numerose statuette in argilla, risalenti al II secolo a.C.; solo sotto Claudio, questi riti vennero portati in primo piano. Per quanto riguarda l’introduzione del culto frigio a Roma, tutti gli studiosi sono concordi su questa data. La dea Cibele venne introdotta a Roma nel 204 a.C. quando, per salvare la Repubblica gravemente minacciata dall’esercito cartaginese di Annibale, i sacerdoti lessero nei Libri Sibillini22 che si doveva far venire da Pessinunte, nella Frigia, la

Il culto più famoso riservato ad una pietra fu quello del dio siriano del sole Baal di Emesa. L’imperatore Eliogabalo (218-222) introdusse a Roma il culto del dio, rappresentato da una pietra nera. 22 I Libri Sibillini erano il più importante dei testi rituali romani. Questi libri si diceva contenessero i preziosi responsi delle Sibille, sacerdotesse di Apollo, la più famosa delle quali fu Pizia di Delfi. Erano tre libri profetici sul destino di Roma, dati, secondo la tradizione, a Tarquinio il Superbo dalla Sibilla Cumana. In realtà sembra che provenissero, redatti in greco, dall’Etruria. Distrutti nell’83 21

206


Madre degli dèi. “Mater abest; Matrem iubeo, Romane, requiras”, “Manca la madre; impongo che cerchi la madre, o Romano!”: questa è la formula usata dalla Sibilla, riportata da Ovidio nei Fasti.23 Livio e Ovidio24 ci hanno tramandato il racconto dell’arrivo trionfale della dea a Roma. Agli ambasciatori, che erano stati mandati a Pessinunte, venne affidata la piccola pietra nera che rappresentava la possente divinità ed essi la portarono a Roma, dove venne collocata nel tempio della Vittoria sul Palatino. Nel 191 a.C., le venne eretto un tempio proprio sul Palatino e in seguito, poiché la venerazione di una pietra era una consuetudine estranea alla cultura romana, le venne dedicata una statua, che la ritraeva seduta, con leoni e timpano, in cui venne inserita la pietra sacra per conservarne la forza. In realtà la pietra nera, come ha dimostrato il Graillot,25 non giunse da Pessinunte, che in quel tempo si trovava fuori dalla sfera di influenza degli Attalidi, bensì dal Megalesion presso Pergamo. Momigliano26 afferma che la delibera per l’introduzione del culto di Cibele venne anche approvata dall’oracolo di Delfi e fu messa in relazione con le origini troiane di Roma. Inoltre, vennero istituite delle feste, Megalenses e, in corrispondenza con questa festa si tenevano dei banchetti, organizzati dagli aristocratici. Anche su alcune monete venne ritratta

a.C. da un incendio, il Senato si occupò di curarne una nuova stesura, ritrascrivendo i vaticini più noti, che venivano custoditi da 15 sacerdoti (Quindecemviri sacris faciundis) che avevano l’ufficio di consultarli nei momenti cruciali della vita dello Stato. 23 Ovidio, Fasti, 4, 259. 24 Livio, 29, 10-11 e 14 ; Ovidio, Fasti, 4, 181-372. 25 Graillot, Le culte de Cybèle Mère des dieux a Rome et dans l’Empire romain, Paris 1912, pp.46 e sgg. 26 Momigliano, op.cit., p. 95.

207


la dea nelle vesti di una figura femminile maestosa, con la corona merlata, troneggiante nel suo tempio sul Palatino. Di fatto, la dea era diventata una matrona romana divinizzata. Secondo Dionigi di Alicarnasso27 il Senato proibì la partecipazione dei cittadini romani ad alcune cerimonie del culto di Cibele. Il ruolo di Attis diventò sempre più rilevante tanto che, come riferisce Giovanni Lido28 nel De mensibus, l’imperatore Claudio ne proclamò ufficialmente la presenza. Durante queste feste, era costume tenere banchetti a turno nelle case di ciascun confratello e perciò detti mutitationes o domina. Dumezil,29 riportando il Graillot, ci fa sapere che ben presto fra gli aristocratici ci fu una vera corsa al lusso e si rivaleggiò nel fasto. Erano offerti i cibi più raffinati della cucina orientale, serviti sui tesori dell’argenteria, capolavori dell’arte alessandrina che i ricchi romani si disputavano. E vi fu un così tale sfarzo che il Senato dovette intervenire con un decreto che limitava il tetto di spesa per chiunque avesse organizzato un banchetto sacro; una legge, questa, che reagiva contro la degenerazione morale in cui ormai era caduta la città.

