Onore al merito!
Una città europea...
Raffaela Trequattrini E’ con grande gioia che dopo tante critiche e rivendicazioni, sento dal più profondo del cuore di poter elogiare una struttura pubblica, forse la Struttura Pubblica per eccellenza, quella in cui il trattamento nei confronti dell’utenza manifesta nel modo più significativo il grado di civiltà e di progresso di un territorio: l’Azienda Ospedaliera, in questo caso di Terni. Dopo due recenti ricoveri, uno di un familiare ed uno personale, non ho dubbi nell’asserire che nella nostra città dobbiamo considerarci fortunati perché il nostro ospedale funziona davvero, sotto tutti i punti di vista. Non mi riferisco esclusivamente alla competenza professionale dello staff medico ed infermieristico, ma anche alla gestione dei rapporti umani, alla delicatezza e alla sensibilità con la quale i pazienti vengo-
N° 2 - Febbraio 2005 (22)
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Insomma, ci ascoltate?
Come cambiano le solite facce
Vincenzo Policreti
Francesco Patrizi
Ma in definitiva, che siamo un Paese sostanzialmente democratico lo possiamo dire o no? Non è da oggi che da noi il quisque de populo, l’uomo della strada, sente le istituzioni – tutte, con rare eccezioni – lontane da sé e dai suoi interessi. Ma se in democrazia il cittadino, proprio in quanto cittadino qualsiasi, non ottiene rappresentanza nelle istituzioni è la democrazia stessa a riceverne un vulnus mortale. Ora, discettare se in Italia vi sia poca o tanta democrazia porterebbe lontano; ma è un dato arcinoto che il cittadino si sente estraneo - diciamolo, non senza motivo - alle decisioni che, pure riguardandolo, vengono prese e passano sopra la sua testa; e, dato che questa situazione si prolunga ormai da un sacco di tempo, avverte da un lato un senso di vera e propria esasperazione che lo porta ad un vivo
Se vedessimo un volantino elettorale di vent’anni fa, quel candidato non ci convincerebbe, perché sono cambiati non solo i valori, ma il modo di comunicare, che in realtà è tutto. Vent’anni fa il politico si faceva ritrarre in piazza, tra la gente: stava a significare aspettiamo solo te. Passava l’immagine dell’uomo della folla, dell’uomo venuto dal basso, del rappresentante autentico dei cittadini. Oppure si faceva ritrarre in famiglia, con moglie, figli e cane fedele. Passava l’immagine dell’uomo della tradizione, del padre di famiglia che curerà gli affari degli elettori come fossero i suoi. I valori trasmessi erano la fedeltà (la moglie, il cane), la tradizione (il focolare), l’impegno per il futuro (i figli).
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A PAGINA 4
Progetto Cantamaggio
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Nera Marmora
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Barbato Limatola
8-9 Benozzo Gozzoli e il Cardinale Berardo Eroli 12
Achille e la tartaruga
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Santa Maria degli Spiazzi
La battaglia della memoria Francesco Borzini In questi ultimi giorni, protagonista della battaglia politica è stata la memoria di alcuni tragici fatti della nostra storia patria. Si sono celebrate, giustamente, giornate di ricordo per le vittime dell’Olocausto nazifascista e per gli italiani vittime delle Foibe e dell’esodo istriano e dalmata. Grande clamore ha suscitato il ricordo del tragico eccidio di Primavalle, in cui persero la vita i due giovani figli di un militante missino, uccisi nello scellerato rogo appiccato da alcuni criminali esponenti di Potere Operaio. Nell’Aula del Senato della Repubblica, contestualmente, si sono tenute accese discussioni sul finanziamento delle celebrazioni del sessantesimo anniversario della resistenza partigiana e sul riconoscimento dello status segue a pag. 2
Passaggio in Europa. Paesini e città, da 10 a 200 mila abitanti: alberi, fiori, pulizia, la strada come il salotto buono di casa. Rifiuti solidi inurbani solo su appartate lettiere, mai sul divano pubblico. Di auto piazzate in curva, a vietare la visuale o ad ostruire il passaggio, nemmeno l’ombra. Quelle in divieto di sosta vi permangono appena una spruzzata di secondi, poi c’è il carro attrezzi. C’è rispetto per i cittadini. I vigili di quartiere stazionano sulla strada, vigilano ovunque, li vedi, ti vedono, prevedono, provvedono. Mai auto davanti ai negozi o, peggio, ai portoni d’ingresso, a mò di spranga. Non ci sono ruote a violare i parcheggi riservati ai disabili o ignobilmente piazzate dietro, tanto a quelli, la macchina, non serve quasi mai. Nessuna auto sopra il marciapiedi. Nelle vie e nelle piazze, manto stradale lucente, levigato: sembra di essere, ovunque, in un negozio lussuoso. Illuminazione radiosa, non la caligine forzata ove tutto è fosco, il buio è gabbato per romanticheria, la sporcizia per conservazione delle tradizioni. Rientro a Terni: sciatteria. Gli alberi si abbattono, le auto si piantano, i solidi inurbani si radicano. Molti cittadini sono costretti a desolanti slalom, a piedi o in bicicletta. In molti ci sentiamo dei poveri fessi, per il nostro cocciuto e assoluto rispetto della legge o per l’educazione che abbiamo e che cerchiamo di trasmettere. Chiediamo cultura, sospiriamo civiltà, in molti. Che la speranza, ultima dea, non lasci Terni. Anche se infinite divinità sono in terra finite. Giampiero Raspetti
dalla prima Onore al merito! no assistiti, al clima di serenità e solidarietà che tutti, dal primario all’inserviente, si impegnano ad instaurare per ridurre al minimo i disagi del malato. Quando ti accompagnano in sala operatoria e tu naturalmente sei teso come una corda di violino, chi trasporta la barella si sforza di tranquillizzarti con battute spiritose, atteggiamenti confidenziali, quasi fosse un vecchio amico. Io l’ho apprezzato moltissimo e ci tengo a ribadire che non si tratta di impressioni soltanto mie. Le infermiere si comportano in un modo che definirei materno, estremamente disponibile e comprensivo; la loro efficienza è fuori discussione e non credo di esagerare se affermo che ti fanno sentire più che protetto, addirittura coccolato. I medici con i quali ho avuto a che fare non si pongono affatto da rozzi e tracotanti Padreterni come li ricordavo dal passato. Infondono fiducia e sicurezza, rispondono con la massima cortesia a qualunque informazione i pazienti chiedano, anche alle domande più sciocche, dettate semplicemente dal nervosismo o dal panico. Ineccepibili le condizioni igieniche, buono il mangiare. Cari concittadini, qui siamo in presenza delle forme più alte di professionalità, anzi, dell’unica vera forma di professionalità;
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quella che non prescinde dagli aspetti umani, dall’empatia, dalla visione olistica della persona, dalla psicologia. Non so come sia successo che le cose in pochi anni siano cambiate fino a questo punto; non ci avrei mai creduto se me lo avessero detto nel 1987, quando l’ospedale mi fece un’impressione completamente diversa, ovvero tale da pregare Dio di doverci ricorrere il meno possibile. E anche questa non era soltanto una mia opinione... Se la svolta è dipesa da direttive generali o da corsi di formazione, tanto di cappello a chi ha gestito tutto ciò. Ma io continuo a pensare, secondo la mia filosofia di vita che, nonostante le apparenze, il genere umano si evolva sempre in positivo e chi non fa altro che gridare allo scandalo per come si è ridotta la nostra società, sia soltanto un vecchio testone, privato di qualche privilegio che sicuramente non ha mai meritato. Chi è solito leggere i miei articoli sa perfettamente che non mi spaventa affatto cantare pane al pane e vino al vino. Spero pertanto che questo mio eclatante encomio dia forza e coraggio a quanti andranno incontro ad un ricovero, e faccia piacere a tutti coloro grazie ai quali il nostro ospedale è diventato un Centro d’eccellenza. R. Trequattrini
Insomma, ci ascoltate? desiderio di cambiamento, anche se non sa a che santo votarsi per cambiare, né cosa né come cambiare. Dall’altro lato avverte un senso di disperazione, di mancanza cioè della speranza (e della fiducia) che le cose possano cambiare mai. Questi stati d’animo di cui nessuno o quasi s’occupa lasciano aperto uno spazio politico vuoto e pare strano che fino ad oggi quasi nessuno abbia mai pensato di inserircisi e sfruttarlo (ci provò Poujade in Francia e da noi il Bossi degli esordi), dato che in politica quanto nel cuore umano, dove c’è uno spazio libero qualcuno prima o poi lo occupa. Ciò è avvenuto probabilmente in quanto per poter occupare lo spazio creato dallo scontento del quisque, quel quisque occorrerebbe ascoltarlo. Senonché nella nostra epoca si privilegia la parola, non l’ascolto; gente che parla ce n’è quanta se ne vuole, ma quella che ascolta è talmente rara che talvolta qualcuno paga addirittura lo psicologo non per farsi guarire, ma per potere sfogare il proprio dolore con il conforto di essere ascoltato. La politica non sfugge a questo trend: l’elettore viene corteggiato, imbonito, riempito di promesse, anche interrogato, si capisce, ma per sapere se,
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come e per chi voterà, giacché i suoi pensieri, il suo parere, il suo risentimento non contano se non si traducono prontamente in un voto, pro o contro qualcuno di preciso. A questo molti cittadini sono talmente abituati da non accorgersene nemmeno più: per loro è naturale che nessuno li interpelli, che altri decida per loro anche senza delega; salvo poi rimanere con quel senso di delusione pervasivo che si traduce in un voto assai più spesso contro che per. Come dire: “Sì, per votare voto, perché che vadano su quegli altri mi rivolta, ma non è che io speri che questi saranno buoni governanti o amministratori”. Sarà interessante vedere, in questo periodo storico in cui da un lato non si sa più in quale forma corteggiare l’elettore per carpirne il voto, dall’altro decisioni anche dichiaratamente estranee all’interesse pubblico vengono prese sempre più spesso con l’arroganza di chi sa - o crede - di avere il coltello dalla parte del manico e di avere l’impunità (o assicurarsela per legge), chi e in che modo si farà avanti per occupare quello spazio d’ascolto la cui esistenza, fino ad oggi, sembra non essere stata notata da nessuno. V. Policreti
Come cambiano le solite facce Francesco Patrizi
Oggi non si usa più comunicare così perché nell’immagine ci sono troppi segnali tutti insieme e l’impatto visivo non è immediato. Negli anni ’90 avviene un cambiamento: il politico si fa ritrarre seduto dietro la scrivania. Alle spalle una libreria, perché i libri rappresentano la competenza, la preparazione, la sapienza, sulla scrivania la foto della famiglia (la tradizione, le radici) e in mano una penna, simbolo del potere decisionale. È cambiato il vento, la gente non vuole più l’uomo della folla, ma l’uomo di polso. Rispetto a dieci anni prima, l’immagine non comunica più un vago farò, ma un concreto sto facendo. Oggi l’immagine del candidato è estremamente semplificata, c’è solo il mezzo busto o il primo piano su uno sfondo colorato. Non ci sono più segnali in cui riconoscersi (piazza, famiglia, scrivania), perché non si vogliono più comunicare valori, ma sensazioni. Il volto del candidato trasmette emozioni immediate quali serenità, serietà, affidabilità. Il colore scelto come sfondo trasmette sensazioni inconsce: il blu, stabilità e sicurezza; il rosso, la forza; il verde, l’affidabilità. Ma cosa sappiamo del candidato? Non è più l’uomo della piazza gremita, non è più il padre di famiglia, non è neanche il dirigente, chi è? È l’uomo della Provvidenza, quello a cui dobbiamo affidarci senza fare tante domande. F. Patrizi
La battaglia della memoria di combattenti per i soldati della Repubblica Sociale Italiana. In particolare, tale ultimo provvedimento, in vero poco pubblicizzato dai mezzi di informazione (forse frenati da residuo pudore), lascia decisamente sconcertati. La vicenda di Salò rappresenta infatti una delle pagine più buie della storia nazionale, anche se molto si è detto e scritto per tributare sentimenti di umana compassione nei confronti di quei giovani che scelsero una morte disperata, servendo le fila di una milizia che, di fatto, era agli ordini delle truppe di occupazione nazista. Ho avuto personalmente occasione di raccogliere i ricordi di un caro amico, uomo di destra, il cui fratello morì combattendo tra le fila della Repubblica Sociale Italiana. I ricordi trasmessimi da quell’uomo generoso e sensibile, hanno causato in me, uomo di sinistra avvezzo ad ascoltare con ammirazione i ricordi di tanti cari vecchi amici militanti nelle formazioni partigiane, una forte e sincera emozione. Di fronte al mistero della morte, di fronte alla tragicità degli eventi della Storia, che spingono sovente i giovani a scelte di campo pagate sulla propria pelle, è lecito e doveroso tributare il massimo rispetto. La storia piccola e tragica di singoli uomini e donne travolti dalla marea montante della Storia, devono indurre al più profondo sentimento di compassione, anche per chi ha combattuto ed è morto dalla parte sbagliata. Ma l’umana comprensione dell’infinita piccolezza e della straordinaria tragicità delle miserie umane, non può però influire sul giudizio storico e politico degli eventi che costituiscono la nostra storia e le nostre radici. E questo perché le radici della nostra libertà e delle nostra
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democrazia, non sono figlie di una guerra civile (come qualcuno asserisce), ma di una guerra di Liberazione dall’oppressione nazi-fascista e dal patriottismo dei resistenti, da cui sono sgorgati i valori tutt’oggi impressi nella nostra Carta Costituzionale. Il riconoscimento dello status giuridico di ex combattenti, ai soldati della Repubblica Sociale Italiana, dunque, sotto le spoglie di un gesto di riconciliazione, nasconde il travisamento della nostra storia Patria e delle radici della nostra libertà, che potrebbe costituire il preludio culturale per una messa in discussione dei frutti stessi di quella tragica storia: ovvero gli inalienabili diritti sanciti nella nostra Costituzione. Il rispetto per le complesse e misteriose storie umane dei singoli, dunque, non può tramutarsi mai in un’equiparazione intellettualmente disonesta delle idee e dei valori che, negli anni tragici della guerra di Liberazione, si sono fronteggiate. La Storia e l’umana compassione ci insegnano quanto sia ingiusta e poco fruttuosa qualsiasi forma di damnatio memoriae. Ma questo non giustifica di certo il riconoscimento dello status di ex-combattenti ai soldati della RSI, perché lo Stato italiano e le sue libertà sono nati proprio contro le idee e i valori che costoro (magari in buona fede o travisando la reale portata degli stessi) propugnavano e difendevano, al fianco dell’esercito occupante del Terzo Reich. La riconciliazione nazionale di cui qualcuno sembra oggi sentire la necessità (ma che a mio avviso è stata già sancita nel 1947, con la dolorosa amnistia fortemente voluta da Palmiro Togliatti), non si può infatti fondare che sull’umano rispetto, che è però inscindibile da un giudizio storico sereno ma fermo, su quei terribili anni della nostra F. Borzini storia patria.
