Un teatro e il suo pubblico

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Marco Serino

Un teatro e il SUo pUbblico Una ricerca al “carlo GeSUaldo” di avellino


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-06-0 © Edizioni Kurumuny – 2014


Indice

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Premessa Ringraziamenti

PRIMO CAPITOLO Studiare il pubblico teatrale

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SECONDO CAPITOLO Pubblici del “Gesualdo”. Una ricerca diacronica

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TERZO CAPITOLO Incontri con il pubblico. Memorie, culture, generazioni di spettatori

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Per (non) concludere: questioni organizzative

Appendice I Documenti

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Appendice II Metodi e dati

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Riferimenti bibliografici

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Premessa

Il presente volume è stato realizzato in un periodo punteggiato da innumerevoli notizie e fatti legati all’attuale situazione economica (ma anche politica e sociale) che – in senso quasi generico, e non senza una certa mistificazione – suole chiamarsi “crisi”. Chi scrive non ha potuto evitare di riflettere su quest’ultima in relazione al lavoro che stava svolgendo. Anche ora, mentre queste note di apertura prendono forma, le notizie continuano a susseguirsi, con un andamento variabile. La predetta crisi, infatti, è purtroppo un problema all’ordine del giorno per molte persone, nonché una presenza più o meno costante sia nell’agenda dei media che in quella politica: una triste litania alla quale, a quanto pare, ci si è dovuti abituare. Probabilmente ciò sembra cozzare col proposito di questo libro, e cioè trattare un argomento, al confronto, apparentemente futile come la partecipazione del pubblico agli spettacoli teatrali. Eppure il teatro non è affatto indenne dalle influenze di ciò che avviene nella più ampia “società”, e le preoccupazioni economiche sono spesso al centro dei dibattiti di ieri e di oggi sullo stato dell’arte teatrale. Il teatro stesso soffre da lungo tempo una propria crisi che è anche e soprattutto culturale e che però, in un certo senso, è per esso linfa vitale. Quella economica, invece, per questo settore sembra una sorta di malattia cronica (non a caso in passato si è parlato di “malattia dei costi” delle performing arts 1). Rispetto all’attuale e ancora più intensa consapevolezza di questa problematica, si pensi alle varie forme di agitazione e agli episodi di tumulto fra i lavoratori dello spettacolo, come quelli più o meno recenti del Teatro alla Scala di Milano, o l’occupazione del Teatro

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Si tratta della famosa “legge della crescita sbilanciata”, nota anche come “morbo di Baumol”, individuata negli anni Sessanta dagli economisti William J. Baumol and William G. Bowen (Baumol e Bowen 1966). In proposito si rinvia, tra gli altri, a Trimarchi (1993, 33-42).

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Valle di Roma. È evidente che i tagli alla cultura siano uno dei più chiari segnali della trasversalità della predetta crisi, del suo incidere non solo su chi con la cultura dovrebbe mangiare ma altresì su coloro i quali vorrebbero cibarsi di cultura e magari si vedono costretti a limitare questa forma di alimentazione della mente e dei sensi.2 La questione principale, tuttavia, è se e quanto abbia senso dedicarsi oggi ad una ricerca sul pubblico teatrale, dal momento che lo spettatore potrebbe essere più preoccupato della propria attuale condizione socioeconomica che di quanto gli viene proposto in termini di consumo culturale. In realtà, queste perplessità sono relativamente importanti: il fatto che la cultura o il tempo libero siano da considerare superflui o scarsamente rilevanti, alla luce di ben altre priorità, è un falso problema. Una simile crisi di sistema, infatti, trasforma la vita delle persone, imponendo restrizioni ai consumi di gran parte dei cittadini delle aree geografiche e sociali più colpite, ma non è detto che i prodotti culturali vadano eliminati dalla “lista della spesa”. Non è questa la sede adatta per discutere della necessità di permettersi un libro o uno spettacolo di prosa, paragonandola a quella di acquistare pane, latte, ecc., ma di sicuro uno degli argomenti centrali in questo lavoro è il significato che può avere oggi il consumo di teatro. Se non altro, i teatri possono chiudere e la gente può andarci molto meno, ma l’attività teatrale, in generale, non scompare, così come non è scomparsa all’inizio del secolo scorso, quando nuovi mezzi di comunicazione e tendenze culturali sembravano decretarne la fine (cfr. cap. 1). Oggi come ieri, a dire il vero, il teatro ha bisogno di rinnovarsi e nutrirsi di quello che la società gli offre come materia prima da mettere in forma artistica. Ma gran parte del teatro contemporaneo continua ad essere quello del passato, ripulito, ammodernato, decorato, adattato ai tempi presenti. Le produzioni tradizionali – alcune delle quali prese qui in con-

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Il riferimento all’alimentazione, così come l’uso del verbo mangiare, non sono affatto casuali. Si ricorderà, infatti, l’espressione con la quale l’ex Ministro Giulio Tremonti («non è che la gente la cultura se la mangia»), nell’ottobre del 2010, contestava la richiesta di Bondi – l’allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali – di non tagliare ulteriormente i fondi per la cultura.

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siderazione come occasione di studio – non attingono più di tanto agli accadimenti della società presente, eppure pretendono di nutrire coloro i quali pagano il biglietto, più o meno profumatamente, per godere di un’antica forma d’arte che ancora vive o, per i più pessimisti, sopravvive. Il punto di vista principale adottato per questa ricerca – naturalmente uno dei molti punti di vista possibili – è quello relativo al rapporto tra l’età dei soggetti in essa coinvolti e l’esperienza di fruizione del teatro. Non si tratta però solo di “età” in senso anagrafico, ma anche di gusti, di sedimentazione di una memoria e di una cultura di spettatori diversi, diversamente formati e collocati nell’ambito di una domanda di teatro tutt’altro che omogenea. Si tratta indubbiamente di una piccola ricerca, sia per quanto attiene alla base empirica su cui si fondano le considerazioni qui riportate, sia per il contesto geografico limitato entro cui l’indagine si è svolta, un contesto propriamente locale, nel quale si osservano fenomeni già noti agli studiosi della cultura, come il rapporto tra titolo di studio e frequentazione del teatro, e che conducono a pensare gli insiemi oggetto di analisi come tipi tradizionali di pubblico. Ma proprio questo è l’elemento importante di una simile ricerca: lavorare sul pubblico non specializzato, quello dei fruitori, abituali e non, di un teatro che, pur con le sue specificità, corrisponde a un modello assai diffuso qual è quello dell’impresa teatrale generalista. Un teatro-contenitore come molti altri in Italia, pubblici e privati, che costituiscono, nel bene e nel male, una parte importante del tessuto distributivo nazionale. Un teatro nel quale è possibile parlare di una vita quotidiana dello spettatore, limitata al tempo e al luogo in cui questo suo ruolo si esplica. L’abbonato, ad esempio, personaggio controverso eppure assai comune nei nostri teatri, è spesso “corteggiato” dagli operatori del settore, per ovvi motivi. La sua vita quotidiana di spettatore si svolge tra botteghino, foyer e sala, nella quale, probabilmente, si sente un po’ come a casa sua – come sembrano dimostrare tanto le osservazioni dello scrivente “sul campo” (cfr. appendice II) quanto l’opinione del personale della struttura nella quale la ricerca si è svolta. Per l’abbonato, l’eccezionalità dell’evento teatrale si inserisce nel quadro di una fruizione abituale che stimola e al tempo stesso mitiga il carattere straordinario (anche nel senso di extra-ordinario, il che non ci consente di accomunare la fre-

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quentazione delle sale teatrali al consumo culturale e mediatico che si svolge tra le mura di casa3) dello spettacolo dal vivo. Per chi invece a teatro ci va più di rado, quella eccezionalità può essere tale proprio nella misura in cui non concerne un’attività frequente nell’ambito delle proprie esperienze. D’altra parte, però, tale straordinarietà va vista anche alla luce di un’attenzione nei confronti del singolo spettacolo piuttosto che del teatro come attività artistica in generale. Ma anche queste sono considerazioni utili ad articolare un ragionamento sul modo in cui un teatro si incontra con i propri pubblici, soprattutto se questo ragionamento riguarda anche le differenze anagrafiche e socio-culturali riscontrabili tra gli spettatori. Questo libro presenta i risultati di una ricerca diacronica su alcuni gruppi di spettatori delle stagioni 2005/2006 e 2011/2012 programmate dal Teatro Comunale “Carlo Gesualdo” di Avellino.4 Il primo capitolo funge da sezione introduttiva, nella quale sono discusse alcune questioni di fondo che informano gli studi in materia, unitamente a una serie di approfondimenti di ordine teorico. Il secondo capitolo presenta in modo esteso i risultati delle inchieste quantitative condotte sui pubblici del “Gesualdo” nelle suddette stagioni teatrali. Il terzo capitolo, invece, si concentra sulla parte qualitativa di questa indagine, e cioè i risultati dei focus group realizzati con piccoli gruppi di frequentatori del teatro. Infine, le brevi conclusioni del volume, come per molte ricerche (se non tutte), rappresentano un punto di partenza e non certo di arrivo rispetto alle questioni trattate, e propongono una riflessione sull’organizzazione teatrale a partire dai risultati dell’indagine. Questi ultimi, non essendo tecnicamente generalizzabili alla situazione nazionale o regionale, si

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Si noti in proposito l’osservazione del filosofo José Ortega y Gasset (1966, trad. it. 2006, 41): «Il teatro è, in effetti, il contrario di casa nostra: è un posto dove bisogna andare. E questo andare, che implica un uscire di casa, è [...] la radice dinamica di quella magnifica realtà umana che definiamo teatro». 4 Per i caratteri della rilevazione si rinvia all’appendice II. Sulle caratteristiche del Teatro “Carlo Gesualdo”, invece, si rimanda alla scheda riportata nell’appendice I e al sito http://www.teatrogesualdo.it

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riferiscono al “Gesualdo” e al contesto specifico nel quale esso opera. Nondimeno, alcune considerazioni sono possibili in virtù dei problemi più o meno comuni ai quali molti teatri di questo tipo, in Campania come in Italia, sono tenuti a far fronte. Due appendici (una documentaria e una metodologica) integrano il lavoro complessivo.

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Ringraziamenti

L’idea di compiere questa ricerca è nata durante la preparazione di una tesi di laurea in Sociologia, discussa dallo scrivente nel luglio 2006 all’Università di Salerno. Oggetto della tesi doveva essere lo studio del pubblico teatrale giovanile da un punto di vista sociologico. La scelta del luogo nel quale compiere la relativa indagine empirica andava incontro alle esigenze conoscitive di un teatro di recente istituzione quale era il “Gesualdo”, ma rispondeva anche al bisogno più generale di studiare un tipo di pubblico indubbiamente “difficile”, in un’area non particolarmente servita sul piano dell’offerta teatrale. Da un lato, quindi, occorreva analizzare un pubblico misto – ovvero diversi pubblici (cfr. cap. 1, par. 3) – e, dall’altro, si imponeva la necessità di approfondire alcune questioni relative a quella porzione di pubblico giovanile che in quel teatro poteva essere individuata. Si è trattato, fin dal principio, di un lavoro “sperimentale”, poiché avrebbe messo alla prova, per l’ennesima volta, quei metodi di ricerca e quadri concettuali propri della sociologia così poco maneggevoli per un siffatto oggetto di studio, probabilmente tra i più complessi e sfuggenti nell’ambito dell’analisi sociale. Il merito principale di questa iniziativa è del prof. Raffaele Rauty, docente di Storia del pensiero sociologico presso l’Università di Salerno e relatore della predetta tesi di laurea. L’autore di queste righe è in debito nei suoi riguardi non solo per la supervisione del lavoro svolto ma anche per il sostegno e l’incoraggiamento ricevuti. Un ringraziamento particolare va anche al prof. Piergiorgio Giacchè, docente di Antropologia del teatro e dello spettacolo presso l’Università di Perugia, per i suoi consigli e suggerimenti in merito agli argomenti oggetto di questa ricerca.1

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Naturalmente, al di là della supervisione e dei consigli ricevuti, la responsabilità di quanto viene presentato e sostenuto in questo libro è unicamente di chi scrive. 12


