SALENTO ROCK. Andati via senza salutare

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FRANCESCA MALERBA

SALENTO ROCK

Andati via senza salutare


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-47-3 © Edizioni Kurumuny – 2015


«Forse il nostro destino è quello di morire dimenticati.» Maurizio



I fatti narrati ripercorrono in parte e liberamente la cronaca salentina nel periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta. La storia è stata costruita integrando i miei ricordi di adolescente con un’approfondita ricerca d’archivio sui quotidiani dell’epoca e sugli altri documenti indicati in bibliografia. I dialoghi con i testimoni hanno originato la tensione emotiva che mi ha guidato nella scrittura. I personaggi, pur ispirati dalla suggestione delle storie che ho ascoltato, sono frutto della mia fantasia. In alcuni passaggi, la topografia del Salento, la cronologia e i dettagli degli eventi di cronaca sono stati modificati per esigenze narrative.

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Prologo

Quando il Salento non era il paese dei balocchi, solo il mare ti poteva curare. Adolescenti nati in un paradiso in periferia, troppo lontano dalle occasioni, dalla vita. Espugnati dalla noia. Malinconia, paradosso. Quando l’inquietudine non si placava, volava il rock. Lo stereo in macchina a tutto volume. Correre controvento. Certi amici sparivano, non cantavano piÚ con te. Neanche la musica era bastata. I loro nomi sulle locandine dell’edicola. Andati via, senza salutare.

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Antonio Siamo solo noi – Vasco Rossi

La stessa maledetta domanda tutti i giorni che Dio metteva in terra, da quando aveva finito la scuola: «E mo’ cce faci?1». Trentasei all’istituto d’arte. «Mo’ cce fazzu?2». Alcuni suoi amici, con poca voglia di studiare, si erano iscritti all’università: chi a Lecce, chi in una grande città come Roma o Milano. Altri, a cui non interessava restare parcheggiati in un ateneo, avevano cercato lavoro vicino casa. Si lasciavano sfruttare per poche lire in bar o negozi. Quelli più motivati, decisi a guadagnarsi uno stipendio decente, emigravano a fare la stagione a Cortina o a Rimini. Per Antonio, di lasciare il Salento non se ne parlava. Aveva visitato l’Italia e l’Europa con viaggi interrail: posti affascinanti, vivaci, pieni di storia e cultura. Ma un luogo come casa sua non c’era. La terra rossa, gli ulivi nodosi, il cielo e il mare che di quell’azzurro non li trovi da nessuna parte. Il paesaggio malinconico che ti stringe con la sua forza straziante. Non avrebbe rinunciato mai a quella bellezza. D’altra parte, Galatina significava un lavoro comune, una vita anonima. Dal lunedì al venerdì in ufficio, i giorni dispari in palestra. Il sabato e la domenica con gli amici, pizza o ci1 2

Cosa farai ora? Cosa faccio ora?

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nema. Magari trovi una bella ragazza che ti fa scopare, in cambio la devi accompagnare a far spese in periodo di saldi. Dopo qualche anno lei vuole sposarsi in chiesa, l’accontenti. Una domenica sì e una no vai a pranzo dai suoceri. Arrivano i figli, ti svegli la notte, gli cambi il pannolino quando si cacano addosso. Crescono, spendi i soldi per la piscina e i libri. Diventi vecchio, non vedi l’ora di andare in pensione per goderti la vita, e poi... poi niente, poi muori. Antonio scrutava i suoi genitori, insieme da trent’anni. Non si guardavano più in faccia, eppure dicevano di essere felici, di amarsi. Rispettavano tutti i loro riti. Nessun margine di cambiamento per una vita standardizzata: se ti infilavi bene nei suoi meccanismi, alla fine ci stavi pure comodo. No, grazie. Nei viaggi Antonio aveva assaporato la libertà. Svegliarsi la mattina e non sapere dove andare, muoversi a caso, seguendo l’istinto o un segnale piccolo che indicava la direzione. Ubriacarsi, fumarsi le canne, fare l’amore con le ragazze. Dormire dove capitava, sotto le stelle. Svegliarsi con la nausea e la schiena rotta, ma padrone di se stesso, appagato, onnipotente. Sfortunatamente, in Salento, rompere gli schemi imponeva una fatica tale da rinunciarvi. La gente modulava i propri comportamenti pubblici in base alle chiacchiere del paese. Tutti si sentivano sotto un controllo globale. Le scelte possibili: adeguarsi al giudizio sociale oppure cercare di essere invisibili. «Ce hanu dire li cristiani?!3». I genitori di Antonio lo ripetevano anche riguardo alla sua condizione di nullafacente. Era per questa ipocrisia che non rispondeva mai alla domanda. In verità, di programmi non 3

Che deve dire la gente?

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ne aveva, anzi... Se avesse saputo prima di questa tortura, si sarebbe fatto bocciare ancora e ancora. La sera incontrava gli amici al Popeye. Dopo mezzanotte andavano al mare, in discoteca, oppure in un pub a Lecce per continuare a bere. Tornavano a Galatina poco prima dell’alba, fumavano una canna dietro la chiesa di San Sebastiano e si salutavano. Antonio rincasava qualche minuto prima che suonasse la sveglia dei suoi, si alzava dal letto quando la madre rientrava dal lavoro. Trascorreva il resto del pomeriggio in pigiama giocando al Nintendo. All’ora di cena, fresco come una rosa, cominciava la sua notte, uguale a quella precedente e a quella prima ancora. Quelle singolari abitudini costituivano comunque una routine. I salentini, giovani e vecchi, si sentono minacciati dalle variazioni di programma: anche cambiare in meglio può essere preoccupante. Invece Antonio cominciava a stufarsi. L’unico diversivo era trovare una bella moretta disposta a farsi palpare e magari aprire le gambe nella Fiat Tipo di suo padre. Se stava fumato, le ragazze gli sembravano più carine e interessanti di quanto non fossero. E pure la vita. Certi tipi che conosceva sniffavano eroina, e volle provare. Gli amici avevano obiettato che quella era roba forte, e costava. Antonio non li ascoltava. Il primo pippotto gli fece venire la nausea. Corse nel bagno del Popeye con i conati di vomito. Dopo pochi minuti quel nodo allo stomaco si sciolse e arrivò un piacere dolce. Un sonno ristoratore cosciente, senza sogni. Tabula rasa mentale. Cominciarono a tirare il sabato sera, poi la domenica. Si concedevano il pippotto del martedì e quello del venerdì, per propiziare il fine settimana. A breve, presero a sniffare anche 13


