Plastica. Storia di Donato Chirico operaio petrolchimico

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traversamenti | 04 collana diretta da Anna Chiriatti

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie, passioni, percorsi, progetti, memorie. Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, desideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti e incanti di realtĂ . Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Indagano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali. Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi, oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri. Sono tensioni di futuro. Traversamenti.



ROSANGELA CHIRICO

PLASTICA Storia di Donato Chirico operaio petrolchimico


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-18-3 © Edizioni Kurumuny – 2015


A Dio. Ruach. Il mio Spirito Divino. Al mio papà Donato. La mia essenza. A mia mamma Maria. La mia linfa. Ai miei fratelli Giampiero e Tommy. La mia terra. Ai miei nipoti Simone, Alessandro e Rebecca. Il futuro e la speranza. La mia voce risuona nel nome dei padri, mentre la mia preghiera diviene rabbia ragionevole, per tutte le vittime trasversali all’interno di una criminosa volontà capitalista, accartocciata intorno alla disumanizzazione in un mondo di plastica, contro ogni creatura.



Indice

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Prefazione di Mario Desiati Prologo

Parte Prima 19

28 novembre 1996

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Donato

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Il ring

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La fabbrica delle dolcezze

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La nevicata

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Fiamme di gomma

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Frammenti di quotidianitĂ

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Il tempo in tasca

Parte seconda 81

La prima promessa mantenuta

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Nel cuore dell’ecomostro

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L’esordio petrolchimico

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La cancerogenesi

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L’inferno di plastica

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Necrologio moplenico – L’inchiesta –

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Contromano tra le falsità

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Figli di un dio inferiore

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La gomma incancellabile

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Nel bluceleste: l’altare di fango

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Il pane condito con la morte

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Postfazione di Cecilia Mangini

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Ringraziamenti


Prefazione Mario Desiati

Plastica è il primo romanzo di Rosangela Chirico, è un romanzo civile, non soltanto documentale o testimoniale, caratteristiche evocate quando si usa il termine “civile”. È il romanzo di una vita, quella del padre, uno dei tanti caduti sul fronte dell’evoluzione millantata, ma ahimè involuzione conclamata, dell’Industria pesante portata in una civiltà contadina come quella dell’Alto Salento. Taranto e Brindisi oggi sono territori che pagheranno per sempre l’inclusione telecomandata dall’alto, di un’idea industriale che non era possibile, quanto meno senza una formazione delle coscienze di chi ha diretto questa scelta politica prima che umana. La Puglia dei petrolchimici e dei siderurgici è nelle terre sfregiate, ma anche e soprattutto nei corpi di chi si è ammalato, e nei corpi, negli occhi, nei cuori di chi ha perso i propri cari. La nostra terza guerra mondiale, la più cruenta, perché sul suo altare (in parte un altare di fango come scrive nel finale la Chirico) hanno versato il sangue migliaia di padri di famiglia, che sapevano di essere operai, ma non sapevano di essere in guerra. Il romanzo cammina sul suolo della rievocazione, a metà strada tra memoir familiare e affresco industriale, si parte dal dato biografico e familiare dell’autrice, figlia di uno degli operai ammalatisi dentro la grande industria che produceva la plastica che dà il titolo al volume ed è una plastica mortale. Il luogo del delitto è il Petrolchimico di Brindisi, che ammala le genti e ferisce l’orizzonte, la natura, lo sguardo e la storia del

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paese. L’autrice ne è convinta, racconta i toni del suo cielo, l’odore che si respira a due passi dal mare, i segni che crescono sui corpi dei suoi abitanti e dei suoi lavoratori. Ma lo fa sempre su una severa linea di demarcazione tra un timbro lirico e uno più secco, ridotto all’osso della narrazione. Non si abbandona a facili invettive, prosegue con frammenti narrativi, da una parte il ricordo, dall’altra la nuova vita senza la persona cara, una vita di inchiesta, ricerca che culmina anche con la denuncia durante una trasmissione televisiva popolare come “Il raggio verde” di Michele Santoro. Nel 1974 a soli trentasei anni il padre di Rosangela, la voce narrante, viene ricoverato e viene riscontrata la diagnosi di epatite cronica indotta dall’avvelenamento per contatto prolungato con i mutageni presenti nel petrolchimico. Come scrive la Chirico in uno di questi passaggi altamente evocativi pur rimanenti su una linea di voluta e didascalica ferocia: “L’intossicazione era causata da Policlorulvinile e da Dicloretano. La situazione clinica di Donato degenera progressivamente. Le scatole delle medicine aumentano anch’esse progressivamente. Viene sottoposto a ricoveri sempre più frequenti e prolungati. L’epatite avanza a passi tenebrosi, su un arco temporale tracciato per circa un trentennio. All’interno del suo fegato l’epatite avanza silenziosa. Evolve. Cammina e si trasforma. Si fa cirrosi. Il passo aumenta ed evolve. Si sposta lungo una traiettoria precisa. Marca maggiormente il percorso. Le impronte diventano indelebili. Diventano cancro epatico. Poi… il passo comincia a farsi stanco. Ma è solo apparenza. Mancano pochi autunni. Le orme cancerose sconfinano il limitare della vita. Incidono nella carne lesioni profonde. I trattamenti mirati, le terapie farmacologiche e quelle chemioterapiche non generano più gli effetti tanto sperati. Il cancro alita CVM, animando l’ombra della morte.”

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Quello che sembra un bollettino destinato a peggiorare, un tragico taccuino di un finale tragicamente annunciato diventa per la Chirico la spinta per raccontare del proprio padre e farne diventare un monumento, il cippo su cui costruire una nuova storia. Anni fa Mark Strand, morto nel 2014, uno dei più grandi poeti tra fine Novecento e inizio Duemila, scrisse un poemetto in prosa chiamato Il monumento. Scrisse versi e prosette che costruivano ciò che era a metà tra il proprio elogio funebre e il testamento, un modo per esorcizzare la morte, ma anche tenere sul confine dei propri moti interiori, l’idea che la morte propria o degli altri possa servire alla vita. Donato Chirico anche se non c’è più è vivo, ed insegna nel ricordo che ne fa Rosangela, insegna un approccio alla vita anche nei momenti più dolorosi come ci racconta l’autrice: “Una sola volta ho visto il volto di mio padre rigato dalle lacrime. È avvenuto a pochi giorni dalla sua fine. Stava seduto sul margine del letto, con i piedi appoggiati a terra e i palmi delle mani posati sul bordo. Lui non se n’era accorto che ero là, sul limitare della porta. Lo osservavo. A pochi centimetri da me, osservavo di traverso anche i cumuli di farmaci posati sul comò. Era mattino, lui piangeva silenziosamente, io non osavo parlare. Capivo cosa, di incontrollabile, stava succedendo al suo organismo: non era più capace di stare in piedi, neppure per il tempo necessario a finire di radersi. Farsi la barba era una sua buona abitudine, ogni mattino, da sempre, per avviare la giornata con la cura dell’aspetto. Un rito con il quale lui dava inizio al nuovo giorno.” Il nuovo giorno comincia dopo la scomparsa, l’autrice trova nella pittura una strada e dunque una voce, sono i colori della vita. Colpisce che per l’autrice la pittura, e l’arte in generale rappresentino l’esistenza e l’essenza. In una conversazione privata la Chirico mi confidò un punto di vista che nella seconda parte del libro viene fuori.