Un sentito e dovuto ringraziamento meritano altresì tutti coloro i quali, a vario titolo, hanno reso possibile la realizzazione di questo lavoro: il dott. Dario Bavaro, nel 2006 Responsabile comunicazione e marketing e oggi Direttore del Teatro Comunale “Carlo Gesualdo”, per l’indispensabile impegno e il grande entusiasmo profusi nel rapporto di collaborazione instaurato tra il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione (nel quale è confluito il Dipartimento di Sociologia e Scienza della Politica, attivo nel 2006) dell’Università di Salerno ed il “Gesualdo”; i Presidenti del Consiglio di Amministrazione del teatro nel 2006 e oggi: rispettivamente, il dott. Gennaro Iannarone e il dott. Luca Cipriano. A quest’ultimo, in particolare, lo scrivente è grato per il suo interesse nei confronti di questa ricerca, e per la sua cortese disponibilità a rilasciare, tra l’altro, un’intervista, riportata nell’appendice I del presente volume. Si ringrazia inoltre lo staff dell’Istituzione Teatro Comunale “Carlo Gesualdo” di Avellino, in particolare il dott. Riccardo Cannavale, la sig.ra Monica Rosapane, Giovanni Luce e Diletta Picariello, per la preziosissima collaborazione prestata in tutte le fasi di questo lavoro. L’autore ringrazia anche il dott. Pasquale Nazzaro, laureato in Sociologia presso l’Università di Salerno, per aver coadiuvato la gestione della somministrazione dei questionari nell’inchiesta del 2012. Un ulteriore ringraziamento, infine, va ai partecipanti ai focus group, la cui disponibilità ad essere presenti alle discussioni di gruppo e ad esprimere la propria opinione in merito ai temi oggetto della ricerca si è rivelata estremamente utile ai fini di una maggiore completezza dell’indagine. Del resto, per un sociologo che studia il teatro, fare due chiacchiere con lo spettatore non può che essere un’esperienza scientifica determinante. Febbraio 2013 Marco Serino

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PRIMO CAPITOLO

Studiare il pubblico teatrale

La società può ravvivare il senso che ha di sé soltanto a condizione di riunirsi. Ma essa non può tenere perpetuamente le sue assise: le esigenze della vita non le permettono di restare indefinitamente allo stato di congregazione; essa si disperde per riunirsi di nuovo, quando ancora ne sente il bisogno. A queste alternanze necessarie corrisponde il regolare avvicendamento di tempi sacri e di tempi profani. (Durkheim 1912).

1. Il pubblico e l’esperienza viva del teatro Più di un secolo fa si diceva già che il teatro “stava morendo”. Quei discorsi, «iniziati alla fine dell’Ottocento, continuano a ripetersi ancora oggi con le stesse parole e con punti di riferimento simili. Il cinema, gli spettacoli dello sport, la televisione, il rock, le discoteche, il miracolo della realtà virtuale sono alcuni dei fenomeni che di volta in volta sembrano decretare la morte del teatro» (Taviani 2000, 801). Fatto sta che, com’è evidente, il teatro non è affatto scomparso, e con quelle forme di spettacolo appena citate intrattiene anche, nel bene e nel male, un dialogo, piuttosto che una (improbabile) concorrenza. Su questo dialogo, però, è sempre opportuno riflettere e fare luce, data la molteplicità di immagini e contenuti multimediali che popolano oggi la vita quotidiana di molte persone: un variegato universo culturale, mutevole e in continua evoluzione. Anche il mondo teatrale è variegato e mutevole, ma è comunque legato ai suoi ritmi più tradizionali, molto diversi da quelli della cultura tecnologicamente riprodotta. Il fatto che il teatro sia irriducibile all’assimilazione completa da parte di altre forme e linguaggi mediali lo rende infatti “speciale”, poiché non può essere confrontato con esperienze qualitativamente diverse come quelle del cinema, della televisione

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o dei nuovi – ma neanche tanto, ormai – media elettronici. Il teatro è collocato nei momenti extra-ordinari della vita sociale, negli spazi abitati temporaneamente per il tempo libero, per coltivare interessi e soddisfare curiosità, culturali e non. Ancor più interessante è il modo in cui il teatro vive talvolta fuori dai teatri, coniugandosi con l’alterità di ambienti i quali, proprio perché non teatrali, ne esaltano le specificità.1 Di sicuro la presenza che ha oggi il teatro nella dimensione pubblica della vita sociale non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella che aveva, appunto, oltre un secolo fa.2 Allora era lo spettacolo per eccellenza, mentre oggi il suo ruolo appare talora quasi residuale, nel senso proprio di un residuo di cultura del passato. Questo, però, vuol dire anche che l’offerta culturale di oggi include il teatro come parte di un “artigianato”, proprio perché esso opera e si evolve, come si è già accennato, in modo diverso da altre forme di arte e cultura veicolate dai mezzi di comunicazione di massa o legate alla cosiddetta industria culturale. Rispetto a queste ultime, la rappresentazione teatrale è senz’altro caratterizzata dal suo proporsi in modo diretto e immediato (anche nel senso di non mediato) al destinatario finale, lo spettatore. Il teatro è inoltre una pratica in cui l’esperienza in quanto momento percettivo intenso e unico – irripetibile, o meglio, non riproducibile 3 – ha sempre caratterizzato tanto la realizzazione dello spettacolo quanto la

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È questa una prassi ben nota, rintracciabile nelle varie epoche della storia del teatro occidentale ma sviluppatasi criticamente a partire dal secondo Novecento. In ogni caso, pur essendo un fenomeno non nuovo – ma non è detto che chiunque, spettatore o meno, ne sia consapevole – il fatto che gli spettacoli avvengano in luoghi inusuali è sempre da tenere d’occhio, soprattutto per la molteplicità di forme in cui ciò continua a caratterizzare le frontiere della scena contemporanea. 2 Per una “storia” del pubblico teatrale, della sua auto-rappresentazione, del suo rapporto con l’opinione pubblica e con il Teatro in quanto macchina culturale e sociale della modernità, si rimanda a Sanguanini (1989). 3 L’irripetibilità dello spettacolo teatrale è intesa da De Marinis (1982, 64) «come non totale riproducibilità, la quale non esclude, pertanto, la replicabilità parziale. Dunque, lo spettacolo teatrale è irripetibile, in quanto non interamente riproducibile o duplicabile (com’è invece un film, un dipinto, un romanzo), ma è tuttavia replicabile (parzialmente), di solito», ovvero nella maggior parte dei casi, ma non sempre, come sottolinea ancora l’autore (ivi,

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sua fruizione.4 L’idea di esperienza è richiamata dal carattere processuale di un evento dal vivo, dal suo essere vissuto nel «qui ed ora» della sua produzione (cfr. Russo 2004). Parlare del teatro come differenza (Giacchè 2004),5 allora, è forse il miglior modo di cominciare a riflettere sul pubblico contemporaneo. Occorre cioè puntare proprio su quella diversa qualità e profondità dell’esperienza del teatro rispetto ad altre modalità attuali di comunicazione artistica. Il teatro infatti non trasmette “messaggi” ma mette in scena azioni [...]. La differenza con i prodotti e i processi fruitivi delle altre arti è notevole, giacché a teatro la finzione – come si sa – non genera un prodotto, e la sua relazione non si omologa al consumo: al contrario, la finzione teatrale è sempre un processo, e semmai è la relazione teatrale a offrirsi come risultato, nel quadro di un evento spettacolare che non è possibile riprodurre e di un incontro fra attore e spettatore che è impossibile confezionare (ivi, 135).

Una volta riconosciuta questa qualità, bisogna ammettere che esiste comunque un teatro che, per non soccombere, tenta di avvicinarsi ad altri mezzi attraverso i quali si raccontano storie e si sperimenta la visione e la finzione scenica. Ma si tratta comunque di una assimilazione parziale, funzionale all’esistenza di un mercato dello spettacolo che al teatro non può e non deve necessariamente rinunciare, così come, d’altra parte, è il teatro a non volere o potere fare a meno di questo mercato (cfr. ivi, 138).6 In ogni caso i teatranti, ma anche gli spettatori, riconoscono «che

231n). Vi sono infatti delle eccezioni, soprattutto quando si esce dall’ambito del teatro tradizionale: si pensi a quegli «eventi teatrali unici quali un happening, un’azione di strada [...]. In conclusione, lo spettacolo teatrale è sempre unico in quanto non riproducibile, e in alcuni casi lo è anche in quanto non replicabile (parzialmente)» (ibidem). 4 Su questi temi, e sull’estensione del modello esperienziale dello spettacolo dal vivo, in particolare quello teatrale, alla gamma di forme del consumo contemporanee, si veda Russo (2005). 5 L’espressione è presa dal titolo di un volume di Attisani (1978). Il concetto esposto nel seguito, invece, trae spunto dal lavoro di Piergiorgio Giacchè. 6 È anzi evidente, come aggiunge Giacchè (2004, 182n), quanto «la “teatralità”, intesa

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la definizione attuale di teatro si basa sulla radicale e insopprimibile “differenza” che lo separa dallo spettacolo veicolato e prodotto dai media; così come non c’è teatrante che, persino involontariamente o malauguratamente, non colga una per così dire naturale contrapposizione tra Teatro e Mercato» (ibidem). Dunque, se esiste questa differenza, essa non può che riflettersi su quello che il pubblico, o piuttosto i pubblici (vedi infra) cercano, vedono, apprezzano, e riconoscono. Lo spettatore è senz’altro avveduto, non può non accorgersi del fatto che quando varca la soglia della sala teatrale qualcosa sta per accadere; quando consuma lo spettacolo riprodotto, invece, qualcosa è già accaduto o comunque accade in un altro luogo (esiste la diretta televisiva, ovviamente, ma sempre attraverso un mezzo elettronico). È qui che si rivela quell’incompatibilità tra l’evento teatrale “dal vivo” e «gli altri prodotti spettacolari, almeno per via della differenza che passa tra la necessaria ripetizione di un sempre diverso processo e la riproduzione identica di uno stesso risultato» (ivi, 52; vedi anche supra, nota 3). Certo resta il fondamentale problema dei contenuti degli spettacoli, con cui l’indagine qui presentata deve fare i conti. È qui che subentra la questione dell’orizzonte di aspettativa del pubblico, il quale non può che attingere ad un immaginario molto più mediatico che teatrale, anche e soprattutto in termini di stimoli. È come la terra dalla quale nascono determinati fiori e frutti: quella di oggi è una terra diversa dal passato, è un humus culturale nel quale si sviluppa un apparato di immagini, suoni e visioni molto più ampio, accessibile e diversificato di quello di un tempo. Ma, per tornare al discorso iniziale, questo materiale immaginifico esiste

come evento e come relazione diretta tra attori e pubblico, sia divenuta un ingrediente necessario allo spettacolo televisivo. Le registrazioni o le dirette che non impiegano il pubblico in studio, ma si svolgono in un vero teatro, sono numerose». A ciò si aggiungano quelle trasmissioni televisive che, al contrario, si svolgono in studio ma con un pubblico spesso situato alla maniera della sala teatrale, cioè frontalmente alla “scena” delle riprese. E, infine, come non ricordare i molti, moltissimi show connotati sia dalla location di un vero teatro che dalla presenza del pubblico in sala? Si direbbe, cioè, che il modello teatrale presiede anche alle varie forme di spettacolo televisivo, alla maniera di una modalità comunicativa primigenia.

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accanto al teatro, anche se tende almeno un poco ad oscurarlo. Per certi versi, infatti, è pur vero che una parte consistente dell’apparato spettacolare contemporaneo ha «efficacemente e irrimediabilmente sostituito» il teatro, derubandolo «delle sue funzioni oltre che della sua storia (intesa come patrimonio artistico e drammaturgico)» (ivi, 137). Vale a dire anche che il patrimonio spettacolare del quale i pubblici contemporanei dispongono non è del tutto in grado di sostanziare un’attitudine alla fruizione teatrale. Al di là di questo, però, la qualità dell’evento teatrale risente dell’ineluttabilità delle oggettive condizioni straordinarie cui si sottopone lo spettatore di teatro: una straordinarietà da cui non lo salvano certo né la sua estrazione da un pubblico di massa né la sua indifferenza e ignoranza [...] l’occasione e l’esperienza dello spettacolo teatrale costituisce di per sé uno scarto sensibile e perfino traumatico con i modi e le situazioni in cui lo spettatore e il consumatore contemporaneo si è inculturato (ivi, 142).

