Dignità vò cercando
Di chi sono i soldi? Raffaela Trequattrini Di chi sono i soldi che le Amministrazioni locali spendono per i vari progetti culturali, turistici, edilizi, ecc… ecc…? I nostri, cari concittadini. I nostri!!! E gli amministratori non sono stati eletti per rappresentare la nostra volontà? A loro indubbiamente, in qualità di esperti delegati, spetta il compito di trovare gli strumenti giusti per realizzare quel modello di città in cui noi vorremmo vivere. Noi tutti!!! A questo punto mi sorge spontanea una domanda: segue a pag. 2
La vera storia di Barbablù Francesco Patrizi Alcuni bambini asiatici, rimasti orfani a causa dello tsunami, sono stati rapiti da ignoti occidentali e destinati ai pedofili, al commercio degli organi e ad altri fini oscuri. Il fenomeno è sempre accaduto. Conoscete la storia dell’Orco che rapisce i bambini? O la storia di Barbablù che uccideva le mogli? Entrambe raccontano una vicenda vera, accaduta molto tempo fa. Barbablù, nella realtà si chiamava Gilles de Rais, venne insignito del titolo di Maresciallo di Francia e salvatore della patria per aver combattuto al fianco di Giovanna D’Arco. Nel 1440 venne mandato al rogo con un’accusa terribile: l’uccisione di circa 400 bambini; il calcolo era molto per difetto. Il signorotto, traviato da un’infanzia difficile, come disse al processo, e dalle atrocità della guerra, aveva preso gusto al sangue e, tornato alla quiete del
N° 1 - Gennaio 2005 (21)
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Vogliamo parlarne?
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Sandro Tomassini Come diceva il compianto Ennio Flaiano, gli italiani hanno il vizio di correre in soccorso di chi vince, ma in questo momento storico in cui non è agevole individuare il vincente, si vede gente correre di qua e di là senza una mèta precisa e con comprensibile affanno. Per di più tra inciuci e metamorfosi; neo-consociativismi e bipolarità convergenti; falchi e colombe; clonatori e spioni; veleni e antidoti; stupri e violenze varie; mediatori e detrattori; moralisti e buonisti; porti delle nebbie e nebbie del porto, la nostra società sembra diventata una di quelle case che la senatrice Merlin ha voluto inutilmente chiudere giusto cinquant’anni fa (creando forse le premesse del celodurismo bossiano, la cui scaturigine trova legittimo fondamento nella mancanza di sfogo!). Ebbene, in mezzo a questo caleidoscopico intreccio di fili di Arianna, il povero cittadino, quello che non cerca carri di segue a pag. 2
Un infedele alla moschea di Meshad
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Medea
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Sorry, Tsunami
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Abbazia di Farfa
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La Cascata delle Marmore
10-11 Racconti 12-13 Calendario Eventi Valentiniani
Libertà è (anche) partecipazione Francesco Borzini In questi ultimi mesi si sta dibattendo intorno a tre questioni all’apparenza molto diverse, ma che possono essere in un certo senso ricondotte a una matrice comune, in quanto tutte legate a quell’atto di incommensurabile rilevanza democratica, che è il voto. Tutto il mondo ha guardato con ansia allo svolgimento delle elezioni in Iraq, vissute da tanti come un momento catartico, in grado di giustificare e coronare l’intera operazione militare della Amministrazione Bush, che molto probabilmente è stata ispirata da ben altre finalità, di carattere strategico e geopolitico, sapientemente messe in ombra dalla forza retorica delle argomentazioni democraticiste. Nel ben più angusto spazio della politica nazionale, si è parlato invece di un altro segue a pag. 2
Sinistra al governo: miseria, terrore, morte. Lo affermò, domenica 16 gennaio 2005 il Presidente Silvio Berlusconi per ripeterlo poi, in forme più o meno variate, continuamente. Toni apodittici: io sono dalla parte del bene, loro contro l’uomo e contro la bandiera; odiano soltanto, sono mosche impazzite che generano solo caos; hanno cambiato nome ma non metodi. (!) Le affermazioni non provengono da un Carneade perplesso: Chissà se Pippetto ha ancora quella fastidiosa diarrea?, quindi il messaggio è chiaro. Perché lo avrebbe emanato, sennò? E allora... grazie, grazie Signore grazie! Di nuovo una Crociata! Sacra, poiché la perfida rossolandia vorrebbe, è sicuro, intisichirci col discettar de iustitia e seminar zizzania (il diavolo è rosso) evocando povertà effettiva, corruzione corrente, governo inesistente. Ma Sua Apoditticità, bloccando il Supremo Soviet sul bagnasciuga, riapre la caccia ed io, ricercatore del comunista sperduto, redigo la mappatura di possibili covi rossi: spero che Somma Bontà me ne sia grato, magari con un bonifico. Tane certe: il tuorlo, volgarmente detto rosso d’uovo; i semafori, che tingeremo verde lega, blu forzista, grigio pirla; i tramonti (rosso di sera, mal tempo si para); il sangue vivo; i sanguinacci; i boschi di conifere. Peperoni, pomodori e ravanelli al bivio: verdi o gialli. Primule e papaveri all’indice! Particolare cura sarà posta nei rifacimenti estetici: le labbra, o blu o alla Andreotti; i globuli solo bianchi, tipo asceta alla Baget Bozzo o alla Biondi; occhi di chi piange, rossi solo se alla Bondi. Di sanguigno solo il gruppo B, come Bush, Blair... Buttiglione. La Croce Rossa faccia molta ma molta attenzione. Inciampando poi in clavicolette spolpate, perlustreremo puntigliosamente i paraggi: quelli che non massacrano con l’aborto li sbrandellano con la zanna. Rossa, rigorosamente rossa. Altri i problemi, oggi. Troppe le catastrofi, sterminato il terrore. Propiziamo, dalla città di San Valentino fino all’ultima Tule, educazione e cortesia. Non il rimestar dell’odio, ma rispetto, onestà, dignità siano bandiera comune. A destra come a sinistra. Giampiero Raspetti
dalla prima Vogliamo parlarne?
vincitori su cui arrampicarsi perché ha la sua brava carretta da tirare, non sa più dove andare! Ogni tanto qualche Minotauro lo fa scendere in piazza, a sostegno di opposti interessi e lui si fa docilmente fagocitare senza opporre resistenza (già la resistenza, parola mitica agiograficamente conservata sotto vuoto spinto, che il mutamento dei tempi ha di fatto riconvertito nel silenzioso riconoscimento della resistenza tout-court degli italiani!). Ma allora, direte voi, tutto è perduto? No, di certo, poiché la capacità italica di nuotare anche in acque stagnanti, riesce a sovvertire i più neri pronostici, le più catastrofiche profezie. Sarà la tradizione millenaria che abbiamo alle spalle, o fors’anche l’abitudine ai cambiamenti sociali e di potere, alle faide cittadine ed alle guerre intestine, sempre in bilico tra comuni e signorie, papato e impero, guelfi e ghibellini; sarà la sperimentata assuefazione a culture assai diverse, dai barbari ai sassoni, dai borboni agli asburgo, dagli svevi ai normanni, dagli arabi ai lanzichenecchi; ovvero ancora, l’acquisita abilità di navigare a vista tra le più evidenti contraddizioni, convivendo felicemente con francescani e domenicani, santa inquisizione e libero pensiero, genio latino e viltà, a fare di noi il popolo più paziente, più malleabile e più imperturbabile che ci sia; l’unico in grado di metabolizzare tutto, perché tutto è possibile.
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Per cui se domani ci comunicassero l’intenzione di affidare al Papa il Ministero del Turismo, in ragione del suo sapiente peregrinare, non ci sorprenderemmo nemmeno un po’. Né troveremmo bizzarro un eventuale ritorno al governo di Andreotti, magari al Ministero della Giustizia o la nomina di Bossi a Presidente dell’Ufficio per la cooperazione con i paesi africani o, meglio ancora, a Ministro per il Mezzogiorno. E ben poca meraviglia desterebbe, in verità, l’assegnazione del Ministero delle Finanze a Cragnotti, del Tesoro a Tanzi, del Bilancio a Camoranesi per le sue origini argentine. E chi mai trasecolerebbe di fronte alla nomina del mago Otelma alla Programmazione economica, di Poggiolini alla Sanità, di Trappattoni alla Pubblica Istruzione, di Totò Riina agli Interni, di Licio Gelli al Commercio con l’Estero, di Er Pecora all’Agricoltura e non solo per l’appellativo, della Lecciso all’Industria, data la sua abilità nell’industriarsi; di Giucas Casella alla Difesa, per le sue magie e per lo slogan vincente: si attacca quando lo dico io! Infine, chi avrebbe alcunché da recriminare se le Telecomunicazioni venissero affidate a Beppe Grillo e la Marina Mercantile a qualche omonimo con esperienza quarantennale nel settore navi scuola e commercio oppure a qualche velina o letterina che viaggia con il vento in… poppa? S. Tomassini
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Libertà & partecipazione voto, quello delle cosiddette elezioni primarie, che alcuni esponenti della coalizione di Centrosinistra (anche qui spesso nascondendo ben più prosaici fini di visibilità personale e politica) vedono come panacea di tutti i mali democratici, in grado di avvicinare la politica alla gente, aumentandone la partecipazione. Terzo voto di cui si è parlato con insistenza negli ultimi mesi è quello referendario sulla legge 40 in materia di fecondazione assistita, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che ha approvato quattro quesiti sui cinque proposti e dopo le esternazioni della CEI, che hanno, implicitamente ma chiaramente, invitato i fedeli all’astensione (per una volta delle urne e non delle carni). Il vecchio Kelsen, pragmatico e disincantato come ogni giurista che si rispetti, parlava del voto come elemento cardine in una società pluralista, individuandolo però, non come un fine, ma come un mezzo, una procedura, utile se non addirittura necessaria alla composizione degli interessi difformi. Il voto elettorale in Iraq, per tornare al primo esempio, va salutato certo con soddisfazione e speranza, con l’auspicio che il radicarsi di un processo democratico possa portare ad un contestuale radicamento dei diritti umani e civili in quello sventurato Paese, alla creazione di un vero Stato di diritto, alla pacificazione sociale. Le elezioni sono dunque uno strumento utile per raggiungere tali fini, un mezzo per addivenire ad una meta, ma c’è dell’ideologismo assai furbesco nel confondere la meta con il mezzo utilizzato per raggiungerla. E certo non è detto che l’utilizzo del mezzo (il voto democratico) porti sic et simpliciter al raggiungimento del fine (la costruzione di un Paese libero e rispettoso dei diritti umani, civili e sociali). Del resto quanti sanguinari dittatori sono stati eletti democraticamente? Lo stesso ragionamento vale, si parva licet, per le primarie di casa nostra. Meccanismo questo che può rivelarsi utile (a volte necessario, ma mai sufficiente) per aumentare la partecipazione dei cittadini alla vita politica, ma che da solo non garantisce una selezione delle classi dirigenti adegua-
dalla prima pagina
Di chi sono i soldi?
ta alle sfide politiche che i due schieramenti (e nel caso di specie quello di Centrosinistra) si pongono come prioritarie. Infine un ragionamento analogo può valere per lo strumento referendario, la seconda scheda che la Costituzione ha fornito agli elettori italiani. Ad opinione di chi scrive, la legge sulla fecondazione assistita, al di là delle differenti (e ugualmente rispettabili) concezioni etiche che sostanziano le scelte politiche afferenti a questo tema, disegna un’idea di Stato lontana da un auspicabile concezione liberale dello stesso. Uno Stato, cioè, che per mezzo di una legge votata da una maggioranza parlamentare, faccia propria una concezione etica condivisa solo da una parte della cittadinanza e limiti le scelte di tutti i cittadini (quale che sia la loro personale convinzione), in una materia riguardante la più intima delle scelte, ovvero quella inerente alla procreazione. Eppure, anche il ricorso al voto popolare in tema di diritti personali (pur auspicabile in questo caso), non va considerato un bene di per sé: se anche il voto referendario non portasse all’abrogazione delle legge, essa rimarrebbe non solo figlia di una scelta politica più o meno condivisibile, ma anche di una concezione giuridica estranea alla visione liberale dello Stato, in quanto lesiva del diritto fondamentale della persona all’autodeterminazione nella sfera personale, che non può essere conculcato né da una maggioranza parlamentare, né da una sua eventuale conferma popolare (ancor meno se derivante da una massiccia astensione, che comportasse il mancato raggiungimento del quorum).