tre volte al giorno. Niente più nausea: era tutto godimento, pace, estasi. L’eroina, però, era diventata economicamente impegnativa. Antonio si era sputtanato tutti i soldi che aveva messo da parte per la vacanza estiva. I suoi erano entrambi impiegati statali, non poteva chiedere troppo; non senza incorrere nelle solite domande sui suoi programmi futuri, e nella noiosa tiritera del «Non possiamo mantenerti a vita». Alcuni si facevano in vena: con una quantità inferiore si otteneva un effetto uguale, se non più intenso. Certo, non era pratico. L’idea di infilarsi un ago nel braccio, con la paura che aveva delle iniezioni sin da bambino, non lo entusiasmava affatto. Col passar del tempo, però, il bisogno di pippare era sempre più impellente, e i soldi scarseggiavano. Si decise. Gli amici suoi, la prima volta, si erano fatti aiutare da qualcuno più esperto. Antonio volle bucarsi da solo, per sfida e per imparare. Versò il contenuto della fialetta nel cucchiaio su cui aveva posto la polverina bianca, attentissimo a non sprecarne neanche un granello. Scaldò con l’accendino; l’eroina si dissolse, aspirò con la siringa. Usò la cintura come laccio emostatico. Le sue vene si vedevano bene, erano grosse e prospicienti all’esterno sopra i muscoli, gli conferivano un aspetto molto virile. Infilò l’ago, l’area sotto il pistone si colorò di rosso scuro. Antonio spinse lentamente dentro. Arrivò un flash negli occhi e nella testa. Ogni angolo del suo corpo si scaldò e cominciò a vibrare veloce, per lunghissimi minuti. Dopo giunse la pace, quella che già conosceva. Farsi in vena era un godimento indescrivibile: mille volte meglio dell’orgasmo migliore. Si maledisse per non aver cominciato prima. Ma recuperò. Si faceva tutte le sere, con gli amici, anche se, dopo il flash, ognuno restava nel proprio 14


mondo magico. Quella consuetudine quotidiana, la routine che aveva sempre odiato, per la prima volta nella vita non lo infastidiva. Aspettava quel momento con ansia per tutto il giorno. Una sera successe qualcosa di strano. Simone si era fatto prima degli altri. Lo sballo tardava. Erano ormai così esperti da sapere quanto tempo dovesse passare prima di sentire il flash. Simone divenne livido in viso, cominciò a tremare prima, poi a sussultare. Gli amici si chinarono su di lui per cercare di fermarlo, ma i suoi scatti erano violenti, incontrollabili. Gli uscì dalla bocca una bava schiumosa e bianca. Antonio non si era ancora fatto. Erano dietro la chiesa di San Sebastiano. Ingranò la prima e corse all’impazzata lungo quei trecento metri che lo separavano dal Pronto Soccorso. Disse ai medici di averlo trovato in quello stato. – Fa uso di stupefacenti? – Non lo so... cioè... credo di sì. Antonio aveva pensato fosse overdose, ma l’infermiere gli spiegò che i sintomi di un’assunzione eccessiva di eroina erano ben diversi. Molto probabilmente, si trattava di droga tagliata con sostanze tossiche. – Dovete stare attenti, ragazzi! – L’uomo aveva un’espressione seria, tradita dal volto dolce. – Grazie delle spiegazioni, sì, ma io... non mi faccio. Cioè solo qualche canna, ogni tanto, in compagnia, ma lo riferirò a Simone, non appena si... riprenderà. Perché si riprenderà, vero? – Sì, si riprenderà, meno male che c’eri tu, che eri lucido. A volte questi ragazzi muoiono perché i loro amici sono in stato di semi-incoscienza e non si accorgono del pericolo. Quando tornano in sé, trovano accanto il loro amico senza vita. È già successo. Ad ogni modo, io spero che Simone de15


cida di uscire dalla droga. Ha rischiato di morire, deve la vita a te. È questo che devi riferirgli! Antonio lasciò le stanze del Pronto Soccorso, rimuginando: se anche lui si fosse già bucato, Simone sarebbe morto. Dove cazzo aveva preso quella roba di merda? Simone l’aveva comprata a Lecce, perché costava meno che a Galatina. Al momento di preparare la siringa, la polverina bianca era risultata più refrattaria a sciogliersi nell’acqua distillata. Simone aveva aggiunto qualche goccia di succo di limone, seguendo i suggerimenti di chi gliel’aveva venduta. – È roba bruciata – spiegò Gaetano, un ragazzo qualche anno più grande di loro – A volte ci mettono anche farina o borotalco, quei bastardi. Se ne fottono, perché a Lecce chi spaccia non si fa. E ogni tanto qualcuno dae l’anima a Diu 4. Noi la prendevamo da Brindisi o da Fasano, che è migliore. Ma adesso Mirella, hai capito chi?, quella che studia a Bari, ci ha detto che in città ti danno una dose a ventimila lire. E non è tagliata, è bona propriu. Ci facevamo scendere un po’ di roba da lei, ma siccome non torna tutti i giorni, a volte andiamo noi. Se vi interessa fatemi sapere. L’appuntamento quotidiano era in piazza San Pietro alle due di pomeriggio. I ragazzi più grandi, che disponevano dell’auto, raccoglievano i desiderata e partivano alla volta di Bari, quartiere Japigia. Pagavano, si rifornivano, tornavano indietro: tre ore o poco più. Già verso le cinque si radunavano i primi membri del gruppo d’acquisto, in ansiosa attesa. Era un servizio che avevano cominciato a fare i giovani patentati di famiglie meno abbienti per i borghesi. Andando a Bari con un ordine ragguardevole, riuscivano a spuntare un 4

Rende l’anima a Dio [muore].

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buon prezzo, e dosi in più da trattenere per sé. In seguito, la voce si era sparsa. Tutti i tossici di Galatina, dai disgraziati che scippavano le catenine alle vecchie, ai ricchi che vivevano nelle ville del centro storico con gli stemmi nobiliari, andavano all’appuntamento delle due con la lista della spesa e i contanti per il pagamento. Il nuovo canale di distribuzione funzionò alla grande, fino a quando la notizia giunse ai mafiosi locali. Non la presero bene. In primis diedero una lezione memorabile ai corrieri di turno. Un pomeriggio, i due ragazzi di ritorno da Bari furono fermati sulla via di Lecce e pestati a sangue. Poco dopo, la malavita tutelò il proprio mercato, abbassando il prezzo di vendita dell’eroina anche a Galatina. Nonostante il pericolo delle mazzate, qualcuno continuava a rifornirsi a Bari. I palati più raffinati notavano anche piccole differenze: la roba di Bari era pura, l’effetto durava a lungo. Antonio chiedeva in prestito al padre la Fiat Tipo, un paio di pomeriggi a settimana. Nel quartiere Japigia compravano un quantitativo di eroina che sarebbe bastato per qualche giorno. Avendola a disposizione, però, si facevano più spesso e alla fine rimanevano senza, vanificando l’impresa e il risparmio. Antonio se ne fregava; i problemi li avrebbe affrontati man mano che si fossero presentati. Il primo fu insignificante. La tipa con cui si era strusciato i primi anni delle superiori – ne ricordava a malapena il nome – venne a sapere del suo vizietto e corse a fargli la predica: i rischi della tossicodipendenza, le malattie e blabla. Aveva studiato. Con tono accorato, al limite del patetico, concluse: – Antonio, ma cosa ti manca? Sei bello, intelligente, pieno d’iniziativa! Perché stai rinunciando alla vita? Antonio si fermò un attimo a riflettere. La guardò. Se la 17


