La pagina giugno 2006

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Donna e famiglia: voli pindarici

Amministratori del tempio Giampiero Raspetti

Raffaela Trequattrini Non è possibile sentirsi sereni ed appagati soltanto perché si è deciso che deve essere così. Sarebbe come chiedere ad una persona afflitta da un forte dolore di sentirsi bene, o come pretendere che qualcuno, volontariamente, innalzi o abbassi il suo quoziente intellettivo. Non ho nulla da eccepire nei confronti di quelle donne che ambiscono a realizzarsi nel ruolo di mogli e di madri; quindi di femmine, intese in senso biologico (e non dispregiativo). Se questo riesce effettivamente a conferire un significato alla loro esistenza, non hanno che da rallegrarsene, qualora abbiano trovato un marito appropriato e siano riuscite ad avere dei figli. Perché per certi generi di scelte la volontà personale non è sufficiente, ma è necessario anche il

La velocità, in cui frequentemente incorriamo, è una grandezza derivata. Due gli ingredienti di base per imbandire la torta velocità: spazio (s) e tempo (t). Niente farina, acqua, zucchero. La velocità (v) è in proporzione diretta con lo spazio percorso (più è grande la velocità e, a parità di tempo trascorso, maggiore è lo spazio percorso) mentre ha proporzione inversa rispetto al tempo (più è grande la velocità e, a parità di spazio percorso, minore è il tempo impiegato). Ne deriva in un lampo che la torta velocità è naturalmente sfornata come v = s/t, ove appunto s e t risultano, rispettivamente, direttamente ed inversamente proporzionali alla velocità. La matematica, cui nessuno può imporre regole, descrive sempre con la semplicità più assoluta segue a pag. 2

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E se ritornassimo all’angelo del focolare?

N° 6 - Giugno 2006 (36)

Maurizio Bechi Gabrielli

La violenza carnale Vincenzo Policreti

Eccoli di nuovo!!! Sono tornati. Come chi? I fautori de il posto della donna è la casa... la donna si realizza completamente solo nella famiglia... chi meglio della madre può capire ed educare i figli? Sono di nuovo qui. Ormai è un po’ di tempo che si sono rifatti vivi, sotto diversi vessilli, ma con le consuete parole d’ordine: i sacerdoti e gli adoranti seguaci dell’angelo del focolare. Prima si appoggiavano all’opzione biologica: fin dall’inizio dei tempi è toccato all’uomo il compito di procurare il cibo e alla donna quello di occuparsi della casa, della custodia del fuoco, della cura delle suppellettili, della concia delle pelli, ecc. Sulla base di questo dogma la donna è stata confinata per secoli alla gestione della sfera riproduttiva, per assicurare braccia alle famiglie povere e eredi in grado di gestire proprietà e nome (anzi cognome) e alleanze alle

La Corte d’appello di Cagliari ha stabilito in una recente sentenza, che la violenza sessuale esercitata dal marito è meno grave (quindi meritevole di meno severa sanzione) che quella esercitata da uno sconosciuto, in quanto la consuetudine e l’intimità col primo rendono meno traumatico l’evento. Sentenza che ha sollevato un vespaio di prevedibili voci polemiche, cui non intendiamo mescolare la nostra. Quel che ci preme invece puntualizzare è come quando si parla di violenza sessuale, vi sia una specie di blocco psicologico che se da un lato consente di bearsi della prurigine che il fatto crudo e nudo (è il caso di dirlo) suscita, dall’altro ostacola, quando non impedisce, quel ragionamento pacato e oggettivo che s’esige dall’uomo di scienza, giuridica o psicologica che sia. Tanto per cominciare: vi sono

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La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di Aristotele meritarli.

2 giugno 1946 Lorella Giulivi Se s s a nta a nni fa i l s uffr a g i o uni v e r s a l e . Sul perché le donne, da noi, abbiano iniziato ad esistere come cittadine soltanto nel 1946, andrebbe interrogata la cultura delle classi egemoni che, anche sul versante cosiddetto laico, sembra aver condiviso a lungo l’impostazione misogina dei teologi medievali che non nascondevano l’inquietudine nei confronti del genere femminile, fonte di corruzione e perdizione. segue a pag. 4

G a lle r ia d e l Co r s o - Te r ni

Il principio di sussidiarietà

Il caso Abu Omar: l’Italia sapeva?

Serena Battisti

Francesco Patrizi

Il principio di sussidiarietà si divide in due: la sussidiarietà orizzontale che indica un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato, formazioni sociali, individui; la sussidiarietà verticale che determina un criterio di distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali. Quest’ultima accezione viene usata per spiegare la prospettiva federalistica che prevede la frattura del potere centralizzato a favore dei governi locali. Un’idea che valuta lo stato dei fatti con l’intento di perseguire efficienza attraverso il federalismo fiscale e il cambiamento delle formule classiche della gestione della cosa pubblica. La sussidiarietà orizzontale, invece, afferma che lo Stato interviene solo quando l’autonomia della società risulti inefficace. Quindi in questa visione l’individuo è perfettamente in grado di gestire se stesso in

Ludwig ha cantato. Per due anni ha creduto di averla fatta franca, ma quando il magistrato di Milano lo ha interrogato, ha confessato di aver partecipato, a titolo personale, insieme agli agenti CIA, al rapimento di Abu Omar. Ludwig è il nome in codice di un maresciallo dei carabinieri di Milano. I fatti risalgono al 17 febbraio 2003 quando l’imam Abu Omar, rifugiato politico regolarmente residente a Milano, sospettato di collegamenti con Al Quaeda, esce di casa per recarsi alla moschea; nel giro di pochi attimi, si ritrova circondato da un commando di agenti segreti americani che lo rinchiudono in un furgone, lo trasportano ad Aviano dove viene dapprima torturato, quindi spedito in gran segreto in Egitto, dove subisce altre torture. La moglie denuncia la scomparsa di Abu Omar, la questura indaga pochi mesi, la

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D on n a e famiglia: voli pindar ic i

verificarsi di determinate circostanze. Si tratta, dunque, di scelte subordinate al caso e non tutti chiamano scelta ciò che dipende dal caso; non tutti spingerebbero un figlio ad affidarsi ai casi… Ma quello che mi preme sottolineare è che una stessa musica che alcuni trovano estasiante, per altri, invece, è un rumore fastidioso. Così volare con il deltaplano: può essere una magnifica esperienza… oppure un’idea da panico! E di tali sensazioni nessuno ha colpa o merito.

Questo per dire che se ci sono anche donne che non percepiscono, nell’amore di coppia e nella maternità, degli ideali degni di giustificare una vita, l’unico commento da fare è che la parola vita ha più di un’accezione; come tante altre parole, del resto. Quasi tutte. Sostenere che ognuno di noi si relaziona con il mondo esterno e ne interpreta i messaggi secondo codici particolari e peculiari, ovvero soggettivi, la cui entità determina i vari modi di agire, sembra un’affermazione bana-

le… chi la negherebbe? Eppure poi siamo facili a trinciare impietosi giudizi che non tengono minimamente conto di questo fatto… Non è concepibile da parte di alcuno imporsi un interesse o perseguire obiettivi che secondo la propria ragione non stanno in cima alla scala dei valori. Non si fa niente senza una motivazione. E le motivazioni (da non confondersi con gli istinti) sono di due specie: o nascono spontanee all’interno della persona, o vengono indotte; dall’individuo stesso o dalla collettività. Ma nessuna motivazione spontanea può essere demolita da una motivazione indotta, che solo il vuoto sa accogliere. Perché la natura, si sa, è autoconservatrice, per cui quello che crea non lo distrugge. Per farlo deve trovare un’ottima ragione, una ragione frutto della ragione, però... e della ragione propria. Se così non fosse, il mondo sarebbe completamente dominato da coloro che possiedono maggiori strumenti e capacità di condizionare le men-

ti altrui. E chi ha voluto sempre questo nella storia? Solo chi aveva e ha i mezzi per condizionare. Per essi la ragione è un grave intoppo, così ci invitano a metterla da parte… Il problema è che risulta già difficile combattere fino in fondo per gli ideali nei quali si crede fermamente! Figuriamoci in vista di finalità forzate…! Accade addirittura che ciò che agli occhi di alcuni rappresenti un valore, agli occhi di altri sia quasi un disvalore. Il valore della famiglia, concepita dal punto di vista tradizionale, se per i più è sinonimo di dedizione ed altruismo, per altri invece è un risvolto dell’egoismo umano, in quanto asseconda e giustifica l’impulso di chiudersi in un piccolo centro benessere, nel quale si dà, sì, ma si riceve anche tanto, perché gli affetti, in genere, sono contraccambiati. Mentre l’esterno è insensibile ad ogni nostra esigenza; non si addolora per noi ed ignora il nostro bene. Essere proiettati all’esterno non è

facile, ma per alcuni è il senso della vita e l’unico principio da affermare. E allora niente famiglia o una famiglia diversa? Chiudo l’articolo con questa riflessione: non diamo per scontato che una famiglia diversa non possa trasmettere amore e provochi quindi il disagio… Forse se interpellassimo qualcuno che l’ha sperimentata andremmo a constatare che esistono casi in cui le stesse motivazioni spontanee che non hanno permesso ad una madre di considerare la famiglia come un fine, possono essere condivise anche dai figli, e non semplicemente per ripiego. A volte le capiscono perfettamente e, se abbandonano la prassi, lo fanno con obiettivi precisi e con tutto il necessario entusiasmo per raggiungerli. Magari un entusiasmo ben maggiore rispetto a quello che è riuscito a trasmettere chi alla famiglia ha dedicato anima e corpo… La mia risposta al quesito è “famiglia diversa… o niente”. Ma più che una risposta, è una constatazione. R. Trequattrini

In ogni campo, anche in quello sportivo! Quest’Italia in cui ormai niente è più reato... ridotta a tempio delle infamità. Ed ecco i difensori dei lavoratori e dei loro sacrosanti diritti. Peccato che non pochi tra questi abbiano lavorato al massimo un paio d’ore e che, per molti di loro, essere sindacalisti rappresenti quasi in toto percepire stipendio e maturare carriera. Quanto lontana l’epoca dell’acqua sala... Peccato poi che si acceda al sindacalismo come amico degli amici, se va bene... spesso è questione di famiglie! E i professionisti del tempismo, il cui salario, quando c’è, è consistito in affidamenti partitici. Diventano... amministratori... di quelli che servono i cittadini, nei paesi, nelle province, nelle strutture collegate. Parte di questi non ha, in realtà, mai fatto niente, se non svolgere funzione di portaborsellini. Amministrano, ma cosa? Che competenze hanno, che intelligenze, che cultura? Certuni, sì, hanno dimostrato di essere eccellenti amministratori, che ben conoscono, ad esempio, la differenza tra spesa e investimento (...grandi eventi in Perugia...), altri, invece, si spacciano per direttori di un traffico sociale, immerso nella cultura, nella tecnologia, nella raffinata politica... di cui afferrano solo vetusti ed inessenziali particolari.

Sono così convinti di fare del bene che non la smetterebbero mai. Durante il mandato, anzi, un chiodo fisso li inchioda, procurando indicibili sofferenze: alla scadenza dove potrò ancora fare del bene? Sono tutti, qualsiasi sia la loro età, politicamente attempati. Quando le loro tempie iniziano ad imbiancare, facciamo scadere il tempo dell’amministrare! Per quanto tempo ancora potranno gli onesti lavoratori, gli uomini di ingegno, i seri imprenditori, i professionisti irreprensibili, gli uomini di cultura, gli scienziati, gli artisti, i giovani virtuosi e disincantati, coloro che nascono liberi e non servi, resistere all’abbraccio mortale di chi così grandemente s’adopera per amministrare il loro bene? E se decidessimo, finalmente, di amarli anche noi e li costringessimo a lavorare e a dar prova di quel che sanno fare? Diamo tempo al tempo e, a suo tempo, proibiamo loro di fare il bello e il cattivo tempo. Al tempo stesso, poiché il tempo di cottura è scaduto e non possiamo concedere tempi supplementari, temporeggiando un poco solo in attesa di tempi più opportuni, concediamo loro un iniziale part time poi, in real time, cacciamoli dal tempio e restituiamo loro il patentino di amministratori di se stessi, con scritto: perditempo fuori tempo massimo. G. Raspetti

Amministratori del tempio quel che è, e, in quanto a questo, risulta del tutto diretta. Incapace di asservirsi a quel che non è, o che farebbe comodo fosse, è solo di grazia piena. Instancabile nella ricerca di relatività è assolutamente onesta. Prepariamo ora la torta tempo. Quali gli elementi di base? Non troveremo mai alcun ingrediente del tempo che non sia... il tempo stesso. Ad esempio... successione di istanti... quindi... successione di tempo. Il tempo vive di sé, compiacendosi della sua assoluta continuità. Non si possono separare due istanti di tempo: un eventuale buco inghiottirebbe tutto... passato, presente, futuro. Tra due istanti ce ne sarà sempre un altro... quindi... l’istante, come normalmente inteso, non esiste. Si può ben dire, invece, che l’istante sia... infinito, come tutte le parti proprie di un insieme infinito. La matematica definisce con chiarezza, senza fanfalucherie, cos’è l’infinito! E quindi anche cosa non è infinito! Ne riparleremo tra intimi, per certo non con gli spacciatori di fumo. Il tempo è dunque il continuo divenire; non possiamo sezionarlo, non contiene né precedenti né successivi dell’istante... il tempo è grandezza fondamentale, base certa della vita: da nessuno dipende, da lui si discende! La parola deriva dal greco temno, divido, recante l’idea di sezione, epoca (ed anche di stagione atmosferica). La parola tempio ha la stessa etimologia. In latino è infatti templum (appunto da temno, tagliare, suddividere). Originariamente designava infatti una delle quattro parti nelle quali era idealmente diviso il cielo per mezzo della bacchetta ricurva, detta lituo, con cui l’augure fissava un limite entro il quale pronunciare i suoi auspici tratti dal volo degli uccelli. Successivamente significò il

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soggiacente terreno che si consacra agli dèi e, infine, l’edificio lì edificato in loro onore. Da luogo sacro consacrato al culto, degno di venerazione o simbolo di nobili ideali da contemplare, fu anche luogo di immagazzinamento di derrate (dette anche denariatae, che hanno cioè il valore di un denaro) comuni, trattenute, contabilizzate e ridistribuite dagli addetti al sacro, che cominciarono così ad amministrare il bene pubblico. Tempo è grandezza fondamentale. Tempio deriva da tempo ma perde, nella discendenza, infinità, purezza e continuità; al contrario della matematica, non v’è ricerca, ma solo perpetuazione di una verità ritenuta assoluta. Dalle due parole deriva, degererata e contaminata, del tutto finita e terrena, la parola amministratore. Ad-ministro, servire a (con relazione a minus) è colui che conduce affari per incarico e sotto la supremazia altrui, colui che dispone i beni del tempio a favore di altri, di cui si professa umile servitore....... Ci sono amministratori delle proprie proprietà, ereditate da parenti o affini, che altro non fanno. Regolarmente, tranne sparute eccezioni, dilapidano perché, non capendo le difficoltà e la dignità del lavoro (che richiede sacrifici, meriti personali e non indotti), hanno capacità ridottissime, navigano nei mezzucci, sbertucciano incravattati. Alcuni tra questi contaminano con la loro inutile presenza la vita amministrativa del paese. Alti ministri del culto, ritemprati nello spirito per il grande amore che nutrono per noi, amministrano il tempio (quello dove Cristo cacciò irato i mercanti), intenti a pietire privilegi. Perché non provano a vestire umilmente come il loro Signore, e, come lui, essere, in terra, i più poveri dei poveri?

Perché arraffano negozi per i quali accettano di non pagar tributi? Perché non disarraffano la proprietà di palazzi, banche, compagnie assicuratrici? Perché, avendo le loro belle chiese, impongono l’insegnamento della religione nelle scuole di Stato, invadendo la scuola pubblica con insegnanti di ruolo a tutto campo? Questa la loro idea di “Stato laico e di società civile che laica non è”? Invece di fondarsi sulla pietra erigono pagane cattedrali al dio oro; invece di dormire sulla pietra non si fanno mancare alcuna comodità. Si autoeleggono guardiani inquisitori della sensibilità degli altri, inferendo così orribili ferite all’autenticità spirituale delle unioni, tradizionali o non, basate sull’amore (sentimento di cui forse hanno vagamente sentito parlare), per imporre la loro violenza ideologica, senza pietà per il sentire autentico e consentendo il dilagare delle ipocrisie, dei tradimenti, delle indifferenze, delle sofferenze (cassate però, a ricchi e potenti, dalla Sacra Rota). Stanno distruggendo famiglia e familiarità e troppi sono ormai gli esempi di scellerata prostituzione nelle loro file! La loro storia è un continuum di avversione per la scienza e per ogni rimedio che possa alleviare dolore umano. Perché? Quanto amerei un dio danzante! Ci sono poi i satanassi degli affari e delle corruzioni, uomini dalla forte tempra, che tengono il campo (a qualsiasi età) pur di circondarsi di una rete protettiva anti-gattabuia. Per loro, al più, ci sono gli arresti domiciliari o le comunità di recupero! Amministrano il nostro bene! Nessun tornaconto personale, nemmeno di sguincio! Dovesse capitare, si tratterebbe del classico esempio che conferma la regola! Avete notato? Non ce n’é uno colpevole; sono potentissimi ma molto, molto sfortunati e quindi vittime di uomini cattivissimi!