possibile che nessuno abbia mai pensato di rendere note alla cittadinanza le varie proposte presentate dai privati alle gare d’appalto, insieme alle proposte degli Amministratori stessi, affinché la cittadinanza possa scegliere come impiegare i propri soldi? Sostenere che sarebbe troppo difficile verificare la volontà dei cittadini, è un’affermazione inconcepibile nella società della comunicazione. Basterebbe diffondere un’apposita pubblicazione trimestrale contenente un coupon da spedire; ogni Comune diffonde pubblicazioni periodiche per informare i cittadini sui progetti in corso di realizzazione. Cosa vieta di trasformare articoli autocelebrativi in sondaggi d’opinione? Anche come pubblicità, per gli Amministratori, sarebbe sicuramente efficace. Mettere al centro gli altri piuttosto che se stessi, da che mondo è mondo, ha sempre ripagato di più. Qualora le Amministrazioni su una simile proposta facessero orecchie da mercante, basterebbe organizzare una mega-raccolta di firme. Chiunque si esprimerebbe a favore, perché il contrario non va a vantaggio di nessuno (a parte di chi intende facilitare a tutti i costi i propri amichetti). Sarebbe un duro colpo anche per le tangenti che, in tal caso, si rivelerebbero inutili. Se qualcuno dovesse affermare che si tratta di un’idea impossibile da realizzare, potremmo pretendere che ce ne vengano spiegati i motivi. Chissà…, magari tutti insieme si riuscirebbe a studiare una soluzione che, sinceramente parlando, non mi sembra per niente difficile da trovare. Accidenti che graziosa prospettiva! Quasi quasi…
F. Borzini
R. Trequattrini
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Opinioni Via P. della Francesca, 14 - TERNI Tel. 0744 401032 - Fax 0744 433442
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Un infedele alla moschea di Meshad
Il tempio musulmano di Meshad si trova ad est di Teheran. Troviamo la strada affollata di gente multicolore: siriani dalle prolisse tuniche bianche, persiani dal manto nero col quale si coprono la bocca, vecchi maestosi dal caratteristico turbante; sono i primi afgani che incontriamo. Questa massa multicolore si dirige al più grande santuario della setta Sciita. Nel tempio si trova la tomba dell’imam Reza, morto nell’816, discendente da Ali, da cui ebbe origine lo Sciismo, la setta islamica dominante in Persia. Intorno alla tomba si aprono quattro cortili inaccessibili agli infedeli. Il complesso monumentale ci appare alla luce del sole declinante, i cui riflessi fanno risplendere le mattonelle dai tipici colori lapislazzuli, verde, giallo, che rivestono interamente l’edificio. Al centro si eleva la sfolgorante cupola d’oro dalla forma a bulbo, la tomba dell’imam; intorno altre tombe rivestite di azulejos. Scattiamo delle foto alla gente che ci circonda e che disapprova la nostra disinvolta indifferenza alla sacralità del luogo. Ci avviciniamo all’ingresso principale, ma i sorveglianti gentilmente ci invitano ad allontanarci. Mentre giriamo intorno al Santuario, mi distacco dal gruppo e mi avvicino ad una delle porte laterali. Riesco a superare con facilità la prima barriera di sorveglianti, in quanto ho avuto l’accortezza di nascondere le caratteristiche del mio abbigliamento che mi denunciano come turista occidentale: la macchina fotografica, che nascondo nel cappello, il borsello con il portafoglio e il passaporto che tengo appesi al collo. Superata l’entrata, trovo delle grandi stanze nelle quali la gente è immersa nella lettura del testo sacro. Senza esitare, passo tra la gente accovacciata in terra; sono uomini e donne di ogni età, con la loro stuoia stesa sulla pietra. Le stuoie sono molto fitte, le scavalco cercando di non calpestarle. Sono arrivato nelle vicinanze del cortile del grande mausoleo dalla
cupola d’oro. Fino a qual momento solo qualche sguardo sospettoso si è fermato su di me, ma nessuno mi ha fermato. Ora un sorvegliante si avvicina e mi chiede muslin? (musulmano), io faccio segni di assenso, e a dimostrazione della mia fede sciita, mostro un anello d’argento con una frase del profeta incisa in un’agata, acquistata a Qum, altro grande santuario sciita persiano. L’uomo mi crede, o finge di credermi, e mi affida ad un altro sorvegliante perché mi accompagni. Non capisco se quest’uomo debba smascherarmi o proteggermi. Cerco di svignarmela, ma il mio angelo custode mi segue sempre e mi invita costantemente a seguirlo. Certo, a questo punto desidererei essere fuori dal santuario, ho paura che mi scoprano, il sorvegliante ha cercato di violare i segreti del mio cappello, dove nascondo la macchina fotografica, ma ho opposto una strenua resistenza. L’urna dell’imam La guida mi invita ad entrare nella zona più sacra del santuario, dove è custodita l’urna dell’imam. Entriamo in una grande stanza rivestita di specchi disposti a mosaico: davanti alla grande e splendida porta d’argento si accalca una folla di persone che prega a voce alta. Mi trovo in ambiente luminosissimo, sottostante alla cupola d’oro, completamente rivestito di mosaici a specchio, rilucente d’argento e d’oro. Al centro c’è la tomba, alta circa tre metri e mezzo, dalla base rettangolare, ricoperta di specchi. Di più non riesco a percepire. C’è una grande folla, siamo pigiati l’uno contro l’altro e si è formato un vortice di persone intorno alla tomba. I fedeli si muovono correndo e gridando, anche io sono trascinato e costretto a correre. È uno spettacolo di fanatismo impressionante. Mi sento sbiancare, il mio disagio dovrebbe essere evidente, tanto che la mia guida mi invita ad uscire attraverso una porta d’argento finemente cesellato che tutti i fedeli baciano devotamente. Anche
io, con espressione devota, tocco la porta: devo fare appello a tutta la mia esperienza teatrale per apparire il più convincente possibile; il mio accompagnatore, infatti, scruta il mio comportamento. Temo di essere denunciato come infedele. Usciti dalla tomba, attraversiamo altri grandi cortili. Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi è veramente affascinante, per la bellezza dell’architettura e per i colori che il tramonto diffonde sugli azulejos. Il pittoresco spettacolo dei pellegrini immersi nella preghiera, in piedi e accovacciati, in ginocchio e inchinati in direzione della tomba, mi fa rimpiangere di non poter fotografare. Non posso neppure guardarmi attorno, per non destare sospetti. Il mio accompagnatore continua a scrutarmi e io mi diverto a recitare la parte del musulmano convinto: chiudo gli occhi, mi metto in stato di meditazione. C’è una posizione obbligatoria, vorrei voltarmi, ma non posso. Je suis français Nel grande cortile cominciano ad affluire malati sulle barelle. L’accompagnatore mi fa capire che ora si svolgerà una cerimonia su una torretta in alto su una delle fiancate del cortile. A gesti mi chiede se voglio uscire. Annuisco e siamo di nuovo nella grande piazza. A questo punto, la mia guida mi domanda se sono inglese, francese o tedesco. Grande è la mia sorpresa, credevo di essere stato scambiato per un arabo! Mi sento liberato dalla necessità di non proferire parola e istintivamente rispondo Je suis français. L’accompagnatore, che è un uomo basso e tarchiato, dagli occhi vivi e penetranti, pronuncia parole di lode per De Gaulle e, prima di congedarsi, pronuncia parole per me incomprensibili, accompagnate da un grande gesto della mano verso l’alto, che traduco così: qualsiasi sia la nostra religione, è lo stesso Dio che è sopra di noi. Sergio Petrucci
La vera storia di Barbablù castello, alla cosiddetta foce blu della Loira (da cui il nome Barbablù), per combattere la noia cominciò a rapire bambini, di età inferiore a 12 anni, di sesso indifferente, aiutato dai suoi valletti. Gilles coltivava anche altri passatempi come evocare il demonio, collezionare gioielli, sperperare denaro in feste orgiastiche; ma per 14 anni, tutte le sere, non rinunciò mai ad un bambino da violentare e da uccidere. Si sparse la voce che nei castelli della zona sparivano bambini. La gente del posto era terrorizzata, ma nessuno poteva fare niente contro il signorotto. Fino a quando Gilles de Rais cadde in disgrazia economica e, per espropriarlo definitivamente dei suoi terreni, venne denunciato dai creditori per eresia. E anche per la storia dei bambini. Fu condannato al rogo insieme ai valletti. Questi bruciarono come pagliuzze; lui invece, prima di salire sul rogo, si rivolse alla piazza gremita invocando il perdono del Signore, si dichiarò pentito e devoto, poi salì sul rogo e bruciò. La folla, colpita dalla repentina redenzione del peccatore, spense il fuoco, recuperò la salma fumante e la portò in chiesa, dove fu benedetta e sepolta. Il commercio con il diavolo e con i bambini era all’epoca assai diffuso e nessuno se ne era scandalizzato poi tanto.
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In tempi di carestia, i bambini piccoli venivano uccisi e divorati, lo sapevano tutti, ma nessuno storiografo lo scrisse mai… solo le favole lo testimoniano (vedi Il Pane Selvaggio, di Piero Camporesi, Garzanti 2004). Ai diavoli si chiedevano ricchezza e potere, ai bambini si chiedeva la salute; il sangue e la carne dei piccoli, secondo la scienza medica di allora, erano un toccasana e i medici non disdegnavano di prescriverli come rimedio per certe malattie. Alla corte del Re, la storia di Gilles de Rais divenne una delle Favole di Mamma Oca di Perrault, ma con una variante: siccome la pedofilia era pur sempre un tabù, le vittime della sessualità perversa di Barbablù divennero donne (vedi Barbablù, di Ernesto Ferrero, Einaudi, 2004). Cosa aveva consentito a Gilles de Rais libertà d’azione per tutto quel tempo? La povertà dei paesani. Le cose non sono poi tanto cambiate; allora come oggi altri Orchi danarosi si aggirano nei luoghi più poveri e sfortunati, dove c’è sempre un mercato di disperati pronto ad accoglierli. Laddove c’è miseria ci sono sempre prostituzione minorile, pedofilia, traffico di organi; perché i bambini sono sempre i primi a rimetterci. Così almeno dicono le favoF. Patrizi le…
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Medea dal teatro ai giorni nostri
Medea è sicuramente una delle figure terribili della mitologia greca. Criminale per amore, per vendetta, colpevole e vittima allo stesso tempo, ma nel suo intimo si combatte una guerra tra ragione e istinto e si consuma intera la tragedia. Il primo a rappresentare il dramma di Medea in teatro è Euripide nel 431 a.C. e con essa fa il suo ingresso nella tragedia il motivo eroico interpretato come una delle molle fondamentali del comportamento umano: secondo Socrate il male si compie per ignoranza del bene, Medea invece è lucidamente consapevole dei suoi delitti, tuttavia agisce ugualmente. Medea è stata considerata una tragedia femminista, per i discorsi sulla condizione femminile e sul diritto familiare. Il Coro delle donne di Corinto è solidale con la donna tradita e ripudiata, fino all’uccisione dei figli, atto giudicato eccessivo. La parola chiave, ripetuta circa venti volte, è letto. La ribellione delle donne è dovuta all’abbandono da parte del coniuge del letto, la sola forza capace di provocare la loro ribellione. Dunque Medea, si appella a questo, sua unica garanzia, il che è uno specchio del rapporto uomo-donna nell’Atene classica. C’è nel dramma il riflesso di quella che era una questione aperta nell’Atene dell’epoca: la questione femminile.