LA PAGINA Mensile di attualità e cultura Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002 presso il Tribunale di Terni Direzione e Redazione: Terni Via Carbonario 5, tel e fax 0744.59838 Tipografia: Umbriagraf - Terni M. Battistelli, A. Ratini, A. Scalise, G.. Talamonti, S. Tommasi, C. Visaggio, G.. Viscione
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Opinioni Da una “semplice cittadina” Ill. Sig. Direttore in un momento di forzato riposo dovuto a malattia ho avuto modo di leggere il giornale da Lei diretto del quale mi complimento. Mi consenta di inviare una breve riflessione di una donna comune, dovuta forse ad esperienze personali, lavorative e nata proprio leggendo alcuni articoli. Mi sono soffermata sui temi della Donna e della Solidarietà. Personalmente ritengo che, nonostante un importante iter legislativo, il cammino delle donne sia ancora in salita e la parità vera sancita dal dettato costituzionale e da tanti princìpi normativi sia ancora molto lontana. I motivi sono tanti: alcuni riconducibili a leggi naturali, altri purtroppo alle stesse donne che forse non sempre hanno ricordato che, nonostante il riconoscimento del diritto al voto, alla parità salariale, alla riforma del diritto di famiglia, debbono vivere con equilibrio e responsabilità tali conquiste, ricordando l’importanza del ruolo, e dignità femminile e non dimenticando che l’uomo e la donna insieme e senza competizioni possono progettare una nuova qualità della vita. Io appartengo ad una famiglia di donne e senza legami parentali mi sono avventurata tanti anni or sono in un lavoro che allora (ora non più) era esclusivamente maschile. Non sempre è stato facile. Non so se sono riuscita, ma certamente ho lottato tanto. Sul secondo aspetto relativo alla solidarietà credo di avere idee confuse. Si sente molto spesso questa parola, ma in effetti a me sembra (sicuramente sbaglio) che in verità si abbia una cognizione errata del termine e che nella nostra società la solidarietà, almeno come la penso io, non esista affatto. Spesso si fa la carità, la generosità che deriva da azioni singole o collettive. Penso invece la solidarietà debba avere un significato più ampio di condivisione, partecipazione e che dovrebbe estrinsecarsi in comportamenti volti al rispetto della dignità della persona, riconoscendo i diritti primari e garantendo eguaglianza sociale. Ciò dovrebbe competere alle Istituzioni tutte ed in ogni modo a chi detiene il Potere di qualunque natura esso sia. Invece la cultura della solidarietà spesso si scontra proprio con il Potere che è solitamente assolutista, egocentrico, insensibile alle necessità dei più deboli. Lo stato di necessità di norma emargina e chi si trova in tale situazione è sempre più solo. Sicuramente la mia tesi è sbagliata e vorrei essere in ciò confortata dalla vostra esperta sul tema. Direttore, mi scuso per la mia invadenza, mi congratulo ancora per la rivista con Lei e con i Suoi collaboratori inviando a tutti auguri di buon lavoro. Con osservanza ed ancora scuse per le modeste riflessioni di una semplice cittadina. Franca Ciarini
PIAZZE E TRAFFICO Un plauso incondizionato al Sindaco Raffaelli per avere tenuta chiusa al traffico la bella piazza della Repubblica. Vorremmo anzi che, fatta forse un’unica eccezione per i taxi, la chiusura fosse totale e non consentita a chi ha il permesso per il centro; per due motivi. Uno pratico. I permessi per il centro storico sono molti: se ognuno passa per la piazza, addio zona pedonale. Un motivo culturale. Chi ama l’arte non può che avversare il traffico. Come infatti è avvenuto alla Signoria di Firenze, al Campo di Siena, a S.Pietro a Roma, ecc., per non parlare di piazza S. Marco. Dite che macchine a Venezia non ce n’è? E pensate che gente come i Veneziani, con l’amore che hanno per la loro città, anche fosse possibile le farebbero mai entrare in piazza? E noi Ternani, la nostra città l’amiamo o no? E dunque, forza Sindaco: si scrolli di dosso le perplessità, ignori le voci dell’ignoranza e chiuda totalmente, rimettendo anche qualche blocco di cemento che impedisca ai furbi di fregare: la nostra piazza, piena di pedoni tranquilli che finalmente Quisque De Populo possono passeggiare in pace è BELLISSIMA!
Sguardi sul mondo L a riuscita delle elezioni irachene non ha cancellato i dubbi e le preoccupazioni circa la capacità dell’esercito americano di pacificare il paese e i dubbi relativi alla ponderatezza delle analisi che furono alla base della decisione di rovesciare il regime di Saddam. Nel corso di una conferenza stampa, è stato domandato a Condoleeza Rice se le difficoltà che gli Stati Uniti stanno affrontando non fossero in realtà prevedibili. Franca e diretta la sua risposta: Non era assolutamente immaginabile che il controllo militare dell’Iraq potesse risultare tanto difficile. Le simulazioni col Risiko riuscivano sempre! A ndré Glucksmann ha pubblicato un romanzo di fantapolitica dal titolo “Condominio Terra”. Eccone in sintesi la trama. Ore 6.00: il dittatore prende il potere. Ore 7.00: il dittatore annienta l’opposizione in parlamento. Ore 8.00: il dittatore stermina l’opposizione interna al partito. Ore 9.00: il dittatore reprime una rivolta popolare nelle piazze. Ore 10.00: il dittatore massacra le minoranze etniche del paese. Ore 11.00: il dittatore dichiara guerra ai paesi vicini. Mezzogiorno: gli Stati Uniti si svegliano e dichiarano guerra al dittatore. Mezzogiorno e un minuto: i pacifisti si svegliano e dichiarano la loro opposizione alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro un paese che fino alle 11.59, per quel che ne sanno loro, viveva in pace e prosperità. Ore 12.30: l’Europa si sveglia, dichiara che bisognerebbe discuterne nella prossima assemblea di condominio, si rigira nel letto e si riaddormenta.
P er l’ennesima volta, il presidente francese Chirac ha sferzato duramente gli Stati Uniti. La politica americana è ipocrita, ha dichiarato. Per qualche anno gli USA trovano conveniente appoggiare un feroce dittatore, poi i loro interessi cambiano e in nome della libertà vanno ad abbattere il suo regime. Imparino da noi Francesi, che se stabiliamo rapporti di amicizia con un tiranno sanguinario poi non gli voltiamo le spalle da un giorno all’altro! A nche negli Stati Uniti, comunque, cresce la protesta contro la guerra ed una sana indignazione morale va diffondendosi anche in ambienti politici conservatori. Ha dichiarato ad esempio un senatore dell’estrema destra repubblicana: Non soltanto questa, ma entrambe le guerre combattute contro l’Iraq sono state ingiuste. Noi un tempo eravamo amici di quella nazione: abbiamo addirittura venduto armi a Saddam Hussein, per aiutarlo a combattere l’Iran komeinista. Poi la volontà di
appropriarsi del petrolio iracheno ha spinto Bush senior a muovere guerra a Saddam e a sottoporre il suo paese all’embargo; Bush junior ha quindi completato l’opera. Se ci pensate bene, è semplicemente vergognoso: i due presidenti non hanno esitato a sacrificare, sull’altare degli interessi delle compagnie petrolifere, i profitti dei produttori d’armi americani! Come se non avessero diritto anch’essi a condurre il loro onesto business! E tutto perché la famiglia Bush ha le mani in pasta nell’industria del petrolio! È un vero e proprio tradimento dei valori della democrazia americana, un sistema politico la cui grandezza e nobiltà risiede proprio nella capacità di garantire la tutela imparziale degli interessi di tutte le maggiori corporation nazionali. Come potrà Dio ancora amare e proteggere l’America, se noi impediamo ai produttori di missili, mitragliatrici e mine antiuomo di fare affari con i più immondi regimi politici infestanti il pianeta? FMB
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Ripensando al Kosovo
Sono solo sul traghetto di notte e sto ripensando alla mia esperienza di pediatra in Kosovo. Sono venuto su invito di una collega cardiologa che già conosce la realtà kosovara, dandomi sinceramente, del matto, ma tant’è: l’esperienza è nuova e la compagnia piacevole e valida. Arrivo pimpante all’aereoporto di Skopije (mi sembra di essere in uno dei tanti aereoporti del mondo in uno dei miei viaggi-vacanza), e all’uscita noto un giovane in attesa con un cartello recante i nostri nomi. Vedo sulla portiera dell’auto che ci trasporterà la scritta Caritas che mi dà un senso di disagio... Oh Dio, ma dove sono capitato? Arriviamo, comunque, alla Parrocchia dei Santi Angeli Custodi a Ferizaj, dove saremo ospitati, e trovo un ambiente funzionale ma decisamente spartano ed essenziale, tutto l’opposto degli alberghi che abitualmente frequentavo. Ma tant’è... è una nuova esperienza, come nuova esperienza è quella di stare insieme a persone che si fanno in quattro per servire i più bisognosi, gli umili, gli scartati dalla società. Il giorno dopo, festa dell’Assunta, andiamo al Santuario di Letiniza, dove pregava Madre Teresa di Calcutta, e frequentato da migliaia di fedeli indipendentemente dal credo religioso.
