Riso fuorisede

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traversamenti | 05

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie, passioni, percorsi, progetti, memorie. Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, desideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti e incanti di realtĂ . Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Indagano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali. Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi, oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri. Sono tensioni di futuro. Traversamenti.



SILVIA RIZZELLO

Favola agrodolce di

RISO FUORISEDE


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-52-7

© Edizioni Kurumuny – 2016


A Enrico Dalfino, lungimirante politico dell’accoglienza, troppo all’avanguardia per il breve tempo in cui fu sindaco di Bari.



Indice 11 13 15

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Nota dell’autrice Ritorni

Casa Lilou

Dj Blacktop

Souvenir d’Avorio Pause. Rec

Appunti di un clown errante Thérèse

Olivier e Rachid Nunzio

Priscilla e Lilou



«Qui suis-je? Je ne suis pas une chose, je suis quelqu’un […]. J’ai besoin de grandir. J’ai besoin d’une famille. J’ai besoin de créer. J’ai besoin d’étudier, de m’exprimer. J’ai besoin de ne plus être discriminé, d’aimer, d’être aimé comme une personne, de ne pas être blessé. J’ai besoin de me projeter dans un avenir.» Chi sono io? Non sono una cosa, sono una persona […]. Ho bisogno di crescere. Ho bisogno di una famiglia. Ho bisogno di creare. Ho bisogno di studiare, di esprimermi. Ho bisogno di non essere più discriminato, di amare, di essere amato come persona, di non essere ferito. Ho bisogno di proiettarmi nel futuro. Miloud Oukili, comico e giocoliere franco-algerino.



Nota dell’autrice

Caro lettore, questa è una favola di riso agrodolce. Nella vita di ciascuno di noi c’è o c’è stato un momento da dedicare alle fiabe. Vicino o lontano che sia rispetto al presente in cui stai leggendo, quell’istante ti ha permesso comunque di sognare. E così, con l’illusione o la ragione di un sognatore, di una sognatrice, anch’io ho preso un mazzo di carte e ho mischiato a casaccio trame e personaggi di storie “diversamente culturali”. Mi piace chiamarle così: con le parole che, durante una chiacchierata tra i banchi di un istituto scolastico di periferia, Francesco mi suggerì per spiegare che cos’è la mediazione interculturale. Ben assortiti insieme, questi due termini esprimono appieno il concetto e dicono, anche, quante cose sia in grado di insegnarci un bambino. Quanto alle storie “diversamente culturali” di queste pagine, si tratta di fatti realmente accaduti e persone veramente esistite di cui ho raccolto in armonia profili, identità, bozze, bellezze e disagi, miscelati senza conflitto di sorta. Archiviate da un po’ di anni nei file della quotidianità virtuale; nella miriade d’interviste fatte, registrate e non trascritte; negli articoli finiti e mai pubblicati; nelle lezioni di molte scuole pubbliche, e di vita; nelle annotazioni di diversi seminari; nelle scoperte pianificate o accidentali di viaggi, miraggi e dintorni, altrui e miei, queste storie hanno trovato un luogo in cui nascere e prender forma: Bari. Una città che da sempre conosce il transito, la frontiera; che tuttora conserva 11


la varietà dei viaggiatori che l’hanno amalgamata, assaggiata, acculturata nel corso dei secoli. Qui si racconta la Bari vera e verace degli anni Novanta; quella dei collegi universitari e dei suoi fuorisede, non solo studenti, ma in generale i nuovi arrivati da paesi lontani. La Bari di quel periodo rappresenta un bell’esempio urbano di vivacità interculturale, che merita un fermo immagine di ricordi proprio per il suo essere un passo avanti rispetto a tante altre città, di allora e di oggi. A Bari, paesi africani come Costa d’Avorio, Senegal, Camerun; del Medioriente, come Palestina, Iran, Libano, Siria; del Maghreb (Algeria, Marocco, Tunisia) erano, e sono ancora, di casa. In quegli anni – e già dalla fine dei Settanta – questa città è stata protagonista di un grande fermento di Storia. La Bari di cui si parla è la stessa che, l’otto agosto del ’91, con lo sbarco di ventimila albanesi, visse, assieme a tutta l’Italia, l’inizio di una nuova era: l’emergenza di arrivi disperati.