Ciò suggerisce appunto una domanda circa l’esperienza viva del teatro, come si è inteso chiamarla:7 quanto è viva quest’esperienza? E quanto lo è, ad esempio, per i giovani? La domanda viene posta qui a proposito, visto che negli anni Cinquanta c’era chi sosteneva che per il pubblico giovane «il teatro ‘è una cosa viva’» (Merli 2007, 83).8 Oggi, ragionevolmente, ci si dovrebbe chiedere se è davvero (o ancora) così.

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È opportuno chiarire che qui ci si allontana da Giacchè per quanto attiene all’uso dell’espressione “esperienza viva”. Il fatto che lo spettacolo teatrale sia un evento dal vivo non basta a qualificare una relazione tra attore e spettatore, che si realizza non solo sulla base della compresenza fisica ma anche grazie al confronto diretto tra queste due entità (Giacchè 2004, 140). In questa accezione, la relazione teatrale è esaltata da un fronte di ricerca teatrale incentrato sul «rapporto tra arte scenica e corpo dell’attore (e anche, conseguentemente, fra percezione e corpo dello spettatore)», un “teatro vivente” in cui «è la relazione teatrale a essere sottolineata più della finzione scenica e radicalizzata come un valore» (ivi, 138, 140). 8 L’affermazione citata da Chiara Merli è tratta da un editoriale di Valentino Bompiani, intitolato Questi giovani, apparso sulla storica rivista «Sipario» (Bompiani 1954).

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2. L’annoso “problema” del pubblico giovane La ricerca che questo volume presenta è nata inizialmente dalla consapevolezza che la partecipazione dei giovani agli spettacoli teatrali fosse un nodo problematico importante e meritevole di essere affrontato con strumenti sociologici. Poi, però, si è scoperto che il problema non riguarda solo i giovani; per questi ultimi è semmai più evidente, più critico (ma, d’altronde, c’è forse qualcosa che riguarda i giovani che non sia ritenuto “critico”?) e dipende moltissimo dal tipo di offerta teatrale loro rivolta. In generale, l’avvicinamento del pubblico giovane pare essere un’esigenza di molti operatori teatrali, un punto rilevante nell’agenda della politica culturale e teatrale.9 In alcuni casi, però, si tratta di una mera dichiarazione d’intenti più che di una reale attenzione ai contenuti delle proposte culturali, soprattutto da parte di quei teatri che intendono rivolgersi a un pubblico più tradizionale. D’altronde, poiché esistono diversi teatri e dunque diversi pubblici, non tutte le istituzioni teatrali avranno gli stessi problemi, ma è anzi opportuno tenere conto delle rispettive specificità e, come nel caso qui considerato, del rapporto tra determinate realtà culturali locali e i relativi fruitori. Un’operazione preliminare consiste nel definire il pubblico giovane in termini di classe d’età. Nel sesto e ultimo rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia (Buzzi, Cavalli e de Lillo 2007) è stato utilizzato un campione rappresentativo di 3000 giovani tra i 15 e i 34 anni, una fascia d’età molto più ampia rispetto alle indagini precedenti. I motivi di questa scelta sono noti e derivano dallo slittamento in avanti delle tappe d’ingresso nella vita adulta, come il raggiungimento di una propria autonomia economica e abitativa. Le prime due rilevazioni IARD, relative agli

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Da una ricerca condotta dalla Fondazione Rosselli sul pubblico italiano nella stagione 2001/2002 (Sciarelli e Tortorella 2004), alla quale si farà spesso riferimento in questa sede, stando alle interviste somministrate agli operatori teatrali risulta che «un obiettivo importante avvertito da tutti gli intervistati, indistintamente, è il coinvolgimento del pubblico giovane» (Sciarelli 2004c, 93).

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anni Ottanta, avevano selezionato campioni rappresentativi di giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni; negli anni Novanta il limite superiore era stato elevato ai 29 anni e, a partire dalla quinta edizione del 2000 (Buzzi, Cavalli e de Lillo 2002), ai 34 anni. In questo lavoro i giovani sono stati divisi in tre classi precodificate, con un limite inferiore costituito dagli under 18 e un limite superiore per i 25-32enni.10 È evidente, però, che definire giovani solo i soggetti che hanno un’età non superiore ai 32 o ai 34 anni appare talvolta riduttivo; in alcuni casi, infatti, sono anche i contesti e le pratiche socio-culturali a incidere sull’estensione di simili soglie anagrafiche. Nel focus group condotto per la presente indagine nel 2011, ad esempio, anche i quarantenni sono stati considerati giovani,11 e non a caso la ricerca della Fondazione Rosselli sul pubblico teatrale italiano ha denominato “ragazzi” i soggetti compresi nella fascia d’età tra i 18 e i 25 anni e “giovani” quelli compresi tra i 26 e i 40 anni (Sciarelli 2004b, 65n). Ora, in una classifica sul tempo dedicato dai giovani alle attività culturali e sociali, il teatro è quasi sempre collocato in fondo, per non dire ai margini di uno spettro di opportunità sempre più ampio, nel quale il tempo conta in misura direttamente proporzionale alla quantità di alternative disponibili (cfr. Gasparini 2001, 90). Le indagini IARD, tra il 1983 e il 2004 (anno dell’ultima rilevazione), hanno evidenziato, nella fascia d’età 15-24 anni, «la lenta parabola discendente del teatro» (Caporusso 2007, 334), anche se, a ben vedere, l’incidenza percentuale di questa pratica (giovani andati a teatro almeno una volta negli ultimi tre mesi antecedenti la rilevazione) ha subìto un incremento tra l’indagine del 1983 (9,8%) e quella del 1992 (25,8%, il picco massimo) per poi decrescere fino al 19% nell’ultima (ivi, 335, tab. 2.2).12 Dal confronto tra le classi

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Le classi sono quelle predisposte nel questionario costruito per la prima inchiesta sugli spettatori del “Gesualdo”, nel 2006: meno di 18 anni; 18-24 anni; 25-32 anni; 33-45 anni; 46-60 anni; oltre 60 anni. 11 Sui motivi di questa scelta, rivelatasi fruttuosa, si rimanda all’appendice II. 12 In ogni caso, tanto la prima indagine IARD (Cavalli, et al. 1984) quanto la penultima (Buzzi, Cavalli e de Lillo 2002) hanno messo in rilievo la scarsa diffusione della fruizione teatrale tra i giovani.

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d’età, sui dati della rilevazione del 2004, si evince la «componente generazionale» e la «direzione evolutiva» nell’andamento di questi fenomeni. Rispetto ai giovani 18-20enni e 21-24enni (16% circa), vi è un aumento dell’incidenza percentuale della frequentazione del teatro quale attività praticata almeno una volta negli ultimi tre mesi nelle classi dei 25-29enni e dei 30-34enni (19,9%). Per i più giovani (15-17 anni), invece, questa percentuale sale al 27,7%, ma costoro «sono ancora soggetti agli stimoli, e forse alle imposizioni, offerti dalla scuola» (ivi, 334, vedi anche infra, cap. 3, par. 3.1). Questi dati vanno comunque letti con cautela, poiché riguardano campioni rappresentativi e restituiscono quindi un’immagine utile a valutare i trend più generali.13 Si tratta di informazioni pur sempre indispensabili per tentare di comprendere i fenomeni della società, ma trascurano ovviamente i casi specifici nei quali l’atteggiamento dei giovani rispetto al teatro può variare in maniera inaspettata. Lavorando con campioni estratti da vaste popolazioni è più difficile cogliere la significatività di circostanze particolari nelle quali i giovani potrebbero rivelarsi molto interessati al teatro, e soprattutto a determinati generi di teatro, oppure frequentare con una certa intensità specifici teatri. Tali questioni possono essere esaminate meglio a livello locale o regionale, circoscrivendo il contesto della ricerca, talvolta, a occasioni e situazioni peculiari: un festival, la stagione di uno o più teatri in un dato territorio, o addirittura singoli eventi. A ciò si aggiunga il fatto che la quantità di tempo dedicata ad una specifica attività è certamente un indicatore utile ma non sufficiente per una comprensione del significato che essa riveste per i diretti interessati. Si pensi allo scarto precedentemente menzionato (vedi supra, par. 1) tra la straordinarietà dell’esperienza dello spettacolo teatrale e l’universo culturale e mediale al quale lo spettatore risulta oggi socializzato. In tal caso si può riflettere, ad esempio, sulle tracce memoriali dello spettatore di teatro, oggetto di una singolare ricerca condotta in Francia a metà anni Ottanta dal Centre de Sociologie du Théâtre della Université Libre di Bru-

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Lo stesso dicasi del campione rappresentativo del pubblico nazionale selezionato per l’indagine della Fondazione Rosselli (Sciarelli e Tortorella 2004).

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xelles su 541 spettatori, giovani e giovanissimi (allievi delle ultime classi della scuola elementare e studenti di liceo), ma anche adulti, che avevano assistito agli spettacoli del Théâtre des Jeunes Années/Centre Dramatique National di Lione nel periodo compreso tra il 1968 e il 1984 (Deldime e Pigeon 1988a; 1988b; Deldime 1990, 37-45; 1995, 13-15). Uno dei risultati più interessanti di questa ricerca, che sembra ricalcare quanto segnalato da Giacchè (2004), è il seguente. Ciò che colpisce del teatro non è quello che comunemente viene ritenuto decisivo: non sono né i temi, né le storie, né la morale, né ciò che informa o comunica a marcare la memoria, ma è piuttosto la materialità del teatro, laddove essa designa lo scarto, la differenza in rapporto ai media e all’estetica naturalista comunemente ammessa [...] la memoria agisce laddove le certezze vacillano, dove i dati di fatto sono messi in discussione, poiché lo spettatore reagisce contro un universo che lo scuote, lo sconvolge, lo turba fin nel profondo... (Deldime 1995, 14-15).14

Si ripropone, dunque, la questione del teatro come differenza da altre forme di produzione culturale in termini di esperienza concreta del vedere in azione lo spettacolo. Ma viene da pensare: questo scarto dipende dal tipo di spettacolo? Certo, ma anche da un’educazione al teatro, un processo che tende inevitabilmente a confrontarsi, e a scontrarsi, con il fatto di essere socializzati al consumo mediale più generale. Da questo punto di vista, è interessante notare che gli spettacoli scelti per condurre le rilevazioni della presente ricerca esaltano la contiguità con i mezzi di comunicazione di massa – soprattutto quello televisivo – almeno per la questione della notorietà degli attori protagonisti. È rispetto a questo che

14 L’articolo dal quale si cita ripropone in traduzione italiana (anche se l’opera originale non è indicata) quanto riportato anche in Deldime (1993, 100 ss.), volume che raccoglie una serie di comunicazioni tenute dall’autore in vari convegni. Rispetto a quanto indicato nella citazione, si tenga presente che i temi degli spettacoli, da quanto emerge dalla ricerca in questione, si imprimono comunque nella memoria, ma ciò riguarda gli spettatori più maturi (i giovani della scuola secondaria) piuttosto che i giovanissimi (Deldime e Pigeon 1988b, 94). Sulla «esperienza della materialità» si veda anche Pavis (1996a, trad. it. 2008, 27-28).