Il principio di sussidiarietà

un’ottica del tutto antistatalista, poiché riconosce alla persona il diritto di iniziativa affermandone insieme la responsabilità politica. Ma è insito nella forma dello Stato che la responsabilità politica sia del governo unitario e non del singolo. Altrimenti lo Stato non sarebbe più l’ordinatore e coordinatore della vita comune. Il 25 giugno 2006 saremo chiamati ad esprimere il nostro convincimento con il referendum confermativo sulla revisione costituzionale che dovrebbe introdurre nella Costituzione del 1948 la devolution e il premierato forte. In sostanza la legge costituzionale di modifica alla parte II della Costituzione rimodula l’assetto delle attuali competenze legislative. Alcune materie di difficile frazionamento tornano di competenza dello Stato, mentre alle autonomie regionali andranno competenze come la sanità, la scuola e la sicurezza pubblica. Ed ancora sviluppa i principi di leale collaborazione e sussidiarietà nei rapporti tra diversi livelli di governo potenziando le forme di coordinamento tra Stato e Regioni e introducendo il sistema delle conferenze. La riforma si occupa anche di altri aspetti costituzionali di notevole importanza che saranno oggetto di future analisi, per ora ci interessa porre l’accento su questa grande invenzione della devolution! Il principio di sussidiarietà infatti non risulta espressamente menzionato nella Costituzione del 48 a differenza di altri principi quali quello di solidarietà e uguaglianza, ma ciò non significa che non sia contemplato. Infatti la Costituzione del 48 tutela in ogni sua forma l’associazionismo attribuendogli la gestione di determinati obiettivi, si pensi ai sindacati o alle società no profit. Già oggi l’attività privata integra quella pubblica, infatti molti servizi sono surrogati a strutture private. Inoltre la Costituzione del 48 riconosce la piena autonomia della famiglia, la quale altro non è che la prima forma di aggregazione e vita comu-

ne. Alla famiglia spettano compiti come l’istruzione, la sanità e l’assistenza. La famiglia è una realtà sociale che non ha tutti i mezzi per raggiungere i propri fini, ecco che allora interviene lo Stato per impedire il disfacimento della famiglia stessa. Il principio di sussudiarietà visto in questo modo è entrato anche nel diritto europeo con il Trattato di Maastricht che all’art. 3b sancisce: la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati a livello comunitario. Dividersi i compiti è proprio di qualunque aggregazione, anche dove non esiste la costituzione le popolazioni si spartiscono le faccende al fine di farle meglio e più in fretta. Persino l’uomo primitivo divideva le attività, alla donna andava l’istruzione e la sanità, all’uomo l’economato e l’agricoltura. Quindi non ci siamo inventati proprio niente, la questione è solo come sviluppiamo un principio che è insito nel nostro essere. Questa volta persino la Conferenza episcopale italiana ha criticato la riforma costituzionale sostenendo la stessa teoria di un noto esponente della sinistra moderata. Per tutti dividere il sistema sanitario nazionale in 20 sistemi diversi non garantirà più uguaglianza di diritti e opportunità di prestazioni e lo stesso avverrà anche nel campo della scuola. Nessuno si oppone alla condivisione di poteri e doveri, il principio di sussidiarietà potrebbe essere citato espressamente in costituzione senza snaturarla. Soprattutto si chiede di non nascondere dietro una richiesta comunemente accertata di federalismo manovre di accentramento del potere, perché a ben guardare solo pochissime materie spetteranno alle regioni per tutto il resto il governo diventerà un padre padrone. È fisiologico che passando il tempo le norme debbano essere adeguate, ma quando si parla di interessi primari è necessario che non siano gruppi parlamentari a prendere la decisione. Deve essere la collettività ad esprimere le proprie idee. S. Battisti

E se ritornassimo all’angelo del focolare? famiglie ricche, essendo la gestione della sfera produttiva ed il potere che ne conseguiva a totale appannaggio del sesso cosiddetto forte. Poi c’è stato il sessantotto, il femminismo, il post-sessantotto, ma anche la crisi economica, il “uno stipendio solo non basta più”, i cambiamenti legislativi, ecc. e qualcosa è cominciato a cambiare. Adesso la nuova opzione è quella psicologica: i ragazzi stanno male, hanno un disagio crescente perché sono troppo soli; se in famiglia qualcuno si occupasse di loro (toh, la mamma!) tutto andrebbe meglio. Ma poi, il problema è proprio questo o piuttosto qualcuno non pensa di risolvere la crisi dell’occupazione espellendo le donne dai processi produttivi? Il sospetto è lecito, ma stiamo comunque al tema: sarebbe davvero un vantaggio per le famiglie italiane se la donna tornasse ad occuparsi solo della famiglia e segnatamente dei figli? Lo psicoanalista Erik Erikson afferma che nell’età adulta dovrebbe svilupparsi nel profondo di ciascun individuo, maschio o femmina che sia, il senso di generatività, che contiene in sé anche i concetti di procreatività, produttività, creatività, essendo la generatività capacità di generare nuovi individui, nuovi prodotti e nuove idee, inclusa una sorta di potere auto-generativo relativo all’ulteriore sviluppo della propria identità. Il che vuol dire che, grazie al raggiungimento di questa fase evolutiva, l’essere umano può sentirsi pronto a diventare genitore, ad accudire, allevare e amare, in una parola a prendersi cura, i propri figli, realizzando in qualche modo anche una parte di sé. Ma vuole anche dire che questa realizzazione di sé (auto-generare la propria identità) può avere attuazione impegnando se stessi anche in campi diversi, di tipo professionale o

artistico o quant’altro. Questo gli uomini lo fanno da sempre, le donne lo hanno capito e preteso da quarant’anni a questa parte, per cui chiedere oggi a qualcuno di preferire una delle tre opzioni (procreativa, produttiva, creativa) alle altre non per scelta, ma per destino, significa obbligarlo a rinunciare a possibili spazi per la realizzazione di sé, cosa oggi più deleteria che in passato, poiché comporterebbe un ritorno indietro rispetto a conquiste sociali già fatte, ad aspettative già costruite. E che tipo di mamma si offrirebbe ai figli? Una persona frustrata, economicamente dipendente, esclusa da molti circuiti di conoscenza e cultura e pertanto riferimento inadeguato per quelle identificazioni e differenziazioni che sono alla base della crescita dei giovani d’oggi. Gli uomini, per parte loro, si sentirebbero autorizzati - o ricacciati - in un ruolo ancora più estraneo, più distante affettivamente dai figli, in una antica e obsoleta divisione dei ruoli: ad un genitore il governo della ragione e delle regole, all’altro quello del cuore. Il problema non è stare di più in casa per coccolare di più i figli, ma riuscire a sintonizzarsi sulle loro esigenze. È una questione di qualità del rapporto. E per migliorare la qualità del rapporto i genitori devono riscoprire la loro autentica area affettiva. La coppia deve ritrovarsi come coppia coniugale, non solo come genitori. La televisione, oltre che stare spenta (ma allora uno che l’ha comprata a fare?) può servire per condividere e non per dividere i vari membri della famiglia (un conto è condividere, per esempio, le notizie del telegiornale e parlarne insieme e un conto è:

zitti tutti, c’è il telegiornale). I singoli individui adulti devono ricercare parti autentiche di sé, ritrovare vecchie e nuove emozioni, evitando di compensare le proprie frustrazioni con cose, affidando la propria affettività a nuovi telefonini, nuove auto e ogni altro tipo di status simbol. Cose che vengono anche regalate ai propri figli come oggetti compensatori delle proprie assenze affettive. Non fisiche, di tempo, ma affettive. Tutto questo come può essere delegato ad un solo genitore (perché la mamma poi, perché non il papà?). Farlo significherebbe ridurre il potenziale affettivo della famiglia e coartare la realizzazione personale di entrambi i genitori, i quali, come modelli di identificazione si presenterebbero dimezzati e perciò inutili ai propri figli. I ragazzi hanno bisogno di figure di riferimento che si autostimano, che si sentono realizzate e ragionevolmente sicure di sé, tanto da costituire simultaneamente un permesso ad essere tali anche per i propri figli, un porto sicuro in caso di burrasca, una spinta ad uscire nella società con la forza e la voglia di affrontarla. Chi ama lascia libero, scrive Curzio Maltese in un suo recente libro. Il vero problema è che i figli non possono essere tenuti in casa all’infinito per la tranquillità dei genitori. Ma questo è un altro discorso… M. Bechi Gabrielli m.bechigabrielli@fastwebnet.it

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certamente casi in cui le cose stanno come la Corte ha detto; ma ve ne sono altri - e lo psicologo ne conosce - dove la donna può sopportare l’idea del contatto carnale con il marito meno che quella con un estraneo. A questo proposito un elemento di cui poco si parla, forse anche perché si presta ad equivoci, è quella che potremmo chiamare la disponibilità sessuale generale della donna, vale a dire la maggiore o minore facilità all’amplesso, genericamente inteso. Se tale disponibilità è alta, la preclusone più marcata ben può riguardare la persona. Come se lei dicesse: “Sì, io non mi faccio troppo pregare, ma con lui proprio no!”. In tal caso è il partner a comportare il trauma maggiore e la soluzione dovrebbe quindi essere proprio contraria a quella della Corte. Ma il vero tabù s’incontra quando si parla di violenza, soprattutto se sessuale. Di sesso si parla oggi davanti ai bambini, alle signore e a tavola. Ma se c’è di mezzo la violenza, diviene difficile parlarne con equilibrio anche tra uomini. Ciò impedisce non che di capire, di porsi addirittura le do-

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mande. La principale delle quali è: quand’è che siamo in presenza di una vera violenza allo stato puro e quando invece essa è inquinata da elementi diversi, ambiguità, oscure connivenze? Giacché salta agli occhi che se oggi la sola idea di sfiorare con un dito qualcuno fa strillare d’indignazione la stampa di tutte le tendenze e provoca un’esplosione di telefoni variegatamente colorati, nella Storia e nella mitologia le cose non stanno affatto così. I satiri rincorrevano le ninfe per stuprarle; e le ninfe fuggivano sì, ma poi si lasciavano raggiungere, non fosse altro che per perpetuare la specie. Roma fu fondata non solo su un fratricidio (e ci sarebbe da pensarci), ma anche sul Ratto delle Sabine. Povere donne indifese? Ma via! La stessa Storia (o leggenda che sia) ci dice che quando nerboruti mariti e fratelli si presentarono in armi a Roma reclamando le donne, furono proprio loro ad interporsi, dicendo in sostanza: “L’onore, per carità: strillare si doveva. Però a pensarci bene, noi con questi Romani non ci stiamo male per niente; e se volete davvero farci un piacere, tor-

natevene a casa e scriveteci ogni tanto”. Fuor di metafora: il sesso ha sempre avuto (e, inconfessato ma reale, ha ancora) in se stesso un elemento di aggressività. Aggressività che può porsi, almeno in certi casi (ciascuno ha i suoi gusti) quindi non come remora, ma come attrattiva all’amplesso. Il discorso è difficile e si presta a mille manipolazioni, d’accordo; ma disconoscere il fenomeno non può portare ad altro che a perdere la possibilità di controllarlo. E poi: il pensare con troppa facilità nella donna un oggetto di violenza (familiare, lavorativa, sessuale) ci perpetua un’immagine di donnetta fragile, querula, soggetta alla volontà del primo bullo di passaggio; immagine che francamente non era vera nemmeno quando le usanze imponevano di crederla, ma tanto meno lo è oggi. Ogni donna sa benissimo che un uomo ha in mezzo alle gambe (e mi si perdoni l’icastica volgarità) qualcosa di più delicato e fragile di ciò che ha lei. Provar per credere: con una ginocchiata. Al di fuori del caso di droga o stupro di gruppo, azzeccare la penetrazione in una donna che davvero non ne voglia sapere può essere una difficoltà insormontabile, ammenocché la donna non sia legata stretta. Ma nemmeno è facile per una persona sola legarne un’altra che non sta ferma. E’ quando la cosa riesce che occorre porsi qualche prudente domanda. E’ problema dei giuristi stabilire quando e quanto altri mezzi di pressione possano integrare la fattispecie: è chiaro che la violenza effettuata con minacce ha altre vie e pone altri problemi. Ma resta notevole il fatto che per quanto riguarda quella puramente fisica la nostra pruderie c’impedisce, con imbarazzante frequenza, anche solo di discuterne. E ora, la domanda più bella: come mai? V. Policreti

2 giugno 1946 Si Christum queris, vultum fuge mulieris: tecum bella geres, si cernere vis mulieres (in Carmina Medii Aevi del Novati), tradotto suonava press’a poco così: se ci tieni alla pelle, sta’alla larga dalle femmine… In Sant’Agostino, in San Tommaso, in Ugo di San Vittore, che ebbe grande autorità durante tutto il medioevo, in Pietro Lombardo, i cui Libri sententiarum (1150 circa) furono il testo teologico più diffuso nell’età di mezzo e fecero dell’autore una celebrità mondiale, la donna rappresentava la parte inferiore dell’umanità, la natura e l’uomo la parte superiore, la ragione. Impegnate per secoli a stabilire se possedesse o no un’anima, se il suo cervello pesasse quanto quello dell’uomo, la cultura religiosa e quella laica, del genere femminile possedevano il medesimo stereotipo. La donna non solo era naturalmente inferiore: era pure maligna. Scipione Mercurio osservava che l’astuzia del diavolo è causa di far sedurre più donne che huomini ne’ malefizi…; il diavolo che per esperienza conosce quanto sia facile la donna ad ubidir alle sue bugie, e prontissima a sedurre altri, adopra la donna, più dell’huomo nelle stregarie:…et io per me credo, che a chi volesse tagliar le braccia al diavolo, sarebbe necessario levar la donna dal Mondo. A porre la questione in termini violenti furono però Heinrich Institoris e Jacob Sprenger, due domenicani solertemente misogini, autori del Malleus maleficarum (1486), manuale del perfetto torturatore, ove si afferma che le donne sono perverse, sono sempre infedeli e nei loro allettamenti si nasconde l’insidia del demonio. Poche, le voci fuori dal coro. Così, per secoli, perseguitare le donne streghe e peccatrici per natura, divenne una sorta di imperativo morale e una battaglia per la salvezza dell’anima non solo per l’Inquisizione.

Nel dizionario filosofico, Voltaire a un certo punto osservò sbrigativamente che la filosofia aveva guarito gli uomini dalla credenza nelle streghe, insegnando ai giudici che gli imbecilli non andavano arsi vivi. L’opportunità di esprimersi politicamente fu però negata per secoli alle donne. Nella Francia napoleonica, nelle repubbliche giacobine italiane, con tutto quel che c’era da fare, i maschi dovettero continuare ad arrangiarsi da soli perchè le donne sono poco capaci di concezioni elevate, di meditazioni serie e la loro naturale esaltazione sacrificherebbe sempre gli interessi dello stato a tutto ciò che di disordinato può produrre la vivacità delle passioni. E se lo diceva il comitato di salute pubblica …! In Italia, nel 1888, fu l’intervento personale di Crispi alla commissione parlamentare che si occupava delle riforme amministrative a scongiurare il pericolo dell’inclusione femminile nell’elettorato. Quando, nel 1906 Anna Maria Mozzoni promosse la petizione del comitato nazionale pro-suffragio femminile, al Governo occorsero una commissione ministeriale e cinque anni per dire no. Nel 1919, 8 marzo, la Camera dei deputati finalmente decise per il sì. Lo scioglimento anticipato delle Camere nel 1926, chiuse poi, però, qualunque discussione sui diritti politici, anche degli uomini. All’indomani della seconda guerra mondiale, dopo che le donne avevano mandato avanti il Paese e combattuto a fianco degli uomini, le nuove istituzioni e la classe dirigente antifascista si concessero un ripensamento sul ruolo delle signore e, bontà loro, concordarono sulla capacità femminile di intendere e di volere politicamente. Nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che avrebbe decretato la scelta repubblicana, anche le donne poterono esprimersi. Le italiane c’erano, ci sono. L’Italia s’è desta? L. Giulivi


D a l l a p o e s i a a l l ’ i m m a g i n e e d a l l ’ i m m a g i n e a l l a p o e s i a

Italo Bonassi, Marcello Conti, Gino Pastega (Presidente), Gabriella Tiso, Giulio Viscione, Adeodato Piazza Nicolai

Con una applauditissima relazione dallo stesso titolo il Professor Viscione, preside dell’Istituto Gandhi di Narni nonché apprezzato artista in ambito nazionale ed internazionale, ha partecipato agli Incontri di Aperto Poesia tenutisi al Palazzo del Cinema a Venezia il 14 e 15 dicembre. Gli Incontri di Aperto Poesia sono organizzati dal poeta veneziano Gino Pastega che di se stesso dice: “Ho avuto la sorte ed il privilegio di essere nato e di

vivere a Venezia…da questa città - Porto dell’Anima, è iniziato il viaggio fantastico del mio vascello nei mari… in un estremo tentativo di trovare un destino che non sia solo la morte.” (Pastega, 2003). Gli Incontri veneziani raccolgono poeti, scrittori ed artisti da varie parti del mondo (Italia, Belgio, Slovenia, Palestina, Portogallo, Finlandia, ecc) e sono un’occasione importante per parlare di poesia e riflettere sulla sua funzione.

Il caso Abu Omar:

Nonché ricordare i grandi maestri del passato più o meno recente. Quest’anno in modo particolare Pascoli, Pasolini e Brodskij. Perché come dice quest’ultimo: …accade a volte che mediante una solo parola, un’unica rima, chi scrive una poesia riesca a spingersi là dove nessuno è mai stato prima di noi. E proprio questo sforzo umano del poeta o del pittore, questo atto creativo viene messo in parallelo nella relazione del Prof. Viscione, il quale trova in molte sue opere una diretta corrispondenza tra l’immagine poetica e quella grafico - pittorica.

l’Italia sapeva?