La tragedia si apre con un lungo sfogo della Nutrice, piena di oscuri presentimenti per lo stato fisico e mentale della padrona. L’eroe l’ha infatti ripudiata per convolare a nuove nozze con Glauce, figlia di Creonte, sovrano del paese. L’arrivo del Pedagogo con i bambini accresce l’ansia della Nutrice, da lui informata che Creonte ha deciso di cacciare da Corinto Medea con i suoi figli. Dall’interno del palazzo vengono lamenti e maledizioni di Medea che uscendo si rivolge con amara calma al coro e ne chiede la solidarietà. Creonte comunica i suoi ordini a Medea e le concede, però, di rimanere ancora un giorno a Corinto, vinto dalle sue suppliche e ignaro dei rischi che corre. Giasone e Medea si scontrano con estrema violenza verbale: invano la donna ricorda all’eroe di averlo aiutato a impadronirsi nella Colchide del vello d’oro; Giasone è disposto a procurare alla barbara da lui civilizzata un tetto nell’esilio e del denaro. Inatteso passa da Corinto Egeo, sovrano di Atene; Medea gli strappa la promessa di asilo nella sua città. Ora si sente in grado di vendicarsi. Fingerà di rappacificarsi con Giasone, invierà i suoi bambini con doni nuziali a Glauce per implorarne la protezione, almeno per se stessi. I doni, imbevuti di veleno, causeranno la morte della principessa e di suo padre, e morte Medea riserva anche alle sue creature. Dopo un nuovo incontro, in un falso clima di distensione, tra la donna e l’eroe (alla riconciliazione vengono chiamati ad assistere i figli) il Pedagogo riferisce che i regali sono stati consegnati e l’esilio per i piccoli revoca-
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to. Medea si stringe al petto gli amati figli, sostiene un’aspra lotta con se stessa, ma non rinunzia alla sua disumana risoluzione. Un nunzio riferisce i particolari raccapriccianti della fine di Glauce e Creonte, vittime delle inestinguibili fiamme scaturite dai doni nuziali. Medea esulta e passa alla seconda parte del suo piano: dall’interno della reggia le grida dei suoi figli indicano che il crimine si sta compiendo. Accorso per salvare i bambini, Giasone comprende di esser arrivato tardi. Mentre tenta di abbattere la porta della reggia, sul carro del Sole, gli appare Medea che ha con sè i cadaveri dei bambini e riversa su di lui parole di condanna e d’odio. A Giasone non resta che invocare Zeus a testimone delle efferatezze di Medea e maledire il proprio destino. Seneca scrive la sua Medea tra il 42 e il 60. Pur rispettando, in generale, la trama euripidea, traspone Medea su un piano infernale, legato all’occultismo e alle pratiche di magia nera, in cui il suo agire è ispirato da fredda e premeditata crudeltà. Il Male, che Medea incarna, trionfa, con il suo corollario di terrore e di morte. Centro della tragedia non è più, come in Euripide, la realtà psicologica dell’eroina, con i suoi dissidi interiori, ma sta proprio in questa macabra, inumana violenza di cui Medea è protagonista. In un verso si legge: Ora sono Medea, il mio io è maturato nel male. Seneca motiva in maniera più logica le ragioni per cui Medea si vendica uccidendo i figli: Giasone le aveva detto che essi erano la ragione della sua vita.
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Inoltre fa schierare il coro contro Medea e il duplice assassinio finale non viene maturato, ma avviene sulla scena. La Medea di Grillparzer non si conclude con l’infanticidio: alla fine, l’eroina incontra per l’ultima volta Giasone, avvolta nel Vello d’oro, il Vello maledetto da cui tutte le sciagure hanno inizio, e le sue parole per lui sono parole di dolore, ma non di rancore: il discorso che rivolge al suo antico sposo è ancora pervaso dell’amore che li aveva un tempo uniti. I due protagonisti della vicenda si separano, immersi ciascuno nel proprio dolore. Nel 1949 viene rappresentata La lunga notte di Medea di Alvaro: la regia è affidata a Tatiana Pavlova, per la quale la tragedia era stata scritta; le scene ed i costumi sono di Giorgio De Chirico. Dichiara lo stesso Alvaro in un’intervista alla radio dell’epoca: Ho visto in Medea l’antenata di tante donne su cui, nei secoli, nella vita e nell’arte, si sono abbattute le persecuzioni razziali. La mia Medea non uccide i figli per distruggere in essi il seme di Giasone, ma per salvarli dalla degradazione, dalla miseria. Non c’è, in questa versione, il tema della vendetta dettata da una passione smisurata, come in Euripide, né quello della crudeltà infernale di Seneca: Medea qui uccide i figli per salvarli dall’odio dei Corinzi, praticando su di loro una sorta di eutanasia. Medea è anche il teatralissimo film di Pasolini interpretato dalla Callas sull’opera di Cherubini. Nella versione di Pasolini c’è, nel rapporto tra Medea e Giasone, qualcosa di sor-
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prendente: Medea esprime in sé tutto quanto la società occidentale, borghese, razionalistica rifiuta e rimuove. Pasolini spiegava, nel corso di un’intervista televisiva, la sua interpretazione del mito di Medea: Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra un mondo povero, plebeo, sottoproletario e un mondo colto, borghese, storico. Questa volta ho affrontato direttamente questo tema: Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso; Giasone, invece, è l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno ed il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi. In questa Medea più che in altre è rappresentata, in maniera assolutamente favolosa, mitica, la violenza incancellabile dell’irrazionalità. Brillante e penetrante la lettura di Pasolini, in essa si riflette lo scontro tra una civiltà primitiva, più autentica pur nella sua ferocia, e una civiltà più evoluta, ma contaminata: ad essa, in fondo, Medea sottrae i suoi figli. Il tema dell’infanticidio è quanto di più attuale si possa riscontrare in questo periodo leggendo le notizie di cronaca, riportando continuamente alla ribalta il mito di Medea. Persone che esprimono il disagio, l’incapacità di esser madri e che portano alla luce quella che sembra configurarsi come una sindrome patologica di questo male di vivere che affligge, ora come ai tempi dell’antica Grecia, l’universo femminile. Così Medea scende dal palcoscenico e consuma la sua tragedia nella vita quotidiana… Carmen Mercuri Tanto è stato raccontato sull’universo femminile, sarebbe difficile inventare qualcosa di nuovo. Così ho pensato di orientare questa rubrica dedicata alle donne verso una sana informazione volta ad essere propositiva, dinamica. Ma le nostre esperienze sono confinate al nostro vissuto. Per questo chiedo una collaborazione attiva delle lettrici che hanno qualcosa da raccontare. Una richiesta d’aiuto, una sottolineatura particolare, ma anche solo una riflessione, un’iniziativa. Se pensate che ci sia qualcosa di importante da raccontare, sono a vostra disposizione all’indirizzo francescacapitani@virgilio.it o alla redazione del giornale.
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A chi il farmaco? A noi!
Perché consumiamo tanti farmaci? Perché i nostri armadietti sono pieni di medicine, in parte scadute, che teniamo, in quanto non si sa mai? Il punto della questione è la delega che noi diamo al farmaco: una delega in bianco purché ci sia un risultato: fa nel mio corpo ciò che devi fare, basta che mi fai passare il male. E quando il male è grave la cosa è perfettamente logica: la chemioterapia del cancro è dannosissima, ma se salva la vita, si affronta. Il guaio è che la mente umana tende a delegare al farmaco anche la guarigione da malannucci che passerebbero da soli e a caricarsi quindi di sostanze che hanno comunque effetti collaterali anche pesanti, pur di cancellare il disturbetto anche minore. E’ un paradosso del progresso, proprio di quella tecnica che ci permette di guarire malattie fino a poco tempo fa mortali. La possibilità di star bene diventa pian piano il diritto a star bene: il male, qualunque male viene dalla nostra mente rifiutato come la violazione di qualcosa che ci spetta irrinunciabilmente: il benessere, sia esso economico, psicologico o fisico. Ciò spiega l’enorme consumo di ansiolitici (che è una delle cause dell’aumento dell’ansia nella nostra società) e dei farmaci da banco, che la pubblicità gabella
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come panacee risolutive delle varie beghe che ci affliggono, mostrandoci in tv bella gioventù che, preso il farmaco, sfodera sorrisi radiosi, arra di benessere e felicità perpetue. Ma c’è poi un altro motivo, meno ovvio e più profondo, per il quale ci facciamo in quattro per schiantare subito il male, appena ne avvertiamo i primi sintomi: quel male, sia esso fisico o psichico (che da questo punto di vista sono equivalenti) non è un incidente capitato per caso o mandato dagli dei ciechi e malvagi: è il segnale che ci informa che qualcosa non va. Qualcosa che non attiene necessariamente all’organo colpito, il quale si carica di mandare un segnale, proprio come la sirena d’allarme segnala un incendio. Ma l’esame critico della situazione personale che ci ha portato ad ammalarci è spesso scomodo: occorrerebbe prendere almeno coscienza, se non mettere mano, a stili di vita, rapporti umani o di lavoro che potrebbero richiedere decisioni difficili o dolorose. Meglio allora far finta che il pericolo che corriamo venga dalla sirena e non dal fuoco e schiacciarla con un ben mirato attacco farmacologico. Se la sirena tace, vorrà dire che il pericolo è passato. O no? Vincenzo Policreti
Le medicine possono far male Peccato che il monito a fare un minore uso di farmaci, venendo da persona soggetta a valutazioni passionalmente positive o negative, sia stato inevitabilmente a sua volta soggetto a valutazioni non pacate né razionali. Si può pensarla come si vuole sulla figura dell’attuale Presidente del Consiglio, ma il suo monito, ancorché dettato da preoccupazioni finanziarie che, quando si parla di salute, non sono le più importanti, è comunque serio. Nessun farmaco è esente da effetti collaterali: la prescrizione non può quindi prescindere da un’attenta
valutazione clinica delle condizioni personali del paziente, al di là della correttezza della diagnosi. La nostra esperienza di medici ci conferma giornalmente che purtroppo questo non è in moltissimi casi ciò che accade: la quasi totalità dei contatti tra un medico e un paziente termina con una prescrizione di farmaci, rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale o a carico della famiglia. Così, benché il 90-95 per cento dei raffreddori sia di origine virale, almeno metà delle persone lo cura con gli antibiotici che, essendo antibatterici e non antivirali, in questo caso sono total-
Le cose vanno così...
mente inefficaci. Ma, efficacia a parte, tale abuso ha conseguenze gravissime, la principale delle quali è la diffusione di ceppi di batteri resistenti agli antibiotici, più veloce della nostra capacità di creare nuovi antibiotici per distruggerli. In buon italiano: più antibiotici si assumono, più le malattie in generale si aggravano, meno probabilità ha in concreto il paziente di essere guarito dagli antibiotici in futuro. Usarli quando non serve è quindi pura follia. Una follia aggravata poi dall’esiziale pratica dell’autodiagnosi che porta all’autoprescrizione (la zia di un amico di mia sorella aveva una cosa quasi simile e ha usato la tale medicina: miracolosa!), con in più la possibilità di avere liberamente via Internet i farmaci che il farmacista non può vendere senza ricetta medica. Ciò poi che spesso sfugge al pubblico - e, duole dirlo, anche a molti esperti - è che la persona umana non è un assemblaggio, ma un sistema integrato di organi in cui è assolutamente impossibile agire sull’uno senza avere ripercussioni su tutti gli altri. E a parte ciò, limitarsi a pensare all’uomo considerandone solo la corporeità biologica, biofisica, biomolecolare è riduttivo se non si considera la persona umana nella sua completezza anche biografica: discorso complesso questo, che dovremo fare un’altra volta. Non sarebbe perciò male che il governo, oltre a metterci in guardia una tantum, promovesse un piano di educazione nazionale in grado di dare ai cittadini, soprattutto se malati, informazioni più ampie, oggettive e sicure.
Supponiamo di chiedere a qualcuno: con quale frequenza e con quali motivazioni fai uso di farmaci? Le possibili risposte sono tre: io prendo farmaci al primo piccolo sintomo di dolore o di malessere, perché prevenire è meglio che curare; io cerco di evitare in ogni modo di prendere farmaci, perché ho paura che mi facciano male; io prendo farmaci soltanto quando ne ho veramente bisogno. Adesso supponiamo di chiedere a chiunque la sua ipotesi di risposta corretta. La maggior parte delle persone risponderebbe l’ultima, ovvero, prendere farmaci soltanto in caso di effettiva necessità. Se però approfondiamo con le singole persone il concetto di necessità, vedremo che esso non corrisponde affatto tra l’una e l’altra, in pratica, ognuno ha un proprio concetto di necessità. E nella parola necessità è insita l’idea di sopravvivenza, di autoconservazione, quindi, la necessità, o meglio la sua idea, ci vede davvero poco propensi a comportarci secondo i consigli altrui, perché alla fine come mi sento veramente lo so soltanto io. Non dico che sia giusto, ma è così che avviene. E se qualcuno fosse squilibrato nel valutare le proprie necessità effettive, è molto difficile che lo riconosca. Altrimenti non sarebbe squilibrato.