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si pone il problema dell’educazione e dell’informazione, affrontato nella parte della ricerca condotta mediante focus group (cap. 3). Il problema dell’avvicinamento del pubblico giovane, comunque, è tutt’altro che cosa nuova. Come accennato, il dibattito contemporaneo su questo tema, in Italia, data almeno dagli anni Cinquanta del Novecento, periodo nel quale l’interesse per la ricerca sul pubblico teatrale inizia a prendere piede anche grazie all’influenza dei teatri stabili pubblici (Merli 2007, 81 ss.; vedi anche infra). Uno dei segnali di questa attenzione è il convegno intitolato I giovani, il teatro, la società, tenutosi a Milano il 19 dicembre 1954 presso il Museo della Scienza e della Tecnica. Il convegno pone l’accento sulla necessità di formare un nuovo pubblico per attuare un reale rinnovamento del teatro, affidando ai giovani il compito di diffondere un interesse teatrale nuovo in una società stanca: a tale fine, è necessario fare in modo che i giovani si avvicinino al teatro, e possano frequentarlo con continuità, attuando un’azione di reclutamento su larga scala [...] la sfida dei teatranti consiste allora nel trasformare l’interesse in passione, la curiosità in capacità critica, rendendo continuativo e assiduo il rapporto con la scena (ivi, 83).

Dunque, anche per i commentatori dell’epoca, la “formazione del pubblico” deve partire dai giovani e, a tale scopo, «si rende necessaria un’attività costante di educazione al teatro, affidata in primo luogo alla scuola», ma anche alle istituzioni teatrali. Prima fra tutte, il Piccolo Teatro di Milano, che attua, com’è noto, un tentativo di creazione di un “pubblico organizzato” attraverso iniziative educative, quali convegni, dibattiti, ecc. (ivi, 83-85). Sembra di avere a che fare con le stesse tematiche di oggi. Nel pubblico teatrale italiano, così come viene delineato dalla ricerca della Fondazione Rosselli (Sciarelli 2004b, 65), i giovani sono pochi: i ragazzi (18-25 anni) «rappresentano una percentuale modesta pari al 15% del pubblico complessivo nazionale», anche se, sul versante della «propensione al consumo», vi è un «33,7% della popolazione di riferimento (ossia dei circa 5 milioni e mezzo di ragazzi italiani) che dichiara di essere andata a teatro almeno una volta negli ultimi dodici mesi», la percentuale più alta tra i vari segmenti della popolazione nazionale, seguita da quella dei giovani (26-40 anni), con il 30,6%. I ragazzi, però, sono i meno assidui, al contrario degli anziani (61 anni e oltre) che hanno la più alta fre-

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quenza d’acquisto e sottoscrivono l’abbonamento in misura maggiore rispetto a tutti gli altri gruppi di età (ivi, 65-66).15 Dunque, pochi giovani vanno a teatro e quelli che ci vanno lo fanno troppo di rado. È naturale domandarsi per quali motivi ciò avvenga. Non certo, o non soltanto, per una questione di prezzo, anch’essa, beninteso, tutt’altro che nuova. Basta tenere presente quanto scrive, in modo lapidario, già Bertold Brecht nei primi decenni del Novecento (Brecht 1963, trad. it. 1975, vol. I, 38):16 In generale ai nostri teatri non interessa che i giovani non ci vadano perché non hanno denaro. Ma se i giovani non ci vanno non è perché non abbiano denaro. Essi non hanno alcun motivo di non andare a teatro – ma tanto meno hanno motivo di andarci. Se ne trovassero uno, il denaro lo avrebbero.

Ecco una questione veramente fondamentale: i motivi per i quali si va a teatro, in modo particolare per i giovani. Ciò trova conferma nelle indicazioni sulle forme di intervento necessarie per risvegliare l’interesse di questo segmento di pubblico, soprattutto attraverso una corretta azione sui contenuti delle proposte, dal momento che all’offerta di spettacolo «viene richiesta una maggiore modernità di linguaggio e di azione che riesca a riportare al teatro quella capacità catartica del racconto di storie», anche perché «una maggiore ricerca del pubblico giovane non sembra avere successo con le sole politiche di prezzo; al contrario questi appaiono più influenzati dalla programmazione artistica e dai contenuti dell’opera» (Sciarelli 2004d, 102). In proposito, le sollecitazioni che provengono dal teatro stesso possono dialogare, come si è detto, con altri mezzi e forme di arte e comu-

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Guardando le tabelle riportate nel testo citato (poste alla fine del volume: vedi Sciarelli e Tortorella 2004, 125 ss.), va anzi osservato che vi è una relazione diretta tra età e frequenza di acquisto: all’aumentare dell’età aumenta la percentuale sia degli spettatori più assidui che di coloro i quali sottoscrivono l’abbonamento. Si confrontino questi dati con quelli relativi alla presente ricerca (cap. 2), tenendo conto, però, che non si riferiscono a un campione rappresentativo come quello dell’indagine sul pubblico italiano. 16 Il frammento dal quale si cita non è datato. È tuttavia incluso in un capitolo intitolato Il tramonto del vecchio teatro (1924-28).

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nicazione della grande macchina culturale odierna, che senza dubbio ha dalla sua una «maggiore modernità di linguaggio». Ma tra i due ambiti può anche esservi un conflitto, come quello che tende talvolta a prodursi tra i messaggi provenienti da diverse agenzie di socializzazione formali e informali (ad es. la famiglia e il gruppo dei pari; cfr. Ghisleni e Moscati 2001, 72). Dunque la formazione dei giovani e giovanissimi spettatori deve fronteggiare questi aspri conflitti tra la forma arcaica dell’arte teatrale, percepita come tale dai giovani stessi,17 e quella di altri fenomeni culturali, ad esempio quelli menzionati da Ferdinando Taviani nella citazione riportata all’inizio di questo capitolo, che investono in modo particolare l’universo dei consumi culturali giovanili.

3. Lo stato della ricerca Cosa è un pubblico? Ponendo la domanda in questo modo ci si colloca già in un approccio che non individua genericamente quale proprio oggetto il pubblico, al singolare, come se si trattasse di un’entità omogenea. Le(s) public(s) de la culture (Donnat e Tolila 2003)18 è infatti il titolo emblematico di uno dei tanti lavori che adottano ormai la dizione “pubblici”, al plurale, usata per indicare e rispettare la natura eterogenea dei gruppi di fruitori che popolano la platea multiforme degli équipements

17 In una ricerca dell’Osservatorio dello spettacolo dell’Emilia Romagna condotta con focus group, riportata nel documento Indagine pilota per l’analisi della domanda potenziale di spettacolo dal vivo in Emilia-Romagna. Anni 2000-2001 (http://cultura.regione. emilia-romagna.it/osservatoriospettacolo/studi-e-ricerche), per gli intervistati più giovani il teatro «viene senza dubbio classificato tra le attività culturali, ma gli viene attribuita una connotazione che potremmo definire “classica”, per non dire di vetustà» (ivi, 61). Si veda anche il cap. 3 del presente volume. 18 Si tratta degli atti di un convegno tenutosi a Parigi nel 2002, il cui titolo è lo stesso del volume citato, diretto da Olivier Donnat e organizzato dal Département des Études et de la Prospective (Ministère de la Culture et de la Communication). Naturalmente anche l’uso anglosassone di audiences o publics (che però non sono esattamente sinonimi) denota un atteggiamento di questo tipo (cfr. ad es. Bennett 1997).

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culturels (vedi anche Donnat e Octobre 2001). Anche in Italia è da tempo che si usa il plurale, nella consapevolezza che «all’immagine obsoleta d’un pubblico generico e indistinto si è ormai sostituita definitivamente quella dei “pubblici del teatro”» (Taormina 2004, 11). A dire il vero, già il sociologo francese di origine russa Georges Gurvitch segnala questo aspetto nel suo fondamentale programma sociologico per lo studio dell’attività teatrale, quando ricorda che «in ogni rappresentazione teatrale vi sono degli spettatori che formano il pubblico, o piuttosto ‘i pubblici’, i cui gusti, esigenze e provenienza sociale sono spesso diversi» (Gurvitch 1956, trad. it. 2011, 30).19 È chiaro che il riconoscimento di questa eterogeneità è utile tanto all’attuazione di specifiche politiche culturali, quanto all’avanzamento degli studi in materia, anche in ambito sociologico. Come è stato più sopra ricordato, nel nostro Paese l’esigenza di approfondire la conoscenza del pubblico teatrale si rivela almeno a partire dagli anni Cinquanta, stimolata dai cambiamenti culturali e organizzativi in atto nel teatro italiano: l’affermazione di un’attenzione specifica alla composizione e alla fisionomia del pubblico teatrale, che si svilupperà ulteriormente negli anni Sessanta per raggiungere gli esiti più significativi negli anni Settanta, è stata certamente influenzata dalla politica culturale attuata dai teatri stabili di matrice pubblica, in primis dal Piccolo Teatro di Milano (Merli 2007, 81).

La conoscenza approfondita del pubblico rappresenta un obiettivo primario per quelle istituzioni che nascono appunto con lo scopo di accrescerlo, formarlo, “costruirlo”, e cioè i primi stabili pubblici. Non è un caso, come osserva Merli, se è proprio in questo periodo che «si assiste

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Si veda anche quanto scrive Moores (1993, trad. it. 1998, 8) sul «pubblico dei media»: «Non c’è nessuna stabile entità che possa essere isolata e identificata come ‘il pubblico dei media’ [...]. Sarebbe meglio usare il plurale, ‘pubblici’, poiché esso sottolinea il fatto che il pubblico è in realtà composto di molti gruppi tra loro diversi dal punto di vista dei media e dei generi che preferiscono o per la loro specifica posizione sociale e culturale».

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alla prima comparsa, nel dibattito attorno al teatro, di una disciplina importata dal mondo statunitense, destinata tuttavia ad affermarsi stabilmente nel nostro teatro con alcuni decenni di ritardo: il marketing» (ivi, 82). In questo quadro figurano anche una serie di inchieste promosse dalla stampa specializzata, ad esempio dalla rivista «Sipario», «tese a scoprire gusti, preferenze e abitudini del pubblico occasionale e del nonpubblico» (ibidem). Tra i possibili approcci allo studio dei pubblici teatrali, quello del marketing delle arti e della cultura 20 è infatti oggi uno dei più produttivi, sviluppatosi anche e soprattutto grazie al fatto che le istituzioni pubbliche e private che operano nel campo delle attività culturali sempre più spesso ricorrono alla cosiddetta “ricerca di mercato” per individuare caratteristiche e bisogni dei propri utenti.21 Di conseguenza, quest’ambito di ricerca è senza dubbio ricco e fertile, e in esso rientrano buona parte delle indagini disponibili in materia di spettacolo dal vivo. Il problema, però, è che non tutte vengono pubblicate, specie se commissionate dai teatri stessi o dagli enti locali, i quali sono ancora tra i principali promotori culturali sul territorio. Come scrive Antonio Taormina, in realtà gli studi sul pubblico sono stati spesso confinati nella letteratura grigia, con il conseguente rischio di cadere, anche immeritatamente, nell’oblio. Rappresentano infatti in buona parte l’attestazione di adempimenti istituzionali che prescindono da intenti divulgativi, in altri casi sono esclusivamente funzionali a obiettivi conoscitivi di singole imprese (Taormina 2004, 11).