CIA dapprima depista le indagini (dice che è fuggito nei Balcani) poi è costretta ad ammettere il sequestro. Si tratta di una grave violazione della sovranità nazionale che, per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, ha sottratto un indagato all’autorità giudiziaria italiana per condurlo con la forza in uno Stato terzo, ha scritto il giudice Guido Salvini. Un gravissimo attacco all’autorità dello Stato italiano e ai trattati internazionali, ha ribadito il giudice Chiara Nobili. La gravità dell’atto compiuto dalla CIA in territorio italiano è palese e ci si chiede a gran voce quale ruolo abbiano svolto i Servizi Segreti Italiani. Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

con delega ai Servizi Segreti, ha detto di essere all’oscuro del fatto. Carlo Giovanardi ha dichiarato in Parlamento che il Governo non ne sapeva nulla. Dopo l’interrogatorio del maresciallo Ludwig i primi di maggio, la verità comincia gradualmente ad affacciarsi: i servizi segreti italiani erano presenti quel giorno, anche se ogni agente era lì a titolo personale, cioè come atto di amicizia e stima verso i colleghi americani, senza ricevere ricompense, ha specificato l’indagato! Il caso Abu Omar apre delle questioni sul potere speciale di cui gli Stati Uniti si sono autoinsigniti dopo l’11 settembre, tanto da sentirsi autorizzati a sequestrare un uomo non per quello che ha fatto, ma per quello che potrebbe essere, per poi torturarlo in territorio straniero, con l’occulta compiacenza - o all’oscuro - del governo amico. Dovrebbe essere prioritario, per il nuovo governo, chiarire la questione e non consentire che, in nome della guerra al terrorismo, tutto sia lecito, anche sequestrare in pieno centro a Milano un presunto informatore di Al Quaeda senza uno straccio di prova e senza che lo Stato Italiano, ufficialmente, ne sappia nulla. Perché se il Governo Italiano sapeva, è grave, ma se è vero, come dice Gianni Letta, che non sapeva, è ancora peggio. Intanto Ludwig ha cantato. Teniamoci informati. F. Patrizi

Giulio Viscione, Armando Santinato, M. Grazia Maramotti

Non a caso infatti, sottolinea Viscione, il poeta ed il pittore partono dallo stesso materiale creativo: gli stati d’animo, i sentimenti ed i pensieri. Ma mentre il pittore trova armonia tra forma e colori, il poeta la trova nelle cadenze musicali. Il ritmo poetico diventa la dinamicità interna al quadro; la metrica, le regole pittoriche di prospettiva e profondità. Le sillabe di una poesia, per Viscione, si trasformano in linee e tratti; gli accenti, nelle sequenze

tra e dentro gli spazi. I versi sono i colori; le rime diventano le sfumature. E le strofe i collegamenti tra un quadro ed un altro, tra un’opera ed un’altra, o all’interno della stessa opera tra una figura e l’altra. Il loro rapporto con lo spazio. Pittore e poeta diventano così …oceano gettato su questa terra unico specchio per vedermi per vedere al di là della notte

(I miei occhi nel mare, Pastega 2003)

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Emanuela Agostini

Mensile di attualità e cultura

R egistrazion e n. 9 de l 1 2 no v e mbre 2 0 0 2 pre s s o il Tr ibuna le di Te r ni D irezione e R e da z io ne : Te r ni Via C a r bo na r io 5 , te l e fa x 0 7 4 4 . 5 9 8 3 8 Tipo g r a fia : U mbr ia g r a f - Te r ni A c ur a d e ll’A s s o c ia z io ne C ultur a le F r e e Wo r d s

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Ephebia Festival 2006

Festival

2006 è ormai alle porte! Giunto alla sua nona edizione, il prestigioso evento rock organizzato dall’associazione Ephebia arriva quest’anno a Terni, presso l’antistadio, venerdì 9 Giugno, ed avrà la consueta durata di 3 giorni. C’è da scommettere sul sicuro successo di una manifestazione in continua ascesa, così come ci spiega la referente regionale dell’associazione Eleonora Anzini: da nove anni, l’Associazione Ephebia si adopera per organizzare, con il sostegno del Comune di Terni e di altre realtà pubbliche e private, l’Ephebia Festival, evento in grado di attirare l’interesse di migliaia di giovani provenienti da tutto il terri-

torio nazionale. Grazie all’impegno e alla passione dei componenti dell’associazione, anche quest’anno avremo un Festival ricco di

rock. Il nostro obiettivo resta dunque l’indipendenza economica, vero trampolino di lancio per un successo ancora maggiore.

artisti e proposte di levatura internazionale, tra cui le due esclusive nazionali di Therapy? e The Ark. Nomi importanti del panorama musicale internazionale che si sommano a quelli già presenti nelle

scommettere e ad investire sul Festival. Potendo contare su budget migliori riusciremmo senza dubbio a coinvolgere maggiormente alcune fasce di pubblico che si mostrano ancora restie di fronte alla realtà

Fin dal 1995, anno di nascita dell’associazione, a viaggiare di pari passo con il Festival, c’è l’altro fiore all’occhiello del gruppo: l’Ephebia Contest. Chiarisce Eleonora Anzini: l’Ephebia Contest è il

Ephebia Festival 2006

Ephebia

passate edizioni: Porcupine Tree, One Dimensional Man, Lacuna Coil, The Gathering, Afterhours, Emidio Clementi, Statuto, Linea 77, Quintorigo. Certamente una serie di risultati sorprendenti per un gruppo di lavoro costituito esclusivamente da volontari: l’Associazione Ephebia è costituita da ragazzi, musicisti, amanti della musica ed esperti del campo dello spettacolo che offrono le loro capacità e il loro talento a titolo del tutto gratuito, e che sono capaci continua Eleonora Anzini di raggiungere grandi risultati, come le 10.000 presenze registrate l’anno passato, nonostante le difficoltà tipiche delle aggregazioni di questo tipo. Il solo sostegno economico del Comune di Terni e della Regione, di cui certamente non ci si può lamentare, sembra però non render il giusto merito agli sforzi compiuti e limita le potenzialità dell’Associazione: purtroppo, nonostante i risultati di pubblico ed i grandi nomi della musica presenti ogni anno, sembra difficile trovare importanti sponsor nazionali pronti a

mezzo con cui l’associazione si adopera per incentivare la musica in ambito locale e nazionale grazie ad un concorso riservato ai gruppi emergenti. I primi di novembre viene presentato il bando di iscrizione al MEI di Faenza, (meeting realtà musicali indipendenti italiane ndr) dove ogni anno si registra la presenza di numerosi gruppi che possono iscriversi al nostro Contest. Dopo la chiusura del bando e l’ascolto degli oltre 200 demo che di media arrivano ogni anno, si scelgono infine 9 gruppi che gareggiano tra loro per i 3 posti disponibili per il Festival di Giugno, dove potranno dividere il palco con i grandi artisti internazionali. Come da programma, anche quest’anno ci sarà una serata di apertura del Festival (giovedì 8 Giugno) curata dalla famosa casa editrice Minimum Fax, presso il Placebo di Terni, dove con l’accompagnamento musicale verranno letti alcuni scritti del critico Lester Bangs, per poi entrare nel vivo del Festival la sera seguente. Francesco Bassanelli

www.ephebia.it 6


Vivere

Esistono nella vita di ognuno di noi esperienze professionali che danno ricchezza interiore e sensazioni uniche, segnando in modo indelebile, il proprio essere. Non basta spesso raggiungere una meta interessante in giro per il mondo, dibattere di sviluppo in un convegno di economisti in Polonia, mettersi in discussione come donna in un paese arabo progettando la realizzazione di un Parco Scientifico e Tecnologico biotech. Quando poche settimane fa il Presidente della Meta Group, la holding di Terni con cui collaboro, mi ha proposto di raggiungere Tel Aviv per prender parte ad una delegazione ufficiale organizzata per promuovere i rapporti bilaterali tra la Regione Emilia Romagna e lo Stato di Israele, ho percepito un vago senso di insicurezza. Mi risuonavano le parole di Benjamin Franklin, riportate su La Pagina qualche numero fa: Chi rinuncia alla libertà per la sicurezza, non merita né la libertà, né la sicurezza. Così, nonostante la comprensibile preoccupazione degli amici che all’annuncio della missione esprimevano un’affettuosa preoccupazione, ho registrato il programma di viaggio, come dovrebbe fare chiunque si rechi in paesi a rischio, sul sito www.dovesiamonelmondo.it messo a disposizione dall’Unità di Crisi della Farnesina, e mi sono imbarcata di corsa su un aereo EL AL, con una borsa di documenti da studiare. Per trarre il massimo arricchimento, soprattutto nei meeting internazionali, occorre metabolizzare al massimo le logiche dei probabili interlocutori. Diversamente, c’è il rischio che, o per le lingue che sei costretta ad usare, o per i ritmi frenetici cui devi necessariamente sottostare, non riesci a cogliere fino in fondo gli obiettivi da conseguire. La Meta Group, nel caso specifico, è il soggetto gestore del Fondo Ingenium, il primo fondo italiano di capitale di rischio pubblico-privato costituito in Emilia Romagna, destinato ad investire in aziende locali innovative, con l’obiettivo, nella missione, di attrarre imprenditori e/o investitori israeliani impegnati in settori tecnologicamente avanzati. Qualche decennio avanti rispetto all’Umbria.

Ebbene, vivere Israele con gli israeliani, è stato per me, al di là degli stereotipi più noti delle gite turistiche, una vera e propria scoperta, che continua a farmi riflettere. Il nostro campo base era a Tel Aviv, proprio nelle vicinanze del luogo in cui pochi giorni dopo c’è stato l’ultimo attentato kamikaze, ma in realtà abbiamo lavorato anche a Haifa, Nazareth e Gerusalemme, incontrando rappresentanti delle istituzioni, ricercatori, professori universitari, dirigenti di grandi industrie e, come spesso avviene nel campo della ricerca applicata, giovani sognatori con un’idea in mente ed un progetto nel cassetto cui dare forza, producendo innovazione e sviluppo. Ho incontrato persone, con un interesse, per nulla cela-

Israele...

Nasdaq, il listino alla borsa di New York per le società a più alta tecnologia. Un piccolo, grande Paese dall’estensione territoriale inferiore a quella dell’Emilia Romagna da cui dovremmo apprendere molto, lontano anni luce dalle logiche che ancora appesantiscono le lente dinamiche umbre. E’ un Paese pieno di contraddizioni dove hightech e bio-tech convivono con una religiosità diffusa che permea ogni istante della vita quotidiana. Grattacieli in acciaio e cristallo, con eliporti privati sulla sommità, fanno ombra a edifici modesti e con evidenti problemi di manutenzione. Il deserto è stato convertito in oasi verdissime con produzioni che raggiungono settimanalmente i nostri negozi. Lo stato di Israele, nato solo nel 1948,

non perderli entrambi. Confesso che un brivido mi è sceso giù per la schiena. Colpisce anche vedere ragazze e ragazzi, giovanissimi, che, mano nella mano con i fidanzati, prestano servizio militare e passeggiano armati di kalashnikov sul lungomare di Tel Aviv. Ho parlato con molti di loro: nonostante i rischi di una vita intensa non uno solo lascerebbe il proprio Paese. Si sentono, non c’è dubbio, Popolo Eletto. Accanto agli impegni di lavoro, immancabili le visite ai luoghi più significativi della cristianità e delle altre religioni e culture. Visitare la Basilica dell’Annunciazione, la spianata delle Moschee (con la Moschea Al-Aqsa e la Cupola della Roccia), l’Orto del Getsemani, la Chiesa del Santo Sepolcro, e segui-

re passo passo la Via Crucis fino in cima al Golgota, ti emoziona nel profondo. Avvicinarsi con rispetto al Western Wall, il Muro del Pianto, il contenimento occidentale del secondo tempio, dopo quello di Salomone, distrutto dai Romani nel 70 d.C. e ricostruito da Erode il Grande, ti fa sentire al centro della storia. Appoggiare la mano, fra il raccoglimento generale, sull’edificio più sacro dell’ebraismo ha suscitato in me un’emozione non facilmente descrivibile. Come quella che provi fra tombe, prima le ebraiche, poi le cristiane, infine le islamiche, strette fra di loro nella valle fra il Monte degli Ulivi e la parte antica di Gerusalemme: tutte collocate nella direzione della Porta Aurea che si aprirà il giorno del Giudizio Universale consentendo di ascendere al cielo ai sepolti man mano più vicini. Alla luce di un’esperienza in cui si fonde la modernità di un piccolo, grande paese con un’umanità così viva ed interessante non si può non essere a favore di una pace definitiva e duratura che rispetti i diritti di tutti ma soprattutto riesca a far convivere e collaborare due popoli in due stati con storie e tradizioni che costituiscono entrambe una parte importante dell’avventura dell’uomo. A. Melasecche alessia.melasecche@libero.it

to, per l’Italia e gli italiani. L’Università di Tel Aviv, al centro di un padiglione di quattro piani, ha collocato una Sfera di Arnaldo Pomodoro: si può immaginare l’orgoglio di una ternana mentre sottolineava l’esistenza di un ponte ideale con la città dell’acciaio grazie all’obelisco Lancia di Luce, in Corso del Popolo. Israele è un paese da scoprire rispetto alle cronache dei telegiornali ed è inevitabile riscontrare una fusione continua fra una marcata impronta occidentale di modernità, nel modo di pensare e di agire, ed una cultura immensa che deriva da tradizioni millenarie. E’ palpabile nell’aria il valore profondo della libertà e del senso di nazione che porta, può apparire singolare, anche l’economia ad uno sviluppo tumultuoso. Israele infatti, si colloca al terzo posto al mondo, preceduto soltanto da Stati Uniti e Canada, per il numero di imprese quotate al

governato da una Repubblica Parlamentare, non ha una Costituzione scritta. Legge fondamentale è la Dichiarazione di Indipendenza, dove è espressamente sancito l’impegno di garantire uguali diritti sociali e politici a tutti i cittadini, senza distinzione di religione, razza o sesso. La politica seguita negli anni ha marcato una forte attrazione degli ebrei sparsi in tutto il mondo, offrendo incentivi per tornare nella terra promessa. Costoro non sono immigrati ma new comers, i nuovi venuti… quasi attesi da secoli. I cognomi e i tratti fisici testimoniano le più disparate provenienze: tedeschi, russi, argentini, americani, persino ex africani. Da un punto di vista umano, è palpabile una gran voglia di normalità che si comprende quando un genitore ti dice: ogni mattina faccio salire i miei due figli che vanno alla stessa scuola, su autobus diversi, sperando di

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Spendiamo qualche parola sul Concordato

Visto il gran parlare che se ne fa, e non sempre a proposito, forse è il caso di dedicare qualche considerazione al Concordato tra Stato e Chiesa. Saltata, per questione di spazio editoriale, quell’abbondante porzione della storia italica che ha preceduto l’Unità e che meriterebbe, invece, di essere adeguatamente investigata per avere cognizione delle radici e della crescita fogliare di un problema che ancora adombra il prato della nostra politica, vediamo almeno di evidenziare i due principali motivi che segnavano il contrasto tra Stato e Chiesa, subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Ebbene, a suscitare da un lato le ire curiali, c’erano le c.d. leggi eversive con le quali lo Stato aveva deciso, nell’arco di pochi anni e con una certa dose di velleitaria ingenuità, di mostrare i muscoli ed affermare la propria autorità privando la Chiesa di importanti privilegi, mentre dall’altro, a turbare le notti degli statisti del Regno, c’era il nodo irrisolto della indipendenza del Papa e della S. Sede, eufemisticamente catalogato come questione romana. Due possenti macigni che uniti ai pesanti blocchi di pietra tirati giù dai bersaglieri a Porta Pia, il 29 settembre del 1870, finirono per soffocare ogni possibilità di dialogo tra Pio IX, relegato (ma a suo dire prigioniero) entro la città Leonina (Monte Vaticano, Castel Sant’Angelo) e la Corte Sabauda. Il primo, caparbiamente contrario a qualsiasi riconoscimento della nuova entità politica e per nulla intenzionato a dimenticare l’onta subita, la seconda, alle prese con una popolazione che di unitario aveva solo il suo essere visceralmente cattolica e, per questo, suscettibile di subornazione da parte di un clero a dir Durante la campagna elettorale appena conclusasi La Rosa nel Pugno ha inserito tra i punti salienti del suo programma politico quello del superamento del regime concordatario. Il Nuovo Concordato, quello sottoscritto nel 1984 dall’allora presidente del Consiglio Craxi ed il Card. Casaroli, ha sì abolito l’anticostituzionale riferimento a quella cattolica come sola confessione religiosa dello Stato e reso facoltativo l’insegnamento della religione nelle scuole statali, ma ha anche stabilito che il clero cattolico potesse essere finanziato da una frazione del gettito fiscale dello Stato italiano attraverso il meccanismo noto come otto per mille. Nel 1984 si è compiuto un gran-