ricordava nuda e accaldata, con quelle gambe lunghe e la vita stretta. Anche lei era bella e intelligente. Molto brava a scuola. Disegnava bene, lo dicevano anche i professori. Gli aveva regalato dei carboncini di nudi femminili, che raffiguravano lei stessa, forse; doveva averli ancora, da qualche parte. A quattordici anni la ragazza diceva di voler diventare una pittrice, ora faceva la commessa in un negozio di abbigliamento. Dieci ore, tutti i giorni. Anche di domenica, nei periodi dei saldi e a Natale. Per quanto? Quattrocentomila lire al mese, forse cinquecento. Non aveva più tempo per disegnare. Si era fidanzata con uno di Lecce, un laureato in fisica che lavorava come assistente per il suo professore. Antonio l’aveva visto: bassino, esile, con la schiena curva e le spalle rivoltate in avanti. Un viso da topo, i capelli corti con la scrima da una parte, e gli occhiali spessi. Certo un buon partito: così giovane e già con un lavoro stabile. Se li immaginava scopare, ma scacciava il pensiero, disgustato. Lei con la pelle bianca e i capelli profumati, e quel rospo immondo. La fissò ancora, voluttuosamente, e le rispose: – Sto rinunciando alla vita perché l’eroina è più interessante. Dovresti provarci anche tu... La ragazza scosse il capo e se ne andò, lasciandolo con un sorriso beffardo stampato sul viso. Non finì lì. Sabrina tornò a casa di Antonio ancora un paio di volte, durante la pausa del turno al negozio, a ripetere la solita solfa sulla droga. Lui non l’ascoltava, si domandava perché non lo lasciasse in pace. Un giorno, osservando i suoi occhi infiammati, le gote rosse su quella pelle candida, l’abitino corto e aderente, capì cosa Sabrina volesse da lui. In silenzio si avvicinò. La voltò di spalle, le fece poggiare le braccia sulla scrivania, le sollevò il vestito, mentre lei docil18


mente lo assecondava. Antonio si slacciò i jeans. Era eccitato, ma notò che la sua erezione non era vigorosa. Forse perché era passato molto tempo dall’ultima volta? La penetrò. A ogni spinta Antonio sentiva il suo sesso riprendere forza. Ascoltava i gemiti di Sabrina, sempre più acuti. Anche il suo respiro diventò veloce, fragoroso. L’orgasmo stava per arrivare. Sabrina, con la voce rotta dal piacere, gli chiese di spostarsi. Antonio uscì dal suo ventre e le fece colare sulla schiena quel liquido caldo dall’odore pungente. Sabrina tornava da lui tutti i giorni, dopo la pausa pranzo. Lo trovava solo in casa, i suoi genitori lavoravano fino alle cinque. Facevano l’amore in cameretta, come quando erano quattordicenni. Per Sabrina era stato il primo fidanzato, poi Antonio l’aveva lasciata, e lei non se l’era mai scordato. Moro, alto, possente: Sabrina si sentiva protetta tra le braccia di Antonio, lei così esile, indifesa. Non le importava niente che si bucasse, bastava solo che non la lasciasse di nuovo. Certi giorni Antonio non riusciva a raggiungere l’erezione. Allora spogliava Sabrina lentamente, la faceva distendere, le chiedeva di toccarsi. Lui restava in piedi accanto al letto, guardava l’espressione del suo viso contrarsi, seguiva con le dita l’arco della schiena e il suo corpo tutto, mentre vibrava per l’orgasmo. Le carezzava la pelle bianca, delicatissima, si avvicinava a baciarle le labbra piccole e rosa, dischiuse. Quella ragazza gli piaceva davvero, perché mai l’aveva lasciata? Antonio aveva ritrovato i suoi disegni. Quei nudi in chiaroscuro di cinque anni prima, in cui si era autoritratta. Adesso Sabrina era più bella. – Stai ancora cu dhru sorice?5 5

Con quel sorcio?

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– Non lo chiamare così... Sì, ma non ci faccio niente. – rispose Sabrina, rivestendosi in fretta. – E allora perché non lo lasci? Ti dà soldi? – Ma che dici?! – Allora lascialo. Ma non ti fa schifo? – Scusa Antonio, non avevi detto che tra noi non c’è niente di serio? Che è solo sesso? – puntualizzò Sabrina. – Ho cambiato idea. Tu sei mia. Sabrina lasciò l’assistente di fisica. Quando non lavorava, stava con il suo ragazzo. Tutte le notti lo vedeva prepararsi la siringa, ma distoglieva lo sguardo quando Antonio si bucava il braccio. Restava distesa sul suo petto, in silenzio, per tutta la durata dell’effetto della droga. La odiava, perché per ore portava il suo amore lontano da lei, chissà dove. Accettava l’eroina perché faceva parte di Antonio, e Sabrina amava tutto di lui. Una notte, dopo aver fatto l’amore in auto, disse decisa: – Voglio farmi anch’io. – Ah, sì? Dammi quarantamila lire, allora. Sabrina aprì la borsetta e mise le banconote sul cruscotto. Pensò che dovessero dividere tutto. Ed era gelosa dell’eroina, che il suo uomo provasse piacere senza di lei. Immaginò che sarebbe stato come avere l’orgasmo insieme, quella sensazione di condivisione massima. Antonio bucò il braccio bianco e delicato della sua ragazza, che aveva voltato la testa per non guardare. Infilò l’ago con cautela, schiacciò il pistone molto lentamente per non farle sentire dolore. Disinfettò il buco con la sua saliva, poi preparò un’altra dose e con la stessa siringa si fece anche lui. Sabrina provò il flash che le paralizzò i pensieri, mentre il corpo volava sopra di lei. Sentì una forza che la spingeva in alto. Poi, la pace. Si sistemò col 20


capo sul torace forte del suo uomo, come faceva tutte le notti, e restò così a godersi la coda del suo primo buco. Da quel giorno condivisero tutto. L’amore, il sesso, i soldi, la droga. Sabrina sentiva ogni volta molto energica la scarica dell’eroina; forse la dose normale era troppo per lei, così magra e pallida. Gli effetti del buco le duravano per tutta la giornata. Si sentiva debole, assonnata, al lavoro non smetteva mai di sbadigliare. Le colleghe la prendevano in giro, le dicevano che da quando aveva cambiato fidanzato, evidentemente non dormiva più. Le strizzavano l’occhio: non potevano certo darle torto, visto il salto di qualità. Lei sorrideva sempre, era orgogliosa del suo bell’Antonio. Ma non si sentiva bene. E per la verità facevano l’amore molto meno: lui non si eccitava e anche lei era più stanca. Ma non importava, stavano insieme e Sabrina era felice. D’estate, Antonio l’andava a prendere all’una, quando chiudeva il negozio, e la portava al mare. Si stendevano all’ombra, sul tappeto di aghi di pino di Porto Selvaggio, ipnotizzati dal canto delle cicale, baciandosi di tanto in tanto, accarezzandosi sotto i vestiti. Sabrina era innamorata perdutamente. Anche Antonio si sentiva coinvolto. Quella sirena delicata gli aveva fatto un incantesimo: calmava la sua inquietudine, addolciva il suo cinismo. Quando Sabrina era al lavoro, Antonio sentiva un languore nella pancia. La desiderava sempre accanto, anche senza guardarsi, in silenzio. Come in quel momento, in pineta, respirando l’odore della resina mischiato al profumo dolce della sua pelle. Quel pomeriggio di luglio avevano fatto l’amore. Sabrina aveva danzato piano su di lui. Con gli occhi fissi sul suo ragazzo a percepirne le sensazioni tramite l’espressione del volto, regolando la velocità dei fianchi sul ritmo del respiro di Anto21