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«Il mio linguaggio primario è parola/colore sin da quando ero piccina. Mio padre ha sempre accettato e difeso questo mio modo d’essere, è lui che ha alimentato in me la Libertà, l’essere liberi, stando nel mondo umano ma essenzialmente con i sensi inorganici. Amava la natura e capiva quanto il colore riempie la mia carne. Lui capiva e ascoltava quanto e come il colore pulsa in me restituendo il suono del cuore mentre traccia solchi sanguigni narrati anche in Plastica. Mario è un dato di fatto. Sulla mia carta d’identità nella voce professione appare Artista. L’essere diventata tale lo devo ad un istinto divino ma anche a mio padre, ed essenzialmente a Dio. La mia Arte è “Dono” che Dio ha posto in me. L’Arte è la mia preghiera quotidiana a Lui, a Ruach, a Dio. Ecco perché mio padre difendeva e condivideva questo mio linguaggio originario». Rosangela ricostruisce un percorso che ingloba due promesse fondamentali che sono le rotaie su cui si muovono i vagoni del romanzo. La prima è quella che fece al padre, laurearsi, e la seconda che fece soprattutto a se stessa e ai fantasmi della nostra terra che guardano la natura nella quale si muovono messa sempre in continuo repentaglio dall’uomo. La promessa è la verità, perché Donato è morto così, perché quella vita? Una vita che era esplosa nei giorni finali di vita in Donato, che aveva chiamato Uagliuncello un gatto che “era stato capace di addomesticare un gatto particolarmente selvaggio e indomabile. Sembrava un cucciolo di pantera, nero nero, gli occhi di un verde brillantissimo. I vicini dicevano che nessuno era mai riuscito ad avvicinarlo, poiché soffiava e tirava fuori le unghie per graffiare. Con la sua sovrana pazienza, Donato era riuscito a conquistarlo. Qualche brutto graffio se l’era preso in faccia, ma alla fine erano diventati inseparabili.”

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I graffi sono anche le rughe, in questo aneddoto raccontato a metà libro, c’è una delle lezioni nascoste in questo testo, sì lezioni nascoste, la vita lascia sul corpo delle tacche, come quando da bambini ci segnavano l’altezza. E queste tacche una dopo l’altra scavano nel corpo, e quando arrivano all’anima essa esala. Rosangela ci ha raccontato la sua storia, questo processo che parte dal segno di un corpo e arriva all’anima.

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Prologo

Soprasotto il cielo di Brindisi, nella mia terra di provincia ho disegnato col mio cuore il tempo umano. Ponendomi alla rovescia, ho proiettato contro il cielo immagini di fango e plastica, scarabocchiando i miei ricordi. Alla rovescia ho osservato le nuvole sopra le fabbriche. Nuvole cariche di pensieri in grembo al vento, prima di sciogliere le mie amarezze in una pioggia di sole. Alla rovescia ho scaraventato il silenzio dentro pozzi di gomma, subendone i colpi di rimbalzo. Più volte ho afferrato la mia vita, mentre vivevo stretta alle veste di Dio, per non essere inghiottita dal petrolio, anch’io. All’interno di questo racconto SentiMentale, ho tracciato la storia di chi per amore si avventò alla vita, perdendola crudelmente. Ho scritto ponendomi contromano, nel verso contrario alla disumanità industriale. Per schivare gli urti provocati dal progresso distruttivo, contromano ho sciolto i nodi della dissacrazione umana, usata contro i padri operai. Uomini avvelenati dalle industrie petrolchimiche. Uomini zuppi di sudore amaro. Uomini perduti, in cerca dei loro sogni. Ponendomi in senso contrario, non ho perduto la mia umanità.

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Parte prima



28 novembre 1996

Era primo mattino. Giovedì, 28 novembre 1996, quando iniziò a piovere. Faceva tanto freddo. Eravamo in casa nostra. Lo scroscio d’acqua aumentava lentamente. L’odore della pioggia si era fatto più intenso. Il cielo era diventato oscuro. Tuonava. Le nostre mani erano unite, l’una a quelle dell’altro, come le ali chiuse di un’aquila. Anche le nostre braccia erano annodate, le une a quelle dell’altro. Eppure in un attimo, in un breve istante, tutto svanì in un soffio. Tutto svanì nel volo. Ricordo un angolo della casa dove c’era una gabbia con due pappagallini, con cui di solito giocavo. Uno era verde, l’altro azzurro. C’era pure un canarino arancio. Quel giorno il canarino scappò dalla gabbia, e svolazzò via dalla finestra. Io mi precipitai per riprenderlo, tentai di afferrarlo, e mio padre pure. A me sembrò di volargli appresso. Ma purtroppo lo avevamo perso per sempre. Mi sono consolata con un palloncino buffo, che stava sospeso sotto il soffitto e che non era riuscito a volare via da lì. Era un palloncino rosso, con le orecchie da coniglio. Papà lo tirò giù afferrandolo per il filo che pendeva, dritto e lungo. Me lo diede affinché mi rincuorassi. Quel filo e quel pallone, spesso mi scappavano dalle mani. Fortuna che non poteva volare via, lontano da me, come aveva fatto prima il mio canarino.