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Ritorni

Iniziò da un funerale. Anzi ricominciò tutto da un funerale. Da un funerale ivoriano, in una chiesa cattolica del sud Italia, una mattina di settembre, con un sole che sembrava ancora estate. A Bari. Era morta Thérèse, la mamma di Lilou. Tra le righe di una preghiera a un Dio apolide, Priscilla ritrovò, senza il minimo sforzo, tutto il film di una vecchia storia. Oltre il fucsia e l’arancio del pagne1 posto sulla bara al centro dell’altare, riconobbe tutti gli amici di un tempo, quelli che quindici anni prima passavano a casa di Lilou per un riz gras2 o un appoggio; le donne che le lasciavano i figli, Questo tessuto dalle mille fantasie e colori è l’elemento distintivo e unificante dell’Africa subsahariana: il pagne vi si ritrova ovunque, malgrado la grande varietà culturale tra i diversi paesi. Usato in tanti modi – avvolto in vita, come foulard, veste, capo maschile per riti tradizionali, portabebé a spalla, e altri – ha una forte valenza nella vita sociale. Indumento indispensabile del guardaroba delle donne, il pagne è simbolo di femminilità, seduzione e prestigio. Indossarlo è una vera e propria arte. 2 Il riz gras, o riz au gras è una prelibatezza ivoriana, tipica anche di altre zone dell’Africa. In francese il suo nome significa “riso grasso”. Preparato a base di carne o pesce, con una gran varietà di ingredienti, viene cucinato in tanto olio, solitamente di arachidi. La parte più ghiotta di questa specialità è il riso bruciacchiato che resta attaccato alla padella durante la cottura, vero concentrato di tutti i sapori. 1

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e i connazionali che cominciavano a far politica e attività sindacale per i baresi dalla pelle nera. Lilou era una delle prime ivoriane arrivate in Italia alla fine degli anni Ottanta e casa sua, un conviviale ritrovo nel pieno traffico della città. Dovevi cercare lavoro? Cenare dopo il Ramadan? Non sapevi dove dormire? C’era Lilou. Sempre Lilou. O meglio casa Lilou, così la chiamavano tutti. Per africani, italiani e non di ogni dove. Venuta da Man, in attesa di un figlio bianco, Lilou fu per Priscilla l’amica che per prima le trasmise il gusto delle differenze, in questo gioco buffo che è la vita.

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Casa Lilou

Settembre 1992. Lilou Martin e Priscilla Verieri si conoscono in un’affollata corsia del Policlinico. Lilou, ventiquattr’anni e il volto color cappuccino, ha un problema di vertigini. Priscilla – diciassette anni, occhi verdi e un corpo sinuoso – è in cura per una faringite acuta. A Lilou i medici suggeriscono di prendersi un lungo periodo di pausa dal lavoro: – Signora Martin, la sua salute vacilla; merita rispetto e riposo. E poi ci sono ancora altri accertamenti da fare. Deve curarsi: abbia pazienza e ci ascolti – le dicono dimettendola dall’ospedale. Invece Priscilla è guarita e può tornare al suo quarto anno di liceo artistico. Con il passare dei mesi l’amicizia fra le due si consolida e casa Lilou diventa per Priscilla tappa obbligata all’uscita da scuola. – Chérie, tu manges quelque chose avec nous? [Cara, mangi qualcosa con noi?] All’arrivo di Priscilla la domanda di Lilou è sempre la stessa. E anche la risposta: – No, chérie. Grazie, ma lo sai che devo tornare a casa. Qualche volta Priscilla cede al pranzo ivoriano, dimenticando che a casa mamma Mirella l’aspetta con il piatto coperto. Altre, assaggia fugace e scappa via. 15