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poco scontento. Motivo per cui, con la Chiesa che soffiava contro, risultava più difficile del previsto veleggiare verso l’unificazione di territori che esprimevano interessi quanto meno divergenti, se non proprio confliggenti. Notevolmente aggravato risultava lo sforzo di tenere insieme, peraltro entro un progetto unitario quasi improvvisato, popoli diversi tra loro e privi di identità, se non addirittura di affinità, culturale. Titanica risultava l’impresa di dare vita ad un diffuso senso di appartenenza, ad un comune sentire in cui l’intero stivale potesse riconoscersi (e a tale proposito, una attenta lettura del fenomeno del brigantaggio, come di alcuni significativi passi de Il Gattopardo, potrebbe a mio avviso fornire un utile contributo alla comprensione degli stati d’animo, delle aspettative deluse e del ricorso a forme alternative di potere, soprattutto al sud, su cui non si è riflettuto abbastanza). Inevitabile, comunque, che in un’ottica di real-politik, le teste pensanti del neonato Regno italico decidessero, per poter amministrare il paese, di cedere al Papa il cedibile. Nacque così, il 13 marzo del 1871, la Legge 214, detta delle guarentigie in quanto garantiva al Pontefice rendite, immunità e privilegi. Ma la S. Sede non pensava affatto, al contrario del legislatore italiano, che quel provvedimento fosse sufficiente a risolvere la questione romana, poiché non essendo stato concordato, era modificabile unilateralmente (si veda l’Enciclica Ubi Nos del 15 maggio 1871). La situazione restò in posizione di stallo per quasi dodici lustri, finché lo Stato non si sentì abbastanza forte da trattare con la Chiesa e questa, abbastanza realista da prendere atto del cambiamento, metabolizzarlo ed utilizzarlo pro domo sua. Così l’11 febbraio del 1929, il plenipotenziario della S. Sede, Card. Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, e il plenipotenziario del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, Cavaliere Benito Mussolini, Primo Ministro e Capo del governo, firmarono in Laterano (da cui il nome di Patti Lateranensi), la storica pace tra i due Stati. Eh sì, perché la cosa che spesso si dimentica, è che i patti lateranensi furono un vero e proprio accordo bilaterale tra ordinamenti sovrani, tant’è che in essi è contenuto un Trattato, con il quale veniva risolta la questione della territorialità della Chiesa, con il riconoscimento della sovranità del Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano; un Concordato, con il

quale venivano regolati i rapporti tra Stato e Chiesa; una Convenzione Finanziaria, con la quale venivano risarciti i danni provocati alla Chiesa dalle leggi eversive, a conferma del motto oraziano pecuniae omnia parent (tutto obbedisce al denaro). Dopodiché, lo Stato Italiano si preoccupò con encomiabile ed inusitata rapidità, di trasferire il contenuto dell’accordo in 3 leggi fondamentali, promulgate appena 3 mesi dopo, il 27 maggio 1929 e cioè, la n. 800, per la esecuzione in toto del trattato e del concordato; la n. 847 (c.d. legge matrimoniale) per il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso e le sentenze ecclesiastiche di nullità o di dispensa dal matrimonio rato e non consumato; la n. 848 sugli enti ecclesiastici e sulla amministrazione dei patrimoni destinati a fini di culto. Ma se il Concordato aveva avuto il pregio di comporre i gravi contrasti sopra accennati e di soddisfare, al momento, gli opposti interessi, esso manifestò, nel corso degli anni a seguire, tutta la sua anacronistica inadeguatezza a risolvere i problemi di fondo tra Stato e Chiesa, i quali venivano insistentemente riproposti dalle conquiste democratiche del paese. Tanto che la nuova Costituzione repubblicana, avvertendo le ragioni di contrasto tra Patti Lateranensi e valori di uguaglianza in essa espressi, conferì quella copertura costituzionale che era obbligata a riconoscere per motivi di opportunità contingente, ma sancì al contempo, all’art. 7, la indipendenza dei due soggetti e la possibilità di apportare modificazioni concordate ai Patti stessi, senza necessità di revisione costituzionale. Venivano così poste le premesse dell’accordo del 1984, la cui ineluttabilità era vieppiù segnata nella Carta del 1948, dalla consacrazione negli artt. 19 e 20 della libertà religiosa e, nell’art. 8, della uguaglianza religiosa. Inoltre, anche la visione della Chiesa in rapporto al mondo contemporaneo, subiva anni dopo un radicale mutamento ad opera del Concilio Vaticano II, il cui documento più importante, la Costituzione Gaudium et spes, poneva la necessità di separare effettivamente l’opera pastorale dall’attività della comunità politica, riservando ad una sana collaborazione il compito di garantire i diritti fondamentali dell’uomo, sia come cittadino, che come fedele. Cosicché, il 18 febbraio del 1984, dopo otto anni di intense trattative, si arriva all’Accordo Craxi-Casaroli tra Stato Italiano e S. Sede, per

la modifica delle intese Lateranensi attraverso un nuovo Concordato che, a differenza del primo, il cui testo era appesantito da una puntigliosa e specifica elencazione in ben 45 articoli di previsioni particolari, vuole essere assai più agile ed adattabile al mutare dei tempi (c.d. concordato-cornice). Infatti, i suoi 14 articoli, preceduti da un Preambolo nel quale si ricordano le trasformazioni della società intervenute medio tempore e l’importanza del Concilio Vaticano, si preoccupano soltanto di fissare i princìpi cui ispirarsi nella regolamentazione dei rapporti, riservando ai 7 punti del Protocollo Addizionale, la corretta interpretazione ed applicazione del testo. Esso prevede, poi, alcuni stralci su materie specifiche (come festività religiose, titoli accademici ecclesiastici, insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, assistenza spirituale nelle forze armate, carceri ed ospedali, uso e conservazione dei beni ecclesiastici, riconoscimento degli enti ecclesiastici e revisione degli impegni finanziari dello stato), la cui regolamentazione è demandata ad accordi successivi tra Stato e Conferenza Episcopale Italiana, la quale viene da quel momento a sostituire la S. Sede, nel ruolo di interlocutrice istituzionale. Di fatto, i citati princìpi fondamentali possono essere così riassunti: a) neutralità dello Stato in materia religiosa, attuata, per un verso, con l’abrogazione della religione di Stato e il riconoscimento della laicità statuale e, per altro verso, con la previsione di una maggiore autonomia della Chiesa nella sua organizzazione; b) abrogazione di alcuni privilegi, ottenuta attraverso il riconoscimento della personalità giuridica agli enti ecclesiastici con finalità religiose e di culto, i quali vengono equiparati agli enti di beneficenza e di istruzione, mentre le attività di diversa natura ricadono sotto il regime giuridico e tributario ordinario; c) nuova disciplina del matrimonio religioso che prevede, dopo aver abolito il carattere di sacramento e il vincolo della indissolubilità sanciti dal vecchio concordato, il riconoscimento dei soli effetti civili (nel rispetto, quindi, della legge sul divorzio emanata nel 1970) al matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico e stabilisce, altresì, il contestuale abbandono della riserva di esclusiva giurisdizione ecclesiastica per le cause relative ai matrimoni religiosi, nonché la semplice declaratoria di efficacia, al pari di

Concordato, un patto che offende la coscienza religiosa e lo Stato democratico dissimo passo avanti soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra chiesa e scuola statale, abolendo l’obbligo dell’insegnamento della religione e riportando questa materia nell’ambito dell’individualità, trascendente da imposizioni statali. La scuola dovrebbe infatti fungere da collante tra le diverse etnie e sviluppare negli alunni una coscienza cosmopolita di coesione sociale che travalichi le diverse religioni, spesso imposte dalle famiglie di origine, e renda possibile un’integrazione reale, resa già difficilissima

dalle diverse provenienze geografiche, etniche e culturali. La cosiddetta ora di religione non dovrebbe, a mio avviso, essere abolita ma altresì sfruttata per istruire gli studenti sulla storia di tutte le religioni rendendo possibili scambi intellettuali tra alunni provenienti da diverse civiltà e far capire loro quanto possa essere blasfemo combattere e uccidere in nome della religione. Sono ormai quasi 80 anni che in Italia sussiste una situazione giuridica unica e irripetibile in qualsiasi altro Stato che si professi non confessionale.

Solo in uno Stato confessionale, infatti, è giustificabile un’ingerenza così pesante della dottrina religiosa nelle vicende politiche, sociali ed economiche di un Paese, con una conseguente limitazione della sua stessa sovranità. Il concordato andrebbe abolito anche per ragioni meramente economiche perché gli aggravi fiscali che vanno a carico dello Stato Italiano per la costruzione di parrocchie, istituti religiosi, scuole cattoliche e finanziamenti ad enti ecclesiastici, costituiscono una violazione dei diritti di chi non si riconosce

ogni altra sentenza straniera, dei giudicati di nullità pronunciati dai tribunale ecclesiastici; d) ribaltamento del concetto di insegnamento religioso, il quale continua ad essere impartito nelle scuole pubbliche (escluse le università), ma non è più obbligatorio come nel vecchio concordato, ove veniva considerato fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica. Detto questo, gioverà rilevare come la dottrina costituzionale sia ormai in larga parte orientata a ritenere il nuovo concordato non coperto dalla garanzia prevista dall’art. 7 sopra ricordato, in quanto tale norma fa riferimento ai Patti Lateranensi e non alle loro successive trasformazioni, per cui lo Stato potrebbe ben decidere di mutarlo unilateralmente, senza dover avviare la complessa e lunga procedura della revisione costituzionale. Possibilità di cui può fruire, però, soltanto il nuovo concordato, cui va peraltro imputato il merito di aver corretto le norme forse più odiose ed urticanti del vecchio testo, e non certo il Trattato, il quale può essere fatto oggetto di modifica unilaterale, solo attraverso il citato procedimento di revisione costituzionale. Ciò in quanto la Chiesa non appare allo stato orientata ad accettarne variazioni, sebbene esso contenga precetti costituenti un oggettivo trattamento preferenziale che si traduce, come osserva Paolo Barile, in discriminazione per i fedeli degli altri culti e norme ormai obsolete od anacronistiche, come quelle poste a tutela della persona del Pontefice, di cui lo stesso Giovanni Paolo II ridimensionò effetti e conseguenze, a seguito dell’attentato da lui subìto. In conclusione, la coabitazione su di un medesimo territorio di uno Stato teocratico, come lo definisce il D’Avack, o, se si preferisce, di una monarchia assoluta di tipo confessionale, dove tutti i poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e le due potestà di Capo visibile della Chiesa cattolica e di Sovrano della Città del Vaticano, si accentrano nella figura del Papa, con uno Stato democratico di natura e a vocazione del tutto diverse, non è cosa semplice; né lo è la convivenza tra un magistero di fede, che coinvolge gli aspetti etici del vivere civile ed una azione statuale rivolta all’uomo come animale politico, secondo la definizione aristotelica, e per questo attenta alle stesse dinamiche sociali, seppure in una visione laica della storia. Sandro Tomassini nella chiesa cattolica e non vuole contribuire al suo finanziamento (per non parlare delle esenzioni fiscali di cui gode la chiesa, non ultima l’abolizione dell’ICI per tutti gli immobili di proprietà del Vaticano). Credo poi che la definizione di una Religione di Stato sia di per sé un concetto assurdo ed anacronistico in quanto la coscienza religiosa non può costituire materia legislativa di uno Stato. La religione è un fatto talmente privato, spirituale e personale che dovrebbero essere proprio i credenti a chiedere l’abolizione del Concordato per poter vivere la propria fede in completa libertà ed autonomia senza vedere sviliti, svenduti e disattesi gli insegnamenti cristiani. Claudia Mantilacci


I lavori di restauro del cantiere di Assisi

F4 - Il costolone come appare dopo il restauro

F3 - La vela di S. Matteo e la vela stellata dopo il restauro come appaiono attualmente

dell’intera figurazione. Poi, sulla superficie del supporto definitivo si sono trasposti mediante la tecnica dello spolvero, il disegno della raffigurazione e la posizione e la sagoma dei frammenti»2. (F4) Anche il costolone, elemento che scandisce spazialmente l’interno della basilica, anch’esso danneggiato dal terremoto, è stato oggetto di lunghi lavori (avvalendosi analogamente di immagini fotografiche) volti a ricercarne e a ricomporne i frammenti.

F1 - Pianta della Basilica Superiore in cui sono evidenziate le zone interessate dal crollo

Il 5 aprile 2006, è stato finalmente inaugurato il restauro della vela di Cimabue e della vela stellata del Sacro Convento di Assisi, danneggiate dal terremoto del settembre 1997. Gli ingenti danni provocati dal sisma, coinvolsero originariamente due zone:

la prima in prossimità dell’ingresso (vela di S. Gerolamo ed un frate e 8 Santi francescani di Giotto) e la seconda, fra la navata e il transetto (vela di S. Matteo di Cimabue e vela stellata nella IV campata). (F1) Questa volta l’intervento, progettato e diretto dal-

Tiziana Mondini Corinna Notaro

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Chiara Leonelli

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F2 - La vela di S. Matteo prima e dopo il crollo

l’ICR (Istituto Centrale per il Restauro), si è rivelato piuttosto difficoltoso e complicato; mentre infatti il primo restauro (ultimato nel settembre del 2002) ha permesso di recuperare il 65% circa della superficie dipinta, la vela di Cimabue è stata risanata solo per un 20-25% circa. (F2) Per motivi legati alla maggiore estensione del danno e ad una più grande frantumazione dei frammenti dunque, si è potuta ricostruire soltanto una minima parte del brano pittorico, abbandonando così ogni speranza di poter ricostruire l’immagine. (F3) La metodologia impiegata per il recupero dell’apparato decorativo, è stata quella dell’“abbassamento otticocromatico delle lacune. In sostanza, si è tentato di attenuare il vuoto costituito dall’assenza di decorazione, accentuando il valore cromatico dell’intonaco proprio”1. È stato possibile riassemblare i frammenti (120.000 circa) grazie a gigantografie a grandezza naturale ed il loro posizionamento è stato facilitato da una base

fotografica, anch’essa di dimensioni pari alla realtà. «Sopra tale riproduzione si è eseguito un disegno a tratto su carta trasparente

L’utopia diventa realtà chiusura del cantiere dei dipinti in frammenti della Basilica Superiore di San Francesco in Assisi, a cura di Giuseppe Basile e P. Nicola Giandomenico, Marzo 2006, pp.5-6.

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Ivi, pp. 12-13.

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L’AUDITORIUM NELLA CHIESA

Peru Progetto per la realizzazione

Sede dell’Accademia di Belle Arti, la chiesa di S. Francesco al Prato è attualmente interessata da lavori di consolidamento e restauro, che hanno l’obiettivo di trasformarla in Auditorium. Certamente questa scelta, operata (a partire dall’Aprile 2002) congiuntamente dal Comune di Perugia e dalla Sovrintendenza per i Beni Architettonici, il Paesaggio, il Patrimonio Storico Artistico e Demoetnoantropologico dell’Umbria, non è di facile realizzazione. Il nuovo allestimento della chiesa implica di creare, entro il contenitore già esistente, uno spazio musicale, rispettando le regole dell’acustica; già la realizzazione ex novo di una tale struttura avrebbe compor-

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tato non poche difficoltà, ma il doversi adattare ad un ambiente preesistente rende l’esecuzione del progetto ancora più ardua. L’edificio infatti, con la sua forma cruciforme, è un luogo difficilmente adeguabile ad un centro che ospiti questo genere di attività ed è stato necessario ricorrere a diversi espedienti per renderlo fruibile; tra di essi va citata l’istallazione degli impianti tecnici negli ambienti interrati, collocati al di sotto del prato esterno. Nel 1998 è iniziato l’esame di una lunga serie di progetti che miravano a conferire alla chiesa una nuova destinazione d’uso, e soprattutto a salvaguardarne l’aspetto originario; era stata addirittura ipotizzata una vetrata a scomparsa per

aumentare o diminuire lo spazio dell’Auditorium, che avrebbe avuto 500 posti disponibili in inverno, e molti di più nella stagione estiva; ma la soluzione fu abbandonata a causa dei costi troppo elevati, relativi specialmente al movimento della vetrata ed alle numerose difficoltà legate alla sua manutenzione. L’idea è stata sostituita da quella di una copertura che lasci intravedere il profilo delle pareti che sono crollate. Tutte le varie iniziative erano comunque accomunate dalla volontà di trasformare l’edificio in una struttura atta ad ospitare grandi eventi, spazi espositivi, manifestazioni artistiche e musicali, e di creare un ambiente aperto, in cui fosse ben visibile la navata principale, caratterizzata dalle rovine architettoniche dell’abside. La conservazione dell’immagine attuale del monumento è dunque l’obiettivo che si intende perseguire. Lasciando inalterati i vari strati visibili sulle pareti, che testimoniano l’avvicendarsi di periodi diversi, sarà possibile rileggere l’intera storia della chiesa. Al di sotto della zona absidale, c’è uno spazio interrato per mostre espositive o conferenze; il soffitto verrà rivestito con pannelli progettati per la giusta trasmissione del suono; scabre le pareti interne, in modo da non creare effetti di eco e riverbero; palco e pavimenti in legno. Quest’ultimi, coperti con antiche capriate del periodo palladiano, costituiscono la parte del progetto fin qui realizzata. Negli ambienti sottostanti il palco, inoltre, vi sono una scala ed un ascensore che consentono agli orchestrali, dopo aver percorso un portico coperto, di recarsi in una palazzina attigua con spazi dedicati alle loro esigenze. Fra le diverse proposte avanzate (il progetto in esecuzione risale anch’esso alla fine degli anni ’90), vi è quella di realizzare due vetrate, poste all’incrocio tra la navata centrale ed i bracci del transetto, affinché il suono non si disperda nelle due ali laterali. Anche la parte sotterranea della navata principale è attualmente interessata da lavori di scavo realizzati per ospitare i vari servizi. La disponibilità complessiva dei posti è di 610 unità, delle quali 500 collocate nella navata principale, alcune dietro al palco e tre file laterali ad occupare i due bracci del transetto. La conclusione dei lavori, finanziati dalla Soprintendenza ai Beni Culturali dell’Umbria, è prevista nell’arco di due o tre anni. Chiara Leonelli