Giovanna Giorgetti
Raffaela Trequattrini
S toria La Provincia di Terni per la cultura
La Provincia di Terni per la cultura
Le proprietà ecclesiastiche a Narni nell’alto Medioevo: il caso di Farfa
(quinta parte)1 Abbiamo già visto come tutta l’estensione dei possessi farfensi nel territorio narnese fosse stata divisa fra quattro celle2. È utile ricordare che il diverticolo che unisce Terni a Poggio Mirteto era chiamato anche Via farfense proprio in memoria dei possessori abaziali nella zona. Qui comunque Farfa aveva proceduto ad una seria opera di ricomposizione fondiaria. Adalberto, figlio di Silvestro, vende ad essa modium unum et solidum unum in praetio in località Corvaiano. Quel moggio confinava a duobus partibus con i possessi iam dicti monasteri. Altri casi potrebbero essere ricordati ma non aggiungerebbero molto al dato conosciuto: Farfa cercò, attorno alla base storica dei suoi averi, di comporre un quadro quanto mai omogeneo delle sue proprietà. Ma di che tipo di terreno si trattava? Certo gli incolti vi avevano larga preponderanza ma già si intravede che un’opera di sfruttamento era iniziata. Ronconiso, Pastina, Perticara, Mogliccia sono chiari toponimi riferiti alla primitiva qualità dei terreni. Vedremo adesso di formarci un’idea in ordine all’utilizzo del terreno, alle colture praticate, alle probabili rese e, per quanto possibile, all’uso degli strumenti e dei mezzi tecnici qui documentati. Il paesaggio agrario altomedievale è sostanzialmente diverso da quello attuale e da quello rinascimentale.
Le foreste erano più estese, il clima più caldo e più umido, la pres e n z a umana molto più rarefatta, le graminacee come monocultura, rendevano il rapporto visivo uomoterra meno evidente di quello verificabile in altre epoche ivi compresa quella classica. Le comunità agricole vivevano isolate, punti sperduti in mezzo ad una natura che, dopo la seconda metà del 1000, cominciava ad essere aggredita ma che segnava moltissimi punti a proprio vantaggio. Eppoi le incursioni degli Ungari e dei Saraceni. Narni, punto nevralgico fra Ducato spoletino e Roma, doveva aver conosciuto problemi tremendi. Ma quando Farfa vi si affaccia il quadro, in parte almeno, appare ricomposto. La campagna è coltivata, le comunità aperte, alcune conquiste tecniche si sono già affermate e la città riesce ad esprimere con sorprendente anticipazione di tempo le sue magistrature. La badìa imperiale non stava incontrando il deserto. Specificatamente per ciò che riguardava l’universo agricolo che attorno a Narni si muoveva. Ma quale agricoltura ivi esisteva? Certo, sono documentate colture specializzate: vite, olivo, salice, ma il prodotto base rimaneva pur sempre quello connesso al frumento: grano, triticum vulgare, spelta, orzo. Le rese molto basse: da quella, canonica, di Columella (1:4) a valori che toccavano il punto massimo attorno al 10. Tenuto conto che il consumo medio annuo era di circa 3
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quintali a persona, ivi compresi gli usi non direttamente alimentari, si capisce come fosse precaria la vita dell’uomo medioevale. Un evento negativo qualunque, anche su scala ridotta, poteva significare fame. Dentro questo quadro va vista la situazione dell’agricoltura quando i Farfensi si affacciarono a Narni. E i loro documenti, in filigrana, lasciarono trasparire uno sforzo indefesso di conquista della terra ad uso agricolo. Comunque, come affermato, alcune opere di miglioria erano certamente iniziate. Giovanni di Nonvolia dona terreni vignati; Berno, figlio di Orso, regala dei terreni recentemente strappati all’incolto. Terreni coltivati vengono offerti da Giovanni prete in una zona particolarmente vocata per l’olivicoltura. Altri donano campi coltivati a canapa. Carbone, abate del monastero di S. Nicola a Sangemini, dona orti, orticelli, vigne, in una zona agricola fortemente specializzata. Se è pressoché impossibile offrire il quadro delle differenze qualitative dei terreni detenuti da Farfa è disponibile, in via largamente approssimativa, quello dei beni agricoli in suo possesso. Con una quantità di ragionamenti non rappresentabili data la natura del presente lavoro, si è addivenuti alla conclusione che i terreni messi a coltura, nella Narni fra il 1000 ed il 1100 vanno stimati fra i 120 ed i 160 km². Un terzo circa, più tardi quasi la metà, dell’intera estensione comitatense. Vale a dire che Farfa aveva, all’incirca, estensioni coltivate per circa 20 km², cioè per 2.000 ettari con una produzione stimata, data la biennalità della rotazione, di circa 4.000 quintali di frumento. La rimanente parte del territorio non rimaneva certo improduttiva. È documentato un forte sfruttamento delle risorse silvo-pastorali che talvolta Farfa lasciava gestire anche in forma comunitaria. Fra le colture integrative delle graminacee spicca quella della vite. Pur nella indeterminatezza documentale delle quantità di terreno volte a quest’uso – i 10 ettari circa dichiaratamente denunciati sembrano ridicolmente pochi rispetto a quelli allusi – spicca la vastità degli appezzamenti singoli a tal fine destinati: fino a 4
ettari. È da tener presente che se i cultivar potevano essere anche scadenti, la coltura intensiva contribuiva decisamente a rese per ettaro sorprendentemente alte. Come poi questa realtà si rapportasse alla necessità dei fondi chiusi per le colture specializzate e a quelli aperti per le sottoposte a rotazione è questione tutta da esplorare. Anche gli alberi da frutto sembrano abbondare. Come è testimoniata, perfino nei toponimi, la coltivazione del salice, essenza che predilige i terreni umidi, strettamente connessa a molti lavori agricoli, all’artigianato, all’edilizia e non disprezzabile come foraggera. Colpisce un fatto: in nessun documento se non per allusione, ci si riferisce a chi quella terra concretamente coltivasse. Giulia dona i suoi possessi: … cum aedificiis, monasteriis, aecclesiis, servis, ancillis et colonis…, facendoci così capire che la ripartizione dei lavoratori della terra in servi, semiliberi e liberi doveva esistere anche a Narni. Solo Benedetto prete, peraltro riferendosi ai suoi beni posti nel comitato otricolano, eccettua dal donativo a Farfa … et unum hortum sub muro civitatis cum capanna quem dedi ad franculam et petrulum filium eius…, dove, forse, la citazione nominativa sopprime il desiderio di sostituire quell’eius con
un meum. Ovviamente i beni farfensi a Narni non erano costituiti solo da terreni. Elemento di spicco sono gli edifici di culto, non tanto per il particolare pregio che essi rivestivano sia agli occhi dei donatori sia a quelli del beneficiario, piuttosto perché quegli edifici sono indicativi della distribuzione umana sul territorio. Bruno Marone (continua)
Il testo prosegue dalla quarta parte pubblicata in La Pagina, n. 7, settembre 2004, p. 12. 2 Le celle che si trovavano nel territorio attualmente compreso nel comune di Stroncone che in quel periodo faceva parte del comitato narnese erano: S. Maria di Corvaiano, S. Clemente in Lagiam, S. Giovanni in Torello e S. Antimo. Cfr. B. Marone, Le proprietà ecclesiastiche… (terza parte), in La Pagina, n.4, maggio 2004, p. 12. 1
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La Cas cata d e A nti co s i m b o l La Provincia di Terni per la cultura
Fig. 5
La memoria di Torquato Secci è degna di essere coltivata e onorata non solo per lo straordinario impegno civile che egli profuse in quanto fondatore e Presidente dell'Associazione tra i parenti delle vittime della strage alla stazione di Bologna, ma anche per avere rinnovato (dopo una stasi durata circa 60 anni) l'interesse in ambito locale ed esterno nei confronti della Cascata delle Marmore. Nello specifico egli mise in risalto la fortuna che essa ebbe soprattutto nei secoli XVII e XVIII, quando assurse a notorietà europea in quanto divenne tappa obbligata del Grand Tour, il viaggio continentale compiuto da giovani nobili o da ricchi borghesi intellettuali del Centro e Nord Europa per giungere in Italia a completare la propria formazione culturale. Con la sensibilità per la storia e per l'ambiente della sua città che gli è sempre stata propria, Secci promosse la realizzazione, tra il 1980 ed il 1989, di alcuni interessanti repertori iconografici1 che proponevano una rassegna di raffigurazioni della Cascata tra XVI e XX sec., opere in gran parte annoverate nella sua collezione personale, trasformando così una passione originariamente privata in un interesse collettivo. In seguito alla pubblicazione di quei saggi, nasce la rivalutazione e lo studio della Cascata in sé, come soggetto di raffigurazione e come oggetto di riflessione da parte dei viaggiatori italiani ed europei per almeno quattro secoli: tale interesse si è concretizzato in iniziative culturali promosse da istituzioni pubbliche e soggetti
Fig. 2
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privati quali mostre, convegni e pubblicazioni sul tema2. Questo articolo si propone di porre in evidenza un aspetto rimasto finora negletto, quello della Cascata delle Marmore come antico simbolo dell'Umbria, nonchè di offrire un ulteriore contributo alla conoscenza dell’iconografia antica della caduta. Come si sa, l'attuale Umbria è una regione composta quanto mai artificiosamente. Essa non corrisponde infatti al suo antecedente culturale, geografico ed amministrativo, costituito dall'Umbria romana, la Regio VI augustea che traeva denominazione dalla antichissima stirpe italica degli Umbri stanziata nell'Italia centrale almeno dal I millennio a.C. L’Umbria antica si estendeva dalla confluenza del Tevere con il Nera fin oltre gli Appennini, affacciandosi sull'Adriatico nel tratto di costa tra Ravenna ed Ancona, avendo come confine occidentale il Tevere, il quale la separava dall'Etruria, la Regio VII, comprendente i territori pertinenti ad Orvieto e Perugia. Scomparsa come denominazione territoriale nel corso dell'Alto Medioevo, a partire dal XV sec., con i geografi umanisti Flavio Biondo prima e Leandro Alberti poi, l'Umbria viene identificata con il Ducato di Spoleto, recuperando cioè l'estensione geografica propria della definizione classica, seppur priva ormai del versante adriatico transappenninico e viene in tal modo distinta da Etruria, Marca e Lazio. Orvieto e Perugia, a lungo considerate come circondari a se
stanti, saranno indiscriminatamente e forzatamente aggregate all'Umbria in tempi recenti, essenzialmente nel XIX sec., e definitivamente a partire dal 1860: solo a questo punto Perugia assumerà quella funzione di capoluogo sull’antico dominio spoletino che non riuscì mai ad esercitare nell’ambito dello Stato della Chiesa. La canonizzazione dell'adozione della Cascata tra i simboli caratteristici dell'Umbria così come definita dai geografi umanisti, si deve verosimilmente alla seconda edizione (la prima illustrata) del famoso trattato Iconologia del perugino Cesare Ripa del 1603. Nella rassegna delle allegorie delle regioni d'Italia, l'Umbria è raffigurata da un complesso insieme di simboli (fig.1) che trovano giustificazione, nelle intenzioni dell'autore, essenzialmente nella tradizione classica3. Pertanto essa è personificata da una vecchia signora vestita "all'antica" e munita di elmo, a simboleggiare la vetustà e la potenza degli antichi Umbri, stante ai piedi di alti monti (gli Appennini), i quali, in virtù