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Era mattino. Quel mattino! Se solo avessi potuto tirare giù il cielo, quel mattino. Se solo avessi potuto, sì, lo avrei tirato giù. Sì, se avessi potuto, avrei tirato mio padre giù dal cielo. Era mattino, e continuò a piovere tanto, quel mattino! Quel mattino di novembre la mia vita fu travolta da un evento tragico, da un temporale violento. Diverso da quello che si abbatteva al di là della finestra. Tra i ricordi altalenanti, dal presente al passato e dal passato al presente, nella mia mente si sono collocate le sequenze di numeri e lettere 75-01-4 C2H3Cl CH2=CH-Cl che non riuscivo a fermare. Sequenze di caratteri che erano diventati come schegge impazzite nella mia testa. Numeri e lettere in un linguaggio cifrato che io conoscevo bene. Non ero impazzita. Quel mattino il dolore aveva accerchiato la mia anima, mi aveva tramortita, ma non mi faceva delirare. Sapevo che in quel codice era contenuta la chiave di lettura che mi avrebbe permesso di giungere dentro agli scenari oscuri che dovevo riportare necessariamente alla luce. Quel codice era sicuramente legato alla morte di mio padre Donato. In quel mattino i miei ricordi andarono a scovare immagini di giorni che segnarono il percorso di un racconto intrecciato, come un gomitolo intorno alla terra. Intorno al pianeta. In quelle immagini piene di ricordi, ogni mio pensiero sembrò disfarsi in quei numeri e lettere che si avvolsero in un groviglio di parole, di vite, di amori, di dolori, di gioie, di sentimenti, di lacrime, di grida, di silenzi, di padri, di madri, di figli e di preghiere: tutti ai piedi dell’universo.

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Desideravo dimenticare mille e mille volte tutto il dolore, il mio vissuto, il mio passato; ma soprattutto desideravo dimenticare la straziante morte del mio amato padre-operaio nella terra dei veleni. Nella terra di Brindisi. La mia terra d’origine. Non volevo dimenticare la magnificenza vitale che traspariva dal corpo di mio padre. Dal corpo di lui che aveva usato il coraggio come emblema, come un blasone di dignità. No, non volevo dimenticare quel corpo in cui il coraggio aveva sostituito l’azzardo della paura sciolta tra i veleni di fabbrica. Tra i veleni di una delle tante fabbriche petrolchimiche, poste a sud del cuore d’Italia. In quel mattino la pioggia batteva forte ovunque, il cielo pareva venisse giù sciogliendosi in una cascata furiosa. Ma quella pioggia non bastava a coprire il mio pianto per i tanti operai perduti. Per i tanti padri avvelenati. Per le tante vite stroncate dal proprio lavoro. La storia dei veleni petrolchimici aveva oscurato vita, salute, volontà, forza, dignità e anche il loro nome. Il nome di tanti operai. Il nome di mio padre Donato.

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Donato

Donato era il terzogenito di tre figli maschi. Nato dal frutto amorevole di sua madre Rosa. Una donna semplice e teneramente materna. Suo padre Pietro un uomo distinto, dallo sguardo vispo e dolce. Donato nacque nel gennaio 1939, in Puglia, a Ceglie Messapica, tra le colline del promontorio italico, in un centro abitato che si pone tra gli anfratti di uno scenario rupestre. In questo posto le nuvole profumano ancora di sole. Il cielo appare solitamente cristallino e si libera nel fitto della macchia mediterranea, tra le bellezze di una natura intatta, dove ogni colore riluce di splendore. Il paesaggio si apre nella corsia dei venti. Venti che si alzano in danze promiscue. Sbuffate di correnti calde, di libeccio e scirocco, contro le folate fredde di tramontana e maestrale. In questa terra si alternano i venti calmi e i venti inquieti che si fanno spazio tra le spighe in fiore, tra i germogli e gli ortaggi posti sopra e sotto al ventre terroso della Messapia nell’ellenica Kailìa: l’attuale Ceglie Messapica. Nella terra di Brindisi, negli anni preindustriali, l’aria era pulita tra le migliaia di chicchi verdi e bruni delle viti e dei possenti olivi saraceni. Ceglie Messapica è la terra dove regnano gli olivi. È un angolo di mondo, dove la famiglia di Donato possedeva un oliveto e un trullo. Circa cento alberi di olivi secolari, con chiome gigantesche, erano disseminati nel loro orto verdeggiante. Un luogo che mio papà conside-

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rava il rifugio per pensare. Sosteneva che dedicarsi alla natura, alla coltivazione del verde aiuta l’uomo a stare lontano dall’ozio e dalla vita cattiva. Lontano dai luoghi del bere e del gioco d’azzardo. Lontano dai bar e dal fumo. Donato. Pelle scura. Muscolatura agile e tornita. Un aspetto elegante. In lui esisteva il fascino mediterraneo. Erano state numerose le donne che si innamorarono di lui, quando era scapolo. Donato, giovanissimo, desiderò un lavoro stabile. L’occupazione giunse come una manna nella terra del Sud Italia. La fabbrica della “Montecatini”, a cui aspiravano tanti uomini, era stato il suo luogo di lavoro: assunto nella filiera di Brindisi, a ventiquattro anni, il 12 gennaio dell’anno 1963. Un lavoro dalla paga bassa, ma col mensile assicurato. La paga giungeva il giorno 27 di ogni mese. Dodicimila lire all’inizio degli anni Sessanta. Uno stipendio che fu aumentato a centoventimila lire, alla fine degli anni Sessanta, dopo il rinnovo del contratto nazionale nel 1969. Era quello lo stipendio di un operaio medio petrolchimico, quando negli anni del secondo dopoguerra mondiale, nel Mezzogiorno, la terra di Brindisi da agricola fu trasformata in industriale. L’operaio petrolchimico non era il tipo di lavoro che mio padre avrebbe voluto svolgere; aspirava alla carriera militare, in aviazione. Come suo fratello Tommaso. Invece l’altro suo fratello Giovanni era un carabiniere. Donato voleva essere un membro dell’aeronautica militare anche dopo il servizio militare. Ma fare rafferma era stato complicato. Al contrario di quanto lui desiderasse, l’operaio è stato l’incarico che lo ha impegnato per il resto della sua vita lavorativa.

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Gli anni del secondo dopoguerra mondiale erano anni bui. Anni in cui la grande guerra aveva procurato pianto e povertà in Italia, nell’intera Europa, in tutto il pianeta. Nel dopoguerra bisognava accontentarsi, si era fortunati ad avere un lavoro stabile. Donato con amarezza si accontentò, perché voleva sposarsi, creare una famiglia, avere dei figli. Fu durante una festa di matrimonio a cui erano invitati tutti e due che conobbe Maria. Una donna bruna, snella, alta, con gli occhi azzurro chiari. A lui piacque molto, sin dal primo incontro. Una donna ideale, non artefatta, ben curata. Capelli con acconciature in voga. Tailleur di assoluto taglio sartoriale, perfettamente cuciti su misura. Cuciti dalle abili mani di lei. Donato e Maria si innamorarono senza indugi. Maria, mia mamma, era un’eccellente ricamatrice. Punto erba, punto pieno, punto croce, punto piatto, punto catenella, punto cordoncino, erano le trame incordonate dalle sue scorrevoli dita di fata, tra i tessuti naturali. Canapa, cotone, lino, jersey. Stoffe pronte ad accogliere, tra ago e filo, le creazioni perfettamente composte nelle forme e nei colori più variegati. Mia mamma era capace di impreziosire ogni tipo di tessuto: dal più economico al più pregiato. Lenzuola, tovaglie, abiti. Ogni cosa volesse rendere più notevole e preziosa. Perfino i corredini e gli abiti, miei e dei miei fratelli, sono stati tutti creati da lei. Ago, filo, cerchi in legno, tanta pazienza e precisione si concentravano tra le sue mani e sotto i suoi occhi attenti. All’epoca le ricamatrici e le sarte esperte erano molto ricercate. Lei aveva frequentato un laboratorio per l’appren-