Osservare la folla di persone semplici e povere, ma ricche di fede, mi provoca un disagio interiore, una sensazione di essere fuori dalla realtà, ma presto porto razionalmente la mia emotività ed i miei sentimenti ai giusti livelli. Mi dico: Sono proprio contento, il paesaggio è bello, è bello questo Kosovo in cui mi affaccio per la prima volta, belle queste montagne che nella loro asprezza manifestano un che di dolce, ed è interessante vedere queste persone con i loro costumi tradizionali. Non è certo l’immagine distorta che si ha da noi dell’albanese o del kosovaro! Non ci sono ( o non voglio vedere) gli orrori della guerra...., tutto è bello, si sono proprio contento, tutto va bene.... Il giorno dopo, Sabato, l’ambulatorio è chiuso, quindi con la collega ed altri nuovi amici, partiamo per conoscere alcune persone bisognose (io continuo a pensare: è proprio una bella vacanza!..). Il primo duro impatto è con una famiglia numerosa il cui bimbo più piccolo è affetto da epilessia a causa della guerra. Infatti la madre, per salvarlo dalle violenze condotte di casa in casa, lo aveva precipitosamente nascosto in un forno da cui il bambino era uscito agitandosi per la paura e, cadendo aveva battuto la testa da una altezza di circa un metro e mezzo. Era rimasto senza coscienza per circa 30 minuti: non era stato possibile portarlo all’ospedale a causa dei rastrellamenti e dei cecchini, e del resto il bambino si era ripreso spontaneamente, apparentemente senza conseguenze. Solo due settimane dopo
sono iniziate le crisi convulsive, rimaste senza controllo per l’impossibilità di trovare medici e per l’indigenza della famiglia. A farmi stare ancora più male quasi fino alla nausea, oltre al racconto, è la miseria della casa in cui la famiglia vive che sarebbe meglio definire una capanna, contrapposta alla serenità di tutti loro ed alla gioia dipinta negli occhi nel ritrovare amici italiani che essi sentono far parte di loro nonostante la diversità di lingua, religione, cultura e status sociale. Il mio disagio interiore aumenta: mi vergogno di me stesso, del mio essere, del mio vivere, del mio avere tutto mentre loro non hanno neppure la possibilità di alleviare le loro sofferenze perché non hanno danaro! Vorrei ipotizzare analisi cliniche, un ricovero, cicli di fisioterapia, ma in questo paese dove si sono spesi miliardi per una guerra atroce, non vi è la benché minima possibilità di effettuare un banale esame del sangue per ragazzi tanto malati e tanto poveri. Nel salutarli non posso fare a meno di stringere a me il bambino con un abbraccio carico di solidarietà e di amore verso quell’evangelico piccolo, umile e diseredato. E non so come, ma ho l’impressione che anche lui senta la mia empatia. Quando risalgo in macchina non riesco a trattenere l’emozione ed un pianto liberatorio travolge le mie resistenze e tutta la mia razionalità. In lui ed in tutti loro ho visto quel Cristo sofferente che di solito si cerca di non vedere e di nascondere. Piango fino a stare male fisicamente e purtroppo (o per fortuna) ciò accadrà
anche nei giorni successivi, per tanti altri casi. E come è difficile fare qui il pediatra! Mancano le medicine, il supporto laboratoristico, i controlli radiologici, la consulenza di altri specialisti. Tutto dipende dalla mia esperienza e cultura medica: non ho nient’altro! Inoltre debbo combattere quotidianamente con una profonda incultura sanitaria perché nessuno ha mai spiegato alcunchè alla popolazione. In un regime in cui non c’è rispetto per l’uomo conviene comportarsi così. Capisco ancora meglio l’importanza dell’educazione sanitaria, e di fatto, mi ritrovo ad iniziarla addirittura in un campo Rom (se tre mesi fa me l’avessero detto, avrei tacciato di visionario il mio interlocutore!). L’esperienza al campo Rom è di quelle che non si possono prevedere: abituato al concetto di Rom ladri e bugiardi, mi trovo, invece, in mezzo a persone e bambini sorridenti con gli occhi brillanti di gioia che ti ringraziano per ciò che dici, per ciò che dai, per la tua disponibilità. Ed una cosa davvero commovente: i piccoli regali dei bambini che pure sono tanto poveri da camminare scalzi sul terreno sassoso. Ora ripensando alla mia esperienza Kosovara fa di nuovo capolino l’emozione, come in questo momento. I primi giorni sono stato adirato con me stesso per questo comportamento fragile, ma adesso penso che, se dopo quasi 30 anni di professione, ritrovo ancora questa umana sensibilità, vuol dire che quella volta, dopo il diploma di liceo, ho fatto bene la mia scelta.
La Fondazione Aiutiamoli a Vivere lancia un appello a tutti i comitati: “Aiutiamo i bambini dell’Asia”, che ha l’obiettivo di portare un aiuto concreto a quanti più bambini sarà possibile raggiungere in ognuno dei paesi colpiti. La distanza complica ogni tipo di aiuto, ma l’esperienza maturata in questi anni di attività ci aiuterà a portare un soccorso rapido ed efficace, come è stato sempre fatto in una lunga serie di raccolte fondi, nate spontaneamente, di fronte a disastri e tragedie come quella di Chernobyl, dimostrando un legame che si stringe saldamente tra le famiglie e tutte le componenti della Fondazione. Da una parte chi versa quanto può in uno slancio d’amore, dall’altra chi pone impegno e professionalità per far sì che ogni cura raggiunga le persone a cui è destinata: in questo caso bambini smarriti, feriti e angosciati dall’altra parte del mondo. Attraverso il proprio comitato o spontaneamente si può versare: - Banca c/c n° 13711 BNL Terni ABI 01005 CAB 14400 - Posta c/cp n° 12001053
Paolo Foglia
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Nera Marmora La Provincia di Terni per la cultura
La Provincia di Terni per la cultura
Se noi, abitanti di Terni del secolo XXI, potessimo affacciarci da un magico oblò ed ammirare la valle ternana del XIX sec., probabilmente faticheremmo a riconoscerla: la città, certamente molto più piccola di oggi, ma con ancora pressoché intatte le mura medioevali (abbattute in epoca fascista), i palazzi, le case ed intorno qualcosa che, a giudizio dei viaggiatori dell’epoca, somigliava al giardino dell’Eden. Non è certo nostalgia per qualcosa che era destinato comunque a cambiare (la trasformazione è insita nella Natura), né una sterile critica al progresso, a muovere una tale ouverture, ma semplicemente l’amara riflessione su quanto la nostra valle è stata costretta
e disposta a pagare nel nome di questo progresso. Un pedaggio senza sconti sulla natura, la storia e la cultura di Terni, all’epoca vivace in diversi ambiti, in particolare quello musicale. Fino ai primi decenni del XX sec. si svolgevano regolarmente una stagione lirica invernale ed una estiva, con la rappresentazione delle opere a brevissima distanza dalle loro prime assolute e con numerose repliche. Si esibivano i migliori artisti; ricordiamo, ad esempio, la presenza a Terni per ben due volte di Pietro Mascagni: nel 1902 (per dirigere la sua Cavalleria rusticana) e nel 1942. Questa è l’aria che respirò Gina Palmucci, la straordinaria cantante lirica che, nella sua breve ma intensa vita, raggiunse una fama mondiale con il nome d’arte di Nera Marmora (vero atto d’amore per la propria terra). Nasce nel cuore di Terni, in via Barbarasa, il 3 giugno del 1891. La madre Giulia Benedetti è di origine spoletina, mentre il padre Augusto è ternano e lavora alle acciaierie come capo del personale. Dalla coppia nascono cinque figli. Gina consegue il diploma magistrale alla Scuola Normale Femminile di Perugia ed inizia ad insegnare alle
scuole elementari di Santa Caterina a Terni. Ma la passione per il canto è travolgente e la giovane, guidata dalla contessa Ida Tanfani Bianchini-Riccardi, si dedica anima e corpo a quella che sente essere la sua arte, fino ad iscriversi all’Accademia di Santa Cecilia in Roma, dove si diploma nel giugno del 1914. Nello stesso saggio si esibisce anche un giovane tenore: Beniamino Gigli. Piccola di statura, proporzionata e di bell’aspetto, con i capelli neri e due grandi occhi verdi, ha un carattere vivace, estroverso e deciso. Il debutto, subito con il nome di Nera Marmora, avviene nel novembre del 1914 al teatro Dauno di Foggia, dove è Violetta ne La Traviata di Verdi: è un trionfo di pubblico e di critica. Leggendo i giornali dell’epoca, colpiscono alcune caratteristiche dell’artista messe costantemente in evidenza fin dalle primissime recensioni: oltre al talento ed alla bellissima voce, una raffinata tecnica di esecuzione, un’ottima dizione ed una coinvolgente padronanza scenica. Nera Marmora interpreta con tutta se stessa i personaggi e riesce a calarsi con eguale abilità nei vari ruoli, dando vita e voce a figure
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tragiche, leggere o soavi, trascinando il pubblico entusiasta in un vortice di emozioni tale da rendere quasi d’obbligo l’ovazione. Lavora con i più grandi direttori (Toscanini, Mascagni …) ed interpreti dell’epoca (Caruso, Schipa, Gigli…). Dal 1914 al 1923 si esibisce in tutta Italia. Nel 1917 partecipa in Sud America ad una acclamatissima tournée, alla quale a Buenos Aires si unisce anche Caruso. Tornata in Italia, nel gennaio del 1918, impersona il ruolo di Lisette nell’opera Rondine di Puccini, messa in scena a Roma nel Teatro Costanzi (l’attuale Teatro dell’Opera), alla presenza dell’autore. La cantante è ormai totalmente assorbita da un susseguirsi frenetico di tournée per tutta la penisola. Al di là di alcuni concerti privati, Nera Marmora si esibisce per la prima volta a Terni il 21 luglio del 1918 al Teatro Verdi, con La Traviata, nella parte di Violetta. È di nuovo nella città natale il 19 dicembre del 1919 con il Don Pasquale di Donizetti, nel ruolo di Norina, ed il 18 dicembre del 1920, in un Concerto tenuto insieme ad altri tre artisti. Nel 1923 decide di
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Bibliografia Bruno Cagnoli: Il soprano Nera Marmora, Comune di Terni, 1989.
Direttore Ettore Panizza Maestro del Coro Aldo Canepa Regia Romeo Francioli Scene Cesare Ferri e Ettore Polidori
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abbandonare le scene e si sposa con Cesare Paparini, di ricca famiglia tuderte. Per Nera Marmora, forse ormai appagata da quel turbinio di emozioni, viaggi ed applausi, che le hanno regalato gli ultimi nove anni della sua vita, sembra iniziare una nuova esistenza, con nuove emozioni da assaporare e scoprire. Purtroppo, come per le eroine che tante volte ha interpretato con drammatico slancio, un triste destino infrange il suo sogno: muore a Roma il 15 aprile del 1924, in seguito a delle complicazioni sopraggiunte dopo aver partorito, prematuramente, una bambina.