Sia sul piano della divulgazione che su quello delle finalità di questi studi, la situazione attuale è tuttavia abbastanza positiva, a patto di distinguere gli attori coinvolti e il loro grado di operatività. In primo luogo,

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In proposito si veda almeno Colbert, et al. (1993). «La domanda di spettacolo è dunque diventata materia di studio a livello accademico così come è oggetto di indagini di mercato, grazie anche all’imporsi di strumenti e metodologie propri della cultura d’impresa, seppure aree disciplinari quali il marketing culturale sono state ‘accreditate’ in Italia relativamente tardi, contestualmente all’istituzione di corsi in management culturale» (Taormina 2006, 172). 21

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vanno menzionati gli Osservatori Culturali, il cui lavoro è senza dubbio consistente e sistematico. Oltre all’Osservatorio dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali,22 i più attivi sono gli Osservatori Culturali e/o dello Spettacolo di Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte.23 Per quanto riguarda lo spettacolo dal vivo, le indagini condotte da questi organismi si sono concentrate su una molteplicità di pubblici: da quello della danza a quello teatrale e musicale e dei vari festival tematici, oppure su pubblici specifici, come quello giovane, e sul pubblico potenziale (che spesso è appunto giovane). Fino a qualche tempo fa, la diffusione dei risultati di queste ricerche poteva anche restare circoscritta al contesto locale o degli addetti ai lavori, e la documentazione relativa, magari depositata presso gli enti stessi, poteva non essere facilmente accessibile. Oggi, invece, grazie a Internet, vi è ampia disponibilità di studi e rapporti di ricerca nei siti web delle istituzioni committenti e/o esecutrici di tali indagini. Spesso gli Osservatori collaborano con altri soggetti, ad esempio i centri studi e fondazioni quali Rosselli e Fitzcarraldo. Uno dei lavori più importanti sul tema è infatti la ricerca presentata nel volume Il pubblico del teatro in Italia (Sciarelli e Tortorella 2004), frutto della collaborazione tra l’Ufficio Studi e Osservatorio dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Fondazione Rosselli. Questo studio mostra «non

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Istituito con la legge 30 aprile 1985, n. 163, con la quale è stato costituito anche il Fondo Unico dello Spettacolo (FUS), l’Osservatorio ministeriale svolge indagini sulle attività di spettacolo in Italia, disponendo tra l’altro una Relazione annuale sull’utilizzo del FUS, ma è altresì dotato di un centro di documentazione che raccoglie non solo il materiale prodotto dall’Osservatorio e da altri organi annessi, ma anche studi e ricerche condotti da altri soggetti. Parte di questa documentazione è accessibile direttamente dal sito dell’Osservatorio: http://www.spettacolodalvivo.beniculturali.it/index.php/osservatoriodello-spettacolo. 23 I tre Osservatori menzionati erano gli unici presenti in Italia, oltre a quello nazionale, fino al 2005, anno in cui ad essi si è aggiunto quello delle Marche. Negli anni successivi il panorama degli Osservatori si è modificato e ampliato, con la progressiva nascita di altre realtà regionali di questo tipo, tuttavia diverse tra loro per funzioni e grado di operatività. Sull’argomento si rimanda a Ortolani (2006) e Taormina (2011). Nel 2006 è stato inoltre istituito l’Osservatorio dello Spettacolo della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE).

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solo chi sono e come si comportano oggi coloro che da anni investono il loro tempo e soddisfano più o meno le loro preferenze nelle sale teatrali, ma altresì chi sono coloro che non assistono alle rappresentazioni teatrali e quale potrebbe essere il trend del pubblico di domani» (Sciarelli 2004a, 27). Tra i singoli operatori, invece, come i teatri pubblici e privati, sono ancora pochi quelli che svolgono sistematicamente un lavoro di ricerca sui propri spettatori. È questo un problema riscontrato anche nella citata ricerca della Fondazione Rosselli, dalla quale emerge che la maggior parte degli operatori conducono pochissime ricerche riguardanti il loro mercato, e allorquando lo fanno si limitano a somministrare al proprio pubblico dei questionari mirati alla conoscenza dell’apprezzamento del cartellone presentato dal teatro stesso. Questa abitudine fa sì che spesso le “strategie sul pubblico” attuate dai teatri italiani non abbiano un reale fondamento scientifico, ovvero vengono delineate senza conoscere realmente le esigenze della domanda (Sciarelli 2004d, 99, corsivo mio).

Lo studio qui presentato si colloca in quest’ultimo ambito, con l’intento di rispondere alle esigenze di un operatore specifico quale è il Teatro Comunale “Carlo Gesualdo” di Avellino. Tuttavia, l’approccio di riferimento principale per questa ricerca è quello sociologico, con l’ausilio, naturalmente, di altre prospettive teoriche e metodologiche. Va rilevato, però, che le indagini prettamente sociologiche, specie quelle pubblicate, sono in realtà assai poche, nonostante l’importanza che questa prospettiva pare abbia avuto in passato. La sociologia è stata infatti ritenuta una disciplina alquanto proclive a interessarsi ai pubblici del teatro. Senza dubbio, rievocando il già citato Gurvitch (1956), lo studio dei pubblici costituirebbe una branca fondamentale della sociologia del teatro. Nondimeno, alcuni studiosi hanno manifestato delle perplessità relative all’utilità della sociologia in questo campo. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, nel quadro di una proposta semiotica tesa a integrare efficacemente gli studi in materia di analisi dello spettacolo teatrale, Marco De Marinis (1982, 181) rileva che è alla sociologia che dobbiamo la mole più cospicua di lavori sul pubblico teatrale e sui suoi modi di ricezione. Tuttavia, si tratta perlopiù di indagini em-

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piriche di stampo alquanto tradizionale, consistenti nel rilevamento statistico – mediante interviste e questionari – dei dati riguardanti la frequenza a teatro, la composizione socio-culturale/generazionale/sessuale del pubblico, i suoi gusti e le sue preferenze.

In un lavoro successivo (De Marinis 1988), l’autore ripropone queste considerazioni, insistendo sulla questione della improduttiva tendenza della sociologia a compiere «superficiali inchieste statistiche sul pubblico» (ivi, 80). De Marinis, dunque, richiama l’attenzione sui limiti metodologici di tali indagini, «che utilizzano gli strumenti tecnici della sociografia» (ivi, 91), un avvertimento incisivamente espresso già da Gurvitch, il quale evidenzia in primo luogo la necessità di «evitare di utilizzare per questa ricerca tecniche troppo meccaniche che non permettano di rendersi conto della diversità dei pubblici» (Gurvitch 1956, trad. it. 2011, 33). Altre critiche giungono da quella tradizione francofona che più si è interessata alla questione, ad esempio quelle di Jean Duvignaud, discepolo di Gurvitch, che riprende quasi alla lettera le parole del maestro (Duvignaud 1965, trad. it. 1974, 42-44), ma anche quelle di Roger Deldime,24 il quale, più recentemente, sembra ricalcare esattamente quanto sostenuto da Gurvitch: Si può rimproverare a questi studi di produrre analisi superficiali e meccaniche che si limitano a constatare generalmente un certo numero di fatti senza cercare veramente di spiegarli. Il pubblico è spesso considerato come una categoria omogenea e statica che non rende conto delle differenze esistenti all’interno dell’auditorio teatrale (Deldime 1995, 11).25

Tutti questi rilievi attengono al problema dell’integrazione delle inchieste sul pubblico con un apparato teorico adeguato all’oggetto di stu-

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Roger Deldime, attualmente in pensione come ricercatore e docente, dirige il teatro “La montagne magique” di Bruxelles. Ha fondato nel 1970 il Centre de Sociologie du Théâtre, presso l’Institut de Sociologie della Université Libre di Bruxelles, ed ha presieduto alcuni dei Congressi Mondiali di Sociologia del Teatro (ad es. quelli di Roma, nel 1986, e Bevagna, nel 1989). 25 Dello stesso identico avviso è De Marinis, quando osserva che, generalmente, nelle inchieste sociologiche più superficiali «non si va al di là della semplice, positivistica con-

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dio, e questo può riguardare tutte quelle ricerche – non soltanto sociologiche – che si limitano a quantificare le caratteristiche dei pubblici.26 Delle problematiche più squisitamente metodologiche si dirà qualcosa nel prossimo paragrafo. Dal punto di vista teorico, invece, è importante chiarire subito la questione dell’orizzonte concettuale della sociologia rispetto alle ricerche sul pubblico teatrale. In primo luogo, è opportuno cercare di superare i limiti denunciati dai vari studiosi rispetto all’approccio sociologico. A tal fine, questa ricerca si basa sull’assunto che le indagini sui pubblici teatrali debbano essere prima di tutto inquadrate in un framework composto da diverse branche, vecchie e nuove, della sociologia (sociologia dell’arte, dell’organizzazione, della conoscenza, ecc.). In particolare, la sociologia della cultura di stampo anglosassone appare oggi come uno dei terreni più fertili per questo tipo di studi, in grado di offrire ad essi un background scientifico più o meno forte, nel quale teoria e ricerca empirica risultano spesso integrate in modo efficace. Nondimeno, uno dei debiti più importanti che questo tipo di ricerche deve riconoscere è ancora quello relativo all’ambito francofono, con i fondamentali studi di Pierre Bourdieu,27 la cui opera sarà più volte richiamata nel presente lavoro. In definitiva,

statazione di certi fatti e della loro quantificazione numerica; molto raro è il tentativo di interpretare e spiegare i dati raccolti, analizzandoli con l’aiuto di strumenti teorici adeguati» (De Marinis 1982, 181-182). A ben vedere, quindi, queste osservazioni si collocano tutte nel solco tracciato da Gurvitch con la sua aspra critica nei riguardi dell’uso di «tecniche di accumulazione di fatti disparati, accompagnato tanto da una negligenza completa dell’apparato concettuale della sociologia in quanto scienza specifica, quanto dall’idea ingenua della possibilità di applicare, a cose fatte, qualsiasi teoria sull’ammasso dei fatti» (Gurvitch 1956, trad. it. 2011, 38). Le argomentazioni qui discusse sono riprese anche da Pavis (1996a, trad. it. 2008, 317-318), con un riferimento alle «recenti inchieste del ministero [francese] della Cultura» (cfr. Guy e Mironer 1988), quale esempio di miglioramento dell’approccio ai pubblici teatrali. 26 Non si entra qui nel merito delle ricerche che, secondo De Marinis, sono più solidamente fondate dal punto di vista teorico e che, a partire dagli anni Settanta, iniziano a distinguersi da quelle più deficitarie, integrando diversi approcci (vedi De Marinis 1982, 182; 1988, 92 ss.). 27 Non a caso Paul DiMaggio, uno dei principali esperti statunitensi in materia di sociologia della cultura, deve gran parte della sua impostazione a Bourdieu, il quale è forse l’autore che più ha influenzato il suo percorso di ricerca (Santoro 2009, 9).

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è senz’altro auspicabile un approccio che consideri il modo in cui uno spettacolo teatrale, che è chiaramente un prodotto culturale, viene realizzato e distribuito attraverso quel «complesso apparato interposto tra i creatori di cultura e i consumatori» (Peterson 1978, 295, citato in Griswold 1994, trad. it. 2005, 108).28 Una siffatta impostazione dovrebbe riuscire a contrastare sia la tendenza meramente quantitativa di cui si è detto, sia quella troppo astratta di certi lavori «metafisicheggianti, a volte, sui rapporti fra il Teatro e la Società, concepiti entrambi come entità statiche e monolitiche» (De Marinis 1988, 80). In secondo luogo, non va mai trascurato l’apporto di altre discipline alla prospettiva sociologica, la quale, senza sconfinare in nessuno dei campi ad essa estranei, dovrebbe giovarsi del confronto con altri approcci di tipo umanistico, economico-organizzativo, storico, semiotico e antropologico, i quali possono senz’altro dialogare e collaborare in modo da contribuire alla comprensione del fenomeno in discussione.29

4. Riflessioni sul metodo30 Come per molte altre indagini sul pubblico teatrale, l’obiettivo iniziale di questa ricerca è stato quello di conoscere la composizione, le modalità

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Uno strumento teorico interessante da questo punto di vista è il diamante culturale (Griswold 1986; 1994), che tuttavia non verrà qui preso in considerazione dal momento che l’analisi complessiva del rapporto che lega oggetto culturale, produttori, ricevitori e mondo sociale (i quattro angoli del rombo che costituisce la figura del “diamante”) non può essere organicamente affrontata nel presente lavoro. Un tentativo di applicazione di questo modello all’oggetto culturale “spettacolo teatrale” è presente in Russo (2005). 29 Sul dialogo tra scienze sociali e studi umanistici negli studi sui fenomeni artistici, si veda Zolberg (1990). 30 Questo paragrafo non sostituisce la nota metodologica riportata nell’appendice II, alla quale si rimanda per ulteriori precisazioni. Come osserveranno i lettori esperti – in particolare i sociologi e i metodologi delle scienze sociali – le questioni trattate toccano alcuni dei nodi problematici dell’ormai amplissimo dibattito sui metodi e le tecniche di ricerca sociale. Tuttavia, tale dibattito non sarà qui preso in considerazione (anche per motivi di spazio e pertinenza); ci si limiterà piuttosto a discutere alcune idee di base che informano la ricerca empirica in sociologia e, soprattutto, si presterà attenzione alle in-