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dimento artigianale sartoriale, sotto la guida di impeccabili maestranze che le avevano insegnato a realizzare, oltre agli abiti, anche i ricami perfettamente creati ad arte. A quei tempi, l’arte del ricamo era considerata una disciplina. Rigore, precisione, controllo, equilibrio, fantasia, professionalità: era quanto si sviluppava tra i filati, tra i tagli, tra le cuciture, fin nelle impunture. Tra quei principi sartoriali, si svelava un mondo fatto di umori, gioie, spensieratezze, giovinezza, profumi e sapori, di tutte le giornate stagionali scandite di tutto punto, nei laboratori, tra i viottoli, nel cuore di Ceglie Messapica. Erano gesti utili, rivolti ad un unico atto finale: il compimento dell’abito commissionato per avvolgere i corpi e per vestire di eleganza il portamento di ogni genere di persone. Quel tipo di artigianato per Maria era stato una forma di intreccio tra la vita quotidiana e l’alternarsi dei colori della sua vita, tra gli eventi religiosi e quelli profani, tra lo scorrere e il radicarsi del tempo quando la vita possedeva altri sapori, altri valori, altri umori. Epoche in cui la pazienza era il moderatore costante del tempo che scorreva più lentamente, meno impregnato dalla fretta del progresso. Meno meccanico, meno tecnologico, meno dinamico e più intenso all’interno della preghiera quotidiana tra i semplici gesti di una sarta e ricamatrice. Era il 22 ottobre del 1964, quando mio padre Donato e mia mamma Maria si sposarono. Avvenne in terre oritane, in una piccola cappella dedicata a Maria Immacolata, all’interno del santuario dei Santi Medici Cosma e Damiano. A San Cosimo alla Macchia, a Oria. Da giovani sposi hanno

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sostenuto i primi sacrifici economici. L’affitto per la casa, le tasse, le necessità quotidiane. A quell’epoca, l’erogazione idrica e la fogna erano un lusso che poche famiglie potevano permettersi. La maggior parte della gente si procurava l’acqua attingendola dalle fontanelle pubbliche. Erano avvantaggiati quelli che abitavano nelle immediate vicinanze di una fontana, perché il tragitto da percorrere con i recipienti pieni sarebbe stato più breve. A casa Chirico la fornitura idrica non era presente, ma per fortuna giunse dopo pochi anni: quando fu realizzata la rete idraulica in via Nizza, vicinissima a piazza Sant’Antonio dove la fontana pubblica generosamente sgorga ancora in un angolo tutto suo. Entrambi, con grande impegno, riuscirono a mettere da parte i loro risparmi, con il sogno di acquistare una casa grande e confortevole. Desiderio che si attuò dopo qualche anno dal loro matrimonio. Donato desiderava garantire una vita agiata alla sua Maria, alla quale restò fedele e riconoscente, per il resto della sua esistenza. Maria fu per lui una moglie, ma anche un’amica di vita, disponibile ad ascoltarlo e a sostenerlo in ogni momento. Si amarono intensamente, stimandosi l’un l’altra, continuamente. Un rispetto marcato attraverso la stupenda intesa che avevano rafforzato nel tempo, nella fiducia, nelle tensioni quotidiane, con la pazienza e nella poesia del loro amore fattosi riflesso sui tre figli. Giampiero, Rosangela e Tommy. Donato quando non lavorava in fabbrica amava coltivare la sua campagna e produrre i frutti per l’appagamento che

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la stessa natura gli donava. Si commuoveva come un bimbo al germogliare delle piante, nell’abbondanza che la terra gli ricambiava coi raccolti buoni in tutte le stagioni. Produceva l’olio biologico per la nostra famiglia. Produceva l’essenza di un succo prezioso. Il balsamo dolce per l’anima e per la salute. – ‘Ngelà, l’hai mai ascoltata la voce degli olivi? – Tu sì, vero papà? – ‘Ngelà, la natura è musica! Il verde è musica! Ti porterò in campagna, quando c’è appena appena un po’ di brezza tra i rami, tra le foglie. Ti farò ascoltare la voce degli alberi. Soprattutto quella degli olivi. Per non parlare dell’erba che quando è alta ondeggia, con un mare di voci… – Papà, cos’ha di diverso il frusciare delle foglie dell’olivo dagli altri alberi? Oppure dall’erba? – Le foglie di olivo quando sono mosse dal vento emettono suoni più vibranti. Le altre foglie sono più fruscianti. Mentre l’erba soffia, pff… Sooffiaaa! – E tu quei suoni sei capace di riconoscerli uno per uno? – Sì, devi venire anche tu in campagna, e stare un po’ a divertirti davanti al trullo… – No, non ci vengo. Ho paura degli insetti! – Non è degli animali che devi avere paura, ma delle persone cattive. – Ma che ne sai tu, che non ti fa paura niente, né lucertole né serpenti, niente di niente. Se non fosse così, non ci andresti neppure tu in campagna! Adesso che mi fai pensare... ti ricordi di quel serpentello?

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– Mica l’ho trovato più... Le urla che hai lanciato! – Urla? Che spavento, altro che urla! E tu, te le ricordi quelle api che ti hanno punto dappertutto? – Certo che me le ricordo, avevano fatto il nido nel muretto, vicino al posto dove mettevo la mia attrezzatura di campagna. – Se penso a quanto aglio abbiamo dovuto strofinarti sopra a quelle punture. Ti avevano punto perfino in testa, tra i capelli! Un pomeriggio papà arriva di corsa a casa, lo sguardo che gli brilla. Mi prende per la mano e mi trascina via: – ‘Ngelà, dai, spicciati che ti devo portare in un posto. – Cos’è successo? Dove mi porti? – C’è una cosa che devi vedere assolutamente. Dai, andiamo! – Ma cos’è che vuoi farmi vedere? – Beh, voglio farti una sorpresa… Via di corsa con la sua vecchia Cinquecento, fino al trullo. Scendiamo e in punta di piedi mi guida fino alla pianta di carciofi che era nata spontanea vicino alla stradella. Lui si china e piano piano tira su le foglie: – Papà, ma questi sono cuccioli! Tanti cuccioli di cane! Ma quanti sono? Tre, quattro, cinque… E come li hai trovati? – Stamattina ho visto la cagnetta del vicino che andava