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B arbato L imatola La Provincia di Terni per la cultura
lle A scuole
medie negli anni ‘50 il professore Eliseo Allocca si accorse che ero portato per il disegno e avevo una buona mano nell’uso dei colori. Mi avviò alla tecnica dell’acquerello e mi consigliò di frequentare la scuola d’arte. Negli anni ‘60 studiai dai manualetti di pittura la tecnica dell’olio e produssi diversi lavori con riferimento ad artisti famosi, in particolare agli impressionisti. Negli anni ‘70 incontrai e frequentai per alcuni anni il maestro Italo Lombardi, accademico della scuola napoletana, allievo di Emilio Notte. Da lui appresi proficuamente la tecnica della pittura ad olio e imparai come riprendere con realismo paesaggio e figura umana. Le sue esperienze pittoriche erano piene di aneddoti illuminanti per un artista. Lombardi fu prigioniero dei tedeschi ad Auschwitz e si salvò grazie alla sua pittura: sapeva dipingere dal vero, ed era un vero maestro nel ritratto. Allora ogni giorno gli davano scatole di colori e grandi tele. Quei lavori furono portati via in parte dai russi, e qualche sua opera, mi diceva, con molta probabilità si trova nel palazzo del Cremlino. Un giorno, estate ‘73, mi portò a fare il ritratto a una signora vesuviana. Mi spiegò i trucchi del ritratto (un suo ritratto a Evita Peron è esposto nel museo di Buenos Aires) e di come si fissa la somiglianza con il soggetto. Mi diceva sempre di cerca-
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re di vedere 1’unità dell’opera sin dall’inizio, di filtrare ciò che ritenessi superfluo, di centrarne l’armonia. L’ a p proccio con la scultura risale a g l i anni ‘90 col maestro Giul i o Vi s c i o n e che mi ha dato le linee e i criteri essenziali dell’arte nello spazio. Per me la scultura è una ricerca compositiva di materiali diversi che vengono preparati, ricomposti e assemblati per creare armonie di forme e di colori. Le mie ultime esperienze di pittura risalgono al 2003-4 a Torreorsina dove ho studiato alcune opere di De Felice: in particolare le statue della villa comunale. Ho eseguito un lavoro in onore del grande Artista Temano, un olio su tavola che si chiama Dialogo tra le statue. Nel quadro si vede che queste statue-personaggi, alquanto diversi e distanti tra loro (nel tempo e nello spazio), in una sera d’estate si sono… animate e mosse come da un incanto, si sono raccolte per un dialogo senza tempo. Per parlare di che ? Dell’artista, del loro tempo, del luogo, delle persone del colle, dei bambini, dei visitatori.... Forse di se stesse, di ciò che sono state e sono. O forse dell’arte, della bellezza, dell’amore, della morte, della vita? Barbato Limatola
è un artiLstaimatola autentico e genuino, libero da qualsiasi condizionamento o da mode e sperimentazioni forzate. Egli cerca semplicemente di essere se stesso, guidato dalla sola intuizione e da una profonda sincerità; e ciascuna delle sue opere, non essendo il risultato di una semplice maestria ma di un atto di creazione, impegna e reinventa ogni volta la pittura. La sua preparazione si costruisce con uno studio continuo, solitario e caparbio guardando, soprattutto nella fase iniziale della sua carriera, ai maestri della scuola napoletana; a questi si ispira e da essi mutua l’impianto generale della composizione, la plasticità del colore e la vibrazione della luce scelta come elemento dominante; l’abbandono del contorno netto del modellato, del chiaroscuro, dei particolari troppo precisi, l’impiego della forma aperta, atmosferica in cui la composizione d’insieme conserva una vitalità di abbozzo, di incompiuto, di non finito. Con grande abilità pittorica organizza gli spazi muovendo i personaggi coinvolti in forme dinamiche, capaci di esprimere quel dialogo e quel racconto, quasi sempre ispirati a situazioni e fatti reali della vita quotidiana. Grazie alla potenza espressiva e creativa e al possesso
di strumenti operativi, con grande disinvoltura Barbato riesce a creare le sue opere con ineccepibile rigore compositivo ed ogni attore coinvolto assume una posizione precisa nello spazio e recita 1a propria parte dando corpo all’opera compiuta in tutte le sue componenti ed espressività. Costituiscono un principio fondamentale della sua pittura, impianti solidi di figure, alberi, case, colline ecc., contro la sorgente luminosa, parlano di una liberazione da tutte le passate esperienze dei maestri di epoche precedenti che costruivano le figure in contorni ben definiti, esprimono una ritrovata fresca sintesi tra le robuste forme di un forte sentimento romantico e la solidissima costruzione di una forma plastica di stampo classico. La pittura di Barbato che non disdegna la tecnica, ma si potenzia in essa, che non sfugge alla lenta conquista del mestiere, in un mestiere tuttavia sempre più consolidato e sempre più nuovo si esalta, una pittura che non rinnega se stessa, mai, neppure per diventare un puro fatto di cultura ma che a tutto il mondo della cultura e della natura riesca a piegare se stessa; questo è il messaggio di Barbato. Il mondo non esiste una volta per tutte, fino alle sue estreme gerarchie, eppure ogni sguardo gettato su di esso lo riscopre nella sua freschezza sempre nuova, e il più piccolo dei suoi aspetti partecipa alla sua mutevole bellezza. Giulio Viscione
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B enozz o G ozz oli
U n percorso a r t i s t i c o t
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Ritratto del cardinale Berardo Eroli nelle vesti del protomartire francescano S. Berardo da Calvi (part. dell’Incoronazione della Vergine di D. Ghirlandaio, Narni, Palazzo comunale).
Benozzo di Lese, meglio noto come Benozzo Gozzoli, nacque a Firenze "nei mesi invernali a cavallo degli anni 1420-1421"1. Diverse sono le notizie documentarie sulla sua famiglia che permettono di collegare la formazione giovanile del pittore al mondo dell'artigianato artistico fiorentino, di cui faceva parte suo padre Lese di Sandro, di professione "farsettaio". La famiglia dell'artista era originaria di Pieve di Settimo, zona situata nel contado fiorentino come si rileva dal Catasto del 1427, nel quale compare anche il ramo principale della casata della quale numerosi componenti portavano il nome "Gozzolo", "da cui il Vasari derivò il 'cognome' col quale Benozzo è conosciuto"2. Dopo un suo probabile apprendistato presso Beato Angelico nei lavori di decorazione del convento di S. Marco3, le prime commissioni ricevute autonomamente a Firenze e la collaborazione con Lorenzo Ghiberti alla celebre "Porta del Paradiso" del Battistero, nel 1447 Benozzo in qualità di "consocio" dell'Angelico si trasferì a Roma per attendere alle prestigiose commissioni in Vaticano di Eugenio IV (1431-1447) prima e Niccolò V (1447-1455) poi. Nello stesso anno la bottega dell'Angelico è documentata anche ad Orvieto per affrescare la cappella di S. Brizio durante i mesi estivi. Gli anni che vanno dal 1447 al 1449 furono cruciali per il futuro lavorativo di Benozzo. Essi precedono il suo trasferimento in Umbria e, precisamente, a Montefalco, città per la quale il pittore fiorentino realizzò i suoi primi grandi cicli murali, cicli che lo consacrarono come maestro autonomo.
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e il c a
Nel 1450, infatti, il pittore è documentato per la prima volta nella chiesa di S. Fortunato, dove realizzò alcuni affreschi (oggi frammentari) ed un dipinto su tavola (conservato nella Pinacoteca Vaticana) per i frati Minori Osservanti. Due anni dopo, sempre nella cittadina umbra, gli verrà commissionato l'importante ciclo con Storie della vita di S. Francesco nell'abside dell'omonima chiesa. Sulle motivazioni che portarono i frati di Montefalco a rivolgersi al pittore fiorentino, la critica ha formulato diverse ipotesi, senza mai giungere a delle conclusioni definitive. È a Montefalco che l'artista realizzò le sue prime grandi imprese pittoriche autonome e, cercare di mettere a fuoco quali siano stati i contatti che portarono Benozzo a lavorare nella cittadina umbra è di fondamentale importanza per comprendere le radici dell'apprezzamento della sua prima attività in questi luoghi. Diverse sono le ipotesi sull'arrivo di Benozzo a Montefalco: secondo Toscano4, il Gozzoli avrebbe ottenuto la commissione tramite l'appoggio di papa Niccolò V che l'aveva visto lavorare alla propria cappella privata in Vaticano insieme all'Angelico; Cole Ahl5 ipotizza, invece, che il pittore sia giunto in Umbria tramite fra’ Antonio da Montefalco, committente degli affreschi di S. Fortunato a Montefalco e vicario degli Osservanti per la Provincia dell'Umbria che, forse, avrebbe potuto intrattenere dei contatti con la chiesa romana di S. Maria in Aracoeli, la casa madre dell'Osservanza francescana; secondo Lunghi6, infine, potrebbe essere stato l'intervento del Beato Angelico a procurare all'artista la commissione umbra. In realtà, l'anello mancante per comprendere quali possano essere stati i contatti che hanno portato il giovane artista fiorentino in Umbria, va ricercato nella sfera dei personaggi collegati sia alla diocesi di Spoleto (all'interno della quale era compresa la cittadina di Montefalco), sia all'attività di Benozzo immediatamente precedente all'arrivo a Montefalco (1450). Al 1449, infatti, anche se con un certo margine di approssimazione, è datata unanimamente dalla critica (in base a confronti stilistici) la splendida Annunciazione della Vergine (Narni, depositi comunali), dipinta su tavola, firmata da Benozzo ed eseguita per la chiesa domenicana di S. Maria Maggiore a Narni.
Tale opera, come dimostrato recentemente da chi scrive7, è stata con tutta probabilità commissionata all'artista da Berardo Eroli, illustre esponente della nobile famiglia narnese, il cui stemma appare raffigurato nella decorazione del pilastro posto al centro della composizione8. Nominato vescovo di Spoleto nel 1448, Berardo Eroli, che era nato a Narni nel 1409, rappresentava una personalità di spicco nella Curia romana del tempo. Chiamato a Roma dal papa Niccolò V, dopo essere stato insignito del titolo di "refendario" e di "uditor di rota", Berardo resse la diocesi spoletina dal 1448 al 1474 e nel 1450 ottenne la carica di vicario papale della città di Roma9. La sua attività di committente è ampiamente documentata. Solo per citare alcuni dei più illustri esempi, si può ricordare come, tra il 1467 e il 1469, fosse stato proprio l'Eroli, divenuto nel frattempo cardinale, a chiamare Filippo Lippi per la decorazione dell'abside del Duomo di Spoleto, grazie ai suoi contatti con la famiglia Medici di Firenze10. Poco prima della sua morte (1479), inoltre, fu certamente lui ad interessarsi e a fare da tramite con i Minori Osservanti della chiesa di S. Girolamo di Narni, per la commissione della grande pala con l'Incoronazione della Vergine (Narni, Palazzo Comunale) ad un pittore della levatura di Domenico Ghirlandaio, dipinto che fu portato a termine nel 1486 e che era destinato all'altare maggiore della chiesa: d'altra parte, anche il convento annesso all'edificio chiesastico era stato ricostruito per volontà dello stesso cardinale Eroli negli anni successivi alla sua nomina al porporato, avvenuta nel 146011. Proprio nel 1448, anno in cui il prelato narnese ottenne la cattedra episcopale di Spoleto, tre bolle promulgate da Niccolò V incoraggiarono la ricostruzione e la decorazione del monastero di S. Fortunato, che all'epoca era in rovina. Già nel 1447 vi si era stabilita una piccola comunità di frati Osservanti dato che, su richiesta della popolazione locale, sin dal 1446 papa Eugenio IV aveva ordinato ai vescovi di Perugia e Gubbio di mettere a disposizione dei frati la chiesa e di costruire sul sito un monastero con chiesa e campanili12. Nel momento dell'arrivo a Spoleto di Berardo Eroli, nel territorio della sua diocesi si stava, quindi, avviando la
Benozzo Gozzoli, Annunciazione della Ve
L’opera, restituita al pubblico, dopo decenni di oblio, in occ a Montefalco (1 giugno - 31 agosto 2002) e, subito dopo, nell XVIII secolo allestita nel Palazzo Vescovile di Narni (29 dice fruizione (dal 1 luglio 2003) in seguito ad alcuni preoccupan stato restaurato nel 2002, chiuso in una piccola stanza dei d di essere nuovamente sottoposto ad un intervento d
ricostruzione (e, di conseguenza, la successiva decorazione) di un complesso costituito da chiesa e convento destinato ai Minori Osservanti. Berardo avrebbe potuto certo rappresentare un tramite tra la città di Montefalco, di cui era vescovo, e il Gozzoli al quale, con tutta probabilità, aveva già commissionato la preziosissima Annunciazione su tavola di Narni. Inoltre, la commissione della decorazione della chiesa di S. Fortunato al pittore fiorentino riguardava un'impresa, come già detto, fermamente voluta dal papa Niccolò V, alla cui corte a Roma si trovava l'Eroli, il quale ebbe così la possibilità di vedere il giovane Benozzo attivo, insieme all'Angelico, nel cantiere della cappella privata del pontefice in Vaticano13. D'altra parte, un ulteriore elemento a favore di questa
ipotesi può essere costituito dalla decorazione ad affresco di due ambienti che riportano ancora a Narni, città natale dell'Eroli: la chiesa di S. Girolamo (di cui resta un frammento staccato, purtroppo assai deteriorato ma ancora leggibile, proveniente dalla lunetta esterna del portale) e la cappella di S. Bernardino (nota come "cappella Eroli") nella chiesa di S. Francesco. Questi affreschi sono opera di un pittore originario di Foligno, Pierantonio Mezzastris, artista che imita pedissequamente lo stile di Benozzo Gozzoli, di cui era uno stretto seguace. Un esempio è dato proprio dal citato affresco, raffigurante la Madonna con il Bambino e due angeli tra S. Francesco e S. Girolamo, proveniente dalla lunetta del portale della chiesa di S. Girolamo, che ripete esattamente lo schema compositivo dell'affresco del
a rdi nale
B erardo E r oli
tra Narn i e M ont e f a l c o
rgine (1449 ca), Narni, depositi comunali.
asione della mostra in onore di Benozzo Gozzoli organizzata l’ambito dell’esposizione Pittura e Scultura a Narni tra XIV e embre 2002 - 30 giugno 2003), è stata nuovamente negata alla ti sollevamenti della pellicola pittorica. Il dipinto, che era già depositi comunali da più di un anno e mezzo, attende ancora di restauro che, ci si augura, possa essere risolutivo.