nio. L’orgasmo arrivò per entrambi, gemettero insieme. «Ti amo», sospirò. «Ti amo», ripetè Antonio. Sabrina lacrimava, per la pienezza del piacere e per l’emozione di quelle due parole sussurrate per la prima volta. Rimasero abbracciati in silenzio, poi Antonio preparò la spada. Come ogni volta, baciò delicatamente il punto dell’avambraccio di Sabrina da cui, quando estraeva l’ago, zampillava qualche goccia rosso chiaro. Si fece senza sciacquare la siringa, gli piaceva l’idea di iniettarsi l’eroina mischiata al sangue della sua donna. Unione di due passioni. Cullati dal piacere e dal canto delle cicale, si addormentarono. Al risveglio, Sabrina guardò l’orologio. Erano le cinque: tardissimo, al negozio si sarebbero infuriati. Scosse Antonio per svegliarlo, ma il ragazzo non reagiva. Esitò un attimo, poi lo scosse più forte, e ancora più forte. Le lacrime le annebbiarono la vista. Si chinò su di lui, l’orecchio sul petto. Non era possibile. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Ripeteva il suo nome tra i singhiozzi. Doveva chiedere aiuto, ma era un giorno feriale: la baia era deserta. Si rivestì alla meglio e cominciò a correre in salita, nella pineta. I sassi le ferivano i piedi, gli arbusti le scorticavano le gambe. Nessun dolore. Sabrina non sentiva che il suo cuore sussultare all’impazzata. Respirava a bocca aperta e non fermava la sua corsa. Arrivò in strada. Si guardò intorno. Solo la macchina di Antonio sullo sterrato. Le case dei villeggianti erano a Santa Caterina, troppo lontane. La discoteca ancora chiusa. Nessuno. Si era messa in mezzo alla carreggiata per bloccare le poche auto di passaggio. Gli automobilisti avevano suonato furiosamente. L’avevano evitata senza fermarsi. Tornò indietro. In pineta, ancora di corsa. Era pentita. Non avrebbe dovuto lasciarlo solo tutto quel tempo. Si di22


stese accanto a lui, il viso sul petto di Antonio, in quella posizione che le era tanto cara. Pensò che sarebbe morta, che sarebbero morti insieme. Quell’idea la rasserenò. Respirò profondamente e si addormentò di nuovo abbracciata al suo amore.

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Galatina Rock City di Alessandra Avantaggiato

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, Galatina non è davvero un paese per giovani. Del tutto inconsapevole del boom che di lì a poco farà del Salento una cartolina patinata per turisti, questo piccolo paradiso di periferia è tutto preso dallo sforzo di darsi una lucidata di rispettabilità, rinnegando a ogni costo il proprio scomodo, povero passato contadino. Così si finisce per perdere la propria anima; o così la pensa Antonio – uno come tanti, senz’arte né parte, insofferente alla prospettiva di conformarsi al giudizio della gente, con l’idea vaga che la vita sia altrove. «Galatina significava un lavoro comune, una vita anonima. Dal lunedì al venerdì in ufficio, i giorni dispari in palestra. Il sabato e la domenica con gli amici, pizza o cinema. Magari trovi una bella ragazza che ti fa scopare, in cambio la devi accompagnare a far spese in periodo di saldi. Dopo qualche anno lei vuole sposarsi in chiesa, l’accontenti. Una domenica sì e una no vai a pranzo dai suoceri. Arrivano i figli, ti svegli la notte, gli cambi il pannolino quando si cacano addosso. Crescono, spendi i soldi per la piscina e per i libri. Diventi vecchio, non vedi l’ora di andare in pensione per goderti la vita, e poi… poi niente, poi muori.»

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È fra i ragazzi come lui che l’eroina s’insinua seducente, e poi prende potere e presto imperversa e miete vittime, come una piaga biblica: un disastro di proporzioni tali da disgregare il tessuto sociale di una generazione. Dapprima è solo la curiosità, una piccola trasgressione, il diversivo consigliato da amici più scafati. Al primo incontro si rivela un’amante irresistibile, capace di procurare piaceri solo sognati: «mille volte meglio dell’orgasmo migliore». Ben prima che uno se ne renda conto, la roba è diventata un bisogno insopprimibile, una tiranna impellente cui si è pronti a sacrificare ogni cosa; chiodo fisso e liberazione, dannazione e medicina, buco e rota. Per lei si accettano i lavoretti più disparati, si elemosinano prestiti ai conoscenti, si rivendono per poche lire le catenine d’oro di mamma; presto si è solo ruote di un ingranaggio criminale, disposti alla rapina, allo spaccio, alla prostituzione, pronti a scendere ogni gradino dell’abiezione e della perdita di sé. L’eroina sceglie le sue vittime a caso e per capriccio, come una dea annoiata; con un certo debole per i giovani disoccupati, così privi d’ambizione, di prospettive. Si prende Gaetano, figlio di un parvenu, che paga al prezzo più alto la proterva miopia e l’ansia di riscatto sociale del padre; e anche il figlio del primario – il bell’Alessandro, inafferrabile e brillante, di eleganza impeccabile, preoccupato solo di godersi la vita. Si prende Gigi-dagli-occhi-blu, il figlio del meccanico, sempre pronto a menar le mani e innamorare le ragazze; si prende Daniele e Marina e la felicità perduta di un’infanzia in campagna dai nonni, quando i genitori emigranti tornano dalla Svizzera con quattro soldi e un carico pesante d’ambizioni frustrate. 26


«Daniele si fece guidare dalla sorella: non più di una volta al giorno. Resistettero per diversi mesi, poi l’effetto dell’eroina cominciò a diminuire. Il flash arrivava dopo molto tempo, meno intenso. Non placava quel mal di testa molesto e il vuoto allo stomaco. Due volte al giorno. Non di più. Guglielmo aveva ripreso a bere e picchiare la moglie. Aveva provato a mettere le mani addosso a Marina. Daniele gli aveva spaccato un vaso in testa. Tre volte al giorno. Non di più. Si erano messi a spacciare tutti e due. Un modo per guadagnare e non pagare le dosi. Avevano preso una casa in affitto nel centro storico. Quattro volte al giorno.» E poi Mirella e Filippo e Bruno, protagonisti di altrettante discese agli inferi, quasi sempre con un biglietto di sola andata. C’è poi chi riesce a tirarsi fuori, magari dopo aver incontrato la morte a quattr’occhi, o averle consegnato un pezzo della propria anima; c’è chi riesce a vincere il drago, accettando con dolore e fatica e immane sforzo di volontà il calvario della disintossicazione. Chi si rifà una vita, un giorno alla volta, ricostruendo sulle macerie. Salvo poi, magari a distanza di anni, scoprirsi sieropositivo o malato di Aids, e finire i propri giorni in un reparto arrangiato alla meno peggio nel seminterrato dell’ospedale, nella vana attesa che il moderno attrezzatissimo padiglione degli Infettivi, costruito con i fondi della Cassa del Mezzogiorno e pronto da anni, sia liberato dalle pastoie degli intoppi burocratici e finalmente reso operativo. A tessere le fila del racconto è Cristina, narratore tutt’altro che onnisciente, che nella Galatina di quegli anni bruciati 27


vive il suo personale, doloroso e delicatissimo romanzo di formazione. Il contesto s’insinua gradualmente nella sua vita ordinata e ordinaria di diligente liceale di provincia: nei piccoli drammi dei litigi con i suoi per spuntare una mezz’ora sull’orario di rientro, nelle giornate divise fra i compiti e le chiacchierate interminabili con le amiche, a favoleggiare di amori che nascono e muoiono nello spazio di un pomeriggio, in cameretta. La realtà brutale del dilagare della tossicodipendenza e del contagio da Hiv si svela per gradi agli occhi di Cristina, segnando le tappe di un percorso che è insieme dolorosa perdita dell’innocenza e consapevole conquista d’identità: «Avrei preferito crescere in una vita e non in una notte». Carpita dapprima nei discorsi degli adulti, indagata con il desiderio di una conoscenza scevra di pregiudizi, affrontata con determinazione e impegno quando Cristina deciderà di prestare la sua opera di volontaria presso il centro Athena, l’eroina arriverà infine a infliggere ai suoi pochi anni il morso di una lacerazione insanabile: «Mi venne in mente un intagliatore di legno: con lo scalpellino scalfisce la materia e crea una forma. Scoprii che la vita è un susseguirsi di fratture, profonde e superficiali, che imprimono negli uomini la sagoma della loro anima. L’anima che affiora all’esterno, in una ruga, nella luce che si accende negli occhi, come un frammento divino.»