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e tornava da qua, così l’ho seguita. Ho scostato le foglie della pianta e ho scoperto che c’era una figliata. Sicuramente, la cagnetta li sposterà in un altro posto. – Perché in un altro posto? – Troverà un nascondiglio più sicuro. È sempre così. Pure i gatti fanno in questa maniera. – Come sei felice, papà. – Sì… è per questo che sono corso subito a prenderti, volevo che tu li vedessi. – Ma sono tenerissimi! Tremano, hanno gli occhietti ancora chiusi! A te stanno tutti quanti in una mano. Io ho paura di fargli male, sono così piccoli! Come un pianta generosa, mio papà Donato era cresciuto d’animo come una chioma d’albero, in misura uguale al diramarsi delle sue radici. Capovolgendo la sua interiorità, usando il sotto e il sopra, non possedeva discordanze in virtù dell’equilibrio profondo che lo dominava. Era come uno dei suoi olivi rigogliosi. La dolcezza e la forza erano in assoluto le sue virtù primarie. La sua intelligenza era come la natura, precisa e puntigliosa nel suo giusto fluire. Era arguto, perspicace e molto divertente. Amava le bellezze della quotidianità in tutte le sfaccettature. Ogni situazione la considerava una sfida. E della vita diceva: «Preferisco vivere un giorno da leone, e mai cento da pecorone». Si invaghiva del primo sole del mattino, del profumo della rugiada, dei colori della sua terra. Amava crogiolarsi tra i motori. Adorava i cavalli ferrati. Adorava le sue moto. La Motoguzzi, la Vespa, il Motom. Al contrario, non impazziva per le auto.

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Nella sua vita, ne aveva cambiate poche. Ne possedeva sempre due. Ma quella che non sostituì mai fu la leggendaria Fiat Cinquecento. Adorava quella piccola trottola, perché la riteneva una giusta invenzione per il suo tran tran quotidiano. – ‘Ngelà, devo dire, meno male che c’è lei, come un topolino s’infila dappertutto. Se non ci fosse la Cinquecento bisognerebbe inventarla! Oggi con tua madre siamo passati da un viottolo piccolissimo, io ero preso dalla fretta, e lei si è spaventata. Ho dovuto guidare veloce schivando i gradini sporgenti delle case del centro storico… immaginati la faccia di tua mamma! – Papà! Ma che necessità hai di dannarti sempre a ‘sta maniera? – Si erano accumulate un po’ di faccende, e abbiamo fatto una corsetta, tutto qua. Sono cose che bisogna fare quando non sono al lavoro in fabbrica… E tua mamma che mi diceva: «Prima o poi mi farai venire un colpo… Rallenta con quest’auto!». Ricordo mio padre sempre affaccendato mentre fischiettava canzoni, allegro. Invece il fischio diventava sonoro, dolce e prolungato quando se ne serviva per chiamare me o le persone di famiglia. Io a quel suono rispondevo da lontano: – Arrivo, ‘pà… Vengo subito da te!

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Il ring

Al suo ritorno dalla fabbrica, immaginavo papà come fosse rientrato da una sorta di combattimento. Come fosse stato dentro a un ring. All’interno di un quadrato limitato dalle corde molleggianti. Tre, quattro file, perfettamente sistemate l’una sopra all’altra. Corde rosse, blu o bianche. Corde per definire il luogo della lotta. Corde per contenere un pugilato. Corde per limitare il luogo della memoria. Troppe volte mi è parso di vedere mio padre, come all’interno di un match, in cui tanti colpi schivati corrispondevano ad altrettanti pugni ricevuti. Donato era come un buon pugile, forte e resistente. Si difendeva come un out-fighter, uno stilista. Mentre io mi accorgevo che la realtà era ben altra, quando sostituivo quello spazio fantasioso racchiuso da corde elastiche con un altro luogo circoscritto da tubi bianchi e rigidi. Un luogo dove subire il male. Facendosi colpire, e basta. Troppe volte ho veduto un operaio atterrato da colpi pesanti, colpi bassi, irregolari. Colpi senza regole, in grado di mandare K.O. Dove l’arbitro non poteva essere altro che un capoturno o un caporeparto. Dove alcuni di loro erano comandanti di gara venduti che non sostenevano la reale correttezza del combattimento, che decretavano come vincitore sempre lo stesso, quello che dimostrava più forza di sottomissione nel lavoro, più debolezza nel ricatto occupazionale e nella malattia. La morte di Donato non è

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stata causata dal destino né dalla carenza di forza nei confronti dei giganti del capitalismo. Ma dai colpi proibiti, avvelenati. In quel ring immaginario tante volte ho veduto mio padre come un pugile reso ammutolito. Combattivo, combattuto, e muto. Attualmente ai miei occhi quella fabbrica appare totalmente trasformata; oramai l’immenso petrolchimico di un tempo, ai suoi esordi appartenuto alla Montecatini, possiede molte zone vacanti di reparti. Gran parte di quella smisurata fabbrica non esiste più. Ha ridotto le unità di misura della sua estensione iniziale di circa ottocento ettari, quattro volte più estesa della città di Brindisi. Quello che avevo visto da piccola era un colosso industriale. Quello che è esistito ai tempi in cui ci lavorava mio padre non esiste più. Molta di quella forza anche. Il pugile aggressivo, il picchiaduro, ha perso peso, ha perso libbre. Persino la chimera del posto garantito, anche quella non esiste più. Quando decisi di proiettarmi a ritroso nel tempo, cercando le ragioni per la perdita di mio padre, l’ho fatto con occhi differenti da quelli ingenui di quando ero piccina. Ho guardato la realtà dinnanzi a me, facendomi spazio tra gli inganni di tanti uomini. Desideravo conoscere la realtà celata nella mia infanzia con i miei occhi da adulta, con la mia ragionevolezza. Volevo scoprire quel che realmente era accaduto a un operaio immatricolato per il reparto petrolchimico P17. Un padre etichettato per i gironi industriali della plastica. Operaio Montedison Chirico Donato, numero di riferimento personale 229856.