Gozzoli dipinto a sua volta sulla lunetta esterna del portale della chiesa di S. Fortunato a Montefalco, raffigurante la Madonna con il Bambino e due angeli tra S. Francesco e S. Bernardino (l'unica variante è appunto data dalla sostituzione della figura di Bernardino con quella di Girolamo, titolare della chiesa narnese). Il convento di S. Girolamo, annesso alla chiesa, come si è visto sopra, fu ricostruito per volontà di Berardo Eroli nel
1465: egli lo adibì in favore dei Minori Osservanti (ordine al quale fu sempre legato), obbligandoli a stabilirsi nel convento, pena la cacciata anche dal convento di S. Paolo a Spoleto. A lui si deve ricondurre, con evidenza, la commissione non solo della costruzione ma anche della decorazione della chiesa annessa (ora completamente trasformata all'interno)14. Anche nella chiesa di S. Francesco a Narni, la decorazione
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della "cappella Eroli", ad opera ancora del Mezzastris, riprende puntualmente, sia dal punto di vista stilistico che iconografico, alcuni episodi delle Storie francescane dipinte da Benozzo nell'abside della chiesa di S. Francesco a Montefalco (1452). Due episodi della vita di S. Bernardino, illustrati all'interno della stessa cappella, riprendono, inoltre, dal punto di vista iconografico, due scene affrescate dal pittore spoletino Jacopo Vincioli nella cappella di S. Bernardino sempre nella chiesa di S. Francesco a Montefalco (1461). Il parallelismo che si viene ad instaurare tra le opere fatte eseguire da Berardo Eroli a Narni e quelle conservate nelle chiese francescane a Montefalco sembrerebbe quindi rifarsi ad una volontà precisa della committenza: nella chiesa osservante di S. Girolamo a Narni, forse, secondo recenti ipotesi15, furono adottate soluzioni tratte dal ciclo della chiesa osservante di S. Fortunato a Montefalco; nella cappella della chiesa di S. Francesco a Narni si trovano puntuali citazioni del ciclo della chiesa di S. Francesco a Montefalco16. Per queste opere, tuttavia, il cardinale non poté impiegare il Gozzoli (come invece aveva fatto per l'Annunciazione del 1449 circa), ma solo un suo stretto seguace, forse a causa degli impegni del pittore fiorentino che, negli anni sessanta e settanta del secolo (anni in cui risalgono le commissioni in questione) era occupato nei grandi cicli toscani (Cappella dei Magi in Palazzo Medici-Riccardi a Firenze, S. Agostino a S. Gimignano, Camposanto di Pisa)17. D'altra parte, il motivo per cui il cardinale Berardo potrebbe aver voluto così intensamente riproporre nella sua città natale decorazioni direttamente riprese dalla città di Montefalco sarebbe giustificato non solo con un semplice apprezzamento da parte del porporato nei confronti dell'arte di Benozzo. Un suo diretto coinvolgimento nelle decorazioni del S.
Benozzo Gozzoli, Sogno di Innocenzo III e approvazione della regola Montefalco, chiesa di S. Francesco
Fortunato, negli anni immediatamente successivi alla sua nomina alla cattedra vescovile di Spoleto, attraverso la chiamata di un giovane artista fiorentino, seguace del più apprezzato interprete della pittura rinascimentale in quegli anni, il Beato Angelico, potrebbe infatti giustificare una così precisa volontà di emulazione a Narni delle imprese decorative montefalchesi. La figura di Berardo Eroli potrebbe costituire, quindi, un concreto collegamento tra la città di Montefalco e l'ambiente in cui Benozzo Gozzoli si trovò a lavorare nel periodo della sua prima attività artistica, fuori da Firenze. Il soggiorno romano, infatti, deve aver rivestito per il pittore un ruolo di grande importanza sul piano professionale, "mettendolo a contatto con la più alta committenza ecclesiastica e con il cosmopolita ambiente della Curia, privilegiato luogo di incontri con artisti di diversa provenienza e con personaggi di cultura la più varia per radici e discipline, ma largamente orientata in senso umanistico"18. E Berardo Eroli, come ci testimoniano le fonti, di questo cosmopolita ambiente, imbevuto di cultura umanistica, era un degno ed illustre esponente. Alessandro Novelli Lucilla Vignoli
1A. Padoa Rizzo, Una lunga vita operosa, in B. Toscano - G. Capitelli (a cura di), Benozzo Gozzoli: allievo a Roma, maestro in Umbria, Roma 2002, p. 15. 2 Ibidem. 3La partecipazione del Gozzoli al cantiere del convento di S. Marco a Firenze è stata di recente messa in dubbio da M. Boskovits (Il Beato Angelico e Benozzo Gozzoli: problemi ancora aperti, in B. Toscano - G. Capitelli (a cura di), Benozzo Gozzoli: allievo a Roma, maestro in Umbria, Roma 2002, p. 41). 4B. Toscano, Dal monumento a museo, in B. Toscano (a cura di), Museo comunale di San Francesco a Montefalco, Perugia 1990, pp. 20-21. 5D. Cole Ahl, Frescante a San Fortunato, in B. Toscano - G. Capitelli (a cura di), Benozzo Gozzoli: allievo a Roma, maestro in Umbria, Roma 2002, p. 94; D. Cole Ahl, Da Roma a Montefalco, in Ivi, p. 185. Cole Ahl riconduce, sulla scorta di basi stilistiche, la decorazione di questa cappella agli anni 1447-1449. Tuttavia la studiosa è smentita da Cirulli che, in base all'osservazione di dati storici ed iconografici riguardanti la cappella in esame, riconduce la decorazione alla tradizionale datazione che gli era stata assegnata in passato, negli anni 1454-1457. Cfr. B. Cirulli, Note sulla cappella Albertoni all'Aracoeli a Roma e la Vergine in gloria della collegiata dell'Assunta a Sermoneta (1456-1458), in Ivi, pp. 230-234. 6E. Lunghi, Benozzo Gozzoli a Montefalco, Assisi 1997, p. 20. 7Per l'analisi completa dell'opera, cfr. A. Novelli - L. Vignoli, L'arte a Narni tra Medioevo e Illuminismo. Nuove acquisizioni, letture, proposte su maestri, opere e committenti, Perugia 2004, pp. 61-72. 8Lo stemma della famiglia Eroli è costituito da tre foglie d'edera, rappresentate di volta in volta nella forma lanceolata o in quella cuoriforme: entrambe le versioni appaiono nella decorazione del pilastro centrale. Cfr. Ivi, pp. 68-69. 9A. Esposito, Eroli (Eruli), Berardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 43, Roma 1993, p. 229. Per una nuova analisi dell'attività di committenza svolta dal cardinale Eroli nella sua città natale, cfr. A. Novelli - L. Vignoli, L'arte a Narni…, op. cit., pp. 61-94. 10F. Marcelli, Piermatteo d'Amelia e la 'Liberalitas principis', in Piermatteo d'Amelia. Pittura in Umbria meridionale fra '300 e '500, Todi 1996, p. 15. 11I contatti del cardinale Eroli con Domenico Ghirlandaio e la commissione del dipinto al pittore fiorentino sono stati indagati in A. Novelli - L. Vignoli, L'arte a Narni…, op. cit., pp. 79-94. 12 D. Cole Ahl, Frescante…, op. cit., pp. 93-94. 13Per i contatti tra Berardo Eroli e Benozzo Gozzoli, cfr. A. Novelli - L. Vignoli, L'arte a Narni…, op. cit., pp. 68-72. 14Ivi, pp. 73-78. 15Ivi, pp. 77-78. 16Cfr. Ivi, p. 76. 17Ivi, p. 78. 18A. Padoa Rizzo, Una lunga vita…, op. cit., p. 22.
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Psiche Sicurezza, mezza bellezza
Non ricordo da quale fonte ho appreso di recente che soltanto il 13% degli italiani, e delle italiane, si piace fisicamente. Attenzione, non ho detto si accetta, ma si piace, cioè si trova bello o quanto meno gradevole. A questo 13% in realtà, cosa che non ho letto da nessuna parte ma ho constatato personalmente, non appartengono le persone di fatto più vicine ai classici canoni della bellezza (per altro sempre estremamente relativi), ma individui di ogni genere, anche decisamente malmessi rispetto ai suddetti canoni. Costoro esibiscono con la massima disinvoltura tanto i pregi quanto i loro difetti, con un atteggiamento che l’occhio di un osservatore recepisce inconsciamente come un: se ti piaccio ti piaccio, se no, non me ne può fregare di meno (piacerò a qualcun altro)! E siccome ognuno tende ad apparire ciò che è convinto di essere, la sicurezza di certe persone finisce per trasformarsi in una sorta di fascino, messo in discussione, spesso con rabbia, soprattutto dalle donne quando si scagliano per invidia contro alcune loro simili non bellissime, perché riscuotono a loro giudizio un successo immeritato.
Il problema non è di semplice soluzione. La sicurezza, infatti, non si può simulare. C’è chi ci prova in modo goffo, assumendo atteggiamenti altezzosi o, per la precisione, comportandosi da preziosa o da prezioso, come dando per scontata la propria avvenenza. Ma chi si piace davvero non cerca disperatamente conferme in questo senso, non ne ha bisogno. Quindi con il sesso opposto non si atteggia, non si mette in posa, non fa mai considerazioni sul suo aspetto, non si paragona a nessuno. Chi si piace davvero dimostra istintivamente interesse soltanto verso chi si interessa a lui. Gli altri non li prende in minima considerazione e non si affanna per nulla al fine di apparire gradevole ai loro occhi. E questo esternamente viene percepito e rende desiderabili, così come viene percepito il contrario che rende invece patetici. Il tutto si verifica a livello inconscio, s’intende, ma condiziona le situazioni in modo palese. L’insicuro ma modesto (non falso), ovvero chi riconosce apertamente di non piacersi, fa sempre miglior figura di chi vuole ad ogni costo che gli si dica quanto sei bello proprio perché in realtà è pieno di complessi; ma certo è che un atteggiamento dimesso non aggiunge niente rispetto a ciò che si ha, o meglio, a ciò che si è. Voglio dire che una ragazza carina che si sente e si definisce brutta passerà comunque per carina, ma non acquista valori aggiunti. Valori aggiunti si possono considerare tutti quegli input che hanno il potere di stimolare curiosità. E la curiosità che si suscita nei confronti dell’altro sesso non è un fattore irrilevante quando si tratta di fare colpo; anzi, forse è tutto lì... Raffaela Trequattrini
TERNI - V. della Stazione, 32/38 - Tel. 0744.420298
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La sicurezza di piacersi Sicurezza è un concetto insidioso, che si può confondere da un lato con la sicumera, dall’altro con l’arroganza. Sicumera è una sicurezza talmente spinta da non domandarsi nemmeno se ciò di cui si è così sicuri non sia per caso sbagliato. Viene in mente una delle famose scritte propagandistiche del Ventennio, a caratteri cubitali vicino a Verghereto sulla Tiberina tutta curve, tornanti e strapiombi: Noi tireremo diritto! (e infatti…). Arroganza è un fenomeno simile, ma rivolto verso gli altri: io posso avere anche torto, ma non consento a te di obiettarmelo. E’ una posizione di comodo che serve a mantenere il potere; chi non ha argomenti seri da far valere se ne serve talvolta per evitare di essere messo alle strette; ne fanno spesso uso i politici meno preparati, nelle discussioni pubbliche, tagliando la parola all’interlocutore. Tanto l’arroganza quanto la sicumera, come si vede, non solo non sono sicurezza di sé, ma, al contrario, hanno proprio la funzione di nascondere l’insicurezza. Chi invece è sicuro di sé non ha bisogno né di arroganza né di sicumera; non ha paura di confrontare le
proprie idee o le proprie decisioni con chi la pensa in modo diverso giacché, proprio in quanto persona forte, è disposto anche a cambiare idea quando quella degli altri gli pare migliore e tende a piacersi anche fisicamente, o almeno a non porsene il problema, cosa invece tanto più difficile quanto meno uno è sicuro. Spesso però chi osserva dall’esterno scambia per persone sicure quelle che si nascondono dietro difese arroganti o perentorie e per insicure quelle che accettano di cambiare parere; c’è in molti l’idea che chi cambia parere sia una frasca o una banderuola, quando è vero proprio il contrario; naturalmente se e quando il cambiamento sia frutto di convinzione e non di opportunismo. Chi invece è insicuro di sé, lo è tanto dei propri atti quanto delle proprie idee, quanto del proprio aspetto fisico; e rischia di vivere nella perpetua indecisione, uno stato, tra l’altro, assai sgradevole perché accompagnato da un’ansia perenne: l’ansia di sbagliare. Parecchi per evitarla si arroccano dietro le difese di cui abbiamo già parlato: sicumera, arroganza o entrambe.