La storia di S. Fr La costruzione della chiesa di S. Francesco al Prato a Perugia risale a circa la metà del XIII secolo e la sua edificazione fu dovuta principalmente ai Frati dell’Ordine francescano. Sembra sia stata costruita “sopra la preesistente Chiesa di S. Susanna”1 e che originariamente fosse nata come una struttura nobiliare, in quanto conteneva cappelle gentilizie appartenenti alle famiglie più altolocate della città. Lo stile architettonico, che nella parte interna risente delle influenze del gotico, se ne distacca invece all’esterno dove, soprattutto i due torrioni laterali, richiamano il periodo romanico. La pianta a croce latina, il transetto e la sola navata centrale rientrano pienamente nei canoni dettati dalle coeve regole dell’architettura francescana. L’aula principale, “risultava divisa in tre campate con volte a crociera in laterizio ed archi a sesto acuto, delimitati da costoloni prismatici che poggiavano su peducci tristili”2. Le finestre bifore correvano lungo tutto il perimetro dell’abside. Anche la prima copertura, originariamente gotica, in seguito alle trasformazioni che nel XVIII secolo il Carattoli apportò all’intera struttura, fu trasformata in barocca: tra i vari interventi, l’abbassamento della chiesa ed aggiunte murarie sulle navate e sull’abside. Per quanto riguarda la parte esterna, restaurata alla fine dell’800, sulla facciata policroma si apre un portale a tutto sesto delimitato da due nicchie per lato e sovrastato da un edicola trilobata contenente in origine l’affresco di San Francesco che riceve le Stimmate. “Esso risale al 1300 circa, ma negli anni ’20 del 1900 verrà distaccato e trasferito nella Raccolta d’Arte del convento dei frati minori conventuali della chiesa di S. Francesco di Gubbio per

essere esposto”.3 Il rosone, che si apre nella parte alta della facciata al di sopra del portale, con le sue articolazioni geometriche richiama quello entro il timpano dell’ingresso principale. Al di sopra delle volte, si trovavano “le celebri campane tutt’ora esistenti”4: la più antica, opera di Giovanni Pisano, l’altra, fusa da Nicola e Giovanni da Orvieto. Sulla destra vi sono due archi rampanti, come quelli della coeva S. Bevignate; pur avendo la medesima struttura esterna (i maschi murari che contengono la spinta delle volte), però, le due chiese si differenziano dal punto di vista sostanziale. La chiesa templare presenta un rivestimento di pietra arenaria, tale da adeguarsi perfettamente allo spirito di povertà, mentre S.Francesco al Prato è interamente rifinita con la pietra d’Assisi e riccamente decorata con orpelli che ne dimostrano la chiara appartenenza alla nobiltà. Analizzando inoltre il Gonfalone di S. Bernardino (dipinto nel 1465 da Benedetto Bonfigli ed attualmente conservato presso la Galleria Nazionale dell’Umbria), è possibile ricostruire l’antica struttura della chiesa: originariamente, infatti, essa era affiancata da un campanile con torre poligonale e cuspidata. Poco dopo la sua edificazione, “il convento venne dotato di uno Studium Generale”5, famoso per aver ospitato grandi personalità (Sisto IV e Giulio II). L’edificio in realtà ha sempre subìto grandi dissesti statici, poiché costruito per metà su terreno cedevole; la situazione è stata poi ulteriormente peggiorata dall’abbondanza delle piogge e dai frequenti terremoti che si sono succeduti nel corso dei secoli. Per ovviare a questi problemi, le autorità comunali e le Istituzioni hanno adottato soluzioni diverse, pensando tra le varie alternative


A DI S. FRANCESCO AL PRATO

ugia S t a t o

rancesco al prato di aggiungere nuove parti al complesso. L’intervento, attuato verso la fine del XIV secolo e volto a conferire maggiore stabilità alla chiesa, si è articolato con il posizionamento all’esterno del transetto di quattro cappelle gentilzie, appartenenti a nobili famiglie di Perugia (Baldeschi, Degli Oddi, Montesperelli, Michelotti). All’interno si trovavano anche numerosi orpelli (dipinti, oggetti d’arte e d’arredo) che abbellivano gli altari, tutti opera di artisti di larga fama, ma a causa delle spoliazioni del periodo napoleonico o per “la negligenza degli organi di tutela di allora”6, sono andati perduti. Tra di essi la celebre Deposizione Baglioni, dipinta da Raffaello nel 1507, poi trafugata e condotta a Roma; la Resurrezione del Perugino (1499); l’Incoronazione della Vergine di Raffaello (1503 circa); lo Sposalizio di S. Caterina di Orazio Alfani (1549 circa). Tuttavia, nuovi dissesti colpirono l’edificio, le cui strutture murarie continuavano a mostrare segni di cedimento; fin quando, alla fine del 1500, fu necessario un ulteriore intervento che consentì ancora una volta di arginare le lesioni, questa volta però celando gli affreschi delle pareti. Nel XVII e XVIII secolo le condizioni in cui versava l’edificio si rivelavano ancora molto precarie; fu allora che l’architetto perugino Pietro Carattoli fu incaricato dal Guardiano del Convento Padre Giuseppe Maria Modestini di rimediare al degrado in corso. L’intervento settecentesco prevedeva un globale ripristino in stile tardo-barocco: le antiche volte gotiche furono trasformate in coperture a botte; le mura perimetrali abbassate; le parti disassate vennero consolidate; una cupola fu costruita al di sopra del transetto; la superficie muraria

subì un’incamiciatura globale; infine fu costruito un nuovo campanile, ed anche una nuova sacrestia (1751). La ristrutturazione ha però alterato sensibilmente la lettura degli affreschi che originariamente rivestivano le pareti della chiesa e, costituendo anche una nuova fondazione, ha aumentato enormemente i pesi, provocando il definitivo abbandono. Alla fine del 1800, a spese del Comune, furono iniziati i lavori di restauro della facciata che riguardarono però solo la parte inferiore, considerata l’unica importante sotto il profilo artistico e monumentale. Intorno alla metà del XX secolo, la demolizione del rivestimento carattoliano portò alla luce l’architettura duecentesca. La chiesa è divenuta poi proprietà del Municipio che pensò di risolvere la questione relativa alla sua cattiva statica, demolendo tutte le parti pericolanti dell’edificio. Si demolirono i due pilastri laterali per poi ricostruirli, fu restaurata la prima campata, e le due bifore della fiancata sinistra vennero riaperte. Il restauro fu completato in due anni ed i frati minori conventuali si impegnarono a fondo per il recupero della fabbrica. Tuttavia non si è conservato nulla ed all’interno è rimasto soltanto qualche altare, alcuni capitelli e frammenti barocchi. CL 1Valentina Borgnini, Vicende costruttive e conservative della chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, Estratto da Miscellanea Francescana, 2004 Tomo 104, Fasc. III-IV, p. 672. 2 Ivi, p. 673. 3 Ivi, p. 681. 4 Ivi, p. 676. 5 Ivi, p. 675. 6 Ivi, p. 687.

Il progetto per la ristrutturazione della Chiesa di S. Francesco al Prato, di proprietà comunale, con destinazione Auditorium, va ricondotta ad un primo progetto, approvato nel 1998, che ha poi dato seguito ai lavori attualmente in corso d’opera da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali dell’Umbria, per dotare Perugia, nell’ambito del centro storico, di una prestigiosa struttura per riunioni e convegni, riqualificando, unitamente al restauro dei locali dell’ex Scuola d’arte e dell’Accademia di Belle Arti in corso di ultimazione, l’intera area terminale di Via dei Priori e di Via della Sposa. La posizione strategica rispetto al centro storico, la presenza di ampi spazi aperti sul fronte della chiesa, la corte interna su cui si affacciano i locali del piano seminterrato e quelli dell’Accademia di Belle Arti, saranno luogo di eccellenza per grandi eventi, convegni, spazi espositivi, nonché per le attività più nobili e prestigiose: arte e musica. Il progetto, che prende forma da varie proposte organizzative degli spazi, iniziate già nei dieci anni precedenti, con soluzioni all’avanguardia, pubblicate anche su riviste d’architettura specializzate, si esprime nei termini concettuali della conservazione dell’immagine attuale del monumento, caratterizzato dalle rovine architettoniche dell’abside, ove si intersecano elementi della primitiva architettura gotica, con quelli residui del tardo intervento del Carattoli. Nel dicembre 1998 viene quindi approvato un progetto di primo stralcio finanziato con i fondi derivanti dal gioco del lotto di cui al programma triennale 19982000. E’ stata data immediata esecuzione a tutte le lavorazioni occorrenti per la messa in sicurezza e stabilità di tutta l’apparecchiatura muraria, comprese le fondazioni. L’accentuazione del degrado e del dissesto, ad alto rischio, è stato verificato in tutti gli apparati murari del complesso monumentale, prevedendo interventi di bonifica in modo diffuso su tutte le murature in elevazione, comprese le fondazioni . La situazione di degrado e di pericolo, verificata in modo più capillare dopo il montaggio dei ponteggi nella navata, nel transetto e nell’abside, ha inoltre comportato una più dettagliata specificazione del progetto statico strutturale. I lavori fino ad ora eseguiti hanno quindi interessato tutta la parte strutturale della navata e dell’abside, delle cappelle gentilizie esterne al complesso originario, ma ad esso adiacenti, il rifacimento completo della copertura con capriate in legno e il restauro conservativo di tutte le parti lapidee delle pareti esterne alla navata principale, e quello delle pareti interne, secondo i canoni classici del restauro, sì da rendere

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evidente la lettura delle varie componenti storiche: la parte duecentesca con i peducci sospesi dei costoloni delle volte, gli altari cinquecenteschi e le tracce dell’incamiciatura barocca. Gli intonaci delle facciate interne della navata principale, sono stati trattati consolidandone gli strati preparatori e fissandone il colore. E’ pertanto leggibile già da ora, e in chiarissima evidenza, in fase di completamento dei lavori di consolidamento e restauro architettonico, la rivisitazione storica ed architettonica del monumento, dalla nascita gotica del 1230, alle aggiunte delle cappelle gentilizie, degli altari rinascimentali, al radicale e pesante intervento barocco Carattoliano, sino a quando l’intero immobile è stato pesantemente interessato dai dissesti e crolli degli anni 50/60.

I lavori vengono eseguiti con conservazione scrupolosa delle parti originarie; rinnovo moderato, tecnicamente compatibile, delle parti cadute e cosmesi ai fini di omogeneizzazione cromatica ed ambientamento. E’ stato contestualmente predisposto un ulteriore progetto di 2° stralcio per portare a termine l’intervento, con opere relative a tutta l’impiantistica tecnologica (impianto elettrico, di illuminazione, audio, video, ecc, impianto di riscaldamento e condizionamento) alle rifiniture e arredi, per dare continuità ai lavori e non vedere vanificato l’impegno anche economico fino a qui profuso. Tale progetto è stato già presentato al Ministero competente per provvedere al suo finanziamento. Fabio Bussani Architetto Comune di Perugia

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La droga dei colletti bianchi

Ciò che sorprende è la capacità della droga di arrivare a chi non avrebbe né voglia né bisogno di drogarsi. Un po’ come quando si va a fare la spesa per comprare carta igienica e spazzolino e si esce dal supermercato con il carrello pieno. È un passo di un libro che consigliamo di leggere: Sopra le righe, indagine sui protagonisti e i luoghi da sniffare di Alessandro Calderoni, editore Aliberti 2005. L’autore, un giornalista, conduttore di Radio Montecarlo, ha raccolto alcune chiacchierate con consumatori abituali di coca ed è giunto a delle conclusioni che ribaltano l’idea comune che si ha della droga, non ci si droga perché si è emarginati, ma per essere al centro della vita e la droga prescelta non è la prima che si trova, ma l’ultima arrivata, quella più di moda, quella che usano tutti in quel dato ambiente. L’acquirente di cocaina non è un emarginato, un ribelle, un disagiato, ma uno che vuole provare, che si trova in un ambiente dove tutti ne fanno uso, che vuole partecipare. La droga, spiega Calderoni, funziona come la moda: chi si veste in un certo modo, mangia in un certo modo, ascolta certa musica, è un acquirente ben identificabile; così il mercato ha creato le smart drugs per il bioorientato, la cannabis per

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l’alternativo, per il discotecaro le droghe sintetiche tipo la MDMA (metilendiossianfetamina), detta anche droga da party. La cocaina, cui il libro dedica la maggiore attenzione, è stata definita la droga dei colletti bianchi, degli impiegati, dei manager, di chi è in carriera. Non altera visibilmente il tuo stato di coscienza, racconta un giovane consumatore, magari pensi che non abbia nemmeno fatto effetto. Gli altri lo vedono ma tu puoi non accorgertene. Però ti senti meglio. E tendi a considerarla meno pericolosa dell’alcool e a usarla come un aperitivo. L’unica differenza rispetto a questo è che la coca non ti è utile tanto per instaurare nuove relazioni, quanto per vincere sfide, fare bella figura, stare al centro dell’attenzione e primeggiare. La coca è la riposta del mercato delle droghe a chi deve farsi strada sul lavoro, a chi ha bisogno di caricarsi, di trovare fiducia in sé perché vive sul filo della competizione. Non devi andarla a cercare in posti loschi, te la vende l’amico, non esiste il pusher che gestisce lo spaccio, ma tantissimi piccoli consumatori che se la passano tra di loro, che vendono anche singole strisce accessibili per tutte le tasche. Chi sniffa, nota Calderoni, non si vede come un tossico o un consumatore abituale anche se lo è - ma come uno che ogni tanto sniffa. Viene infatti riportato il racconto di Raffaele, assicuratore, ex pr di discoteca: provavo un acido ogni tanto, ma ero un ragazzino. Dopo un incidente in auto, mi sono spaventato e ho smesso. Oggi sono pulito, sniffo solo un po’ di coca, quando sono proprio giù. Oggi sono pulito, dice, perché secondo l’accezione del comune consumatore la cocaina non è da demonizzare, è soltanto un piacere illegale… Francesco Patrizi

...... A proposito di libri, come mai il primo che ha scritto si chiama “Elogio dell’imperfezione”? Perché io considero l’imperfezione come la molla darwiniana della selezione naturale. Ad esempio, gli insetti di seicento milioni di anni fa sono identici a quelli di oggi: erano già perfetti, e non c’era motivo che cambiassero. L’uomo invece era imperfetto, e questo ha dato la molla per il suo sviluppo e la sua evoluzione. Non sembra essersi evoluto molto, se guardiamo a ciò che è successo nel Novecento. Io parlavo delle qualità mentali, mentre lei parla delle qualità emotive: si tratta di due cose molto diverse, che derivano dal nostri due cervelli. Uno è il cervello cognitivo, neocorticale, che ci distingue dagli altri animali. L’altro è il cervello arcaico, paleocorticale, che è uguale a quello dei primati subumani o delle specie inferiori: dal punto di vista emozionale, l’uomo di oggi effettivamente non è diverso dall’uomo della giungla. Dunque in quel campo non c’è stata evoluzione. No, perché il sistema era perfetto: i centri paleocorticali sono quelli che ci mantengono in vita, anche se purtroppo sono anche quelli che ci portano alla Shoah. L’evoluzione ci potrebbe essere se la nostra parte cognitiva riuscisse a controllare quella emotiva e aggressiva, ma non ci riesce. Ovvero, solo ciò che è imperfetto può essere perfezionato. Sì, e non solo in campo biologico. Ad esempio, la bicicletta e l’automobile sono nate insieme, ma la bicicletta era perfetta, ed è rimasta quella di duecento anni fa. L’automobile invece era imperfetta, e la sua evoluzione ci ha portato alla stratosfera. Quindi non bisogna crucciarsi di non essere perfetti. Anzi! Bisogna essere contenti di non esserlo. Se si è perfetti, non c’è più niente da fare, ed è la fine. Per perfezionarsi bisogna lavorare, però, e lei ha sempre lavorato moltissimo, credo. Sì, e lavoro ancora oggi. Mi alzo alle sei della mattina e leggo, per quel che posso. Poi alle nove incomincio coi miei collaboratori: vado all’EBRI, l’European Brain Research Institute (Istituto Europeo per la Ricerca sul Cervello) di cui sono presidente, o alla mia Fondazione. Quando è nata la Fondazione? L’abbiamo fondata nel 1992, io e mia sorella Paola. Era rivolta ai giovani, i quali ormai ci battono sei a zero con l’informatica. Lei conosce la barzelletta del manager al quale la mattina si rompe il computer? Lui chiama l’assistenza per ripararlo, ma gli rispondono che il tecnico verrà solo alle quattro del pomeriggio: lo porta la mamma, appena esce da scuola... E oggi qual è lo scopo della Fondazione? È rivolta all’Africa: da giovane volevo andare a lavorare col dottor Schweitzer, e ora in questo modo realizzo il mio sogno. Abbiamo già dato cinquecento borse di studio alle giovani donne, dall’età prescolare a quella postuniversitaria. Perché proprio le giovani donne africane? L’Africa perché è in condizioni tragiche, e le donne perché vi sono state umiliate fisicamente e psichicamente: a lungo sono state battute, ma oggi finalmente si alzano. E io sto cercando di aiutarle a conquistare una leadership sociale, scientifica e tecnologica.