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A distanza di molti mesi dalla scomparsa di mio padre, ricominciare a dipingere è stato il primo flebile segnale del mio ritorno a desiderare di vivere. Dinnanzi a me il cielo si riapre: lentamente è riapparso il blu, il celeste mi sta di nuovo accanto. Mia mamma non aveva gettato le compresse di papà, le aveva conservate in un cestino di vimini. Le ho trovate, le ho riprese in mano. Lei era rimasta a guardare cosa stavo combinando: mi seguiva con uno sguardo preoccupato mentre con ago e filo cominciavo a infilare le pasticche una dopo l’altra, scegliendo quelle colorate in rosa e bianco, raggruppate a tre a tre in capsule trasparenti. Sono andata nella sua camera da letto a prendere un crocifisso da un cofanetto di ceramica. Era vecchio e rotto, una croce piccola di legno con sopra un Gesù di metallo argentato. L’ho attaccato alla catenella di compresse: ecco, con le medicine di mio padre avevo realizzato un rosario. Sono andata ad appoggiarlo sul suo comodino e ho giurato sul suo nome che la verità l’avrei cercata sgranando il rosario della nostra vita, finché Dio me lo avesse concesso.

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Parte seconda



Nel cuore dell’ecomostro

Dopo la perdita di papà ho voluto scandagliare in profondità la sua vita lavorativa, perché esistevano circostanze poco convincenti. Motivi validi di temere che quella fabbrica nascondesse una verità terribile. Di qualunque cosa si trattasse volevo scoprirla. Mi mancavano riferimenti precisi: ho cominciato col chiedermi da dove o da cosa dovevo cominciare. Portare alla luce la storia operaia di mio padre era essenziale: avevo bisogno di comprendere fino in fondo le ragioni della sua morte. La maniera più pratica per iniziare era rovistare tra le cartelle cliniche: centinaia di documenti e di esami clinici, depositari di una verità non scrutata fino in fondo. Quegli incartamenti erano i custodi di tante realtà nascoste. Di foglio in foglio, ho percorso una lunga storia clinica. Oltre vent’anni di vita. Per me non era semplice leggere il linguaggio medico: gli elettrocardiogrammi, le lastre, i referti clinici. Risultava faticoso indagare anche sugli incartamenti di fabbrica, quelli che spesso avevo visto tra le mani di mio padre. Incartamenti d’azienda, il libretto sanitario di lavoro, le cartelle cliniche dei suoi ricoveri. Su tanti carteggi appariva la sua scrittura, appunti che lui aveva tracciato per individuare meglio le date e i riferimenti diagnostici. Sentivo l’odore datato di quei fogli inchiostrati. Osservavo la carta ingiallita.

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Notavo l’inchiostro sbiadito dal tempo tra le righe di qualche referto. Mi passavano per la mente le immagini di papà, intento a leggere quelle carte dopo aver inforcato gli occhialini da lettura coi vetri stretti, che appoggiava sulla punta del naso. Tutto era archiviato in maniera meticolosa. Date, numeri, nomi. Tutto era posto in sequenza e in ordine di importanza d’argomento clinico. In fabbrica, Donato aveva subìto un avvelenamento che aveva intaccato soprattutto il fegato. Ogni dettaglio vi appariva chiaramente, eppure ho sospettato che qualcosa non stesse così come appariva certificato. Tra quei referti non riuscivo a comparare i numeri tra le date e i valori di alcune analisi che andavo leggendo. Ho intuito che molte cose non collimavano. Su alcuni circoscritti periodi lavorativi di mio padre esistevano date e mansioni non conciliabili con la sua realtà lavorativa: elementi utili a ripercorrere i tempi di massima esposizione tossica in determinati reparti. Avevo intuito che il P17 – il suo reparto di lavoro – procurava intossicazioni mortali. Avevo intuito che alcune precauzioni adoperate dall’azienda a tutela della salute di mio padre non coincidevano con gli stadi avanzati della sua malattia. Non esisteva possibilità di coesistenza tra gli ambiti lavorativi e i suoi ricoveri continui. Ho cercato le motivazioni di quelle incongruenze: ormai tra me e quegli incartamenti si era insinuata una confidenza naturale. I caratteri inchiostrati su quei fogli parevano pieni di una voce che al momento opportuno si levava a togliere ogni mio dubbio. Ero giunta a conoscere ogni foglio, ogni rigo di quei certificati. In qualsiasi momento fosse stato necessario ricercare le risposte a

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tanti dilemmi da risolvere all’interno delle perizie scientifiche, sapevo in quale foglio potevo trovare le risposte giuste da contrapporre all’ingiusta cattiveria che la scienza petrolchimica cercava di cucire su mio padre. Tra quegli incartamenti ero diventata capace di afferrare quello in cui mio padre aveva sempre creduto: se stesso. Lui faceva leva sulla propria forza interiore per combattere il suo avversario. La sua forza, la sua resistenza contro le avversità e gli inganni petrolchimici adesso erano diventate mie. Ho ritenuto opportuno fare la richiesta del curriculum lavorativo di Donato Chirico, dall’anno della sua assunzione al petrolchimico fino alla sua morte. Dal 1963 al 1996: un arco temporale che copre trentatré anni. Cerco di mettermi in contatto telefonico con la segreteria della Enichem di Brindisi. Un’impresa molto ardua. È complicato mettersi in relazione con gli impiegati del segretariato petrolchimico. Insisto con perseveranza di poter parlare con qualche incaricato dell’azienda. Le telefonate si moltiplicano. La risposta è che gli incartamenti della Montecatini sono in mano alle altre società che l’avevano preceduta. Devo rivolgermi alla sede centrale di Milano perché gli archivi di Brindisi che risalgono agli anni 1960-1980 non sono più in loro possesso. Ricorro alle raccomandate con ricevuta di ritorno. Alla fine sono contattata telefonicamente dal personale Edison di Milano: anche la Montecatini non è più di loro pertinenza, devo rivolgermi alla Syndial a San Donato Milanese. Ci provo telefonicamente e m’imbatto nelle solite difficoltà: la catena dei passaggi telefonici da un ufficio all’altro, tra

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un dipendente e l’altro, tra centralini sempre intasati e telefoni spesso fuori posto, decine e decine di minuti ad ascoltare snervanti musichette nel succedersi delle attese per non perdere “la priorità acquisita con l’interno desiderato”. È impossibile parlare con qualcuno. Spedisco per raccomandata la mia ennesima richiesta scritta all’Ufficio Personale Syndial. Sembra io sia arrivata al referente giusto: dopo un’altra infilata di telefonate la dottoressa Bertulli, una incaricata di Syndial s.p.a., mi assicura che sta provvedendo al recupero di tutti i dati utili sulla vita lavorativa e professionale di mio padre. Trascorre un anno. Non ricevo nessun’altra notizia. Mi rimetto alla ricerca della dottoressa Bertulli con cui avevo dialogato telefonicamente. È impossibile trovarla. Rinuncio al curriculum lavorativo di mio padre: ho motivo di credere che la Syndial non sia più disposta a ottemperare alla mia richiesta. Qualcosa di scorretto doveva essere accaduto. Forse qualcuno, posto molto in alto, ha impedito di proseguire la raccolta dati di mio padre. Mi arrangio con quello che ho: il libretto sanitario di lavoro di papà lo integro con le informazioni raccolte parlando con gli operai petrolchimici di mia conoscenza. Recupero notizie. Verifico i ruoli e le mansioni di mio padre all’interno del polo chimico: numerosi sono i ruoli ricoperti, nessuno esclude il pericolo di intossicazione. Nell’arco temporale che si estende dal 1963 al 1980, mi rendo conto di aspetti che mi causano sgomento. Intuisco che il petrolchimico cela dei segreti. Comincio a informarmi sull’attività iniziale di Donato,