Situazione tutt’altro che invidiabile, anche per il fatto che è difficile uscirne con un atto di volontà; ciò che si ottiene è per lo più di cadere nelle difese già dette e com’è noto, due torti non fanno un diritto. La cosa migliore che si può consigliare è il prendere il più possibile coscienza del proprio stato, evitando di giustificare la propria insicurezza con le difficoltà oggettive della scelta o della decisione: se non riuscite a cavare un ragno dal buco non dite “Non ci riuscirebbe nessuno”, dite “Io non ci riesco” e poi esaminatene bene il perché. Se non è la soluzione è comunque il primo gradino – quello indispensabile – per raggiungerla. Vincenzo Policreti
Comunicazione Pubblicità
Fare pubblicità in modo efficace diviene sempre più difficile per l’ovvia constatazione che l’inflazione dei messaggi dai quali è bombardato il pubblico toglie, come in qualsiasi tipo di inflazione, valore agli stessi. Ciò comporta da un lato che il messaggio venga più difficilmente percepito dal target, dall’altro che, affinché venga invece percepito, occorrano campagne pubblicitarie sempre più massicce, il cui costo rischia tra l’altro di riflettersi negativamente, in ultima analisi, sul volume delle vendite e quindi sul successo della campagna stessa. L’alternativa a questo problema consiste nel saper trovare qualche campo cui il pubblico sia ancora sensibile. Non è da oggi che, nel nostro Paese il quisque de populo, l’uomo della strada, sente le Istituzioni - tutte, con rarissime eccezioni, lontane da sé e dai suoi interessi. Ma, se in democrazia il cittadino, proprio in quanto cittadino qualsiasi, non ottiene rappresentanza, nelle Istituzioni è la democrazia stessa a ricavarne un vulnus mortale. Quel che vogliamo dire è che il cittadino avverte poca democrazia, si sente estraneo, del resto non senza un qualche motivo, alle decisioni che, pure riguardandolo, vengono prese e passano sopra la sua testa; e, dato che questa
situazione si prolunga ormai da lungo tempo, avverte da un lato un senso di vera e propria esasperazione che lo porta ad un vivo desiderio di cambiamento, dall’altro un senso di disperazione, di mancanza cioè della speranza (e della fiducia) che le cose possano mai cambiare. Di questi stati d’animo di cui nessuno o quasi s’occupa e che lasciano aperto pertanto un preziosissimo spazio di inserimento, noi ci proponiamo di accertare il se, il come e il perché mediante le nostre tecniche di rilevamento. E’ dunque proprio l’estraneità sopra detta ad aprire un campo di comunicazione che, se adeguatamente sfruttato, può rivelarsi assai fertile: l’uomo della strada è abituato ad essere consultato solo sotto elezioni e solo per avere il suo voto o in cambio di promesse o facendo leva sui suoi punti di identificazione. Che qualcuno gli chieda il suo parere senza chiedergli nulla in cambio è un evento quasi rivoluzionario. Di questa rivoluzione il gruppo Comunicazione e Progresso, interamente composto da redattori e collaboratori dei mensili La Pagina e Oblò, ritiene, forse con un pizzico di immodestia, ma tout juste, di potere essere un effettivo innovatore, nel senso che nessuno fino ad oggi ha ancora battuto questa strada a scopi, in ultima analisi, non direttamente politici.
Abbiamo bisogno di chi, come noi, sta con la scienza, ama l’arte, si batte per la libertà d’espressione. La TUA pubblicità è il nostro SOSTEGNO. LAPAGINA - OBLO’
D O C E qui occorre intendersi bene. Noi non dobbiamo dimenticare in alcun momento che lo scopo per cui i nostri clienti finanziano i nostri progetti è commerciale. Il risultato finale, o perlomeno uno dei risultati della campagna, è quello di fare incrementare le vendite al committente. Ma dovremo stare altrettanto attenti che la nostra attività di sensibilizzazione del target da un lato e delle Istituzioni dall’altro, in vista di un loro fino ad oggi mai avvenuto sostanziale incontro e di un loro vero colloquio, venga svolta in modo onesto ed autenticamente efficace. Questo per due motivi ambedue essenziali. Primo, un motivo etico. Tutti sanno che la pubblicità non deve essere ingannevole; però nel nostro Paese c’è l’uso che possa esserlo abbondantemente la propaganda. Noi intendiamo fare invece un discorso di carattere politico che sia anche di carattere etico e, se non fossimo sinceri verso il nostro target, tradiremmo pesantemente tanto lui, quanto uno degli scopi del nostro progetto. Secondo, un motivo pragmatico: il successo commerciale, risultato finale del nostro lavoro, ci sarà se e solo se il pubblico si convincerà che noi lavoriamo nel suo interesse anziché nel nostro. Questo secondo punto tuttavia, che è poi in realtà il primo, dovrà essere lasciato sullo sfondo; la parte pubblicitaria dovrà essere per quanto possibile subliminale, mentre dovrà sia essere chiarissima la comunicazione che concerne la parte politica (più democrazia, più tutela dei singoli), sia il più possibile coerente il nostro lavoro per ottenere lo scopo politico che ci proponiamo. Solo a tale condizione il target risponderà al nostro input con un output di fiducia; e seguirà uno Sponsor che per la prima volta nella storia della pubblicità mondiale, concede alla sua clientela questa importante ed unica opportunità.
Se il politico si rifà il trucco Lo spin doctor, cioè lo stratega che cura oggi le campagne elettorali, è un pubblicitario prestato per l’occasione alla politica; è quindi naturale che porti un vento nuovo in un ambiente ammuffito. La prima novità è stata l’abolizione del comizio. Il candidato deve evitare di scendere in piazza e salire sul palchetto, meglio qualche cena di finanziamento, qualche stretta di mano per la strada, e molta tv, anche locale. Badate bene, questi non si chiamano più incontri elettorali, ma campagne d’ascolto. Se il candidato ci tiene proprio a comunicare il suo programma, meglio un talk show; non necessariamente in tv, va bene anche un palco, dove il candidato risponderà alle domande di un incalzante giornalista del suo stesso partito. Abbiamo nominato il programma elettorale, che brutta parola… lo spin doctor, con un colpo di genio, lo ha ribattezzato: sogno. Perché il sogno è proiettato in avanti e solo il candidato riesce a vedere così lontano, a pensare così in grande, a immaginare l’impos-
sibile! C’è poi un elemento melenso che fa presa sui giovanissimi e sulle donne: il cuore. Abbinare il proprio volto in cartellone ad un cuore indica passione, determinazione, sensibilità. Ecco allora fioccare i cartelloni con scritto: la mia città nel cuore etc. Ma non basta, bisogna spingersi oltre, con scritte più adolescenziali tipo I Love Piemonte, dove la parola Love è sostituita da un cuore. Come non fidarsi di uno innamorato del proprio paese? E per garantirsi un potenziale elettorato più vasto, la parola d’ordine è tutti: Il Presidente di tutti, La Liguria di tutti, e così via; ma qualche presidente uscente si è spinto oltre ed ha scritto in cartellone: Il Presidente c’è... quindi, deduciamo, perché cercarne un altro, anzi perché perdere tempo a fare le elezioni?! Tra sogni e cuoricini si consuma così l’ultima campagna elettorale, confezionata da abili tecnici abituati a vendere cremine per una pelle più liscia e oggi impegnati a rifare il pelo ai navigati lupi della politica. Francesco Patrizi
A cura del gruppo Comunicazione e Progresso
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Achille e la tartaruga La corsa di Achille
La seconda confutazione del movimento di Zenone è forse il suo argomento più famoso, oltre che uno dei più riusciti esempi di divulgazione della storia. Si tratta del paradosso di Achille e la tartaruga, una variazione sulla favola di Esopo in cui una lepre sfida una tartaruga alla corsa, compie l’errore di fermarsi a fare un pisolino durante il percorso, e si sveglia dopo che la tartaruga è ormai arrivata. Morale: Non serve saper correre, bisogna partire in tempo. Ispirandosi alla corsa di Achille dietro Ettore nel libro XXII dell’Iliade, e riportando l’argomento nell’ambito omerico, Zenone sostituì la lepre con l’eroe greco, e questa volta gli fece compiere l’errore di concedere alla tartaruga un vantaggio qualunque: allora non riuscirà più a raggiungerla, perché dopo che lui avrà colmato il primo vantaggio, la tartaruga si sarà spostata di un po’; e dopo che lui avrà colmato questo po’, la tarta-
ruga si sarà spostata di un altro po’, e così via. Sostanzialmente lo stesso argomento dimostra anche altri due paradossi di Zenone: che non soltanto non si può essere in movimento, ma non si può né partire, né arrivare. Perché, ad esempio, per andare da un punto all’altro bisogna anzitutto percorrere la prima metà della distanza che li separa; e prima di percorrere la metà, bisogna percorrerne un quarto, e così via. Oppure, per arrivare, bisogna anzitutto percorrere la prima metà della distanza; e poi la metà della rimanente, cioè un quarto; e poi la metà della rimanente, cioè un ottavo, e così via. Ancora una volta il problema è stato risolto soltanto nel Seicento, quando si capì che una quantità infinita di termini poteva (anche se non necessariamente doveva) avere una somma finita, purché i termini diventassero sempre più piccoli, com’è appunto il caso della corsa di Achille e la tartaruga e delle sue variazioni: ad esempio, una metà, più un quarto, più un ottavo, e così via, dà come risultato uno, cioè appunto tutta la distanza da percorrere se si vuole arrivare. Anzi, questo fu il punto di partenza della moderna teoria delle serie convergenti, che ha trovato innumerevoli applicazioni nella matematica e nella scienza. Anche di quest’ultimo argomento di Zenone possiamo dunque ripetere ciò che avevamo detto di quello di Eubulide: che è una bella storia, con i rari vantaggi dell’acutezza e della concisione. E che anch’essa è stata variamente utilizzata a fini letterari e artistici, oltre che filosofici e logici, come abbiamo mostrato in dettaglio nel già citato C’era una volta un paradosso. Piergiorgio Odifreddi
Grandi Tascabili Einaudi
Da La corsa di Achille in Le menzogne di Ulisse
Zenone dunque ascoltò Parmenide e fu il suo amato. Era anche ben fatto, come dice Platone nel Parmenide. Fu uomo eminentissimo e in filosofia e in politica. Avendo tentato di rovesciare il tiranno Nearco, fu preso prigioniero, come dice Eraclide nell’Epitome di Satiro. Fu in questa circostanza che, interrogato sui complici e sulle armi che aveva condotto a Lipari, denunciò tutti gli amici del tiranno, nell’intento di fargli il vuoto intorno; poi disse che voleva parlargli di qualcuno all’orecchio: addentatoglielo, non lasciò la presa finché non fu trafitto, subendo la stessa sorte di Aristogitone il tirannicida. Diogene Laertio Quattro sono gli argomenti di Zenone intorno al movimento che offrono difficoltà di soluzione. Secondo è l’argomento detto Achille. Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga in precedenza là di dove si mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio. Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il più lento non viene raggiunto… Aristotele
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L a Strada da percorrere: 1 Km. Velocità di Achille: doppia di quella della tartaruga. Vantaggio della tartaruga: 1/2 Km, metà del tragitto. Nel tempo in cui Achille percorre 1/2 Km, la tartaruga ne percorre la metà, cioè 1/4 di Km. Quando Achille avrà percorso quel quarto, la tartaruga ne avrà percorsa un’altra metà, cioè 1/8. C’è da scommettere che ad un percorso di 1/8 di Achille corrisponda un tratto pari a 1/16 della tartaruga. Facciamo dei semplici conti: ACHILLE
1/2, 1/4, 1/8, 1/16, ...... sono i tratti successivamente percorsi e quindi, complessivamente: 1/2+1/4 = 3/4 della strada 3/4+1/8 = 7/8 della st. 7/8+1/16 = 15/16 della st. ..... TARTARUGA
1/4, 1/8, 1/16, 1/32, .... sono i tratti successivamente percorsi e quindi, complessivamente: 1/4+1/8 = 3/8 della st. 3/8+1/16 = 7/16 della st. 7/16+1/32 = 15/32 della st. ..... Achille si avvicina sempre più al numero 1 e quindi a percorrere l’intero Km. Dopo 3/4, 7/8, 15/16, si può ben scommettere che ci sarà 31/32, poi 63/64 e via via... sempre più vicino all’unità. Nello stesso tempo la tartaruga si avvicina sempre più ad 1/2, cioè al suo mezzo Km. Infatti dopo 15/32 ci sarà 31/64 poi 63/128, insomma il tragitto dell’animaletto, nello stesso tempo tende (è) pari alla metà dell’intero tragitto. Senza scomodare la simbologia delle serie convergenti e del calcolo infinitesimale, rigoroso e assolutamente certo, abbiamo visto che con lo stesso numero di tratti di strada percorsi, sia da Achille che dalla tartaruga, il primo percorre 1 Km mentre la seconda solo la metà per cui viene raggiunta, poi, ovviamente, sorpassata. Le regolarità sono evidenti, parlano da sole. Il passaggio alla loro rappresentazione formale (per il calcolo infinitesimale) è davvero a portata di mano, o ad un passo di tartaruga, per stare nel tema. Niente di astruso, tutto semplice, normale perché la matematica è bella ed appassionante e non c’è davvero da inorgoglirsi nel dire, come accade: io per mia fortuna non ho mai capito niente di matematica! Si può benissimo fare a meno della specificazione finale!