R I TA L E V I M O N TA L C I N I Lei parla come una vera femminista! Sono femminista nel senso di voler ridare alle donne la dignità umana, e la capacità di utilizzare il cervello. Ma non nel senso del motto “l’utero è mio e lo gestisco io”: quella è una stupida frase, che non ha senso. Io credo che l’utero sia sì della donna, ma che il suo frutto sia anche dell’uomo che sta con lei. A lei non è mai mancato non avere dei figli? Tutt’altro! Io non ero fatta per queste cose. Da bambina ho sofferto, perché mio padre era una personalità notevole. In casa mia tutto era in mano sua, e io mi chiedevo: “Ma la donna, che ci fa?”. Così ho deciso che non mi sarei sposata, e non avrei avuto dei figli. Fin da quando avevo cinque o sei anni ho capito che non mi andava di vivere “in seconda” come mia madre. Poi ho odiato le scuole “femminili” che ho fatto, perché insegnavano a essere mogli e madri, e io non volevo appunto essere né una né l’altra. Non si è mai innamorata? Da quel lato son donna al cento per cento, e mi sento molto femminile. Ma non era necessario sposarsi. Quale differenza vede tra la visione maschile e femminile del mondo? L’uomo ha creato la guerra. Alle discendenti di Eva spetta il compito, più arduo ma più costruttivo, di creare la pace. Dio solo sa se ce la faranno: io non sono futurologa, e non arrischio giudizi sul futuro, ma essere ottimisti è più valido che esser catastrofici in partenza. Bisogna assolutamente essere ottimisti, anche se dentro di noi magari non ci crediamo. A proposito di credere, lei è religiosa?

Sono laica, ma credo profondamente nei valori. E i valori sono un fatto religioso, senza bisogno di andare alla sinagoga o in chiesa. Ma crede in Dio? Sono atea: non so cosa si intende per credere in Dio. Einstein credeva nel Dio di Spinoza, cioè nella Natura. È anche il mio modo di vedere. Io sono sempre stata spinoziana: da piccola mi vantavo persino di essere sua parente, visto che il mio nome è Rita Benedetta. Alla fine del suo lungo percorso, lei ha raggiunto la felicità? Io sono serena. Felice no: di fronte all’enorme sofferenza nella quale naviga il mondo, chi può essere felice? Non avrebbe senso. Cioè, si può esser felici solo se tutti lo sono? È proprio la parola stessa, che io abolirei: di felicità non si può parlare. Nemmeno nel futuro? No, mai. L’uomo è portato all’imperfezione, e dunque all’infelicità. La serenità è il massimo che noi possiamo desiderare e sperare. ...... PGO


La differenza che evita l’indifferenza

Ho conosciuto Enzo Bianchi a Taizé, vicino a Lione, nell’estate del ’68, in piena contestazione giovanile, ma anche quando i carri armati russi invadevano Praga e toglievano speranza alla democrazia. Lui non era ancora monaco, ma di sicuro aveva già in mente la Comunità che avrebbe poi fondato a Bose, in provincia di Cuneo, nel suo Piemonte. Io venivo da Perugia insieme ad un folto gruppo di ragazze e ragazzi che volevano fare un’esperienza di vita comunitaria a Taizé, piccolo centro dove padre Roger Schutz creava occasioni di incontro e di preghiera per giovani provenienti da tutte le parti del mondo, da fedi diverse, e anche da nessuna fede. Ritrovo la stessa idea di dialogo e di confronto nell’ultimo libro di Enzo Bianchi, intitolato La differenza cristiana. Il titolo all’apparenza sembra confermare il concetto di identità cristiana recentemente sbandierata e brandita come un’arma dai cosiddetti atei devoti, in contrapposizione con le altre religioni, l’Islam in particolare. E invece no, Enzo Bianchi vuole dire esattamente il contrario. La differenza cristiana per lui non è né un’arma né una bandiera, è l’impegno a vivere con serietà la propria fede e l’etica che ne deriva… restando in mezzo agli altri uomini con simpatia… tesi a costruire insieme una città più umana... vero lievito e sale nella pasta del mondo…, come è scritto nella lettera “A Diogneto” (II sec) da lui citata nella prefazione. Per il resto, nonostante questa differenza che va vissuta in prima persona a costo dell’incomprensione degli altri, il cristianesimo è ascolto, dialogo, accettazione dell’altro, esposizione coraggiosa alle critiche, affermazione delle proprie convinzioni; una differenza che non è mai contrapposizione, trionfalismo, presunzione di essere migliori. Solo se la differenza sarà marcata, si eviterà il fenomeno della indifferenza al fatto religioso che è diventata caratteristica peculiare del nostro tempo. Se la religione diventa una bandiera, lo scambio e l’ar-

ricchimento fra culture e fedi diverse cessa di esistere, e al suo posto resta la sfida che ci trova armati e rabbiosi, maledicenti e pieni di livore, invece di essere umili e miti costruttori di dialogo e di pacifico confronto come auspica Enzo Bianchi. Il rischio è esasperare i toni, parlare linguaggi differenti, non capirsi più. La soluzione è assumere la responsabilità del proprio ruolo, laico o ecclesiastico, parlare la lingua della ragione e dell’equilibrio, contribuire alla costruzione della polis, tenendo conto anche dei non cristiani. Inoltre va dato nuovo impulso all’etica, alla norma non scritta, ma insita in ognuno di noi, vanno ridisegnati i confini delle libertà personali, perché dall’uso delle cose, dell’ambiente e degli altri, non si passi all’abuso e allo sfruttamento, a discapito della dignità dell’uomo e della qualità della vita. Cosa dare a Cesare cosa a Dio? Da questa domanda spesso male interpretata nei secoli e a cui trono e altare hanno dato risposte sbagliate, parte Enzo Bianchi per parlare di laicità e di Chiesa e chiarire che non c’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e istanze di laicità. La laicità che rifiuta il religioso in assoluto diventa laicismo; ma c’è anche una laicità rispettosa verso la Chiesa o le Chiese, una giusta laicità in cui possono riconoscersi sia i credenti che i non credenti, lavorando insieme per la pace, la giustizia e la ricerca di un mondo maggiormente a misura d’uomo. Quale cristiano, si domanda Bianchi, ma anche quale Chiesa: che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare… che sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare… e ancora ispirata a dolcezza e mitezza, ma capace di fermezza e di rigore…, una Chiesa che cerchi di più il dialogo e accetti il contributo prezioso dei laici. E se l’altro è il diverso in assoluto, lo straniero di cui non conosciamo né lingua né cultura, né usi alimentari o medici e di cui è così istintivo diffidare? La risposta è imparare l’alfabeto con cui rivolgersi a lui, assumere la capacità di farsi prossimo in senso evangelico, cercando di capire senza giudicare e senza sentirsi minacciati. Conclude Enzo Bianchi dicendo che, se il cristiano vuole essere credibile annunciatore della Buona Novella, deve saper cogliere la “bellezza del vivere e mettersi in armonia con l’esistenza degli altri e del mondo intero. Solo così saprà attirare anche gli altri sul suo cammino ed essere narrazione vivente del Vangelo per gli uomini e le donne del nostro tempo”. Elettra Bertini

Il buddismo paradigma del laicismo Tra i vari libri dell’attuale Dalai Lama pubblicati recentemente in italiano, due si soffermano in particolare sul rapporto tra scienza e filosofia buddhista e meritano di essere attentamente considerati sia per le modalità di approccio che per le notevoli implicazioni comportate. Il primo, tradotto da Piero Verni, s’intitola L’abbraccio del mondo, quando scienza e spiritualità si incontrano ed è edito da Sperling & Kupfer mentre il secondo, curato da Arthur Zajonc e tradotto da Luca Guzzardi, Nuove immagini dell’Universo, dialoghi con fisici e cosmologi ed è uscito per i tipi di Raffaello Cortina nella bella collana diretta da Giulio Giorello. Da entrambi emerge con grande evidenza una predisposizione di fondo decisamente scettica e antidogmatica che caratterizza il buddhismo differenziandolo radicalmente da visioni totalizzanti come, ad esempio, il cattolicesimo, l’islamismo e, perché no?, l’avido e arido positivismo. Colpisce del Dalai Lama non soltanto l’intima inclinazione all’ascolto, al dialogo, ma soprattutto la propensione a comprendere la realtà tramite il costante ricorso ad un’analisi scevra di pregiudizi e condizionamenti, a tal punto da affermare che qualora la ricerca scientifica dovesse dimostrare, senza alcun dubbio, l’inesattezza di alcune concezioni buddhiste, queste dovrebbero essere immediatamente rigettate. Questo atteggiamento, fortemente e saggiamente critico, si riscontra specialmente non appena l’autore ha la possibilità di confrontarsi e discutere con studiosi di varie discipline scientifiche, come negli intensi e profondi incontri svoltisi a Dharamsala dal 27 al 31 ottobre del 1997 di cui Nuove immagini dell’Universo è testimonianza. Nel buddhismo la conoscenza non è mai scissa dall’esperienza e, anzi, si rettifica alla luce di un’inesauribile sperimentazione. Così facendo, si pone come una valida alternativa sia all’assolutismo che al nichilismo. Oseremmo dire, anche se ovviamente in maniera impropria, di trovarci innanzi ad una forma di relativismo moderato basatosi sulla consapevolezza dell’impermanenza e della vacuità del tutto. Ciò comporta, in primo luogo, lo smantellamento dell’impianto religioso fideistico (il buddhismo non parte dal presupposto di un Dio originante) su cui si reggono le violente imposizioni monoteistiche, con le conseguenti costruzioni teologiche, e, in secondo luogo, quella responsabilizzazione del soggetto che di fatto viene negata nelle religioni in cui l’etica viene ridicolizzata, svilita, ridotta volgarmente a morale eterodiretta, control-

lata dall’alto. Non a caso il Dalai Lama propone la sostituzione di religione con religiosità, sostiene che le sorti del mondo appartengono unicamente a noi, dipendono esclusivamente da noi, invita ad ampliare i confini cognitivi. Tutto questo, se si lo si traspone all’interno del dibattito in corso, non può che risultare paradigmatico per il laicismo. Infatti, da un lato la religiosità buddhista, in virtù del suo criticismo, è laica, dall’altro il laicismo non essendo antitetico alla religiosità ma costituendone, al contrario, la massima espressione, in quanto non confessionale, non si preclude alcun sentiero conoscitivo ed è sempre pronto a rimettersi in gioco, innervando la libera ricerca e concependo la verità senza enfasi assolutistica. Non sono mancati anche da noi esempi di un’ermeneutica laica in questa direzione che hanno rappresentato il punto di congiunzione tra pensiero occidentale e orientale. E’ strano come nessuno si sia finora accorto che l’apice del laicismo sia stato rappresentato proprio da autori anomali,

non imprigionati nell’arretratezza dello schematismo ecclesiastico, come Carlo Michelstaedter, Piero Martinetti, Aldo Capitini, Ferdinando Tartaglia, Danilo Dolci, figure centrali nella formazione e nell’approfondimento delle dinamiche della nonviolenza. E’ giunto il momento di imprimere una svolta decisiva riscattando il laicismo dall’ambiguità di posizioni che lo vorrebbero, erroneamente, come una forma di riottosa contrapposizione alla spiritualità. Il Dalai Lama in questo senso può esserci di grande aiuto. Un certo Albert Einstein, laico e scienziato, ebbe a dire che la religione del futuro sarebbe stata cosmica, emancipata da un Dio personale, da dogmi e teologie, in grado di abbracciare la sfera naturale e quella spirituale, basandosi su una religiosità scaturita dal sentire tutte le cose naturali e spirituali come un’unità carica di senso. Il buddhismo - precisò - corrisponde a questa descrizione, una spiritualità capace di far fronte alle esigenze della scienza moderna. Francesco Pullia

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EDUCAZIONE ALLO SPORT Sintomi di un malessere...

Il mondo del calcio ha gridato allo scandalo alla notizia dell’aggressione patita dai giocatori dell’Inter, rei dell’esclusione della loro squadra dalla Champions League, per mano di tifosi all’aeroporto della Malpensa. Ma lo stupore è una mera ipocrisia. Come un icerberg che nasconda i nove decimi della sua massa nel fondo buio del mare, il volume di episodi di violenza verbale e materiale, che riguardano il panorama calcistico dei dilettanti e dei semi-professionisti, restano oscurati agli occhi dei più. Non c’è sabato, né domenica che la cronaca non si arricchisca di notizie angustianti a danno di arbitri, giocatori, allenatori e presidenti di società minori. Nei giornali occupano piccoli spazi locali, eppure sono sintomi di un malessere diffuso. Gli eventi meritevoli di essere riportati in cronaca hanno raramente carattere occasionale; sono invece la logica conseguenza di una lunga serie di minacce, cui fa seguito l’azione punitiva. Da una recente inchiesta effettuata dalla Federazione Italiana Gioco Calcio è

emerso che un giocatore su 5, nei Campionati Dilettanti e di C2 è fatto oggetto di messaggi minatori da parte della tifoseria locale, per indurlo a più miti pretese economiche, a maggiore impegno sul campo, o più frequentemente alle semplici dimissioni. A questo proposito, forse non tutti sanno che le società calcistiche, quando intendono liberarsi di un giocatore sotto contratto, sono esentate dal pagare al calciatore il prezzo pattuito fino alla scadenza, solo nell’ipotesi di dimissioni volontarie del soggetto. Ciò può generare azioni di pressione nei confronti dei giocatori da parte dei tifosi più facinorosi. Si comincia con i fischi durante le partite per continuare con i danneggiamenti alle vetture degli interessati, con gli improperi telefonici o, nei peggiori dei casi a riferimenti ai familiari. Il silenzio delle società in queste circostanze può lasciare spazio a sospetti di complicità. Tali comportamenti delinquenziali si nutrono di un substrato sociale preoccupante ma, soprattutto, fa orrore che su questo decadimento di valori facciano leva personaggi di dubbia moralità che rivestono, a volte, cariche a vario titolo nelle società sportive. I casi di presidenti in odore di mafia o di individui spregiudicati e più spesso pregiudicati non sono eccezioni nel mondo calcistico; cosicché occorrerà che proprio da lì inizi la vigilanza della Federazione o delle forze dell’ordine. Se è vero che si raccoglie quello che si coltiva, l’attenzione deve essere vigile e bruciare sul nascere ogni erba velenosa e invadente. Giocondo Talamonti

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2 7 MA R Z O 1 9 9 4 : EL E Z I ON I POL I T I C HE Contendenti A destra il Polo delle Libertà e il Polo del Buon Governo guidati da Berlusconi, con un accordo, al nord, con la Lega, al sud, con Alleanza Nazionale. Ed ancora il Centro Cristiano Democratico ed altre formazioni minori. Al centro il Patto per l’Italia, formato dal Partito Popolare Italiano e il Patto Segni. A sinistra i Progressisti con Partito Democratico della Sinistra, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista, Verdi, La Rete, Alleanza Democratica, Cristiano Sociali. L’esito del voto al Senato Al Senato nessuna delle tre coalizioni ottiene la maggioranza dei seggi ma... 4 senatori (Grillo, Zanoletti, Cusumano e Cecchi Gori), eletti nelle liste del Partito Popolare, consentirono disinvoltamente a Berlusconi di ottenere il via libera di Palazzo Madama. In seguito il senatore Grillo si trasferì ufficialmente a Forza Italia (7 luglio 1994) ed ottenne un incarico di sottosegretario. Oggi è insistentemente evocato, al cospetto dei giudici, da tale Fiorani. I senatori a vita erano 11. Tre voti a favore, senza i quali il governo Berlusconi non avrebbe ottenuto la fiducia, vennero dai senatori a vita: Agnelli, Cossiga e Leone. Tre i contrari, Andreotti, De Martino e Valiani, mentre Spadolini e Taviani si astennero e altri tre, Bo, Bobbio e Fanfani erano assenti per problemi di salute. Poi Berlusconi aggregò anche Tremonti, eletto nell’opposizione, e lo fece ministro. Si è governato con 159 voti a 153 quando il quorum era 158 (e Cecchi Gori uscì proprio per abbassare il quorum). Occorre sottolineare che la stabilità garantita al governo Berlusconi dai 366 seggi

ottenuti alla Camera era dovuta unicamente dal sistema elettorale maggioritario: in termini di voti le forze berlusconiane si attestarono sotto il 43%, ben lontano quindi dalla maggioranza assoluta. Nonostante ciò, con il Senato in bilico e la Camera controllata da una minoranza di elettori, Berlusconi governò senza minimamente gridare allo scandalo, come fa oggi, nel demonizzare i suoi avversari! La causa del suo fallimento non fu l’esiguità dei seggi di scarto: fu affossato dalla Lega Nord che, con poco più dell’8% di voti, si era vista attribuire dalla spartizione dei collegi uninominali addirittura 180 tra deputati e senatori. Maggio 2006 E’ passato un po’ di tempo e morale e dignità, soggette, come tutti sanno, agli sbalzi di temperatura e agli umori del momento... sono oggi state, non ritoccate, magari appena appena, ma del tutto capovolte! D’altra parte... Quod licet Jovi non licet bovi! che G. Belli traduce: io so’ io e voi nun siete un c....! E così i Senatori a vita che nel maggio del 2006 hanno votato secondo coscienza sono stati tacciati come immorali dall’ex Presidente del Consiglio, quello stesso aduso, per se stesso, a disinvolte operazioni liberatrici e ribaltatrici.