Distante anni luce, il mondo dei ‘grandi’, dei ‘sani’ («Sapete che vuol dire sanu sanu a Galatina, no?», scherza Lele). Quelli che non si sentono chiamati in causa perché l’Aids è la malattia dei drogati, che si credono al sicuro chiedendo al bar

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i bicchieri usa e getta; che si esprimono con i figli a suon di divieti e interdizioni, convinti che a proteggerli basti la lontananza forzata dai luoghi dello spaccio e dalle compagnie equivoche. C’è tutta la questione generazionale degli anni Novanta in questi genitori che si affannano per offrire “tutto” ai propri figli, che a costo di sacrifici regalano jeans firmati e pagano studi universitari, finendo però per far mancare l’essenziale di un dialogo aperto all’ascolto del bisogno, di una comunicazione affettiva autentica ed efficace. Poche le eccezioni: i genitori di Gabriele, aperti e socievoli, che con gran meraviglia di Cristina s’interessano delle opinioni dei ragazzi e ne incoraggiano le inclinazioni artistiche; una professoressa di scienze coraggiosa, che osa parlare in classe dell’Hiv, incorrendo nella protesta indignata dei genitori e nelle sanzioni disciplinari della preside. È un dramma che ha il sapore acre del fallimento, quello degli adulti che non sanno o non vogliono vedere i segni premonitori del disagio e della caduta: gli ultimi a sapere, costretti brutalmente ad aprire gli occhi quand’è ormai troppo tardi, quando il nome di un figlio o di un nipote finisce sulle locandine affisse fuori dall’edicola. Ma non c’è solo il drago, in quest’intensa lirica violenta favola rock. Ci sono gli angeli: qualcuno, come nelle chine di Guy Denning, ha le ali lacerate nella caduta, il volto scavato e un velo di tristezza sugli occhi. Figure di donne che amano e curano e donano la vita, come la madonna terrena Idrusa, o l’artista Sabrina, che trova ragione di vita nel figlio che porta il nome del suo amore perduto; uomini di Chiesa illuminati – su tutti, l’esempio fulgido di don Tonino Bello – che conducono battaglie sociali e civili al fianco di associazioni di laici, perlopiù atei e aspramente critici rispetto ai valori tradizionali. 29


E ci sono i cavalieri, con qualche macchia sull’armatura provata da terribili fendenti, e la perenne paura di (ri)cadere: umanissimi cavalieri in bilico fra l’attivismo entusiasta e i cupi attacchi di scoramento, la speranza impavida e un senso di solitudine inconsolabile. Quelli del centro Athena, Lele e Luciana su tutti: la generazione che ha vissuto il ’77, l’ultima ad aver creduto nella rivoluzione; ragazzi per cui – nonostante le ferite insanabili del corpo e dell’anima, e il peso ineluttabile di un passato che torna a ri-mordere – la parola “impegno” ha ancora un senso. E ancora, in Salento rock c’è il coraggio disperato di legami che sfidano la malattia e la morte, il sostegno di amicizie che resistono inossidabili alle intemperie e ai disinganni, il languore struggente dei primi amori, quelli per cui Ti-amo è troppo poco, quelli del Morirei-per-te. Perché, con le parole dell’autrice, «non è la droga la protagonista di questo romanzo. Sono i giovani di vent’anni fa. Due generazioni di ragazzi che si muovono in un Salento in cui arcaico e moderno sono ancora strettamente intrecciati, pur negandosi l’un l’altro. Gli stessi disagi, reazioni e destini diversi. Il punk rock e il grunge. La passione e il disimpegno. Le regole e la trasgressione. La siringa e la chitarra, o tutte e due. Un passato troppo recente per essere dimenticato».

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Nota dell’autore

L’eroina arrivò nel Salento verso la fine degli anni Settanta, così raccontano i testimoni e scrivono i giornali. Importata, anche dall’estero: da studenti e lavoratori fuori sede, da spacciatori alla ricerca di un mercato vergine. Rappresentava un business sicuro. L’oppiaceo provoca un piacere molto intenso, induce in breve tempo dipendenza fisica e psichica, e tolleranza: è necessario aumentare progressivamente la dose per ottenere lo stesso effetto. I primi clienti furono selezionati con attenzione. I giovani che già usavano droghe leggere sarebbero stati più propensi a provare la novità, inconsapevoli dei rischi. In meno di vent’anni, la tossicodipendenza attecchì e si consolidò come piaga sociale in tutto il Salento. Secondo le stime dei Sert, nel 1998 tutta la provincia di Lecce contava venticinquemila eroinomani, di cui quattromila assistiti per la disintossicazione. Un articolo de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 25 Aprile 1998 confronta i dati raccolti dalle strutture sanitarie pubbliche: i tossicodipendenti sono censiti per paese, età, titolo di studio, sieropositività. Un dato balza all’occhio: il 60% è senza lavoro. L’anello debole della catena e il target prediletto degli spacciatori: i disoccupati, categoria ben rappresentata in Salento. Galatina fu un esempio emblematico: l’eroina imperversava tra i giovani di differenti fasce culturali e sociali, figli di 31


borghesi e di contadini. Nel 1991 circa quattrocento tossicodipendenti erano seguiti dal Sert per la disintossicazione. Ma non tutti si rivolgevano alle strutture pubbliche, e certi neanche ci pensavano a disintossicarsi. Occorre quindi considerare il sommerso. Secondo stime riportate da «La Gazzetta del Mezzogiorno», il numero di giovani tossicodipendenti a Galatina era superiore a ottocento. Il 95% dei quali aveva tra venti e trentanove anni. Considerando il numero di abitanti del paese, e la fascia d’età dei consumatori, stimata pari al 24% della popolazione totale, si può facilmente calcolare che la percentuale di drogati nel 1991 era almeno l’11,5%. Cioè, su dieci giovani tra i venti e i quarant’anni che si incontravano per le strade del paese, almeno uno consumava eroina. Negli anni Novanta, Galatina divenne una delle piazze più importanti per lo spaccio. Non fu scelta a caso. Posizione centrale nella penisola salentina, ventinovemila abitanti, scambi commerciali e culturali: una cittadina ricca e frequentata da giovani. Piena di potenziali clienti, in grado di pagare. L’iter era sempre lo stesso. Dosi a basso costo fino all’insorgere della dipendenza. Tra gli stessi drogati, la malavita locale reclutava spacciatori. Per i ragazzi era conveniente: avevano un giro di amici a cui proporre la roba e potevano farsi gratis. Molti di loro son finiti in galera. Le persone più esposte e a rischio di arresto, infatti, erano le stesse vittime: chi dirigeva le fila del commercio restava nascosto, al sicuro. I morti. Troppi. Undici giovani galatinesi uccisi da overdose fino al 1989. Almeno otto suicidi e un omicidio correlati con l’abuso di eroina. Poi arrivò l’AIDS. Ventisei giovani vittime di HIV tra il 1987 e il 1993. Dieci solo nel 1995. Duecento sieropositivi in cura presso il reparto infettivi dell’Ospedale 32