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da quando nel 1963 era stato addetto ai macchinari di distillazione del 1,2-Dicloroetano – nei reparti GH3 e GH4, gli impianti originari di distillazione di quel gas. Attivi solo fino ai primi anni Sessanta, e poi espiantati; rimossi totalmente, perché ritenuti particolarmente pericolosi, obsoleti e usurati nonostante il loro breve periodo di esistenza. Per l’alto degrado che avevano subìto, erano divenuti rischiosi sia per la salute degli operai che per l’ambiente. Nei reparti di lavorazione dei prodotti petrolchimici, esisteva una certezza: il pericolo imminente della fuoriuscita dei gas dalle valvole, dalle pompe, dai tubi corrosi e dai rubinetti degli impianti. Dal 1963 al 1966 mio padre era stato addetto al controllo di abbattimento dei reparti GH3 e GH4. Il mio interesse è tale che voglio capire almeno in parte cosa sia il Dicloroetano, una sostanza a cui mio padre era stato esposto pericolosamente. Il 1,2-Dicloroetano (1,2-DCE) è una sostanza chimica artificiale, ottenuta dalla reazione chimica tra il Cloro e l’Etilene. È classificato tra i composti più tossici della categoria degli idrocarburi clorurati è un cancerogeno. È un inquinante per l’ambiente faunistico, territoriale e acquatico. Continuo le mie ricerche nei luoghi più appartati della mia memoria. Spesso mi trovo in situazioni ingarbugliate, dove la ricerca di una verità “altra” rispetto a quella conosciuta mi conduce in luoghi che sembravano inaccessibili. Luoghi franati e frananti di storie, dove provo la sensazione dello smottamento della terra sotto i piedi. Di scivolare e di cadere dentro una valle profonda, in gola alla terra, per riemergere a fatica dalle false verità.

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Mi sono persa spesso, nella conta dei giorni delle mie ricerche. Pazientemente ho capovolto il tempo, come si farebbe con una clessidra. Più volte mi sono ritrovata all’interno di uno scenario intricato di pericoli, di confusione, di ombre e di spettri. Pieno di giorni assolati e giorni uggiosi. In quei giorni butto giù lo schema della legittima ricerca di una giustizia necessaria agli operai intossicati dai veleni petrolchimici. Esamino i fatti sulla scia di mio padre Donato. Una via che avrei preferito non percorrere. Un percorso dove il dolore se ne sta in agguato, ostacola i miei passi, occupa le tasche della mia vita. Nell’accesso allo scenario petrolchimico, sono chiamata a percorrere una memoria storica. Una memoria che continua a proiettarsi nel futuro, nel domani di ognuno di noi. Una memoria tracciata da operai. Tracciata dalle domande che mi pongo: Oltre alla plastica, nel petrolchimico che cosa si è prodotto? Gli operai se lo chiedevano quando sputavano veleno, dopo essere usciti dalle autoclavi o dopo il compito dell’insacco. La consapevolezza che nel petrolchimico oltre alla plastica si producesse qualcos’altro, agli operai giungeva dopo aver svolto le mansioni che nell’immediato facevano emettere sangue dal naso e dalla bocca. Cos’è che c’era di tanto velenoso, là dentro? Più velenoso dei ricordi vergati a sangue? Negli anni, col tempo, ho continuato a ripetermi: Dov’è finito quel veleno? Quei vapori? Dove sono finiti i fanghi di scarto chimico prodotti nel passato?

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Postfazione Cecilia Mangini

Per entrare nel vivo del discorso mi avvalgo della metafora di San Giorgio che – con la lancia (l’arma del cinema) uccide il drago (il condizionamento esercitato dai poteri forti), – liberando così la principessa (il pubblico che rappresenta i cittadini) dal drago dei condizionamenti. Come un microscopico San Giorgio in 64esimo, in ogni mio documentario ho cercato con la lancia del cinema di uccidere il drago-condizionamento dei poteri forti per liberare la principessa – il pubblico e tutto il popolo dei cittadini succubi dei poteri forti. Nel corso di decenni le mie prerogative sono state molto forti con i miei collaboratori, al contrario erano quasi inesistenti con tutte le persone che ho intervistato, diciamo un rapporto a scappa e fuggi, via via tutte sono apparse e poi scomparse nel tempo breve del rapporto mio con loro. Tutte meno una. L’eccezione a conferma della regola la devo a Plastica, il libro che avete tra le mani (che avete avuto tra le mani), per via di un’intervista centrata su di lei, Rosangela Chirico, l’autrice. Durante tutti i ciak, Rosangela aveva qualcosa che la proiettava al di là del tempo che mi stava dedicando, c’era qualcosa in più da prendere e capitalizzare, e per quanto ogni ripresa richieda uno sforzo che mi svuota di ogni traccia di energia, questa volta ero inchiodata al dover comprendere e sapere. Alla telecamera, e anche a me che stavo dietro l’obiettivo, aveva raccontato di suo padre, dell’agonia da carcinoma epatico durata un lunghissimo ventennio, malattia contratta al petrolchimico di Brindisi, per contatto diretto con le

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sostanze altamente tossiche della trasformazione del petrolio. Perché restavo lì, perché non me ne andavo dopo i grazie tante, i sei stata brava, i ti farò sapere? Un lungo passo indietro mi riporta ai miei conti in sospeso con la Puglia: Brindisi è un evento che mi chiama direttamente in causa per via di un terremoto giudiziario che nel 1996 travolge i vertici dell’Enichem a cui appartiene il più grande petrolchimico d’Italia, 68 sono gli avvisi di garanzia per una sfilza di morti e morituri di tumore, è un capovolgimento che stordisce, lo stabilimento era stato sbandierato come il primo passo dell’industrializzazione del Mezzogiorno, finalmente!, un sogno si avverava, era una realtà per il futuro. Nel 1965 quell’evento ero corsa ad afferrarlo con due documentari, Brindisi ’65 e Tommaso, testimonianza dei contrasti e delle tensioni che investivano una classe operaia reclutata tra braccianti e disoccupati. L’inchiesta della magistratura dura un decennio intero e si conclude con il non luogo a procedere: Brindisi e i suoi morti cadono nella terra di nessuno del dimenticatoio che imputridisce ogni richiesta di giustizia. Nel 1982 a Taranto insieme a Lino Del Fra che girava un’inchiesta per Rai 3 mi sono inabissata in un incontro con gli operai dell’Italsider, gli ex metalbraccianti approdati alla cultura per un loro impegno cognitivo straordinario e insospettato. Trent’anni dopo, nel 2012 la città assurge a simbolo del disastro ambientale quando il procuratore della repubblica Franco Sebastio sequestra l’area a caldo della più importante acciaieria italiana che nel frattempo è stata svenduta a Riva, ha cambiato nome, è diventata l’Ilva. Riva minimizza, irride lo strepito per due o tre morti di tumore ma maramaldeggia invano, grazie a Sebastio il disastro ambientale diventa sinonimo di strage. Il 2012 segna il mio ritorno in co-regia al cinema e alla Puglia dopo quattro lunghissimi decenni. Per forza e per amore, Brindisi