Questo culto ammetteva anche il sacerdozio femminile.30 Le sacerdotesse celebravano durante le sacre cerimonie ma non vi potevano presiedere. Esse preparavano i candidati ai misteri, nutrendoli con il miele della pura dottrina, e per questo erano chia-

Dion. di Alic., Antiquitates Romanae, 2, 19, 5 Giovanni Lido, De mensibus, 4, 59. 29 Dumezil, op.cit., ibid. 30 Turchi, op.cit., pp. 390-391. 27

28

208


mate Api o Melissae. Esse preparavano il letto funebre di Attis e il talamo ierogamico dopo la resurrezione del dio, curavano le immagini sacre e la manutenzione degli arredi nel tempio. La prima sacerdotessa portava il titolo di sacerdos maxima, la prima delle ancelle della Grande Madre, comunque inferiore all’Arcigallo. Gli Apparatores erano i custodi della suppellettile sacra; gli Aeditui erano i custodi dei santuari; gli Innologi celebravano le litanie di Attis; infine, i Musici erano i suonatori di flauto, dei cembali o dei tamburelli. Come abbiamo visto, Catullo si occupa del culto di Attis nel suo carme 63. Catullo chiama Gallae i sacerdoti evirati della dea. Nel carme di Catullo, la tragedia si svolge in tre tempi: sbarcato in Frigia, Attis si evira e si consacra alla dea; dopo un’orgia sacra si addormenta; al risveglio si pente della sua decisione ma la dea non gli consente di lasciarla. Forse Catullo identificava in questa immagine se stesso e la sua tormentata relazione amorosa, distruttiva ma indissolubile, con Lesbia. Nel rito, la prima fase è di frenetiche danze e di inebriamento. Invece, Catullo fa compiere l’evirazione a freddo.31 L’Attis catulliano era, prima dell’evirazione, un efebo, amato dalla dea Cibele; ma, invaghitosi di una ninfa, incorse nell’ira della dea, la quale, presa dalla gelosia, viaggiò su un carro trainato da leoni attraverso le selve del monte Ida per vendicarsi del giovane e gli ispirò “furor et insania”, tanto che, come dice Arnobio32 “sotto un pino questi si taglia i genitali”. Tutto il rito prevedeva dunque spargimento di sangue e mentre i fedeli che partecipavano alle cerimonie usavano staffili per flagel-

31 32

Della Corte, Catullo, le poesie, Arnoldo Mondatori 2002, pp. 298-299. Arnobio, 5, 7, 99.

209


larsi, i sacerdoti dovevano addirittura mutilare la propria virilità, “homines suis ipsi virilibus litant”, come dice Lattanzio nelle Divinae institutiones.33 Catullo, invece, deve aver preso conoscenza di questi riti direttamente in Asia, durante il suo soggiorno in Bitinia ed ambienta la vicenda in riva al mare; il carme, infatti, non riflette il culto ufficiale di Cibele a Roma, celebrato con i ludi Megalenses, del quale parlano Livio, Ovidio e Dionigi di Alicarnasso.34 Le Gallae, come le chiama Catullo, prendevano il nome dal fiume Gallos della Frigia, indossavano abiti femminili, suonavano timpani, percuotendoli con le mani, come dice Varrone35 e tamburi fatti con pelle di bue, come dice Ovidio.36 Le grandi feste venivano celebrate all’equinozio di primavera, dal 15 al 23 marzo, secondo il calendario Filocaliano. Il primo giorno,15 marzo, ( ID. Mart. “canna intrat”, “l’ingresso della canna”), la confraternita dei cannofori, portatori di canne, recava al tempio fasci di canne tagliate, per commemorare la leggenda di Attis. Essi muovevano dai canneti del fiumicello Almone, che voleva ricordare il fiume Gallos, affluente del Sangarios, presso Pessinunte, verso il tempio della dea sul Palatino, percorrendo processionalmente l’Appia. Da questo giorno cominciava per gli adepti un digiuno di purificazione, detto Castus Matris Deum, con astinenza dal pane, dal maiale e dal pesce.37 Dopo sette giorni, esattamente il 22 marzo (XI Kal. Apr.), si tagliava un pino nel