“Santa Caterina Novella” alla fine del 1994. Un’intera generazione spazzata via dall’eroina. Anni di lacerazioni, ma anche di rabbia, di lotte, condivisione, partecipazione. Giovani, della stessa età di quelli che stavano sbriciolando la loro vita nella droga, combattevano per svegliare l’opinione pubblica ipocrita, per sollecitare le istituzioni, per salvare i loro coetanei più fragili. Per salvarsi. Anni di manifestazioni imponenti, di rivendicazioni. Di battaglie, come quella per l’apertura del nuovo reparto Infettivi, e le altre narrate nelle pagine di Salento Rock. Perché non è la droga la protagonista di questo romanzo. Sono i giovani di vent’anni fa. Due generazioni di ragazzi che si muovono in un Salento in cui arcaico e moderno sono ancora strettamente intrecciati, pur negandosi l’un l’altro. Gli stessi disagi, reazioni e destini diversi. Il punk rock e il grunge. La passione e il disimpegno. Le regole e la trasgressione. La siringa e la chitarra, o tutte e due. Un passato troppo recente per essere dimenticato.

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Appendice Dagli atti del Convegno “L’erba dalla parte delle radici – Esperienze di volontariato a confronto” Maglie, 6 Luglio 1992 Relazione del Centro di Interesse Giovanile

È veramente difficile trovare un’espressione che aiuti a rendere chiaro chi siamo, il perché delle strade percorse e di quelle che abbiamo ancora davanti a noi. Quell’espressione può essere rintracciata scartabellando nella nostra memoria storica, riportando alla mente uno striscione che apparve a Galatina sei o sette anni fa e che conteneva un invito disperato e rabbioso: “Deludi chi ti vuole drogato”. Ecco, forse qui c’è la chiave di tutto, c’è l’essenza stessa del movimento... c’è la rabbia, la disperazione e anche la volontà di agire. Il Centro di Interesse Giovanile nasce proprio da questo e via via acquista sempre maggiore coscienza di quello che bisogna fare e dei metodi da adottare, che non possono essere legati a niente se non al dolore, alla sofferenza e all’emarginazione vissute da centinaia di ragazzi sulle nostre strade. Ecco perché non possiamo definirci un’associazione di volontariato tipo. Noi siamo operatori della strada, il nostro fare volontariato non è finalizzato soltanto all’aiuto di qualcuno; abbiamo la pretesa di essere il PROBLEMA ed al tempo stesso il progetto. Abbiamo cercato, se permettete, di stravolgere il concetto stesso di volontariato, non più il ritaglio di tempo da dedicare a un’associazione, per poi rientrare nella propria vita. Questo per noi vuol

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dire vivere le dinamiche, sentirsi anzi parte di esso, coinvolti nei suoi meccanismi. Riteniamo che in questo modo si possa capire più chiaramente il disagio che porta i giovani a drogarsi e soprattutto che si possa portare così un messaggio di solidarietà concreto. Come accennato all’inizio, all’incirca verso il 1986-87 il movimento cominciava il suo cammino. Obiettivo immediato, concreto: risvegliare le coscienze, coinvolgere la gente, far esplodere la rabbia per quelle siringhe che riempivano e riempiono ogni angolo di villa. Quello striscione, “Deludi chi ti vuole drogato”, è stato uno dei nostri primi atti e confessiamo che nessuno di noi aveva idea di dove ci avrebbe condotto, sapevamo solo che non volevamo essere più spettatori inerti dello sfacelo che ci circondava. Un anno dopo, era il 1988, nasce la manifestazione studentesca: ci sono tutti, il parroco, esponenti delle forze politiche locali, ma ci sono soprattutto tanti ragazzi che ritrovandosi sul sagrato della chiesa Matrice cominciano a farsi delle domande. Era questo ciò a cui avevamo puntato; certo per moltissimi è stato solo uno dei tanti modi per perdere un giorno di scuola, ma non per tutti, qualcuno, fosse anche uno solo, si sentiva partecipe, arrabbiato. Dopo questa, che fu la nostra prima esperienza di coinvolgimento, abbiamo assistito a un lento avvicinarsi a noi di gruppi di ragazzi, alcuni drogati, altri no. Un anno dopo, e precisamente nell’aprile del 1989, siamo ancora in piazza, anzi su entrambe le piazze galatinesi, per sensibilizzare ogni compagine sociale sul dilagare della droga. Tre giorni dopo, un ragazzo di 17 anni viene trovato assassinato in una contrada di campagna. In una perquisizione nella sua casa, in mezzo alle prove del suo stato di tossicodipendente e spacciatore si trovò un blocchetto per raccogliere sottoscrizioni per il Centro di Interesse Giovanile. Era uno di noi. Ci siamo sentiti inutili e impotenti!

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Chi bisogna vedere in un ragazzo di 17 anni: il tossico o lo spacciatore? Cosa fare? Privilegiare il tossicodipendente che chiede amore e comprensione o isolare lo spacciatore che comunque non intendiamo giustificare? A ciò pochi hanno saputo rispondere. Noi abbiamo scelto l’essere umano. Qualcuno potrà non capire, ma ci sembra questa una delle strade da seguire per uscire dagli schemi di una società perbenista e chiusa nel suo guscio ipocrita. È vero, noi abbiamo molta paura delle pallottole e della droga, ma abbiamo ancora più paura della vostra indifferenza. Quella indifferenza che in noi alimenta la rabbia. E questa rabbia ci ha portato a occupare il consiglio comunale per smuoverlo dalla sua non-presenza, per renderlo consapevole della distanza che lo separava da quella piazza dove i ragazzi galatinesi si facevano uccidere dalla droga. E poi, lo sciopero della fame, in villa attorno a una simbolica tenda ad aspettare che la gente ci chiedesse il perché di tanto darsi da fare. Il 1989 ha segnato momenti importantissimi per il movimento; uno di questi si concretizza in un’assemblea dei ragazzi del centro, parte la richiesta di utilizzare tutti gli spazi utili per analizzare e affrontare il disagio e l’emarginazione. Questa strada ci ha condotto verso l’occupazione e la pulizia di due campi da tennis situati nel Rione Italia (strada di Soleto). Ancora oggi i ragazzi di quel rione dormitorio vengono illuminati dai fari di quei campi, che sono diventati un luogo di sport e soprattutto di incontro. Ma già prende forma il progetto che ci ha accompagnato fino a questi ultimi tempi, “Il villaggio della Speranza”. Infatti, constatata l’inesistenza nella nostra zona di un qualsiasi supporto ai tossicodipendenti e alle loro famiglie, abbiamo elaborato la creazione di un Centro di accoglienza, là dove sorge in stato di totale abbandono l’ex Villaggio Azzurro. È stata entusiasmante l’elaborazione del progetto e la sua forza ci ha portato a superare ogni ostacolo e intoppo burocratico. Ab-