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e Taranto occupano la centralità del mio interesse, e giustamente: petrolchimico e acciaieria continuano a nidificare la morte per cancro e per asbestosi. Mi sono chiesta e mi chiedo ancora perché con Rosangela non ho tagliato corto, arrivederci e grazie tante, sì, sei stata brava, ti farò sapere; il fatto è che ci parliamo, ci ascoltiamo, lei mi dice di aver scritto un libro sulla morte di suo padre, di fretta le chiedo di spedirmelo via mail, velocemente mi risponde sì. Difficile spiegare perché l’ho letto, presa come sono dal montaggio e dai suoi mille problemi. Pur di arrivare alla parola fine ho fatto notte fonda. Rosangela non piange, non protesta, non chiede giustizia solo per la morte di suo padre, lo fa per tutti i morti da CVM, l’agente cancerogeno che si respira, che fa piangere e irrita la pelle; si mobilita per ricostruire con pazienza l’iter dell’avvelenamento; vola alla trasmissione di Santoro perché l’Italia sappia. La novità più preziosa del suo libro è farci partecipare alla vita quotidiana di una famiglia operaia, l’entusiasmarsi per sua madre che taglia cuce e veste il marito e i figli, il risparmiare per comprarsi casa, il rabbrividire infilando a perdifiato i vicoli strettissimi di Ceglie con la Cinquecento, il restare affascinati da un operaio che dedica il suo tempo libero alla cura di olivi millenari. Tra focacce con i fichi e forni ricavati dentro i trulli, Rosangela che cresce e diventa grande ci restituisce l’estrosità e l’esuberanza dei dialoghi con il suo papà: lei li fa rivivere come un leitmotiv del suo diventare adulta e come l’eco dell’intensità di una speranza destinata a essere sommersa dall’onda nera del petrolio. Al giorno d’oggi, per fare i conti con i perché si devono usare parole e definizioni rottamate, tolte dalla circolazione per abolire il concetto a cui si riferivano. Il primo esempio è classe operaia. La classe operaia è scomparsa senza un gemito e nessuno ha

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pianto, eccetto i rarissimi marxisti nostrani che non si erano autorottamati. Il secondo esempio è la classe egemone che in silenzio conia i suoi concetti-guida: la condivisione, necessaria a occultare la fine della democrazia; la solidarietà, un termine imposto a largo raggio dopo averlo evirato di significanza; per salvaguardare Jobs Act è possibile aspettarsi la galera per chi pronuncerà le sette sillabe di Ar-ti-co-lo-di-ciot-to. Perciò in Italia, paese dove la disoccupazione è una piaga e il lavoro è da sempre precario e via via più precarizzato, il disastro ambientale avviene sotto il ricatto della chiusura delle fabbriche e dei licenziamenti collettivi. Dunque sull’altare di un feticcio: il profitto, da oggetto di studio dell’economia, acquista la dimensione metafisica di traguardo necessario ed esclusivo dei monopoli finanziari ed industriali. Per le altre categorie, si contrae il reddito, il salario e la vita. Anche a costo delle stragi della classe operaia? Sì.

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Ringraziamenti

Ringrazio dal profondo di me stessa Dio – Ruach, il mio spirito divino in Arte/Vitae – per la Sua amorevolezza e il Suo splendore che hanno illuminato i miei passi nel buio delle mie vicende umane. Ringrazio tutti gli operai – amici cari di mio padre – per il contributo della loro testimonianza necessaria a questo libro. Ometto i loro nomi, li ringrazierò di persona uno per uno. Ringrazio Felice Casson, pubblico ministero al processo del petrolchimico di Porto Marghera, per averci insegnato che sempre e in ogni caso la nostra fiducia nella giustizia non deve venir meno. Ringrazio l’avvocato Vincenzo Romano per aver posto un profondo senso umano nella sua professionalità, coscienza e coerenza di pensiero all’interno degli avvicendamenti petrolchimici. Ringrazio il dottor Maurizio Portaluri: per l’amicizia insolita? No. Per la condivisione dell’operato quotidiano a difesa di chi non ha difesa. Ringrazio gli ambientalisti e gli attivisti di qualunque luogo della mia nazione e del mondo, per la consapevolezza e il coraggio con cui si dedicano alla salvaguardia della vita sulla terra. Un pensiero particolare va agli amici di Salute Pubblica, di No al carbone di Brindisi, del Fondo Antidiossina Taranto e di Peacelink. A loro sono unita nella lotta contro le ingiustizie del potere negativo. Ringrazio la documentarista Cecilia Mangini, anche se non vuole i miei ringraziamenti perché, lei dice, l’amicizia quando esiste è un atto dovuto. Ringrazio lo scrittore Mario Desiati che con delicatezza ha ac-

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colto il mio invito: le sue parole sono compagne dei miei pensieri sensibili. Ringrazio lo storico dell’arte e mio consulente artistico Paolo Marzano per aver compreso che la necessità espressiva della parola/colore è una costante nel mio dinamismo intellettivo. Ringrazio ogni singolo lettore che ha dedicato il proprio tempo prezioso alle righe di questo libro. A lui chiedo scusa per avere abusato di parole come ingiustizia e difesa. Ringrazio mia madre Maria per il grande amore quotidiano che mi dona. Ringrazio i miei fratelli Giampiero e Tommy per la fiducia che ripongono in me nella difesa della verità su nostro padre. Ringrazio mio papà Donato, per essere stato sempre la mia Guida, è a lui che devo se non mi piego all’ingiustizia e alla violenza dei soprusi. Ringrazio la casa editrice Kurumuny, Giovanni Chiriatti che mi ha supportato con la sua saggezza e professionalità e tutti i collaboratori per la passione e l’accuratezza del lavoro che hanno svolto.

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