Quando si inciampa nell’infinito occorre fare molta attenzione e cercare di non mistificare al fine di rafforzare le proprie presunzioni. La categoria mentale infinito potenziale fa pensare alla possibilità di procedere sempre oltre, senza che ci sia un ultimo elemento. Non c’è un: fino a dove? Il regno dell’infinito si è voluto fuori della nostra realtà. Una sorta di infinito assoluto che Sant’Anselmo d’Aosta pensa come Deus, id quo nihil maius cogitari nequit...[Noi crediamo] che tu sia, Iddio, qualcosa
r i n c o r s a di cui non può pensarsi niente di maggiore). L’arcivescovo di Canterbury, del resto, sintetizza il suo metodo di pensiero nella formula credo ut intelligam, credo per capire. Egli “prova” l’esistenza di Dio operando un arbitrario passaggio dall’ordine dei concetti all’ordine della realtà. Non sarà certo d’accordo Kant, come già non lo era stato Tommaso d’Aquino. L’infinito è stato, in tempi passati, pensato come non conciliabile con il mondo degli uomini, finiti et corrupti (caso quest’ultimo per cui oggi sappiamo non avessero poi tutti i torti). Mal s’adeguano, certuni, a pensare che proprio sotto i nostri occhi esista una infinità compiuta e non completabile, esaurita ed inesauribile, un infinito in atto e non solo in potenza. Hegel, sostenitore delle tesi di Sant’Anselmo, ne prende atto ma la definisce cattiva o mala infinità. La matematica, invece di strumentalizzare, ad usum delphini, fondamentali categorie del pensiero mostra con chiarezza che quando una parte propria può essere messa in corrispondenza biunivoca con il tutto, allora quel tutto e quella parte propria sono infiniti, altrimenti sono finiti. Il figlio di re travicello può essere solo un pezzo di legno, e viceversa. Una parte, un segmento possono contenere tanti elementi quanti ne contiene il tutto stesso. I numeri pari (P), ad esempio, sono solo una parte dell’insieme di tutti i numeri naturali (N), poiché non contengono il 3, il 5... tutti i dispari (D), insomma. Eppure i numeri P sono tanti quanti quelli di N. Lo vedo, ma non ci credo, commentava Cantor. Ad ogni numero P corrisponde, nell’insieme degli N, un numero doppio e ad ogni numero degli N corrisponde, in P, la sua metà. I due insiemi sono in corrispondenza biunivoca, quindi hanno lo stesso, identico numero di elementi. Questo vale anche per i punti di una retta: nel passare da un punto A di una retta continua ad un punto ad esso semplicemente successivo, si completa e si esaurisce una infinità di elementi, proprio come per la dimensione tempo. Gli insiemi infiniti, costituiscono la base della matematica, e sono proprio caratterizzati dalla singolarissima proprietà, emersa dalle argomentazioni zenoniane, che la parte e il tutto - pur ben
distinti fra loro - possono risultare formati dalla medesima quantità di elementi. Le implicazioni filosofiche, fisiche, metafisiche sono allora di grandissima rilevanza. Lo sviluppo di un discorso implica talvolta delle gravissime contraddizioni: sono queste insite nel fatto in sé o nella lingua usata per esprimerlo? La dialettica di Zenone, la retorica e l’eristica dei sofisti, attraverso la dimostrazione, sul medesimo argomento, di tesi fra loro contraddittorie o nel cercare di abbattere pregiudizi o fatti che superassero l’opinione comune (paradossi parà, oltre e doxa, opinione), contribuiscono a far acquisire familiarità con la tecnica linguistica e a potenziare l’arte della parola. Nell’Encomio di Elena, Gorgia si propone, paradossalmente, la difesa della bellissima Elena, considerata come il prototipo delle donne infedeli. Egli sostiene che Elena sia stata persuasa dal discorso di Paride: Se fu la parola quella che persuase e ingannò la mente di Elena, abbiamo veramente diritto di condannarla? Come pretendere che essa, di fronte a un discorso convincente perchè logicamente costruito, sappia opporre resistenza? Con qual diritto è possibile condannarla, se ciò che mosse le sue decisioni fu un discorso che presentava tutte le caratteristiche della verità? Viene introdotto il delicatissimo problema delle responsabilità morali della scienza: si possono ammettere discorsi scientifici o ricerche razionali, che si disinteressino nel modo più completo delle conseguenze etico-politiche ricavabili dal dicorso stesso? In che modo vanno risolti i conflitti che eventualmente sorgessero tra i discorsi scientifici e le convinzioni morali? Fino a che punto può essere affermata l’autonomia della ricerca scientifica di fronte a ciò che è comunemente accettato senza motivazioni scientifiche (morale, religione...)? Giampiero Raspetti
Santa Maria degli Spiazzi Santa Maria degli Spiazzi: visione storica
Santa Maria degli Spiazzi: una chiesa, un progetto Riaprendo la chiesetta di piazza Dalmazia tutti si sono chiesti, meravigliati, se vi si potesse pregare e se fosse stata riconsacrata. La mia risposta soddisfatta era che sì la chiesa era stata riaperta al culto per volere del vescovo e che non c’era bisogno di riconsacrarla dal momento che non vi era stata una profanazione (l’uso diverso che ne era stato fatto per anni non costituisce di per sé una profanazione). Ma ancora di più sono stato e sono contento di poter dire che essa è dedicata al dialogo con le Arti. Che significa? Significa che in quel luogo si vuole sperimentare e perseguire un reale rapporto con gli artisti che di volta in volta saranno invitati a pensare delle loro opere in un contesto dove si prega e si celebra l’Eucaristia; dove si radunano eterogenee sensibilità e dove la presenza costante del Santissimo Sacramento permea di santità ogni elemento che in esso spazio trova dimora. Significa allargare lo spazio, compreso quello esterno, affinché si possa alimentare la ragione e l’intelligenza con la lettura della Parola di Dio e con la visione delle opere d’arte che l’hanno commentata nei secoli, aiutati di volta
in volta da specialisti della Scrittura e da artisti, in conferenze e laboratori per giovani e anche per anziani. Una chiesa casa della Parola e dell’Arte dunque, luogo di studio e di preghiera al centro della città. Una lampada accesa che illumina il futuro di chi vuole avvicinarsi alla fede da una strada diversa dalle altre ma così importante per le nuove generazioni che trovano nei musei e nelle gallerie d’arte il loro tempio per comprendere la realtà della vita e dell’esistenza umana. L’arte, di fatto, è il nuovo luogo della e per la pace; esso veicola, nelle forme più svariate, la Parola di Dio che tutto rinnova sempre. Lo Spirito Santo è il soggetto principale che ispira ogni artista, si tratta di identificarlo e di coglierne il messaggio attraverso la conoscenza dei singoli artisti che di fatto perseguono un loro particolare e singolare cammino in quanto strumenti inconsapevoli o consapevoli della Grazia. Questo sarà fra non molto la chiesa di Santa Maria degli Spiazzi: una nuova luce per e della città di Terni. Don Fabio Leonardis Direttore Ufficio per i Beni Culturali della Diocesi di Terni-Narni-Amelia
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La piccola costruzione sorge in un’area poco distante da Porta Sant’Angelo. Dedicata alla Madonna delle Fornaci è detta Chiesa degli Spiazzi per la vasta area ad essa adiacente un tempo adibita alla coltivazione; tuttavia viene citata nelle Sacre Visite anche come Madonna della Natività dall’immagine mariana posta sull’altare maggiore raffigurata con un San Giovanni Battista colto nell’atto di indicare il Bambino che giace sulle ginocchia della madre. Dal 1749 vi si insediò la confraternita denominata degli Spiazzari e Broccari, composta da piccoli titolari di botteghe artigiane e contadini, che fu trasferita dalla chiesa di Santa Chiara. Questa si impegnò a mantenere il decoro e la celebrazione della messa per la festa della Natività di Maria dell’8 settembre e in tutte le altre feste mariane. Durante questi giorni i confrati rispettavano il precetto, non aprivano le botteghe e non lavoravano alli spiazzi se non nel caso che “(…) ardessero le fornaci o si dovessero mettere le robbe a salvamento a riguardo del tempo cattivo (…)”. Ogni sabato i confrati si recavano processionalmente alla chiesa degli Spiazzi per la recita del Rosario. La piccola costruzione si alza su pianta a croce; il vano dell’altare maggiore è più alto per ospitare una finta cupola ovale scandita da decorazioni in stucco. La piccola lapide posta in facciata sopra l’ingresso ricorda l’ampliamento della preesistente cappella. Nel 1749 Girolamo, Giuseppe e Alessio Manni ne acquisirono il patronato, la dotarono di nuove decorazioni e la fecero riconsacrare dal vescovo Cosimo Perbenedetti Maculani il 9 di agosto. Al suo interno figuravano tre altari. Il maggiore, in legno dipinto marmorizzato, conservava, chiusa da un cristallo, l’immagine quattro-cinquecentesca della Madonna con Bambino con San Giovanni Battista. Che subì uno strappo negli anni Cinquanta del Novecento. L’altare a cornu Evangelii decorato da stucchi, conservava la tela raffigurante i Santi Chiara e Luigi Gonzaga. Nell’altro, a cornu Epistolae di identica fattura il quadro rappresentava i Santi Vincenzo Ferreri e Andrea Avellino.
Cornice in stucco dell’altare di sinistra, 1749 Cristo che si affaccia sul mondo, ovale di Oliviero Rainaldi.
Una piccola cantoria con il suo organo completava la decorazione interna. All’interno della chiesa vi si celebrava fino al 1886 la festa del Santo Nome di Maria la domenica fra l’ottava della Natività della Vergine. La piccola cappella era anche meta della processione cittadina delle Rogazioni e dall’esterno di essa il vescovo impartiva la benedizione della campagna. Nel 1928 l’edificio fu donato dalla famiglia Manni al vescovo Cesare Boccoleri che la elevò a parrocchiale con circa 4500 abitanti. L’ineguatezza degli spazi per la pastorale e per il culto, di fronte alla dilagante urbanizzazione degli
anni Cinquanta del Novecento, spinsero il vescovo Giovanni Battista Dal Prà ad erigere una nuova chiesa dedicata a Santa Maria Regina, nella quale confluì il titolo di Santa Maria degli Spiazzi. Per alcuni decenni al suo interno vi si insediò un laboratorio di artigianato. Tra il 2002 e il 2004 per volontà del vescovo Vincenzo Paglia la Chiesa è stata completamente restaurata per essere di nuovo aperta come rettoria, affidata a don Fabio Leonardis, direttore dell’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici, luogo di sviluppo della pastorale degli artisti. Giuseppe Cassio Ufficio per i Beni Culturali Diocesi di Terni-Narni-Amelia
Altare maggiore, sec. XVIII, legno marmorizzato
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PARTE PRIMA
Il tuderte Antonio Vanni, pubblica, nel 1601, il primo libro di ornitologia in lingua italiana
Copertina di una copia facsimile dell'opera Il C anto degl'Augelli di Antonio Valli da Todi.