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biamo raccolto 2000 firme e in seguito all’approvazione popolare abbiamo inviato una petizione al Presidente della Repubblica, il quale ci ha risposto appoggiando la nostra iniziativa. Intanto comincia a muovere i primi passi la cooperativa da noi creata per il reinserimento dei ragazzi ex tossicodipendenti e per tentare di dare nel nostro piccolo una risposta al problema della disoccupazione giovanile. Ci si occupa di serigrafia e oggettistica, e anche la cooperativa diventa simbolo di qualcosa che cambia, che si muove. In concomitanza con il progetto si sente l’esigenza di un dialogo con le istituzioni pubbliche. Questo è un punto dolente e controverso della vita del Centro di Interesse Giovanile perché il tentativo è stata fatto, ma è fallito. Dopo una consulta comunale sulla condizione giovanile, che fa proprio il progetto del centro, si approva all’unanimità in sede di consiglio comunale una delibera che lasciava sperare in una sua possibile e rapida attuazione. Subito dopo, però, assistevamo a tentativi sempre più evidenti da parte dei vari partiti di strumentalizzazione e lottizzazione, di quello che doveva essere il progetto più avanzato per far fronte al disagio crescente. I soliti signori della politica, abituati a vivere in un mondo in cui si rende di uguale urgenza la morte di un ragazzo e un appaltino da destinare al miglior offerente, non hanno capito che il disagio non può essere lottizzato. Non hanno mai capito, i nostri amministratori, l’importanza di coniugare l’agire quotidiano con l’agire politico per affrontare le drammatiche emergenze che la realtà ci presenta. Analizzare i problemi, cercando di attuare quei progetti che ne avviino la soluzione, vuol dire essere in continuo coinvolgimento con la realtà di ogni giorno. Vuol dire, per un politico al passo con la storia, assumersi le responsabilità che il sociale pone sul suo cammino. L’accorgersi progressivamente di questa realtà ci ha portato ad

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allontanarci da un mondo che sicuramente non parlava il nostro linguaggio. Sempre sul progetto “Villaggio della Speranza” si accentrarono gli interessi di un gruppo di ipocriti intolleranti che, calpestando ogni dignità umana e cristiana, ebbero la stupidità di raccogliere 50 firme per notificare la loro repulsione ad avere come “vicini” i drogati. Gli argomenti portati da loro li conoscete tutti: sono i soliti argomenti intolleranti e razzisti inalberati ogniqualvolta qualcuno parla di solidarietà verso chi soffre. Inoltre, da successive indagini, saltò fuori che dietro a quei nomi si celavano e si celano speculatori che avevano posto gli occhi sul Villaggio Azzurro per offrirlo al migliore offerente. Non ci sono riusciti, non ci hanno venduto; il progetto è ancora lì ed è e sarà fino alla sua attuazione un faro per portare alla luce l’ipocrisia di quei politici che si lasciano scorrere la storia addosso, per guidare chi invece la vive ogni giorno nella coscienza e sulla propria pelle. In tutti i nostri progetti, la Chiesa ha assunto un atteggiamento poco chiaro. Mentre ha espresso con coraggio e determinazione la sua solidarietà verso il disagio giovanile, attraverso la voce del nostro vescovo Vincenzo Franco e dei frati francescani della parrocchia di Santa Caterina, per il resto siamo stati osteggiati, per non dire sbattuti fuori dalle chiese. Forse questi uomini di Chiesa pensano che basti qualche don Picchi o qualche don Gelmini a ripulire i nostri oratori, le nostre strade e quel che è peggio, le loro coscienze; la Chiesa è e deve restare un’opera d’arte o, se non è bella esteticamente, che almeno sia un monumento al perbenismo! Questa sembra essere la filosofia di questi signori. C’è un solo modo per affrontare il disagio: uscire fuori dalle chiese e dalle sezioni e non attenderlo nelle proprie sedi; perché l’emergenza droga non rispetta né i tempi degli uomini di Chiesa né quella degli uomini di partito. Sarebbe quindi auspicabile il coinvolgimento di tutte le forze sociali.

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Non possiamo dimenticare il segno di apertura in tal senso dimostrato da tutte le associazioni presenti sul nostro territorio, in occasione dell’ultima manifestazione del 22 Dicembre. Il grande protagonista di quella giornata fu Gandhi, il suo messaggio sempre vivo e attuale è stato lo sfondo su cui inserire la nostra gioia di vivere. Eravamo in tanti in piazza, presi per mano a testimoniare la nostra volontà di protesta contro la droga e i suoi mercanti. Ma quelle mani unite volevano portare la solidarietà fino agli emarginati più reietti: i malati di AIDS del reparto Infettivi dell’ospedale “Santa Caterina Novella”. La piazza era tappezzata di cartelloni con l’immagine dell’apostolo della non violenza, con una miriade di pensieri tratti dalla sua opera. Anche in questa occasione l’arcivescovo era lì con noi a testimoniare anche lui la priorità della vita sulla morte, a protestare contro l’indifferenza e l’egoismo. Nella notte qualcuno incendiò la casa del volontariato, una baracca in legno montata al centro della piazza che era servita per raccogliere adesioni e offerte per la lotta alla droga e a qualsiasi emarginazione che avvilisca la dignità umana. Noi del Centro avemmo solo un attimo di sconforto e riflessione, per ripartire subito sicuri di aver fatto bene. Come Gandhi, siamo convinti che l’intolleranza non si vince in un giorno e siamo certi che con la solidarietà si può cambiare il mondo. E sempre avanti così, senza mai perdere la voglia di proporre e lottare per una migliore qualità della vita. Arriviamo ai nostri giorni ed ecco un altro tratto di strada da percorrere insieme, con la voglia di ognuno di esprimersi e di apportare la propria originalità e fantasia al servizio degli altri. Nasce e si concretizza il centro polivalente “Giovani in Campo”, che da piccolo spazio polveroso e vuoto è diventato un modo nuovo e originale di coinvolgere i giovani, di portarli appunto “in campo”, protagonisti assoluti della scena. In questo centro i ragazzi avranno la possibilità di confrontare le proprie esperienze e di assimilarne di nuove, di strappare uno

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spazio alla quotidianità. Qualcuno ha scritto che lo slogan “Giovani in campo” apparterrà alla «Galatina che è giovane, che soffre e piange, che lotta e a volte vince e a volte perde», ma in fondo noi vogliamo che appartenga proprio a tutti. Offre il suo spazio soprattutto a quelli a cui sembra non importare niente di quello che avviene intorno a loro. Per tutto questo, noi sentiamo più forte che mai il bisogno di non arrenderci, di continuare ad abbattere i recinti entro cui vogliono costringere la nostra fantasia e la nostra creatività. Ecco, ancora una volta siamo pronti a deludere tutti coloro che ci vogliono sconfitti, calpestati, drogati o rincoglioniti! E ce la faremo! La nostra forza è nel realismo che è possibile trovare in ogni utopia. Non so se avete notato, ma sinora abbiamo accuratamente evitato di parlarvi del perché uno si droga e del perché bla bla bla. Sarebbe troppo facile. Sulla condizione giovanile si è parlato e si parla ancora molto, forse troppo, fino al punto di fare di noi giovani un problema, un problema a tutti i costi, un problema di subalternità, nel senso che giovane è sinonimo di materia da plasmare, elemento da salvare. Non che non ci sia paura nell’essere giovane, ma noi pensiamo, e lo abbiamo dimostrato anche con i fatti, che si può essere risorsa e non problema. Chi pensa il contrario vuole strumentalizzare, ricattare o più chiaramente mercificare. Non ci possiamo esimere comunque dal fare un esempio di conduzione al disagio. Non per sfruttare il momento di popolarità della parola corruzione, ma per fare una denuncia verso le famiglie e verso noi stessi, sentiamo di dover gridare a tutti i giovani e alle famiglie di rigettare quella cultura dell’asservimento delle coscienze, comunemente chiamata clientelismo o raccomandazione. Questo meccanismo non è altro che un rapporto tra corruttori e corrotti. Chi, come noi giovani spesso facciamo, va a chiedere una raccomandazione è un corruttore e chi favorisce qualcuno è un corrotto! Tutto ciò non fa altro che svilire la nostra iniziativa, rassegnare, sconfiggere, svuotare. E