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di frequenza, i gusti ed altre caratteristiche di alcuni gruppi di spettatori del Teatro “Carlo Gesualdo” di Avellino. Questa operazione è imprescindibile ma non sufficiente per una conoscenza approfondita di un pubblico teatrale, ed è spesso soggetta a critiche, come si è detto, relative al suo essere mera sociografia. Nondimeno, si tratta di un ovvio punto di partenza per un’indagine sugli spettatori che, in un secondo momento, si proponga di andare più a fondo nella comprensione del rapporto tra costoro e l’esperienza di fruizione teatrale. Alcune cautele si rendono necessarie proprio a partire dalla stessa natura dell’oggetto di studio, i pubblici. Ogni teatro intercetta un pubblico più o meno eterogeneo, cioè un insieme di pubblici che possono tuttavia essere isolati diversificando la programmazione, anche se è improbabile che si riesca davvero a creare dei gruppi del tutto omogenei (e forse non è nemmeno auspicabile). Ipotizzando una siffatta segmentazione, nelle due inchieste condotte per l’indagine qui presentata (la prima inchiesta nel 2006 e la seconda nel 2012) è sembrato quindi ragionevole analizzare complessivamente cinque gruppi di spettatori, i quali hanno assistito a cinque spettacoli diversi per genere e cartellone di riferimento, nel tentativo di rintracciare differenti tipi di pubblico (cfr. Altieri e De Marinis 1985, 206n), una scelta, tra l’altro, adottata spesso nelle ricerche sul pubblico teatrale.31 Ma nell’indagine qui esposta si presenta un ulteriore problema, appa-

dagini condotte sui pubblici teatrali. In merito alla nota dicotomia quantità/qualità, uno dei principali temi del suddetto dibattito, si rinvia ad alcuni tra i numerosi contributi in materia (ad es. Campelli 1991; Silverman 1993; Cipolla e de Lillo 1996; Ricolfi 1997; Cipolla, de Lillo e Ruspini 2012). Si noti, però, che in questa sede non è riproposta per l’ennesima volta una contrapposizione tra ricerca quantitativa e qualitativa, ma viene anzi ribadita una possibile – e auspicabile – integrazione delle due prospettive. 31 La ricerca condotta da Peter H. Mann (1966) ha preso in considerazione un periodo abbastanza lungo: due spettacoli teatrali per più di un mese di repliche, durante le quali, come nella presente indagine, agli spettatori sono stati distribuiti dei questionari autosomministrati. In quel caso, una scelta molto interessante è stata quella di inserire il questionario nel programma di sala. La stessa ricerca, inoltre, doveva riguardare inizialmente una singola produzione per un pubblico giovane (un adattamento di Rodney Stone, da A. C. Doyle), procedura che però rischiava di non rivelare nulla di particolarmente “tipico” se i risultati ottenuti non

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rentemente più gravoso. In questo caso non è possibile parlare di rappresentatività, dato che i pubblici analizzati non costituiscono dei sottoinsiemi di popolazioni più ampie delle quali si desiderava conoscere le caratteristiche. Si tratta piuttosto di insiemi concreti di individui, riuniti in un determinato luogo, cioè un teatro, e in un dato lasso di tempo, pari alla durata della rappresentazione più gli intervalli e i tempi di attesa (prima e dopo lo spettacolo). Questa peculiare situazione, da un lato, può rivelarsi interessante, poiché rende possibile una “osservazione sul campo”. Dall’altro, però, presenta non pochi problemi per il ricercatore (Mann 1966), alcuni dei quali, solo apparentemente banali, sono stati segnalati da Bruno Sanguanini: Siamo consapevoli che il pubblico sia una “bestia” difficile da catturare e studiare in laboratorio [...]. Lo spettatore che frequenta il Teatro è solitamente restio a permettere che un ricercatore turbi la sua libertà nei pochi minuti che precedono o che intervallano lo spettacolo: infatti molti tentativi di sottoporre questionari auto-somministrati hanno portato a risultati scadenti oltre che a uno spreco di carta e di penne a sfera (Sanguanini 1989, 311).

Quella descritta da Sanguanini è appunto la procedura usata nella presente ricerca, per la quale ovviamente si spera non vi sia stato uno “spreco di carta e di penna”. I vantaggi e i limiti dell’autosomministrazione (o autocompilazione) sono ben noti (cfr. ad es. Corbetta 2003a, 179-184). Sul piano pratico, si tratta certamente di una soluzione poco costosa, ma il ricercatore può vedersi sfuggire di mano l’oggetto di studio (e il materiale impiegato, cioè i questionari32), soprattutto in assenza di una efficace supervisione di tutto il processo di distribuzione, compila-

fossero stati confrontati con un pubblico “normale” (si direbbe una sorta di “gruppo di controllo”). I ricercatori scelsero allora di compiere una rilevazione anche sugli spettatori di Uncle Vanya di Čechov, con la possibilità, dunque, di comparare i due tipi di pubblico. 32 È proprio quello che si è verificato nel nostro caso. Molti questionari sono letteralmente spariti, cioè consegnati agli spettatori e non restituiti. Il personale del “Gesualdo” spiega questo comportamento con il fatto che gli abbonati “si comportano come se fossero a casa propria”. Il che, nel bene e nel male, può essere positivo per il Teatro, ma non certo per chi intende studiare il pubblico con questo sistema.

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zione – che dovrebbe essere assistita, ma non può esserlo in ogni caso e per ogni soggetto – e restituzione. Sul piano metodologico, i problemi che possono presentarsi sono ancora più gravi e derivano da quelli di ordine pratico: tra il pubblico potrebbero esservi persone che non sono in grado di rispondere correttamente a tutti i quesiti proposti, oppure non vogliono farlo, con evidenti rischi per l’esito della rilevazione. Da ciò deriva il limite della «autoselezione di coloro che rispondono»: può trattarsi infatti di «un segmento particolare di quella popolazione, costituito probabilmente dalle persone più motivate, più istruite, forse più giovani, ecc.; col risultato che avremo in mano dei dati che non sappiamo fino a che punto siano effettivamente estensibili alla popolazione che vogliamo studiare» (ivi, 179-180).33 Proprio in questo sta la particolarità di un’inchiesta – non campionaria – come quella condotta nel caso qui esposto. Non vi era alcun interesse nell’estendere i risultati a una data popolazione,34 anche perché, viceversa, bisognava prima di tutto domandarsi quale popolazione si intendeva studiare. Se ad esempio si fosse trattato degli spettatori assidui del Teatro “Carlo Gesualdo”, la soluzione sarebbe stata quella di estrarre dalla lista degli abbonati dei nominativi per effettuare delle interviste, strutturate o libere che fossero. Questo procedimento, però, non avrebbe permesso di intercettare i molti spettatori saltuari (che avevano acquistato il biglietto singolo), le cui caratteristiche sono piuttosto diverse – e meritevoli di analisi e riflessione – da quelle degli abbonati al Teatro. Una volta esaminata la questione del reclutamento dei soggetti da intervistare mediante questionario, bisogna affrontare il problema dell’ana-

33 Probabilmente un’indagine sui pubblici teatrali tende quasi sempre a intercettare gruppi di soggetti che sono già selezionati rispetto a una più ampia stratificazione sociale. Ad esempio, categorie socio-professionali come gli operai dei vari settori produttivi, o i tecnici di basso livello, e più in generale le persone prive di un titolo di studio medio-alto, sono spesso sottorappresentati quando non del tutto assenti tra gli spettatori di teatro. 34 Lo stesso dicasi, ad esempio, dell’indagine di Altieri e De Marinis (1985), nella quale l’insieme dei soggetti intervistati non è «un pubblico-campione, nel senso stretto del termine», non essendo gli autori interessati a «‘costruirlo’ come tale», anche se alcuni tentativi di generalizzazione vengono ugualmente proposti, seppure in modo prudente (ivi, 211).

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lisi dei dati così ottenuti. Nell’esaminare le variabili e le relazioni tra di esse, è indispensabile tenere sempre presente che dietro la constatazione di un fenomeno sociale, così come ci appare attraverso i dati, vi è un complesso di fattori ben più ampio e articolato di quello che tali relazioni sembrano mostrare. Si pensi a quanto segnalato in proposito da Herbert Blumer: Nell’analisi delle variabili si devono accettare le due variabili come gli item semplici e unitari che sembrano essere, e credere che il rapporto tra loro rappresenti un’analisi realistica di una determinata parte del gruppo. In realtà è molto più facile che nella vita del gruppo il rapporto sia tra ambiti di attività complessi, diversificati e in movimento. [...] La formulazione del rapporto variabile si limita a sottolineare una relazione tra termini semplificati di riferimento. Esso tralascia i complessi reali di attività e i processi reali di interazione nei quali si svolge la vita del gruppo umano (Blumer 1956, trad. it. 2008, 174).

È dunque evidente che il solo esame delle relazioni tra variabili può anche indurre in errore. Ad esempio, come avverte Bourdieu,35 i «rapporti individuali» tra la variabile indipendente e quella dipendente tendono a nascondere il sistema complessivo dei rapporti che costituiscono la vera ragione della forza e della forma specifiche assunte dagli effetti registrati in quella particolare correlazione [...]. Effettuando l’analisi, variabile dopo variabile, come spesso si fa, ci si espone al pericolo di attribuire ad una determinata variabile (per esempio il sesso o l’età, che a modo loro, possono esprimere tutta la situazione o le vicissitudini di una classe) quello che invece costituisce l’effetto di tutte le variabili nel loro insieme (Bourdieu 1979, trad. it. 1983, 107-108).

Quel “sistema complessivo” di rapporti tra i molteplici aspetti dei fenomeni sociali può essere ipotizzato – anche e soprattutto prima di rile-

35 Il fatto che qui si adoperino i punti di vista di due figure così distanti come Blumer e Bourdieu non deve stupire. Essi affrontano un nodo tematico assai spinoso a partire da prospettive teoriche diverse, che tuttavia hanno in comune il fatto di mettere in guardia lo studioso dagli errori, le sviste, e quanto altro può inficiare la qualità del suo lavoro a causa di un uso acritico delle tecniche di analisi dei dati.

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vare le informazioni e di applicare le tecniche di analisi dei dati – mediante ragionamenti basati sia sulla letteratura scientifica che sull’esperienza pregressa e le categorie (schemi) mentali del ricercatore, in questo caso riproponendo anche una problematica legata alle immagini di cui egli dispone e che usa tanto per selezionare quanto per interpretare i risultati che ottiene.36 Di norma vengono anche compiute analisi sulle relazioni tra più variabili, utilizzando particolari tecniche e strumenti statistici. Tuttavia, per non limitarsi a delle conclusioni più o meno superficiali, sarebbe preferibile approfondire l’indagine attraverso un confronto diretto e aperto con i soggetti studiati. Da simili questioni discende la necessità di utilizzare determinati strumenti di rilevazione. Sono molte le domande che una ricerca sul pubblico teatrale si può porre: per quali motivi si va a teatro o si sceglie un abbonamento, quali autori e generi teatrali sono più apprezzati dagli spettatori. Qualunque risposta, se basata solo su un’inchiesta condotta mediante questionario strutturato, sarebbe tutto sommato parziale, a prescindere dall’ampiezza della rilevazione e dalla possibilità di generalizzarne i risultati. Un simile lavoro, infatti, consentirebbe al ricercatore di sapere quali «sollecitazioni» – come direbbe Duvignaud (1965) – «attirano» gli spettatori a teatro, ma solo in via del tutto approssimativa, poiché quando si intende studiare i «sistemi dei gusti», come Bourdieu sostiene a proposito del suo stesso lavoro, l’inchiesta a questionario chiuso è sempre e solo un ripiego, imposto dalla necessità di ottenere un numero consistente di informazioni confrontabili su di una popolazione abbastanza numerosa per autorizzare una trattazione statistica. In primo luogo, essa si lascia sfuggire quasi completamente ciò che riguarda le modalità delle pratiche (Bourdieu 1979, trad. it. 1983, 508).