– Okey, Lilou. Tutto buonissimo. Vado. Lasciami andare, ti prego! Se resto qui anche oggi, mi disconoscono come figlia! – Comme tu veux, ma chérie! [Come vuoi tu, cara!] Ma guarda che ti perdi un bon plat de foutou avec une sauce graine3 [un buon piatto di foutou con sugo di palma]. Ogni tanto Lilou le parla in francese, ché Priscilla è pronta a imparare e far proprio, come il resto del dire e fare dell’amica. Ciò che di questo quotidiano pit-stop a casa Lilou piace più di ogni altra cosa a Priscilla non è tanto il cibo in sé – che sì per molti aspetti rappresenta per lei la vera novità – quanto quel variegato ambiente conviviale che si crea nella sala da pranzo. Ora che Lilou è sempre a casa, per i suoi connazionali ogni scusa è buona per andare a trovarla e far festa con un piatto di attiéké4. Lo sanno bene tutti gli aficionados alla sua cucina. Sono i fuorisede che frequentano la mensa della Casa dello studente di Largo Fraccacreta, dove Lilou lavorava come cuoca fino a qualche tempo fa. Da quando ha smesso non possono fare a meno delle sue bontà, né dell’allegria con cui condiva indimenticabili primi che nessun’altra cuoca del collegio sa più preparare. Così molti di loro, invece di andare a mensa,

3 Il foutou è il cibo d’eccellenza della Costa d’Avorio e di diversi paesi africani, come il Ghana. Consiste di una sorta di pagnotte, ottenute schiacciando nel mortaio la polpa di igname, platano o manioca, da condire a piacere. Per degustare al meglio questo piatto, si spezza il foutou con le mani e lo si immerge nel sugo ancora caldo. 4 Cous cous di manioca.

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passano a salutarla tutti i giorni: magari un buon piatto da gustare ci scappa sempre. Del resto, molti sono convinti che l’arte culinaria di Lilou sia la medicina migliore per farla guarire. E qui, in mezzo a souvenir d’Avorio, tazzine da caffè e buone porcellane messe in vetrina come in ogni casa del sud Italia che si rispetti, le discussioni, anche le più futili, si animano e prendono forma in una miscellanea di dialetti, lingue e culture, mentre le emozioni sublimano il palato. – Oui, oui, c’est comme tu dis, Charly, mais je ne veux pas rester à la maison. J’aurais préféré aller au boulot [Sì, sì, è proprio così, come dici tu, Charly, ma non voglio restare a casa. Preferisco andare a lavorare]. – Ou yé ba, Lilou, yi ba nou ka meu bgan nou [Sai, Lilou, a volte bisogna fermarsi nella vita]. – Doque za n’pieu Charly [Mi sa che hai ragione, Charly]. – Ou zouho’ goum’ be! Eu a taïdonin keu euh ou baha ya peu leu plao [Forza e coraggio, dai! Me lo diceva sempre mio nonno]. – Manpeu ou nan eh peu ou neu yi min éh zotalé ou man. Za ya pieu! [Sì, e a me lo diceva la nonna tutte le volte che ero triste. Come aveva ragione!]. – Hi, Lilou, Éh keu leu. Bou’ tarlème. [E sì, Lilou. È la vita].5 Il dialogo è in yacouba, uno dei tanti dialetti ivoriani. È parlato anche a Man, la città natale di Lilou. Trattandosi di una lingua orale con una forte connotazione fonetica, la trascrizione dello yacouba è molto complessa. Questa è stata riportata utilizzando il metodo dell’ascolto. 5

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Appunti di un clown errante Su questo taccuino annoterò scarabocchi e spettacoli, risate e valigie delle emozioni meglio riuscite e il desiderio bambino di tornare a saltare cantare ridere scherzare come un grande spesso non sa fare. Priscilla Verieri

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«Essenziale, perché c’è da ringraziare chi ha contribuito a questo lavoro che non poteva farsi solo. Grazie a Daoud ed Angela, per le storie fuorisede raccontate con gran fede. Merci ad Aida, Edith, Durand e Seraph, per i particolari ivoriani, non tutti uguali. Shukran a Kamel, Hatem e Samer, per la traduzione in arabo parlato e al tempo impiegato. Efharistò a Stratos e Franco, per i dialoghi in greco e alla supervisione di Liza in concreto. Gracias a Marisel, per le sfumature linguistiche del suo argentino così carino. Grazie a MariaCristina, strada maestrina, a Franco di Parada, Anael, Gianluca, e Sergio, per aver suggerito il meglio. Grazie alla famiglia Kurumuny, per la cura di ogni dettaglio sempre al vaglio. E grazie a chi, qui, ho dimenticato perché mi venga perdonato.»



Questo libro è stato fatto da:

Alessandra Avantaggiato Editing, redazione, bozze

Fabio Chiriatti Progetto grafico di copertina

Laura Casciotti Ufficio stampa

Creative Artworks Stampa tipografica Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile



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