Mi vergogno Io ho un senso opposto della coerenza, della dignità della persona, della moralità. Per fortuna non siamo tutti uguali, ma chi agisce così apertamente in contraddizione con se stesso e con tutti gli alt r i … avrà i s u o i buoni motivi e le sue eccellenti ragioni... probabilmente anche sui brogli elettorali, sbandierati addirittura molto tempo prima delle elezioni! Vi siete mai chiesti... ... come faceva l’ex Presidente del Consiglio, molto per tempo, a definire sballati i sondaggi (non parlo di exit pool che sono ben altra cosa) di serissime e diversissime società demoscopiche che hanno sempre presentato risultati inequivocabili, quelli stessi dei bookmakers inglesi che, normalmente, fanno la radiografia? Vi siete mai chiesti a qual genere possa appartenere questo 4% di votanti in più, rispetto alla media usuale ed al previsto, e come fa l’ex Presidente del Consiglio ad essere assolutamente certo che ci siano stati brogli?... Profezie... tattiche... ragazzerie... o...? Giampiero Raspetti

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U na

m o r al e

spe r icolata

L ’ e t i c a l a i c a e l i b e r t a r i a d i Va s c o R o s s i

Le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole…, ma le canzoni sono come i fiori nascon da sole, sono come i sogni e a noi non resta che scriverle in fretta perché poi svaniscono e non si ricordano più. E’ proprio vero, le parole sono così incastrate con la musica che tutti i testi di Vasco ne sono condizionati: per le parole non preoccuparti! è più facile di quello che pensi come le bolle di sapone… se soffi piano vengono da sole. Per chi è abituato a frequentare la poesia di De André o i testi di De Gregori o di Guccini o di Vecchioni leggere di seguito tutti i testi di Vasco è un po’ spiazzante, le parole nate con la musica, ne seguono il ritmo, sono spezzate di continuo, i puntini, i punti interrogativi e gli esclamativi si susseguono incessantemente, le ripetizioni sono spesso ossessive. Risulta perciò molto complicato ricostruire in un pensiero coerente la sua visione della vita, tuttavia il tentativo andava fatto, perché Vasco con le sue canzoni è comunque il portatore di una precisa morale e di valori ben rintracciabili nei testi che propone soprattutto ai giovani. Lungo tutto l’arco della sua produzione dominano i problemi esistenziali, quelli concreti di chi tutti i giorni deve fare i conti con i propri sentimenti e con quelli degli altri, con le proprie emozioni, con i propri stati d’animo, con i propri perché, la propria solitudine, la propria insoddisfazione, i propri sogni. Vasco solo in quest’ultima fase della sua produzione mette a fuoco una convinzione che circolava nascosta dietro tutte le sue canzoni: voglio trovare un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l’ha. Ebbene questa affermazione contiene già tutta una filosofia: la vita non ha un senso già dato da qualcuno, come invece sostengono le religioni, occorre perciò che ciascuno di noi gliene dia uno, dunque la libertà di scelta individuale è rivendicata come

la sola capace di guidare la nostra vita. Ma questo non è affatto facile, Vasco più volte cerca di definire la vita e oscilla spesso tra una definizione e l’altra :…la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia, la vita è cioè un equilibrio sempre precario tra il suo non senso e il senso che ognuno di noi

aiutarci a vivere, da soli è difficile, Vasco sembra averlo capito quando dice chiaramente che la vita non è facile ma a volte basta un complice e tutto è già più semplice. Come tutti i veri libertari capisce più degli altri che la propria libertà non è un assoluto, a cui aggrapparsi per stare soli come sulla cima di una montagna, ma essa ha un limite nella libertà dell’altro, al quale ci accomuna la stessa condizione esistenziale e insieme al quale bisogna scorticare la vita. Liberi, liberi siamo noi è il grido dei libertari solitari, ma se si aggiunge, come fa Vasco, però liberi liberi da che cosa???, allora si capisce che la libertà è un problema: da chi o da che cosa dobbiamo essere liberi? Dal potere che ci opprime, dai pregiudizi che ci insidiano, dal conformismo sociale, dal fanatismo ideologico, da

riesce a trovare. Oppure questa vita è così complicata, o guarda che bella sorpresa la vita, quando credevo che fosse finita arrivi tu. La caratteristica fondamentale è che è la vita che cambia, che cambia, è che ti svegli e non è mai quella. La canzone Vivere è quella nella quale Vasco prova a definire che cos’è in fondo vivere e dà sfogo a tutte le sue inquietudini: vivere è un po’ come perder tempo… vivere è sperare di star meglio… vivere come stare sempre al vento… vivere e non essere mai contento… vivere è come un comandamento… vivere come ridere. Tutte queste definizioni non sono che i tentativi di trovare quel senso che la vita di per sé non ha. Il suo potrebbe sembrare un individualismo sfrenato, ma non è così: io questa vita qui non la capisco… mi sono perso e tu? vuoi aiutarmi tu?, è l’altro il solo che può

quello religioso e chi più ne ha più ne metta? Certamente, ma, a quanto sembra, non dai rapporti di umana solidarietà con gli altri: io non so stare solo dichiara sinceramente, mettendo a nudo la sua fragilità, in Stupido Hotel. La lotta di Vasco, come quella di tutti noi, non è solo per rivendicare la propria libertà, ma anche quella contro la propria solitudine. L’insistenza su questo aspetto è continua: sono talmente disperato che spero che il cielo tramonti... non ho paura di nessuno ma ho paura sempre... non parliamo spesso sì ma è così…siamo soli... e la solitudine esistenziale aumenta quando viene a mancare uno dei pochi strumenti a disposizione per combatterla, la comunicazione: sono le cose che non dici che mi fanno più male perché se non me le dici vuoi tenertele per te perché quando non le dici non le vuoi condividere. Forse si può

dire, parafrasando García Márquez, che anche per Vasco la vita è un patto onesto con la solitudine. Ma nella gamma di sentimenti esistenziali che Vasco esprime trova spesso posto anche la noia: accidenti… alla noia che ci prende e che non va più via... alla noia che da sempre ci portiamo dentro... è un giorno che si

prima parte

scivola tra noia e umidità... è che alla fine ogni cosa ti stanca..., ma è la noia esistenziale che ci porta ad equiparare tutti i valori, niente ha senso, tutto mi sembra inutile… farmi la barba o uccidere che differenza c’è? Chissà se Vasco sa che questo ricorda molto il Sartre de La nausea per il quale essere Napoleone o ubriacarsi in solitudine è la stessa cosa? Ma allora la felicità? Dov’è questa felicità?... si chiede, e, a quanto par di capire, una risposta, seppur indiretta,Vasco la dà: nel cogliere l’attimo fuggente. Domani sarà tardi per rimpiangere la realtà, è meglio viverla... dice rivolto a Gabri, una ragazza di sedici anni. Mi rendo conto che il tempo vola e che la vita è una sola è l’affermazione che è sottintesa a tutta la sua concezione della vita e che esprime la sua ansia di vivere, fammi godere ripete ossessivamente in Rewind, perché l’inverno è dietro l’angolo: la primavera è solo un dispetto, un richiamo perfetto, un ottimo abbaglio e poi è già inverno. Marcello Ricci

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Sotto l’occhio della Scarmigliata N a rn i

La Provincia di Terni per la cultura

Uomo di potere, il cardinale Egidio Alvarez Camillo de Albornoz (1295 - 1367) si preoccupò principalmente di ripristinare il dominio dello Stato pontificio restaurando e costruendo una rete di fortificazioni (a Viterbo, Orvieto, Narni, Piediluco, Montefalco, Ancona, Assisi, Spoleto, Sasso

Ferrato, Orte) con il duplice scopo di controllare, da un lato, un territorio particolarmente vasto, con le più importanti vie di comunicazione, e dall’altro di impressionare gli abitanti del posto ostentando potenza (e arbitrio). Non a caso, sul mastio delle rocche da lui edificate c’era sempre una bombarda, puntata verso il basso, come a scrutare minacciosa i movimenti della popolazione. Questi strumenti bellici, che sortivano l’effetto di incutere timore, venivano apostrofati dalla gente con curiosi soprannomi. Nel caso di Narni, la colubrina più in vista fu chiamata la Scarmigliata per via dell’incisione, nel suo fusto, di un grifo con i crini al vento. Fermamente determinato,

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l’Albornoz si avvalse, per il raggiungimento dei suoi piani, sia della politica tradizionale che della forza, come quando sconfisse il prefetto Giovanni di Vico, imponendo le cosiddette aegidianae costitutiones. Sotto l’occhio della Scarmigliata è il titolo dell’ultimo catalogo, per la precisione il diciassettesimo, della collana Conoscere e sapere dell’Ufficio Beni e Attività Culturali della Provincia di Terni. In settantadue pagine, vengono esaminati il ruolo e il significato di quello che nel corso della storia si è caratterizzato come il monumento che, più di ogni altra costruzione architettonica, simboleggia, anche grazie alla propria posizione, Narni e il suo territorio. Voluta come dimostrazione di palese autoritarismo, disegnata dall’architetto Matteo di Giovannello da Gubbio, meglio

conosciuto come il Gattapone, la rocca si erge sulla collina narnese, ad oltre trecento metri sul livello del mare, affacciandosi sull’intera conca ternana e controllando le principali vie di comunicazione con Roma e la gola del Nera. Come è facile intuire, non fu mai amata. Claudio Regni, nel contributo iniziale, mette bene in evidenza lo scontro aspro tra la popolazione, apertamente restia ad ogni sorta di sopruso e di prevaricazione, e la politica ecclesiastica. Ciò si evince anche dallo studio di Paolo Leonelli, sulle specificità architettoniche della fortezza, e dal partecipato intervento, in cui finiscono per intersecarsi memoria privata e collettiva, di Bruno Marone. La città venne racchiusa - scrive Marone - per la prima volta forse, in un unico abbraccio

che la difendeva, certo, ma la controllava allo stesso tempo. Le nuove mura, che trattenevano un inusitato pomerio, mutarono il paesaggio e perfino la funzione del paesaggio… La nuova presenza sottrasse alle famiglie narnesi il potere reale. Furono riscritti gli statuti, atto notarile della definitiva sconfitta della communis libertas. Più o meno allora iniziò la diaspora dei narnesi in cerca di gloria… Secondo una tradizione proveniente dal medioevo, era il luogo della sassaiola fra ragazzi. Capitava talvolta che la battaglia avvenisse giù all’Oliveto ma le cinghiate paterne per i vetri rotti da risarcire rendevano la cosa sempre meno attraente… Lassù non c’erano vetri, c’era solo la libertà di corse affannate in alto, verso il bastione e poi ancora oltre…

Le neomamme portavano i loro pargoli, sul far del giorno, a passeggiare fra il Monumento e l’Acqua…odore d’erba secca, di garofano selvatico ora scomparso e il frinire assordante delle cicale interrotto da abissali frammenti di silenzio… Talvolta, nel ritorno della festa di maggio, la Rocca si

anima del ricordo di antichi fasti cittadini. Nell’angolo a solatio i vecchi hanno attrezzato un loro spazio d’attesa…ma anch’essa - la Rocca sembra essere in attesa paziente. Il libro, curato in una bella e raffinata veste dal grafico Francesco Maria Giuli, è arricchito dai contributi fotografici di Alberto Bravini, Sergio Coppi, Emanuela Petrini, Marco Santarelli, Stefano Svizzeretto. Ognuno con la propria sensibilità coglie aspetti inusitati, reinventa l’antica costruzione, catturando le singolari atmosfere che quelle pietre, al di là della funzione storica espletata, riescono ancora, nella loro imponenza, a comunicare. Francesco Pullia


Palazzo Bazzani ha varato la manovra finanziaria per il 2006

Provincia, un bilancio attento alle tasche dei cittadini 76 milioni di € complessivi, nessun aumento fiscale, investimenti per oltre 40 milioni di €. I commenti di maggioranza e opposizione.

Il bilancio 2006 della Provincia di Terni ammonta a 76 milioni di €. Il Consiglio provinciale ha approvato recentemente la manovra economico-finanziaria per l’anno in corso, rispettando il Patto di stabilità e non aumentando in alcun modo l’imposizione fiscale, le tasse e le imposte per i cittadini. Il Bilancio ha risentito dei tagli apportati dalla legge Finanziaria e delle ridotte risorse a disposizione che hanno causato difficoltà nell’operare scelte strategiche, costringendo ad operazioni complicate che hanno portato ad un bilancio che sconta 11 milioni di € in meno rispetto all’anno precedente. Tuttavia la capacità di investimenti e di strategie non è venuta meno. L’amministrazione ha infatti confermato le azioni riguardanti i settori fondamentali dell’Ente, quali la formazione professionale, la viabilità, l’edilizia scolastica, la caccia e l’ambiente. In quest’ultimo anno inoltre si sono investite notevoli risorse nell’innovazione e modernizzazione della macchina pubblica con il progetto di e-government e del protocollo informatico che riduce al minimo le documentazioni cartacee comportando notevoli risparmi economici coniugati con un maggior livello di efficienza, efficacia ed economicità dell’Ente nell’ottica della migliore fornitura di servizi al cittadino. Il bilancio ai raggi X. Le entrate della Provincia di Terni derivano da contributi e trasferimenti da Stato, Regione ed altri Enti pubblici per 26,9 milioni di €, da introiti tributari (per 20,8 milioni), da alienazioni e da ammortamenti di beni patrimoniali (per 10,4 milioni). A queste voci seguono quelle relative a partite di giro (8,3 milioni di €), accensioni di prestiti (6,7 milioni) ed entrate extra-tributarie (2,6 milioni di €). Sul versante delle uscite la voce più consistente è quella rappresentata dalle spese correnti (44 milioni di €), seguita da spese in conto capitale (21,2 milioni di €), partite di giro (8,3 milioni) e da spese per rimborso di prestiti (2 milioni). Investimenti. Sono previsti investimenti per oltre 40 milioni di € nel triennio 2006-2008. Nell’anno corrente saranno messi in campo interventi per 15,5 milioni di €; nel 2007 invece gli interventi finanziari previsti ammontano a circa 12 milioni e nel 2008 a 12,7. In massima parte le risorse disponibili, come sopra anticipato, saranno utilizzate per migliorare la viabilità e la sicurezza nelle scuole e per qualificare il patrimonio dell’Ente, soprattutto per progetti di valorizzazione ambientale a sostegno delle politiche di settore. Il totale delle spese correnti ammonta a 44 milioni di €, la somma di quelle in conto capitale è invece di poco più di 21 milioni. Il programma complessivo degli investimenti per il triennio 2006-2008 prevede per la viabilità complessivamente circa 20 milioni di €, per l’edilizia scolastica circa 3 milioni e mezzo di €, per il patrimonio circa 10 milioni e mezzo di €, per l’Università 1.120.000 € e 1.500.000 € per l’ambiente. La Provincia è un Ente virtuoso - commenta l’Amministrazione - che non aumenta le tasse, le imposte e le addizionali, mantenendo anche quest’anno il rispetto di tutti i parametri del Patto di Stabilità. Il comportamento virtuoso si conferma anche sotto il profilo finanziario che ha caratterizzato la gestione dell’Amministrazione, tenendo conto di un quadro di riferimento particolarmente complicato che ha finito per penalizzare le possibilità di investimento pur in presenza di capacità d’intervento, con riflessi negativi sullo sviluppo locale. I commenti. La manovra di bilancio - afferma il Capogruppo provinciale dei Democratici di Sinistra, Roberto Montagnoli - ha risentito del taglio dell’8% sulla spesa corrente imposto dalla Finanziaria. E’ evidente che tagliare l’8% sul 2004 significa ridurre di circa il 14% la capacità finanziaria dell’anno in corso. L’Ente non ha mai sforato il Patto di stabilità ed il profilo di quest’amministrazione è assolutamente evidente nella gestione delle politiche di coordinamento di area vasta. In una provincia come la nostra, in cui ci sono 33 comuni, e in un quadro di normative nazionali stringenti che impongono la riforma dei servizi pubblici locali, credo che il ruolo svolto dall’amministrazione sia stato e sia estremamente importante e positivo. Giudizio di tutt’altro segno arriva invece dall’opposizione. Mario Montegiove, Capogruppo di Alleanza Nazionale, boccia la manovra 2006. Questo bilancio - dice - non è niente altro che la copia di quello dell’anno scorso. Non ci sono risposte in tema di sviluppo economico, sociale, in tema di lavoro, di cultura, di turismo. Non ci sono nemmeno risposte alle problematiche dell’Orvietano, territorio ormai periferico nell’ottica di questo Ente e che diventa sempre più marginale. E’ un bilancio che non esprime un progetto politico, è solo un atto contabile che bastava affidare ad un tecnico senza bisogno della Giunta, né del Consiglio. Montegiove attacca poi l’Ente sull’Irpef e su altre voci come quella dei controlli ambientali: Sono state elevate multe per 407.000 € per lo smaltimento di rifiuti. Si è così passati da 0 € a 407.000; è un dato preoccupante che delinea una politica repressiva e non preventiva.