Fig. 4
dell'ombra (umbra) che producono all'intorno, avrebbero dato nome alla regione. Con la mano destra essa sostiene in alto un tempio risplendente, a simboleggiare la luce di Cristo apportata dai suoi due più illustri figli, Benedetto e Francesco. Ancora essa è affiancata da una coppia di gemelli sostenente una cornucopia, a testimoniare la feracità della regione e la tradizione antica che voleva fosse terra di parti gemellari, nonché da un toro bianco giacente tra colline e pianure, a ricordare una razza tipica della regione in età classica e le sue terre da pascolo. In particolare Ripa aggiunge che la donna "con la sinistra starà appoggiata ad una rupe dalla quale precipitosamente cada gran copia di acque, & sopra di essa rupe vi sarà un'arco celeste". Che questo convulso insieme di acque e di rocce sia proprio la Cascata delle Marmore, è meglio chiarito da quanto segue: "Gli si dipinge appresso l'horribil cascata del Lago Velino, hora detto Piè di Luco, come cosa non solo in quella Provincia notabile: ma anco in tutta Italia, perciò che è tale la quantità de l'acqua, & il precipitio nel qual impetuosamente casca, che lo strepito, & percossa d'essa si sente rimbombando per spatio di 10. miglia dando à riguardanti meraviglia, e spavento, & per la continua eleuatione de'
vapori cagionati dalla gran concussione dell'acqua reflettendoci i raggi del Sole vien a formarsi vn arco celeste da i Latini chiamato Iris. Onde Plinio nel lib. 2 cap. 62 così dice: In lacu Velino nullo non die apparire arcus come hoggi anco si vede". L'autore fa seguire alcuni versi (563-571) del VII libro dell'Eneide di Virgilio, nei quali molti eruditi pretesero forzatamente, pertanto erroneamente, di riconoscere la Cascata. In realtà la fugace citazione di Plinio il Vecchio nella Naturalis historia sembra essere l'unico riferimento indiretto alla caduta presente nelle fonti classiche, dal momento che viene menzionata una caratteristica peculiare proprio della Cascata delle Marmore, quella di dar vita ogni giorno dell'anno all'arcobaleno, un fenomeno naturale evidentemente già di per sé e già a quell’epoca motivo di spettacolo ed ammirazione. Si noti che il concetto espresso da Ripa di "orribile cascata" la quale procura “à riguardanti” (spettatori, forse, non occasionali), "meraviglia e spavento", sembra anticipare almeno all'inizio del XVII sec. quel canone di "orrida bellezza" il cui ideatore viene convenzionalmente indicato nel napoletano Salvator Rosa, il quale nel 1662 in una lettera descrisse la caduta "cosa da far spiritare ogni incontentabile cervello per la sua orrida bellezza". Del resto la sensazione di bellezza provata di fronte alla Cascata è espressa sinteticamente anche nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, redatto intorno al 1345, a tutt'oggi la prima menzione certa della cascata nella letteratura: "vidi Todi, Foligno, Ascesi e Rieti, Narni e Terni, e il lago cader bello, che tien la Leonessa co' suoi geti" (III, X, 76-78). Si noti come nella complessa allegoria regionale proposta da Ripa, l'unico elemento realmente in rapporto con l'Umbria sia proprio la cascata, l’unico vero simbolo della regione caratteristico e immediatamente riconoscibile. Un altro illustre perugino, Egnazio Danti, cartografo ufficiale del Granducato di Toscana al servizio di Cosimo de’ Medici, realizzò a Roma tra il 1580 ed il 1581, all'interno dei Palazzi Vaticani, la Galleria delle Carte geografiche, ove raffigurò in 40 riquadri ad affresco le varie parti d’Italia come erano conosciute nella seconda metà del XVI sec. Nel riquadro dedicato alla rappresentazione dell'Etruria (comprendente i territori di Perugia ed Orvieto), subito ad Est di tale regione è una raffigurazione meno dettagliata della confinante Umbria (intesa come Ducato di Spoleto), simboleggiata da una splendida riproduzione della Cascata delle Marmore, immersa nel verde, ritratta frontalmente in dimensioni chiaramente enfatizzate (fig.2). Credo che questa sia la prima raffigurazione ad affresco certa e databile della caduta, ma nonostante tutto essa è poco o per nulla nota. La Cascata è poi ovviamente raffigurata, con minore enfasi e
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rapportata nelle dimensioni al contesto, all'interno della stessa serie di carte geografiche nel riquadro dedicato all'Umbria, ripresa a volo d’uccello. (fig.3). Qui, presso il Lago di Piediluco, è stato apposto un piccolo busto dorato di drago, stemma di papa Gregorio XIII (15721585), probabilmente a testimonianza dei lavori fatti eseguire da tale pontefice per la bonifica della pianura reatina proprio in quegli anni in cui veniva realizzata la serie delle carte. Tali lavori consistettero nel ripristino della Cava Reatina, poi detta Cava Gregoriana, essendosi rivelato insufficiente l'intervento realizzato nel 1546 da Antonio da Sangallo il Giovane, sotto Paolo III, consistito nella escavazione ex novo della Cava Paolina. Si noti che l'iconografia della caduta nella carta dell’Etruria è piuttosto simile a quella della cascata dipinta nell'affresco raffigurante il Battesimo di Cristo realizzato da Giovanni Spagna nel 1527 ad Eggi, presso Spoleto, nel catino absidale della chiesa di S. Giovanni Battista, già segnalata nel 1872 da Mariano Guardabassi quale possibile più antica raffigurazione di Marmore (fig.4). Tale proposta di identificazione potrebbe essere valida: è possibile che il nuovo interesse suscitato dalla Cascata presso il mondo degli eruditi e degli artisti rinascimentali sia dovuto alla serie di interventi per la bonifica dell'agro reatino iniziati già nel sec. XV che si concentrarono proprio nel secolo successivo e terminarono agli inizi del XVII. La complessa e articolata iconografia simbolica dell'Umbria
Fig
e ll e Marmore o dell’U m b ria La Provincia di Terni per la cultura
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proposta da Ripa non rimase, come si potrebbe credere, una mera costruzione erudita, né restò confinata in ambito locale: ne è prova la sua adozione a livello internazionale nelle varie carte della regione realizzate dai maggiori cartografi olandesi nel corso del XVII sec. Così è nella nota carta denominata Umbria overo Ducato di Spoleto (fig.5), dove in una vignetta presso il titolo si ritrovano puntualmente tutti gli elementi simbolici indicati da Ripa: ne esiste una variante dedicata dagli stampatori Joan e Cornelis Blaeu al Cardinale Francesco Barberini, in qualità di vicecancellario e nipote di Urbano VIII, pertanto databile dopo il 1623, riprodotta più volte negli atlanti realizzati dai Blaeu, forse già a partire dal 1640, presente anche nell’Atlas maior sive Cosmographia Blaviana, Pars Tertia, stampato ad Amsterdam nel 1662. Tale carta era già stata pubblicata, identica ma senza dedica, nel Novus Atlas sive Theatrum Orbis terrarum edito da Joan Jansson ad Amsterdam nel 164647, e sarà nuovamente edita nel Nevfviéme volume de la Geographie Blauiane, contenant l'Italie pubblicato ad Amsterdam da Joan Blaeu nel 1667. Se la cascata presente in tale allegoria è stata da taluni correttamente riconosciuta come Marmore4, non si può dire che sia stata altresì compresa la simbologia regionale da essa espressa. In qualche caso, anzi, l'intera raffigurazione è stata clamorosamente fraintesa: la donna ed i suoi attributi sono stati addi-
rittura interpretati come personificazione dell'Europa istitutrice della Chiesa, fiancheggiata da generici simboli di pace5. Né si deve credere che l'uso di tale iconografia abbia avuto durata effimera: ancora all'inizio del XIX sec. la ritroviamo nella Carta della Provincia dell'Umbria incisa da Bernardino Olivieri a Roma nel 1803: la simbologia è la medesima, sono venuti meno il toro ed i gemelli, ma non la cascata che spicca sul fondo della vignetta, coronata dal caratteristico arcobaleno (fig.6). Cosa accadde a partire dal XIX sec. è tristemente noto: parallelamente all'esaurirsi del fenomeno turistico legato al Grand Tour, si afferma progressivamente l'industrializzazione selvaggia della Valle di Terni e la vittima più illustre sarà proprio la Cascata e l'ambiente ad essa circostante, il quale verrà completamente stravolto. L'Acciaieria si impadronirà non solo del nome stesso di Terni, ma anche del simbolo dell'Umbria La Cascata delle Marmore, addirittura rimasta completamente chiusa per 25 anni dal 1929 al 1954, per poterne sfruttare appieno le potenzialità idroelettriche, diverrà il logo delle Acciaierie nella veste grafica ideata nel 1945 dal pittore ternano Giuseppe Preziosi (fig.7). Pertanto, quando in seguito all'istituzione delle Regioni, nel 1970, si sentì l’esigenza di individuare una icona dell'Umbria, nessuno si ricordò più della pregnante valenza rappresentativa in tal senso che la Cascata rivestì per secoli, a partire proprio da quando cominciò a definirsi e a costituirsi la regione moderna. Piuttosto che promuovere una ricerca di carattere storico ed iconografico in merito, la quale certamente avrebbe riportato alla luce tale tradizione, nel 1971 la Regione preferì bandire un concorso grafico nazionale per un nuovo simbolo con premio finale di 500.000 lire. Il bando richiedeva semplicemente: “Il simbolo della regione dovrà essere intelligibile e identificabile per la generalità dei cittadini ed esprimere in sintesi grafica i valori storici, artistici e culturali dell’Umbria”. Si noti l’assoluta mancanza di richiesta di riferimenti ai valori ambientali, caratteristica pregnante del territorio. Una commissione giudicatrice appositamente costituita6 prescelse quello che ancora oggi è lo stemma della regione Umbria, “costituito da elementi geometrici, raffiguranti in sintesi grafica i tre ceri di Gubbio, di colore rosso, delimitati da striscie bianche, in campo argento di forma rettangolare”(fig.8) approvato con la L.R. 37 del 1973, recentemente confermato dalla L.R. 5 del 2004. Si tratta di una rappresentazione grafica molto rigida e ormai desueta, dovuta al fatto che risale agli inizi degli anni '70 del XX sec. e che si ispira ai principi della scuola svizzera di design, la quale prevedeva l'inserimento degli elementi simbolici all'interno di un sistema grafico conformato a gabbia geometrica7.
Ne risulta qualcosa di molto freddo e statico, che nemmeno il colore rosso applicato ai Ceri riesce in qualche modo a vivificare: esattamente il contrario della dinamica sensazione da brivido fornita dai bruni Ceri in corsa. Insomma, più che il simbolo di una regione, quello adottato sembra un marchio di fabbrica. Al di là del giudizio estetico, ovviamente personale, a mio avviso il logo anzitutto non è immediatamente riconoscibile come rappresentazione schematica dei Ceri (sarebbe interessante fare un’indagine in tal senso per scoprire quanti Umbri conoscono il significato dello stemma regionale), e comunque esso non può essere rappresentativo dell’intera regione, per il semplice fatto che i Ceri sono stati, sono, e saranno per sempre il simbolo di Gubbio. Indubbiamente un simbolo pregnante, popolare, che affonda le proprie radici in una tradizione antica ed in una religiosità forse addirittura risalente agli antichi Umbri, ma inevitabilmente legato ad una realtà locale specifica.