Lattanzio, 1, 21, 16. Dion. di Alic., 2, 19, 4-5. 35 Varrone, Saturae Menippae, 35. 36 Ov., Fasti, 4, 342. 37 Turchi, op.cit., pp. 393-394. 33

34

210


bosco (“arbor intrat”, “l’entrata dell’albero”), il pino sotto il quale Attis si era evirato, e la confraternita dei dendrofori, portatori dell’albero, portava questo pino fino al tempio del Palatino. Questo pino era fasciato con bende di lana e si appendevano ad esso il vincastro, la siringa, i cembali, simboli pastorali di Attis, e intorno corone di violette, come riferiscono Firmico Materno (27,4 e 27,12) e Arnobio (5,16). Il tronco del pino reciso rappresentava il dio morto ed era ornato di ghirlande di violette che erano nate dal sangue di Attis, e si attaccava in mezzo al tronco l’effige di un giovinetto che raffigurava Attis. Proprio come nella settimana santa della fede cristiana, questa liturgia faceva rivivere ogni anno la passione di Attis, morto e risuscitato. I sacerdoti della dea, infatti, usavano autoflagellarsi ad imitazione di Attis, tradizione questa che riporta ai rituali ancora oggi presenti, soprattutto nell’Italia Meridionale, il Venerdi Santo, delle processioni dei flagellanti. Il secondo giorno, la cerimonia consisteva nel suonare le trombe. Il terzo giorno, il 24 marzo (IX Kal. Apr.), “il giorno del sangue”, “sanguis” o “sanguem”, l’Archigallo, o “sommo sacerdote”, si cavava del sangue dalle braccia e lo presentava come offerta; tutti gli altri sacerdoti (i galli) e i neofiti, eccitati dalla barbara musica dei cembali, dei flauti e dei tamburini, danzavano selvaggiamente, flagellandosi a sangue e incidendosi le braccia con dei coltelli ad imitazione dell’Archigallo; al culmine della frenesia, poi, alcuni novizi si amputavano gli organi virili e li offrivano in oblazione alla dea. Il sangue scorreva sull’altare e sull’albero sacro e le grida dei galli si alzavano furenti. Lo scopo del macabro rito era forse quello di dare ad Attis nuova forza per la risurrezione. Con la testa penzoloni e i capelli al vento, ben presto i galli, smarriti nella frenetica eccitazione e resi insensibili al dolore, cominciavano a tagliarsi le carni con pugnali e a godere di quel macabro spettacolo dello scorrere del sangue. Così i novizi

211


sacrificavano la loro virilità. Questi mutili strumenti di fertilità venivano sepolti poi in terra dove, come per il sacrificio del sangue, venivano forse ritenuti capaci di richiamare Attis in vita e di affrettare la generale rinascita primaverile della natura, come riferisce Jacqueline Champeaux.38 Seguiva la sepoltura del pino, con la discesa nei sotterranei del tempio (katabàsis), dove l’albero rimaneva fino all’anno successivo e al taglio del nuovo pino.39 Durante il periodo di lutto, gli adoratori non mangiavano pane perché si diceva che Cibele avesse fatto altrettanto nel suo dolore per la morte di Attis, ma il digiuno era comunque una preparazione al pasto sacramentale. Alle lamentazioni funebri della notte dal 24 al 25 marzo, seguiva, all’improvviso, l’esplosione di gioia quando, all’alba, veniva annunciata la resurrezione del dio. Firmico Materno (22, 1) descrive le lamentazioni notturne dei fedeli: “Coraggio, neofiti, il dio è salvo; e così per voi dalle pene verrà la salvezza”. Dopo la mezzanotte, una luce squarciava le tenebre e la tomba si apriva: il dio resuscitava dai morti. Il sacerdote toccava le labbra degli adoratori piangenti con del balsamo ed annunciava loro la buona novella della salvazione; la risurrezione del dio era accolta dagli adepti come la promessa che anche loro avrebbero trionfato sulla morte. Il giorno dopo, 25 marzo (VIII Kal. Apr.), equinozio di primavera, con selvagge grida si celebrava la risurrezione. Questa era la festa della gioia, “hilaria”. Questo giorno era destinato al divertimento più assoluto: ognuno poteva fare e dire ciò che voleva. Molti indossavano una maschera, proprio come in un carnevale, e il più umile cittadino poteva assumere impune-

98 39

Champeaux, La religione dei romani, Parigi 1998, pp. 137 e sgg. Firm. Mat., De err. prof. rel., 27, 2.