Per superare questi limiti è opportuno integrare i dati in tal modo prodotti con l’oralità,37 e cioè con le possibilità espressive offerte dalle tec-

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Il riferimento è qui ancora a Blumer (1969), ma anche a Becker (1998), che riprende le riflessioni metodologiche del maestro; vedi anche infra, cap. 2. 37 Devo l’uso di questo termine nel presente contesto al prof. Raffaele Rauty (naturalmente assumendomene la responsabilità).

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niche di rilevazione qualitativa. I focus group, per esempio, pur essendo affetti da una certa artificialità caratteristica della maggior parte delle situazioni di intervista,38 possono condurre la ricerca in una dimensione discorsiva più prossima alla vita quotidiana. In effetti, nella ricerca sociale il fatto di contemplare metodi e strumenti diversi dovrebbe sempre servire a compensare le inevitabili mancanze degli uni e degli altri, e ciò appare indispensabile nelle ricerche sul pubblico teatrale che vogliano andare oltre la sola sociografia (cfr. Deldime 1995, 12).

5. Note sui generi teatrali Un altro scopo di questa indagine è porre in relazione i caratteri anagrafici e socio-culturali degli spettatori con i loro gusti teatrali. Per fare questo è opportuno dire qualcosa sul concetto stesso di genere teatrale, il cui uso non è del tutto scontato. Nel linguaggio comune questa parola viene adoperata per indicare insiemi più o meno coerenti entro i quali collocare gli spettacoli, e dunque consentire tanto alle persone che operano nelle organizzazioni teatrali, quanto agli spettatori, di compiere delle scelte: cosa produrre, come e attraverso quali canali distribuire quanto viene prodotto (cioè in quali sale teatrali far andare in scena uno spettacolo) e infine, per il pubblico, cosa andare a vedere e dove. Come si avrà modo di dire, tutti questi fattori sono intimamente connessi con la definizione di genere teatrale. Ma cosa si intende con questo termine? Va subito detto che in questa ricerca esso viene usato nell’accezione tradizionale, «ristretta e normativa», che riguarda «insiemi discorsivi socialmente istituzionalizzati e storicamente tramandati: tragedia, commedia, melodramma, farsa, mimo, danza, circo, e così via» (De Marinis 1982, 201). Questo uso più comune del termine, come dice De Marinis,

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Anche se durante tali incontri gli intervistati possono in un certo modo, e ad un certo punto, “abituarsi” alla situazione di intervista e dimenticare che si tratta di una rilevazione di informazioni, comportandosi come se si trovassero in una normale discussione di gruppo su argomenti che, non a caso, spesso emergono spontaneamente.

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non può essere contemplato in una teoria della ricezione di stampo semiotico.39 D’altro canto, secondo il parere dello scrivente, esso può invece rivelarsi utile in un contesto nel quale si è interessati a confrontare le scelte che l’operatore teatrale compie e quelle che intende fare – o è costretto a fare – il pubblico.40 Cionondimeno, un approfondimento sull’uso di questo concetto in ambito semiotico può servire a raggiungere un livello di analisi più specifico, quando se ne presenterà l’occasione, attraverso il quale cercare di comprendere meglio quelle scelte di cui si è detto. Dal punto di vista degli studi di semiotica e teoria letteraria, è necessario prendere le distanze dalla nozione tradizionale di genere teatrale. Come scrive Pavis (1996b, trad. it. 1998, 189), si parla spesso di genere drammatico o teatrale, di genere della commedia o della tragedia, o ancora di genere della commedia di costume. Tale uso pletorico del termine genere fa sì che esso smarrisca ogni significato preciso, facendo crollare ogni tentativo di classificazione delle forme letterarie e teatrali.

Il problema, dunque, riguarda il grado di precisione attraverso la quale è possibile stabilire come, quando e perché un determinato spettacolo appartenga ad un dato genere, sulla base dei suoi elementi costitutivi e caratterizzanti (peraltro molteplici e in qualche modo variabili). Il genere teatrale dovrebbe essere così inteso non più in senso normativo, ma «in senso descrittivo per indicare qualsiasi classe di testi dotati (in misura e con frequenza variabili) di tratti cotestuali e/o contestuali comuni» (De Marinis 1982, 201). Molti aspetti di questa definizione vanno ricondotti all’uso della parola testo che, nell’ambito della semiotica, seguendo De Marinis, indica «ogni unità di discorso – sia essa di tipo verbale, non-ver-

39 Non si entrerà qui nel merito dell’ampio dibattito relativo alla semiotica, che tra l’altro ha attraversato negli ultimi decenni varie fasi, comprese quelle di ascesa, declino e rinnovamento di prospettive, legate anche all’interazione tra questo ambito e le scienze sociali. Si vedano, tra gli altri, Pavis (1996a) e Shevtsova (2009, 60-63). 40 In tal senso, l’accezione tradizionale di genere teatrale è in effetti assai vicina alla definizione di genere artistico proposta in ambito sociologico da DiMaggio (1987; vedi infra).

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bale o misto – che risulti dalla coesistenza di più codici [...] e che possegga i requisiti costitutivi di compiutezza e coerenza» (ivi, 60). Dal momento che un’opera d’arte o un brano musicale possono in tal modo essere considerati dei testi, lo stesso varrebbe per lo spettacolo teatrale. In tal caso De Marinis parla di testo spettacolare (TS). Mentre gli aspetti co-testuali dello spettacolo si riferiscono alle «regolarità “interne” del TS», così come alle sue «proprietà materiali e formali» e ai suoi «livelli di struttura (codici, sottocodici, strutture testuali)» (ivi, 12), gli aspetti con-testuali, ben più importanti ai fini del presente lavoro, riguardano il contesto spettacolare, «rappresentato dalle condizioni di produzione e di ricezione del TS» (ivi, 97),41 ma anche il contesto culturale, costituito dalla somma dei testi culturali sincronici, teatrali (spettacolari o parziali: mimici, coreografici, scenografici, drammaturgici, ecc.) ed extra-teatrali (letterari, pittorici, architettonici, urbanistici, retorici, filosofici), che possono venir messi in relazione con il TS considerato o con un suo TP [testo particolare]. A loro volta, questi testi fanno parte del testo (culturale) generale (TG) cioè del sistema complessivo della cultura, inteso come l’insieme di tutti i testi sincronici (ibidem).42

41 Di particolare interesse sono alcuni «segnali contestuali di genere», dei quali «la categoria più importante e quantitativamente più cospicua» è costituita dalle «etichette di genere, che funzionano come vere e proprie “istruzioni per l’uso” a beneficio dei riceventi. Si tratta di indizi contestuali quali il nome dell’autore, del regista e degli attori; le caratteristiche del luogo teatrale (teatro all’italiana, cantina, hangar, chiesa, piazza), ecc.; oppure di contrassegni più propriamente metatestuali come il titolo e soprattutto il sottotitolo del TS. Molte di queste etichette di genere sono contenute nei cosiddetti paratesti, cioè in quei testi che precedono, accompagnano e seguono il TS: locandine, manifesti e altri annunci pubblicitari, programmi di sala, presentazioni e critiche giornalistiche, ecc.» (De Marinis 1982, 205-206; il termine e la definizione di paratesto sono mutuati da Mauro Wolf, in Casetti, Lumbelli e Wolf 1980; 1981). Quanto, invece, ai termini cotestuale e contestuale, va ricordato, ancora con De Marinis (1982, 215n), che essi provengono dalla Textlinguistik, per la quale si rimanda a Conte (1977). 42 Qui De Marinis fa riferimento a Kristeva (1969). Tuttavia, la sincronia culturale di un dato sistema non riguarda solo quanto è stato prodotto in un certo periodo storico: di quella sincronia fanno invece parte «tutte le occorrenze discorsive (anche prodotte in epoche diverse e/o provenienti da altre aree geografiche) che la cultura in questione valida (riconosce) come (propri) testi» (De Marinis 1982, 216n).

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Il genere teatrale può dunque essere definito come ogni sottoclasse (grande, piccola, piccolissima) di TTSS [testi spettacolari] in tal modo delimitata (o delimitabile) all’interno della classe (macro-genere) /spettacolo teatrale/: e dunque, per primi, anche i “generi” storico-istituzionali; ma oltre ad essi, per esempio: a) la produzione di un regista, o di una compagnia teatrale; b) i lavori di una tendenza artistica o di un filone di ricerca; c) le diverse messe in scena di una stessa opera; d) la produzione teatrale di un’area geografico-culturale o di un certo periodo storico, ecc. (ivi, 201-202).

Questa definizione di genere teatrale, per quanto complessa, è utile per interpretare non solo i processi ricettivi ma anche e soprattutto il rapporto tra i gusti teatrali del pubblico – socialmente costruiti – e tutti quegli elementi in grado di orientare le loro scelte e preferenze in fatto di opere e fenomeni artistici e, in particolare, in materia di spettacolo teatrale. Occorre tenere presente, tuttavia, che spesso la decisione di partecipare ad un dato spettacolo è mediata sia dall’accesso ad un preciso teatro, con una sua specifica offerta, sia dalla presenza, anche un po’ ingombrante, dell’abbonamento quale modalità di acquisto dei biglietti per un insieme di spettacoli talvolta assai diversi l’uno dall’altro. La questione, pertanto, verte anche sul ruolo dei generi teatrali nella composizione di un cartellone e dei relativi abbonamenti, essendo questi ultimi, nel caso qui considerato, sia mono- che pluri-tematici, e dunque legati ad una ipotesi di segmentazione del pubblico,43 che può trovare riscontro o meno nella percezione e nella soddisfazione dei destinatari di una programmazione teatrale. Si tenga conto che spesso un teatro comunale deve rispondere a una domanda differenziata: «i Teatri Comunali programmano di solito attività di prosa a fianco di quella concertistica, lirica, di danza, di teatro ragazzi e altro: sono fucine frenetiche in cui più cartelloni si alternano o si intrecciano» (Gallina 2007, 285). Questo conduce a compiere scelte che necessariamente devono coprire un vasto spazio

43 In proposito si veda anche l’intervista-conversazione con il Presidente del CdA del “Gesualdo”, riportata nell’appendice I.

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di gusti e preferenze (scelte che dovrebbero appunto basarsi su ricerche condotte periodicamente sul pubblico). In questa indagine, la scelta degli spettacoli in occasione dei quali somministrare il questionario al pubblico è stata compiuta nell’intento di abbracciare – in termini relativamente approssimativi – lo spettro delle proposte artistiche di un teatro generalista quale è il “Gesualdo”.44 Il fatto di aver svolto due inchieste in altrettante stagioni teatrali, con una determinata tempistica in ognuna di esse,45 ha poi condotto chi scrive a fare di necessità virtù, ovvero a prendere in considerazione gli spettacoli che più si avvicinassero alle macro-aree di interesse di una programmazione teatrale varia e in qualche modo esaustiva: l’intrattenimento e la cultura (cfr. cap. 3). Queste due categorie sono state quindi considerate, anche in via analitica, come scelte distintive tanto per il pubblico quanto per gli operatori teatrali (anche se, più o meno recentemente, alcuni approcci teorici e operativi sembrano evidenziare una integrazione piuttosto che una contrapposizione tra queste due aree tematiche).46 Nello spettro dell’offerta teatrale si può dunque immaginare un continuum – che infatti è stato applicato alla costruzione dei grafici (vedi cap. 2) – i cui poli possono essere rappresentati dai generi “leggeri” (cabaret, commedia tradizionale e spettacolo musicale – eccetto la lirica) da un lato, e dall’offerta di spessore culturale (prosa contemporanea, avanguardia e nuova drammaturgia) dall’altro. Questi due poli, a ben vedere, corrispondono a due differenti concezioni di cultura. Il teatro comico e quello dei

44 Su questo aspetto della programmazione complessiva del “Gesualdo” – che è piuttosto varia, includendo delle stagioni distinte per prosa, musica, teatro per le scuole, ecc. – si è già accennato nella premessa di questo volume. Per informazioni più dettagliate si rimanda alla scheda sul teatro riportata nell’appendice I. 45 Per motivi di organizzazione del lavoro, entrambe le inchieste hanno avuto luogo nei primi mesi dell’anno, e cioè nel febbraio 2006 e nel marzo 2012. Quindi era necessario scegliere le date di rilevazione tra gli spettacoli in cartellone in quel periodo. Per i relativi dettagli si rimanda all’appendice II. 46 È quanto riporta Fabiana Sciarelli (2004c, 91) riguardo alla citata indagine nazionale: «il teatro rappresenta ormai sempre di più un settore a metà tra il concetto di svago e quello di cultura». Simili constatazioni possono in parte essere fatte anche nel nostro caso, osservando il cartellone del “Gesualdo”.