Fig. 8
Per fare un paragone, è come se la regione Toscana fosse rappresentata da una raffigurazione geometricamente stilizzata del Palio di Siena (inteso come drappo), per di più privato della tradizionale immagine della Vergine. In effetti dai Ceri riprodotti nello stemma della regione sono inspiegabilmente sparite le immagini dei tre santi (Ubaldo, Giorgio e Antonio) le cui statue nella realtà ornano la sommità delle macchine lignee: manca cioè proprio l’oggetto della sfrenata devozione popolare eugubina che è all'origine della stessa realizzazione dei Ceri e della fantastica corsa. Si arriva così al paradosso, per creare un nuovo simbolo, di snaturare l'essenza stessa dei Ceri, annullando la loro simbologia. Dal punto di vista pratico la conseguenza è che diviene arduo riconoscere il verso giusto dello stemma: persino sulla vetrata d'entrata di Palazzo Donini, sede del Consiglio Regionale a Perugia, da anni è applicato uno stemma della regione posto al contrario, affianco ad uno in posizione corretta. In definitiva, senza nulla voler togliere alla città ed ai cittadini di Gubbio, alle loro secolari tradizioni ed ai loro spettacolari Ceri, comunque a mio parere resi nello stemma regionale in maniera
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quanto meno impropria, forse non sarebbe una cattiva idea quella di ripensare seriamente a cercare un nuovo simbolo che abbia davvero valenza regionale, da rendere con una grafica meno elvetica e più aggraziata: più umbra, insomma. Così come sarebbe forse giusto sottoporre l'approvazione della scelta del simbolo regionale ad un referendum popolare dove i cittadini umbri possano dire la loro sullo stemma che dovrebbe rappresentarli nel mondo. Probabilmente l'effige della Cascata delle Marmore è l'unico vero, possibile, credibile, pregnante simbolo dell'Umbria, universalmente riconosciuto come tale almeno da 5 secoli, da quando cioè si afferma la denominazione regionale moderna. Esso è non solo il simbolo di una realtà geografica, ma anche della sua storia, delle civiltà e delle dominazioni che si sono susseguite su di essa, dell'ingegno umano che a partire dall’epoca romana si è misurato con la natura, del delicato rapporto tra ambiente ed antropizzazione. Soprattutto Marmore è la metafora di quella armonica bellezza, da sempre ammirata, dell'incontro fra le acque, il verde ed il cielo che è la caratteristica più pregnante di questa regione, per di più naturalmente coronata ogni giorno da un ulteriore simbolo di valenza universale, quell'arcobaleno icona di pace che è l'altra vocazione storica della nostra terra, a partire almeno dal risuonare in essa, nella Valle Spoletana, del saluto “Pax et Bonum” di Francesco d’Assisi, proprio quando il Ducato cessava di esistere e si stava per trasformare in Umbria. Paolo Renzi
NOTE 1 T..SECCI, Disegni e stampe della Cascata delle Marmore dal 1545 al 1976. Terni: Umbriagraf, 1980 (ripubblicato in seconda edizione nel 1985 per gli stessi tipi con alcune integrazioni); IDEM Acquerelli, affreschi, ceramiche, miniature, olii, sculture, tempere della Cascata delle Marmore dal 1527 al 1986. Terni: Umbriagraf, 1989. 2 BIBLIOTECA COMUNALE <TERNI>, Incanti dell'occhio e dell'orecchio. Terni: Nuova Editoriale, 1992; C. NIRI - G. P. ZANZOTTI, Silenzio e tempesta: la cascata delle Marmore. Arrone: Thyrus, 1992; ISITUTO MAGISTRALE F. ANGELONI <TERNI>, Viaggiatori viandanti e pellegrini a Terni tra '700 e '800: itinerari della memoria. Arrone: Thyrus, 1997; W. MAZZILLI (a cura di), C. CHERCHERASI, Antonio Sangallo e la Cascata delle Marmore : la cava della forma paulina delle Marmora et della cava reatina. Terni: Celori, [2000]; P. CHITARRINI - F. RONCA - G. TARZIA, La Cascata delle Marmore : incisioni e stampe dal XVII al XIX secolo. Terni: Arti grafiche Celori, c2001; A. BRILLI - S. NERI - G. TOMASSINI (a cura di) Il fragore delle acque: la cascata delle Marmore e la valle di Terni nell'immaginario occidentale. Milano: Motta, 2002. 3 C. RIPA, Iconologia overo descrittione di diverse imagini cauate dall'antichità, & di propria inuentione… In Roma: Appresso Lepido Faeij, 1603, pp. 255-259. 4 Incanti dell'occhio… cit., p. 34. 5 F. R. CASSANO, Perugia ed il suo Territorio, Perugia: Volumnia, 1990, vol. I, p. 64. 6 Composta da 11 consiglieri regionali e da tre “esperti”: Roberto Abbondanza (Direttore dell’Archivio di Stato di Perugia), Bruno Toscano (Docente di Storia dell’Arte all’Università di Perugia), Bruno Rapoci (Grafico). 7.A. ANSELMI - G. ANSELMI, Quando il disegno diviene "segno". Storia, progetto e cronaca di uno stemma regionale, in "Disegnare idee immagini. Rivista semestrale del Dipartimento di Rappresentazione e Rilievo. Università degli Studi di Roma La Sapienza", n. 3, dicembre 1991, pp. 69-77.
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TEMA La Provincia di Terni per la cultura
romantico psicologico thriller giallo comico drammatico tragico avventuroso fantastico sarcastico
Racconti de La Pagina Adelaide, Beatrice, Raffaela, Raffaella: 4 favole. Per stare insieme, parlare tra di noi, sorridere un poco. Per sperare in un mondo migliore, più semplice, più diretto, più a misura. Meno misurato.
L’eremita
Ugo C’è chi sceglie l’isolamento sociale per separarsi dall’ambiente circostante, chi per delusione si stacca da ciò che gli sta intorno, escludendosi dai rapporti con il mondo e con le persone che lo popolano, chi, invece, preferisce una segregazione psicologica alla mediocrità del quotidiano e alla banalità di conversazioni afinalizzate. Ugo non aveva scelto, diversi imprevisti lo avevano reso solitario, più esattamente, solo. Era solo a causa di un tradimento, a causa di un aspetto poco rassicurante, a causa delle sue dimensioni a dir poco ingombranti. Era solo, di quella solitudine tipica di chi è senza compagnia, tipica di chi non ha nessuno accanto, tipica di chi si meraviglia ancora di carezze inattese. Qualcuno diceva di lui che
era un vagabondo, un senza tetto; qualche altro, con tono maligno, lo definiva ramingo, randagio errante che procede vagando verso un nessun dove, un fannullone, uno scioperato. Era vero, Ugo non aveva più una sede stabile, non aveva una casa, non aveva una famiglia. Il suo amico gliel’aveva sottratta; rubati i sogni, rubati i ruoli. Era vero, Ugo si muoveva e si spostava continuamente, alla ricerca di un posto dove rimanere, alla ricerca di un posto dove collocare il dispiacere e allo stesso tempo dove sistemare, nei meandri della propria ragione, la spiegazione dell’inganno subito. Il suo amico aveva violato un patto, venendo meno all’amicizia e all’affetto, mancando alla parola data;
Venerdì 4 febbraio 2005 alle ore 21,00 si terrà una degustazione di vini della regione Friuli, Azienda Plozner, con abbinamento gastronomico. Saranno proposte le seguenti etichette: - MAGREIS - VINO FRIZZANTE AROMATICO & Plateau d’ oca J.d.C. - PINOT BIANCO DOC’03 & Carpaccio di Bacalao J.d.C. - CHARDONNAY DOC’01 RISERVA & Filetto di S. Marco e Porcaloca (prosciutto cotto d’oca e suino) - MERLOT DOC’00 RISERVA & Plateau di formaggi … LA MOUSSE DEL CAFFE’ DEL CORSO … … CAFFE’ La degustazione si terrà nella sala superiore del Caffè del Corso e sarà riservata a max. 40 partecipanti. E’ gradita la prenotazione. 0744.431281 Email: caffedelcorso.tr@libero.it
aveva ingannato la sua buona fede nel peggiore dei modi, all’improvviso. Ed Ugo, così costante nell’affetto e nell’amore, proprio non comprendeva come fosse possibile non corrispondere alla fiducia data. Poco o niente sedava il suo dolore e quell’incedere senza meta, testimoniava il suo stato. Un giorno la sua inquietudine cambiò forma; cambiò forma il giorno in cui trovò una baita in mezzo alla montagna. Non più conflitti tra ragione e passione, ma un posto al caldo dove ricominciare. E ricominciò lentamente, in solitudine, con i soliti espedienti per procurarsi cibo e carezze inattese. Lo vide lanciarsi a tutta velocità sulla pista innevata; scarponi lucidi, tuta nuova di zecca. Sciava ancora magistralmente, pensò Ugo. Poi un tonfo. L’uomo era a terra, sanguinante, forse aveva urtato qualcosa nascosto sotto la neve. Ugo corse, corse come una locomotiva appesantita dagli anni e dalla mole verso l’uomo ferito. Intorno a loro, il niente; solo un manto di neve candida a ricoprire il sudiciume del modo. I due si guardarono e si riconobbero. Nell’istante in cui Ugo cominciò a soccorrerlo le loro parti si invertirono. Il cane, un tempo abbandonato, diventò l’uomo e l’uomo animale. Il primo libero di agire, di scegliere di aiutare, il secondo, un tempo padrone, schiavo del suo egoismo infinito. Tra le cime di montagne spettatrici di un evento raro, riecheggia oggi una strana leggenda; quella di Ugo il sambernardo, cane dalle grandi dimensioni e dal cuore generoso. Raffaella Clementi
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E’ vero sono quassù. Ma perché mi cercate in quella bicocca scalcagnata? Credevate che fossi venuta fin qui per rinchiudermi in una piccionaia? Eh no, cari signori, io sto sulla montagna! Se devo rimanere sola preferisco sapere cosa mi succede intorno, e così, dall’alto, io domino il panorama. Niente mi può sfuggire. Paura… e di che? Se non temi di morire, non c’è niente di cui avere paura, perché alla peggio, si muore!!! Comunque, se fosse stato per me, non credo che me ne sarei andata. Per lo meno non da un giorno all’altro…, non su due piedi! Però mi hanno cacciato via…. Pare che mi trovassero bizzarra, un po’ mui generis. All’inizio sembravano incuriositi. A volte ridevano quando mi guardavano fare qualcosa o mi ascoltavano parlare, e io pensavo che si divertissero. A me piace far divertire gli altri…! Ma poi, improvvisamente, si sono stufati; insomma… mi è parso di vederli straniti. Alla fine si sono infuriati come bestie! anno cominciato ad inH sultarmi, a dirmene di tutti i colori, ad offendere…, anche pesantemente!!! Allora io, che non mi spiegavo davvero cosa fosse successo ed ero convinta che stessero prendendo un abbaglio nei miei confronti, ho provato ad aggiustare la situazione, a chiarire… Non
c’è stato niente da fare. A un certo punto mi hanno gridato fortissimo, tutti insieme, con le vene del collo gonfie: VAAATTENEEE!!! Ed eccomi qui. E adesso non solo mi venite a ricercare chiedendomi scusa per come mi avete trattato, il che dimostra la vostra discutibile intelligenza, ma mi venite a cercare dentro una lurida baracchetta cadente, come se una del mio stampo, IO… potessi rintanarmi in un buco simile!!! Cavolo, ma allora non capite proprio niente! Rebus sic stantibus, io con voi non ci torno neanche morta! Piuttosto tornate voi a valle…, e di corsa!!! Non siete proprio fatti per le cime! Se mi volete lasciare qualche messaggio, di cassette per la posta ne trovate in abbondanza. Un giorno, forse, mi farò due passi da quelle parti e, se mi andrà, se ne avrò voglia, aprirò quelle cassette e vedrò che diamine avete da dire a vostra discolpa. Tali parole io sarò pronta a urlare quando qualcuno mi verrà a cercare. Per ora il sole e l’erba mi faranno compagnia… Ma…, a proposito di erba…, è tempo che mi rulli un’altra canna!!! E con questa fanno 7 !5 Per oggi… Ma perché porre dei limiti alla volontà di Dio? Ah, dimenticavo, prima di chiudere, vorrei cogliere l’occasione per salutare zia Ninfa: ciao zia!!! T. V. U. C. D. .B(ti voglio un casino di Straf bene)!