212


mente la più alta licenza. Dopo un giorno di riposo, (“requietio”), cioè il 26 marzo (VII Kal. Apr.), necessario per riprendersi dalle fatiche dei giorni precedenti, il 27 marzo (VI Kal. Apr.), aveva luogo la grande processione fino alla spiaggia, dove si bagnava la statua di Cibele (“lavatio”). Un carro trainato da buoi trasportava l’effige argentea della dea dal viso di pietra nera, preceduta dai fedeli e dalle confraternite a piedi nudi, nonché dal collegio dei Quindecemviri, dalla Porta Capena sino alle rive dell’Almone. Là, il gran sacerdote, vestito di porpora, lavava il carro, l’effige sacra e gli altri oggetti nel fiume e, dopo queste abluzioni, il carro e i buoi venivano ornati di freschi fiori primaverili. Canti e danze, che Agostino nel De civitate Dei (II, 4) qualifica come osceni, chiudevano la cerimonia e i Quindecemviri invitavano formalmente la dea a tornare nel suo tempio sul Palatino. La dea frigia ebbe i propri ludi, a Roma, i Ludi Megalenses (dal greco Megale, Magna), dal 4 al 10 aprile. Il 4 aprile, vi era la processione e il popolo romano poteva così vedere da vicino questi esseri bizzarri, che sfilavano per le strade, né uomini né donne, con i loro costumi multicolori, i vistosi ornamenti e la statua della dea, trasportata, con la musica stridente dei flauti frigi, fra le alte grida degli effeminati galli. Le iniziazioni individuali erano celebrate il 28 marzo (V Kal. Apr. Initium Caiani), secondo il rito del “taurobolium” e, forse, del “criobolium”: il neofita veniva cioè santificato dal sangue di un toro o di un montone il cui sacrificio sostituiva il rito dell’automutilazione dell’iniziato, il quale offriva alla dea gli organi genitali dell’animale. Durante questo rito, descritto da Prudenzio nel Peristèphanon,40 l’animale veniva immolato su una fossa; fra

40

Prudenzio, Peristèphanon 10, 1006-1050.

213


la vittima e il postulante veniva posta una grata di legno attraverso la quale il sangue della vittima che scorreva bagnava il “tauroboliato”, che da questo battesimo di sangue era rigenerato, renatus, come dice Apuleio, nelle Metamorfosi,41 a proposito dell’iniziazione isiaca. Il sangue caldo e fumante del toro, che veniva sgozzato con una lancia consacrata, scendeva dalla grata e l’adoratore lo riceveva sopra ogni parte del corpo e dei paramenti, finché usciva dalla fossa tutto grondante di sangue, per ricevere l’omaggio e l’adorazione dei suoi compagni, come se egli fosse davvero nato a nuova vita e si fosse lavato, con il sangue del toro, di tutti i suoi peccati. E per qualche tempo, l’iniziato beveva solo latte, proprio come un neonato; come afferma Salustio42 “i nuovi iniziati venivano nutriti col latte, come se fossero realmente rinati”. Il rituale del taurobolium doveva ripetersi ogni venti anni, quasi che il sangue del toro, con cui era asperso l’iniziato, si consumasse e dovesse essere rinnovato dopo un certo periodo, “bis deni vota suscipit orbis”, si legge in Apuleio. Il testo di Prudenzio è l’unico che ci riferisca con una certa ampiezza del taurobolium. E mentre molti studiosi hanno ribadito che questa descrizione è da prendere con il beneficio del dubbio, altri invece si sono detti certi che ciò avvenisse.” Alcuni studiosi infine, con riferimento al fatto che la dea Cibele era rappresentata da una pietra nera, hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale, con l’avvento dei primi missionari cristiani, la dea venne trasformata nella Vergine Maria, dando vita alla tradizione delle Madonne nere, il cui colore scuro, ben lungi dall’essere as-

41 42

Apuleio, Metamorfosi, 11, 30, 4. Salustio, De diis et mundo, 4.

214


sociato al male, richiamerebbe fortemente il suolo e la terra. Molto vasta è l’iconografia delle Madonne nere nella tradizione cristiana, soprattutto nell’Italia meridionale.

215



Questo libro è stato fatto da

Fabio Chiriatti Art director Anna Chiriatti Redazione, bozze Laura Casciotti Ufficio stampa Creative Artworks Stampa tipografica Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.