A gli inizi del secolo XVII a Roma vennero stampate
due opere, a distanza di ventuno anni l’una dall’altra, le quali, per la ricercatezza dell’apparato iconografico e per i contenuti ornitologici e venatori, suscitarono un grande interesse. Il primo dei due libri, Il Canto degl’Augelli, fu scritto da Antonio Valli da Todi e venne dato alle stampe nel 1601 dagli eredi di Nicolò Mutii. L’autore era un appassionato uccellatore che aveva anche maturato una considerevole esperienza nell’allevamento di varie specie ornitiche, patrimonio questo che riverserà poi sulla carta stampata, dimostrando così uno spiccato spirito di osservazione. Il testo non ha alcuna impostazione scientifica, lo stile risente di influenze dialettali e la descrizione dei volatili è spesso caratterizzata da una certa essenzialità. Tuttavia, se si pone nella giusta considerazione il periodo in cui è stato realizzato il volume, la relativa lettura apparirà piacevole perché non mancano osservazioni originali ed anche di una certa utilità. Per citare qualche esempio, il Valli consiglia di somministrare il cuore triturato (però non specifica la specie di provenienza, ma presumo sia di Bovino o Pollo) per lo svezzamento degli Usignoli;
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ebbene, tale alimento, da solo o integrato con pastone, anche ai nostri giorni è impiegato con successo per portare all’indipendenza i pulli di numerosi uccelli insettivori. Il nostro autore, poi, ci fornisce una notizia d’interesse storico e forse anche scientifico. Mi riferisco segnatamente al naufragio nei pressi dell’isola d’Elba di un veliero, proveniente dalle Canarie, che conteneva, appunto, Canarini (merce allora considerata preziosissima, perché venduta a caro prezzo agli esponenti delle classi sociali più agiate). Prima che il nefasto evento si realizzasse per intero, gli uccelli molto verosimilmente furono liberati, raggiungendo così le coste dell’isola e quivi si riprodussero. Ebbene, questa notizia da allora viene costantemente proposta su buona parte dei testi di canaricoltura, e alcuni studiosi si sono avventurati ad ipotizzare che quei volatili fuggiaschi possano essere i progenitori degli attuali Verzellini. A questo scritto ritengo che si possa attribuire anche il merito sia di essere stato il primo libro di ornitologia in lingua italiana, sia di aver espresso una certa modernità, in quanto scevro dalla fuorviante influenza dell’enciclopedismo (a cui i dotti del rinascimento erano particolarmente sensibili) e a sviluppare gli argomenti con un certo rigore e coerenza (le digressioni sono pressoché bandite). Quest’ultima considerazione si colora ulteriormente di significati se si prendono in esame le opere ornitologiche di Ulisse Aldrovandi (15221605), realizzate tra il 1599 e il 1603. Tali libri non appaiono destinati agli
Raffigurazione di Storno proposta sul libro Uccelliera... La tavola, realizzata da Giovanni Maggi, fu originariamente inserita nell'opera Il C anto degl'Augelli.
appassionati di uccelli, bensì ad una folta schiera di intellettuali particolarmente attenti ad ogni sorta di curiosità o novità. Ecco come si giustifica una gran messe d’informazioni non strettamente attinenti alla biologia degli animali trattati (per esempio, riferimenti mitologici, simbologie araldiche, aspetti etimologici, gastronomia, ecc.). Il volume Il canto degl’Augelli sostanzialmente prende in esame due aspetti. Il primo attiene alle caratteristiche ornitologiche e ornicolturali: sono così descritte un buon numero di specie nostrane e due esotiche (il Pappagallo e il Parrochetto), l’alimentazione in cattività, le abitudini, il modo di curarli, ecc. Il secondo aspetto soddisfa le esigenze di carattere venatorio: propone infatti vari modi per catturare i volatili e la tecnica per indurre alcuni di essi al canto (richiami). Forse ai giovani lettori questo connubio può apparire contraddittorio, anche perché ai nostri giorni si tende a fare una contrapposizione fra i cacciatori e gli ornitofili. Ma in passato questa distinzione non esisteva perché chi esercitava l’arte venatoria era anche un cono-
scitore delle sue vittime, verso le quali poi provava anche sentimenti di segno positivo. Una dimostrazione di ciò può essere fornita dalla consultazione di una parte dei libri di ornitologia pubblicati sino all’inizio del XX secolo, nei quali gli uccelli sono presi in esame anche dal punto di vista venatorio. Per certi versi, un’ulteriore conferma della suddetta ambivalenza ci è offerta anche dal fatto che in passato non raramente, per cogliere con più esattezza le caratteristiche morfologiche e cromatiche dei vari uccelli, gli ornitologi passavano con disinvoltura, attraverso la complicità del fucile, dal birdwatching all’esame necroscopico. Fra questi studiosi - cacciatori (ed anche artisti) - spiccano personaggi come John Gould (1804-1881) e John James Audubon (17851851). Per quanto riguarda l’apparato illustrativo de Il Canto degl’Augelli, di buona valenza artistica si rivelano le tavole, realizzate dal fiorentino Antonio Tempesti o Tempesta (pittore e incisore, formatosi alla scuola di Santi di Tito e Giovanni Stradano, nato nel 1555 e morto nel 1630) e dal romano Giovanni Maggi (pittore, disegnatore e incisore nato nel 1566 e morto nel 1618). Il corpus delle raffigurazioni è realizzato utilizzando lastre di rame incise con bulino, che ritraggono gli uccelli trattati, varie scene di tecnica venatoria, la preparazione del pastone e un inverosimile concerto composto da più suonatori che dovrebbe contribuire a migliorare e stimolare il canto dei volatili. Dell’opera furono stampati solo pochi esemplari, ad uso
Frontespizio di una copia facsimile del libro Uccelliera... di Giovanni Pietro Olina.
degli amici e dei clienti del cardinale Gerolamo Rusticucci. A questo illustre e potente personaggio (fu Segretario di Stato sotto il pontificato di Pio V e Sisto V) il Valli dedicò difatti il suo volume che, purtroppo, come si vedrà in seguito, non ebbe la fortuna e i riconoscimenti che meritava ma, per converso, subì la beffa di contribuire involontariamente al successo dell’opera Uccelliera... di Giovanni Pietro Olina, pubblicato a Roma nel 1622. Tale processo di obnubilazione, a mio giudizio, è stato favorito anche dal fatto che Il Canto degl’Augelli è da molto tempo un libro introvabile (naturalmente mi riferisco alle copie originali) e che di Antonio Valli praticamente non si sa nulla. Incuriosito da quest’ultimo aspetto, qualche anno fa feci una ricerca presso la città natale dell’autore, ma non riuscii ad ottenere alcuna informazione utile. Mi confortò in qualche modo apprendere che anche gli esponenti del comitato di redazione di un noto e pregevole periodico tuderte (con il quale avevo collaborato per un breve periodo), particolarmente attento alla storia e agli avvenimenti della città, ignoravano l’esistenza del loro illustre concittadino. Ivano Mortaruolo
homo ridens Nostradamus
Tsunami Che vi dicevo? “Tsunami Nostradamus”: una esondazione di siti, in internet. In essi alcuni buontemponi, intenti a gabbar creduloni, scopiazzando qua e là riferimenti in varie lingue (di cui non hanno il minimo sospetto), per suggestionare i puri spiriti, affermano: Nostradamus lo aveva previsto, noi lo avevamo già detto! Indicata, stavolta, la 5° della 6° centuria, quartina che così sputazza: Grande Carestia per Onda Pestifera perabbondante pioggia lungo il Polo Artico, Samathobryn cento luoghi dell’emisfero vivranno senza leggi ad esempio di politica.
Rammento ancora che la quartina può essere tradotta a piacere, come tutte le altre, del resto, proprio perché scritta senza alcun senso, in completa paranoia. Per gli esegeti rotondetti, Samathobryn=Sumatra, disinvoltamente! Del Polo artico, ovviamente, non se ne parla proprio! Qualche omuncolo promette addirittura la pubblicazione di centurie inedite del Sommo Maestro, di cui avrebbe il possesso, in cui le profezie sono precise, dettagliate, incontestabili. E’ il vecchio trucco della Profezia di San Malachia, altra solenne bufala che NOI RASPUS, prossimamente, demistificheremo. Ah, dimenticavo! La quartina 5 ° era già stata impegnata, da autorevole esegeta interessato (libro in italiano di cui non pubblicizzo autore né casa editrice per evidenti motivi di decoro intellettuale) come profezia, a suo o a loro dire, riguardante: la diffusione dell’AIDS e la sua cura! Sic! COPPA TETA
P a n o r a m a
P a r l a m e n t a r e
O perazione simpatia del Centrosinistra: Prodi e compagni hanno adottato un cane abbandonato, per fare di lui la mascotte della coalizione. Al fortunato animale è stato dato il nome di Fido, no, anzi, di Ringo, macché, è meglio Rex, non scherziamo, vuoi mettere Pongo?
U n giornalista ha domandato al Ministro Moratti per quale motivo ella si sia premurata di riformare la riforma della scuola del Centrosinistra ed abbia lasciato intatta quella dell’Università. Dopo avere a lungo tentennato, la signora ha emesso un profondo sospiro e ha poi acconsentito a rispondere in questi termini: In verità, mi sarebbe piaciuto tanto mettere mano anche alla riforma universitaria di Berlinguer, ma ho dovuto ammettere con me stessa che quella non sarei proprio riuscita a renderla peggiore di com’è già adesso, e allora ho finito per lasciar perdere.
I eri su tutti i quotidiani è apparsa la seguente notizia: grazie all’inseminazione artificiale sessantottenne lesbica diventa madre di un bambino di colore. Ho voluto un donatore nero perché il multietnico fa tendenza, ha dichiarato l’attempata puerpera. Era solo una balla messa in giro su internet per vedere se i giornalisti ci cascavano, ma Daniele Capezzone quando l’ha letta ha avuto una crisi di coscienza e ha preso la tessera dell’UDC.
V isibile nervosismo di Berlusconi e Previti nel corso dei lavori parlamentari dell’altro giorno. “Ieri notte ho avuto un terribile incubo” ha spiegato il cavaliere ai suoi. “Ho sognato di essere Fausto Bertinotti.” E subito Previti: Anch’io ho avuto un gran brutto incubo. Ho sognato di essere Cesare Previti.
A ttimi di imbarazzo al congresso di Forza Italia. Dinanzi ai principali esponenti del partito, Silvio Berlusconi ha esortato il fido Tremonti a stilare, in vista delle elezioni del 2006, “una nuova lista di priorità cui adempiere, di impegni da assumere, insomma di promesse da fare agli elettori per la successiva legislatura”. E’ già pronta ha immediatamente risposto il succitato, impassibile com’è suo solito, estraendo dal taschino della giacca un foglietto. Il cavaliere l’ha avidamente scorso, per commentare poi con disappunto: Ma è la stessa del 2001! Eh, già… ha sospirato malinconico l’ex-ministro.
B erlusconi non parteciperà al congresso del Partito Repubblicano perché ha preso l’influenza. Il solito megalomane ha commentato Giorgio La Malfa, informato della cosa mentre leggeva sul giornale della malattia del pontefice.
A l riguardo, acido il commento di Maurizio Gasparri: Sicuramente non è una scusa per evitare la seccatura di presenziare al congresso. Silvio racconterebbe di aver preso l’influenza per scusare la sua assenza ad un congresso di AN; per giustificarsi coi repubblicani, gli sarebbe bastato addurre a pretesto un’unghia incarnita.
I n un empito bipartisan, Silvio Berlusconi si è offerto di aiutare il Centrosinistra a prendere una decisione definitiva in merito alla scelta del leader della coalizione. “Invece delle primarie”, ha suggerito, “organizzate un
reality-show sul modello del Grande Fratello: dieci concorrenti costretti a vivere nella stessa coalizione, spiati giorno per giorno dagli elettori, che decidono ogni settimana chi eliminare, finché non ne rimane uno solo… che diverrebbe il nuovo candidato della coalizione alla carica di Presidente del Consiglio, mentre agli altri sarebbero comunque garantite le ospitate domenicali da Costanzo. La trasmissione del programma, naturalmente, spetterebbe in esclusiva a Canale 5”. Il Cavaliere ha anche suggerito l’elenco dei partecipanti: Amato, Bertinotti, Bindi, Cossutta, Di Pietro, Fassino, Pecoraro Scanio, Prodi, Rutelli e Veltroni. Riserve, da far entrare nella coalizione nel caso in cui uno dei dieci abbandoni o sia silurato dagli altri: Mario Monti e Luca Cordero di Montezemolo. La conduzione potrebbe essere affidata a Michele Santoro. La proposta ha suscitato non pochi consensi. Pecoraro Scanio, galvanizzato dalla vittoria di Johnatan all’ultima edizione del Grande Fratello, ha accettato di slancio. Di Mastella, autoesclusosi per diverbi con il Centrosinistra, si dice che si stia mangiando le mani. Bertinotti è già impegnato a scegliere i golfini. D’Alema sorride sprezzante quando parla della cosa, ma si intuisce che sotto sotto ci è rimasto male a non essere stato considerato. Ferdinando Maria Bilotti
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