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dove c’è il vuoto cresce il disagio, e dove c’è il disagio c’è l’eroina. Chiediamo scusa per il nostro linguaggio forse un po’ gergale, ma ci troviamo un po’ a disagio in questi incontri, il più delle volte servono solo ad appuntare medagliette sul petto di qualche politico; e poi crediamo poco alle risposte che possono dare le parole. Siamo qui solo perché speriamo di essere riusciti a dare il nostro piccolo contributo alla comprensione del complesso mondo giovanile a persone che quotidianamente vivono a contatto con i giovani.

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Fonti

Per il Salento: «La Gazzetta del Mezzogiorno» e «Il Quotidiano di Lecce» (articoli vari: periodo 1980-1999). Antonio Liguori, Duemila e dintorni. Pagine di cronaca galatinese, 1992-2005, Panico, Galatina 2005. Antonio Bello, Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007. Atti del Convegno “L’erba dalla parte delle radici – Esperienze di volontariato a confronto” Maglie 6 Luglio 1992, Regione Puglia Assessorato alla Pubblica Istruzione. Realizzazione Gioffreda Maglie.

Per l’AIDS: «Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità» (Aggiornamento delle nuove infezioni da HIV e dei nuovi casi di AIDS in Italia), volume 26 n. 9, supplemento 1, 2013. Rosalba Baldini, Scintilla AT20. Il buio dell’AIDS. La scoperta di Arnaldo Caruso, Falco Editore, Cosenza 2014. Enzo Biagi, Il sole malato. Viaggio nella paura dell’AIDS, Mondadori, Milano 1987. Fiorentini S., Giagulli C., Caccuri F., Magiera A.K., Caruso A., HIV1 matrix protein p17: a candidate antigen for therapeutic vaccines against AIDS, in «Pharmacology & Therapeutics», volume 128 n. 3, 2010. Janeway C.A., Travers P., Immunobiologia, Piccin Editrice, Padova 1994.

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Per il 1977 e Roma: Sébastien Croquet, Il Settantasette. Le componenti politiche del Movimento in «la Repubblica: storia d’Italia dal ’45 ad oggi», http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblica77e.htm. Luigi Cancrini, Figli invisibili nella conflittualità familiare, http://www.dipendenze-emmanuel.org/wp-content/uploads/2014/11/Figli-invisibili-nella-conflittualita-familiare.pdf

Citazioni: Andrea Pazienza, Gli ultimi giorni di Pompeo, Fandango, Roma 2011. Pier Vittorio Tondelli, Camere Separate, Bompiani, Torino 2014. Fabio Genovesi, Chi manda le onde, Mondadori, Milano 2015. Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi, Torino 2009. Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Mondadori, Milano 2008.

Documentari: L’ala creativa. La luna e il dito, Bologna 1977, Rai Storia. La droga dietro l’angolo, réportage di Giuseppe Marazzo, Rai Storia. Dossier 56, Speciale 1977, Teleroma 56. Oltre le solite Storie. Fatti & Parole di Mario Monsellato. Movimento 77 di Alberto Berlini.

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Ringrazio

Tutti coloro che mi hanno aiutato a rintracciare testimoni, raccontato i loro ricordi e fornito materiale per la ricerca: Fabio Bianco, Tommaso Moscara, Piero De Matteis, Rossano Marra, Apollonio Tundo, Fabrizio Renna, Raffaele Longo, Raffaele Guido, Augusto Fachechi, mia madre, Massimiliano Martines, Gianni Finocchietti, Albino. Tra questi, un ringraziamento speciale per l’affetto e il tempo che mi hanno dedicato, a Enzo Del Coco e Luciana Masciullo, nuovi amici. Brunella Luzi e Bruno Bruni Ercole, i miei primi lettori. Carmen Mariano, Enrica Mariano e Andrea Cavallo per le consulenze professionali. Armando Serafini per i consigli musicali e il romanesco. Eliana Papa, Giovanna Vizzari e Simone Coluccia, per le traduzioni nei dialetti che non conosco. Fulvio Colucci che mi ha insegnato ad addomesticare le parole. Davide Potente, per i suggerimenti (compresi quelli inconsapevoli). Giovanni Chiriatti, per aver creduto nel progetto, sin dall’inizio. Luigi Chiriatti, per aver apprezzato il lavoro di ricerca, e per la telefonata piena di entusiasmo dopo la lettura del manoscritto. Alessandra Avantaggiato, per l’accurato lavoro di redazione, svolto nottetempo, ma soprattutto per l’empatia con la storia e con l’autrice. Dario Tommasi, ché una copertina più giusta non era possibile. Gemma Azuni, per la disponibilità e l’interesse. Lara Piffari, sempre presente, per le telefonate interminabili, alternando consigli professionali e supporto psicologico. Umberto Papadia, perché la sua canzone Gabriele suona ancora è 45


stata un punto di partenza. Per i racconti del Capo di Leuca, la discussione appassionata di parti del romanzo, ma soprattutto per avermi spronato a superare la paura, a crederci. Ringrazio infine chi non vedeva l’ora che uscisse questo libro e in particolare: Emilia Frassanito, Francesca Congedo, Monia Saponaro, Luigi Angelucci, Livio Romano, Gianluca Ricciato. Salento Rock è dedicato a Gabriele, Maurizio e Michele, anche se non li ho mai conosciuti. Francesca

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Indice 9

Prologo

11

Antonio

24

Alessandro

38

Gaetano

47

Sabrina

Storia di Cristina 57

I

64

II

69

III

79

IV

84

V

89

VI

101

VII

107

VIII

111

IX

117

X

121

XI

133

XII

142

XIII

151

Bruno e Filippo

160

Luigi

47


169

Daniele e Marina

181

Mirella

Cronaca di una generazione perduta 193

XIV

199

XV

208

XVI

216

XVII

220

XVIII

227

XIX

235

XX

245

XXI

252

XXII

259

XXIII

264

XXIV

269

XXV

276

XXVI

Vent’anni dopo 285

Simone

289

Luciana

293

Cristina

299

Nota dell’autore

303

Appendice

311

Fonti

313

Ringrazio 48


Questo libro è stato fatto da

Luigi Chiriatti Art director

Alessandra Avantaggiato Redazione, bozze, editing

Dario Tommasi Illustrazione di copertina

Alessandro Sicuro Progetto grafico di copertina

Laura Casciotti Ufficio stampa

Arti Grafiche Panico Stampa tipografica

Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile

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