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S a c c h i di iuta La formica faceva una gran fatica a scalare e ridiscendere le montagne colorate e frastagliate della lana grezza. Quello era veramente un maglione caldo e avvolgente. In montagna, col freddo, anche d’estate non si scherza. Anna lo sapeva e, sdraiata sul prato ben falciato, aspettando il fischio del treno con un filo d’erba in bocca, pensava allo sguardo insolito che aveva visto sul viso della nonna. Osservava l’incedere scattoso ma leggero della formica che, dai pesanti nodi della lana crespa del maglione, era scesa sul palmo della sua mano, quando finalmente il treno giunse alla piccola stazione. Ne passavano soltanto due al giorno in quel luogo così lontano dalle grandi città e così immerso nella natura. E quando si fermavano, non era tanto la gente che arrivava ad animare il silenzioso ambiente, ma i grossi sacchi di iuta pieni di cartoline e lettere, che il conducente appoggiava addosso alle pareti di legno dell’edificio adiacente alla ferrovia. Era proprio incredibile… quanti abitanti potevano esserci in quel paese? Venti, trenta? Comunque mai tanti come le lettere contenute in quei sacchi. Quasi tutti gli abitanti avevano diversi amici di penna, e se li mantenevano cari, preparando una risposta per ogni mittente. Anna aspettava che il treno arrivasse, giungeva alla stazione, caricava i sacchi in spalla e si incamminava per la distribuzione dell’ingente posta. Anche quel giorno ogni compaesano le aveva porto un piccolo dono di riconoscenza prima che uscisse da casa sua. Anna aveva accettato ben volentieri la compagnia fornitale dagli amici grati. Ma la sua pazienza fu stranamente interrotta quando, portando la posta a Marco, suo cugino, per l’ennesima volta fu costretta ad ascoltare i suoi lamenti per il fatto che non era riuscito a dormire. Eh già, perché la campana di quel paese non aveva l’accortezza di suonare solo i quarti d’ora, ma anche tutti i colpi dell’ora a cui apparteneva quel quarto. Infatti, se erano le cinque e quarantacinque minuti, la campana batteva cinque rintocchi, poi si fermava un secondo, e ne colpiva altri tre leggermente più acuti dei precedenti. Anna di solito, ascoltava la storia dell’orologio fastidioso pazientemente, ma quella mattina era innervosita da una preoccupazione. Aveva piantato il cugino e era tornata a casa, dove, a mantene-
re la corrispondenza era sua nonna. Tina era una donna ottantenne, ex maestra, che trascorreva la giornata davanti al camino, a leggere e scrivere lettere. Si manteneva informata sull’attualità del mondo, attraverso i racconti personali e molto coinvolgenti dei suoi giovani interlocutori. Dava ottimi consigli e buoni esempi a coloro che la cercavano. E questo da tanti anni. La mattina si alzava e si faceva una crocchia perfetta dietro alla nuca, dopo aver pettinato accuratamente i capelli lunghissimi d’argento. Poi si infilava le calze di lana bianca, la gonna pesante e il maglione rosso. Era pronta ad immergersi nella lettura. Anna di tanto in tanto la osservava, china verso le ginocchia, raccogliere tutte le informazioni che poteva. La vedeva concentrarsi sulla grafia di una giovane ragazza, o soffermarsi su una frase comica di qualche bambino. Le preparava un sorso di caffé e latte, una focaccia o delle patate cotte sotto la brace del camino, complice della produttiva corrispondenza che si operava là dentro. Ma quella mattina, si era accorta che la nonna aveva un’espressione più delicata e interessata del solito. La mano bianca e ruvida che teneva la lettera, tremava leggermente, e una piccola lacrima scendeva sulle rughe della sua guancia. Ma siccome Tina non aveva parlato, Anna non le aveva chiesto nulla. Eh sì, un mistero c’era davvero… questo la innervosiva. Un mistero a casa sua, non se lo sarebbe aspettato. Era così abituata alla vita quieta e silenziosa di quell’ambiente, che non era affatto pronta ad una notizia spiazzante. Intanto che rifletteva e cercava di interpretare quello sguardo, quella posizione insolita delle sopracciglia candide della nonna, immergeva le mani nell’acqua gelida della tinozza e se le portava al viso. La verità era che Tina aveva conosciuto un amore buono e comprensivo, mediante la scrittura. Ed era proprio lui, un anziano di città, a farla spesso commuovere con i suoi racconti e con frasi di riguardo verso la sua principessa (come la chiamava). Le raccontava del suo passato di uomo d’affari, dei salotti e dei balli, dei ristoranti e delle sue storie d’amore. Tina si lasciava adulare da questo sconosciuto amore e dondolandosi sulla sua sedia, resa soffice dai cuscini, quella mattina rivolse lo sguardo alla nipote, le sorrise e le annunciò: Sono innamorata. Adelaide Roscini
Vento di cambiamento Mattina, fine novembre. Un forte vento fa scricchiolare come un vecchio scheletro l’intera casetta di legno. Sembra che da un momento all’altro essa possa alzarsi in volo, danzare a lungo in aria come una foglia morta per andare poi a posarsi chissà dove, magari in qualche mondo di favola da dove sembra essere piovuta. Non si direbbe lo stesso del suo inquilino, negazione vivente della fragilità. Il vento sembra non essere un elemento di disturbo per lui, le sue gambe forti lo accompagnano fedelmente da trentasei anni dalla stazione del trenino a casa e da casa alla stazione; anche oggi si avvia con sacco in spalla e andatura sicura verso valle, e ride tra sé pensando ai suoi nipoti in città, sempre in automobile, sempre stressati e schiavi di un orologio tiranno. Neppure un brivido di freddo, ha la scorza dura lui, dice sempre. Da lontano nota un gruppetto di uomini che parlottano proprio vicino al trenino, quasi fosse anch’esso coinvolto nella conversazione. Antonio allunga il passo: oggi si parte subito! - pensa inizialmente, ma appena riconosce il suo capo si rabbuia in viso. Non si aspettava una sua visita che per il mese prossimo. Quando i cinque si accorgono del suo arrivo smettono di parlare, mancava solo lui. Uno di loro è il signor Righetti, il proprietario del trenino, ed è lui a introdurre il nuovo arrivato dopo averlo salutato con una sonora, amichevole pacca sulla spalla: Signori, vi presento il conducente-custode-amico, direi, di questo gioiello di lamiera e legno,
TEMA
Antonio Pidia. I complimenti, l’eccessiva gentilezza, i sorrisi gratuiti di un uomo che non era mai stato un campione di moine non piacciono affatto ad Antonio; infatti dopo dieci minuti di elogi nei suoi confronti, Righetti si decide di arrivare al dunque. In sostanza aveva già bell’e concluso un affare d’oro con due dei presenti: nelle loro mani il piccolo treno si sarebbe trasformato in un pub e avrebbe traslocato nella zona più alla moda della città. Venduto… un pub… in città. Lo stesso vento di qualche secondo prima, dal quale non si sentiva affatto infastidito, ora gli sembra che lo voglia schiaffeggiare. Antonio avrebbe bisogno di sedersi. Il suo parere non conta, è stato già deciso, e lui non ha la possibilità di fare altro che ingoiare il rospo; ma anche se quel treno non gli appartiene lo sente come suo, e adesso ha l’impressione di stare perdendo una parte di sé. Senza dire una parola, dimenticando i presenti, si avvicina come un automa al vecchio treno, apre lo sportelletto e sale al suo solito posto, ai comandi. Si abbandona sul sedile consumato dal tempo e chiude gli occhi. In una manciata di secondi si rincorrono i ricordi, dello sferragliare e cigolare dell’unica carrozza, delle facce dei passeggeri; degli alberi, del paesino, della porzione di cielo che sempre vedeva e che lo affascinavano ancora. La sua vita gli piaceva, era orgoglioso di non avere la televisione e la macchina, o di non conoscere il sapore
La Provincia di Terni per la cultura
dei surgelati. Antonio non si sentiva mai solo; amava quando i passeggeri, anche se pochi, trovandolo subito simpatico e disposto ad ascoltare, si scioglievano con lui in racconti e confidenze. Righetti guarda con aria di scusa i due acquirenti, non si aspettava una reazione così teatrale per un semplice oggetto. La cifra concordata per liberarsi di quel vecchio macinino gli ha tirato su il morale: stasera si brinda! Anche Antonio stasera beve, non spumante ma whisky; non in piedi per festeggiare un trionfo ma accasciato sulla poltrona per dimenticare una sconfitta; non insieme a dieci persone ma con il suo cane e una coperta sulle ginocchia; non in un locale del centro ma nella sua casetta di legno, che sembra intuire tutto e farsi ancora più piccola, come se volesse consolarlo circondandolo in un abbraccio. A questo punto la storia, scritta e incorniciata all’entrata del Train-Pub si interrompe, e iniziano delle foto di un paesaggio di montagna, tra cui quella di una casetta di legno in primo piano con dei binari in secondo, quella del trenino prima della metamorfosi in locale notturno, e per ultima quella di Antonio, che somiglia in modo impressionante al signore sempre seduto vicino al finestrino… Beatrice Ratini
Racconti dei lettori
Altri racconti. Scritti da te, max 4000 battute, ed inviati a info@lapagina.info Li leggeremo tutti ma ne pubblicheremo alcuni. A presto. 11
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Come difenderci dalla malasanità La malasanità è, purtroppo, una costante della nostra società. Il consumatore si trova di fronte a disservizi di ogni genere, nella peggiore delle ipotesi anche ad interventi non riusciti, o alla morte. Quali difese può avere un consumatore che è incappato in un caso di malasanità? La colpa medica è punibile sia in sede penale, con sanzioni restrittive della libertà, sia in sede civile, con obblighi risarcitori, sia in sede deontologica, con sanzioni disciplinari. Il consumatore deve dimostrare l’errore professionale e l’inevitabilità e inescusabilità dello stesso. Quindi prima di procedere contro il medico si devono accertare alcuni requisiti: l’esistenza del danno; la colpa del medico, dovuta a imperizia, imprudenza, negligenza o inosservanza di leggi e regolamenti; il nesso di causalità fra la condotta del medico e l’evento dannoso. Fatto ciò, entro 3 mesi dal fatto lesivo, è possibile presentare querela per lesioni colpose. La querela non esclude che il malato possa citare il medico in sede civile per il risarcimento del danno. In entrambi i casi il danneggiato deve provare il danno, ha, come si dice, l’onere della prova. Provare il danno può essere arduo, perché ci sono interventi di differente difficoltà. Un intervento di difficile esecuzione consta di un rischio più elevato, a causa della complessità della metodologia. Per un intervento estetico, invece, è più semplice l’onere della prova, perché è palese il risultato. Inoltre sulla prova incide la qualifica del medico; l’informativa data al paziente prima dell’intervento; il tipo di terapia effettuata; l’esistenza di trattamenti alternativi e l’assistenza post-operatoria. Unendo tutte queste circostanze è possibile capire se siamo stati oggetto di malasanità oppure no. Nel caso ci scoprissimo danneggiati possiamo rivolgerci o allo Sportello del Cittadino, o all’Unione Nazionale Consumatori. Serena Battisti
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La responsabilità da contatto sociale del medico
La responsabilità del medico che opera nella struttura ospedaliera rappresenta uno dei temi più attuali e intrigati del panorama giuridico nei confronti del quale la Cassazione si è attestata sul riconoscimento della responsabilità contrattuale del medico nascente da contatto sociale. Il problema nasce dalla assenza di un contratto tra medico e paziente e nello stesso tempo dalla esigenza di configurare una responsabilità contrattuale del medico per garantire maggiormente il paziente danneggiato1. La materia presenta molteplici spunti di riflessione a partire dalla qualificazione del rapporto tra utente e struttura erogatrice del servizio dal quale nasce un vero e proprio diritto del paziente a ricevere la prestazione sanitaria. Detto rapporto, ancorché di natura pubblicistica, risulta innervato dal diritto soggettivo del cittadino alla prestazione del servizio e dal dovere dell’ente di eseguirla. Proprio la preesistenza di questo rapporto fa si che la responsabilità dell’ente pubblico verso il privato per il danno causato dalla non diligente esecuzione della prestazione sia di natura contrattuale. Ne risulta una commistione tra forme pubbliche e private, ossia tra pubblico servizio e contratto da una parte, contratto e diritto soggettivo alla fruizione del servizio dall’altra, che vengono giudicate per nulla incompatibili ma che creano indubbiamente una esigenza di approfondimento che non possiamo in questa sede soddisfare. Quando richiediamo una prestazione all’ente gestore del servizio sanitario usufruiamo di un servizio pubblico. Il presidio ospedaliero eroga una prestazione complessa fatta di personale, strutture, attrezzature, e di una pluralità di servizi, per cui l’utente, inoltrata la richiesta, ottiene il diritto ad usufruire di tutte queste prestazioni compresa
quella del medico. In questo caso la dottrina più recente parla di contratto di spedalità tra il pazienteutente e il presidio ospedaliero che erogherà la prestazione. Infatti l’ente si obbliga ad effettuare la prestazione nei confronti dell’utente, mentre il medico è obbligato direttamente solo nei confronti nella struttura presso cui opera. Se il discorso si concludesse qui, in caso di danno alla salute provocato da un intervento chirurgico, unico diretto responsabile nei confronti del paziente-utente sarebbe l’ente ospedaliero obbligato in base al citato contratto di spedalità mentre il medico non avendo concluso alcun contratto con il paziente sarebbe responsabile contrattualmente solo nei confronti nell’ente in cui opera ovvero in base alla disciplina del rapporto di lavoro che lo lega ad esso, ricadendo semmai sul medico una responsabilità nei confronti del paziente di natura extra-contrattuale ossia alla stessa stregua di un qualsiasi soggetto che pur non violando obblighi specifici nascenti da un contratto, provochi tuttavia un danno violando il generale precetto di alterum non laedere.2 Ma a ben guardare, sebbene la prestazione dell’ente sia comprensiva di quella medica, quest’ultima rimane la prestazione principale senza la quale letti, cibo e struttura non servirebbero ad adempiere l’obbligazione assunta dall’ente nei confronti del paziente-utente. In realtà la prestazione dell’ente risulta essere strumentale alla prestazione del medico e quest’ultimo sebbene dipendente della struttura ospedaliera conserva una sua specifica autonomia proprio per il rilievo oggettivo che assume l’attività medica. L’attenzione viene quindi richiamata sull’importanza dell’attività del medico e sulle sue rilevanti peculiarità. Il medico, quale soggetto professionalmente qualificato, è tenuto ad osservare un grado di diligenza specificamente adeguata alle regole della particolare professione svolta che ha ad oggetto un bene di rilevanza costituzionale quale appunto la salute. L’attività medica è connotata da profili dinamici, composta di tanti atti l’uno conseguenza dell’altro (e di cui molto spesso gli autori sono una pluralità di soggetti) e pertanto insuscettibile di essere preventivamente descritta all’interno di un contratto poiché la prestazione si costruisce a mano a mano. Si tratta infatti di una
serie di obblighi specifici che progressivamente si configurano in capo al medico nei confronti del paziente non come effetto di un contratto bensì a seguito di un contatto sociale qualificato. Ma in cosa dunque consiste il contatto sociale? Quando il medico, a seguito del contatto con il paziente, realizza un atto che può provocare delle conseguenze sulla salute del paziente, in quel momento il contatto si qualifica come fonte del rapporto obbligatorio. Il contatto rileva quando l’attività medica incide sulla salute del paziente e non prima di tale momento; quando gli effetti della attività medica ricadono sul soggetto, in questo caso si parla di contatto sociale. Corrisponde al vero che il medico nel momento in cui entra in contatto con il paziente non è obbligato ad effettuare alcuna prestazione ma nel momento in cui dà inizio ad una qualche attività che si ripercuote sulla salute del paziente allora il medico ha l’obbligo specifico di concludere l’intervento profondendo tutta la diligenza richiesta dal caso. La fonte dell’obbligazione del medico è quindi il contatto sociale a fronte del quale si pone la responsabilità contrattuale in caso di inadempimento. Nel nostro ordinamento infatti la responsabilità è di due tipi, contrattuale o extra-contrattuale3; la prima può sussistere anche nel caso in cui alla base non vi sia un contratto bensì un rapporto obbligatorio originato da un qualsiasi fatto o atto idoneo a realizzarlo come il contatto sociale. Infatti la differenza tra i due tipi di responsabilità non risiede nel tipo di fonte che origina
LA PAGINA
il rapporto obbligatorio, ma ruota intorno alla esistenza o meno di un rapporto in virtù del quale possono nascere obblighi specifici di comportamento. Arianna Alpini Avvocato specialista in diritto civile 1
La disciplina della responsabilità contrattuale rispetto a quella extracontrattuale prevede un termine più lungo a favore del danneggiato per chiedere il risarcimento del danno (dieci anni anziché cinque), un onere della prova a carico del danneggiato più lieve, etc. 2 Alterum non laedere: non ledere alcuno, non ledere l’altrui sfera giuridica. E’ il principio che enuclea la responsabilità extracontrattuale la quale colpisce chiunque provochi un danno ingiusto (ad es. l’automobilista che urta un passante provocandogli delle lesioni). 3 La responsabilità extra-contrattuale è quella nascente da un qualsiasi fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto e che obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno ex art. 2043 del codice civile. Si ha invece responsabilità contrattuale o meglio ancora responsabilità da inadempimento dell’obbligazione nel caso di violazione di un dovere specifico derivante da un precedente rapporto che obbliga il debitore inadempiente al risarcimento del danno ex art. 1218 del codice civile.
Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002 presso il Tribunale di Terni Direzione e Redazione: Terni Via Carbonario 5, tel e fax 0744.59838 Tipografia: Umbriagraf - Terni
M. Battistelli, A. Ratini, P. Rinaldi, A. Scalise, G. Talamonti, S. Tommasi, R. Trequattrini, G. Viscione Direttore responsabile Michele Rito Liposi info@lapagina.info Direttore Giampiero Raspetti raspetti2002@virgilio.it Antiquitas Paolo Renzi naharkum@libero.it Comunicazione Raffaela Trequattrini raffaelatrequattrini@infinito.it Donna Francesca Capitani francescacapitani@virgilio.it Diritto Serena Battisti info@lapagina.info Gusto della terra Albano Scalise info@lapagina.info Homo ridens Giampiero Raspetti raspetti2002@virgilio.it Ornitologia ed etologia Ivano Mortaruolo ivanomortaruolo@tiscalinet.it Salus Vincenzo Policreti policreti@tin.it Solidarietà Elettra Bertini gluisa40@libero.it Storia Lorella Vignoli vignolilorella@email.it Storia dell’Arte Lucilla Vignoli lucilla.vignoli@email.it Fotografia Franco Cervelli info@lapagina.info Grafica Ilaria Di Martino info@lapagina.info Vignette James Danieli info@lapagina.info Marketing e Pubblicità Comunicazione e Progresso s.a.s. - Tel. 0744.59838 Società Editrice Comunicazione e Progresso s.a.s. www.lapagina.info info@lapagina.info Consiglio di redazione
homo ridens Le profezie di Nostradamus
Mago Raspus In ottobre assegnammo il compito: interpretare la Quartina 24 della II Centuria: Animali feroci di fame fiumi raggelati, Molta parte del campo incontro all’Hister sarà, In gabbia di ferro il grande farà trainare, u Qando nessun giovane di Germania osserverà.
Ed anche la seguente: Spietati fluorescenti pupazzi vermigli Inondano procacemente il monte, Ululando breve neve bianca, Spossati nell’inclemente ardore.
Avevamo anche promesso di concedere informazioni intorno allo sfruttamento operato sulle opere di Nostradamus. Prima quartina. I ridicoli esegeti del niente affermano che in tale quartina il Sommo avrebbe profetizzato la caduta di Hitler. C’è scritto Hister, è vero, ma solo i vecchi ed i bavosi fanno ormai caso a tal minuzzaglia! Anche il fatto che Hister sia il nome, in latino, del fiume Danubio a cui per certo Sua Sommità si riferiva, nemmeno sfiora la loro bronzea imperturbabilità. Seconda: si tratta del dilagare della droga, è così evidente! Chi lo dice? Lo dico io! La quartina l’ho composta io, insieme al mio gatto! Ed è anche più rotonda di quelle sputacchiate, salvia compresa, dal Nostra. Sfruttamento. Walter Schellenberg, capo dello spionaggio estero del Reich, narra, nelle sue memorie, che furono diffusi migliaia di volantini riportanti la profezia di Nostradamus: Il Sud-est della Francia non sarebbe stato bombardato.
Così, la popolazione civile si spostò in massa in quella direzione e le truppe naziste non trovarono congestionate dai profughi le vie d’accesso a Parigi e verso i porti della Manica: Nostradamus aveva funzionato oltre ogni ottimistica previsione! Di lì il trucco della bottiglietta nei pantaloni. Chi la sa la sa; chi non la sa, rosica! I nazisti utilizzarono Nostradamus come massima autorità dell’esoterismo, cioè di quell’intruglio di sciocchezze utilizzabile, da incolti e da fannulloni, per affermare un piccolo brandello di se stessi, dai delinquenti, invece, per imporre una inesistente superiorità. Le profezie di Nostradamus possono avere dunque pericolosissime conseguenze, così come l’orrido settore delle magie che si alimenta nelle messe nere e nei misteri. Fino ad alcuni anni fa, i temi forti di Nostradamus erano il mondo della guerra fredda, il bipolarismo, la competizione fra blocco americano e blocco sovietico, la corsa allo spazio cosmico. Qualcuno ha mai letto, negli anni Settanta e Ottanta, interpretazioni in cui apparisse lo spauracchio del terrorismo internazionale e la sfida del fondamentalismo islamico? Oggi troverete la distruzione delle Torri Gemelle, la minaccia del terrorismo, l’Afghanistan e Al Qaeda. Sta per arrivare la profezia sullo tsunami, siatene certi. Per gli accattoni dei vaticini e degli oroscopi il futuro profetizzato è curiosamente simile al loro presente. Carissimi discepoli, il futuro è intimamente in Noi e in voi, ma non spudoratamente fuori di noi. Sentiamo tutti il futuro, in attimi fuggenti; nell’atarassia si aprono squarci. Non sempre, però. Per quelli che ne fanno lucro o chiacchiera da salotto, mai. COPPA TETA NOI RASPUS
Panorama Parlamentare La dichiarazione di Berlusconi, secondo cui il governo della Sinistra porterebbe soltanto miseria, terrore e morte, ha avuto una vasta eco anche all’estero. In Iraq, nei giorni scorsi gruppi di miliziani di Al Zarqawi sono stati uditi manifestare al grido di “Prodi for President”. R omano Prodi ha convocato una conferenza stampa allo scopo di rendere noto ai giornalisti in che modo è riuscito a porre termine al dissidio tra lui e Rutelli. “Ci siamo confrontati con franchezza sui vari motivi di disaccordo” ha spiegato il leader del Centrosinistra. “È stata una discussione lunga e a tratti dai toni aspri, ma alla fine Francesco ha ammesso che io avevo torto.” I ndiscrezioni dell’ultim’ora parlano tuttavia d’un nuovo, imminente attacco alla leadership di Romano Prodi. Incoraggiata dalla buona accoglienza riservata alla triade Gruber-Santoro-Marrazzo, un’altra nota personalità del mondo della televisione (già ospitata più volte da Bruno Vespa, che capisce sempre in anticipo da che parte soffia il vento) avrebbe infatti deciso di porre la propria candidatura addirittura al ruolo di guida della coalizione di centrosinistra. Della sua identità ancor non v’è certezza, ma i soliti bene informati assicurano che stavolta Albano l’ha presa proprio male. L ’asserzione di Rutelli sulla morte della socialdemocrazia ha suscitato aspre critiche da parte dei politici di estrema Sinistra che hanno tenuto pronti per anni i fuochi d’artificio per festeggiare l’evento. L a vittoria di Niki Vendola alle primarie del centrosinistra pugliese ha suscitato aspri commenti nello schieramento rivale. È la prova che in tanti, a Sinistra, sono rimasti comunisti ha dichiarato Sandro Bondi. È la prova che in tan-
ti, a Sinistra, sono diventati omosessuali, gli ha fatto eco Rocco Bottiglione. P rosegue con immutata alacrità il programma di esecuzione delle grandi opere promesse dal Centrodestra. Ieri il Ministro Lunardi ha posato la prima pietra dell’edificio che ospiterà la nuova sede dell’ufficio tecnico deputato a valutare il sito più indicato ove far sorgere il cantiere del palazzo in cui lavoreranno gli architetti incaricati di progettare i nuovi uffici dei funzionari governativi incaricati di sovrintendere allo svolgimento della gara d’appalto mediante la quale sarà scelto il general contractor per la ristrutturazione dello studio televisivo in cui il Ministro annuncerà l’avvio dei lavori per l’ammodernamento della segnaletica orizzontale sulla statale Caianello - Valle Fiorita. U na voce dal sen fuggita sostiene che l’onorevole Frattini detesti viaggiare ed abbia accettato di diventare prima Ministro degli Esteri e poi Commissario europeo unicamente per spirito di servizio. È uno che in vita sua s’è mosso così poco racconta un maligno da credere che la Samsonite sia quella cosa che fa venire il mal di testa a Superman. P ronto il nuovo slogan elettorale di Forza Italia: Non domandatevi cosa lo stato può fare per voi, domandatevi cosa voi potete evitare di farvi fare dallo stato. N el dibattito sulle possibili modifiche da apportare alla legge sulla fecondazione per schivare il referendum si è inserito il Presidente della Regione Calabria Chiaravallotti, il quale ha proposto una soluzione di compromesso sull’utilizzo degli embrioni soprannumerari. Lasciarli congelati in eterno non si può, ha spiegato, gettarli nel lavandino è una mostruosità, metterli a dispo-
sizione della ricerca scientifica suscita comunque gravi dubbi etici. E allora, assumiamoli come forestali e facciamola finita! Q uando esplose lo scandalo degli aumenti indiscriminati delle polizze RC auto, il Ministro Marzano si rivolse con fermezza all’associazione delle compagnie assicurative, suggerendo di ribassare le tariffe. Quando esplose lo scandalo del sostanziale raddoppio, col passaggio dalla lira all’euro, dei prezzi di molti beni di consumo, il Presidente del Consiglio in persona fustigò duramente l’associazione dei commercianti, pregando di frenare la corsa dei prezzi. Quando esplose lo scandalo dell’impennata dei costi all’utente dei servizi bancari, il Presidente della Banca d’Italia reagì con grande severità, implorando l’associazione degli istituti di credito di non spingerli ancora più in alto. Ora che un’altra e ancora più pericolosa associazione a delinquere sta mettendo Napoli in ginocchio, il Ministro degli Interni Pisanu, fortificato nell’animo da simili esempi di incoercibile dedizione al pubblico interesse, ha manifestato l’intenzione di supplicare la camorra di limitare il numero degli omicidi a tre al giorno. Sulla classe dirigente del nostro paese si possono dire tante cose, ma non che le facciano difetto le buone maniere. Ferdinando Maria Bilotti
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