Credo o non credo? Questo è il problema! La redazione de La Pagina ha effettuato un sondaggio su un campione di giovani compreso tra i diciotto e i ventiquattro anni, attraverso il quale si è cercato di capire come vivono i ragazzi del territorio ternano il rapporto con la religione o comunque nei confronti della loro presunta fede. Una percentuale molto alta del campione (non scientifico) si definisce cattolica, ma se andiamo ad analizzare in concreto la pratica religiosa o la consapevolezza individuale delle verità di fede ci si accorge che ognuno si confeziona una religione a suo uso e consumo. Questo perché i giovani concepiscono la loro automatica collocazione nella religione cattolica come un comodo rifugio, anche in assenza di un’adesione di fede reale e ben definita. L’inchiesta ha fatto emergere come i ragazzi si siano trovati comunemente d’accordo sul fatto che nelle classi degli istituti superiori la presenza del crocefisso non rappresenti una mancanza di rispetto nei confronti di chi magari sia ateo o abbia aderito ad un altro credo religioso, giustificando tale posizione non tanto come un’esigenza di fede da parte del popolo studentesco ma, più che altro, come una tradizione nazionale che deve essere salvaguardata nei confronti di altre etnie, andando così in netto disaccordo con la loro voglia d’integrazione manifestatasi in risposta a una successiva domanda. Il sondaggio ha posto ai ragazzi un paio di quesiti su quanti di loro facessero appello al proprio credo

durante la vita quotidiana o comunque nei momenti di difficoltà. E’ emersa la comune opinione che nessuno degli intervistati fa uso della propria fede in nessun momento della giornata, giustificando tale posizione col fatto che si ritengono poco cattolici o per nulla praticanti, senza dare un minimo di giustificazioni più coscienziose a tal riguardo. La posizione assunta poi dagli intervistati nei confronti della chiesa o per lo meno dell’apparato ecclesiastico sul territorio nazionale è a senso unico con un’adesione totale alla convinzione per la quale la chiesa rappresenta un istituto privo di credibilità, perché poco si interessa delle questioni ultraterrene e spirituali per andare a concentrarsi di più sulle situazioni terrene, entrando spesso in conflitto con la politica e con l’opinione pubblica. I ragazzi vorrebbero una chiesa che si esprimesse in maniera meno plateale sia da un punto di vista esteriore (collane e croci d’oro da mezzo chilo) che da un punto di vista comportamentale. Questo sondaggio ha reso ben chiaro come i giovani manifestino una posizione contraddittoria nei confronti del loro rapporto con la religione: da un punto di vista teorico si dichiarano credenti ma non sanno bene quello in cui credono veramente e soprattutto non sono praticanti. Anche nei confronti della integrazione delle minoranze etniche in teoria manifestano apertura, ma in pratica dimostrano di avere una chiara chiusura mentale nei confronti di piccole forme d’integrazione. Luca Imbrici

T E R N I - V. d e l l a S t a z i o n e , 3 2 / 3 8 Te l . 0 7 4 4 . 4 2 0 2 9 8

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E-Democrazy ed E-Government due perfetti sconosciuti

Nella campagna elettorale di un paese democratico come l’Italia, nell’era di internet e nella cosiddetta società dell’informazione, e-democracy ed e-government sono due concetti che dovrebbero essere sempre al centro della discussione: al contrario, solo per parlare della maggior parte dei recenti dibattiti TV, essi non hanno trovato praticamente alcuno spazio. Ma cosa significano queste due parole? Per e-democracy si intende la realizzazione della cosiddetta cittadinanza digitale, ovvero la possibilità per ciascun cittadino di partecipare alla gestione della cosa pubblica per mezzo delle nuove tecnologie, a livello informativo, consultivo e fino alla partecipazione attiva alla deliberazione vera e propria dei provvedimenti. L’idea è quella che le nuove tecnologie possano rappresentare le armi per abbattere le barriere che impediscono ai più di prendere parte al processo democratico, dall’esercizio del diritto di voto fino alla messa in campo dei provvedimenti. Per e-government si intende invece la serie di strumenti e processi che potremmo arrivare a definire aziendali che, sfruttando le nuove tecnologie, vuole migliorare l’interscambio di informazioni tra cittadini e amministrazione e tra amministrazioni diverse. E’ ovvio quindi che l’e-government rappresenta un tassello fondamentale dell’e-democracy in quanto se non c’è al minimo una conoscenza degli atti, e non è possibile una loro effettiva fruizione, allora non può esserci vera democrazia. L’e-government non si occupa affatto tuttavia del processo democratico, e alla fine dei conti è più simile ad una ottimizzazione e razionalizzazione dei meccanismi amministrativi. Tornando alla

situazione italiana, la prima cosa che viene da chiedersi è cosa esista allo stato attuale di concreto nel nostro paese; purtroppo la risposta è che il poco fatto è essenzialmente legato solo ad esperienze occasionali, come quel che è presente in alcune reti civiche e siti istituzionali di Comuni e Regioni. Questi siti hanno ottenuto in qualche caso buoni risultati e discreti livelli di partecipazione, ma purtroppo quello che è mancato finora è un serio intervento a livello di governo centrale in merito alla possibilità di rendere disponibili, in maniera uniforme ed aperta, atti e risultati dell’attività istituzionale a tutti i livelli dell’amministrazione. E questo è un po’ anche il timore relativo alla notizia di questi giorni che il CNIPA, Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione, ha completato la valutazione e reso disponibile la graduatoria degli oltre 50 progetti di amministrazioni locali di e-democracy che saranno co-finanziati con un investimento complessivo di 41 milioni di euro. Uno degli aspetti positivi di questi progetti è che coinvolgono sponsor privati e vedono la partecipazione di molte associazioni rappresentative della società civile; mentre il rischio è ovviamente che essendo tutti progetti differenti con obiettivi analoghi in molti casi, nel corso della realizzazione non venga mantenuto un livello di uniformità di strumenti e contenuti in modo da poter costituire un primo passo di effettiva integrazione. Sempre sperando che il tutto non si risolva nei classici assalti alla diligenza all’italiana con la realizzazione di qualche sitarello su cui tra qualche anno vedremo le news più recenti relative al 2006. Alla prossima puntata. Alberto Ratini

Il marketing della Chiesa nel Da Vinci Code Film evento dell’anno o ennesima montatura commerciale? La versione cinematografica de Il Codice Da Vinci si presenta al grande pubblico schiacciato in questa forbice, come spesso accade alle produzioni hollywoodiane tanto attese. Visto il successo del libro di Dan Brown, è facile prevedere record al botteghino anche per la pellicola. Al di là delle cifre, il Da Vinci Code è già entrato nella storia. Perché? Perché ha smosso un critico eccezionale: la Chiesa. Tra 10 anni, ci ricorderemo del film di Ron Howard non per gli incassi, ma per la campagna che il mondo ecclesiastico ha mosso prima contro il libro e poi contro il film. Diversi sono stati gli interventi dei vari esponenti della cristianità. Non ultimo la richiesta alla casa di produzione di eliminare qualche scena ritenuta compromettente riguardante l’Opus Dei, poi di specificare meglio che si tratta di un’opera di fantasia. In generale il marketing della Chiesa ha seguito due principali linee. Prima c’è stato l’attacco frontale: una serie di preoccupate dichiarazioni rilasciate da alti esponenti del clero. La più dura è stata quella di monsignor Angelo Amato, numero due della Congregazione per la dottrina della fede, che ha invitato gli spettatori al boicottaggio della pellicola. Una posizione sostenuta anche da molte parrocchie sparse sul territorio italiano. Col tempo tuttavia la Chiesa ha cambiato linea. Forse, resasi conto che l’intransigenza espressa poteva diventare controproducente, ha deciso di ripensare il marketing. Il numero uno della Cei, il cardinale Camillo Ruini, ha espresso il suo no al boicottaggio del film, che rappresenta in vero un’opportunità. L’occasione - ha spiegato il cardinale - di un’opera capillare di catechesi, e prima ancora di informazione storica. Pur restando ferma, ovviamente, la condanna di una moda editoriale e cinematografica che ha primariamente uno scopo commerciale ha aggiunto il cardinale Ruini - ma che costituisce anche una radicale e del tutto infondata contestazione del cuore stesso della nostra fede, la Chiesa ha capito che il fermo boicottaggio avrebbe soltanto fatto pubblicità alla pellicola e spinto la gente al cinema. Così, la nuova campagna vuole la Chiesa compiaciuta per il film, proprio perché rappresenta un’opportunità di approfondimento storico per i fedeli. Della serie, se non puoi sconfiggerlo fattelo amico. Massimo Colonna

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Mi accingo a scrivere sul metodo nell’insegnamento della matematica... ma... come si fa a riflettere, possibilmente in modo lucido e pacato, intorno ai problemi della educazione visto, tra altro, che la modifica introdotta dalla prima finanziaria del governo Berlusconi sulle commissioni degli esami di Stato per le scuole private (per economizzare, udite udite!, sui compensi dei commissari d’esame) consiste soprattutto nel fatto che le commissioni di tali scuole sono ora tutte formate dagli stessi docenti interni! Chi sa anche solo un poco di scuola capisce immediatamente cosa questo significhi: la rovina della serietà e della dignità! Sembra addirittura che ci sia stata, da parte della Ministra Moratti, una grossolana dimenticanza: non avrebbe stanziato, così ha dichiarato il nuovo Ministro Fioroni, 45 milioni di euro per il pagamento ai commissari statali! Presentarsi da esterno in una scuola privata costa non meno di 1000 euro. Per sostenere lo stesso esame in una scuola di Stato, ne bastano poche decine. Rispetto all'estate 2005 le scuole paritarie porteranno alla maturità circa 3 mila alunni interni in più, un incremento del 7%. Chi ha coniato tale politica è nemico giurato della cultura, servo incatenato, interessato esclusivamente alle proprie camarille partitiche! ________________ Il primum movens della ricerca scientifica è dato dai problemi ed il problema è il fondamento della motivazione. In una pubblicazione di matematica non si esplicita mai il momento intuitivo che ha dato inizio all’opera nè il procedimento euristico (che è, non solo strettamente personale, ma, a volte, del tutto eterodosso) seguito per pervenire al risultato. Il punto di partenza di una pubblicazione è sempre il risultato al quale l’autore è approdato. Segue poi la dimostrazione, nella quale si applicano rigorosi canoni di deduzione logica, perchè solo così si ha la certezza matematica delle tesi asserite. Illuminante al proposito è la lettera di Archimede ad Eratostene. Anche lo studente quindi deve provare a fare congetture intorno ad una qualsiasi problematica. L’insegnante deve intervenire al momento in cui sia necessario modificare una congettura sbagliata, purchè non inibisca il gusto del congetturare. La matematica non è solo una disciplina che studia oggetti, seppur ideali, come i numeri e le figure, come la botanica, la zoologia, l’astronomia... che studiano oggetti quali i vegetali, gli animali, i corpi celesti. La matematica ha efficacemente potenziato l’aspetto metodologi-

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co. Non solo disciplina, ma metodo, valido per le altre discipline (scientifiche). Il modo migliore per capire e quindi imparare è quello di ipotizzare, di fare, di agire, di concretizzare, di sentirsi piacevolmente protagonista. E’ tutto l’insegnamento che deve porsi in una situazione problematica, il che è proprio del problem solving o della sua italianissima accezione nota come euristica o ars inveniendi. Si legge nella prefazione a Notes on Mathematics in Primary Schools, documento dell’Associazione degli insegnanti di matematica inglesi: ...la matematica è una creazione della mente umana. Essa non esiste al di fuori della mente umana e prende le sue qualità dalle menti degli uomini che l’hanno creata. Siccome la matematica è fatta dagli uomini ed esiste soltanto nelle loro menti, essa deve essere fatta, o rifatta, nella mente di ogni persona che l’apprende. In questo senso la matematica può essere appresa soltanto creandola. Non crediamo che si possa fare una netta distinzione tra le attività dei matematici che inventano nuova matematica e le attività degli alunni che apprendono una matematica che è nuova per essi. Gli alunni ed i matematici hanno risorse diverse ed esperienze diverse, ma tanto gli uni che gli altri sono coinvolti in uno stato creativo. Vogliamo sottolineare il fatto che la matematica che un alunno conosce è, in un senso reale, un suo possesso, perché l’alunno l’ha creata con un atto personale. La scuola non deve consegnare ai giovani giustificazioni a posteriori di risultati che cadono dall’alto, regole o letture critiche che appartengono al limitato sapere dell’istruttore ripetitore. Deve invece far sviluppare nei giovani il senso della critica, della ricerca, della scoperta di elementi particolari, di regolarità, di irregolarità, di leggi che il giovane stesso formalizza con l’aiuto dell’insegnante. Giampiero Raspetti


SPECIALE ELEZIONI I n t e r m e z z o ANTIMAGO RASPUS Un gruppo di scienziati dell’Università danese Aarhus ha analizzato oltre cento caratteristiche della personalità di 15 mila persone. Solo in un 2% di loro ha constatato qualche comune identità. Per avere una risposta appena valutabile scientificamente c’era però bisogno di una percentuale di almeno un 5%. Da qui la sentenza: l’astrologia non ha nessuna base scientifica. Che alcuni scienziati abbiano impiegato del prezioso tempo per indagare su fatti scontati, è invero un bene. Gli scienziati, così giustamente presi da fenomeni molto seri, normalmente non perdono tempo con le scemenze. Pure tali idiozie hanno un impatto sociale devastante e, Vanna Marchi docet, alimentano una palude in cui sguazzano non solo creduloni salottieri (comunque sciocchi e ridicoli) ma anche dementi inveterati che si sentono anche giustificati: se lo dice la televisione... I miei sentimenti non sono certo amichevoli nei confronti dei circonventori di incapaci ma provano disgusto superiore nei confronti di tv e giornali che ospitano incessantemente chi, per far quattrini, raggira la gente, raccontando stupidaggini e creando un foltissimo stuolo di apprendisti scemi. Secondo una recente indagine della Doxa tre quarti degli italiani segue regolarmente gli oroscopi su giornali o in televisione o in internet, con una percentuale superiore di donne (38%) rispetto agli uomini (24%). Quando inizieremo a vietare, nelle comunicazioni pubbliche, le fumerie, le oppierie, le superstizioni, i sensi di colpa, le paure, che così comodo fanno ai cultori dei privilegi? Non è ancora ora di comunicare gioiosamente cultura, scienza, arte, valori sportivi, poesia....? Continuando così solo purezza ed onestà faranno scandalo!

Seconda parte Alla fine del primo round si tirano le somme. I critici concordano all’unanimità: l’incontro si è concluso in parità. Un’indagine statistica rivela che le probabilità di vittoria di Prodi sono una su un milione e, avvisato di questo, lo si sente esultare Evvai! Una c’è. Ma la stessa indagine assegna ugual probabilità anche al Berlusca il quale, senza perdere la testa, telefona a stampa e televisioni chiedendo di comunicare un risultato diverso: due su due milioni. Ma il professore, sempre vigile, lo accusa di aumentarsi le probabilità, per cui il cavaliere, comprendendo di esser stato smascherato, suo malgrado, rinuncia al fraudolento progetto. Tocca adesso ai comunisti, gente veramente cattiva, tendergli un tremebondo tranello.

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Lo invitano alla trasmissione occhio clinico condotto dall’Annuziata e, alla prima domanda ...Perché un farabutto delinquente come lei che ha violato tutte le norme sul conflitto d’interessi diventando Presidente del Consiglio colluso con la mafia vituperio delle genti mentre decuplica il personale patrimonio sta mandando in bancarotta lo stato italiano non si da una revolverata? infuriato risponde ...Non è vero che eludo il fisco portando, con l’appoggio di Tremonti, enormi quantità di capitali all’estero, queste sono accuse false e abiette, dettate solo da esigenze elettorali, cribbio!, e profondamente indignato si alza e se ne va. Arrivati a questo punto il Napoleone della politica elabora la più grandiosa strategia mai vista sin dai tempi di Cavour. Alla riunione della Confindustria con un’entrée degna

b r i o

di Dart Fener, sprizzando fulmini e saette, lancia veleno su tutti e accusa Della Valle di avere una sorella gemella nell’armadio. Alla Confartigianato dichiara che chi non lo vota è un coglione. Come un tirannosauro attacca tutto quello che comincia per conf seminando panico e terrore. Dove passa non cresce più l’erba (tranne che non si presenti sotto forma di 25 spinelli). Finché davanti alle mura di Roma non viene fermato da Leone Confalonieri primo. Ma ormai la sua geniale manovra è andata a segno! La sua popolarità è così bassa che i bookmakers inglesi lo quotano 5 a 1. È il momento giusto per scommettere un milione di euro sulla sua vittoria. Adesso si fa sul serio! Con un bombardamento mediatico senza precedenti comincia ad apparire in

ogni trasmissione affrontando argomenti di scottante attualità: il ritrovamento di geroglifici in Cina datati 100.000 aC dove alcuni comunisti cucinano dentro enormi pentoloni dei poveri bambini, riconoscibili dai classici biberon preistorici di granito; la paura del ripristino di tasse che lui aveva tolto a chi non aveva intenzione di pagarle; la magistratura che non capisce che lui cià da fa; l’enorme quantità di cantieri che lui ha aperto, condizione necessaria per qualunque tipo di utilità futura degli stessi. Dall’altra parte delle barricate Prodi, per fortuna, tace il più possibile. E in questo clima di disteso dialogo ci si avvicina al secondo e definitivo incontro. Fine della seconda parte Orlando Orlandella

KOPPA TETA

Vorrei tanto sapere cosa passava per la testa della direzione de La Pagina quando ha messo in copertina quella frase sulla dignità, visto che nessuno dei redattori ha poi affrontato questo argomento. Urge che me ne occupi io! Cominciamo con la mia definizione personale del termine: la dignità è ciò che ogni volta che ti guardi allo specchio ti fa venire il desiderio irrefrenabile di sbaciucchiarti teneramente, come farebbe l’amante più affettuoso, e ti suggerisce vezzeggiativi amorosi nei confronti di te stesso. Se non siete daccordo mi dispiace per voi, perché può significare solo due cose: o che non avete dignità, o che siete lontani dai suoi massimi livelli. Scusate, ma adesso vi devo salutare. Dopo 4 gin tonic, 2 Negroni e 16 canne, non è che mi senta tanto lucido…!!! Eufemio Ampolloso

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