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cabarettisti dialettali richiama un’idea di cultura di matrice antropologica, legata agli usi e ai costumi di un dato gruppo sociale. Questa caratteristica è presente nella stessa tradizione degli attori. «L’attore in lingua è legato ai grandi circuiti urbani e alle esigenze della società borghese, i comici sono invece radicati nelle situazioni regionali, si esprimono in dialetto, a diretto contatto con le classi popolari» (De Matteis 1980, 347). A questa concezione si contrappone l’idea di cultura più diffusa nel linguaggio comune: un ideale di bellezza, perfezione, “elevazione dello spirito”, spesso riferita «alle belle arti e allo spettacolo, o alla letteratura seria. La cultura in questa accezione viene chiamata a volte “cultura alta” – in quanto opposta a quella popolare, folk, o di massa – e implica uno status sociale elevato» (Griswold 1994, trad. it. 2005, 17). Si tratta di un modo di pensare la cultura «tradizionalmente associato al sapere umanistico, sebbene le discipline umanistiche contemporanee stiano intensamente ripensando questo approccio» (ivi, 20; cfr. Zolberg 1990). Su quest’ultimo versante è più facilmente collocabile la prosa seria, classica o contemporanea, ma anche gran parte della nuova drammaturgia e del teatro di ricerca. Naturalmente questa sorta di schema presenta delle forzature, come spesso accade quando si cerca di classificare una moltitudine di oggetti e fenomeni caratterizzati da varie sfumature: è il caso della vita sociale, ma anche e soprattutto di una materia così complessa come il teatro (da ciò, probabilmente, discende anche il tentativo di De Marinis di definire in maniera più articolata la nozione di genere teatrale; vedi supra). Al di là dei suoi eventuali limiti, tuttavia, un siffatto schema può rivelarsi assai utile in ambito sociologico. Ad esempio, se è vero che i generi teatrali risultano collocabili lungo il predetto continuum in senso orizzontale, ossia in termini di diversità, è anche vero, d’altra parte, che le distinzioni tra di essi possono essere invece espresse in termini gerarchici, cioè in senso verticale, per indicare un maggiore o minore valore ad essi conferito anche attraverso le scelte degli stessi spettatori, un valore che per Bourdieu (1979, trad. it. 1983, 233) ha a che fare con il profitto simbolico offerto delle pratiche di consumo culturale (vedi infra). Questi meccanismi dipendono dal significato attribuibile alle opere, che si costruisce nel rapporto tra prodotto culturale, struttura sociale e differenziazione del gusto. Ciò conduce ad una definizione più squisitamente sociologica dell’oggetto di questo paragrafo, estesa però ai generi artistici, non solo quello teatrale.

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Paul DiMaggio (1987, trad. it. 2009, 214) usa il termine genere per riferirsi a un insieme di opere artistiche classificate e riunite sulla base di caratteristiche percepite come simili. La sfida per la sociologia dell’arte è comprendere i processi attraverso cui certe caratteristiche sono percepite come simili e i generi vengono quindi costruiti come tali. Credo che i generi rappresentino principi organizzativi socialmente costruiti che attribuiscono alle opere d’arte un significato che va oltre il loro contenuto tematico e, a loro volta, rispondono alla domanda di informazione e appartenenza culturale generata a livello strutturale.47

Le distinzioni tra i generi non sono del tutto inscritte nelle opere stesse, ma piuttosto nel modo in cui è organizzata la loro produzione e distribuzione, da un lato, e la loro appropriazione – come direbbe Bourdieu – dall’altro. È qui che entrano in gioco quelli che DiMaggio chiama «‘sistemi di classificazione artistica’: il modo in cui l’opera degli artisti è categorizzata dai consumatori, sia mentalmente che nelle loro abitudini di consumo, e dalle istituzioni che si occupano sia della produzione che della distribuzione di generi diversi». Questi sistemi comprendono «i processi attraverso cui le distinzioni di genere sono create, ritualizzate e modificate, e i processi attraverso cui i gusti sono prodotti come parte delle attività di costruzione di senso e di definizione dei confini dei gruppi sociali» (ibidem). Bisogna notare – avvicinandosi all’analisi di Bourdieu in proposito (cfr. ad es. Bourdieu 1971b) – che così come si distinguono i vari generi, allo stesso modo si distinguono i consumatori, in una sorta di corrispondenza tra i due sistemi di categorizzazione.48

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Per opere d’arte l’autore intende anche gli spettacoli teatrali. Non a caso, in una nota riportata nella stessa pagina, DiMaggio esemplifica appunto questa relazione: «Se immaginiamo una matrice definita dagli individui nell’asse verticale e dalle opere d’arte nell’asse orizzontale, con le celle (0,1) che indicano le relazioni (la conoscenza di, l’apprezzamento di, il disprezzo di) tra gli individui e le opere d’arte, i generi sono costituiti da quegli insiemi di opere che intrattengono relazioni simili con gli stessi insiemi di individui» (DiMaggio 1987, trad. it. 2009, 214n). 48

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Su questi aspetti si ritornerà nei prossimi capitoli. Per il momento, è opportuno riprendere la questione dei generi dal punto di vista del valore o del prestigio attribuito alle opere artistiche in essi ricomprese. Come è noto, Bourdieu (1979, trad. it. 1983, 233) sostiene che «le opere culturali son l’oggetto di un’appropriazione esclusiva, materiale o simbolica», consistente, cioè, nel possesso delle opere stesse e/o nella capacità di discernimento del loro contenuto e del loro significato, nonché degli stili ai quali esse appartengono (capacità di operare confronti e classificazioni), ma soprattutto nella dimostrazione di un’autorità derivante dal fatto di essere dotati di risorse e qualità per apprezzarle. In tal modo, le opere culturali «assicurano un profitto di distinzione proporzionale alla rarità degli strumenti necessari ad appropriarsene» (ibidem). Dal momento che si è parlato delle dimensioni (orizzontale e verticale) del continuum descritto più sopra, va allora detto che esse si combinano proprio in quel profitto simbolico che l’apprezzamento di ciascun genere teatrale è in grado di offrire, il che, però, è anche funzione dell’assetto organizzativo del settore che produce e distribuisce gli spettacoli. Per quanto riguarda il teatro italiano, si pensi al caso del cabaret: non si tratta certo di un genere nuovo, tuttavia la sua presenza all’interno dei cartelloni teatrali ha seguito negli ultimi anni una dinamica particolare. Lo spettacolo dei comici è infatti nato sui palcoscenici teatrali e nei locali di cabaret, per poi esplodere come fenomeno televisivo e ritornare su quei palchi, su richiesta soprattutto di organizzatori e gestori di teatri, in virtù di accresciute opportunità di raggiungimento dei pubblici teatrali.49 Questi cambiamenti incidono sui processi di attribuzione di significato a tali prodotti culturali da parte dei fruitori, nonché sulle stesse modalità di fruizione, che a loro volta dipendono dall’organizzazione delle imprese culturali. Si può notare l’effetto di questo meccanismo sulla composizione delle stagioni teatrali. Difatti, Mimma Gallina (2005, 155) segnala lo «spostamento progressivo delle programmazioni dei teatri – comunali e privati – verso forme di programmazione più “leggere”». Dalla seconda metà degli anni Novanta, musical e comici, inizialmente presenti in minima

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Si veda il caso di “Zelig” in Gallina (2005, 183-185, Scheda a cura di G. Crisafulli).

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parte nei cartelloni teatrali, hanno finito col generare, come nel caso del “Gesualdo”, rassegne separate e abbonamenti ad hoc per questo tipo di proposte.50 Per effetto dell’inclusione massiccia del cabaret nella programmazione televisiva, il grado di informazione di cui dispongono i pubblici teatrali (che in buona parte sono al tempo stesso pubblici televisivi) in merito a questo genere di spettacolo, e soprattutto sui notissimi personaggi che lo rendono appetibile e popolare anche a teatro, subisce un incremento notevole. Gli spettatori, cioè, conoscono e riconoscono il cabaret in quanto genere di intrattenimento, ma per farlo non hanno bisogno di particolari competenze, né devono padroneggiare particolari codici espressivi.51 Di conseguenza, questo tipo di spettacoli assicura un basso profitto simbolico, ma soprattutto finisce con l’essere parte di un sistema che distingue anche il pubblico in base ad una certa “appartenenza” culturale, a sua volta rivendicata (cfr. cap. 3) da coloro i quali dichiarano di non apprezzare quel genere, ormai divenuto spettacolo di massa (anche nell’accezione anglosassone di popular culture). Nel seguito si cercherà di approfondire queste argomentazioni, unitamente alla presentazione del lavoro empirico oggetto di questo volume.

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Ciò è dovuto anche al fatto che musical e spettacolo comico «hanno caratteristiche tipicamente commerciali: ovvero, tendono al profitto» (Gallina 2005, 183). In tal caso si è in presenza di un prodotto che potrebbe dirsi “orientato al mercato” (Colbert, et al. 1993). 51 Come si avrà modo di notare, sia la definizione semiotica di genere teatrale che la nozione di competenza teatrale dello spettatore (De Marinis 1982) torneranno utili nel prosieguo di questo lavoro.

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SECONDO CAPITOLO

Pubblici del “Gesualdo”. Una ricerca diacronica

In questo capitolo sono discussi i risultati delle inchieste effettuate su alcuni gruppi di spettatori del “Gesualdo” nel corso delle stagioni 2005/2006 e 2011/2012. Sarà quindi possibile osservare i cambiamenti intercorsi tra le due rilevazioni rispetto alla composizione del pubblico e ad altre variabili. Alcune considerazioni saranno inoltre integrate da stralci del materiale testuale prodotto nei focus group. Nelle pagine seguenti sono riportate solo le rappresentazioni grafiche delle distribuzioni dei dati ritenuti più importanti ai fini di questa indagine. Per le tabelle citate si rimanda all’appendice II.1

1. Composizione dei pubblici oggetto di studio 1.1. Il sesso I pubblici oggetto di analisi nel 2006 e nel 2012 sono tutti composti da una maggioranza di spettatrici, soprattutto tra gli intervistati de La forza dell’abitudine (fig. 1.1). Tra gli spettatori di Inciuci globalizzati, lo spettacolo del comico napoletano Simone Schettino, nell’inchiesta del 2006, la presenza di donne e uomini è invece leggermente più equilibrata. Questi dati non dovrebbero sorprendere, poiché anche nel pubblico italiano le donne vanno di più a teatro e sono più interessate ad esso rispetto agli uomini (Istat 2008).

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Per alcuni grafici, le basi delle percentuali (cioè il numero totale N di casi sul quale sono state calcolate le stesse, che corrisponde quindi al 100%) sono riportate nelle tabelle citate in didascalia; in tutti gli altri casi, invece, esse sono inserite nei grafici stessi.

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Figura 1.1. Distribuzione degli spettatori per sesso e spettacolo seguito (Basi: vedi tab. 7).

1.2. L’età Complessivamente, i pubblici analizzati presso il Teatro “Carlo Gesualdo” di Avellino sono composti in prevalenza da adulti e anziani (fig. 1.2),2 come risulta anche dalla distribuzione della scelta di abbonamento per età nel 2006 (vedi tab. 10 e infra, par. 2.1). In entrambe le inchieste (2006 e 2012), la maggioranza degli intervistati ha comunque più di 45 anni, una soglia che in questa sede definisce il limite massimo per essere compresi tra gli “adulti-giovani”.3 Un’evidente eccezione riguarda invece la composizione

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Questa peculiarità della composizione del pubblico del “Gesualdo” è stata più volte sottolineata dal personale del Teatro che è più a contatto con gli spettatori (ad es. per le attività di vendita di biglietti e abbonamenti). 3 Non a caso, nel focus group condotto nel 2011 con un gruppo di giovani, due dei par-

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